All'ombra del giglio rosso

di Lechatvert
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo - Firenze a volo d'uccello ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo - Colori d'Artista ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo - Conte Levi di Fontenera ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto - La Cantina di Marmo ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto - Ritratto d'Autore ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto - L'Appeso ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo - Il Coraggio del Leone ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo - Musica a Corda ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono - La Biblioteca Nascosta ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo - Promesse non Mantenute ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo - Di lei era rimasto solo il ritratto ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo - Firenze a volo d'uccello ***


Lechatvert
L'avete chiesta ed ebbene, ora l'avete! In una veste un poco diversa da ciò che mi aspettavo, ma ora è qui!
Ringrazio infinitamente Chemical Lady, che mi ha spinta in un progetto che non pensavo di poter iniziare e che mi ha dato spunto per una storia decente. Grazie <3
Detto questo, non mi resta che augurarvi buona lettura.
Un bacio!<3





Capitolo Primo
Firenze a volo d'uccello



La brezza mattutina della campagna la destò dal pacato sonno in cui era caduta la sera prima, insinuandosi con grazia dalle finestre aperte di Palazzo Rangoni. Era una giornata mite di metà primavera e il tempo si preannunciava ottimo per una passeggiata nella corte dove, peraltro, le serve avevano cominciato ad ammucchiare le sedie del salone per pulirlo a fondo in vista di chissà quale ricorrenza.
Bianca Maria aprì pigramente un occhio, scalciando via le lenzuola dalla sua schiena nuda, e con un soffio si liberò la vista da un ciuffo di capelli rossi.
« Buongiorno, Madonna Ordelaffi », la salutò la voce allegra della serva alle sue spalle. « Avete dormito bene? »
Bianca le scoccò un’occhiata assonnata.
Era la serva che solitamente portava la biancheria pulita e si preoccupava di rifare i letti e cambiare le lenzuola.
« Buongiorno a te, Angela », le disse, cordiale. « Mio marito è già partito? »
La serva scosse il capo, prelevando dall’armadio una veste color acquamarina.
« Ha detto di volervi aspettare, Madonna ».
« Meno male ».
Si vestì con calma, facendosi pettinare con minuzia i lunghi riccioli rossi che negli anni avevano continuato a divenire sempre più folti.
« È una magnifica giornata, non trovi? », disse, guardando fuori dalla finestra la campagna stagliarsi verso l’azzurro del cielo terso di nubi.
La serva annuì.
« Avete ragione ».
Spese ancora qualche minuto ad aggiustarsi il trucco leggero e poi scese nel salone, certa di trovarvi suo marito intento a fare ciò che amava di più: leggere. Lo sorprese infatti immerso nella lettura di una copia del Decamerone, spaparanzato su un divanetto della corte interna.
« Buongiorno, mio signore! », lo chiamò, uscendo all’aperto.
Lui, concedendosi un momento di distrazione dalla lettura, alzò il naso dalle pagine per rivolgerle un educato cenno del capo.
« Buongiorno a voi, Bianca ».
Ezio Rangoni era la persona più buona che Bianca conoscesse. Le loro erano state nozze organizzate dai genitori in fretta e furia, talmente in fretta che non avevano avuto il tempo di cercare uno sposo e avevano ripiegato sul figlio di alcuni cugini che aveva ereditato una lingua di terra a nord di Firenze.
Malgrado non si conoscessero, avevano imparato subito ad apprezzare l’uno la compagnia dell’altra, per mezzo di qualche libro, qualche lirica. Ezio Rangoni suonava il clavicembalo per lei ogni sera, aveva persino composto delle odi in cui cantava la bellezza della sua sposa.
Era un uomo molto impegnato, eppure trovava sempre il tempo per farla felice.
« Siete stato molto gentile ad aspettare il mio risveglio », gli disse Bianca, accomodandosi accanto a lui sul divanetto. « Non dovevate prendervi tanto disturbo ».
Ezio le sorrise, prendendole le mani.
« Parto per Bologna, mia signora, il che vuol dire che non ci vedremo per qualche tempo. Non mi sarei mai perdonato di lasciarvi senza salutarvi a dovere ».
Era sempre così gentile, così premuroso nei suoi confronti.
Bianca ne era più che innamorata.
« Ho chiesto al Conte di Fontenera di accompagnarmi a Firenze, quest’oggi ».
Ezio annuì.
« Sì, me ne aveva accennato », confermò. « Siete sicura di non voler aspettare il mio ritorno? Potremo passare qualche giorno là, prima che arrivi l’estate ».
Bianca scosse il capo.
« No, i Medici ci hanno invitati al banchetto di domani sera. Tengo molto ad andarvi ».
I Medici erano una famiglia un tempo molto vicina ai signori di Forlì, i suoi defunti genitori. Ora che la famiglia Ordelaffi era passata nelle mani di suo fratello maggiore, Bianca voleva continuare a mantenere quel rapporto d’amicizia che si era creato negli anni.
Ezio parve capire.
Sul suo viso si dipinse un piccolo sorriso e, quando si alzò per raggiungere i suoi bagagli ammassati davanti al portone, non mancò di baciare la fronte della moglie.
« Ci rivedremo presto, mia signora », la rassicurò. « Vi scriverò una lettera al giorno ».
Bianca ricambiò il sorriso.
« Sarà mia premura rispondervi », rispose.
Lasciò che suo marito si allontanasse con il passo spedito e sicuro di un vero signore, prima di balzare in piedi e raggiungerlo frettolosamente.
« Marito! », lo chiamò, una volta arrivata alle sue spalle.
Lui la guardò, sorpreso.
« Il Decamerone », spiegò lei. « La copia che state leggendo, è mia! »
« Vorrà dire che mi ricorderà di voi mentre sarò via! Ah, Conte! È arrivato giusto in tempo! »
Bianca si sforzò di guardare oltre le spalle larghe del marito, verso il portone spalancato, dove una figura minuta stava arrancando tra l’erba per raggiungere i due.
Il Conte di Fontenera era un giovane dall’aspetto eccentrico ma sveglio e spesso prestava alcuni servigi ad Ezio come consigliere. Nonostante la sua età, era dotato di una saggezza immensa.
« Buongiorno, Messer Rangoni », salutò, cortese. « Madonna Ordelaffi, ogni giorno che passa vi rende più bella ».
« Mi raccomando, Conte! Siete la persona di cui più mi fido, vi consegno mia moglie ma la rivoglio indietro così come l’ho lasciata! »
Bianca trovava affascinante come suo marito riuscisse sempre ad essere di buonumore. Riusciva a tirarla su di morale anche nelle giornate più tempestose, anche quando tutto sembrava andare male. Al funerale dei suoi genitori, morti l’uno a pochi anni di distanza dall’altro, era stato l’unico a stare realmente vicino a lei e ai suoi fratelli.
Non ascoltò la conversazione dei due, concentrandosi sul luminoso paesaggio che la circondava. Sebbene quelle terre le piacessero molto più di Forlì, non stava più nella pelle all’idea di recarsi a Firenze, tra i suoi mercati, le sue botteghe, le sue feste. Vi era stata lontana anche troppo a lungo, e la frenesia della vita di città cominciava a mancarle.
Salutato suo marito, constatato con tristezza che sarebbero passate almeno tre settimane prima del loro prossimo incontro, non le restò che organizzarsi con il Conte per partire il prima possibile.
« Madonna Ordelaffi, non affrettatevi », le disse, quando la vide montare in carrozza in tutta fretta. « La strada per Firenze non è di certo corta. Sono sicuro che può aspettare ancora il tempo necessario che serve a una signora per rinfrescarsi ».
Lei, invece, era di tutt’altro avviso.
« Mi rinfrescherò una volta arrivati, Conte! », rispose, raggiante. « Ora andiamo, prima che venga mezzogiorno! »


* * *


La campana di una chiesa vicina batté il mezzodì, destando Girolamo Riario dal frenetico pensare che aveva avuto da quando, all’alba, era partito da Roma a cavallo per raggiungere la corte dei Medici e portare il nome del Santo Padre.
Sei ore di incessante cavalcare e pensare avevano finito per sfinirlo, ma la strada per giungere a Firenze era ancora molta e Riario non era certo tipo da assopirsi durante una missione tanto importante.
Si asciugò quindi una lacrima caduta nell’angolo dell’occhio destro e, soffocando uno sbadiglio, spronò il cavallo verso il sentiero che costeggiava la strada.
« Muoviamoci! » gridò, diretto a un seguito più sfiancato di lui. « Firenze non ci aspetterà di certo tutto il giorno! »
Si era portato dietro poche guardie papali, per lo più mercenari svizzeri, in modo da non dare nell’occhio e poter agire indisturbato. Pochi ma buoni, come aveva detto lui stesso, anche se sull’ultimo aggettivo usato, in quel momento, aveva qualcosa da ridire.
Spossato, osservò il paesaggio in lontananza diventare sinuoso sulle campagne toscane. Non dovevano mancare più di un paio d’ore.
Involontariamente, si lasciò scappare un sorriso.
Il Santo Padre sarebbe stato fiero del suo operato, non aveva dubbi. Dopotutto, c’era la mano del Signore a guidarlo. Non avrebbe fallito.
« Andiamo! », gridò, ancora, stavolta più forte e accelerando l’andatura del suo destriero. « Roma non vi paga per rallentare i progetti di Dio! »
E detto questo si lanciò al galoppo sul sentiero, improvvisamente irrequieto circa il suo arrivo in città. C’era una strana calma, su quelle colline.
Sperò con tutto il cuore che non si trattasse del tipo di calma che di solito causa complicazioni.


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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo - Colori d'Artista ***


Lechatvert
Secondo capitolo, babe! °-°/
Tra l'altro, per chi se lo fosse perso, qui c'è la oneshot da cui tutto questo ha origine.
Preparatevi, stavolta sono stata prolissa (passatemela una volta, d'ora in poi mi riassumo, giuro!)


Un bacio!<3





Capitolo Secondo
Colori d'Artista



Il Conte Levi di Fontenera impugnò l’affilata spada di Toledo, rigirandola tra le mani per osservarla con occhi estasiati. Era un’arma ben calibrata, leggera ed elegante, con lo stemma del giglio rosso di Firenze in rilievo sull’elsa.
« Allora », incalzò il fabbro. « Vi interessa? »
Levi lo guardò con un sorriso gentile.
« Altroché, buonuomo! », esclamò, mettendo mano al borsello che portava legato alla cintura. « Quanto volete per questa meraviglia? »
L’uomo parve pensarci un po’, muovendo gli angoli della bocca a destra e a sinistra con fare indeciso.
« Ventisette fiorini, mio signore ».
Il Conte annuì, poi posò lo sguardo sul figlio del fabbro, seduto in un angolo della bottega, intento a giocherellare con il fodero riuscito male di una daga.
« Prendetene trenta e mandate vostro figlio a portare la spada nelle mie stanze », concluse, allora. « Alloggio alla pensione di Madonna Raffaella, chiedete del Conte di Fontenera ».
L’uomo annuì, allungando la mano per ricevere le monete.
« Come desiderate, mio signore. E grazie! »
Levi chinò il capo in cenno di saluto, lasciando la bottega a piccoli balzi. Firenze era affollata, pervasa dagli acri odori del mercato mattutino. Se, come lui, si era in grado di apprezzare la frenesia del popolino, era sempre un piacere, trovarsi per quelle vie all’ora di punta.
Sospirando, si guardò intorno con curiosità. Vi erano bancarelle di profumatissima frutta, di trucco per signore, di oli pregiati e di carne. Impossibile non trovare ciò che si andava cercando, da quelle parti.
« Conte! »
Spintonata dalla folla, Madonna Ordelaffi lo raggiunse. Aveva in mano un piccolo sacchetto di lino, probabilmente contenente della cipria appena acquistata.
« Madonna, cominciavo a chiedermi se vi avessero rapita », scherzò il Conte, offrendole il braccio per invitarla a passeggiare. « In tal caso avrei sicuramente dovuto trovare una scusa valida per vostro marito! »
La ragazza rise, accettando immediatamente il suo invito, e incamminandosi verso Ponte Vecchio.
« C’è qualche posto in particolare che vorreste visitare, Conte? », gli chiese.
« Vorrei fare visita a Santa Croce, se non vi dispiace ».
Lei parve sorpresa.
« Siete religioso, Conte? », chiese, con tono meravigliato.
Lui annuì.
« Come tutti, Madonna. Ma sono cresciuto in un collegio di Roma, sotto l’ordine dei benedettini. È più un obbligo, che un piacere, per me, recarmi nella basilica della città che visito ».
« Ezio non mi aveva mai detto niente riguardo a ciò! », lo sgomento della ragazza continuava, man mano che passavano Ponte Vecchio. « E, ditemi. Siete rimasto laggiù a lungo? »
« Abbastanza. Fino alla proclamazione di Papa Sisto. Dopo di che, sono stato costretto a fare ritorno a casa ».
« E come mai? »
Levi le fece l’occhiolino.
« State diventando un po’ troppo invadente, Madonna », la riprese, con fare scherzoso. « Cosa direbbe il vostro povero marito, se vi sentisse ora! »
La ragazza arrossì, chinando il capo con fare mortificato.
« Le mi scuse, Conte. Non intendevo impicciarmi nei vostri affari … »
Levi rise di gusto, scrollando il capo. Lo divertiva, vedere come Madonna Ordelaffi si imbarazzava facilmente.
Poi chinò improvvisamente gli angoli della bocca, ricordando il suo ultimo giorno alla corte di Papa Sisto.
« Venite, Madonna. Voglio mostrarvi una cosa », disse, scacciando quei pensieri e sospingendo la ragazza verso un angolo della strada. « È la bottega delle meraviglie! »
Aprì le porte della bottega artigiana alla ragazza, lasciando che fosse lei la prima ad entrare, poi la superò con un balzo, guardandosi intorno con fare soddisfatto.
« Vecchio Verrocchio! », chiamò, alzando la voce. « Verrocchio, siete in casa? »
Facendosi largo tra un piccolo gruppo di scultori all’opera con i loro modelli, un uomo si avvicinò, accogliendoli entrambi con un piccolo sorriso sulle labbra.
« Conte di Fontenera, quanto tempo! », esclamò. Poi guardò Madonna Ordelaffi. « Non mi avevate mai scritto di esservi sposato! »
Levi rise, prendendo la mano della ragazza per porgerla a Verrocchio.
« Vecchio modo, per approcciare le fanciulle. Lasciate che vi presenti Madonna Ordelaffi, la moglie di Messer Ezio Rangoni ».
Verrocchio le baciò la mano.
« Madonna ».
Lei gli sorrise, accennando un lieve inchino.
« Molto piacere ».
« Allora, Verrocchio », incalzò Levi. « Quale gingillo avete da mostrarci, quest’oggi? »
L’uomo alzò le spalle, desolato.
« Temo siate arrivati tardi. Giusto la settimana scorsa, uno dei miei artisti ha dato prova della sua genialità con la nuova colombina di Pasqua. È riuscito a venderla ai Medici. Se foste stati qui domenica scorsa, avreste visto una vera e propria meraviglia! »
Madonna Ordelaffi tirò la manica del Conte.
« Adoro lo spettacolo di Pasqua di Firenze! », gli disse, illuminandosi con un sorriso.
Levi le sorrise di rimando.
« Che peccato », sospirò. « Beh, aspetteremo la prossima opera d’arte per stupirci con le vostre meraviglie. Andiamo, Madonna Ordelaffi. Dovreste riposarvi, prima della festa ».
Lei annuì, offrendo al Maestro Verrocchio una leggera riverenza.
Fecero per andarsene, ma una voce li bloccò.
« Madonna Ordelaffi, ferma! »
Lei sobbalzò, mentre Levi si voltò, allarmato.
Un giovane artista della bottega si avvicinava a passo spedito, mordendo una mela.
« Madonna Ordelaffi », le disse, quando li raggiunse. « Donatemi una ciocca dei vostri capelli! »
« Leonardo! », lo richiamò Verrocchio.
Levi si voltò verso l’artista, tutto intendo ad osservare la folta chioma rossa della ragazza.
« Quindi è lui, il tuo genio, Verrocchio! », constatò.
Il Maestro alzò le spalle con fare rassegnato, confermando.
« I vostri capelli sono di un rosso che non ho mai visto, a Firenze », disse l’artista. « Un rosso singolare, quasi quello di un … »
Madonna Ordelaffi gli concesse un sorriso.
« Papavero? », suggerì. « Me lo dicono in tanti ».
L’artista annuì.
« Vi prego, Madonna. Donatemene una ciocca. Voglio creare una tinta quanto più simile a questa tonalità ».
Senza che Levi avesse il tempo per intromettersi, la ragazza abbassò il capo in direzione di Leonardo.
« Prego, scegliete quella che più vi piace ».
Con delicatezza, l’artista le pettino una piccola treccia, tagliandola infine per poi riporla tra le pagine del suo taccuino.
« Ho finito. Grazie, Madonna ».
La ragazza sorrise, poi si aggrappò di nuovo al braccio del Conte, che per tutto il lavoro era rimasto in silenzio, osservando le minuziose mani di Leonardo intente a intrecciare riccioli e ciuffi.
« Vi prego, Conte, portatemi a riposare, ora », disse, infine. « Non potremo permetterci di addormentarci in piedi, dai Medici! »
« Come desiderate ».
Levi salutò con un cenno del capo i due artisti, girando sui tacchi per immettersi nuovamente sulle strade affollate di Firenze.
Camminò in silenzio per qualche minuto, pensieroso.
« Non credo abbiate sia stato saggio, donare una ciocca dei vostri capelli a quell’artista ».
Madonna Ordelaffi emise un gemito affranto.
« Oh, mi dispiace! Ma, ditemi. Cosa ve lo fa pensare? »
Levi scosse il capo, tirando fuori un sorriso.
« Non ascoltate le mie paranoie, Madonna », le disse. « Il viaggio deve avermi stancato più del previsto ».


* * *


Con la pancia piena dall’abbondante cena che la pensione gli aveva offerto, Girolamo Riario addentò l’unica mela della fruttiera, appoggiando la schiena al muro gelido della sua stanza.
Masticò quel frutto con gusto, assaporando l’aspro sapere del succo, e incrociò le braccia sul petto con fare pensieroso, mentre il suo sguardo assente vagava nel vuoto.
« Sono alquanto dispiaciuto circa gli avvenimenti degli ultimi due giorni », mormorò, con gli occhi che ancora non si staccavano dal pavimento.
Erano due giorni che si trovava a Firenze, erano due giorni che i problemi non facevano altro che spuntare come funghi. Da quando Madonna Donati aveva pronunciato il nome di da Vinci per la prima volta, quell’individuo non più aveva abbandonato la sua mente.
« Voi cosa ne pensate, Capitano Grunwald? »
L’uomo seduto di fronte a lui grugnì, ma non osò proferire parola. Si limitò ad osservare le mani del Conte; una stringeva ancora la mela, l’altra era impegnata a disegnare un cerchio dopo l’altro su un pezzo di cartastraccia.
Riario sospirò.
« Io penso che non solo non abbiamo trovato ciò che stavamo cercando », continuò. « Ma siamo stati anche in grado di mettere in guardia sia i Medici che Firenze con un’esplosione nella bottega più famosa della città, il tutto in una sola giornata ».
Di nuovo, l’unica risposta che il suo capitano fu in grado di dargli fu un soffuso brontolio.
Stavolta, il Conte alzò gli occhi sull’uomo.
« Tuttavia, non possiamo dire che sia stato un vero e proprio buco nell’acqua. I Medici ci hanno aperto le porte invitandoci al loro banchetto, una preziosa occasione per avvicinarci ancora di più a questo famigerato artista ».
Fermò la sua mano, alzando di poco il mento.
« Mi aspetto che, entro domani a mezzogiorno, i vostri uomini siano pronti a fare ritorno a Roma; con da Vinci, naturalmente ».
« Sì, mio Signore ».
Riario alzò gli angoli della bocca in un sorriso contorto.
« Molto bene, potete andare. Vi auguro una buona notte ». E addentò di nuovo la mela, posandola poi sul tavolo.
Attese in silenzio che il suo rumoroso capitano lo lasciasse solo in quella piccola stanza illuminata appena dalla fiamma di qualche candela, poi abbandonò il suo disegno, infilando la mano libera nella tasca interna del cappotto.
Qualcosa, prima dell’esplosione, era riuscito a portarlo via. Qualcosa di insignificante, di cui probabilmente nessuno avrebbe notato la scomparsa.
Dalla tasca estrasse un vecchio quaderno, dal quaderno un fazzoletto.
Aprì il piccolo quadrato di pezza, osservandone crucciato ciò che da Vinci vi aveva riposto.
Con la punta delle dita, accarezzò la piccola treccia color del sangue, percorrendone il taglio disordinato con insolita delicatezza.
Aveva visto soltanto una volta, quella tonalità sulla testa di una donna. L’aveva vista molto, molto tempo prima.
Inevitabilmente, si ritrovò a sussurrare il suo nome.
« Bianca … »


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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo - Conte Levi di Fontenera ***


Lechatvert
Avvertenze: per questo terzo capitolo la regia raccomanda la visione di due documenti. Quando verrà descritta la faccia del bel Riario, infatti, siete pregati di visualizzare questo con un sottofondo come questo.

Non ho altro da dire. Buonanotte.


Un bacio!<3





Capitolo Terzo
Conte Levi di Fontenera



« Madonna Ordelaffi, che piacere avervi qui a Firenze ».
Bianca osservò un piccolo sorriso aprirsi sul viso di Madonna Orsini, mentre questa l’accoglieva con una piccola riverenza.
« Vi ringrazio », rispose, facendo lo stesso. « È un piacere anche per me. Firenze mi è mancata molto, Madonna ».
« Siete invitata a farvi ritorno ogni qual volta lo desideriate, anche con vostro marito, Messer Rangoni ».
« Riferirò l’invito. Ora, vi prego. Vogliate scusarmi ».
La ragazza si congedò da Madonna Orsini, allontanandosi dal piccolo palchetto della sala per dirigersi verso un tavolo a cui i camerieri servivano il vino.
Il Conte di Fontenera se ne stava in disparte, stivale appoggiato al muro, facendo roteare con fare nervoso il vino nel suo calice. Il fuoco delle candele dipingeva strane forme sulla sua pelle diafana, mentre il suo sguardo color della notte era perso in chissà quale ricordo.
« Tutto bene, Conte? »
Bianca gli si avvicinò, cauta.
Lui la guardò scuotendo il capo.
« Vi dirò la verità, Madonna. È da quando siamo arrivati in città che ho nelle narici un odore sgradevole », confessò.
Lei rise.
« Forse non siete abituato all’aria fresca della campagna, qui è diverso ».
« Acuta, ma non credo proprio. È un odore talmente spiacevole che riesco ad attribuirlo a due sole persone. So di per certo che una si trova a Roma ma … »
Improvvisamente, lo sguardo spento di Levi si accese.
« Mettetevi dietro di me, presto », mormorò.
Bianca obbedì, abbassando lo sguardo sulle mani del Conte. Le sue mani erano scese ad accarezzare l’elsa della spada.
« Conte, che succede? »
« Guardate dritto davanti a voi, Madonna ».
In quel preciso istante, Bianca provò l’orribile sensazione di stare venendo osservata da lontano, da uno sguardo tutt’altro che amichevole.
Alzò il viso verso il palco. Là, poco distante dai coniugi de’ Medici, qualcuno la scrutava da in fondo alla sala. Due occhi scuri puntati su di lei, circondati da un volto pallido ed emaciato, accanto a una bocca sottilissima, increspata da un leggero broncio.
Bianca mosse un passo indietro, attaccandosi alla cappa verde del Conte di Fontenera.
« Andatevene », le ordinò lui. « E aspettatemi al portone, vicino alle guardie. Vi raggiungerò immediatamente ».
La ragazza non disse una parola, voltandosi immediatamente verso l’entrata della sala. Immediatamente, si ritrovò sull’oscurità delle scale deserte. La brezza gelida della notte saliva dai portoni aperti al piano terra, muovendole leggermente i capelli mentre si precipitava giù per quei gradini di marmo che sembravano non finire mai.
Non pensava, non ci riusciva, ma sentiva gli occhi umidi e sul punto di scoppiare. Sentiva la gambe diventare pesanti, la gola farsi secca, quasi avesse appena avuto un orribile incubo.
Alle sue spalle udì una voce chiamarla, fu solo un sussurro, “Bianca”, ma fu sufficiente.
Perse l’equilibrio proprio mentre si affrettava a scendere l’ultimo gradino e rotolò a terra, atterrando sui gomiti lasciati scoperti dalla veste.
Dietro di lei, sulle scale, c’erano dei passi.
« Non avete mai avuto fortuna con le scale, questo è poco ma sicuro ».
Un paio di stivali si fermarono davanti ai suoi occhi. Il rumore della pelle stridette sul pavimento appena pulito e, inaspettatamente, una mano si tese per aiutarla ad alzarsi.
« Vi siete fatta male? »
Riluttante, Bianca accettò l’aiuto.
« No, mio signore », mormorò, con un inchino. « Vogliate scusarmi ».
Fece per andare, ma un braccio le bloccò la strada.
« Non così in fretta, Madonna Ordelaffi ».
Titubante, la ragazza fu costretta a ritrarsi.
Lentamente e completamente tremante, alzò gli occhi verso la figura che la sovrastava, incrociando di nuovo quello sguardo fatto di un misto tra sorpresa e severità.
« Co … Conte Riario, quanto tempo », balbettò, sistemandosi il vestito come meglio poteva nel tentativo di apparire quantomeno presentabile.
Nel frattempo, implorava Levi di raggiungerla.
L’uomo alzò la mano inguantata, accarezzandole delicatamente una guancia.
« Siete rimasta bambina, Bianca », sussurrò, quasi intendesse parlare a se stesso. « È curioso come il vostro sguardo sia restato quello di un animale impaurito. Vi prego, non abbiate timore. Mi fa sempre piacere incontrare un vecchio amico, specialmente voi … »
Tolse la mano dalla guancia e le offrì il braccio, ma, prima che Bianca potesse anche solo pensare di accettare quell’invito, una lama la allontanò da lui, permettendo al Conte di Fontenera di mettersi in mezzo.
« Lo dicevo io, che il tanfo qui era insopportabile », commentò questi, con la spada sempre protesa verso Riario. « Conte, è passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo avuto modo di discorrere ».
« Certamente non ne è passato molto dall’ultima volta che vi ho visto saltellare come una lepre per la corte di Roma ».
Levi alzò le spalle.
« Sono dovuto tornare a sbrigare le faccende che avevo lasciato in sospeso ».
« Credevo al collegio vi avessero insegnato la buona educazione di concludere ogni impegno preso, prima di fuggire con la coda tra le gambe ».
« Se l’educazione che ho ricevuto al collegio è simile a quella che avete ricevuto voi, non mi stupirei poi tanto della mia vigliaccheria ».
Vi fu un rapido scambio di sguardi, poi Riario alzò le mani.
« Portevela via, Conte Levi », disse, infine. « Siete troppo giovane per impugnare una spada. Non vorrei mai che Madonna Ordelaffi si facesse del male, o peggio ».
Levi sorrise.
« Sono molto più abile di quanto pensate. Non temete, Madonna Ordelaffi sarà al sicuro ».
Riario sollevò appena gli angoli della bocca.
« Peccate di superbia », osservò, divertito. « Siete di certo un abile spadaccino, ma avete quanti, diciannove, vent’anni? Mancate di esperienza ».
Bianca osservò il profilo di Levi. Giovane, sì, ne era al corrente, ma non immaginava non raggiungesse i venticinque anni.
« La mia superbia è l’ultimo dei miei problemi, Conte ».
« Sono lieto la pensiate così ».
Levi sospirò, rivolgendosi a Bianca.
« Andiamo, Madonna? »
Lei gli porse la mano.
« Con piacere, mio signore ».
Si voltò appena per dirigersi verso l’uscita assieme a Levi, ancora in guardia e con la spada sfoderata, ma si fermò.
« Buonanotte, Conte Riario », disse, senza osare guardarlo in faccia.
Di lui udì soltanto la voce, mentre si allontanavano da Palazzo de’ Medici.
« Buonanotte, Bianca ».


* * *


« Cosa significa “Madonna Ordelaffi ha mandato a prendere i bagagli ed è partita dopo cena”?! »
Furioso, il Conte Riario batté un pugno sul tavolo di legno della pensione, stringendo i denti di fronte alla proprietaria che, dal canto suo, non sapeva se preoccuparsi per il suo evidente stato di agitazione o, piuttosto, per il rischio che stava correndo nel rimanergli accanto in un momento di rabbia.
« Un servitore dei de’ Medici è arrivato qui poco prima delle nove, mio Signore », gli spiegò, pacata. « Ha ritirato i bagagli di Madonna Ordelaffi e quelli di Messer di Fontenera ».
Riario strinse in pugni.
Non c’erano più, probabilmente erano già ripartiti alla volta della stupida terra dalla quale provenivano.
Ma come avevano fatto, come? Erano rimasti a palazzo almeno fino alle nove e dieci, visto il piacevole discorso che aveva avuto modo di intrattenere con il Conte di Fontenera. Come avevano fatto i Medici, dunque, ad inviare un servitore ancora prima di vederli andare via?
Strinse i denti, cercando di concentrarsi, ma tutto quello che sentiva oltre la rabbia era un gran mal di testa.
Eppure, sforzandosi un po’, la soluzione gli apparve improvvisamente lampante.
I Medici non erano stati minimamente coinvolti nella cosa.
Il Conte era stato saggio, oh, se lo era stato. E intelligente, anche.
Approfittare per quell’unico attimo in cui lui era impegnato a seguire Bianca per pagare un servitore dei Medici e far spostare i bagagli in qualche posto sicuro per far credere a lui e agli uomini di Roma di aver abbandonato Firenze, quando invece si trovava in una qualsiasi taverna a festeggiare la vittoria.
« Astuto, Conte », si ritrovò a sibilare, appoggiando entrambe le mani sul tavolo. « Ma ancora per poco ».
Lanciò una rapida occhiata alla donna della pensione, portandosi una mano al mento con fare pensieroso. La guardò dritta negli occhi per qualche istante, alla ricerca di qualche particolare, qualche bugia che gli era sfuggita durante quel suo interrogatorio.
No, probabilmente aveva evitato di coinvolgerla.
« Capitano Grunwald! », gridò, scattando in piedi. « Date un compenso a questa donna per la sua gentilezza e pagate ciò che i vostri uomini hanno bevuto ».
Con passo spedito, si diresse in strada, esaminando la strada deserta davanti a sé. Portò le mani dietro alla schiena, riempiendosi di aria fresca i polmoni.
Quando il capitano lo raggiunse all’esterno, si calcò il cappello sul capo.
« Fate sorvegliare la pensione giorno e notte », impose. « Questa e anche le altre pensioni di Firenze. E fate in modo di scoprire se Madonna Ordelaffi ha fatto ritorno a Palazzo Rangoni ».
Si era informato, aveva appreso ciò che c’era da apprendere circa il suo matrimonio fatto in fretta e furia con un lontano cugino. Sapeva anche del suo più completo isolamento da quella che era la vita mondana.
Nel suo nascondersi, Bianca aveva fatto un unico, piccolissimo errore.
Aveva cercato di mantenere l’unico rapporto di amicizia che le era rimasto.



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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto - La Cantina di Marmo ***


Lechatvert
Specifico che sono gli esami a rendermi così celere, non vi ci abituate. Stavolta sono stata ancora più prolissa. Oooops.
Ma, ve lo prometto, è l'ultima volta <3
Nel testo vi è una citazione de "L'ultimo Lupo", un libro che ho letto da bambina e che mi è rimasto dentro. Per chi se lo stesse chiedendo, Fonterossa è il paesino di montagna dove il libro è ambientato.


Non mi resta che augurarvi buona lettura :D
Un bacione!<3





Capitolo Quarto
La Cantina di Marmo



Si svegliò di soprassalto, impugnando istintivamente il fodero della sua spada. Si drizzò sulle gambe e balzò in avanti, verso l’unica luce che illuminava la cantina.
Una flebile fiamma avanzava cauta nel buio, probabilmente ignara della sua presenza.
Trattenendo il respiro, Levi abbandonò momentaneamente la guardia, muovendosi dalla sua postazione.
« Non un passo, Messere », sibilò, quando fu abbastanza vicino da sentire il fiato dell’estraneo muovere l’aria.
« Conte! », la voce briosa dell’artista lo convinse ad abbandonare del tutto ogni idea di sfoderare la spada. « Non si adiri, sono io! »
« Aspettate ».
Senza trovare particolari difficoltà, Levi scivolò lungo la parete di sassi della cantina, tastando attorno a sé alla ricerca della lampada ad olio che aveva abbandonato quando si era coricato. La accese con l’ultimo cerino che gli era rimasto in tasca, voltandosi poi verso l’artista, che approfittò della lanterna per spegnere la sua minuscola candela.
Levi lo scrutò, dubbioso.
Le fiamme si specchiavano sulla camicia bianca, chiusa appena sopra l’ombelico con un laccio, in mano stringeva una bottiglia già stappata e un paio di bicchieri di vetro.
« Immagino che Madonna Ordelaffi sarà stanca, ma … »
Levi lo interruppe con freddezza.
« Madonna Ordelaffi si è già coricata, gradirei non la svegliaste per un bicchiere di idromele. È la prima notte che riesce a dormire, dopo l’incidente a Palazzo de’ Medici ».
L’artista abbassò il capo, ridendo piano.
« Capisco, capisco », rispose. « Tuttavia stiamo festeggiando, là fuori. Verrocchio ha soltanto pensato che vi avrebbe fatto piacere ».
Erano mesi che Levi non toccava un buon bicchiere di idromele. Anche togliendo quei tre giorni passati al buio in una cantina che puzzava di olio, nella piccola terra di Fontenera non vi era più nulla del genere. Di solito le acquistava direttamente da Palazzo Rangoni, ma ora che anche Ezio si era messo a fare l’astemio, gli capitava assai di rado di mettere le mani su quel tipo di bevanda.
« Date qui, artista », disse allora, posando finalmente a terra la spada nel fodero.
Si accomodò su un blocco di marmo e cominciò a servirsi, illuminato dalla calda luce della lampada a olio.
« Volete favorire? »
L’artista non se lo fece ripetere due volte.
« Volentieri, grazie », rispose, accomodandosi di fronte a Levi. « Immagino Madonna Ordelaffi sia esausta ».
« Non è solita coricarsi in una cantina di artisti come voi ».
« Quando farete ritorno a Fontenera? »
Levi alzò le spalle, bevendo un sorso di idromele. Il sapore dell’alcol lo rinvigorì immediatamente.
« Io? Non ne ho idea. Sto progettando di portare Madonna Ordelaffi a Bologna da suo marito, prima di fare ritorno nelle mie terre. Ma è ancora troppo presto, gli uomini di Riario gironzolano anonimi per Firenze, chissà quanti ce ne saranno, sulla strada per Bologna ».
L’artista si mostrò d’accordo.
« Dimenticate che, tre giorni orsono, ho fatto saltare in aria metà della scorta del Conte, mettendolo sulla strada per Roma », fece notare.
« Sapete meglio di me che la scorta che avete visto è soltanto quella ufficiale. Ci sono altri uomini. Roma ha messo radici anche a Firenze ».
Dopo l’ennesimo sorso, Levi alzò gli occhi sull’artista, incontrando il suo sguardo pensieroso.
« Vi sto sconvolgendo, arista? », gli disse allora, con un mezzo sorriso.
« Nient’affatto, Conte ».
« Forse dovreste tornare dal Maestro Verrocchio, non voglio strapparvi ai vostri festeggiamenti ».
« Roma non vuole Madonna Ordelaffi »
Levi piegò il capo a destra, sgranchiendosi il collo.
« Mi fa piacere vedere che sapete usare la testa ».
« Ma, se non è Roma, a volerla … perché dovrebbe volerla Riario? »
« Ogni famiglia ha i suoi scheletri nell’armadio, artista. Parole mai dette, porte lasciate chiuse. Indagarvi può essere pericoloso ».
L’artista appoggiò il bicchiere sul marmo.
« Non è mia intenzione indagare alcunché ».
Levi sbuffò.
« Meglio così ».
« Vi lascio riposare, Conte. Sembrate esausto ».
Esausto. Levi aveva passato le ultime tre notti a balzare in piedi per ogni sorcio che rosicchiava le assi del soffitto.
Era felice di non avere uno specchio, laggiù. Almeno non sarebbe potuto inorridire di fronte alla sua stessa immagine, lasciando invece quel compito ingrato a chi lo circondava.
« Buonanotte, artista », mormorò, versandosi un altro bicchiere di idromele.
Il giovane seguace di Verrocchio se ne andò con un inchino e un grande sorriso dipinto sul viso, quasi quella faccenda lo divertisse parecchio. O incuriosisse, naturalmente.
Levi ridacchiò.
In fondo, non erano poi così diversi.
Finì il suo ultimo bicchiere di idromele e si mise a frugare nella sua borsa, alla ricerca di un pezzo di carta e il suo pennino.
Accidentalmente, fece rotolare per terra anche qualcos’altro, una moneta, forse, che tintinnò sul marmo.
Quando lo raccolse, si lasciò scappare un sorriso, portando l’oggetto alla luce della lanterna.
Un anello d’oro brillava nella sua mano inguantata, sfoggiando con arroganza un grosso rubino dal davanti e l’insegna papale sul dorso.
Lo esaminò con attenzione, constatando che quella era la prima volta che lo prendeva in mano da quando lo aveva rubato dalle scrivanie papali.
« Mi aiuterai a ricostruire le mie terre bruciate », mormorò, baciando la pietra preziosa. « Pagheranno con il loro stesso fuoco la morte di Fonterossa ».
E, con una risata, lasciò che l’anello sparisse di nuovo in fondo alla borsa.
Recuperata carta e pennino, invece, si mise a scrivere velocemente un biglietto, annotando minuziosamente ogni particolare degli ultimi giorni passati a Firenze, specificando l’ubicazione esatta del luogo in cui si erano nascosti.
Sapeva di stare correndo un grosso rischio, ma, nonostante i tentacoli di Roma avessero allentato la presa sulla città, per riuscire a mettersi in salvo avevano entrambi bisogno di aiuto, sia lui che Madonna Ordelaffi.
Avrebbe trovato un modo per mettere al corrente de’ Medici della situazione, così come Ezio Rangoni, anche se per quello avrebbe avuto bisogno di una considerevole dose di fortuna.
Spense la lanterna e, infilato il biglietto in una tasca della borsa, si coricò.



* * *

La giornata era iniziata decisamente bene.
Non solo il Conte di Fontenera le aveva permesso di fare un rapido giro per il mercato di Firenze, ma aveva anche proposto, di sua spontanea volontà, una breve cavalcata nei prati circostanti la città.
Bianca non era in grado di galoppare, così il Conte si era offerto di farle da cavaliere, affittando una delle bestie di un cocchiere.
Era un pomeriggio mite, con il sole che splendeva nel cielo azzurro e una lieve brezza che soffiava da nord a rinfrescare la città.
« Non eravate mai stata a cavallo? », le chiese il Conte, quando giunsero in un prato di erba secca.
Lei scosse il capo.
« Una volta, da bambina. Ma non è stata una bella esperienza ».
Ricordava ancora il cavallo imbizzarrirsi e cercare in tutti modi di fuggire al controllo di suo padre per fuggire verso il bosco. Se non ci fosse stato lui a tenerla ferma sulla groppa dell’animale, probabilmente sarebbe stata disarcionata nel giro di qualche secondo.
Levi scese a terra con un balzo, prendendola in braccio aiutarla a raggiungerlo, e legò le redini del cavallo al tronco di uno degli alberi del rado boschetto che si apriva sulla piana.
« Sono sicuro che un giorno sarete un’eccellente cavallerizza », le disse, facendole l’occhiolino. « Ora venite con me, devo mostrarvi una cosa ».
E si inoltrò nella boscaglia, sparendo dalla vista della ragazza.
Bianca scrutò gli alberi, indecisa, ma si costrinse a seguirlo più per costrizione che per coraggio.
« Conte? »
Lo chiamò, trovandolo indaffarato a esaminare la terra del sottobosco.
« Cosa fate? »
« Vi procuro un bastone », rispose lui, alzandosi con un ramo di nocciolo tra le mani. « Prendete, è abbastanza robusto ».
Glielo lanciò, probabilmente confidando in una destrezza che Bianca non possedeva, con il risultato di farla cadere a terra, bastone al suo fianco e una modesta quantità di terra tra i capelli.
« Ezio vi ha trattata bene, eh? », scherzò.
Lei rise, rialzandosi a fatica.
« Un po’ », ammise.
Si lisciò il vestito, continuando a ridere, per poi passare a una veloce pettinata ai capelli, passando le dita tra le ciocche più grosse. Infine, prese in mano il bastone, lanciando un’occhiata al Conte.
« Quindi? »
Il ragazzo mise le braccia dietro la schiena.
« Colpitemi ».
Bianca abbassò il bastone, improvvisamente diventato un arma.
« Oh, Conte. Non potrei mai! », piagnucolò, dispiaciuta.
Lui si fece serio.
« Madonna Ordelaffi, non sarò sempre al vostro fianco a proteggervi. Verrà un giorno in cui sarete da sola e starà a voi mettervi in salvo. Per quanto mi rincresca, non sarò qui per sempre », spiegò. « Quindi, coraggio, colpitemi ».
Bianca strinse la presa attorno al bastone. Non aveva mai alzato nulla contro nessuno, non sapeva neanche da che parte cominciare.
Si avvicinò titubante al conte, puntandogli contro la sua arma. Poi chiuse gli occhi, alzò le braccia e provò a colpire.
« Madonna, guardatemi ».
Aprì gli occhi.
Il bastone giaceva ad almeno due piedi dal Conte, che, evidentemente, non aveva avuto bisogno di muoversi di un solo passo.
Bianca sospirò, affranta.
« Non sono capace », constatò.
Il Conte sospirò a sua volta, ma con un po’ di animo in più.
« Non dite così, Madonna. Imparerete ».
Le porse di nuovo il bastone, donandole un sorriso di incoraggiamento.
« Prima di tutto, c'è una cosa che dovete tenere a mente », spiegò. « Le dita sono la cosa più facile da rompere. Facilmente, vi troverete davanti uomini di guerra, che con tutta probabilità si saranno rotti le dita almeno tre volte. Questo li renderà vulnerabili, le ossa non sono in grado di ripararsi completamente, non se non vengono sistemate in tempo, e durante le battaglie non c’è tempo per una cura completa. Quindi, se vi doveste trovare ad affrontare un nemico con un bastone come questo, mirate alle mani e colpite più forte che potete ».
Bianca osservò il palmo aperto della sua piccola mano.
Rabbrividì.
« Non posso semplicemente scappare? »
« Saranno più veloci ».
« Potrei urlare aiuto ».
« Sarà loro cura imbavagliarvi prima che riusciate ad emettere un solo gemito. Madonna, dovete imparare a difendervi ».
Riluttante, la ragazza si arrese.
« D’accordo », mormorò. « C’è altro che devo sapere? »
Levi le sorrise.
« Siete molto coraggiosa », le disse. « Dunque, se il piano delle mani non dovesse funzionare, avete due strade. La prima è l’equilibrio. L’uomo è l’essere che ne ha meno, tra le creature viventi. Due gambe non ci conferiscono abbastanza stabilità, specialmente se proviamo a correre. E poi, Madonna, il viso ».
Il Conte fece una pausa, passandosi la mano sulla punta del mento, indicando una piccola cicatrice che ne seguiva la forma.
« Contiene quattro punti mortali e due che stenderebbero chiunque e non gli permetterebbero di riprendersi completamente per almeno venti minuti ».
Bianca ascoltò con attenzione, cercando di memorizzare quanto più possibile.
« Mano, Viso, equilibrio », riassunse, infine.
Levi annuì.
« Non abbiate paura di ferire il vostro nemico », concluse. « Siete troppo debole per fare del male a un uomo, ma potete guadagnare il tempo necessario alla fuga. E ricordate: preferite un nascondiglio, alla corsa. Le persone raramente guardano ciò che hanno sotto gli occhi ».
Bianca si fece pensierosa.
Dove mai si sarebbe potuta nascondere, con i capelli del colore del fuoco. In una fornace, forse? Le tornarono alla mente i campi di papavero che circondavano le campagne di Forlì. Forse, facendosi piccola piccola in un posto del genere, gli uomini del Conte Riario l’avrebbero scambiata per una pianta.
Si lasciò scappare una piccola risata all’idea, poi guardò il Conte di Fontenera.
« Conte? »
« Sì? »
« Mi chiedevo … esattamente, dove si trova Fontenera? »
Non ricevette risposta.


* * *


Girolamo Riario starnutì e il suo starnuto percorse con un sonoro eco tutto il corridoio delle prigioni.
L’uomo dall’altra parte delle sbarre alzò un sopracciglio.
« Dovreste avere più a cuore la vostra salute, Conte Riario », lo schernì.
L’uomo rimase in un silenzio stizzito. Guardò con collera la scacchiera, dove le pedine avversarie lo avevano appena stracciato per l’ennesima volta.
Non riusciva a capacitarsi di tutte le sconfitte che aveva accumulato in quei mesi.
« Sapete, il mese scorso il Conte di Fonterossa è venuto a farmi visita », continuò il prigioniero, facendosi pensieroso ed accarezzandosi la barba come per rammentare il volto di quel giovane. « È senz’altro cresciuto, dall’ultima volta che l’ho visto a Roma ».
Riario non perse di vista la scacchiera.
« Non … lo è più … », mormorò, stretto tra i denti. « Le sue terre non si chiamano più così ».
« Avete ragione. È Fontenera, ora, il suo nome ».
Il vecchio accennò una risata, nascosto sotto il suo mantello.
« Che azione crudele, dare fuoco alle terre di un ragazzino ».
Con delicatezza, Riario tolse le pedine dalla scacchiera, cominciando a dividerle per colore, e consegnando quelle nere al prigioniero.
« Levi di Fontenera è stato accolto alla corte di Roma per ricevere la migliore educazione ma, non contento, prima di fare ritorno alle sue terre ha pensato bene di oltraggiare il Santo Padre con un furto », spiegò, posizionando la sua prima pedina. « Gli ho dato esattamente ciò che si meritava ».
« Avete dato alle fiamme ogni cosa in suo possesso ».
Riario corrugò la fronte.
« Vi sbagliate », rispose. « Gli ho lasciato la vita. Dovrebbe essermi grato, in vero. Non è una grazia simile cada sulla testa di ogni peccatore che incontro ».
Il prigioniero annuì.
« C’è più di questo, non è vero? », incalzò, piazzando a sua volta una pedina.
Riario annuì, assente.
« Ho incontrato una persona, a Firenze ».
« Una donna? »
Il Conte scosse il capo.
« Un’amica », rispose.
Non mosse nessuna pedina, rimase fermo a fissare nel vuoto.
« La prossima mossa, Conte? »
Riario ci pensò un istante.
« Riportarla a casa ».



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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto - Ritratto d'Autore ***


Lechatvert
Senza parole, ho finito le prove scritte!
E che vi basti questo più un abbraccio colmo di amorevole affetto ★





Capitolo Quinto
Ritratto d'Autore



Levi lasciò Firenze a cavallo di un mulo, rubato dalle stalle di Verrocchio, poco prima che la luna arrivasse a metà del suo viaggio attraverso la volta celeste.
Era una notte fredda, nebbiosa, illuminata più dai lumi della città che da quelli del cielo. Ad ogni passo, il mulo provvedeva a sottolineare il suo sdegno nel venire condotto (per di più a quell’ora) tra i boschi che circondavano Firenze.
Un paio di volte, il Conte fu persino tentato di mollare l’animale in mezzo al sentiero e procedere a piedi, certo che la sua andatura sarebbe stata alquanto più celere, eppure provava un certo senso di inferiorità a presentarsi a piedi, così si convinse del detto “Chi va piano va sano e va lontano” e attese che il mulo si mettesse nell’ordine di idee di arrivare prima dell’alba.
Non fu difficile trovare gli uomini di Riario, anzi, Levi quasi si stupì di quanto in vista fossero accampati, quasi pronti ad essere avvistati, malamente ammassati contro i resti di un’antica chiesa pagana.
Si chiese se il motivo di tanta trasparenza non fosse proprio l’intenzione a farsi scoprire.
Scese dal suo destriero con un balzo, presentandosi  a uno degli uomini di ronda.
« Sono il Conte Levi di Fontenera », annunciò, impettito in una veste rossa fresca di sartoria. « Gradirei parlare con il Capitano Generale della Santa Romana Chiesa ».
L’uomo lo squadrò da testa a piedi, soffermandosi sul suo viso da ragazzino e commentandolo con un sorriso di scherno e una scrollata di capo.
« Venite con me, Conte. Il Capitano vi sta aspettando ».
Levi annuì, stringendo i pugni.
Avvertiva nell’aria una strana carica di elettricità, quasi quel luogo fosse pronto a prendere fuoco da un momento all’altro. Respirando a fondo l’aria fresca della notte, si augurò che ciò non accadesse.
Il Conte Riario lo aspettava all’esterno, seduto a un piccolo tavolino sistemato accanto a un muro in pendenza. La fiamma di una piccola candela gli illuminava il viso, rendendo i contorni del mento più aguzzi di quanto già non fossero.
Levi deglutì, avvinandosi con fare incerto.
« Conte, vi stavo aspettando », gli disse Riario, mostrandogli una sedia sulla quale accomodarsi. « Vi prego, prendete posto. Abbiamo molto di cui parlare ».
Senza dire nulla, Levi obbedì.
« Sono venuto a sapere che state progettando di ridare vita a Fontenera », continuò Riario, accompagnando l’osservazione con un sorriso divertito. « Mi chiedo con quali finanze tale opera verrà istituita ».
Levi scrollò le spalle.
« Che ci crediate o meno, ho ancora una modesta quantità di denaro, messa da parte. La mia famiglia ha guadagnato per generazioni, con la vendita del vino di Fonterossa ».
Riario annuì, solenne.
« Ah, certo, certo. Il vino delle viti che sono bruciate ».
« Non sono bruciate. Voi le avete gettate alle fiamme personalmente ».
« Il che, se non erro, le ha portate a bruciare ».
Esasperato, Levi alzò gli occhi al cielo.
« Non sono venuto per parlare dei miei vigneti », tagliò, schietto.
Riario gli rivolse un sorriso divertito.
« Certo che no. Siete venuto per vendermi Madonna Ordelaffi ».
« Riario, non vi venderò mai Madonna Ordelaffi. È troppo candita, per voi. Le sporchereste gli abiti anche solo a guardarla ».
L'uomo sospirò, quindi, senza mostrarsi particolarmente toccato dalla cosa.
« Sapete, vero, che non ho mai avuto problemi a prendere ciò che è mio ».
Levi alzò le spalle.
« Fin troppo bene, ma ringrazio che, in questo caso, lei non sia vostra », rispose.
« Forse, ma ogni cosa ha un prezzoo. Ditemi dove si trova Bianca e apllicherò personalmente i miei uomini affinché Fonterossa venga ricostruita ».
Il giovane conte, fatta una risata, scrollò il capo, divertito.
« Non voglio la vostra carità, Riario! »
L’altro lo guardò, astioso.
« Fareste bene a desiderarla, invece », sibilò.
Levi lo guardò, cogliendo nel suo sguardo scuro il segno della paura. Non lo concepiva, negli occhi di uno come Riario, ma seppe giocarlo a suo vantaggio.
« Vendete meglio i vostri prodotti, Riario », sentenziò, abbandonando la sedia su cui era seduto. « E, forse, troverete degli acquirenti interessati ».
Gli diede la schiena per muovere qualche passo verso il suo mulo, poi si fermò.
Si voltò e gli lanciò un’ultima occhiata dubbiosa.
« Non c’è altro, vero? »
Riario alzò appena il capo.
« Ci sarebbe la questione dell’anello del Santo Padre », mormorò, atono. « Ma non vi preoccupate, non lo dirò a nessuno, non finché non lo userete per ricostruire casa vostra. Allora sarà mia premura venire e ridare alle fiamme le vostre terre. Stavolta, però, non avrò l’accortezza di tenervi fuori dal fuoco ».
Il viso di Levi perse d’un tratto colore, mentre la mano destra andava a stringere la stoffa ruvida della sua borsa.
« Non so di cose state parlando, Riario », buttò lì, facendo l’offeso. « Ho pagato il mio debito con Roma molto tempo fa, ora non voglio più averci a che fare ».
L’uomo di fronte a lui alzò gli angoli della bocca, formando un piccolo sorriso carico di malvagità.
« Datemi Madonna Ordelaffi e cancellerò il vostro debito », gli sussurrò, maligno.
Levi sbuffò.
Tornò sul tavolo da cui Riario non aveva accennato a muoversi e ci poggiò sopra la borsa, seccato. Vi rovistò un po’, pungendosi il dito con uno degli aghi che portava infilati alla tasca interna, e ne estrasse il biglietto che aveva scritto la sera prima.
« Questa è una lettera per Messer Rangoni », spiegò, tenendolo piegato nella mano destra. « C’è scritta l’ubicazione esatta di dove, in questo preciso istante, Madonna Ordelaffi sta riposando ».
Riario ammutolì, le labbra serrate, i lineamenti duri. I suoi occhi brillavano alla luce della candela e fissavano con bramosia quel biglietto.
Levi lo guardò, sfoggiando un mezzo sorriso di scherno.
« Ma è mia, e non ho intenzione di farvela leggere ».
Con sorprendente velocità, l’accartocciò e la rifece sparire all’interno della borsa.
Riario gli rivolse un’occhiata scomposta, lasciandosi scappare un mugugno dalla bocca aperta per lo stupore.
« Bruciate pure ciò che resta da bruciare », continuò Levi, seppur con amarezza. « Distruggete ciò che è rimasto da distruggere. Poi fermatevi a guardare la cenere sotto ai vostri piedi, e piangete. Perché, dopo tutta quella fatica, non sarete comunque riuscito a trovare Madonna Ordelaffi ».
Fece una pausa, concedendosi uno sbadiglio e una stiracchiata di braccia.
« Buonanotte, Conte Riario », concluse, avviandosi, stavolta seriamente, verso il suo mulo. « Mi raccomando, non prendete freddo ».
Si allontanò ridendo a gran voce, prendendo le briglie del suo amico il mulo, e facendo roteare con leggiadria il fodero della sua spada.
Credeva, ma non lo sapeva per certo, che mai come in quel momento il Conte Riario avesse desiderato affondargli il suo stiletto nel petto.
Immaginò la figura dell’uomo leccarsi nervosamente le labbra, toccando con le punte delle dita la lama del suo piccolo pugnale, mentre gli occhi, fermi sulla sua figura in lontananza, fiammeggiavano di odio.
Presto avrebbe avuto gli uomini alle calcagna, dunque.
Con la mente, ridisegnò il percorso che aveva fatto all’andata, cercando di focalizzare un buon nascondiglio.
Quella sarebbe stata una notte movimentata.




* * *

Leonardo da Vinci le passò le mani tra i capelli, esaminandone con sguardo crucciato la lunghezza, il colore, le varie tonalità date dalla luce del sole che filtrava dalle finestre. Da quando le aveva chiesto di permettergli di studiare la sua chioma per la seconda volta – della ciocca, Dio solo sapeva cosa ne avesse fatto – e lei aveva acconsentito, l’artista era caduto in un pesante silenzio, interrotto di tanto in tanto da uno sbuffo o un mugolio sommesso che egli emetteva ogni qual volta fallisse nel mischiare i colori.
Bianca sospirò, accoccolata sul piedistallo di legno nello studio di Leonardo.
Il Conte se n’era andato prima che lei si svegliasse, lasciando nella cantina tutti i suoi averi. Si era preoccupato di portare con sé solo il suo nuovissimo spadino con il giglio sull’elsa e la borsa che si teneva stretto addosso anche quando dormiva.
L’aveva lasciata da sola tutta la mattina, senza preoccuparsi di recapitarle alcun messaggio. E poi erano già a metà del pomeriggio, il sole non sarebbe stato capace di illuminare il cielo ancora per lungo. Era preoccupata.
« Ditemi, Messer da Vinci », cominciò, speranzosa. « Avete per caso visto il Conte, stamani? »
L’artista scosse la testa, raccogliendo dal pavimento l’ultimo papavero di quello che, un tempo, era stato un bel mazzo.
« No, oggi no », rispose, assente, portando il fiore sul capo della ragazza. « Dove sto sbagliando? »
« E ieri sera? L’avete visto? »
Messer da Vinci sospirò rumorosamente, buttando indietro il capo.
« Volete stare calma? », si lamentò, seccato. « Non riesco a pensare, se continuate a fare domande! »
Bianca s’imbronciò un poco. Detestava essere zittita ma, d’altronde, non aveva il coraggio di ribellarsi, quindi rimase in religioso silenzio sul suo piedistallo, cercando una soluzione a quel rompicapo.
Dove poteva essere fuggito, un ragazzino come il Conte? Pensò ad un bordello, ma lui non era tipo da frequentare certi posti … una partita di dadi, forse? Non le sembrava una cosa così improbabile. Magari aveva perso la sua amata spada al gioco e stava cercando disperatamente di riconquistarla.
Affranta, si fece scappare un l’ennesimo sospiro.
« Messer da Vinci? », chiese, dopo un istante.
« Non ora ».
« Chiedo perdono ».
Di nuovo ammutolita, la ragazza riprese a pensare alle possibili avventure affrontate dal Conte di Fontenera in quelle dieci ore di assenza. Magari aveva combattuto sui tetti della città, oppure aveva deciso di salvare una dama da un gruppo di aguzzini, oppure …
La porta si aprì con un tonfo.
« Maestro, vi ho portato i papaveri che avevate chiesto! »
Uno degli assistenti di Verrocchio entrò nella stanza con un mazzo di fiori rossi tra le mani.
« Al mercato erano finiti », si giustificò, avvinandosi all’artista. « E sono dovuto andare … oh, ci siete anche voi, Madonna! »
Bianca fece per salutare, ma si bloccò immediatamente. Controllò che Messer da Vinci non la stesse guardando e solo allora si fidò a far uscire un suono dalla sua bocca.
« Buongiorno, Nico », gli disse, sottovoce.
Lui la guardò, perplesso da quel tono.
« Il Maestro è arrabbiato? », si informò.
« Non vuole che parli ».
L’artista si avvicinò nuovamente alla sua chioma, stavolta con un pennello in mano e la manica della camicia arrotolata sopra al gomito.
« Nico, lascia i fiori sul pavimento », disse, concentrato più sul suo lavoro che sul ragazzo. « Guardate, Madonna », aggiunse poi, passando delicatamente il pennello sul suo stesso braccio posato sulla spalla della ragazza.
Bianca si voltò a guardare. Da dove finivano i suoi ricci rossi a dove l’artista si era pitturato il braccio, non vi era nessuna differenza. La tonalità era la stessa: intensa, accesa, quasi innaturale per una chioma.
« Ce l’avete fatta! », esclamò, contenta.
Talmente contenta che ebbe un sobbalzo, passando accidentalmente la guancia sul pennello ancora intriso del colore fresco di Leonardo.
A contatto con quella pasta umida, Bianca si portò istintivamente la mano sul viso, nel tentativo di liberarsi di quella sensazione, ottenendo come risultato quello di macchiarsi, oltre che il viso, anche la mano destra.
« Lasciate che vi aiuti, Madonna ».
Nico si sporse, offrendole la manica della camicia come fazzoletto.
Bianca si sporse per lasciarsi pulire, ma, prima che il ragazzo arrivasse a sfiorarla, il braccio dell’artista lo bloccò.
« Aspetta, Nico », ordinò, mettendosi il pennello tra i denti e recuperando il suo taccuino.
Con ciò che rimaneva di una matita, si mise a tracciare qualche linea veloce sulla carta, guardando di tanto in tanto la figura immobile di Bianca. Lasciò cadere la matita a terra, riprendendo possesso del pennello, e finì la sua opera staccando il foglio dal taccuino e sventolandolo un po’ all’aria per far asciugare il colore.
Quando Bianca ebbe tra le mani il frutto di quel breve lavoro, il viso le si illuminò.
« È un ritratto! », esclamò, felice.
Lo mostrò a Nico.
Era una semplice raffigurazione del suo viso, ben più scialba del ritratto che Ezio aveva commissionato per lei l’anno prima, eppure più delicata. I suoi capelli non erano raccolti in una treccia ma bensì sciolti, lasciati liberi di cadere sulle sue spalle e il viso, di solito ben truccato e curato, era insolitamente colorato con una macchia disordinata, tinta del medesimo colore della sua chioma.
Istintivamente, le venne da ridere.
« È davvero bello, grazie », disse, rivolta all’artista. « Come posso ringraziarvi? »
Messer da Vinci socchiuse gli occhi per un istante, mostrandosi pensieroso. Poi la guardò, sfoggiando un piccolo sorriso.
« Donatemi un’altra ciocca dei vostri capelli, Madonna ».




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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto - L'Appeso ***


Lechatvert
Ho finalmente scoperto i simboli word e le stelline

Preparatevi, perché non ve ne libererete più. Bwahahahah!
Nell'immagine di oggi ho voluto mettere anche Levi, nella sua ultima, gloriosa apparizione. Bel ragazzo, nè?

Buona lettura, ringrazio tutti quelli che leggono, leggeranno, hanno letto. Sbaciucchio invece chi recensisce, ha recensito, recensirà.

Vi amo tutti







Capitolo Sesto
L'appeso



« Partirete subito dopo mezzogiorno ».
In piedi di fronte alla facciata che cadeva a pezzi, Riario osservò a lungo il Capitano Grunwald, accarezzando intanto la superficie ruvida e fredda dei resti dell’edificio.
Un tempo doveva essere stata una costruzione imponente, quella, eppure con gli anni era caduta in rovina, senza possibilità di recupero. Segno evidente che dalla volontà di Dio nessuno poteva scappare, che prima o poi il giorno della capitolazione sarebbe arrivato anche per Firenze.
Soddisfatto della sua deduzione, sorrise al Capitano.
« Mi aspetterete fuori dai confini di Firenze », spiegò, atono. « Ci ricongiungeremo stanotte e torneremo a Roma senza dare nell’occhio ».
L’uomo lo guardò, scettico, ma non osò proferire parola. 
D'altronde, Riario non si aspettava comprensione dal suo seguito, ma soltanto rigida obbedienza. Aveva deciso di agire con discrezione, senza dare troppo nell’occhio, soprattutto per proteggersi contro i sempre più vigili Medici. Quasi sicuramente non si sarebbero impicciati ma, a beneficio del dubbio, rischiare non era certo conveniente.
Per questo, se davvero voleva avvicinarsi di più a Bianca Ordelaffi, doveva farlo con riserbo, senza cadere nell’errore di agire con troppa foga. Studiare ogni mossa per arrivare a vincere la partita, ricordò. Era esattamente ciò che aveva intenzione di fare.
Congedò quindi il Capitano Grunwald, concedendosi un istante per pensare, ed estrasse il biglietto di Levi da una tasca del cappotto.
Lo guardò, rigirandoselo tra le mani inguantate quasi non capisse quella scrittura così ben curata da apparire quasi femminile.
Diceva semplicemente “Andrea del Verrocchio”, ma era fin troppo semplice capire dove andare a cercare.
Istintivamente, gli tornarono alla mente le parole da lui pronunciate la sera in cui aveva visto Bianca Ordelaffi al palazzo dei Medici in compagnia di Levi.
« Peccate di superbia, Conte », ripeté, quasi parlando a se stesso, mentre provvedeva a far sparire il biglietto.
Levi di Fontenera aveva certamente agito con presunzione, due sere prima, quando si era spinto fino a fuori Firenze per lodarsi del suo vantaggio. 
Lui non avrebbe fatto lo stesso errore.
Si voltò.
La spada del Conte di Fontenera giaceva ancora abbandonata lì dove l’aveva lasciata, accanto alla sua sudicia borsa piena di ciarpame e di schizzi acquistati in chissà quale bottega.
Rapito dalla sottile lama dell’arma, si avvicinò, osservandone meglio le fattezze. Alla luce del sole era visibile un piccolo giglio inciso sull’elsa, tinto del colore del sangue di chi aveva infilzato.
Un giglio rosso, come lo stemma di Firenze.
Riario non riuscì a trattenere le risate, raccogliendo quel gingillo per buttarlo, assieme alla borsa, nel mucchio di rifiuti che i soldati si erano impegnati a produrre in quel breve lasso di tempo che si erano trovati là.
Davvero singolare, l’ironia della sorte.




* * *

« Maestro! ».
Bianca inciampò nel bavero del suo stesso vestito e, nel disperato tentativo di non cadere addosso a qualcuno, compì qualche saltello in avanti, appoggiandosi infine al legno di una bancarella per riprendere fiato.
Accidenti a lei e alla sua bizzarra idea di accompagnare Maestro Verrocchio a comprare i pigmenti per creare i colori esauriti nella bottega! Quell’uomo camminava spedito, abituato com’era alla frenesia di Firenze, e non gli ci era voluto molto per seminarla tra la folla. Lei aveva iniziato a rincorrerlo, chiamandolo a gran voce, ma non era servito a niente.
Sospirò, rimettendosi in piedi per aggiustarsi le pieghe del vestito.
Erano due giorni che il Conte Levi non dava sue notizie e stava cominciando a preoccuparsi seriamente. Di certo, gli artisti di Verrocchio non erano d’aiuto. Messer da Vinci aveva chiesto a uno dei suoi compagni di cercare informazioni in città, ma non ne era uscito nulla.
Esasperata, la ragazza prese a guardarsi intorno, sconsolata. Non aveva la più pallida idea di dove si trovava.
L’uomo alla bancarella presso la quale si era fermata si avvicinò, preoccupato.
« State bene, Madonna? », chiese.
Lei lo guardò, sforzandosi di sorridere.
« Sì, sì », rispose. « Potreste dirmi da che parte si trova Santa Maria del Fiore? »
Da lì, forse, sarebbe stata in grado di trovare la strada per la bottega.
Il mercante le consigliò di andare dritta fino a che non avesse incontrato il palazzo di giustizia. Allora avrebbe dovuto svoltare a sinistra e, a quel punto, si sarebbe sicuramente trovata dinanzi al cantiere della cattedrale.
Bianca ringraziò, dopodiché l’uomo tornò ai suoi affari.
Rapita dalla lucentezza della sua merce, la ragazza si fermò ad osservare i vari strumenti in vendita. Alcuni le erano famigliari: delle tabacchiere lucide come oro, degli stiletti ben affilati, persino un pennino a forma di indice teso.
In fondo alla bancarella, proprio accanto agli stiletti, vi era una specie di spago argentato, finemente risposto in un sacchetto dal quale fuoriusciva leggermente.
Bianca lo guardò, curiosa.
« Che cos’è? », si ritrovò a chiedere al mercante.
L’uomo alzò le spalle.
« Filo d’argento, Madonna », spiegò. « Molto tagliente e resistente ».
Bianca corrugò lo sguardo. A cosa poteva mai servire, una simile invenzione?
Alzò le spalle e si voltò, decisa a raggiungere Santa Maria del Fiore.
Erano passati giorni da quando aveva visto il Conte Riario e ormai il ricordo di quello spiacevole avvenimento si era fatto più pallido, in lei, tanto da permetterle di dormire nella cantina di Verrocchio senza il timore di un attacco a sorpresa. Quella mattina, prima di uscire con il Maestro, aveva persino pensato che, tutto sommato, forse avevano fatto un errore a giudicare come maligne le azioni del Conte. Forse era cambiato, negli anni. Dopotutto, chi era lei per negargli una seconda possibilità?
La cosa l’aveva resa serena e fiduciosa, tanto da scrivere una lunga lettera a suo marito, Ezio Rangoni, in cui annunciava che presto avrebbe fatto ritorno a casa. Tempo di ritrovare il Conte di Fontenera, insomma.
Con quel pensiero fisso in testa e l’emozione di poter finalmente riposare sulle poltrone di casa sua, Bianca si ricongiunse a Verrocchio, sorprendendolo in una vivace trattativa per un pugno di pennelli.
« Maestro! », esclamò, contenta, accelerando il passo per raggiungerlo.
L’uomo si voltò appena, concentrato com’era a parlare con il venditore.
« Hanno trovato un morto, poco fa », diceva il mercante, tutto preso a mettere i pennelli nel sacco di cuoio di Verrocchio. « È ancora appeso sulle impalcature della cattedrale. Andatelo a vedere, prima che lo tirino giù ».
Bianca si avvicinò, curiosa.
« Chi era? », chiese.
L’uomo alzò le spalle.
« Nessuno pare conoscerlo. Un ragazzo sulla ventina, di buona famiglia, credo. L’avevo visto gironzolare qui intorno qualche giorno fa. Acquistò una spada dal fabbro, laggiù ».
Improvvisamente, un brutto presentimento prese il sopravvento su Bianca.
« Maestro, andiamo a vedere », disse, tirando Verrocchio per la manica. « Non ho mai visto un uomo morto ».
Ed era vero.
Bianca non aveva mai visto un uomo in fin di vita, così come non aveva mai visto un cadavere, se non ai pochi funerali ai quali era dovuta partecipare, ma era tutt’altra cosa, un morto in una bara, rispetto a un morto appeso mangiato dai corvi.
Suo padre, quando era bambina, non le permetteva di assistere alle esecuzioni ed Ezio, buono com’era, raramente puniva i crimini delle poche persone che abitavano le sue terre con la morte.
Per questo, quando arrivò correndo davanti alla facciata in costruzione di Santa Maria del Fiore, non poté evitare di gridare quando, appeso a testa ingiù dalle impalcature del cantiere, non trovò un uomo morto ma il Conte di Fontenera, con gli occhi aperti e la bocca tagliata in un macabro sorriso. Era appeso per la gamba sinistra, con la destra piegata e legata al ginocchio dell’altra.
La gente lo indicava e mormorava, impaurita.
Verrocchio si avvicinò e le prese la spalla, atterrito.
« Chi … chi potrebbe aver mai fatto questo? »
Nella mente di Bianca, la domanda suonò assai retorica.
Se prima si era illusa di poter dare al Conte una seconda possibilità, ora non vedeva altro che la morte davanti ai suoi occhi.
Si voltò, inorridita dalla vista di ciò che rimaneva del suo benefattore.
Era stato appeso.
Appeso.
Quella parola fece scattare un ricordo.
È una carta dei tarocchi”, le aveva spiegato una volta Ezio. “Ha un significato molto profondo, dal mio punto di vista. Parla di un sentimento platonico, che non lascia spazio a esperienze fisiche, e un futuro di completa fedeltà a cui si arriverà dopo una lunga attesa. Include inoltre un altro significato, un po’ più inquietante”. Aveva fatto una pausa, sospirando. Bianca pendeva letteralmente dalle sue labbra. “Il periodo di stallo che vi è tra due persone. L’appeso pone fine ad esso. È come se vi fosse una certa strada da percorrere che marito e moglie intraprendono uno da una parte, una dall’altra. Il punto d’incontro è rappresentato dall’appeso ».
Deglutì.
Riario sarebbe venuto a prenderla, ora che non aveva più protezione. Se era stato in grado di fare quello al Conte Levi, chissà cosa avrebbe fatto, a lei.
« Maestro Verrocchio, andiamocene da qui », mormorò, tremando lievemente. « C’è una cosa che devo fare ».
E si allontanò in tutta fretta, stavolta quasi seminando l’uomo dietro di lei.
« Madonna Ordelaffi », la chiamò questi, poggiandole una mano sulla spalla con delicatezza. « Dove state andando? »
Lei si voltò, tirando fuori un sorriso che scacciò le lacrime che prepotentemente volevano scendere sul suo viso.
« Ho visto una cosa, prima », spiegò. « Volevo comprarla come ricordo di Firenze, visto che domani tornerò a casa. Ora che sappiamo dov’è il Conte, non ho più motivo di restare ».
Verrocchio la guardò, preoccupato. Non aveva ancora lasciato andare la presa sulla sua spalla.
« Che cos’è, Madonna? »
Bianca si asciugò l’unica lacrima che riuscì a scappare al suo controllo.
« Un filo d’argento ».


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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo - Il Coraggio del Leone ***


Lechatvert
Avvertenze: Il tutto ha portato alla scoperta di questo filmato, lungo 8 secondi, che, nei giorni particolarmente deprimenti, ha un effetto bomba assicurato. Ho riso come una scema per almeno dieci minuti, guardandolo e riguardandolo.

Ciao
No, non la finirò mai con le stelline, mi piacciono troppo ★___★ <-- Ho imparato anche a farci le faccine ★-★/
Comunque sia, cavolate stellari (★) a parte, mi sto commuovendo, dico sul serio. Non mi era mai capitato di arrivare alla quasi-fine (ma dove?) di una fanfiction, quindi mi sento parecchio strana v_v

Come sempre, buona lettura a tutti, in particolare a chi ha recensito e recensirà <3 Grazie, ragazza/e/i/o/u!

Vi amo tutti







Capitolo Settimo
Il Coraggio del Leone



Bianca Ordelaffi uscì dal retrobottega di Andrea del Verrocchio due ore dopo il tramonto, con l’inaspettata intenzione di incamminarsi da sola. Il vecchio le baciò la fronte e le mani in segno di saluto, lei fece una piccola riverenza, dopodiché infilò nella borsa un plico di fogli bianchi e un paio di quanti che egli stesso le consegnò.
Da dietro il muro che divideva la bottega dalla strada all’angolo, il Conte Riario udì i loro discorsi.
« Siete sicura di non voler una scorta, fino a Bologna? »
« Maestro, avete fatto più che abbastanza. Starò bene. Stamane ho comprato il cavallo del fabbro. Mi ha assicurato che è in buona salute; arriverò prima di domani a mezzogiorno ».
« Mi raccomando, scrivete, una volta giunta da vostro marito ».
« Ma certo ».
« E tornate a farci visita, quando sarete a Firenze ».
« Non ne dubitate, Maestro ».
Dopodiché si lasciarono; la porta del retrobottega si chiuse, Bianca Ordelaffi si mise il cappuccio sul capo e si incamminò nella notte, sicura che nessuno la stesse osservando.
Riario si mosse con scaltrezza. Non esitò a seguirla, ma rimase sempre nell’ombra, combattuto se avvicinarla entro le mura di Firenze piuttosto che fuori, dove la aspettava la bestia che aveva acquistato al mercato.
Le sue mani bramavano di stringersi ancora attorno a quelle spalle, ora che ne scorgeva il profilo così da vicino, ma si era ripromesso discrezione e discrezione voleva dire aspettare almeno finché il centro abitato non fosse stato lontano.
Sospirando, si rassegnò a seguire la cappa blu della ragazza, prima fino alle porte di Firenze, poi sempre più lontano, immersa nell’oscurità, dove, a un certo punto, si decise a estrarre una piccola lanterna che accese per farsi strada tra le sterpaglie dei campi.
Riario la seguiva, sempre più perplesso man mano che ella si allontanava dalla strada ma non stentava ad andarle dietro, a tratti curioso di dove lo stesse portando, a volte sospettoso di una trappola.
A volte, la ragazza si voltava e illuminava il sentiero, ma il Conte era furbo, restava sempre in disparte e, vestito di nero com’era, era praticamente impossibile distinguerlo dal buio.
Camminarono per quasi un’ora, in silenzio, sotto l’occhio attento della Luna, con l’aria fredda e pungente a tagliare la pelle, con i versi del bosco attorno che cantavano alla notte chissà quale canzone.
Sebbene la ragazza non desse cenni di volersi fermare, Riario cominciava invero a sentire freddo sulla schiena, quasi vi fosse una brezza invernale appoggiata sulle sue spalle a sussurragli nomi a lui sconosciuti.
Per un istante, si chiese se non fosse il fantasma del Conte di Fontenera. Pensiero che venne scacciato subito dal bisogno di concretezza che il contesto richiedeva. Farsi prendere da certi spiriti non avrebbe certamente giovato alla situazione.
Proseguì, quindi, fino a che non si ritrovò in un prato, completamente libero dai pergolati della campagna, alla fine del quale gli parve di scorgere una costruzione, un casolare. Sicuramente il luogo in cui Bianca Ordelaffi si stava recando.
Accelerò il passo, forse un po’ troppo di fretta,  finendo per essere udito, tanto che il lume si spense, togliendo al prato anche quella piccola aureola di luce che c’era a illuminarlo.
Allora si acquattò dietro le sterpaglie e aguzzò la vista in direzione del casolare.
Il mantello di Bianca fluttuava nella notte mentre lei correva, guardandosi alle spalle di tanto in tanto.
Ormai scoperto, il Conte si lanciò all’inseguimento della ragazza, percorrendo, seppur con la difficoltà dettata dall’erba alta, la breve distanza che lo separava dal casolare.
Bianca vi entrò senza esitazioni, passando per l’uscio ormai senza porta e sparendo nell’oscurità dell’interno e così fece Riario, senza temere di essere caduto in una trappola, senza rallentare e fermarsi a pensare che, forse, non era il caso di avventarsi.
L’idea di aver perso la tanta agognata discrezione non lo sfiorò minimamente, trasformandosi invece in quello che era il suo più grande difetto: la foga che lo prendeva quando il suo obbiettivo era talmente vicino a poter sentire il suo respiro contro la pelle. In quelle occasioni, tutto il castello di calcoli e valutazioni che Riario aveva in testa, era sempre crollato.
Non badò a quella che di solito era la sua ferrea logica, si buttò nel casolare con impeto, ormai certo di avere la ragazza in pugno, pregustando il suo viso con il suo sguardo da animale impaurito.
Vide troppo tardi il riflesso della Luna illuminare il sottile filo d’argento teso da una parte all’altra dell’uscio e, quando fu in grado di provare ad evitarlo, si trovò già sbilanciato e destinato a una caduta di faccia sul pavimento di pietra.
Non accadde.
Qualcos’altro lo colpì in volto producendo un rumore metallico e spingendolo, stavolta, all’esterno.
Cadde di spalle sull’erba umida, intontito dal dolore del colpo e con un vago gusto di terra tra i denti. Mentre osservava con sguardo assente il cielo privo di stelle, sentì il sapore del sangue entrargli in bocca, ma non riuscì subito a collegarlo all’accaduto.
Per un istante, credette di giacere inerme su una nuvola.
Poi, d’un tratto, vide la chioma rossa di Bianca superarlo con uno scatto, mentre lasciava cadere, proprio accanto al suo corpo, la vanga da giardino con la quale lo aveva colpito.




* * *

Bianca corse più forte che poté, trattenendo a stento le lacrime e stringendo i palmi delle mani con cui aveva colpito il Conte. Doveva averlo colpito più forte del previsto, tanto che, quando si era sporta per controllare gli effetti degli insegnamenti di Levi, aveva notato che la vanga da giardino aveva guadagnato una piccola macchia di sangue sull’estremità in ferro. Inorridita, l’aveva gettata a terra e si era data alla fuga verso le stalle, dove la attendeva la seconda parte del suo piano: la fuga.
Dubitava di riuscire a raggiungere Bologna, ma il Conte di Fontenera le aveva insegnato a nascondersi. Arrivata in una città abbastanza lontana, avrebbe trovato un posto sicuro dove far passare del tempo, prima di rimettersi in cammino.
Sempre che sarebbe stata in grado di arrivarci, lontano. L’idea di calcare non la entusiasmava affatto.
Facendosi coraggio, aprì le porte della stalla, dove la bestia acquistata dal fabbro la aspettava già sellata e imbrigliata dall’uomo che l’aveva portata lì quel pomeriggio sotto suo ordine.
Non si fermò ad osservare l’animale, vi montò – seppur con qualche difficoltà data dalle sue scarse esperienze di cavallerizza – in groppa e, impugnate le briglie, diede un colpo di tacco sul ventre, pronta a partire.
Il cavallo non si mosse.
« Oh, no », pianse, allora, sporgendosi in avanti verso la testa del suo destriero. « Per favore, vai! »
Ma ancora, il cocciuto animale si limitò a nitrire con disapprovazione.
« Andiamo! »
Presa dallo sconforto, Bianca prese a dargli qualche piccolo calcio sul corpo, battendogli intanto la mano sul capo, nella vana speranza di riuscire a farlo partire al galoppo. Non aveva idea di come si invogliava un cavallo a correre. Sia suo padre che il Conte di Fontenera lo facevano con un piccolo verso che però, nel suo caso, non sembrava funzionare.
Provò, anche, nella disperazione, a tirare la criniera con forza, ma non ne ricavò altro che l’ennesimo nitrito di rabbia.
« Non farmi questo! », strillò infine e, più per stizza che per volontà, diede l’ultimo calcio sul ventre del cavallo. Ci mise tutta la forza di cui era capace, convincendolo finalmente a correre verso le campagne di Firenze.
Si lanciò al galoppo così rapidamente che Bianca non ebbe nemmeno il tempo di infilare i piedi nelle staffe, perdendo pericolosamente l’equilibrio. Si buttò allora in avanti, aggrappandosi al collo del suo destriero anziché alle briglie che lo controllavano, e chiuse gli occhi, impaurita, pregando quella sua sconsideratezza di non costarle la vita.
Improvvisamente, vecchi ricordi le affiorarono alla mente. Frammenti di quella tragica cavalcata sul destriero del padre, dell’ultima volta che il Conte di Fontenera l’aveva portata al galoppo proprio in quel prato, di quello che, una volta, Ezio le aveva fatto notare, chiamandola la sua “moglie coraggiosa”.
Siete audace, Madonna!”, aveva scherzato quando, poco dopo le loro nozze, l’aveva sorpresa ad arrampicarsi su uno scaffale in cerca di un libro. “Non mi sarei aspettato altro, da un’Ordelaffi!” Alla sua richiesta di spiegazioni, Ezio le aveva sorriso. “Vedete, anche se dal fuori apparite così inibita e insicura, lo stemma della vostra famiglia rappresenta un leone, simbolo del coraggio”.
Ma Madonna Ordelaffi aveva sempre avuto paura di ogni cosa a lei ignota, dal tuono all’incendio, dal cervo selvatico all’ospite sconosciuto.
La paura è necessaria, Madonna. Ci  mostra le nostre oscure prigioni. Ma sta al coraggio portare la luce anche laddove sembra non essercene”.
Di colpo, Bianca aprì gli occhi.
Stava gridando.
Il vento aveva liberato la sua chioma dal cappuccio e ora le soffiava impetuosamente sul volto, mentre il cavallo correva verso il bosco che delimitava le campagne.
Spaventata, cercò di pensare a che cosa avrebbe fatto il Conte di Fontenera, ma non fu in grado di giungere a nessuna conclusione se non quella di farci sopra una risata e giocherellare con la sua spada.
Gridò di nuovo, pregando Dio affinché le concedesse la possibilità di sfuggire a quella situazione e riprendere – se mai l’aveva avuto – il controllo sull’animale.
Ma non fu di Dio, la voce che rispose a quel disperato appello.
« Tirate le briglie, Madonna! »
Accadde tutto così in fretta che Bianca non riuscì completamente a realizzare la successione degli eventi.
Tirò le briglie del cavallo più forte che poté, portando le mani al petto, e chiuse di nuovo gli occhi. Udì il cavallo nitrire e prendere una spinta verso l’alto, poi si sentì cadere nel vuoto, attratta dall’abbraccio che la terra stava per darle.
Atterrò su un tappeto di morbido terriccio, attutita dal’erba umida e fredda.
Quando si concesse di riaprire gli occhi, vide dinanzi a lei il cavallo rimettersi sulle quattro zampe dopo essersi alzato. Ripartì immediatamente verso la foresta, sparendo nell’oscurità e ben presto di lui si udì solo un nitrito lontano.
Affranta, Bianca rotolò sul fianco, affondando il volto nell’erba.
Le veniva da piangere.
Per un istante, desiderò sparire, non essere mai venuta a Firenze, non essersi mai messa in mente quella stupida idea di provare a scappare con le sue sole forze.
Aveva ragione, il Conte di Fontenera, a dire che non era in grado di combinare nulla, che aveva vissuto anche fin troppo a lungo in un mondo di soli libri e racconti, illusioni e sogni.
Provò a rialzarsi, ma non dovette fare fatica a tirarsi sulle ginocchia.
La mano inguantata del Conte la prese per i capelli e la alzò quasi fosse una piuma, costringendola a muovere il mento verso l'alto, mentre lo stiletto si avvicinava anche troppo rapidamente alla sua gola.
Al contatto con il metallo gelido dell’afilatissima arma, Bianca rabbrividì, ma non osò proferire parola, non osò nemmeno guardare nella direzione del Conte, restando immobile ad aspettare la sua fine con gli occhi chiusi e le labbra tremanti.
« Sapete, avete fatto una cosa davvero sconsiderata, Bianca ».
Il tono della sua voce adirata non era cambiato, negli anni. La ragazza poteva sentire il gelo uscire dalle labbra del Conte mentre esso le parlava.
« Vi siete presa fin troppe libertà ».
Lo stiletto premette sulla gola tesa di Bianca, la quale riuscì a superare il tremore, balbettando qualche supplica.
« V-vi prego », sussurrò, seppur tremante. « Non vi ho fatto niente di male! »
« Questo è corretto ».
Di colpo, la lama si allontanò da lei.
Bianca udì il Conte riporre lo stiletto nella cintura, muovendo qualche passo sull'erba.
Istintivamente, si portò le mani alla gola, spaventata.
« Ma è altrettanto corretto », continuò l’uomo, camminandole lentamente attorno. « Che voi, Madonna, avete messo in mezzo alle nostre questioni il Conte di Fontenera, costringendomi ad agire come ho agito ».
Fece una pausa, studiando con minuzia i lineamenti rigidi della ragazza.
« Non posso transigere su un simile comportamento ».
Bianca deglutì, immobile a terra, e, seppur involontariamente, diede il permesso a Riario di proseguire con il suo lento, studiato discorso.
« Quindi, vi darò due opzioni », le disse il Conte, sfoggiando il piccolo sorriso tipico di chi ha ormai vinto la partita. « Potete morire ora per mano mia e finire appesa come il caro Conte, oppure potete decidere di seguirmi di vostra spontanea volontà e venire a Roma in modo da garantire la vostra incolumità ».
La ragazza chinò il capo, lasciando che i suoi riccioli rossi le coprissero il viso.
Non voleva morire, ma di certo voleva nemmeno allontanarsi da Firenze e da suo marito.
Mentre, mordendosi il labbro, considerava le due opzioni, la mano del conte si tese verso di lei.
« Vi siete fatta male, Madonna? »
Bianca scoppiò a piangere e, seppur con riluttanza, prese la mano del Conte.

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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo - Musica a Corda ***


Lechatvert
Avvertenze: Poi non le metto più, giuro! Volevo solo inserire il link di questa canzone suonata interamente a chitarra da un mio web-insegnante che non arriverò mai ad emulare. Nella mia immaginazione, si tratta della melodia udita da Bianca.

Chiaramente, ognuno è libero di immaginarsela come più gli aggrada v.v

Siamo andati di stelline, quest'oggi voglio andare di cuori ♥ 
Enniente, nelle note non ho praticamente più nulla da dire, se non che mancano tre capitoli alla fine e siamo IN THE FINAL COUNTDOWN, PARAPARA PARAPAPPAPPAAAAA!
E' un momento importante, non ho mai finito una long prima d'ora e se dovessi riuscirci sarebbe una cosa degna di festa!

Oltre a questo, auguro una buona lettura a tutti, ringraziando con un biscotto chi ha recensito e recensirà, senza dimenticare chi segue e chi preferisce.
Siete davvero tantissimi 
 

Vi amo tutti 







Capitolo Ottavo
Musica a Corda



Arrivarono a Roma alle prime luci dell’alba, accolti dalla solita foschia accompagnata, stavolta, da una lieve pioggia primaverile. Gli alti profili della città eterna si stagliavano quella mattina verso un cielo grigio, trafitto dai sottili aghi d’acqua che scendevano a rinfrescare l’ambiente.
Silenzioso, Riario congedò il suo seguito con un gesto del capo al Capitano Grunwald e rimase solo ad osservare il cupo cumulo di abitazioni che Roma era diventata, contemplandone i contorni, immerso in chissà quale pensiero.
Aggrappata alle sue spalle, Bianca Ordelaffi dormiva, respirando piano e soffiando aria calda sul suo collo. Aveva passato la notte tra i singhiozzi, probabilmente sporcandogli il capotto con le sue lacrime, per poi addormentarsi così, senza un lamento, cadendo semplicemente vittima della stanchezza.
Per quanto ripudiasse l’idea di doversi preoccupare che la ragazza non cadesse da cavallo, il Conte aveva deciso di lasciarla riposare. In fondo, meglio addormentata che piagnucolante.
Così aveva cavalcato solo per almeno un’ora, in preda ai suoi pensieri e alle sue preoccupazioni. Si chiedeva, ad esempio, se il Santo Padre sarebbe mai venuto a conoscenza della presenza di Madonna Ordelaffi nella sua terra. Certamente nascondergliela sarebbe stata una mossa poco intelligente, oltre che di breve successo. Papa Sisto avrebbe scoperto tutto ancor prima che Bianca avesse potuto mettere piede a Palazzo Orsini, anzi, probabilmente ne era già stato informato.
Riluttante, si decise a svegliare la ragazza, muovendo leggermente la spalla per scrollarla.
« Svegliatevi, Bianca », le sussurrò. « Siamo giunti ».
La ragazza aprì svogliatamente un occhio, strofinando il naso sulla giacca del Conte come se avesse avuto a che fare con un asciugamano, e si guardò intorno con aria smarrita. Immediatamente, i suoi occhi verdi guizzarono lungo i profili della Città Eterna, studiandola, guardandola con la sorpresa di chi non l’ha mai vista.
« Devo dedurre che questa è prima volta che vedete Roma all’alba? », le chiese, allora, sottovoce.
Il colpo che Bianca gli aveva inferto la notte prima gli impediva di aprire completamente la bocca, bruciandogli un po’ quando si sfregava la guancia che, sebbene al tocco si fosse lievemente gonfiata, non sembrava rappresentare nulla di più delle ferite con cui il Conte aveva avuto modo di trattare in precedenza.
« Non trovate questa città sia di rara bellezza? »
Il viso di Bianca si strofinò –  ancora – sulla sua giacca.
« La trovo splendida ».
Il Conte annuì.
« Già. Anche io ».
Senza aggiungere altro, riprese in mano le briglie del suo cavallo, spronandolo a tornare sulla strada per proseguire verso Palazzo Orsini.
Come l’animale mosse uno zoccolo, la stretta di Bianca si fece più stretta addosso alle sue spalle, affondando nella carne con una forza quasi dolorosa.
« Avete paura, Madonna? »
« No, Conte ».
L’uomo si accigliò.
« Dovreste, invece. Bestie come queste possono essere molto pericolose, se cavalcate da una persona inesperta come voi ».
Fece una pausa, prendendo la strada nel cuore Roma dove, appena sotto il colle Vaticano, si ergeva Palazzo Orsini.
« Vi insegnerò a cavalcare, se vorrete ».
Bianca non rispose, limitandosi ad affondare ulteriormente il viso nella giacca.
« Lo prenderò per un no ».
Cavalcarono allora fino a Palazzo Orsini, mentre le strade venivano illuminate da un sole sempre più luminoso. La pioggia non si fermava, cadendo fine e discreta sul paesaggio. Era talmente silenziosa che quasi non bagnava, scivolando sul viso senza impigliarsi tra i capelli, senza impregnare gli abiti di quel fresco odore di umido.
Palazzo Orsini era silenzioso.
Gran parte della servitù era, probabilmente, ancora assopita. In assenza del padrone, i ritmi rallentavano, non vi erano merende, pasti sontuosi o incontri da preparare, si organizzava il lavoro senza dargli una vera e propria priorità, svolgendolo senza l’incombenza degli occhi del signore.
Riario non aveva dato nessun ordine circa il suo ritorno; non si aspettava, perciò, di trovare desto più dello stretto necessario della servitù.
E infatti, nel cortile non incontrò che lo stalliere, intento a pulire le strigliatrici con ritmo assonnato. Gli venne incontro, posando le spazzole a terra, e, mordendosi le labbra in segno di concentrazione, prese le briglie del cavallo del Conte, accarezzando immediatamente la bestia, per tenerla calma.
« Bentornato, Conte Riario », salutò, dopo aver finito di salutare il cavallo con lo stesso riguardo che una madre usa per salutare la figlia.
Riario gli lanciò un’occhiata stanca, prima di scendere da cavallo.
« Portalo nella stalla e nutrilo », rispose, passando oltre i convenevoli. « Voglio che riposi. Entro domani deve essere pronto a cavalcare di nuovo ».
Lo stalliere annuì, abbozzando un sorriso.
Mentre aiutava Bianca a scendere, Riario si chiese cosa poteva rendere così felice un ragazzino sporco di terra e bagnato fino al midollo. Di certo non la sua presenza o il fatto che, alle prime luci dell’alba, dovesse svolgere il lavoro di chi, il giorno prima, non aveva eseguito il suo dovere.
Di suo, l’unica cosa in grado di renderlo soddisfatto a quelle ore del mattino era vedere Bianca Ordelaffi finalmente a Roma e sapere, naturalmente, che il vantaggio che aveva su Firenze e su Leonardo da Vinci era ancora abbastanza da permettergli di agire con tutta la calma di cui aveva bisogno.
Divertito dalle ultime vicende, guardò Bianca ammutolita sotto la pioggia che cominciava a farsi insistente, coperta dal suo solo mantello color del mare.
Si leccò le labbra, facendosi pensieroso.
Lei non osava alzare gli occhi dal terreno.
« Madonna, prego, vogliamo entrare anziché stare qui a prendere la pioggia? », le disse, allora, illuminandosi. « Vi faccio strada ».
Le offrì il braccio destro e lei accettò, seppur con perplessità, avvolgendo con dolcezza le dita sottili attorno al suo gomito.
In silenzio, salirono la piccola scalinata che conduceva all’entrata, entrando nella calda anticamera del palazzo.
Bianca si guardava intorno con curiosità, nonostante il suo sguardo era colmo di paura. Era del tutto simile a un animale spaventato che poco a poco comincia a calmarsi, studiando l’ambiente.
Arrivati allo scalone centrale, Riario vide la sua serva avvicinarsi, discreta, con il capo chino in avanti.
« Bentornato, mio Signore », gli disse, facendo una piccola riverenza.
Riario la salutò con un cenno del capo.
Gli occhi dell’abissina si spostarono sulla guancia del Conte, il quale si affrettò a coprirla con il colletto della giacca. Non era il momento di valutare la gravità o meno di una ferita tanto piccola, tanto più visto che era statagli inferta da una donna assolutamente incapace di nuocere a una qualunque specie vivente.
« Portate Madonna Ordelaffi negli appartamenti che le ho fatto predisporre prima di partire », tagliò corto.
Poi si rivolse a Bianca, ancora intenta a guardarsi intorno, sempre più incuriosita da ciò che la circondava.
« Mia cara, mangiate e riposatevi », le disse, pacato. « Avremo tempo per parlare questa sera a cena. Vi prego soltanto di scrivere immediatamente a vostro marito, informandolo del vostro trasferimento a Roma. Il convento delle Orsoline accoglie e cura molte donne affette da patologie respiratorie. Credo fareste meglio a tranquillizzare Ezio Rangoni circa la vostre condizioni di salute, specificando che le sorelle si stanno prendendo cura di voi ».
Bianca gli rivolse allora un’occhiata carica di dolore.
Aprì la bocca come per protestare, poi si bloccò, spegnendosi. Sconfitta, chinò il capo, lasciando che i riccioli rossi le coprissero la fronte.
« Sì », mormorò, stretto tra i denti in un evidente tentativo di trattenere le lacrime.
Si allontanò in fretta assieme l’abissina, senza aggiungere altro e coprendosi il volto con le mani.
Riario la lasciò andare, togliendosi guanti e cappello con un sospiro.
Voleva soltanto raggiungere i suoi appartamenti e concedersi qualche ora di sonno senza essere disturbato da pianti, grida o convocazioni per qualche scambio di informazioni del tutto superfluo.
Sfiancato dal viaggio, camminò fino alla sua stanza da letto, buttando in malo modo giacca e camicia sul pavimento, poi si avvicinò alla specchiera, pulendosi il viso nel catino d’acqua che la servitù gli aveva preparato.
Rinfrescatosi, guardò il suo volto riflesso.
La porzione di guancia colpita dalla vanga da giardino si era gonfiata più di quanto si aspettasse.
Sbuffò, buttandosi a peso morto sul letto e accarezzandosi piano la pelle del viso. Una volta riposato, si sarebbe preso cura di quell’ematoma.





* * *

Bianca si svegliò di soprassalto con il viso affondato nel cuscino, ben avvolta tra le coperte calde e profumate del suo letto. Non ricordava quando o come si era assopita, ricordava soltanto una lunghissima cavalcata, le sue gambe dolenti, le palpebre che si sforzavano di restare aperte mentre scriveva la lettera a suo marito.
La lettera, già.
L’aveva consegnata all’abissina prima di mettersi a letto, chissà se era già partita alla volta di Bologna. Si era ripromessa di trovare il coraggio di chiedere al Conte Riario il permesso di scrivere altre lettere, un giorno, e, soprattutto, il permesso di leggere la risposta che Ezio si sarebbe sicuramente precipitato a mandarle.
Le avrebbe chiesto delucidazioni su quella malattia che l’aveva colta così all’improvviso, probabilmente le avrebbe chiesto di raggiungerlo il prima possibile, specificando che le avrebbe messo a disposizione i migliori guaritori … cosa rispondergli, allora? Raccontargli la verità? Non avrebbe sortito nessun effetto se non l’ira del Conte.
Combattuta, Bianca si alzò.
Dormire in un vero letto le aveva giovato. Era passato anche troppo tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto l’occasione di sdraiarsi su una superficie diversa dal marmo delle cantine del Verrocchio.
Si stiracchiò, guardandosi attorno.
Si trovava in una stanza da letto relativamente spaziosa, arredata da un semplice letto senza baldacchino, con un armadio in legno sulla parete accanto e una specchiera accanto alla porta. Vi erano inoltre due comodini e un’ampia finestra coperta da tende pesanti.
Bianca sorrise, fiondandosi a scostarle per spiare il paesaggio all’esterno.
Con sua sorpresa, ad attenderla trovò la notte.
Doveva aver dormito molto, tanto da saltare, oltre al pranzo, anche la cena. Si chiese come mai il Conte non l’avesse mandata a chiamare.
Pensierosa, si affacciò alla finestra, aprendola per apprezzare la brezza notturna sul volto.
Con sua sorpresa, però, l’aria non entrò sola, ma accompagnata da una lieve melodia, quasi impercettibile tanto era trasportata dal vento, proveniente con tutta probabilità dal piano di sopra.
Bianca provò a sporsi, ma non ne ottenne che la vista di un’ulteriore finestra lasciata aperta.
Si avvicinò quindi alla porta, sperando con tutto il cuore di non trovarla chiusa a chiave, e la tirò verso di sé, uscendo sul corridoio.
Doveva essere molto tardi, perché attorno a lei vi era soltanto oscurità e silenzio. Non una serva intenta a tirare le tende, non un rumore proveniente dalle cucine.
Bianca si domandò se fosse autorizzata a trovarsi lì, lontana dagli appartamenti ai quali era stata designata.
Guidata da una buona dose di curiosità, arrivò fino allo scalone centrale che aveva notato all’ingresso e, di nuovo, la melodia del piano di sopra la colpì.
Abbandonò ogni timore e salì i gradini uno alla volta, in silenzio e al buio. Si ritrovò così negli appartamenti padronali, popolati da quadri e opere di ogni autore, caldi e decisamente più accoglienti di quelli da dove proveniva.
La melodia era ormai chiaramente percettibile, quasi a dividerla dal corridoio di fosse una sola parete.
Bianca la seguì con indiscrezione, controllando ogni porta, ogni scalinata che si apriva sul corridoio.
Alla fine, trovò ciò che cercava; l’unica porta da sotto la quale passava la luce di un lume acceso. E, ovviamente, una musica lenta e studiata, suonata da uno strumento a corda.
Senza pensarci oltre bussò, appoggiando l’orecchio al legno.
La melodia cessò.
« Avanti ».
Bianca aprì la porta con cautela, venendo immediatamente investita da un delicato aroma di cannella.
Vide il Conte Riario seduto su una poltrona davanti alla finestra, una chitarra in mano, il suo sguardo scuro spuntare da dietro lo schienale.
Trasalì.
« Io … io … io non avevo idea », si giustificò, arretrando verso il corridoio. « Scusatemi, io non avevo nessuna intenzione di disturbarvi, credevo … ».
L’uomo le lanciò un’occhiata accigliata, dopodiché sospirò.
« Bianca, entrate », le disse.
Restia,  la ragazza fu costretta a tornare sui suoi passi, chiudersi la porta alle spalle e, maledicendosi mentalmente, raggiungere il Conte sulle tre poltrone disposte attorno al tavolo di pietra su cui dava bella mostra di sé una colorata coppa di frutta.
« Prego, accomodatevi », la invitò il Conte, mettendo da parte lo strumento musicale. « E favorite pure. Immagino sarete affamata; avete dormito tutto il giorno ».
Bianca non se lo fece ripetere due volte.
Annuì, poi si sedette di fronte al suo ospite e allungò la mano verso un grappolo d’uva, staccandone un acino e portandoselo alla bocca.
« Le mie scuse », rispose, dopo aver ingoiato il boccone. « Non era mia intenzione dormire così a lungo. Vi prometto che non succederà più ».
Il Conte accennò un sorriso, tirando gli angoli della bocca.
« Posso capire la vostra stanchezza, non ne sono affatto adirato », la rassicurò, prendendo a sua volta una mela dal cesto. « Tuttavia, mi chiedo cosa vi abbia spinta a venire fino a qui ora ».
Bianca alzò leggermente le spalle.
« Non sapevo suonaste uno strumento », ammise.
« Non lo suono, infatti. Ma talvolta mi capita di dilettarmi in questo genere di cose ».
« Mio padre era molto bravo. Purtroppo, non ha trasmesso il suo talento a me ma a mio fratello … »
L’espressione di Riario si schiarì un poco.
« Ricordo con chiarezza che voi eravate un’eccellente cantante », disse, restando serio. « E che dare prova delle vostri dote sonore vi piaceva molto ».
Bianca arrossì appena, chinando il capo.
« Ero molto giovane », si giustificò.
« Mh », concordò il Conte.
Per un istante, calò il silenzio.
Non fu un silenzio imbarazzante, fu semplicemente una pausa in cui Bianca poté realizzare che, dopotutto, la speranza non la aveva ancora abbandonata. C’erano cose buone anche a Roma, alla fine dei conti.
Si sporse quindi in avanti, afferrando un altro acino d’uva.
« Suonate per me », propose, sorridendo.
Il Conte la guardò, stranito.
« Prego? »
Lei alzò le spalle.
« Ezio suonava per me tutte le sere », spiegò. « Avanti, anche una sola canzone. Ve ne sarei così grata! »
« Non ne sarei in grado. Suono assai di rado ».
Bianca non mollò.
« Neanche i gigli filano o tessono », incominciò, convinta. « Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva bene come uno di loro ».
A quelle parole, il Conte la guardò, stupito.
« Non sapevo aveste studiato il Vangelo ».
« Non l’ho fatto », rispose Bianca. « Mi è capitato di leggerlo, ne ricordo ogni parola. Specialmente di quello secondo Luca ».
Riario si accigliò.
« E ricordate altro? »
« Ogni cosa, Conte. Ogni cosa letta con sufficiente attenzione ».
Lui la guardò, apparentemente stranito da quell’affermazione.
Bianca s’imbronciò un poco, guardandolo dal basso verso l’alto con uno sguardo di pura supplica.
« Avanti, suonatemi qualcosa! », lo incitò, ancora.
L’uomo le concesse un’alzata di occhi, mentre la mano andava a recuperare lo strumento abbandonato ai piedi della poltrona.
E suonò per lei una canzone, poi un’altra, e andò avanti per quasi tutta la notte, finché ella non cadde addormentata, raggomitolandosi sulla poltrona.
Allora il conte staccò le dita dalle corde, si alzò e chiamò la servitù per far sì che Madonna Ordelaffi potesse tornare a dormire nei suoi appartamenti senza svegliarsi.


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Capitolo 9
*** Capitolo Nono - La Biblioteca Nascosta ***


Lechatvert
Oggi userò le picche. Ciao, picche

Mancano due capitoli, due! ♠ 
Sono troppo contenta
Non ho molto da dire; aspettavo di scrivere questo capitolo da tantissimo tempodnmidjwqodjw!

Come sempre, buona lettura a tutti, in particolare a chi ha recensito e recensirà <3 Grazie, ragazza/e/i/o/u!

Vivogliobenissimissimo ♠ 







Capitolo Nono
La Biblioteca Nascosta



Il giorno seguente, Bianca spese l’intera mattinata china sullo scrittoio a scrivere un’ulteriore lettera a suo marito nella quale, stavolta con maggiore premura, dava più informazioni circa il suo fittizio stato di salute, circa la cortesia delle sorelle, circa la bellezza del convento del quale era ospite. Si sorprese inaspettatamente brava nel mentire, almeno per via epistolare, cosa che la fece rimanere preda dei sensi di colpa e che, durante il pranzo, la costrinse a giocherellare con il cibo in un tombale silenzio.
Il Conte, dal canto suo, non si era mimicamente interessato dell’improvviso ammutolire della sua ospite, portando avanti il pasto con moderato appetito, senza cercare in alcun modo di aprire una discussione.
Le aveva semplicemente augurato il buongiorno e, raccomandandosi di passare un pomeriggio all’insegna della tranquillità e soprattutto senza farsi problemi a rivolgersi alla servitù, si era ritirato nei suoi uffici, chiudendosi la porta alle spalle e cessando di dare ogni segno di vita.
Bianca era quindi rimasta sola, persa in quel labirinto di stanze e corridoi che era il suo appartamento, in compagnia di un pennino e dell’ultimo foglio di carta rimastole.
Aveva addosso una gran tristezza, ma, per qualche strana ragione, le era passata la voglia di piangere. Sapeva che una vera signora non si mostrava debole in pubblico, e soprattutto non voleva in alcun modo disturbare il Conte, fin troppo timorosa di quella che sarebbe stata la sua reazione.
Così, si era costretta a restarsene chiusa nella sua stanza da letto, pancia all’aria sul materasso, cercando di far passare il tempo immaginando il suo ritorno da Ezio.
Sicuramente lui l’avrebbe accolta a braccia aperte, stringendola a sé come era solito fare quando, per un motivo o per l’altro, non potevano vedersi per più di un giorno. Poi l’avrebbe condotta nella biblioteca di Palazzo Rangoni, facendola accomodare su una delle poltrone della sala e, sedendosi accanto a lei, le avrebbe letto una storia da uno dei suoi libri. Lei si sarebbe addormentata lì, cullata dal suono magico delle parole messe in fila a creare un racconto, seguendo il flusso delle gesta di qualche lontano eroe in cerca d’amore.
Aprì gli occhi, fissando il soffitto decorato con lievi tinte ocra.
Aveva una gran voglia di leggere.
Che a Palazzo Orsini vi fosse una biblioteca grande come quella di Ezio? Sperò tanto di sì.
Si alzò, curiosa, aprendo la porta della sua stanza. Il corridoio davanti a lei era deserto, le voci della servitù lontane, concentrate al piano di sotto.
Per lei, quello fu più che un invito.
Si fiondò su per le scale che la sera prima aveva percorso seguendo la musica, precipitandosi alla prima porta che incontrò dinanzi a sé quando si trovò al piano superiore.
Appoggiò la mano alla maniglia, traendo un profondo respiro. Nonostante il Conte Riario si fosse raccomandato di non farsi mancare nulla, sapeva che il suo curiosare per Palazzo Orsini non era né consono né tantomeno giustificabile.
Si guardò ancora attorno, facendosi circospetta.
Nessuno in avvicinamento.
Stando attenta a non fare rumore, abbassò la maniglia e sbirciò all’interno della stanza.
Vuota. Vi era soltanto un vecchio clavicembalo, addossato alla parete opposta all’entrata.
Bianca sospirò.
Aveva appena commesso un’irrimediabile mancanza di rispetto.
Affranta, richiuse la porta alle sue spalle e tornò sul corridoio, pensierosa. Doveva poteva essere nascosta, una biblioteca?
Adocchiò una seconda porta, e stavolta i sensi di colpa furono immensamente minori, quando si scoprì ad aprirla.
Si ritrovò davanti ad un armadio a muro, riempito di vecchie vesti e mantelli scoloriti dal tempo. Non appena l’odore di chiuso la raggiunse, la ragazza chiuse anche quella porta, arricciando il naso.
Quando aprì la terza, un altro mondo le si aprì dinanzi. Vi era un ulteriore appartamento, completamente vuoto, della cui esistenza non aveva minimamente idea. Un’intera serie di stanze e sale vuote, librerie impolverate, letti e materassi sporchi. Della biblioteca, però, neanche l’ombra.
Tornò sui suoi passi, scegliendo un ulteriore uscio al quale affacciarsi.
Capitò così in un’ampia stanza, ben illuminata dalla luce che entrava dalle finestre, circondata da librerie su cui erano stati impilati decine e decine di volumi. Al centro dello spazio vi erano due poltrone, entrambe rivolte verso il caminetto spento e servite di un tavolino di marmo. Accanto a una delle librerie, vi era persino un cesto colmo di carte geografiche finemente arrotolate e catalogate con un cartellino.
Estasiata, Bianca si avvicinò a una serie di volumi, osservandone i titoli. Erano quasi tutti trattati scientifici, alcuni promettevano di narrare degli astri, altri della vita. Altri ancora parlavano d’arte, alcuni di letteratura, ve ne erano persino alcuni dedicati allo studio della botanica.
Non riuscì a trattenere la mano, che andò dritta ad accarezzare il dorso di uno dei volumi.
Stava per prenderlo in mano, quando un colpo di tosse la fece sobbalzare.
Spaventata, si voltò.
Proprio accanto a lei, sulla destra, vi era un particolare che doveva esserle sfuggito. Una scrivania in legno, anche abbastanza ingombrante, sulla quale erano sparse numerose lettere. Alla scrivania era seduto il Conte Riario, intento a fissarla, stranito, con ancora un documento tra le mani.
Per un istante, Bianca temette di sentire le gambe cedere.
« Co … Conte », balbettò, affrettandosi a staccare le dita dai libri. « Io, io credevo di aver trovato la biblioteca! »
L’uomo la osservò in silenzio per qualche secondo, lasciandosi scappare un sospiro.
« È la seconda volta, da quando siete arrivata, che fate irruzione nelle mie stanze », fece notare. « Devo dedurne che l’educazione non vi sia stata insegnata poi tanto bene, a Forlì ».
Detto questo, si chinò nuovamente sul suo lavoro, scribacchiando qualcosa su un foglio.
Bianca sbatté le palpebre, sorpresa da tanta indifferenza.
« Le mie scuse », farfugliò, stringendosi nelle spalle. « Cercavo soltanto qualcosa da leggere ».
Riario non staccò gli occhi dalla scrivania.
« Troverete qualcosa di più consono alla vostra persona nella biblioteca », rispose, muovendo la mano destra verso l’uscita. « Ora, andate. Ho del lavoro da fare ».
Seppur sorpresa, la ragazza si sforzò di fare un inchino e lasciò l’ufficio in silenzio. Non si aspettava un simile trattamento, non dopo la maniera in cui Riario l’aveva trattata per portarla fino a Roma.
Sospirando, si ritrovò a percorrere di nuovo il corridoio, ormai vicina alle scale. Ne osservò i gradini, bianchi e lucidi, salire verso l’alto, e, quasi senza rendersene conto, cominciò a percorrerli, sempre più in fretta, fino a quando non si trovò alla fine, all’ultimo piano di Palazzo Orsini.
Un lungo e buio corridoio le si apriva davanti, illuminato appena dalla luce del pomeriggio.
Deglutendo, Bianca si decise a muovere un passo verso il vuoto.
Aveva trovato un armadio, degli appartamenti vuoti, un vecchio strumento a corda. Ciò che l’attendeva lì non poteva poi essere tanto diverso.
Ascoltando le assi del pavimento scricchiolare sotto i suoi passi leggeri, si avvicinò rapidamente all’ultima porta, quella in fondo al corridoio, appoggiando la mano sulla maniglia gelida.
Non ci pensò due volte.
Dall’altra parte di quel muro di legno, trovò una sala enorme, decorata su ogni sua parete con motivi d’oro e d’argento, resa elegante dalle ampie finestre che davano sul giardino  e da un maestoso caminetto di marmo.
Bianca ne rimase incantata.
Ne osservò ogni dettaglio, correndo dal caminetto alle finestre, spostando le tende e spolverando i piccoli specchi che vi erano sulle pareti accanto ai portalumi.
Si trovava in una sala da ballo.
Pensierosa, si chiese chi avrebbe fatto costruire una sala da ballo come quella nei meandri di Palazzo Orsini.
Poi la notò.
Una piccola porta di legno, discretamente disposta sul lato opposto delle finestre, rimasta socchiusa per chissà quanto tempo, quasi aspettasse Bianca per invitarla al suo interno.
Per la ragazza non fu che l’ennesimo invito.
Vi si avvicinò piano, cauta, spingendone piano la superficie ruvida per sbirciare all’interno della sala.
Quando fu abbastanza vicina da entrare con la testa, un intenso profumo di carta l’avvolse.
Lei sorrise.
Si sentiva a casa.




* * *

Riario entrò nella biblioteca che era ormai sera. Avvertiva su di sé un lieve senso di stanchezza, sicuramente dato dall’enorme carico di lavoro di quel pomeriggio, ma, allo stesso tempo, anche una piacevole di sensazione di libertà. Non vedeva l’ora di mettersi a letto, ma prima voleva assicurarsi che Bianca Ordelaffi non stesse combinando qualcosa, non stesse, insomma, escogitando un qualche piano di fuga.
Teneva alla sua libertà quasi quanto alla sua prigionia e il solo fatto di non averla avuta sotto controllo per tutto il pomeriggio gli aveva causato un senso di languore, di insoddisfazione, che non aveva alcuna voglia di portarsi tra le lenzuola.
Raggiunse quindi la ragazza in biblioteca con poca o nulla voglia di discorrere, accompagnato soltanto dalla fiamma di una candela.
La trovò intenta a leggere su una poltrona, schiena dritta, sguardo immerso nelle pagine. Accanto a lei, vi era una pila di libri quasi più alta delle librerie.
Lui la guardò, accigliandosi.
« Non trovate esagerato, rinchiudersi qui per tutto il giorno? », chiese, avvicinandosi.
Bianca gli rivolse uno sguardo stupito. Stavolta, nei suoi occhi non vi era paura, soltanto sorpresa.
« Le mie scuse, Conte Riario », rispose lei, accennando a un sorriso. « Ma restare nei miei appartamenti mi annoiava terribilmente. Inoltre, avete decine e decine di letture interessanti, qui ».
Lui alzò appena le spalle.
« Non vi siete nemmeno presentata a cena ».
Bianca si imbronciò un poco.
« Le mie scuse », mormorò. « Ero talmente assorta nella lettura … »
Riario non la lasciò finire, accomodandosi sulla poltrona al suo fianco e posando la candela sul tavolino.
« Quanti libri avete letto? »
Bianca arrossì.
« Tredici ».
« Tredici? E non siete stanca? »
Lei scosse il capo, chiudendo il volume che aveva in grembo dopo aver infilato un foglio piegato tra le pagine.
« Assai di rado mi capita di poter passare così tanto tempo in una biblioteca. Quando posso permettermelo, cerco di approfittarne ».
Riario annuì, sinceramente interessato. Un tempo aveva amato passare le nottate sveglio a studiare, ma erano passati anni da quando gli era permesso farlo, ora era talmente indaffarato che era obbligato a cogliere quegli unici momenti di stacco come la notte come un’occasione per riposare e rimettersi in forze.
« Condivido il vostro punto di vista », disse, quindi, mentre il suo sguardo vagava veloce tra gli scaffali. « Tuttavia, mia cara, ora vi suggerirei di andare a riposare. Il Santo Padre ha chiesto di voi. Sarà mia premura portarvi da lui, domani, così che possa conoscervi ».
Con uno sguardo, Bianca perse quel poco di colorito che aveva sulle guance.
Guardò Riario in viso, schiudendo appena le labbra con fare impensierito.
L’uomo si accigliò, spostando lo sguardo su di lei.
« Qualcosa non va? », chiese.
La ragazza respirò a fondo, sporgendosi appena in avanti.
« Conte », chiamò, scuotendo il capo. « Io non credo di essere pronta a incontrare il Santo Padre ».
Riario assottigliò lo sguardo, scrutandola con minuzia. Le si leggeva la paura negli occhi.
« Vi prego, lasciatemi qui, domani. Vi sarei soltanto d’intralcio, a Roma ».
La fissò, ancora, mentre ella abbandonava il suo libro per aggrapparsi con le dita sottili al bracciolo della poltrona.
In un istante le fu addosso.
Il volume cadde a terra con un tonfo sordo, mentre le dita del conte si facevano attorno all’esile collo della ragazza, che lo guardava atterrita, affondando nello schienale sotto la sua presa ferrea.
« Fareste bene a tenere a mente quali sono i vostri doveri, qui », sibilò lui, avvicinandosi all’orecchio della fanciulla. « Madonna Ordelaffi, non siete altro che un chicco di grano per il Santo Padre », le sussurrò, guardando nel vuoto. « Se fossi in voi, non cercherei di sfidare oltre la sua pazienza ».
Le lasciò il collo, scostandosi appena per permetterle di alzarsi.
« Andate », la esortò. « Domani non possiamo fare tardi ».
Silenziosa, Bianca si drizzò in piedi, portandosi una mano al collo e affrettandosi a lasciare la biblioteca.
Gli rivolse un’occhiata impaurita, prima di sparire nell’oscurità del corridoio.
Pensieroso, Riario prese il posto della ragazza sulla poltrona.
Si guardò attorno per un istante, esaminando i titoli scelti da Bianca. Si trattava per la maggior parte di romanzi, canti e lodi cavalleresche.
Silenzioso, raccolse anche il libro caduto sul pavimento. Una copia vecchia e logora del Decamerone, di cui avrebbe fatto bene a liberarsi.
La aprì, osservando il singolare segnalibro della ragazza. Un ritratto del suo volto abbozzato di fretta su un pezzo di carta stropicciata, a cui era però stato aggiunto del colore per rendere i capelli di quella figura del tutto simili a quelli della sua parte reale. Anche il volto del disegno, era macchiato di rosso.
Riario sorrise, passandosi la lingua sulle labbra secche.
Quella macchia dalla curiosa tonalità, assomigliava del tutto e per tutto a quella che spiccava sul volto di Bianca il giorno in cui era precipitata dalla collina.

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Capitolo 10
*** Capitolo Decimo - Promesse non Mantenute ***


Lechatvert
Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, quindi direi di saltare i convenevoli e rimandarli a tra qualche giorno, nell'occasione dell'ultimo saluto. *sigh*
Intanto vorrei scusarmi del salto temporale che noterete. Mi ero ripromessa di concludere in sette capitoli e siamo già fuori tempo, capitemi!
Ringrazio poi tutti quelli che si sono fermati a leggere e a commentare, siete davvero in tanti e sarà mia premura salutarvi tutti in occasione dell'ultimo capitolo.

Grazie!

Vivogliobenissimissimo







Capitolo Decimo
Promesse non Mantenute



La luce di una calda giornata primaverile illuminò le pagine di un libro lasciato all’aria aperta, mentre la brezza ne sfogliava le pagine miste ai fili d’erba del prato.
Rapida, Bianca lasciò il tavolino all’ombra di Palazzo Orsini per raggiungere la sua lettura nel bel mezzo del giardino e, armata di un bicchiere di succo di limone, si risedette con grazia sulla coperta per poi riprendere la sua lettura al sole.
Prese un sorso della bevanda appena tolta dalla ghiacciaia e si preparò ad immergersi nuovamente in quel nuovo romanzo che il Conte le aveva portato da Firenze. Venne però interrotta proprio da quest’ultimo, di ritorno da un recente viaggio a Imola, quando egli si affacciò al cortile con tutta l’intenzione di spiarla leggere.
« Conte! », lo chiamo allora, felice, lasciando ancora una volta il suo libro per correre incontro all’uomo. « Siete tornato! »
Lui la scrutò a lungo da dietro ai suoi occhiali dalle lenti scure, poi abbozzò un piccolo sorriso.
« Vedo con piacere che avete preso un po’ di colore, Bianca », le disse, accennando alle sue guance di solito pallide. « Leggere all’aperto vi fa bene ».
Lei sorrise.
« Siete stato via così a lungo che ormai mi stavo cuocendo, là sotto », si lamentò, seppur con tono dolce. « Ho finito il vostro libro ».
Riario le rivolse un sorriso storto.
« Leggete troppo in fretta, Madonna », commentò.
Bianca si imbronciò un poco. Lo sapeva, chiunque l’avesse vista alle prese con una biblioteca non faceva che ripeterglielo, ma non ci poteva fare nulla. Era come chiedere a un coniglio di saltare più in basso, come chiedere a un falco di volare più in basso.
Imbarazzata, portò le mani all’altezza del grembo, sistemandosi le pieghe dell’abito. Quel giorno era vestita di azzurro, con un vestito fresco di sartoria che il Conte le aveva fatto confezionare su misura esattamente come lei l’aveva voluto. Era pieno di pizzi e merletti, con la gonna a balze e il colletto ricamato con delle perline. Da quando aveva avuto modo di indossarlo per la prima volta, quello era diventato il suo abito preferito.
Aveva passato gli ultimi cinque mesi a Palazzo Orsini, continuando a mentire a suo marito circa il suo stato di salute, continuando a vivere con i sensi di colpa, oltre che con la consapevolezza di prendere in giro l’uomo che più di tutti le era stato accanto. Ma aveva imparato a sue spese a sopravvivere in una città come Roma, costantemente in bilico tra le cortesie e la rabbia del Conte Riario. Soddisfarlo non era difficile, in fondo bastava adeguarsi a ogni sua piccola richiesta e accettare chinando il capo. Se si comportava bene, poi, Bianca veniva letteralmente coperta di riguardi, come il dono di un libro o di un abito, oppure una passeggiata sulle vicine rive del Tevere.
Non era arduo, era soltanto questione di adeguarsi e, naturalmente, di imparare a calibrare bene ogni parola e ogni gesto.
Di rado il Conte aveva alzato ancora le mani su di lei. Dopo la sera in cui si era rifiutata di fare visita al Santo Padre, non era capitato che in poche occasioni che Riario passasse alle mani per costringerla a seguire il suo volere. Bianca aveva imparato ad eseguire gli ordini mascherati da proposte senza ribadire e da allora non ne aveva tratto che pace e serenità.
Sentiva ancora la mancanza di Ezio, ma si riservava il diritto di piangere la lontananza la sera, una volta chiusa nella sua stanza da letto.
Scacciò con un sorriso quei pensieri, scrollando il capo.
Dopotutto, il Conte non era un uomo cattivo e lei non voleva turbarlo con le sue pene.
Lo guardò, senza soffermarsi troppo su quegli orribili occhiali dalle lenti scure che lui sembrava tanto amare.
« Vogliamo accomodarci per un tè? », propose, quindi, allargando il braccio verso il cortile. « Dovete essere esausto ».
L’uomo le rispose con un sospiro.
« Avete colto nel segno, Bianca », concordò, facendo strada e porgendo il braccio alla ragazza. « Cavalcare da Imola a Roma è tutt’altro che giovante ».
Si sedettero attorno a un tavolino di marmo all’ombra di un grande cipresso, circondati dalla tranquillità del giardino.
« Avete trovato qualcosa di vostro diletto, durante la mia assenza? », si informò il Conte, mentre con la mano faceva segno ai suoi servitori di portare il tè.
Bianca alzò le spalle.
« Ho completato la lettura del libro che mi avete donato … tre volte », ammise. « Ah, e ho scritto un racconto, l’altra sera ».
Il Conte attese che la sua serva versasse l’acqua calda nelle tazze, prima di chinare il capo con aria solenne.
« I miei complimenti », disse, poi. « Mi piacerebbe leggerlo ».
« Ne sarei onorata ».
La guardò per un istante, poi si decise a mettere uno spicchio di limone nella tazza e a girare la bevanda con il cucchiaino.
« Vi ho portato un dono da Imola », confessò, infine.
Il volto di Bianca si illuminò.
« Davvero? », chiese, sciogliendosi in un sorriso pieno di gratitudine.
Riario annuì.
« Un libro. Non credo lo abbiate mai letto e, invero, confido sia abbastanza spesso da tenervi occupata per un giorno o due ».
La ragazza abbassò lo sguardo sulla tazzina.
Avrebbe cercato di far durare di più quella lettura, ma a Palazzo Orsini era difficile. Con Ezio c’era sempre qualcosa da fare. Lui le raccontava delle storie, la lasciava in compagnia del Conte di Fontenera quando andava a caccia, le suonava il clavicembalo, si faceva letteralmente in quattro perché ella non restasse un solo istante senza far niente. Aveva premura che sua moglie si ambientasse, che si sentisse davvero a casa, cosa che Riario aveva dato per scontato, scrollandosi quel peso di dosso con un semplice “sentitevi libera di comportarvi come a casa vostra”.
Dietro ai sorrisi che Bianca rivolgeva al Conte, quindi, vi era soltanto una piccola parte di felicità posta a coprire la mancanza di casa. Perché, per quanto egli si sforzasse di definire Palazzo Orsini casa, e per quanto la ragazza avesse provato a imporselo, il senso di appartenenza a Palazzo Rangoni non se ne era mai andato.
Con aria affranta, sistemò uno spicchio di limone nella tazzina, mescolando in silenzio.
Riario le lanciò un’occhiata disinteressata.
« Qualcosa non va, mia cara? »
Lei scosse il capo.
« Nulla, ricordavo soltanto Palazzo Rangoni ».
« È passato molto dalla vostra ultima lettera a vostro marito. Fareste bene a scrivergli per rincuorarlo ».
Il viso di Bianca si illuminò, restando comunque un po’ avvolto dalla paura.
« Dite davvero? », chiese, stupida.
Il Conte annuì.
« Messer Rangoni finirà per preoccuparsi ».
Bianca non se lo fece ripetere due volte.
Abbandonò immediatamente il tè e il servizio, saltando tra l’erba e diretta verso i suoi appartamenti. Aveva così tante cose da raccontare ad Ezio, così tante frasi da scrivergli, così tante emozioni da descrivere. Era passato poco, dall’ultima lettera, eppure non vedeva l’ora di poter ricevere risposta. La carta di Palazzo Rangoni aveva l’odore di casa sua.
« Vi ringrazio, Conte! », trillò, rivolgendo all’uomo ancora seduto un ultimo sorriso.
Corse poi a perdifiato fino alle sue stanze, senza curarsi di Riario, rimasto solo al tavolino del tè. Non si curò proprio di nessuno fino a che l’ultima lettera non schizzò fuori dal suo pennino.
In quei rari momenti non c’era nessuno, attorno a lei. C’era solo Ezio, perso a fare chissà cosa chissà dove, magari proprio intento a pensarla.




* * *

« Vorrei tornare a Palazzo Rangoni ».
Basito, Riario alzò il capo dalla sua scrivania. Fissò l’esile figura di Bianca, in piedi sulla porta, le mani congiunte in grembo, lo sguardo color oliva fermo sulla stanza.
« Per favore », continuò.
Lui tornò al suo lavoro.
« Credevo ne avessimo già parlato », rispose semplicemente.
Vi fu un istante di silenzio.
Bianca mosse un passo avanti, senza azzardarsi comunque a raggiungerlo alla scrivania. Pareva sapere anche troppo bene cosa sarebbe successo se avesse insistito troppo.
« Esaudite il mio desiderio, Conte », lo implorò. « Una volta soltanto, poi non mi allontanerò più da Roma, ve lo giuro. Per favore, fatemi rivedere mio marito ».
Aveva assunto un tono crucciato, particolarmente triste.
Riario non si fece impietosire.
« Avvicinatevi, Madonna », la esortò invece, indicandole una sedia accanto a quella su cui era seduto. « Voglio mostrarvi una cosa ».
Bianca si fece riluttante, ma si costrinse a raggiungere l’uomo al di là della scrivania.
Silenziosa, avanzò verso la fine dello studio, prendendo infine posto accanto al Conte. Era ammutolita, letteralmente scolorita.
Riario allungò la mano su tutti i documenti sparsi sul tavolo.
« Questo è ciò di cui mi occupo ogni giorno », spiegò, pacato. « Quando mi prendo cura dei miei averi più lontani. Li amministro, li investo, li faccio crescere. Come vedete, i miei possedimenti a Roma non richiedono uno sforzo così grande ».
Fece una pausa, leccandosi le labbra secche.
« Tuttavia, se si dovessero spostare da qui, tutto ciò comporterebbe un enorme aumento del mio già consistente carico di lavoro. Allo stesso modo, Bianca, se voi doveste assentarvi da Roma per qualche tempo, sono certo mi costringereste a stare alzato un’ora in più la notte per amministrare con saggezza i vostri spostamenti ».
Si voltò verso la ragazza, cercando comprensione, ma a trovarlo vi furono solo due occhi carichi di angoscia.
« Bianca, usate la testa », la esortò, quindi, senza perdere la calma. « Sarebbe soltanto un inutile dispendio di energie e di– »
Non terminò la frase che si ritrovò il viso chiuso tra le mani gelide della ragazza. La vide avvicinarsi velocemente e, prima che riuscisse a ribellarsi in qualche modo, le sue labbra si trovarono incollate a quelle di lei, in un freddo quanto sgradito bacio.
Non ebbe la forza di staccarla se non quando fu lei stessa ad allentare la presa sul suo viso, guardandolo con sguardo vitreo, addolorato.
« Lasciatemi vedere mio marito per l’ultima volta », supplicò, iniziando a singhiozzare. « Poi sarò vostra, ve lo giuro ».
Riario non riuscì a trattenersi.
La sua mano volò veloce sulla guancia di Bianca nel tentativo di zittirla, facendola cadere di lato con un gemito di sordo dolore.
« Vi sbagliate se pensate che mi importi possedere una donna che in dieci anni di matrimonio non è stata in grado di partorire nemmeno un figlio », sibilò, cercando di ricomporsi. « Francamente, non saprei che farmene di voi ».
La guardò ansimare a terra in preda alla paura, mentre lui si alzava per recarsi nei suoi alloggi dove avrebbe trascorso la notte.
« Non siete più di un animale da compagnia, Bianca », spiegò, allontanandosi. « Una gioia da vedere quando è felice, ma niente di più. Rassegnatevi, la sola compagnia che riceverete da vostro marito sarà quella portata dalle lettere ».
E, detto questo, lasciò lo studio chiudendosi la porta alle spalle.
Dal corridoio, udì i pianti della ragazza, ma non fu sua intenzione quella di andare ad aiutarla nel rialzarsi dal pavimento.
Doveva capire che le cose, a Palazzo Orsini, non sarebbero cambiate più di quanto lei non avesse già avuto modo di sperimentare.

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Capitolo 11
*** Capitolo Undicesimo - Di lei era rimasto solo il ritratto ***


Lechatvert
...duuuuuuuuuunque.
Ci siamo. Ho finito. Sono arrivata all'ultimo capitolo, sfidando la maturità, un fidanzato geloso e il sonno. Ho finito, la fanfiction è conclusa. Wow, ancora non ci credo.
Come promesso, quindi, passo ai saluti più o meno ufficiali.
Voglio farvi sapere innanzitutto che siete stati tantissimi a seguirmi, molti più di quelli che mi aspettavo.
Siete stati tanti e tutti gentilissimi, sia con l'aggiunta ai preferiti/seguiti che con le vostre splendide parole nelle recensioni. Senza di voi, non saprei proprio come avrei fatto.
Oggi questa avvenuta in compagnia di Bianca finisce, ma è inutile che vi dica quanto speri possa continuare, un giorno, nelle vesti di un altro personaggio, nei profumi di una nuova storia. Spero di avervi ancora con me, allora ♥
Per ora, mi limito a ringraziare ancora tutti quanti, da Jess alla frugola Eagle, che mi sopportano assieme alle altre ragazze dello Smatto Rinascimentale. Ringrazio anche Giulia, che fidata è sempre corsa a recensire anche dalla sua vacanza. Dove sarei, ora, senza di voi!
Bene, ho davvero finito.
Sono contenta, in un certo senso, di poter dare pace a Bianca dopo aver salutato tutti. Vi auguro quindi una buona lettura e, possibilmente, alla prossima!

Vi mando un bacio grande quanto il mare ♥

Un'ultima cosa, che ritengo importante: nel testo vi sono tre citazioni nascoste, tanto per mettere alla prova chi legge. La prima è un tributo alla magnifica Virginia Woolf, autrice ma soprattutto donna che mi ha ispirata. E' stata citata sia in una particolare frase che in una particolare azione. La seconda citazione è nascosta nel testo di una canzone a mio parere molto azzeccata con la storia e con questo capitolo. La terza e ultima citazione è un po' più fine, dedicata al mio grande maestro, Saba, che, mi dicono, andava pazzo per sua moglie.







Capitolo Undicesimo
Di lei era rimasto solo il ritratto


Bianca Maria Ordelaffi lasciò Palazzo Orsini alle prime luci dell’alba, portando con sé soltanto le vesti in cui era avvolta. Nell’intenzione di non dare nell’occhio, aveva abbandonato anche il mantello.
Quella notte non aveva dormito, passando le ore di buio raggomitolata sotto le coperte a realizzare che, per come si erano messe le cose, non vi era più via d’uscita per lei. Certo, avrebbe potuto cercare l’appoggio di uno dei servitori del Conte e affidargli una lettera in cui avrebbe raccontato tutta la verità a suo marito, ma poi? Ammesso che fosse riuscita a convincere qualcuno ad aiutarla, Ezio cos’avrebbe potuto mai fare contro Roma?
Allo stesso modo, non si sentiva in grado di chiedere aiuto ai Medici. Firenze aveva già i suoi problemi, a cui badare, senza che vi si mettesse anche l’ormai caduto casato degli Ordelaffi a complicare la situazione.
Il Conte era stato bravo, a legarle le mani.
Silenziosa e sormontata da tutti quei pensieri, la ragazza scivolò lungo le mura del Palazzo, pregando di non essere vista dagli uomini capaci di fermarla come, per esempio, il Capitano Grunwald. Non le importava invece che la servitù la notasse nel cortile a quell’ora. Voleva che il Conte sapesse dov’era andata, voleva, in un certo senso, che fosse in grado di seguirla fin dove ne sarebbe stato capace.
Arrivata fuori dalle mura del palazzo, si fermò, osservandone le mura scrostate.
Con dita tremanti scavò sul gesso, ricavandone una prima pietra. La guardò, mostrando un piccolo sorriso, e la ripose nella tasca del suo vestito, accarezzandone con affetto la stoffa.
Era lo stesso abito che aveva indossato il giorno prima, quando il Conte era tornato a casa. Era lo stesso che aveva indossato quando il Conte l’aveva picchiata di nuovo. Adesso, sarebbe stato lo stesso abito con il quale avrebbe conquistato la sua libertà.
Si allontanò in fretta da Palazzo Orsini, raccogliendo qua e là sulla strada qualche pietra per arricchire la collezione che si stava lentamente formando nelle sue tasche, e non si fermò finché non le vide strabordare, allorché iniziò a riempire le maniche a sbuffo.
Man mano che la sua prigione rimaneva alle sue spalle, un lieve senso di leggerezza e libertà si infilava nel suo animo, prendendo sempre più spazio, riempiendo sempre di più quel vuoto che gli ultimi mesi erano stati per lei e per la sua felicità.
Si sentiva spensierata come quando, ignara di tutto, aveva lasciato Ezio per partire alla volta di Firenze assieme al Conte di Fontenera, come quando, nella bottega del Verrocchio, artisti come Messer da Vinci l’avevano presa come modello per il colore dei suoi capelli, come quando il Conte l’aveva fatta felice regalandole un libro, come quando aveva scoperto la biblioteca nascosta di Palazzo Orsini.
Di quegli ultimi mesi, ricordava ogni risata, ogni piccolo, effimero momento passato assieme alla felicità. Ricordava l’odore del bosco e la risata di Levi, il freddo del marmo, lo sgradevole odore dell’armadio guardaroba trovato durante la sua prima esplorazione.
Mentre camminava, si perse in quel turbine di memorie, fatto di emozioni, ma anche di odori, di sguardi, di sensazioni fredde che si aggrovigliavano con quelle più calde e insieme formavano in lei una ventata di speranza, di felicità.
Quasi ridendo come un tempo faceva durante le sue passeggiate con suo marito, arrivò fino alle rive del Tevere, che scorreva placido, quasi non dovesse seguire la precisione della corrente che lo muoveva.
Bianca aveva amato i momenti trascorsi in quel luogo assieme al Conte. Le rive del Tevere erano gli unici luoghi di Roma che conosceva, escluso Palazzo Orsini e quel poco che le era stato concesso di vedere del Vaticano. In un certo senso, li aveva fatti suoi, immortalandoli nella sua mente come immagini di pura perfezione, attimi di gioia impossibili da demolire, impossibili da cancellare.
Sorridendo a sé stessa, si immerse nel fiume, rabbrividendo al contatto della sua pelle con le acque fredde che scorrevano verso il mare.
Tremante, si augurò di aver riempito abbastanza le tasche dei sassi che era stata in grado di trovare. Sarebbero dovuti bastare per trascinarla lontano dalla riva se mai avesse deciso di lottare.
Congiunse le mani sul petto, dedicando ai suoi cari un ultima preghiera, includendo anche il Conte Riario, uomo buono che però sembrava aver perso la sua strada. Rivolse il suo pensiero più profondo a suo marito Ezio, che invano la aspettava a Palazzo Rangoni.
A lui, aveva lasciato una lettera, sulla cui busta pregava un qualche servitore di recapitarla il prima possibile.
Verso soltanto una lacrima, ripensando al vortice di emozioni che l’aveva trascinata sempre più in basso, quasi a volerla ancorare per sempre a Palazzo Orsini, quasi ormai ella appartenesse a quelle mura scrostate, a quei giardini perfetti.
Rivolse uno sguardo alla superficie sporca dell’acqua.
Tra i mulinelli, vide il volto di Ezio.
Allora si lasciò andare, abbandonandosi alla corrente, lasciando che le sue pietre la portassero sempre più a fondo. Scomparve senza un lamento, sorridendo, anzi, nel sentire il suo corpo farsi pesante.
Finalmente sentiva le braccia di suo marito stringerla a sé, le risate fresche del Conte di Fontenera intento a consigliare a Messer Rangoni un nuovo piano economico, la voce di Ezio raccontarle una storia nella grande biblioteca del loro palazzo.
Finalmente si sentiva a casa.


Carissimo,
la malattia mi ha stroncata di nuovo, impedendomi stamane persino di uscire in giardino a prendere una boccata d’aria fresca. Sento le forze abbandonarmi lentamente, quasi vi fosse per loro un luogo più luminoso e forte verso cui fluire. Non sono più sicura di riuscire a superare questo malore che anziché bruciarmi il respiro sembra volermi bruciare il cuore.
Non posso continuare a gravare sulle vostre spalle come un fantasma, costantemente presente anche se lontana, fonte di sole preoccupazioni. Una moglie dovrebbe essere la forza di suo marito, non la sua debolezza, dovrebbe portare la primavera nella sua anima, non l’inverno. Così faccio la cosa migliore per me e per voi. Siete stato in ogni senso per me tutto ciò che una persona può essere, e devo a voi tutta la felicità che ho avuto nella mia vita. Avete avuto con me un’infinita pazienza, siete stato incredibilmente buono. Tutto se ne è andato via da me, tranne la certezza della vostra bontà.  
Restate fedele a quegli ideali di arte e bellezza che mi avete trasmesso e che tanto vi hanno dato negli anni, e non siate triste per la vostra sposa; sto andando in un posto infinitamente più bello, infinitamente più luminoso.
Mio caro marito, non piangete la mia morte. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.


Bianca.



Il Conte Riario arrivò sulle rive del Tevere che Bianca era già sparita.
Di lei, il fiume non aveva lasciato neanche un capello, neanche una misera risata, appena accennata tra l’erba fresca e umida del mattino.
Prima di andarsene, la ragazza aveva lasciato una lettera sulla scrivania del suo ufficio. Non spiegava molto, in realtà, lasciava giusto il tempo di precipitarsi sul fiume e osservare come il lento fluire della corrente avesse cancellato ormai ogni cosa di lei.
Riario non fece molto, in verità.
Si limitò ad osservare la corrente del Tevere, raccogliere l’unico papavero che cresceva su quelle rive erbose e donarlo all’acqua, guardandolo andare via e sparire sotto la forza dei mulinelli.
Immaginò, mentre si sedeva a terra con fare crucciato, che l’esile corpo di Bianca fosse stato inghiottito con la stessa facilità, senza lasciarle il tempo di emettere un solo lamento, una sola richiesta d’aiuto.
Vi avevo chiesto di essere paziente, equilibrato, gentile”, gli aveva scritto, con la calligrafia tremante di chi ha troppo poco tempo per lasciare qualche riga. “E vi avevo promesso che al mattino sarei stata con voi”.
Riario si fece pensieroso, congiungendo le mani sotto al mento. Osservava ancora il fiume rapito, forse, dalla sinuosità dei movimenti dell'acqua.
Se me ne sono andata, versate del sale sulle vostre ferite. Vi aiuterà a dimenticare”.
Mise la mano inguantata nella tasca della giacca, estraendone il ritratto stracciato che Bianca aveva usato come segnalibro mesi prima, nella vana speranza di sentirsi ancora legata a qualche amico che presto si sarebbe dimenticato di lei.
Improvvisamente, si ritrovò ad accarezzare quella figura dipinta, pensando che, forse, non si era mai reso veramente conto di quanto quel viso fosse armonioso, di quanto quel sorriso fosse luminoso ed esattamente ingenuo come lo era in gioventù. Quella smorfia felice che affiorava sulle sue labbra, scatenata anche da una sola parola, aveva passato più guerre di un condottiero.
Ma era tardi, perché Bianca Ordelaffi se l’era presa il fiume, inghiottendo, assieme al suo corpo, ciò che era stata e ciò che sarebbe potuta diventare. Era sparita la sua grazia, la sua bellezza, la sua risata colma di dolcezza e fiducia in ciò che la circondava. Il Tevere si era preso ogni cosa.
Di lei, era rimasto solo il ritratto.


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