Absentia di HeavenIsInYourEyes (/viewuser.php?uid=211737)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Linea 3 ***
Capitolo 3: *** Insomnia ***
Capitolo 4: *** E Jongin? ***
Capitolo 5: *** I'm sorry, but your Sehun is in another castle ***
Capitolo 6: *** Abituati alla sua assenza ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Leggere attentamente le avvertenze. Non somministrare ai bambini sotto i dodici anni.
Prima fanfiction che pubblico nel fandom degli EXO *ansia da prestazione vattene, te ne prego*, prima slash che scrivo in assoluto *morte per ansia da prestazione ciao, ben arrivata*. Perché slash? Perché ammettiamolo, gli EXO trasudano gaiezza da ogni poro, si shippano tra di loro che è una meraviglia e sembrano fatti apposta per essere slashati. E poi ho scoperto EFP anni orsono grazie alle Yaoi, non potevo non cimentarmici almeno una volta. Ciò premesso, se mai vi venisse voglia di dirmi cosa pensate di Absentia, siate clementi e brutali.
Vorrei non dilungarmi, ma credo che qualche nota introduttiva sia d’obbligo prima che vi gettiate in questa… Cosa…
Sekai, principalmente. Con accenni –accenni un paio di palle- Hunhan, perché Lu Han è una primadonna e quando non è impegnato a giocare alla play, con i cubi di Rubik o ad infrattarsi da qualche parte con qualche membro X degli EXO all’urlo di Gotta Catch ‘hem all! , monopolizza Sehun. E con la gentile partecipazione di Lay e Kris. In realtà avrei voluto creare una Sekailu degna di tal nome, ma: 1) il mondo non è pronto a tale meraviglioso sfoggio di gaiezza3; 2) la Sekai è la mia OTP sacra, non potevo non dedicarle questa scemenza; 3) in geometria faccio schifo. Non oso immaginare che porcheria sarebbe potuta uscire.
Storia nata dopo aver passato tre ore (3 ORE FILATE!!!) ad imparare i nomi degli EXO, con missioni aggiuntive quali: 1) distinguere Sehun da Lu Han; 2) non urlare quando l’immagine sfuocata di Kris compariva random –non me ne vogliano le fan di Kris, ma mi è stato proposto in versione John Travolta in Grease. Abbiate pietà-; 3) non innamorarsi follemente e perdutamente di Sehun. Le prima due sono andate a buon fine –oddio, Kris ancora mi inquieta un pochetto-… L’ultima è stata un Game Over colossale. Così, quando Kai mi è apparso in sogno e ha detto: Senti, io voglio farmi Sehun. Scrivimi una Sekai., non mi sono potuta tirare indietro. E’ la parola di Kai contro la mia! Perciò per qualsiasi lamentela rivolgetevi a lui. Nah, sono aperta a qualsiasi tipo di critica; non vedo che male possano fare se servissero a migliorarmi :)
Preparatevi a chili di pensieri; amo scavare nella psicologia dei personaggi, non posso farne a meno. E preparatevi ad eventuali capitoli che sembrano infiniti; quando distribuivano il dono della sintesi, probabilmente ero a guardare l’opuscolo informativo gentilmente concessomi da sua maestà la Pigrizia. Anzi, facciamo che mi scuso sin da ora per questo, così da lenire un po’ il senso di colpa D:
Il rating è arancione perché quello rosso mi ha chiesto il divorzio. Si lascia solo leggere dalla sottoscritta ma quando si tratta di lasciarsi scrivere, mi chiude le porte in faccia.
Per quanto sia contro la nota OOC quando si parla di persone reali, mi è sembrato doveroso aggiungerla. Semmai procederete con Absentia, perfino quel parente alla lontana che pensa che il Kpop sia una marca di patatine si renderà conto di come i caratteri dei personaggi poco ci azzecchino con quelli veri. Per farla breve: dubito che Lulu, SehunLaPrincipessa e KaiSonoFigoESoDiEsserlo siano degli psicopatici.
Ok, penso di aver finito con queste note introduttive –che tra poco sono più lunghe del prologo stesso, so sad…-, perciò non mi resta che augurarvi una buona lettura, con la speranza di ritrovarvi a fine capitolo ♥
A F. Che mi ha costretta a pubblicare le mie storie quando volevo tenerle nascoste nel Pc, che ancora si chiede perché io scriva su “band coreane composte da ragazzi che paiono minorenni” ma mi lascia fangirleggiare senza fiatare, che c’è sempre quando non so da che parte sbattere la testa. E più di tutto, non mi fa mai sentire “indietro”.
E a Shinushio. Senza la quale non saprei nemmeno che faccia abbia Sehun e perché ha visto nascere questa storia. Ma ancora più importante… Mi ha fatto riscoprire l’amore per lo yaoi che credevo ormai morto e sepolto.
Grazie, ma grazie di cuore ♥
Absentia
“La coppia è per definizione un insieme di tre persone
di cui una è momentaneamente assente.”
David Riondino
Prologo
(Di birre, sbornie e Lui che ritorna)
10 dicembre 2012. Ore 7.32
Seoul. In una stanza qualunque (o forse no)
Era una stanza qualunque.
La luce filtrava dalle finestre aperte disegnando arabeschi spaiati sulle pareti azzurrognole che stonavano con quelle bianco ospedale, solite ingarbugliarlo ogni mattina. L’aria fresca di un dicembre ormai inoltrato cullava il suo cercare di capire perché il proprio letto fosse diventato più piccolo e lungo, perché la parte destra di quel materasso fosse calda, come se qualcuno avesse vegliato al suo fianco per tutto il tempo. Forse stava ancora dormendo e nei suoi sogni le pareti erano colorate e tutto era distorto. I polpastrelli strisciarono lentamente sul tessuto ruvido, allungandosi verso il comodino che nascondeva stralci del suo passato, rattoppi di un presente tedioso e un futuro ancora da definire. Come ogni risveglio lo avrebbe aperto e la foto dei suoi genitori sorridenti gli avrebbe ricordato che ancora non aveva risposto al messaggio in segreteria che sua madre gli—preservativi… Da quando teneva dei preservativi nel comodino? Anzi, da quando aveva dei preservativi?!
Lo chiuse di colpo, cadendo di peso sul letto che copriva le sue gambe nude, la schiena scoperta su cui avvertiva ancora dita tracciargli meticolosamente l’ossatura della spina dorsale. Gli occhi bruciavano, come se avesse pianto ininterrottamente, la bocca impastata sapeva di alcool. Più cercava di ricordare cosa fosse accaduto, più la mente si ostinava a dolere, proteggendolo da scomodi e amari ricordi. O forse erano piacevoli? Poco importava, entrambi avrebbero fatto male solo poi.
Sehun stropicciò il volto intorpidito e massaggiò la testa che continuava a proiettare immagini sfuocate, confuse, che avevano però la forza di un pugno allo stomaco. Si affacciò nuovamente in quella realtà scombinata e cominciò a metterla a fuoco.
Quella non era una stanza qualunque. Aveva qualcosa di familiare.
Ma non era la propria.
E non era neppure una stanza d’albergo. O forse sì? Difficile a dirsi, anche perché gli eventi della notte appena ecclissatasi con i clacson della città in subbuglio continuavano a nascondersi dietro sequenze che non riconosceva. Gli parve di aver partecipato ad un film senza nemmeno sentirsi il protagonista: c’erano piatti sporchi e scatole di takeaway scadente, bottiglie di birra consumate come acqua e passi di danza improvvisati mentre due mani delicate stringevano la sua vita esile.
E la propria voce. Incrinata, tremante, protetta da una mano che troppo spesso andava a riparargli il volto, quasi volesse nasconderlo. Ma da cosa? Da chi?
Un brivido scorse lungo la schiena mentre si metteva a sedere, osservando le mura spoglie della camera da letto disordinata e che ben sembrava dipingere il caos dei propri vaneggi. Un paio di camice erano morte sul pavimento; lui non avrebbe mai lasciato le camicie per terra, le avrebbe piegate e riposte nell’armadio. Non avrebbe mai lasciato che una scarpa giacesse vicino al cestino e la sua compagna morisse vicino alla porta, le avrebbe accoppiate perché così non sarebbero state separate. Da bambino aveva sempre creduto che gli oggetti, mentre non c’era o dormiva, si animassero e vivessero una vita decisamente più interessante della propria. Lu Han diceva che aveva visto troppe volte Toy Story, lui rispondeva che aveva troppo buon cuore per permettere che la Nike destra ululasse disperata alla ricerca della Nike sinistra. E poi c’erano libri accatastati, fogli sparsi, caos dappertutto. Solo una borsa da ginnastica se ne stava immacolata sulla sedia, quasi fosse la cosa più importante fra quelle pareti azzurrognole che stavano cominciando a colorare i suoi ricordi ora un po’ più nitidi.
Un rumore di pentole ridestò la sua intontita attenzione. Quel Chi o Cosa era ancora lì e faceva un casino atroce che non aiutava il suo lancinante mal di testa. Sehun si guardò attorno con aria assonnata, alla ricerca di particolari che potessero aiutarlo a ricordarsi come avesse fatto a finire in quel bozzolo di coperte anonime senza le sue stampe a fumetti... Nudo. Sapevano di buono, di fresco, sapevano di corpi che si cercavano e si perdevano in un piacere che ancora poteva avvertire sulla propria pelle chiara, come se i segni fossero ancora lì a rammentargli che per un po’ la felicità lo aveva sfiorato. Una felicità che aveva occhi allungati e scuri, labbra carnose e capelli morbidi come seta che le sue dita non avevano abbandonato per un istante.
La felicità aveva un nome, lo aveva pronunciato per tutta la notte, ancora poteva avvertirne il dolce retrogusto sul palato. Ma dirlo di nuovo, da sobrio… Gli parve impossibile, addirittura surreale.
-Cazzo…- soffiò coprendosi il volto pallido, passandosi una mano fra i capelli scompigliati prima di circondare le gambe con entrambe le braccia.
Com’è che era finito a casa sua con un sacchetto del takeaway dietro casa e bottiglie di birra? A Sehun nemmeno piaceva la birra. Però a lui sì. E gli aveva detto che se fosse stato pronto ad ascoltarlo, a lasciarlo spiegare, sarebbe bastato correre da lui con dell’ottima Cass. Ricordava la pioggia che scrosciava sul cappuccio sollevato, le lacrime che non volevano saperne di scendere ma che avevano premuto sugli occhi quando lui gli aveva aperto la porta e lo aveva guardato con sorpresa. Ricordava di come gli avesse dato la sua felpa preferita, un asciugamano, una birra a cui poi era seguita una seconda e una terza forse pure una quarta, una spalla su cui piangere e una mano da stringere mentre la voce di un attore sconosciuto proveniente dalla tele accesa si spargeva nell’aria, mescolandosi alla propria.
Già, la propria voce…
Com’è che aveva monopolizzato tutta la serata con i propri discorsi? A Sehun nemmeno piaceva parlare.
Aveva sempre avuto un difetto di pronuncia, Sehun. Quella maledetta S blesa era stata la sua croce, fonte di continue prese in giro e di consigli su come un buon logopedista potesse aiutarlo a eliminare quell’unico neo che l’invidiosa madre natura aveva deciso di dargli per scalfire la sua perfezione, come aveva suggerito sua zia durante l’ultima riunione di famiglia. Non ricordava precisamente quando aveva optato per il silenzio o per i discorsi brevi e sottovoce; forse quando si era stancato delle risate soffocate, quando le imitazioni frivole dei compagni lo avevano esasperato, quando si era accorto che udirsi lo irritava.
O quando si era reso conto che lui, con le parole, non sapeva giocarci. Perché Sehun non c’era proprio portato.
Non andavano d’accordo, si rifiutavano di corrergli in soccorso e quando lo facevano, procuravano solo dolore. Sehun era portato per gli occhi pieni di discorsi impronunciabili ma che con un solo sguardo dicevano tutto, per le mani che sfiorandolo gli strappavano il respiro, per labbra spaccate da parole in fila mai gettatesi nell’aria, che sapevano di pollo fritto e sorrisi consumati, ma mai sprecati. Era per le spiegazioni fra i sospiri, per i ricordi messi su fogli di carta e appesi al frigorifero -perché nemmeno con la memoria andava d’accordo-, per l’amore silenzioso che mescolava il nero e bianco delle sue giornate. Per quell’amore che colorava il monocromatismo della sua esistenza. Era per i baci sulla fronte che sapevano di sbadigli mattutini soffocati, per i Buongiorno che odoravano di caffè, per i Resta non detti ma che si avveravano sempre e per i Buonanotte che sapevano di Lui. Era per i sorrisi imbarazzati catturati dal flash della propria macchina fotografica, per il rumore di passi che danzavano sul tappeto mentre la musica inondava quel minuscolo appartamento di periferia, per le liti fatte di piatti rotti e che si concludevano con i cocci calpestati per raggiungersi.
Era per i discorsi che non nascevano e quando lo facevano, si consumavano nei gemiti sotto le coperte mentre i corpi si attorcigliavano.
Sehun non amava parlare, ma da un po’ di tempo non riusciva a stare in silenzio e i motivi erano due.
Uno: il suo psicologo personale -Lu Han- aveva professato che solo parlando l’imbarazzo verso quel tanto odiato difetto di pronuncia sarebbe svanito.
Due… Due…
-Oh, buongiorno!- la tonalità bassa di quella voce l’avrebbe riconosciuta fra milioni ma Sehun decise comunque di voltarsi, così da stemperare il ricordo confuso della nottata trascorsa con quell’unico che mai sarebbe sbiadito. Che era rimasto uguale, non era mutato. La memoria spesso tradiva, la sua poi gli giocava sempre brutti scherzi, facendolo arrivare tardi dal dentista o facendogli perdere due lezioni di fila; la sua memoria cambiava il colore di una camicia e la forma di un auto, distorceva la realtà che aveva vissuto in qualcosa che avrebbe voluto vivere. Ma con Lui… Con lui era rimasta fedele. Sempre.
-Ehi…- alzò un poco la mano, portandola subito alla testa. Dio, ma che cazzo aveva combinato? –Che è successo? Mi scoppia la testa.-
Il ragazzo appoggiato allo stipite rise un poco –Si chiama post-sbronza- con un cenno del mento indicò alcune bottiglie di birra vuote che giacevano sulla scrivania –Ci hai dato dentro ieri sera.-
E forse anche noi, avrebbe voluto ironizzare, guardando di sfuggita il proprio corpo nudo che bruciava a contatto con le candide coperte, ora tirate su a mo’ di bozzolo. Le stesse che avevano avvolto le loro pelli che si mischiavano, un gioco di incastri che non era più stato lo stesso da quando aveva trovato LA foto sul cuscino. E come un flash, le immagini della sua notte brava tornarono a tormentarlo, sospinte da un silenzio che gli stava facendo montare l’ansia.
–Senti, io ora devo scappare, ho una visita dal fisioterapista. Intanto tu puoi dormire o guardare la tele- si morse il labbro inferiore; anche lui glielo aveva morso poche ore prima, poteva sentirne ancora la consistenza -O vomitare.-
Sehun arcuò un sopracciglio prima di cercare con lo sguardo i propri vestiti -No, grazie. Credo che—
-Ma torno…- si irrigidì, assaporando il retrogusto amaro dell’ennesima promessa che non sarebbe stata mantenuta –Torno per pranzo.- il ragazzo recuperò la borsa immacolata e zampettò verso di lui; un leggero bacio che sapeva di menta sfiorò le sue labbra. Un gesto che gli aveva sempre dato la forza per affrontare un nuovo giorno e che quando era venuto a mancare lo aveva gettato in un baratro di sconforto e rancore.
La felicità gli sorrise, gli carezzò una guancia. E il cuore di Sehun fu sul punto di esplodere.
Quando l’amore lo abbandonava nell’assenza, che fine faceva?
Arrivava senza avvertire, lo faceva parlare di più e piangere di meno, spariva lasciando una foto nel silenzio dei suoi sogni. Lo guardava con lo zaino calato su di una spalla, in attesa che il suo mondo si muovesse.
Attendeva.
Sehun morse l’interno delle guance prima di stringersi nelle spalle, a disagio –Jongin, senti--
–E’ bello riaverti, Sehun.- se ne andava con un sorriso promettendogli di ritornare. Questa volta per davvero.
Due… Jongin.
Una volta gli aveva detto che il suo difetto era carino. Che lo rendeva unico.
E da allora, Oh Sehun non si era più stancato della propria voce.
Inutili note conclusive:
Avendovi ammorbato ad introduzione capitolo, non è che ora abbia granché da dire. A parte che questo è solo il prologo, che è corto, ma solitamente do il meglio/peggio di me nei capitoli. E' una minaccia? No, io la vedrei più come una preparazione psicologica.
Ah, sì, e che ho una paura boia per aver iniziato questa nuova storia perché non so fino a dove mi porterà, perché ho abbandonato il fandom madre e mi sono gettata un po' in un buco nero e perché a volte mi pare di scrivere scemenze abissali. Confido nella vostra buon'anima. Così come confido nella mia acerrima nemica ispirazione affinché non migri come è solita fare. Per ora cercherò di essere costante -sanità mentale permettendo-.
E niente, se voleste lasciare un segno del vostro passaggio io non potrò che esserne contenta e grata :) Ciritche di qualsiasi tipo sono sempre ben accette ^^
Alla prossima!
HeavenIsInYourEyes.
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Capitolo 2 *** Linea 3 ***
Absentia
“E quando questi due esseri si incontrano, e i loro sguardi si incrociano,
tutto il passato e tutto il futuro non hanno più alcuna importanza.
Esistono solo quel momento e quella straordinaria certezza
che tutte le cose sotto il sole sono state scritte dalla stessa Mano.”
-Paulo Coelho, L’Alchimista-
Capitolo 1
Linea 3
(Di fotografie, Dead Space e metropolitane)
08 giugno 2013, ore 15.34
Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han
Lo scatto della macchina fotografica inondò la stanza immersa nella fioca luce di un giovedì mattina qualsiasi, coprendo per un millisecondo il vociare concitato di un paio di alieni che avevano invaso il soggiorno –o era la navicella spaziale nel televisore?- e il premere esagitato dei pollici sul joystick, mentre velate minacce si libravano leggiadre nell’aria.
Lu Han aveva comprato un nuovo videogioco e dal modo in cui fissava lo schermo, probabilmente doveva piacergli parecchio. Sehun lo comprese dal numero illimitato di imprecazioni che lanciava ad intervalli regolari di cinque minuti. Era infatti da lui scientificamente testato che più Lu Han imprecava, più il gioco era di suo gradimento. Le stranezze di un nerd che spendeva parte della sua paga in videogames.
Sehun osservò la fotografia appena uscita dalla Polaroid, lasciandola riposare senza spostare lo sguardo dal profilo che piano piano andava delineandosi sulla pellicola patinata: la concentrazione di Lu Han traspariva dai denti bianchi che andavano a mordere il labbro inferiore mentre un fastidioso riflesso copriva parte del suo volto. La luce non rendeva giustizia alla delicatezza dei suoi lineamenti, ma da quella posizione e in quel soggiorno perennemente adombrato, non poteva pretendere la perfezione. Guardò per un istante gli enormi palazzi che si ergevano oltre la finestra e che impedivano alla brillantezza del sole di invadere il salotto grosso quanto una scatola di sardine, ma la leggerezza del portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni, gli rammentò quanto poco avesse da lamentarsi: con lo schifo che guadagnava lavorando al ristorante di Baozi all’angolo della strada nel solo week end, non poteva pretendere un attico con vista oceano.
Tornò a guardare la foto ora nitida, accartocciandola quando sentenziò a sé stesso che non poteva usarla per l’esame che avrebbe dovuto sostenere la settimana a venire. Avrebbe continuato a scattare foto fino a che la soddisfazione non gli avesse fatto increspare le labbra in un tenue sorriso; sino ad allora, lo hyung doveva arrendersi ad essere il malcapitato modello.
Lu Han doveva essersi accorto del suo disappunto, perché dopo aver sbattuto un mano sul ginocchio quando un alieno gli aveva sferrato un attacco quasi mortale e in attesa che il caricamento si completasse, gli aveva rivolto uno sguardo al limite della scocciatura –Si può sapere cosa stai facendo?-
Sehun premette il tasto, il solito rumore invase la stanza e Lu Han storse ancora di più il naso, conscio di essere appena stato ignorato –Faccio foto.-
Lu Han roteò gli occhi –Lo sento. Mi chiedo solo: perché?-
-Perché mi piace, lo sai.- un’altra foto, un altro sbuffo.
Sehun amava fotografare.
Non era un semplice puntare l’obiettivo verso l’orizzonte e premere un tasto, non era un banale inquadrare un viso e armonizzarlo con ciò che lo circondava, un mettere in risalto ciò che di bello il mondo aveva da offrire. Per Sehun la fotografia era arte, era l’essenza stessa della sua esistenza. Un banale click corrispondeva ad un battito del suo cuore che andava perdendosi sulla carta patinata e che, se lasciato riposare con la dovuta cura, si trasformava, prendeva forma.
Plasmava la realtà a proprio piacimento, questo faceva Sehun quando fotografava.
Lu Han diceva che era strano, quando era in vena di gentilezze gli dava dello stramboide. Sehun credeva di essere solamente troppo appassionato per ragionare con lucidità.
-Smettila di fotografarmi.- Lu Han lo riprese con scocciatura, gli occhi puntati sulla televisione mentre un impavido aeronauta si infilava in una navicella invasa da mostri. Sehun non capiva la logica di quei giochi che tanto piacevano all’amico e, sinceramente, nemmeno ci teneva a capirla. Quale idiota si sarebbe avventurato fra i rottami di una navicella spaziale solo per capire che fine avesse fatto l’equipaggio? Insomma, se ne nessuno rispondeva ad un segnale radio che faceva le bizze, forse il messaggio implicito era: non fare cazzate, la morte ti attende. Che tanto Sehun sapeva come andavano a finire quei giochi: l’equipaggio sicuramente era stato preda dei mostri che comparivano a caso dietro gli angoli e lui, scemo di turno, si ritrovava a vagare per corridoi pieni di stralci di una vita quasi perfetta prima che la morte fosse giunta a rovinare tutto. Che poi certi scempi gli facevano passare la poesia per E.T., tanto che quando lo trasmettevano in tv si ritrovava a guardarsi programmi di cucina e telefilm di dubbio gusto.
Un sorriso di ironia gli increspò le labbra sottili quando si ritrovò a fissare le foto della polaroid ancora un po’ sbiadite –Solo se tu la smetti di giocare- Lu Han scoccò la lingua, segno che non avrebbe mai spento la Play -Che senso ha, me lo spieghi?- guardò Lu Han di sfuggita –Quale idiota si avventurerebbe in una navicella spaziale piena di rottami, buia e con rumori di sottofondo che nemmeno in Saw?- e lo aveva esposto con tutta la pacatezza e genuina incomprensione che possedeva. Perché no, proprio quel gioco non aveva senso.
-Lo stesso per cui uno si avventura fra i rottami del proprio passato.Armato di Polaroid...- e poi Lu Han se ne usciva con queste frecciatine che lo facevano pentire di aver dato inizio ad una conversazione. Perché Sehun voleva bene a Lu Han, lo considerava un fratello e l’unico coinquilino che mai avrebbe ucciso, per quanto molesto e rompicoglioni fosse, ma certe volte istigava alla violenza tanto era indisponente –Non lo sai che esistono le macchine digitali?-
-E tu non lo sai che non fa bene stare tutto il giorno davanti alla tele?- un alieno squarciò la gamba del protagonista e Sehun tornò nel proprio mondo fatto di obiettivi, flash ed esami che avrebbero finito col deteriorare anche quell’ultima cellula grigia sopravvissuta ad anni di cazzate.
-Tanto fuori non c’è nulla di interessante- bofonchiò leccandosi le labbra quando riuscì a ripararsi dentro un ascensore con la luce intermittente -Qual è il tema dell’esame?- lo squadrò con un ghigno -Rompi le palle al coinquilino mentre gioca a Dead space II?-
-Raffigurare la tristezza.- esalò Sehun con praticità, ripuntando l’obiettivo sul volto del ragazzo, ora contratto in una smorfia di scetticismo.
Lu Han mise da parte l’attenzione per quello zombie comparso dall’ascensore, mise in pausa e lo fissò –Ti sembro triste?- si indicò il volto, rivolgendogli l’espressione più dolciastra che avesse potuto reperire nel suo sgabuzzino piene di maschere. Tipico di Lu Han cambiare atteggiamento pur di uscire vincitore da qualsiasi conversazione.
Sehun non era però uno sprovveduto. Sapeva quando era bene fare attenzione ai repentini cambi d’umore dell’amico, così si limito ad alzare le spalle -Un ragazzo che con questo sole potrebbe essere al parco a correre e invece se ne sta chiuso qui con degli alieni…- annuì –Sì, sei triste.-
-Anche tu sei chiuso qui, con me.-
-Se il mio modello se ne sta in casa, sono costretto a starci pure io.- un’altra foto, un’altra imprecazione trattenuta.
Il capo di Lu Han cadde in picchiata sulle ginocchia, mugugni inesplicabili riempirono l’aria e Sehun si chiese perché l’amico dovesse per forza ostinarsi a rompergli così tanto l’anima. Come se già non fosse abbastanza dilaniata, oltretutto.
-Beh, esci, vai al parco e trova qualcun altro da fotografare- indicò la tele –Ho cose più importanti da fare.-
-Dovresti essere onorato di essere stato scelto- supponente come non credette di poter essere, Sehun si ritrovò a fronteggiarlo quando l’ennesimo alieno aveva deciso di interrompere la loro discussione; Lu Han lo ignorava volontariamente -oppure era davvero nei cazzi in quel magazzino coperto di sangue, corpi sbudellati e mostri che saltavano giù dal soffitto-, fatto stava che Sehun odiava non essere preso in considerazione. Così gli diede un calcio –involontariamente, ovvio- rischiando di fargli mancare il bersaglio. Lu Han si volse inviperito e Sehun a stento trattenne un ghigno di vittoria. Conscio di avere ormai la sua completa e scazzata attenzione, poté finalmente decretare la propria vittoria –Sai bene che non fotografo chiunque.-
Ed era vero, Sehun non fotografava chiunque gli capitasse a tiro. Poche erano state le persone baciate dai suoi flash, pochi erano stati i soggetti, sempre su gentile richiesta, che avevano avuto l’onore di ritagliarsi un posto nella parete della sua stanza su cui svettavano una manciata di foto che, ancora adesso, gli davano i brividi se solo provava a vederle. Erano venti appena, se lo ricordava a memoria perché aveva sempre avuto il brutto vizio di contarle quando non riusciva ad addormentarsi. Ma una fitta al petto, dolente e improvvisa, gli fece comprendere di aver commesso un banalissimo errore di calcolo: da esattamente nov mesi, erano diventate diciannove.
Un movimento sul pavimento appena lucidato lo mise in allarme e sollevando lo sguardo contrito verso il coinquilino, si ritrovò a deglutire come se fosse l’ultima volta. Perché Lu Han aveva allargato gli occhi, gli aveva sorriso di infinita, macabra dolcezza e si era sporto, la voce bassa e calibrata quasi volesse far tremare le corde delle sue memorie –Oh, sai bene anche tu che non è affatto così…- e il suo mormorio giunse letale –Linea 3…-
Sehun odiava prendere la linea 3, lo odiava da morire.
A dir la verità, parlando più in generale, odiava prendere la metropolitana. Sempre piena di gente che correva in giro freneticamente, zeppa di persone che camminavano e si arrestavano di colpo, senza motivo alcuno, costringendolo a deviare all’ultimo pur di non sbatterci contro mentre dentro sé mille e più imprecazioni gli coloravano l’umore già nero.
Quando fece passare lo zaino sotto lo scanner all’entrata, seguito dallo sguardo annoiato e sonnolento di un paio di giovani poliziotti, si chiese perché i suoi genitori non lo avessero iscritto alla scuola di fronte casa, invece di costringerlo a quel calvario che nemmeno un girone dell’Inferno. Probabilmente in una vita precedente era stato uno spietato killer o un cacciatore di streghe e ora si ritrovava a dover patire pur di sopravvivere.
Sospirò mentre, zaino in spalla, cominciava a seguire un branco di studenti casinari che dovevano essersi drogati per essere così felici di lunedì mattina. Insomma, era mattina! Ed era lunedì! Un’unione così terrificante da fargli venire i brividi. Li sorpassò a passo veloce, salendo le scale che lo avrebbero condotto alla famigerata linea 3, di un immotivatamente allegro color arancione.
Sì, proprio quella che odiava.
E non è che Sehun la disprezzasse così, per partito preso. Insomma, non era come i broccoli che li odiava perché facevano schifo –e no, non aveva mai provato a mangiarli, ma quei cosi non avevano un bell’aspetto-, e non era nemmeno come Minseo della prima A che ci aveva spudoratamente provato con lui negli spogliatoi, accampando la scusa di aver perso lì gli occhiali. Peccato che fosse quello degli uomini e lei non portasse occhiali, ma dettagli.
No, Sehun la odiava perché la linea 3 era quanto di più orribile potesse esserci nella vita di una persona.
Poco affollata, questo era il suo unico pregio degno di menzione e onore, la linea 3 aveva sempre quel nauseante aroma di birra mista a curry, un binomio da suicidio per uno che era astemio e odiava ogni tipo di spezia. Gli bastava mettere un piede dentro l’abitacolo per sentir la testa girare, i cereali della mattina nuotare gioiosi nella bile e altre bellezza che non volle elencare pur di non farsi ulteriore male. Così, quando vide il treno avvicinarsi, respirò a fondo e trattenne in corpo quanta più aria avesse, deciso a farsi venti minuti di apnea pur di non morire lì, fra scolari e imprenditori che urlavano al telefono in un inglese biascicato e forse pure inventato.
Sehun sbatacchiò le palpebre alla vista delle banchine quasi deserte, chiedendosi dove tutta la gente fosse scomparsa. Magari qualche buon Dio aveva deciso di sterminare metà Seoul cosicché lui potesse vivere in piena tranquillità, senza scocciatori che lo fissava o tentavano di attaccare bottone. Perché lui lo sapeva, non c’era niente di peggio –linea 3 a parte, ovvio- che stare seduti al tavolo di un bar a studiare e puntualmente venir assalito da ragazzine che gli chiedevano il numero di cellulare o addirittura una foto assieme, nemmeno fosse Gackt giunto in villeggiatura in quel di Seoul.
E in quei frangenti avrebbe voluto rispondere loro con un friabile “Sono gay”, sostituito invece da un ostentato mutismo dovuto più allo stupore che alla vergogna. Perché sì, Oh Sehun era felicemente e semi-dichiaratamente gay e no, non se ne vergognava. Certo però, non gli sembrava saggio sbandierarlo seraficamente e a gran voce fra cappuccini e cornetti, ecco.
Ma c’era qualcosa che stonava, quel giorno. Qualcosa che non era al proprio posto. Come se il cambiamento stesse giungendo con placidità, colorando il grigiore di quel lunedì mattina che sapeva di routine e noia.
Sehun poteva respirarlo nell’aria che gli parve pulita o almeno non così stomachevole, poteva udirlo nel leggero concitamento proveniente alle proprie spalle, meno rumoroso del solito, mentre sostava immobile oltre la linea gialla. Poteva sentirlo nei discorsi frivoli di ragazzine con l’apparecchio e la divisa scolastica che parlottavano tra loro, emettendo risolini caustici che avrebbe voluto sopprimere.
Mentre indicavano la “stonatura”.
Che era al suo fianco, a meno di un metro di distanza, una macchia nera su di un foglio immacolato. Uno sprazzo di colore in quella tela nera che era sempre stata la sua vita da adolescente asociale e privo di qualsivoglia desiderio di ribalta in un mondo che non lo considerava.
Ma qualcuno cambiò tutto. Senza muoversi, stando fermo, ma lo cambiò.
Gli parve che il mondo da sempre ignorato avesse assunto connotazione ben marcate, nell’esatto istante in cui il suo sguardo svogliato si era posato impercettibilmente sull’unica persona che avesse catturato la sua attenzione in mezzo ad impiegati, banchieri e sporadici studenti.
Un comune ragazzo.
Era un comune ragazzo che, per motivi a lui ignoti, scuoteva il suo interesse.
Banale nel suo vestiario approssimativo e scialbo, nel suo ciondolare la testa a ritmo di musica che fuoriusciva dagli auricolari neri, nel suo fissare davanti a sé quasi non volesse perdere nemmeno un secondo per potersi infilare nel vagone. Di quel 22 ottorbe di un 2006 trascorso troppo lentamente, Sehun ricordava ogni minuscolo istante, anche quello più insignificante. Di come una ragazza gli avesse intimato di non starsene lì impalato, di come un impiegato gli fosse andato contro quando ero sceso a gran velocità facendogli un male cane alla spalla, di come una calca di persone si era insinuata nel suo minuscolo spazio vitale e lo aveva spintonato all’interno del vagone senza delicatezza alcuna, di come si fosse piazzato in posizione strategica pur di continuare a sbirciare l’estraneo dalla pelle olivastra.
Di come, nonostante tutto, quel ragazzo continuasse a rimanere prepotentemente presente.
Nascosto fra due studenti assonnati, si era concesso di studiarlo un po’ più a lungo, le dita che si attorcigliavano sulla sbarra di metallo. Perché quello sconosciuto era bello, talmente tanto che era quasi impossibile smettere di guardarlo.
La maglietta un po’ larga di un blu scuro che ben si mescolava all’espressione pensosa del suo volto, la visiera del cappellino ruotata di lato che lasciava intravedere il ciuffo ordinato e i capelli un po’ lunghi, tutto di quel ragazzo sembrava gridare ribellione, ma per qualche strana ragione gli parve l’essere più placido che mai avrebbe potuto incontrare. Si teneva aggrappato al maniglione, fissava assorto lo srotolarsi di una Seoul immersa nello smog, apparentemente ignaro di essere divenuto l’attrazione di quasi tutti i presenti.
Sehun nemmeno si era reso conto di aver tirato fuori dallo zaino la Polaroid, non si era nemmeno accorto che l’indice si era posato delicatamente sul pulsante, così come non si era accorto che il rumore dello scatto aveva permeato l’abitacolo per un istante.
E prima ancora che il suo cervello potesse dargli del coglione, il casino era stato fatto.
Aveva notato solo il flash, talmente forte da essere paragonabile ad una sonora mazzata in testa, e quel quadrato di pellicola bianca su cui cominciavano a intravedersi i primi segni del danno. E aveva notato il ridestarsi dello sconosciuto, ora irrigidito e spaesato, che lo fissava con sopracciglia arcuate.
Ok, si era accorto di lui. Missione 1, conosciuta altresì come “Resta fermo e immobile e nessuno si accorgerà che esisti”: fallita.
Lo sconosciuto aveva occhi scuri allungati e un po’ larghi per la sorpresa, naso schiacciato e labbra carnose schiuse di velata incredulità, l’espressione di chi si è appena reso conto di essere nel vagone di una metropolitana, circondato da persone. Come se fosse stato prigioniero dei propri pensieri e il suo stupido flash fosse stato la liberazione.
Non gli parve arrabbiato, constatò Sehun mentre tentava di nascondersi meglio alla sua vista e ricacciava la maledetta Polaroid nello zaino. Ma non gli parve nemmeno così felice di essere divenuto l’oggetto di interesse di uno stalker provetto. Del resto, come biasimarlo? Venir fotografato da un perfetto estraneo che probabilmente per tutto il tempo lo aveva fissato con espressione da giocatore di poker, di lunedì mattina, non doveva essere molto… Normale.
*Anguk, stazione di Anguk*
La voce metallica proveniente dall’altoparlante fu un coro d’angeli in mezzo a quell’Inferno. Finalmente sarebbe potuto uscire da quel girone divenuto troppo piccolo per poterlo nascondere e, soprattutto, avrebbe potuto lasciare nel vagone la colossale figura da coglione che lo avrebbe erto a re dei mentecatti.
Il ragazzo al proprio fianco lo sorpassò con un gesto fluido, recidendo per una manciata di microsecondi quel filo invisibile che non gli aveva permesso di scostare lo sguardo dallo sconosciuto, ancora fermo ed immobile ad osservarlo.
E fu un attimo.
In mezzo alla bolgia, in mezzo al vociare e agli starnuti dei presenti, in mezzo ad un caos che Sehun rifuggiva come la peste, in mezzo al proprio sconforto, imbarazzo e desiderio di suicidio… Lo sconosciuto gli aveva sorriso. Poco, impercettibilmente, divertito, come se fosse compiaciuto del suo essere stato scorto in mezzo a tanto ciarpame.
Come se per un breve istante fosse stato chiaro ad entrambi che erano finiti lì, in quel vagone, quel giorno, solo perché ciò potesse accadere.
Sehun avvertì i polmoni svuotarsi e senza pensarci due volte, uscì da quel posto divenuto rovente. L’aria irrespirabile gli permise di non svenire sulle linee gialle della banchina mentre udiva le porte chiudersi, anche se in realtà avrebbe voluto chiedere a quel gentile vecchietto davanti a sé di spingerlo sui binari mentre il treno era in corsa.
Perché era passato da ragazzino invisibile a maniaco che fotografava piacenti sconosciuti ed era sceso alla fermata sbagliata. Più precisamente a sei fermate prima della propria. E il prossimo treno sarebbe arrivato tra cinque minuti. Fantastico… Sarebbe arrivato in ritardo a scuola, davvero fantastico.
Lu Han, dopo il suo racconto, gli aveva detto che doveva vedere uno psicologo coi controcazzi se voleva salvare quel minimo di cervello che possedeva. O di scoparsi qualcuno, almeno avrebbe smesso di fotografare sconosciuti e poi usare le foto per pratiche erotiche in solitaria. Sciocco Lu Han… Come se davvero lui usasse i suoi gioiellini per certe frivolezze, rischiando addirittura di sporcarli!
Sehun, ad ogni modo, aveva smesso da un pezzo di dare retta all’amico.
Perché guardando la foto appena divenuta nitida fra le proprie mani, si disse che ne era valsa la pena. Per la prima volta da quando aveva impugnato una macchina fotografica, Sehun si era ritrovato a sorridere di fronte al proprio lavoro che sapeva di scemenza, birra e curry.
Oh Sehun odiava la linea 3, la odiava con tutto il cuore, certe cose non potevano mutare.
Ma per una volta, si disse che non era poi così male…
Il flash della macchina fotografica illuminò i suoi pensieri, riportandolo alla realtà.
La Polaroid era stata rapita da un Lu Han ghignante che, da inesperto fotografo, stava continuando a sventolare la pellicola appena uscita.
Sehun avvertì una stretta al cuore –ancora incerto se dovuta alla nitidezza dei suoi ricordi o alla coglionaggine dell’amico- e si allungò per strappargliela di mano, spingendolo a sedere a terra. La musica del game over, nel mentre, risuonava macabra fra le quattro mura della scatola di sardine.
-Cretino, così si rovina!- lo rimproverò storcendo il naso, guardando la pellicola sbiadirsi leggermente; solo allora realizzò chi Lu Han si era permesso di fotografare –Non devi farmi foto!- lo aveva esalato con un pizzico di rabbia, accentuato dalle sopracciglia aggrottate e gli occhi assottigliati. Perché Sehun odiava essere fotografato; si ostinava a credere che tutto fosse bello e fotogenico meno che sé stesso.
All’occhiata risentita che gli aveva appena regalato, il coinquilino replicò con un sopracciglio alzato e un tono di voce sprezzante –E’ da tutta la mattina che rompi le palle facendomi foto, non lagnarti- Lu Han si allungò, sorridendo –E comunque sei uscito bene!- gli circondò le spalle con un braccio mentre con l’indice puntellava la foto. Sehun studiò il proprio volto circondato da ombrosità, chiedendosi perché mai assumesse quell’aria incazzosa quando si ritrovava a pensare troppo e per troppo tempo. O forse diveniva così assorto solo quando pensava a Lui. Lu Han si alzò in piedi e si pulì i jeans spiegazzati, arricciò le labbra –Qualcosa non va?-
Sehun scosse la nuca mentre spegneva la Polaroid, adagiandola con cura sulla poltrona dietro di sé –Stavo solo pensando.-
-Pensare ti fa male- osservò l’amico sgranchendosi le spalle –Soprattutto pensare a certe cose, non devi- spense la tele e guardò la finestra –E’ una così bella giornata… Ti va di andare a prendere del the?- e gli aveva sorriso debolmente, come se si stesse sforzando per uscire di casa e non continuare a lasciarsi uccidere da alieni e zombie.
Come se volesse impedirgli di ingabbiarsi nei propri ricordi. Incredibile come Lu Han riuscisse a capire tutto senza bisogno di spiegazioni.
E Sehun non sorrise, ormai non sorrideva più da un po’. Ma annuì e questo sembrò rendere felice Lu Han che, aiutandolo ad alzarsi, gli scompigliò i capelli disordinati prima di rubargli la foto –Io userei questa per il compito- sghignazzò –Cristo se sei triste, Sehun.-
Già, Lu Han aveva il brutto vizio di ricordarglielo sempre…
-Sehuni, sei sempre così triste!-
-E tu sei un idiota, Kim.-
E anche Jongin.
Inutili note conclusive:
Un aggiornamento così puntuale -addirittura in anticipo, a voler essere pignola- non lo vedrete mai più, credo. Questo perché i primi capitoli sono praticamente completi, ma i successivi... Stendiamo un velo pietoso che è meglio.
Passando a questo coso -che io amo definire: il nulla cosmico-... Succede poco o nulla, lo so. Ma mi serviva introdurre per bene quelli che saranno i vari protagonisti della storia, anche se tutto ruota intorno a Sehun -come stai crescendo bene figliolo, sono così fiera di te ♥-
La lunghezza rientra ancora nella soglia della decenza; questo perché c’è un solo POV. Più si va avanti, più si degenera. Spero inoltre che i balzi temporali passato/presente non vi facciano venire il mal di mare. Ho sempre desiderato scrivere una fanfiction dove c’era l’alternanza tra i due, sono commossa di esserci finalmente riuscita ;.;
E chi sarà mai questo figopaura della metropolitana, mh? No, tanto so che lo avete capito da soli. Non sono in grado di creare suspense, ho rinunciato a provarci.
Che altro? Ah, sì, sono lenta, lentissima con l’evolversi delle situazioni. Lo metto subito in chiaro per evitare fraintendimenti. Nel senso… Ecco, non aspettiamoci baci o dichiarazioni d’amore già dai primi capitoli, perché non è mia intenzione. Sono per le storie che, seppur fantasiose, hanno al loro interno un minimo di veridicità. Non credo nel colpo di fulmine, l’amore è per me un processo lento e faticoso e credo che ciò si riverserà anche in Absentia. Insomma, mi spiacerebbe che vi creaste aspettative e queste venissero deluse.
Infine -e poi la chiudo, lo giuro-, un paio di precisazioni che mi preme dare –per puntiglio a dire il vero, tanto so che sono palesi-:
-Le date ad inizio capitolo o quelle sparse in giro sono importanti. Ho basato la storia sullo scorrere del tempo, pertanto vedete le scene come missing moments sparsi qua e là.
-Le scene del passato, al momento, sono in ordine cronologico ma più avanti potrebbe capitare che vi siano sbalzi temporali –esempio stupido: nel capitolo 1 si parlano come se fossero marito e moglie e in quello dopo si comportano da perfetti estranei-, questo perché non ho voluto dare loro una linearità. Sono scene rievocate da determinate parole o azioni e proprio come succede nella vita reale, non seguono un filone logico. Quindi se vi parrà che abbia dato per scontato qualcosa... Abbiate fede!
Bom, posso chiudere qui la fiera delle banalità e passare ai ringraziamenti (aaaah, quanto adoro questa parte!): a Atomo, Shinushio, dylandogs e WhiteRose88 va tutta la mia più sincera gratitudine. Per me è stato un piacere immenso vedere che il prologo di Absentia abbia suscitato l’interesse di qualcuno. Credevo sarebbe stato ignorato ;.; Quindi grazie, ma grazie infinite.
Ringrazio anche chi ha aggiunto la storia fra le seguite/ricordate/preferite e chi legge in silenzio. Se qualcuno fosse interessato ad insultarmi sulla pubblica piazza, ho un account facebook -HeavenisinyourEyes Efp- dove riverso tutto il mio amore viscerale per il Kpop -e va bene, Sehun principalmente.-
Alla prossima!
HeavenIsInYourEyes.
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Capitolo 3 *** Insomnia ***
Absentia
“Gli incontri più importanti sono già combinati dalle anime prima ancora che i corpi si vedano.
Generalmente essi avvengono quando arriviamo ad un limite.
Quando abbiamo bisogno di morire e rinascere emotivamente.”
-Paulo Coelho, Undici minuti-
Capitolo 2
Insomnia
(Quando Sehun non riesce a dormire e Lu Han gioca)
17 giugno 2013, ore 19.47
Seoul. Ristorante di Baozi
Sehun aveva sempre avuto un problema con i soldi: entravano nel portafogli alla velocità della luce e magicamente… Sparivano! Dove finissero, era mistero puro e semplice e Sehun aveva smesso da tempo di trovare una spiegazione logica. Certe cose erano come i miracoli: eventi arcani.
L’orticante questione finanziaria era iniziata da bambino, quando aveva scoperto che i rullini delle macchine fotografiche non erano infiniti e che una volta terminati andavano sostituiti con dei nuovi… Che costavano. E no, a quanto pareva i commessi non accettavano le banconote del Monopoli. Suo padre lo aveva assecondato fino a che aveva potuto, quando poi era cresciuto gli aveva rifilato un metaforico calcio nel culo e lo aveva gentilmente esortato –leggasi costretto- a trovarsi un lavoro che potesse soddisfare i suoi capricci. Avrebbe tanto voluto dirgli che la fotografia non era un capriccio, ma suo padre non era mai stato un grande ascoltatore.
-Guarda che se continui a strofinare, lo crepi quel tavolo.- Lay gli passò di fianco con un sorriso divertito sulle labbra ma Sehun replicò con l’arricciamento del naso. Quel giorno c’era poca gente e lui, come al solito, doveva tenere la mente impegnata.
Alzò la nuca, abbracciando con lo sguardo il piccolo locale illuminato da lampade di taglio cinese che creavano un atmosfera romantica, anche se lui l’avrebbe definita angosciante. Non gli era mai piaciuto il romanticume, le smancerie gli davano il voltastomaco. Forse era per questo che si era trovato bene con Jongin: non lo aveva mai sommerso di cazzate e putridume. I suoi Puoi restare se ti va, fuori è buio ed è pericoloso, erano sempre valsi più di mille baci, carezze e sguardi rubati.
Tornò a concentrarsi sul tavolo che stava lucidando da una manciata di minuti. Ora che ci pensava, Jongin lo aveva aiutato a trovare quel lavoro quando frequentavano l’ultimo anno di superiori.
Era una tiepida giornata di fine aprile, si avvicinavano i test finali e con loro l’inevitabile cambiamento da adolescente in piena crisi ormonale a studente universitario in piena crisi pre-esame. Jongin era la solita anima spensierata che viveva di Basta che esco da questa scuola, con quanto non importa, che gli aveva fatto comprendere come fossero differenti sotto ogni punto di vista. Lui lavorava per l’eccellenza, Jongin si accontentava di restare nella media. Ad ogni modo, in tutto quello c’era il fatto che Sehun non aveva soldi né per coltivare la propria passione, né per iscriversi ad un’università decente. Fu proprio quel giorno che nel mucchio di cazzate che gli aveva propinato per tutto il viaggio casa-scuola, ben consapevole della situazione economica tragica in cui versava, che Jongin se ne era uscito fuori con un blaterante C’è questo posto all’angolo tra la East road e la West che cerca camerieri per il fine settimana. Perché non provi? E così tra un No, il suo Un giorno mi ringrazierai!, un Non rompermi le palle, il sempre evergreen E’ permesso, signora Oh? e uno scocciato Ma non ce l’hai una casa tua?!, Sehun si era ritrovato a trascorrere il weekend al Park Baozi come addetto ai tavoli.
Il ristorante era piccolo, di vecchio stampo coreano e perennemente profumato di pasta appena cotta, la stessa fragranza che era stata solita accoglierlo in casa quando viveva con i suoi genitori. Forse era per questo che si sentiva protetto, quella sensazione di familiarità mitigava la sua inquietudine. Anche se la familiarità aveva assunto toni un po’ sbiaditi da quando Jongin non si recava più lì.
Già, perché da quando aveva cominciato a lavorare lì, Jongin non aveva mai smesso di presentarsi al ristorante reclamando la sua dose giornaliera di baozi. Aveva sempre odiato ritrovarselo fra i piedi senza un motivo apparente mentre lavorava, ma l’altro gli aveva vietato ogni tipo di lamentela: E’ grazie a me se ora hai un lavoro, mi devi un favore! E pur non avendolo mai ammesso, gliene era grato, così come in fondo era contento di saperlo lì per lui.
Se solo ci ripensava, Sehun non poteva non sorridere di pura malinconia e sollevando il capo poteva ancora scorgere lo spettro di quel ragazzo dalla pelle dorata che aveva colorato le sue grigie giornate.
Sedeva al tavolo numero 8 –sempre quello, anche se il perché non gli era mai stato chiaro- vicino alla finestra, con la visiera del cappello ruotata di lato e lo sguardo assorto rivolto ai passanti, l’unico istante in cui poteva cogliere l’essenza seria di quel demente. Sehun non aveva mai compreso il perché della sua costante presenza al Park quando era palese che si annoiasse, eppure Jongin non se ne andava, continuava a restare, a cercarlo con lo sguardo, sorridendogli in quel modo giocoso e anche un po’ infantile che gli trasmetteva spensieratezza. Come quando ordinava un succo d’arancia e pur di passare il tempo in qualche modo stupido, si ritrovava a soffiare nella cannuccia per far uscire le bolle. Sciocco, decisamente. E adorabile, assolutamente.
Non aveva voluto baozi gratis né altro, si era sempre accontentato di starsene seduto facendo finta di studiare, disturbandolo per ogni minuscola sciocchezza, strappandogli una risata quando un cliente un po’ troppo rompicoglioni gli aveva fatto esaurire ogni scorta extra di pazienza, attendendolo a fine serata per riaccompagnarlo a casa.
Jongin si era sempre accontentato di poco.
Forse era questa la causa di tutto. Forse quando si era accorto che quel che Sehun gli dava era troppo poco, aveva smesso di accontentarsi e si era inevitabilmente stancato di lui.
-Allora, come va?-
Al suono di quella domanda, Sehun alzò il capo con indolenza. Quel quesito cominciava ad odiarlo, al solo Come gli veniva l’orticaria mentre la voglia di azzannare l’interlocutore diveniva il suo unico pensiero. Oh, non pensiamo che Sehun fosse così asociale da schifare anche la più semplice educazione, eh. Semplicemente, da quando tutto era andato a rotoli la gente sembrava sempre più interessata alla sua sanità mentale ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Lu Han diceva che era colpa delle sue perenni sopracciglia aggrottate e il sorriso spezzato, peculiarità che costringevano il prossimo ad accertarsi che il loro gatto non fosse stato stirato da una macchina. Sehun -oltre a rammentargli che non avevano un gatto e mai lo avrebbero avuto, dato che i soldi per loro non bastavano, figurarsi per sfamare un altro animale- era convinto che gli esseri umani non riuscissero a farsi i fatti propri, dovevano sempre ficcanasare nella vita altrui, un po’ per rifuggire allo schifo in cui erano impantanati, un po’ per appurare che c’era chi stava peggio e sentirsi automaticamente meglio…
-Non hai una bella cera.-
… E forse sì, forse era anche un po’ colpa sua.
Quando Sehun scrutò il sorriso placido di Lay, avvertì indistintamente le proprie sopracciglia dolere, quasi le avesse aggrottate troppo; perfino le labbra incurvate cominciarono a pesare. Era come se tutto il viso stesse per creparsi da un momento all’altro; un’immagine orribile che comportò anche l’arricciamento del naso. Fantastico, probabilmente sembrava un Picasso.
-Ieri sera non ho dormito.- se ne uscì con la prima giustificazione che passò di lì, convinto che la gente non fosse mai realmente interessata al suo stato d’animo. Faceva domande, ma solo per mera educazione.
Poi c’erano i casi eccezionali, poche anime pie che vivevano per comprendere il prossimo, aiutarlo e magari sanare le loro ferite. Lay, ora intento ad sciugarsi le mani sul grembiule, era una di quelle –Pensavo fosse passata l’insonnia- si scostò il ciuffo dalla fronte –Ricordo che con Kim dormivi semp—
-Non passa mai- lo interruppe brusco, portando lo straccio sulla spalla –Si ferma, ma poi ritorna.-
Lay annuì, si guardò attorno e poi riprese –Da quando?-
Sehun si irrigidì, conscio che quel Come va? aveva trascinato dietro sé il solito trito e desolante discorso che avrebbe finito col mettere alla berlina i suoi pensieri. Ma Lay attendeva paziente –Non dormo da quando sono ritornato a casa.- lo pronunciò con indifferenza, tanto era già in una pessima posizione.
A meno che il fondo del suo barile non avesse una botola, dubitava potesse cadere ancora più in basso.
Lay sospirò ma a dispetto di ogni sbuffo o orripilante previsione, si limitò a scuotere la nuca e sorridergli dolcemente –Ti va di staccare un attimo?- lanciò un’occhiata in direzione dell’orologio –La nostra pausa di dieci minuti è cominciata da un quarto d’ora.-
Sehun guardò il locale semivuoto, i pochi camerieri impegnati a servire i clienti e poi il tavolo che stava pulendo, talmente lucido che poteva specchiarcisi sopra. Una pausa poteva concedersela, anche perché la questione era tragica: se avesse detto di no, Lay gli avrebbe triturato le palle con il suo sguardo da cucciolo bastonato. Annuì e andò ad attenderlo nel loro Santuario: il retrobottega con i bidoni dell’immondizia e un paio di casse di Cass adibite a panca.
Faceva schifo, ma era talmente putrido che nessuno osava metterci piede.
Si lasciò cadere sulla cassa e subito le dita ossute andarono a giocherellare con un lembo del grembiule, cercando di eliminare una macchia di cioccolata che solo il Dio Johnny Depp sapeva come se la fosse procurata. Perché no, loro non vendevano cioccolata e sì, Johnny Depp era un Dio. Avrebbe ucciso chiunque avesse professato il contrario… Tipo Lu Han, che a quanto pareva si divertiva un mondo a confutare ogni suo credo. Ma Lu Han non faceva testo. Quello meritava la morte per talmente tante cose che ormai aveva perso il conto. Per non finire in galera però, si sarebbe limitato a nascondere il suo Zelda dorato -che valeva più del loro appartamento- giusto per farlo soffrire un po’.
Sehun avvertì gli occhi farsi pesanti, maledicendo la tempestività con cui Morfeo veniva a fargli visita -e la lentezza con cui Lay preparava un paio di tazze da the-, perché la notte quel maledetto non si presentava mai, ma chissà perché di giorno era sempre pronto a tenergli compagnia. Storse il naso; prendersela con Morfeo era ingiusto.
Il fatto era che dormire gli era sempre sembrato inutile, addirittura senza senso. Sehun faceva tutto solo perché c’era un motivo alla base e una meta da raggiungere. C’erano un inizio e una fine, nessuna interruzione. Lui non era portato per le interruzioni, davvero non sapeva come aggirarle, superarle, sconfiggerle e si bloccava alle loro soglie, indeciso se chiedere Permesso o buttarcisi a capofitto e vedere dove sarebbe potuto arrivare. Come in quel momento della sua vita: era talmente perduto nella propria storia interrotta da non riuscire a intravederne la fine e guardando indietro, si chiedeva perfino dove fosse finito l’inizio. Si chiedeva se ci fosse perfino stato un inizio.
Lo scalpiccio delle scarpe di Lay sul terreno lo aiutò a non cadere preda della propria scemenza. Yixing si sedette al suo fianco con leggerezza, gli porse il the e rimase in silenzio a fissare la propria tazza; dal modo in cui se la rigirava, doveva scottare parecchio. A Sehun parve sciocco soffermarsi su quell’insulso particolare, ma ormai viveva di particolari; erano gli unici che gli permettevano di non impazzire. Come quando si sedeva sul divano non riuscendo ad addormentarsi e studiava in religioso mutismo la sagoma di Lu Han semi illuminata dalla tele, intento a giocare a chissà quale stupido videogame. Osservava la delicatezza del suo profilo, ne tracciava i tratti nell’aria con l’indice, guardava le sue dita pigiare con velocità sul joystick - prima la X blu, poi il quadrato rosa, il triangolo verde, il cerchio rosso… Avrebbe potuto indovinare la mossa che stava compiendo solo dal tasto che aveva appena schiacciato-, si cibava dei suoi Vai a letto, è tardi, dei suoi sbuffi scocciati quando non veniva ascoltato, per poi porgergli il joystick e farlo giocare fino alla nausea, scaldandosi quando sbagliava. Erano sciocchezze ma al pensiero di perderne anche solo una, sentiva il respiro venire meno.
Non voleva più smettere di respirare, non voleva più. Gli era capitato molto tempo addietro ed era stata la sensazione più straziante che avesse mai dovuto sopportare.
Anche in quel momento, Sehun divorò ogni minuscolo dettaglio che Lay gli offriva senza nemmeno rendersene conto. Si chiese perché, ad esempio, se ne stava seduto su quella panca con regalità, nemmeno fosse un trono, con le gambe serrate e i pollici che carezzavano in movimenti circolari la fine porcellana. Risalì con lo sguardo, studiò le sue labbra sottili che abbracciavano il bordo della tazza, i suoi occhi chiusi, le minuscole fossette sulle guance che sbocciavano quando sorrideva, l’armoniosità della semplicità dei suoi gesti sempre calcolati, mai impulsivi o decisi.
Zhang era la quiete fatta ragazzo, Sehun lo aveva capito dal primo istante in cui si erano guardati e un timido sorriso aveva dipinto le labbra dello hyung, mentre lo sguardo si infrangeva sul pavimento. Sembrava che nessuna intemperia emozionale potesse scalfire la sua pace sempre integra. Criptico come pochi, lasciava trasparire raramente le proprie preoccupazioni e anzi, sembrava sempre incline a preferire quelle degli altri alle proprie, come se mettersi al secondo posto fosse cosa buona e giusta. Forse era per questo che si era iscritto alla facoltà di psicologia, per aiutare meglio i disagiati che come lui si ritrovavano a pulire lo stesso tavolo per venti minuti mentre evitavano di sollevare il capo convinti che il loro ex stesse facendo le bolle nell’aranciata lì, a pochi passi da loro. Lu han, che doveva sempre dire la propria con cattiveria gratuita, gli diceva che chi studiava psicologia lo faceva solo e unicamente per aiutare il proprio casino interiore…
-Hai provato a prendere qualcosa? Non ti fa bene non dormire.-
… Ma Lay, ne era certo, era l’eccezione che confermava la sciocca regola di Lu Han.
Sehun inspirò il fumo del the verde, poi scosse la nuca con vigore -Non prendo più nulla. Quelle cose lobotomizzano il cervello- gesticolò con le mani, versando un po’ di the sul grembiule rosso a scacchi bianchi –Mi sdraio e cerco di dormire. Se non ci riesco, gioco con Lu Han.-
-Svegli Lu Han per giocare?- gli rivolse quella domanda con un pizzico di stupore, addirittura gli parve di scorgere una punta di risentimento mentre la voce andava alzandosi.
Avrebbe voluto dirgli che il suo coinquilino lo torturava in maniera peggiore e che questa non poteva nemmeno definirsi vendetta ma per amore della verità, Sehun si ritrovò a dissentire –No, è già sveglio. Io mi unisco a lui e basta- studiò il contenuto della propria tazza –E poi credo che tutto sia dovuto agli esami, comunque. Sono troppi e il tempo è poco.-
-Quindi stai sveglio per studiare?-
-Ormai mi riduco a fare tutto di notte- alzò le spalle –Almeno non penso.- lo aveva appena sussurrato, ma non abbastanza da non essere udito. Non dormire non aveva mai rappresentato un grosso problema, aveva ormai imparato a conviverci, ma da quando Jongin non alimentava le sue nottate, l’insonnia stava cominciando a diventare fastidiosa. Se non dormiva, pensava e pensare lo riduceva ad un ammasso di insicurezze indistricabili.
-Non pensi?- Lay corrugò la fronte.
-No, non penso- storse il naso quando il the verde, più amaro del solito, gli scivolò in gola; al Diavolo Lay e il suo vizio di dimenticarsi dello zucchero –Sono talmente concentrato sui libri che mi dimentico di tutto. Ma hai messo lo zucchero?! Questo coso fa schi--
-Ti dimentichi anche di Jongin?-
Sehun rabbrividì mentre le sopracciglia si aggrottavano. Possibile che anche a distanza di tempo, il cuore continuasse ad esplodergli udendo il suo nome? E poi perché quello veniva tirato fuori in ogni sacrosanto discorso? Cos’è, alla gente piaceva pronunciare il suo nome? Nh, ok, un po’ li capiva, del resto anche a lui era sempre piaciuto il suono della propria voce quando diceva Kim Jongin, la fluidità con cui scivolava sulle labbra, lasciandogli sul palato un retrogusto di affetto e imbarazzo. Da un po’ però aveva smesso di pronunciarlo; non era più così semplice come una volta.
-No. Tante cose- calciò un ciottolo –Tipo che tra poco devo pagare l’affitto, devo comprare le attrezzature per l’esame di luglio che non ho ancora cominciato, devo trovare un modo per bruciare tutta la collezione di Call of Duty di Lu Han, devo—
-Call of Duty è una gran bel gioco, non merita una fine così orrenda!- lo interruppe con una risata, piegandosi in avanti.
Un traballante sorriso si impossessò delle sue labbra ben celate dietro la tazza, anche se sapeva che il divertimento avrebbe macchiato la sua indifferenza –Già, ma Lu Han non è una gran bella persona. Meriterebbe di vedere la loro fine.-
-Oh, suvvia, sta facendo così tanto per te- Sehun non annuì né negò; non voleva pensare all’aiuto salvifico di quel mentecatto, non dopo tutto ciò che avevano passato –Non credo sia così malvagio come lo dipingi.- Lay si alzò e si pulì i jeans.
Sehun lo imitò –Solo perché non ci abiti assieme e non lo conosci bene.-
Lay recuperò le due tazze e sbuffò un rassegnato –Esagerato…- che sfumò sotto lo scalpiccio delle sue scarpe. Sehun si arrese all’amara evidenza: nessuno poteva credere che Lu faccia da cerbiatto Han potesse essere un tremendo frantuma palle –Hai proprio un modo strano di essergli riconoscente.-
-E lui ha un modo strano di essermi amico.- inclinò il capo mentre vedeva Lay fissarlo scettico, quasi non cogliesse il senso delle sue parole. La verità era che Sehun non voleva parlare di Lu Han forse più di quanto non volesse tirare in ballo l’argomento Jongin. Era un discorso troppo impervio e la sua incapacità di comprenderlo nonostante la loro datata amicizia, lo metteva in una posizione scomoda.
Lay scosse la nuca e alzò le mani in segno di resa; quando il silenzio faceva loro da padrone, capiva che era il momento di gettare la spugna. E poi Sehun non aveva voglia di ripescare stralci del suo passato, era stanco di scovare dettagli che non facevano altro che appesantire il suo presente monocolore.
–Sehun, lo sai cosa vuol dire insonnia?- la voce pensosa di Lay lo ridestò; tamburellava le dita sotto il mento e fissava il cielo grigio.
-Mh?-
Lay aprì un poco la porta –Deriva dal latino insomnia e significa “mancanza di sogni”- gli rivolse un fugace sorriso prima di scappare dal Santuario –Magari è per questo che non dormi. Dovresti ritrovarli, lo sai? Almeno uno, il resto verrà da sé.-
Sehun rabbrividì. Il resto era il sonno, ma i sogni ormai erano un vago quanto lontano ricordo. Forse aveva dimenticato come si faceva, così come aveva scordato la sensazione di spaesamento che provava quando, svegliandosi di soprassalto, sapeva di aver sognato ma proprio non ricordava cosa.
Dove poteva cercarli, se il più importante se ne era andato via?
Sehun odiava essere in ritardo e amava essere invisibile. Due modi d’essere che non potevano coesistere, non nella sua esistenza.
Tenere lo sguardo basso mentre camminava era la sua priorità, seguita simultaneamente da quel laconico mantra che recitava “Santo TOP, fa che non incontri qualcuno che conosco; in cambio prometto che butterò via tutti i miei poster di Jaebeom a torso nudo”; la musica lo accompagnava in questo suo rituale mentre saettava fra i passanti, la schiena curva come se la vita fosse troppo pesante da reggere. Sehun era sempre stato così, non lo era diventato a seguito di chissà quali indicibili traumi infantili.
Asociale sin da bambino, non era mai stato bravo a mescolarsi con i suoi coetanei; avevano sempre avuto il brutto vizio di bruciare le tappe e sua madre gli aveva insegnato che non doveva manomettere le lancette del tempo o avrebbe rischiato di perdersi. Ai giochi di gruppo nel cortile dell’asilo, aveva preferito starsene seduto in disparte a colorare sgorbi che aveva osannato come capolavori; aveva preferito raccogliere margherite da portare a sua madre piuttosto che alzare le gonne delle compagne, conscio che lì sotto non c’era assolutamente nulla di interessante; aveva scelto le serate nello sgabuzzino di casa adibito a camera oscura anziché partecipare a festini e vita mondana. La sua vita sociale non aveva mai brillato e se lo aveva fatto, era stato solo merito di Lu Han. Ancora si chiedeva quale pazienza interiore gli avesse permesso di stare con lui nonostante l’abissale differenza che li caratterizzava: Sehun avrebbe volentieri disintegrato il genere umano, Lu Han riusciva a renderselo amico senza sforzo alcuno.
Oh Sehun voleva solo eclissarsi e fino a quel giorno, tutti i corpi celesti lo avevano aiutato in questa sua decisione. Fino a che non aveva fotografato uno sconosciuto sulla linea 3. Fino a che non era sceso alla fermata sbagliata. Fino a che non si era ritrovato a correre a perdifiato pur di non mancare all’appello evitando così una probabile punizione, che solitamente consisteva nel fermarsi di più a scuola per pulire la classe… Con compagni stronzi che sporcavano più del solito di proposito.
Quando aveva varcato i cancelli della scuola, il silenzio del cortile vuoto lo aveva accolto con una fragorosa risata, quasi lo stesso deridendo per il suo essere uno sfigato di dimensioni colossali. Come se non bastasse, la 3 sezione B si trovava sulla cima dell’edificio e si poteva raggiungere solo dopo aver schivato il drago sputa fiamme –la bidella-, i troll di montagna –i bulli che si divertivano a ciondolare per i corridoi-, Ade in persona –il preside-, e le varie ed eventuali trappole posizionate qua e là –pavimenti bagnati-.
Si scapicollò mentre correva per i corridoi. L’insegna 3-B al quarto piano –gradini scalati rigorosamente tre a tre- brillò in lontananza e Sehun udì indistintamente la voce della prof di algebra –lei era il classico boss di fine livello, per intenderci- stridula ed incazzosa già di prima mattina.
Ok. Era lunedì, era in ritardo e alla prima ora aveva algebra... Che combo micidiale!
Si sistemò alla bene e meglio, dicendosi che quella divisa gialla stonava con il proprio malumore, rinunciò a dare un senso ai capelli scompigliati mentre la frangia era ormai un ammasso informe e appiccicoso e aprì la porta senza nemmeno curarsi di bussare, pregando che l’insegnante si lasciasse commuovere dai suoi occhi lucidi per la corsa, il fiatone, le labbra secche e il suo lagnoso –Mi scusi per il ritardo.- che in realtà non venne mai alla luce.
Il fiato pesante per la corsa si arrestò a metà strada fra i polmoni e la trachea, procurandogli una fitta lancinante al petto che lo costrinse a chiudere un occhio per lo sforzo di non accasciarsi a terra. Deglutì, avvertì la gola bruciare e la saliva faticare a scendere mentre la lingua andava ad inumidire il labbro inferiore ormai prosciugato. Boccheggiò, provò a parlare ma niente, le parole non vollero saperne di uscire. Eppure erano lì, le aveva sulla punta della lingua, gli pizzicavano il palato tanto era forte il desiderio di librarsi nell’ar-- No, alt, fermi tutti! Perché stavano tornado indietro, le maledette?!
Sehun sbatacchiò le palpebre, l’ansia prosciugò ogni rimasuglio di coraggio e lucidità. A renderlo più ameba di quanto già non fosse, non erano gli sguardi dei compagni puntati sulla sua figura rigida, non era il chiacchiericcio frivolo di un paio di ragazze che decantavano la sua straordinaria bellezza –per quanto uno appena tornato da una maratona possa rientrare nei canoni “straordinaria bellezza”- e non era neppure la scoccante affermazione della signora Choi, che se ne era uscita con un tediato –Vedo che ha deciso di degnarci della sua presenza, signorino Oh.-
No, no, niente di tutto quello. Il problema era ben peggiore.
Aveva grandi occhi scuri, capelli un po’ lunghi, lisci ed ordinati, labbra carnose e sguardo mite, divenuto tempestoso quando gli sguardi si erano inevitabilmente incrociati.
Per la seconda volta nell’arco di un’ora.
Lì, in piedi di fianco alla cattedra, lo sconosciuto dalla pelle olivastra svettava in tutta la sua armoniosa bellezza, come monito della sua enorme coglionaggine. Nessun accenno di rabbia solcò i suoi tratti delicati, lo stupore era sfumato nel giro di una deglutizione e Sehun sperò che non si ricordasse del flash che aveva inondato l’abitacolo per un microsecondo. Del resto non era mai stato un tipo che rimaneva impresso alla gente; era il classico soggetto di cui ci si dimenticava subito, quello che si presentava e subito il suo nome finiva nel dimenticatoio.
Oh Sehun era l’inutilità fatta uomo.
La donna richiamò l’attenzione della classe con un ruggito e Sehun si ritrovò a vacillare sul posto -Ho-Ho perso la metro.- inventò sul momento, vedendo il ragazzo trattenere a stento una risata. No, ok, quello si ricordava di lui.
Che. Sfigato. Colossale.
-Si vada a sedere- ordinò la donna senza nemmeno accennare ad un’eventuale punizione; magari il fatto che avesse una buona media nella sua materia, era un incentivo a guadagnarsi la sua stima –Dopo le lezioni può fermarsi qui per pulire la classe. Direi che come punizione è più che sufficiente.- si afflosciò sulla sedia, la testa cadde in picchiata sul tavolo. Della presentazione dello sconosciuto, Sehun non seguì nemmeno mezza sillaba. Era troppo impegnato a crogiolarsi nella disperazione, angosciato dal fatto che quello avrebbe potuto sfruttare la sua figuraccia a proprio piacimento, magari per accaparrarsi l’amicizia di tutti quei compagni infidi che sempre lo aveva evitato per ogni suo grammo di stranezza.
Poteva andare peggio di così?
-Può sedersi là, dietro il nostro ritardatario.-
Sehun sollevò il capo di scatto, gli occhi larghi mentre vedeva l’anonimo incamminarsi con placidità, un sorriso sornione ancora dipinto sulle labbra. Avvertì una leggera brezza sfiorargli il braccio quando gli fu accanto e una volta seduto, ma forse fu solo frutto della sua immaginazione, udì un sussurro che lo costrinse a morire ancora un po’ su quel banco…
–Spero almeno di essere uscito bene.
Oggi ho delle occhiaie spaventose.-
Sì, decisamente poteva andare peggio…
–Qualcuno qui sta pensando troppo.-
Una mano gelida sul collo lo fece rinsavire. Sentiva il volto andargli in fiamme mentre il cuore pompava più del dovuto. Doveva smetterla di farsi del male, sul serio. Si voltò di scatto, raggelando con lo sguardo quel demente che aveva osato mettere in pausa i suoi ricordi, sprofondando nelle iridi scure di Lu Han, comparso dal nulla come un maledetto Pokémon selvatico.
-Che ci fai qui?- gli rivolse quella domanda con noia, un pizzico di irritazione nel venir disturbato anche mentre lavorava. Studiò il suo volto dai tratti delicati, cercandovi qualche traccia di presa per il culo; non era da Lu Han piombare al Park Baozi, non da solo almeno. Solitamente si faceva scortare da quel santo ragazzo che era Min-seok, l’unico sulla faccia della terra capace di sopportare quel rompipalle; guardò oltre la sua chioma rosso rame, ma di Xiumin nemmeno l’ombra.
-Perché la gente viene al ristorante, Sehun-na?- lo incalzò il ragazzo.
-La gente normale viene qui per mangiare- braccia incrociate, lo fulminò con lo sguardo –Tu, vieni qui solo per rompermi le palle.-
-Non dovresti essere così sgarbato con un cliente- lo ammonì –Diglielo anche tu, Yixing.-
Lu Han sporse il labbro inferiore e Lay capitolò -Sehun—
-Che ci fai qui?- lo interruppe, scompigliandosi i capelli di un improponibile color canarino. Sì, proprio così, canarino. Non platino, non biondo, non color del grano… Canarino. Sarebbe stato meno umiliante se avesse raccontato che quello stronzo di Lu Han gli aveva colorato i capelli nel sonno ma la triste realtà era che lui stesso si era recato al negozio sotto casa per comprare la tinta. Lay gli aveva detto che se voleva dare un taglio drastico al passato, doveva partire da piccoli ma significativi cambiamenti. Probabilmente era drogato quando aveva deciso di dargli ascolto –Non dovevi studiare per l’esame?-
-Ho studiato. Poi mi sono stufato e sono andato a comprare qualche gioco e per caso sono capitato qui - sottolineò quel per caso con troppa enfasi –Allora, mi dai qualcosa da mangiare o devo aspettare che Max Payne irrompa qui dentro e minacci i cuochi?-
Lay li fissò e Sehun alzò subito bandiera bianca -Servilo tu.-
Lay era l’unico lì dentro capace di non perdere le staffe di fronte alla faccia da schiaffi di Lu Han. Che ok, in quel momento era entrato nella modalità Mi mostro tenero come un agnellino così la gente non sospetterà quanto in realtà io stronzo sia, ma Sehun aveva ormai ben compreso come dietro quel sorriso dolciastro si nascondesse altro.
Che il suo essere capitato lì, per caso, e che sempre per caso avesse deciso di mangiare dei Baozi, non era poi così casuale.
Lu Han grugnì ma desistette, forse a testimonianza del suo essere venuto lì in buona fede. Fu nell’arco di un Ti prendo il menù e un acido Scordati i miei manga di Evangelion d’ora in poi, che Sehun precipitò nello sconforto più totale. Lu Han si stava accomodando al tavolo numero 8, quello stesso tavolo che aveva fissato per tutta la giornata e al quale poteva ancora scorgere seduto Jongin, dai tratti intermittenti. Sehun reagì d’istinto, avvertendo un dolore lancinante a livello dello sterno; subito la sua mano andò ad afferrargli il polso, il volto in procinto di incrinarsi in una maschera di angoscia –Puoi non sederti lì?- gli uscì in un flebile sussurro, reso ancora più lacerante dal pallore che gli aveva colorato il volto.
Lu Han arcuò finemente un sopracciglio, le labbra nascoste dietro il foulard nero a scacchi –Come?-
-Non sederti lì. Non-- Sehun deglutì, inumidì le labbra, si guardò attorno sopraffatto da un senso di ansia ed inquietudine. Gli capitava sempre quando qualcuno provava a sedersi a quel tavolo. Era come vedere lo spettro di Jongin sbiadire, sfumare fino alla sua eterna cancellazione e sapere che qualcun altro prendeva il suo posto, gli faceva comprendere come tutto di lui fosse destinato a divenire il nulla.
Il fatto che fosse così facilmente rimpiazzabile, andava ad intaccare l’indispensabilità a cui si era sempre aggrappato e che lo aveva reso l’orbita del suo piccolo, monotono universo.
Gli altri erano satelliti che potevano venir risucchiati in un enorme buco nero, Jongin era il Sole.
-Ehy, ma che ti prende?- Yixing gli pose una mano sulla spalla, l’espressione mite –Vuoi andare a riposarti? Vuoi—
-Che palle…- masticò Lu Han facendo ondeggiare il sacchetto –Dovrebbero bruciarlo quel tavolo…- si afflosciò al quello adiacente e pose i videogiochi con cura sulla superficie di mogano; Sehun si chiese perché riponesse tante attenzioni nei confronti di un paio di cd mentre con le persone si comportava da sociopatico -Qui va bene?- indicò il tavolo con gli indici, mettendosi poi a braccia conserte mentre si sistemava sulla sedia. Sehun annuì, deglutendo un grazie che non volle saperne di uscire -Cos’è quella faccia, si può sapere? Piantala di essere malfidente.-
Sehun avvertì le guance imporporarsi di imbarazzo; l’espressione torva di Lu Han deformava i suoi lineamenti efebici, lo sguardo posato sui fiori al centro del tavolo avrebbe rischiato di mandare a fuoco il locale tanto era ardente. Fu solo sotto il sospiro esasperato di Lay, spettatore scomodo, che realizzò quanto lì l’idiota di dimensioni bibliche fosse lui, non Lu Han.
-Perché sei qui?- lo domandò con curiosità, annaspando nella propria incapacità di saper gestire anche il più sciocco discorso.
Lu Han si mosse impercettibilmente, un paio di gesti secchi che tradirono la sua sicurezza impostata. Da tempo non palpava il suo disagio, come se si fosse pentito di essere passato a trovarlo. Solo dopo qualche secondo lo hyung decise di degnarlo di una risposta -Pensavo ti facesse piacere tornare a casa assieme- alzò le spalle -Ma ora non ne sono più sicuro.-
-Pensavi male.- borbottò flebilmente, stropicciando il grembiule a scacchi.
Lay si intrufolò fra i suoi mormorii sconnessi e dopo aver scosso la testa si limitò ad un blando –Basterebbe un grazie, lo sai?- che lo colpì in pieno petto. Lui dire grazie… A Lu Han?! Non lo avrebbe fatto né ora né mai. Cosa stava facendo per lui, a parte rovinargli l’esistenza? Certo, lo aveva accolto in casa –quando avrebbe meritato un biglietto di sola andata per il paese di Fanculandia-. E lo faceva distrarre portandolo a prendere il the –anche se dimenticava sempre il portafogli e toccava a lui sborsare i soldi-, lo faceva giocare alla play –anche se gli strappava il joystick di mano perché era un impedito cronico-, non si sedeva al tavolo 8 evitando di porre imbarazzanti domande che avrebbero comportato viaggi nei labirinti della sua mente.
Cercava di farlo vivere. E i risultati erano quel che erano, ma almeno ci provava. Si sforzava, a differenza sua, cercava di dare un senso a ciò che ormai era privo di significato. E quell’aria di familiarità andata sbiadendo, parve riassumere connotazioni ben nitide.
Sehun studiò la figura di Lu Han, chiusa in un mutismo che non gli apparteneva. Sembrava essersi davvero offeso per la sua reazione gentile come quella di un sonagli a cui hanno calpestato la coda e un vago senso di colpa si intrufolò nella sua coscienza ricoperta di polvere.
Lay lo perforò con lo sguardo, poi si rivolse pacatamente allo hyung –Allora, cosa prendi?-
Lu Han picchiettò le dita fini sulla guancia mentre le altre giocherellavano con il numerino di legno -Un piatto di Xiumin.- asserì atono, lo sguardo ora rivolto in direzione della finestra. Sehun deglutì a quella visione, chiedendosi cosa stesse passando nella testa dell’amico in quel preciso istante. Dubitava che nella sua scatola cranica albergasse un buco nero, a differenza di quella di Jongin, ma era pur vero che addentrarsi nei pensieri di Lu Han era come giocare alla Roulette russa.
Lay fissò Lu Han con un sopracciglio arcuato e Sehun, incapace di reprimere un sorriso, si ritrovò a fargli da interprete –Un piatto di baozi- studiò l’amico, immobile e apparentemente indifferente –Mettili sul mio conto.-
Lay li fissò scettico ma decise di non commentare la loro ennesima stranezza. Si limitò ad annuire e ad allontanarsi, anche se un accenno di sorriso aveva fatto capolino in mezzo al disappunto, come se avesse colto ciò che stava dietro l’apparenza di quel banale gesto.
Perché Sehun non gli avrebbe detto grazie…
-Sehun?- si voltò, richiamato dalla tiepidezza dell’amico; ne studiò il profilo delicato rivolto verso la finestra, il palmo aperto a coprirgli le labbra sottili. Gli parve di veder le sue guance sollevarsi, come se stesse sorridendo o almeno, a Sehun piacque immaginarsi ciò.
-Nh?-
Gli avrebbe offerto solo dei baozi…
-Prego.-
Tanto Lu Han avrebbe capito.
*******
22 giugno 2013, ore 03:48
Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han.
Quando Sehun guardò la sveglia sul comodino, le 3:48 erano appena scoccate.
Un mugugno di stizza inondò la quiete della camera, scalfita dal solo ululare del vento che quella notte faceva più casino del solito. Gli sarebbe piaciuto dare la colpa a quel maledetto per la sua incapacità di prendere sonno ma la verità era che proprio non voleva saperne di addormentarsi. Oh, certo, lui avrebbe voluto crogiolarsi in un torpore privo di sogni, ma il suo cervello continuava a restare connesso.
Era in perenne movimento, continuava ad acchiappare pensieri e parole, mescolandole tra loro e lo costringeva a pensare. I protagonisti, le scene e le battute erano ormai così consumate che molti dettagli del copione cominciavano ad essere illeggibili, addirittura tediosi. Si chiedeva se davvero, in quel determinato momento, lui avesse riposto sì, no o non lo so, se davvero Jongin si era versato del caffè o aveva spento i fornelli, se davvero la location era stata la cucina e non il soggiorno. E inevitabilmente si chiedeva cosa sarebbe potuto accadere se fosse tornato indietro e avesse modificato le proprie azioni, parole, pensieri. Allora cominciava ad inventare situazioni probabili che avrebbe potuto vivere, costruiva palcoscenici in cui era l’indiscusso burattinaio e le marionette si muovevano a suo piacimento e solo lui decideva quando era giunto il momento di recidere i fili e farle uscire di scena.
Se fosse stato migliore di quel che era, forse a quell’ora non sarebbe fra quelle quattro mura ma in un appartamentino di periferia vicino alla ferrovia, dove il treno passava ogni mezzora facendo tremare le pareti e le finestre ed era impossibile riuscire a dormire, eppure non ricordava di aver passato nemmeno una notte sveglio.
Probabilmente se avesse detto molti più no che sì, non sarebbe sotto le sue coperte con stampe a fumetti ma avvolto da quelle bianco candido che creavano un piacevole contrasto con la pelle ambrata di Kim, anche se molte volte era stato proprio il suo corpo a fargli da lenzuolo.
Si sollevò a sedere, osservando la stampa di Batman che prendeva a pugni il Joker capitato lì per caso. Massaggiò gli occhi pesanti e come richiamato da un grido in lontananza, si affacciò nella triste realtà delle proprie nottate insonni. Rabbrividì quando i piedi si scontrarono con il pavimento gelido e sulle punte si addentrò per il corridoio, seguendo la fioca luce che poteva intravedere dal soggiorno.
Fece capolino senza farsi notare, rimirando la sagoma di Lu Han scarsamente illuminata dal televisore. Poggiava mollemente la guancia sul palmo della mano mentre le dita dell’altra tamburellavano sul joystick, impaziente che il video terminasse per tornare così a giocare. Sehun non glielo avrebbe mai detto, ma adorava vederlo sollazzarsi davanti alla play o accompagnarlo ad acquistare qualche nuovo videogioco.
A pochi metri dal negozio in centro cominciava ad accelerare il passo, le mani che si sfregavano per poi andare a stringere il laccio della borsa a tracolla mentre gli intimava di non rallentare; Sehun faticava a stargli dietro ma non fiatava, anche perché Lu Han non lo faceva parlare tanto era perso ad elencare la sfilza di giochi che avrebbe potuto comprare, per poi uscirsene sempre con quei due o tre usati o scontati. Sembrava ritornare in vita quando si addentravano in quel mondo a lui ignoto e poco interessante, si animava mentre scorreva fra le mensole colme di giochi, si perdeva tra trame che sembravano identiche ma che lui descriva con minuzia, trovandone pregi e difetti, acquistava un entusiasmo che raramente intaccava la sua impassibilità.
Quando Lu Han giocava era di una bellezza assurda.
Ma anche questo, Sehun non glielo avrebbe mai detto. C’erano cose che era meglio tacere, altre dimenticare. Quando si trattava di Lu Han, era meglio nasconderle.
-Smettila di camminare in punta di piedi, tanto ti sento lo stesso.- il suo rimprovero giunse monocorde, seguito da uno sbuffo per il video che sembrava durare più del previsto.
Sehun smise di sollevarsi e abbassarsi sui talloni, le braccia conserte –Come fai sempre a sentirmi, si può sapere?-
-Quando pensi fai rumore- mormorò alzando le spalle -Fai più casino del branco di gnu che ha ucciso Mufasa.-
Sehun si massaggiò le tempie -Non nominarlo, lo sai che la ferita è ancora fresca.-
-Non avrei dovuto lasciartelo guardare ieri sera- Sehun ridacchiò un poco, divertito dalla loro strabiliante capacità di infilarsi in discorsi insensati capaci di fargli dimenticare le sua paturnie, anche se solo per poco –Brutti sogni?- Lu Han si sfregò le mani quando fu tornato in possesso del personaggio. Era vestito con un’armatura in latta e reggeva un bazooka più grande di lui. L’ennesimo sparatutto privo di trama logica, il cui unico scopo era quello di creare una carneficina per il semplice gusto dello splatter.
Sehun si grattò la nuca; che fossero belli o brutti, ormai di sogni non ne aveva più -Nemmeno uno- si acciambellò sulla poltrona –Posso restare un po’ qui?- indicò la tele con un cenno del capo –Magari mi annoierò così tanto che riuscirò a prendere sonno.-
-Basta che non commenti ogni tre secondi come tuo solito- Lu Han passò la lingua sul labbro inferiore e riprese ad ignorarlo. Sehun poggiò la nuca contro lo schienale e osservò L’uomo di latta aggirarsi fra i detriti di una cittadina abbandonata caduta ormai in rovina, sobbalzando di tanto in tanto quando qualche Bruto supermutante compariva random. Possibile che non ci fosse mai qualche gioco in cui bisognava cavalcare pony arcobaleno in un mondo fatato, invece di questi scenari post-apocalittici che gli facevano montare l’ansia? Quale mente malata si sarebbe divertita nello sbudellare innocenti predatori o strani orsi giganti che cercavano di azzannarli? Ma del resto, constatò, Lu Han non era mai stato normale.
-Vuoi giocare un po’?- la voce tediata di Lu Han si mescolò al vociare concitato di un paio di personaggi che stavano interagendo con il protagonista.
Sehun mise i piedi a terra e soppesò l’eventualità di morire fra imprecazioni colorite per il suo essere una pippa assurda –Che gioco è?- dilatò il tempo, sperando che Lu Han non alzasse subito bandiera bianca. Mai giocare con la sua magnanimità.
-Fallout 3…- Lu Han sventolò il joystick –E’ bello.-
A parte che avevano due concezioni di bello nettamente differenti –e quando se ne usciva fuori con certe cazzate, non poteva che dirsi quanto il cervello dell’amico fosse ormai bollito-, Sehun non era poi così portato per gli spara-spara dove l’impulsività e la tecnica facevano da padrone. Lui era per i giochi di logica, quelli dove bisognava stare in silenzio ad analizzare la situazione e poi risolvere gli enigmi. Lui era per i punta e clicca, in parole povere. Meno dinamici, più tranquilli, che lo costringevano ad aguzzare la vista e l’ingegno se voleva scorgere particolari che lo avrebbero portato avanti nella storia. Altrimenti si sarebbe infognato in un vicolo cieco da cui era impossibile sfuggire, sarebbe dovuto andare a ritroso e trovare l’indizio mancante che bloccava tutto il resto.
A meno che non avesse scelto il tasto reset.
Fu sotto lo sguardo incitate dell’amico che realizzò quanto gli sarebbe piaciuto avere il tasto reset anche nella vita. Avrebbe lasciato che le sue memorie scorressero davanti i suoi occhi come immagini su pellicola proiettate sul muro di camera propria, avrebbe messo in pausa e si sarebbe chiesto se tutto ciò fosse valso a qualcosa, se sarebbe potuto sopravvivere anche senza il ricordo del sorriso di Jongin o della risata spastica di Lu Han, degli occhi colmi di amore di sua madre e dei sorrisi stanchi ma mai forzati di suo padre. Avrebbe lasciato ancora scorrere, avrebbe premuto Stop e avrebbe cancellato ciò che non andava.
Sarebbe stato bello se avesse potuto sovrascrivere le reminiscenze di Jongin con un film migliore.
Scosse la nuca e si concentrò sull’amico -Di cosa parla?-
Lu Han sparò ad un tizio -C’è stata la guerra atomica e tu vivi sottoterra insieme a psicopatici che dicono che non potrai mai uscire, che sei nato e morirai dentro al vault 101- un sospiro annunciò il racconto della trama, Sehun poteva scorgere i suoi occhi brillare anche nella penombra –Tuo padre è scappato e tu devi cercarlo. Sei solo in un mondo di cui hai solo sentito parlare, che ti è stato descritto come un incubo, armato di una sola pistola e cinque fottute munizioni perché hai deciso di giocare in modalità Dio anziché normale.-
-Meglio una pistola che a mani vuote- soppesò storcendo il naso alla vista di un povero Rattotalpa appena spappolato. Sehun si alzò, lisciò i pantaloncini e sempre in punta di piedi andò a sedersi al suo fianco –Ma perché sei andato a cercarlo? Non era meglio startene a casa?-
Lu Han non rispose subito alla sua sciocca domanda ma quando lo fece, una nota di irritazione lambì la sua voce –Ehi, lamentati con i programmatori!- un colpo di pistola seguì le sue parole, poi continuò –E poi… Non andresti a cercare anche tu l’unica cosa importante che ti è rimasta, se andasse via senza darti spiegazioni?- Sehun a quelle parole rabbrividì, non capendo se l’amico stesse parlando del gioco o della sua inguaribile situazione.
Il discorso stava prendendo una piega che non gli piaceva e pur di non dover affrontare paranoie incontrastabili, si ritrovò gomito a gomito con Lu Han, il joystick fra le mani e i consigli dell’amico a pochi centimetri dal proprio orecchio. La sua voce era pacata ma poteva scorgere una nota di orgoglio per averlo convinto a partecipare al massacro di innocenti Rattitalpa. Non seppe spiegarsi come e perché, ma Sehun si era ritrovato a premere su quei tasti con fin troppo trasporto, facendo continue domande all’amico affinché la trama potesse diventare un po’ più chiara.
E più procedeva a tentoni, più quel gioco diveniva uno stralcio di vita rivissuto e calpestato troppo spesso.
-Ma hai trovato tuo padre, alla fine?-
-Aha.-
-E dov’è?- girò l’angolo di una metropolitana abbandonata e un Ghoul feroce corse verso di lui. Gli pianse il cuore quando dovette sparargli; quel mucchietto d’ossa era tenero, se si toglievano i suoi lamenti e le unghie infilzanti.
Lu Han stese le braccia dietro la schiena e si allungò, sbadigliando sonoramente –E’ morto per salvarti- Sehun lo guardò allucinato; ma nemmeno Bambi era così tragico! –Ora stai andando ad uccidere i suoi assassini.-
-Ma è senza senso!- sbraitò agitando le mani –Non era tutto ciò che ti rimaneva?-
Lu Han alzò le spalle –Era… Poi il gioco deve continuare, la vita va avanti eccetera, eccetera…- si mise a gambe incrociate, le dita che si torturavano mentre lo sguardo si perdeva sul mucchio di Ghoul appena schiantatisi al suolo. E le sue parole, un pugno in pieno petto –Sehun, ormai lui non è più la tua unica ragione di vita.-
La quiete della biblioteca della scuola aveva il potere di rilassarlo. Sehun si trovava a proprio agio, immerso nel silenzio. Nessuna parola a frustrarlo, nessuna conversazione futile che avrebbe rischiato di annoiarlo. Solo lui, i suoi libri e il suo mondo, dove pochi eletti potevano entrare a farne parte. La selezione era dura, non lasciava prigionieri e mieteva vittime.
Forse era per questo che nessuno decideva di albergarvici. Era futile sprecare energie per qualcosa di così poco interessante.
Sehun stese le gambe sotto il lungo tavolo mentre fra le dita continuava a rigirarsi la fotografia scattata quel mattino. Quante possibilità aveva di ritrovare nella propria classe il soggetto dei suoi istinti maniaci? Possibilità altamente improbabile. Ma siccome era uno sfigato colossale, era ovvio che il nuovo arrivato appena trasferitosi fosse proprio colui che aveva catturato la sua attenzione. E giusto perché non c’era mai fine al peggio, fu ovvio che se lo sarebbe ritrovato anche in classe.
Avrebbe dovuto pensarci subito invece di fare lo stoccafisso davanti all’intera classe.
Appoggiò la polaroid sul libro di storia pieno di appunti scarabocchiati, deglutendo una sonora imprecazione che avrebbe fatto crollare le pareti. Doveva scusarsi con quel ragazzo non appena fosse stato possibile. Magari prima, però, avrebbe accampato una scusa plausibile che potesse dare un senso al suo gesto. Di certo non poteva dirgli “Lo sai? Non ho mai visto un ragazzo più bello di te! Così ho deciso di farti una foto!”, non poteva. Sarebbe dovuto migrare in un altro stato se solo lo avesse fatto.
Ma ancora peggio, in tutto quel casino, era che non sapeva cosa aspettarsi da quello. Aveva avvertito per tutto il tempo il suo sguardo sulla propria nuca castana, aveva temuto che da un momento all’altro gli perforasse il collo con una matita ben appuntita o che nel bel mezzo della lezione di inglese si alzasse in piedi e urlasse “Posso cambiare banco? Non voglio un maniaco davanti a me”. Invece non si era scomposto, lo aveva ignorato, aveva adoperato un sangue freddo che Sehun aveva smarrito sulla linea 3.
Si era reso invisibile ai suoi occhi, proprio come lui stava cercando di fare senza successo alcuno.
Un passo intaccò la sua quiete e quando Sehun guardò dritto davanti a sé, quel maglione blu scuro riportò a galla l’ansia che credeva di aver perduto dopo essersi volatilizzato dall’aula. Un paio di occhi allungati scalfirono la sua pace interiore e Sehun credette di star per morire. La morte si era avvicinata armata di sorrisetto beffardo, mani in tasca, auricolari penzolanti lungo il collo e zaino calato su di una spalla. Si era fermata e lo aveva squadrato.
Lo ammetteva, la morte era di una bellezza spaventosa, ma per quel giorno era stanco di ritrovarsene faccia a faccia perdendo ogni facoltà mentale.
-Fotografi tutti quelli che incontri o sono stato solo fortunato?- la domanda era veleggiata seria nell’aria, con una nota di divertimento misto ad irritazione. Un connubio così contrastante che Sehun si chiese come potesse rimettere così tante emozioni in un sciocco quesito.
Eppure, incrociando la sua figura slanciata, non gli parve arrabbiato per l’accaduto. Confuso forse, decisamente impaziente di avere una risposta che soddisfacesse i suoi dubbi e perché no?, forse che potesse gonfiare il suo ego. Ma non arrabbiato… E questo, per motivi a lui ignoti, lo rincuorò.
Sehun chiuse il libro di scatto, celando l’arma del delitto.
-Ho premuto per sbaglio, non volevo.-
Il petto di Jongin andò sgonfiandosi lentamente mentre le labbra si incurvarono di disapprovazione -Per sbaglio…-
-Sì, per sbaglio!- le gambe sotto il tavolo traballarono –Non crederai mica che faccio foto ad estranei. Non sono un maniaco!- e davvero, lui non lo era! Anche se quella mattina si era ricreduto, lo ammise ad un recalcitrante sé stesso.
Jongin inclinò il volto, assottigliò gli occhi e si allungò con fluidità, strappandogli il libro da sotto le mani con velocità; Sehun ci mise un po’ per realizzare ciò che stava accadendo e quando lo vide sfogliare le pagine con malagrazia, un seccato –Cosa stai facendo?!- si sparse nell’aria, colorandogli le guance di porpora. Perché non si limitava ad ucciderlo e poneva fine alla sua triste esistenza?
-Cercavo questa- la sventolò, brandendola come un tesoro appena trovato -Non ti dispiace se mi tengo il tuo “sbaglio”, vero?- domandò poco dopo, gettando il quaderno sul tavolo. Sehun lo guardò allucinato, chiedendosi perché quest’acqua cheta stesse agitandosi improvvisamente. Gli aveva dato l’impressione di un ragazzo placido, invece si stava rivelando uno scassa palle che nemmeno Lu Han.
-Come ti pare- si afflosciò sulla sedia –Tanto non me ne farei nulla.-
Il ragazzo annuì e mentre un sorriso spuntava sulle sue labbra, si lasciò cadere pesantemente sulla sedia davanti a lui. E ora perché non se ne andava?! Quanto ancora sarebbe durato quel supplizio? E perché sorrideva? C’era qualcosa che non andava in quello.
–Peròòò, sono uscito proprio bene! Tu non trovi…- il sorriso si spense, l’indice andò a grattare una tempia mentre le sopracciglia si aggrottavano. Quando pensava, quel tipo sembrava divenire più scemo di quanto non fosse. Ma come Diavolo si chiamava?! -Ahm, uhm…-
-Oh Sehun.- il proprio nome risuonò cavernoso, ovattato dalla mano che andò a riparare le labbra ora serrate mentre lo sguardo si scostava da quello del ragazzo, largo e incuriosito. Sehun odiava pronunciare il proprio nome, a dire il vero odiava pronunciare tutte le parole che cominciavano per S e che lui, inevitabilmente, emetteva con un agghiacciante “TH” che spesso aveva suscitato l’ilarità della gente. Come se non avessero mai udito un difetto di pronuncia, quei bifolchi patentati.
Ed eccola lì, quella risata che mai giunse. Ci fu silenzio, il suo scuotere la nuca e poi sorridergli –Ah, già, è vero- giocherellò con una ciocca –Scusami, non sono granché bravo a ricordare i nomi- ridacchiò –E nemmeno i compleanni, gli appuntamenti, l’algebra.-
-Nemmeno io.- mormorò spaesato, chiedendosi perché quel ragazzo continuasse a mantenere vivida la conversazione. Sarebbe dovuto essere un’anima di passaggio che aveva sfiorato la sua attenzione per puro caso, invece si ostinava a sostare.
-Stamattina mi sono perso tre volte- ridacchiò scioccamente –Non sono bravo nemmeno con le strade.- il suo sorriso bianco si allargò e Sehun non poté non sorridere di rimando. Aveva qualcosa di contagioso, quello sconosciuto, come se per un istante il mondo avesse trovato la sua giusta collocazione. Era la linea 3, era la Terza sezione B, era la biblioteca fiocamente illuminata e colma di scaffali ripieni di libri e genete china sui tavoli.
Gli parve strano trovarsi a proprio agio nell’arco di così poco tempo con qualcuno che non fosse Lu Han, ma qualcosa gli diceva di diffidare da quel ragazzo dalla pelle dorata e lo sguardo perforante.
Non resse al loro silenzio, si ritrovò a parlare -Ti sei trasferito da molto?-
-Sono qui da una settimana. E’ bello qui.-
-Se ti piace l’Inferno.-
L'altro rise un poco –Mia mamma ha sempre detto che è come il Paradiso- vide i suoi occhi brillare quando la parola “mamma” scivolò dalle sue labbra carnose –Vedremo chi ha ragione- lo vide guardare l’orologio sul polso –Ora devo andare o rischio di fare tardi.- si alzò e aggiustò il cappellino. Lo vide sventolare le dita in segno di saluto e dargli le spalle senza attendere un cenno, la fotografia stretta nella sua mano.
Mentre fissava il modo buffo con cui portava lo zaino sulle spalle, quasi fosse un teppista da strada che cercava di andare contro il sistema, Sehun si disse che non sapeva ancora il suo nome. Pazienza, tanto lo avrebbe rivisto in classe.
Passi veloci catturarono nuovamente la sua attenzione ora rivolta alle pagine del libro. Corrugò la fronte quando vide il ragazzo davanti a sé, una mano a massaggiarsi il collo e l’altra che stringeva la foto.
-Hai dimenticato qualcosa?-
Annuì, impacciato rispetto alla spavalderia con cui si era presentato –Questo.-
Si chinò, rubò una penna dal suo astuccio senza fare troppi complimenti e scribacchiò qualcosa sul retro della foto. Sehun, palmo aperto sulle labbra, lo squadrò –Che stai facendo?-
-Do un nome al tuo capolavoro.-
-Non credi di star esagerando?-
-Oh, il capolavoro sono io, che avevi capito?- gliela porse con un sorriso un po’ infantile, gli diede le spalle e mani intrecciate sulla nuca si dileguò lasciandolo con un sussurro appena accennato che lo lasciò interdetto.
E non lo comprese, non subito almeno.
Gli ci sarebbero voluti mesi, anni, per scoprire che mai sarebbe riuscito a capire Jongin. Era come trovarsi di fronte ad un puzzle di solo cielo, una sfida troppo difficile per uno che scappava alla prima difficoltà. E anche ripensandoci, di quel loro primo e vero incontro non è che ricordasse granché, a dirla tutta. Erano solo dettagli, sfumature che avevano assunto tonalità diverse man mano che tentava di riprendere in mano quel momento.
Era così quando maneggiava i ricordi, finivano con lo sbiadire, distorcendosi.
Ma c’erano cose che per quanto si ostinasse a rimuoverle, continuavano a restare indelebili.
Di quel giorno, Sehun ricordava passi rumorosi che avevano attraversato il silenzio della sua quiete e il sorriso che aveva tremato sulle proprie labbra prima di aprirsi, mentre lo sguardo si infrangeva su di una schiena larga e un po’ ricurva.
Di quel 24 Ottobre 2006, Sehun ricordava il suo nome, Kim Jongin, impresso con inchiostro nero sul retro della polaroid…
-Almeno non te lo dimenticherai.-
E nella sua mente.
-Da qua!- Lu Han gli strappò il joystick di mano e mugugnando parole a caso cominciò a picchiare nemici su nemici. Com’è che erano finiti in una specie di città abbandonata? Ma prima non erano nei cunicoli di una metropolitana radioattiva? –Cristo se sei negato.-
-Sai che non sono bravo in queste cose.- borbottò risentito, mettendosi a braccia conserte.
Lu Han si grattò la nuca e sventolò una mano, mangiucchiando delle scuse che mai gli giunsero chiare. Passarono i minuti e solo dopo aver salvato Lu Han decise di degnarlo della sua attenzione –A proposito, com’è andato l’esame?- lo guardò con un ghigno –Scommetto che sei stato premiato con la lode, secchione.-
C’era una nota di irriverenza nella sua voce melliflua, ma Sehun non volle dargli corda. Meglio fingersi sciocchi che esserlo per davvero –L’esame?-
-La cosa sulla tristezza.- sventolò una mano, quasi avesse perso l’interesse dopo averlo visto così sfibrato. Chissà perché ma Lu Han tendeva ad annoiarsi ogni qualvolta lo cogliesse con le mani fra i propri pensieri, come se fosse infastidito dal fatto che il loro epicentro fosse Jongin. Cominciava ad esserne stanco anche lui, ad essere sincero.
Sehun alzò lo spalle, più per scacciare il peso di quel nome solo pensato, che altro –Ho preso diciotto…- Lu Han allargò gli occhi scuri e Sehun tornò a guardare la tele –Dice che avrei potuto fare di più.-
-Oh…- si acquattò, mordendosi il labbro inferiore –Vuoi che andiamo a bucargli le gomme dell’auto?-
Sehun sbuffò una risata, facendo cadere la nuca in avanti. A volte Lu Han se ne usciva con stronzate talmente apocalittiche che non poteva trattenersi. E l’angolo destro delle labbra dell’amico guizzava all’insù, quasi fosse orgoglioso di essere riuscito in quest’ardua impresa.
-Nah, va bene così…- sorrise –Mi rifarò con il prossimo compito.-
Lu Han annuì. Sehun deglutì l’amaro sapore delle bugie.
Non gli disse mai di aver preso 30 con lode.
Vedere la propria tristezza lodata, non gli parve mai così squallido come allora.
Inutili note conclusive:
Non se essere più disperata per il fatto che più scrivo i capitoli, più mi pare di non andare da nessuna parte o perché Kai si è fatto biondo. O perché mentre sto scrivendo queste note c’è come sottofondo Nek vi prego strappatemi le orecchie.
Come al solito il nulla cosmico aleggia in Absentia, ma credo che la lentezza sia insita nella mia natura. Vorrei promettervi di metterci più azione, ma questa storia è costruita sui pensieri dei personaggi perciò non mi resta che affidarmi alla vostra pazienza con la speranza che possa piacervi girovagare fra i labirinti contorti della mente di Sehun e, soprattutto, che non vi tedi. Per quanto riguarda il sistema di valutazione adottato per l'università... Mh, facciamo che chiudiamo tutti gli occhi? Mi è stato fatto notare -che poi ci avevo già pensato, ma ho postato ad occhi chiusi e ammetto di essermelo fatto sfuggire- che in Corea non utilizzeranno sicuramente il nostro metodo di votazioni; mi sono documentata ma la ricerca è stata infruttuosa, perciò mi sono presa questa licenza poetica. Nel caso qualcuno fosse più informato della sottoscritta, mi faccia notare l'errore, così posso sistemare ^^
Non ho nulla da aggiungere, a parte che questo è l’ultimo aggiornamento lampo che ho da offrirvi. Ho deciso di postare ora perché questo weekend non so quanto tempo avrò a disposizione e per i prossimi capitoli… Cercherò di essere costante, ma non prometto nulla. Il lavoro mi sta mangiando ogni energia, spero possiate comprendere. Se doveste notare errori o sbalzi temporali fatemeli pure notare con tutta la spensieratezza di questo mondo; è tardi e qualcosa potrebbe essermi sicuramente sfuggito.
E come al solito ringrazio quelle anime pie che hanno commentato il capitolo precedente: a dylandogs e Shinushio va la mia gratitudine più sincera. Sapere che questa storia continua a suscitare il vostro interesse non può che rendermi felice. Grazie, ma grazie davvero.
Ringrazio anche chi ha inserito la storia fra le seguite/ricordate/preferite e chi legge in silenzio. Se foste arrivati fino a qui e voleste dirmi cosa ne pensate, mi farebbe enormemente piacere :)
Alla prossima!
HeavenIsInYouEyes.
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Capitolo 4 *** E Jongin? ***
Absentia
“ E rimarrà forse il vuoto di noi a disarmare i rimpianti che so,
per ricordarci in un attimo che… Passerà.”
-Subsonica, Nuvole rapide-
Capitolo 3
E Jongin?
(Di pullman, chiamate non risposte e film russi)
30 giugno 2013, ore 18:26
Seoul. Sull’autobus, tratta blu.
Il cielo quel giorno prometteva pioggia.
Seduto sul primo pullman che aveva trovato gironzolando per strada, Sehun poggiò la fronte sul finestrino, immergendosi nel grigiore di una Seoul trafficata e più frenetica del solito. Adorava viaggiare in pullman senza una meta precisa, ascoltando musica e lasciando che la mente pascolasse per lidi incontaminati da molesti pensieri. Ricordava con nostalgia la sua adolescenza fatta di incontri alla fermata del bus con Lu Han, quei giorni soleggiati dei suoi quattordici anni quando si munivano di Mp3, salivano sull’autobus verde e scendevano solo al capolinea, scegliendo ovviamente la tratta più lunga; nessuno dei due fiatava durante il viaggio, si limitavano a stare gomito a gomito guardando salire e scendere le persone, chiedendosi dove stessero vagando. Quella vecchietta che stringeva un sacchetto della spesa stava andando a far visita ai nipoti o era solo annoiata di stare in casa? E quel giovane impiegato in giacca e cravatta stava andando a lavoro o a far visita alla moglie ricoverata in ospedale?
Lu Han era fermamente convinto che andassero a trovare l’amante –sì, pure la signora anziana-; per Sehun erano solo anime di passaggio che approfittavano della vita più di quanto lui facesse con la propria. E amava ricamarci sopra, cucire storie sui loro volti assorti.
Sehun storse il naso alla vista degli enormi nuvoloni che stavano cominciando a coprire i palazzi e che lo avevano costretto a scappare dal parco, adibito a set fotografico. Pochi ma inestimabili gioielli su pellicola patinata giacevano come reliquie nella sua borsa a tracolla, vicino al suo tesoro più grande, quella Polaroid talmente vecchia che avrebbe potuto esalare l’ultimo flash da un momento all’altro. Quando sarebbe accaduto, le avrebbe dato degna sepoltura sotto il cipresso dietro casa, di fianco al gatto della signora Park, quel maledetto felino che più volte si era intrufolato in casa loro mangiando quei pochi avanzi lasciati fuori dal frigo o adibendo il loro minuscolo balcone a lettiera… Ripensandoci, capiva perché Lu Han avesse cercato in molte occasioni di mutilarlo con la Buster Sword[1] in miniatura comprata alla fiera del fumetto.
Posò la nuca contro il poggiatesta, lo sguardo perso sul paesaggio monotono che si srotolava davanti i suoi occhi pesanti. Vedendosi riflesso nel finestrino di quell’autobus blu stranamente poco affollato, Sehun si rese conto di come vistose occhiaie solcassero il suo volto pallido, facendolo apparire un malato ancora lontano dalla via della guarigione. Una via di cui ancora non vedeva l’imbocco. Qualcuno doveva aver nascosto i cartelli oppure i segnali erano stati spostati, confondendolo. Qualsiasi fosse la ragione, Sehun non stava bene e dubitava vi fosse un antidoto a tutto questo. Lu Han gli aveva detto che il tempo avrebbe sistemato ogni cosa ma se il tempo stesso diventava una malattia, dubitava sarebbe rinsavito. Il solo fatto che si fosse ritrovato a viaggiare su di un pullman senza un perché o un dove anziché rincasare, la diceva lunga sulla sua sanità mentale ormai precaria.
Forse avrebbe fatto bene ad accettare l’invito di Lu Han e starsene nella loro scatola di sardine con lui a guardare un film di non ricordava chi per un suo esame di non ricordava cosa, ma aveva preferito ritagliarsi quelle ore di libertà dallo studio per stare un po’ in compagnia della sua macchina. A causa degli esami che non gli davano tregua, l’aveva trascurata così tanto da sentirsi in colpa nei suoi confronti; ogni santa mattina quella guaiva non appena l’obiettivo incrociava il suo sguardo sonnolento e la notte ululava quando si ritrovava a studiare sul letto in balia dell’ansia pre-esame, con un Lu Han casinista dall’altra parte che smadonnava contro un protagonista cerebroleso che non riuscirebbe a battere nemmeno mia nonna in una gara con la sedia a rotelle!, o qualcosa del genere. Gli smadonnamenti di Lu Han poi si stavano facendo sempre più acuti e frequenti ma dubitava fossero interamente rivolti ai suoi adorati videogiochi.
Ultimamente neppure l’amico sembrava granché propenso alle chiacchiere. Da qualche settimana continuava a rinchiudersi in camera ogniqualvolta il cellulare squillasse, era più nevrotico del solito e usciva solo per mangiare, giocare alla play ed insultarlo. Sehun come osservatore faceva schifo, ma non gli ci volle una laurea in astronomia per comprendere che qualcosa nell’universo di Lu Han stava cambiando. Forse qualche satellite si era staccato dalla sua orbita e il suo essere incapace di trattenerlo a sé lo stava riducendo ad uno psicolabile; forse i pianeti stavano cambiando, mandandolo in crisi; forse l’esame di fine mese era più impegnativo dei suoi pronostici e si era reso conto che ridursi a studiare gli ultimi giorni non sarebbe stato redditizio, non come al solito perlomeno.
O forse aveva litigato con Wu Fan, il suo non quantificabile ragazzo. L’ultima preda catturata, per dirla a parole sue. Ecco come amava dipingere Lu Han i suoi spasimanti: prede. Per essere una specie di nerd che trascorreva le proprie giornate davanti alla tele, il numero di uomini che avevano sostato fra le sue braccia non potevano contarsi sulla punta delle dita, nemmeno se alla conta avesse aggiunto quelle dei piedi. Era carismatico, Lu Han, aveva la strabiliante capacità di accaparrarsi le simpatie degli altri senza sforzo alcuno, senza danneggiarsi per il sarcasmo e l’ironia con cui era solito infarcire ogni discorso. E a quanto pareva, i ragazzi ne erano visibilmente attratti se continuavano a ronzargli intorno come api col miele.
Per Sehun, invece, Lu Han era come la marmellata d’arancia: delicato come un’albicocca, dall’apparenza un po’ dolciastra che catturava al primo sguardo, bastava averci poco a che fare per scontrarsi con un carattere dai risvolti amari. Ma a Sehun andava bene così. La marmellata d’albicocche gli aveva sempre fatto venire la nausea.
Lu Han era riservato, non parlava granché delle sue conquiste. Usciva senza dirgli dove andava e rincasava con qualche succhiotto malamente coperto dalla sciarpa; lasciava la scatola di preservativi ancora piena sul tavolo e giorni dopo gliela faceva trovare ormai mezza vuota, in bella vista e sempre nello stesso punto; giocava meno alla play e preferiva concedersi qualche ora all’aria aperta, sembrava perfino più propenso alla simpatia. Mai era successo che pronunciasse ad alta voce il nome del suo nuovo compagno, semplicemente perché le sue avventure erano troppo brevi perché quello meritasse di venir memorizzato. E quando il flirt finiva, tutto tornava nella norma.
Ma questa volta, Sehun aveva creduto fosse diverso.
Stavano mangiando del ramen preconfezionato -di quelli scadenti e che gli restavano sullo stomaco-, Sehun poteva ancora avvertirne la collosità sul palato mentre l’odore del brodo si mescolava a quello di pollo fritto proveniente dal palazzo adiacente. Sehun aveva detto Domani potremmo guardare quel film di cui mi avevi parlato, pronunciato più per colmare quel vuoto che altro e Lu Han, sguardo annoiato indirizzato alla tele che trasmetteva il telegiornale, se ne era uscito con un serafico Mi devo vedere con Wu Fan a cui era seguita una fugace spiegazione di chi fosse, come, dove e quando si fossero incontrati con sottofondo lo sciabordio dei piatti. Spontaneamente, senza aver dovuto indagare nella sua vita privata, come se la relazione fosse ormai giunta ad un livello così importante che solo parlandone ad alta voce sarebbe diventata concreta.
Fu strano vedersi rendere partecipe della vita sentimentale del suo migliore amico; fu ancora più strano avvertire un briciolo di invidia montare a livello dello stomaco e risalire graffiante verso il cuore. Era contento per Lu Han, di certo quel ragazzo doveva mettere la testa a posto, ma sentiva che qualcosa inevitabilmente riportava a galla spiacevolezze che avrebbe preferito dimenticare.
Che tutte quelle sensazioni che si nutrivano avendo a fianco qualcuno avrebbe voluto riprovarle, ma dubitava ne sarebbe stato ancora capace. Sulla propria pelle diafana poteva ancora avvertire il calore di Jongin, le abrasioni lasciate dalle sue labbra carnose, le ruvide cicatrici lasciate dai suoi sguardi che scorrevano meticolosamente sul suo corpo baciato dal pallore della luna o dalla fioca luce della cucina; al solo pensiero che tutti quegli indelebili segni –gli unici doni che il ragazzo non si era portato via- potessero venir sostituiti da quelli di qualcun altro, Sehun cominciava a veder sfuocato mentre miliardi di brividi risalivano lungo l’esposta spina dorsale, le gambe divenivano molli e le pareti della stanza cominciavano a farsi più strette, perfino i propri ricordi cominciavano a divenire asfissianti.
Si sentiva senz’aria, sperso nel vuoto di loro.
-Oh… Sei proprio tu?!- un picchiettio leggero sulla spalla fece riavvolgere il flusso dei suoi pensieri, fino a che la pellicola non si bruciò –Non posso crederci!-
E questo sarebbe…?
Alto e slanciato, si ergeva davanti a lui un ragazzo sconosciuto nella sua familiarità. I contorni del volto ovale erano maleati in una smorfia sbarazzina, accentuata da rossicci capelli mossi tendenti ad un arancione inguardabile che non riuscivano a coprire un paio di orecchie esageratamente grandi. Era resa ancora più insopportabile da un sorriso così largo capace di irradiare l’intera città e da cui sbucava una perfetta fila di denti bianchi. Sehun aveva una teoria tutta propria al riguardo: più il sorriso era grande, più la bocca era larga. E Sehun non andava d’accordo con le bocche larghe.
-Eh, già— la lingua si attorcigliò, impedendogli di commettere una delle sue consuete gaffe. Ma perché la gente non viaggiava con delle targhette con inciso sopra il nome? Gli avrebbero reso la vita decisamente più facile.
Fu inutile provare a ricordare come si chiamasse l’appendiabiti ambulante, tanto quello aveva preso a dargli amichevoli pacche sulle spalle –facendogli addirittura sfilare un paio di volte gli auricolari- bombardandolo con domande a raffica senza nemmeno dargli il tempo di rispondere.
-Ma dov’eri scomparso?!-
Non sono io quello scomparso, avrebbe voluto esalare con tutta la forza che aveva in corpo, invece un blando -Sono sempre stato qui.- crepò il muro d’indifferenza che aveva erto per di non mostrarsi spaesato.
-Certo che ne è passato di tempo!- portò la mano sulla fronte –Ero sempre lì a dirmi: “Chan-yeol, devi chiamare Sehun!”, ma poi mi dimenticavo. Sai com’è… Gli impegni!- l’abitacolo si riempì della sua risata rumorosa ma Sehun non poté che essere grato del suo parlare a macchinetta.
Fu infatti a quella constatazione che lo scantinato del cervello si illuminò. Chan-yeol era un lontano amico di Kim, conosciuto per caso una remota sera di qualche anno prima, di quelle in cui Jongin usciva sudato dal teatro con la borsa in spalla e con ancora lo scrosciare degli applausi a circondarlo. Ricordava che il suo sorriso stanco gli mozzava sempre il fiato in quelle occasioni; la sua potenza era tale che al solo pensarci, quella sensazione di vertigini si presentava prepotente.
Ricordava ancora come quel deficiente di Jongin glielo avesse presentato con il nome sbagliato con conseguente sua figura di merda colossale, di come gli avesse stretto la mano tutto raggiante prima di uscirsene con un serafico –Oh, quindi sei tu Yoda! Jongin non fa che parlarmi di te!- -Ma io non mi chiamo Yoda.- -Ah, no?- -No, io sono-- e non colse nulla perché dietro le proprie spalle c’era quel demente di Kim che stava sputando l’anima tanto rideva a crepapelle. Per tutto il tragitto verso casa non aveva fatto altro che insultarlo, prenderlo a calci e a morsi sugli stinchi e più si infervorava, più quello ciondolava sul marciapiede con le mani dietro la testa impestando l’aria già di per sé tossica con la propria argentea risata. Fino a che, esausto, si era unito a lui nell’ilarità del momento, costringendosi a dover tenere una mano sullo stomaco dolente pur di non spiaccicarsi sugli scalini d’ingresso. E ricordava lo sguardo luminoso di Jongin, il suo rotolarsi a letto in preda all’eccesso di risa se solo ripensava alla sua figuraccia e il suo Potrei morire, senza rendersi conto che più lui si comportava così, più era Sehun quello che moriva un po’.
-Ti spiace se mi siedo?- indicò il seggiolo vuoto al suo fianco e quando annuì, lo vide afflosciarsi. Fece per stendere le gambe ma erano troppo lunghe; le ritrasse con un moto di stizza che deturpò la serenità dipinta sul volto ovale -Allora, come va? Studi ancora fotografia?-
-Aha…- avrebbe voluto dirgli che pochi esami lo separavano alla libertà, ma ciò avrebbe comportato una chiacchierata che in realtà non voleva fare -e comunque Chancoso aveva monopolizzato la conversazione, solo per amore della cronaca-. Era più forte di lui: ogni qual volta si trattava di conversare la bocca si seccava e le parole non volevano saperne di venir stanate. Ed era grato alle persone come Chan-yeol: erano talmente chiacchierone che gli evitavano di dover prendere parte attiva alla conversazione. Si limitava ad ascoltare, captando ciò che gli interessava, interagendo se interpellato.
Questa volta però il motivo per il quale Sehun fu così restio a parlare fu solo uno: la Torre Eiffel vivente era un legame con Jongin. Inevitabilmente avrebbero finito col renderlo il centro permanente del loro cicaleccio e Sehun non si sentiva pronto per questa sfida.
-Per il resto… Come va?- strabuzzò gli occhi quando il silenzio aleggiò attorno al loro. C’era sospensione nel suo sguardo, come se davvero si aspettasse una risposta sincera. Sehun cominciò a sentirsi a disagio spiaccicato contro il finestrino, trattenendosi dal strangolarlo per quel millesimo Come va? a cui sarebbe sicuramente seguito qualche impervio discorso. Ma quello sorrideva, lo incalzava con occhi sempre più larghi e Sehun non se la sentì di essere così maleducato dal voltargli le spalle.
Uno schifo, avrebbe voluto rispondergli con tutta la sincerità di cui era capace, magari condendo il tutto con un’espressione tremebonda e voce scoccante di rabbia repressa. Ma se ne uscì con un mite –Si va avanti.- che era il classico tutto e niente. Yoda sembrò farselo bastare perché per qualche istante si zittì, ma c’era qualcosa nei suoi occhi scuri che tradiva curiosità e un pizzico di imbarazzo, quasi fosse sul punto di spararne una grossa.
E Sehun attese.
Attese la fatidica domanda cercando qualche canzone nell’Ipod, guardando i palazzi scorrere, ascoltando il frivolo gracidio di un paio di ragazze che sparlavano di una terza amica non presente, dicendosi che tanto non sarebbe stato più doloroso di quanto già non fosse. Perché il tempo era scorso su di loro, ormai alla deriva di un amore che non li rappresentava e allora no, non avrebbe fatto più male…
-E Jongin?-
Crack.
… Anche se certe cose non sarebbero mai cambiate.
Lo avvertì a livello del cuore, lo strappo.
Fu agghiacciante la velocità con cui il suo corpo reagì al suono di quel nome, la velocità con cui tutti i suoi muscoli si tesero in sincrono mentre il cuore smetteva di battere, le gambe divenivano molli e la mente si svuotava. Era come morire lentamente, lasciando che ogni energia si prosciugasse mentre l’intorpidimento prendeva il sopravvento. Sudori freddi cominciarono ad imperlargli la fronte e guardandosi al finestrino, si accorse di come il pallore avesse cominciato a tingergli la pelle già di per sé chiara.
Quella domanda era difficile, un livello di difficoltà che lui non era pronto ad affrontare, per quanto si fosse preparato psicologicamente. Perché E Jongin? non era uguale a Pensi ancora a Jongin?
Pensare a Jongin era ormai una scomoda abitudine che lo svegliava al mattino e non lo faceva dormire la notte, lo tallonava nelle sue noiose giornate e lo abbracciava quando cadeva preda dello sconforto. A quel Pensi ancora a Jongin?, Sehun mentiva, contorceva la verità a proprio piacimento e costringeva gli altri a credergli. Ma se si tirava in ballo quel E Jongin?, chiesto con curiosità, allora le carte in tavola venivano mischiate e Sehun non sapeva più che assi giocare per trarsi d’impiccio.
C’era che non poteva rispondere semplicemente perché non aveva risposta alcuna.
Jongin si era perso, Jongin non c’era più. Sehun non sapeva più nulla di Jongin.
-E Jongin… Cosa?- a fatica riuscì a smuovere le parole messesi in fila ma timorose di mostrarsi. La bocca pesava, quasi gli doleva.
Quello alzò le spalle, trasudava ingenuità da ogni poro –Beh, mh, come sta?-
Già, come stava? Stava bene? Pregava di no. Pregava notte e giorno che il Karma gliela stesse facendo pagare con atroci sofferenze.
-Non lo so- fu un soffio flebile, sospinto da quell’avanzo di forza rimastogli in corpo –Ci siamo lasciati.-
La notizia non parve turbare il ragazzo. Se ne rimase immobile, lo sguardo puntato nel suo e l’aria di chi sa ma non vuole apparire invadente –Oh, l’ho saputo…- una nota di rammarico macchiò la sua voce allegra –Mi dispiace.-
-Cose che capitano.- alzò le spalle, più per scrollarsi di dosso la sensazione di compatimento che lo aveva rivestito che per marcare l’indifferenza della propria constatazione.
-Non deve essere stato facile.-
-Ci sono cose peggiori.- la sua voce sfumò di qualche ottava mentre cercava di autoconvincersi di ciò che aveva appena pronunciato. Pregò che anche Chan ci cascasse con il tutto il sorriso e le orecchie.
-Già. Però sai… Eravate una così bella coppia!- glielo confessò con radiosità raggelante, di quelle che lo costringevano a fare i conti con la dura realtà delle proprie giornate. Quell’eravate stonò con l’affetto che ancora serbava per quel cretino di Jongin, facendo incrinare ogni più piccolo angolo del suo viso. Si guardò nel finestrino; quella maschera d’indifferenza che aveva appena indossato era orribile –Io non ci ho voluto credere quando me lo hanno detto.-
-A cosa?-
Yoda si mosse sul posto, si massaggiò la nuca e il sorriso scomparve dietro una deglutizione –Che ti ha tradito e allora l’hai lasciato- sventolò le mani –D’accordo, Jongin non era un santo, però--
-Tradito?!- quell’accozzaglia di lettere venne sputata con repulsione, come se non potesse credere a ciò che aveva appena udito. Ed effettivamente, non ci credette. Sehun aveva tante volte cercato un motivo plausibile per la sparizione improvvisa del ragazzo ma il tradimento non era mai stato contemplato.
Era un’anima libera, Jongin, di quelle intrattenibili le cui ali non potevano essere spezzate. Più volte sulla sua pelle ambrata aveva avvertito l’odore di qualcuno che non era lui, ma Sehun aveva sempre trovato conforto in un’unica certezza: se lui non gli avesse rubato il suo cuore, di sicuro nessun’altro ci sarebbe riuscito.
Quindi no, non lo aveva tradito. Probabilmente si era volatilizzato, ma da solo. Non in compagnia. Solo lui. Sempre e solo lui, senza nessuno al suo fianco. Quella era l’unica cosa che teneva alimentata la flebile fiammella della speranza su cui troppi venti contrari continuavano a soffiare. Se si fosse estinta, sarebbe morto con lei.
Allibito come mai prima d’allora, guardò il ragazzo con sguardo allucinato –Lui non mi ha tradito!- Credo…
-Oh, beh…- sventolò le mani, le guance purpuree per l’imbarazzo -E’ questo che si dice in giro, così pensavo che—
-Si dice in giro?- sbatacchiò le palpebre, strinse i jeans a pugni stretti, le nocche ormai bianche -La gente parla di noi?!- gli parve impossibile, addirittura indicibile un’eventualità di tale calibro. Sehun non era mai stato granché chiacchierato, non era uno di quei ragazzi che stava sulla bocca di tutti. Jongin lo era, ma nel suo caso il significato di stare sulla bocca di tutti assumeva variegate sfumature.
Yoda annuì, le labbra andarono serrandosi mentre Sehun si faceva minuscolo sul seggiolo –Quando lo abbiamo saputo, siamo venuti a trovarti ma tu non c’eri già più- la sua voce bassa si macchiò di una nota di colpevolezza che Sehun non seppe spiegarsi –Avremmo dovuto capirlo che non ti avremmo trovato. Stare in una casa piena di ricordi non deve essere fa—
-E’ troppo costosa per una persona sola- lo interruppe brusco, fissando le persone che cominciavano ad alzarsi –Non ho così tanti soldi.- inghiottì tutte le verità che volevano spaccarsi nell’aria satura di tensione, offrendo al ragazzo quella mera facciata che da tempo aveva utilizzato come riparo da ogni intemperia emotiva che il ricordo di Jongin portava con sé.
Chae forse non se ne accorse e se lo fece non obiettò, limitandosi ad annuire prima di rovistare fra le canzoni dell’Ipod, lasciandogli un briciolo di tregua. Fu solo quando l’autobus si arrestò, in mezzo al fracasso degli altri passeggeri, che Chan-yeol mormorò quella domanda che da tanto, troppo tempo lo tormentava…
-Chissà dov’è ora?-
Che gli rubava il sonno...
-Ma lui non ti ha detto nulla?- le spalle si incurvarono, Sehun non poteva sopportare oltre –Mh, beh, ma sai che non raccontava mai niente.-
-Lo so.-
Che nonostante tutto, lo teneva ancora in vita…
-E non parlava molto, comunque.-
Ma pensavo fosse diverso, con me …
Guardò fuori -So anche questo.-
-E Kim Jongin segna!-
La palla finì nel canestro senza sbavature, facendo tintinnare le fini catenelle di ferro. Fu un tiro perfetto, preciso, tirato con mirabile leggiadria dalla linea dei tre punti.
-Sono o non sono un mostro?- portò le mani sui fianchi, il petto gonfio.
Sehun storse il naso -Se ti impegnassi così anche nello studio, a quest’ora saresti professore di algebra.- lo incalzò secco, guardando in cagnesco i libri di scuola giacenti a pochi metri da loro, vicino agli zaini afflosciati sul terreno.
Jongin rise, non sembrò offendersi per la sua frecciatina neppure troppo velata. Figurarsi se qualcosa tangeva la spensieratezza fatta uomo. Quell’idiota era talmente felice che, per festeggiare la propria vittoria, si era messo ad improvvisare il Moon Walk.
-Sei solo invidioso perché io sono un genio del basket.-
-Certo, Hanamichi[2]. Perché quando andrò a lavorare in banca, al colloquio mi chiederanno se so tirare le cartacce nel cestino dalla linea dei tre punti.- ironizzò mettendosi a gambe incrociate, poggiando il mento sul palmo aperto. Jongin per poco non inciampò mentre andava a recuperare il pallone cozzato contro l’alta rete del campetto da basket, ridendo come il deficiente che era. Sehun scosse la nuca, anche se i suoi occhi piegati tradivano divertimento.
Kim si posizionò oltre la lunetta e segnò, battendo le mani quando compì l’ennesimo canestro.
Sehun aveva seguito come ipnotizzato ogni più piccolo movimento di quella gazzella vestita in tuta che zampettava sul campetto da basket schivando invisibili avversari. C’era grazia nel suo sollevare le braccia in aria, la meccanicità elegante tirava, senza aver bisogno di prendere la mira.
Sembrava una bolla di sapone tanto leggero era.
-Sei bravo…- se lo lasciò sfuggire in un soffio, allargando un po’ gli occhi quando lo vide voltarsi in sua direzione. “Sehun, controllo!” -Chi ti ha insegnato a giocare?- appoggiò il mento sulle ginocchia ora piegate, cercando di calibrare la voce affinché apparisse annoiata. Forse, in questa maniera, non gli avrebbe dato modo di intendere quanto lo trovasse affascinante mentre si comportava come l’Akira Sendoh[3] dei poveri.
Jongin si pulì la fronte con la canotta, mettendogli in bella vista l’addome piatto imperlato di sudore e di quel color ambrato che tanto gli ricordava il miele. E pensare che il miele neppure lo faceva impazzire, ma per una volta gli sarebbe piaciuto saggiarlo. Sehun avvertì le guance imporporarsi quando l’amico si portò indietro i capelli, ma era colpa del caldo. Sì, era solo colpa del caldo…
-Mio padre- replicò affannato -Dice che devo fare sport per uomini.- le seguenti parole uscirono incatramate di rancore, con quella tonalità bassa e un po’ incrinata che usava quando gli raccontava dell’ennesima ricaduta di sua madre, ora costretta a letto con la febbre. Jongin non era mai stato chiaro al riguardo, si limitava a dirgli che non stava bene e lui era troppo codardo per osare intromettersi. Aveva il timore che sfilando troppo il gomitolo dei suoi pensieri, avrebbe corso il rischio di allontanarlo.
Ormai gli era diventato così caro che proprio non riusciva a vedersi senza la sua amicizia.
-Per uomini?-
-Aha…- fece girare il pallone fra le mani -Non gli va giù l’idea che mi piaccia la danza.-
-Cos’ha contro la danza?-
Jongin rise. Una risata amara, priva di quella consueta allegria che era solita solcare ogni suo tratto; perfino i suoi lineamenti si tesero a tal punto da apparire in procinto di spezzarsi –Dice che è non per i maschi. E quelli che lo praticano sono tutti “froci”- Sehun drizzò le orecchie a quell’epiteto, guardandolo con tanto d’occhi; Jongin alzò le spalle –Ehi, non guardarmi così. Sono parole sue.-
Sehun si chetò. Il signor Kim era un conservatore, di quelli fissati con le tradizioni, il rigore e poco incline all’umorismo. Non vedeva di buon occhio il fatto che l’unico figlio maschio su due femmine avesse deciso di praticare la danza –con risultati davvero eccelsi, oltretutto-; e doveva avere un radar anti-gay incorporato, perché una volta che era venuto a prendere il figlio a scuola lo aveva squadrato come se fosse un miserabile insetto. Forse era per questo che Jongin non lo invitava mai a casa sua. Forse voleva prevenire la sua morte.
-E tu cosa ne pensi?-
-Che a me piace. E’ questo l’importante.- fu istintiva la sua risposta, come se l’avesse elargita innumerabili volte. Sehun si chiese per la prima volta quanto frequentemente il ragazzo discutesse con il padre a proposito della danza, quante volte fosse stato insultato per questa sua scelta e se mai ne avesse pianto. Perché Jongin era imperturbabile, sembra non venir mai scalfito da nulla e Sehun faticava a seguire la linfa dei suoi pensieri.
-Giusto…-gli uscì flebilmente, ammaliato dalla forza d’animo che ogni suo gesto trasmetteva.
Jongin alzò le mani al cielo, una mano a reggere la palla e l’altra ad accompagnarla nella giusta traiettoria -Sehun…?- lo chiamò piano, in quella maniera un po’ infantile che gli colorava la voce quando non sapeva se procedere con la domanda o tenersela per sé –Non ti è mai successo che i tuoi non fossero d’accordo con le tue scelte?- tirò, mancando il canestro.
I pensieri di Sehun rimbalzarono insieme alla palla. C’era così tanto di personale in quella domanda, che il ragazzo si ritrovò a deglutire mentre osservava la schiena incurvata di Kim. Gli celava il volto, come se stesse indossando una maschera di disperazione che non voleva mostrargli.
Sehun posò i piedi a terra e zampettò fino alla sfera rotolata distante, prendendo tempo. Contò ad occhio i passi che lo distanziavano dal canestro; non sarebbe mai riuscito a farcela -I miei mi hanno sempre appoggiato in tutto- se la rigirò fra le mani –A loro basta che io sia felice…- sollevò le braccia in aria, la punta della lingua sporta mentre si concentrava –Se io sono felice, lo sono anche loro- seguì la parabola compita dalla palla che, da pronostici, cadde senza neppure avvicinarsi al canestro –Ehi, sicuro che vada tutto bene?- l’amico fermò la palla con la punta del piede. Gli parve strano che ancora non avesse deriso le sue scarse doti sportive.
Jongin, più di tutto, gli sembrava strano.
Lo vide sorridere fiocamente –Se tutti fossero come i tuoi, la vita sarebbe migliore.- e udì quella risposta che non gli fu d’aiuto, che lo lasciò brancolante nel buio delle loro frasi spezzate.
Mentre lo vide tirare a canestro con eleganza, Sehun si rese conto di quanto sapesse poco o nulla di Jongin. Erano ormai diventati amici da un bel po’, da quando quello spiacevole episodio della Linea 3 era stato accantonato, eppure Sehun non sapeva molto di quel ragazzo piombato a Seoul senza alcun motivo apparente. “Mio padre è venuto qui per lavoro”, gli aveva detto una volta mentre compravano dei libri per la lezione di lettere “E noi lo abbiamo seguito. Mamma ha vissuto qui da bambina, penso sia stata l’unica contenta di essersi trasferita”.
Il silenzio che seguì fu un lampante segno che Jongin non voleva più sapersi privato della propria privacy. Tipico di lui incominciare i discorsi per poi troncarli quando si andava sul personale.
Sehun si concesse di spingersi oltre, stranamente certo che il ragazzo non lo avrebbe scacciato –Senti… Ma sei ancora dispiaciuto?-
-Per cosa?- un altro tiro, un altro canestro.
-Per esserti trasferito.- lo vide irrigidirsi prima di chinarsi e raccogliere la sfera arancione. Lo aveva fatto con lentezza, quasi volesse prolungare l’attesa che li separava dalla risposta. Sehun fece strisciare un piede sul terreno mentre arricciava le labbra sottili; lo faceva sempre quando sentiva di aver superato il limite.
-Ehi, Sehun-ni…- alzò il volto, richiamato dalla sua voce bassa.
Jongin non gli diceva mai le cose come stavano, non si esponeva mai a parole…
-Coraggio…- gli lanciò il pallone –Uno contro uno, ti va?- si mise in posizione, sorrise.
Lasciava che fossero i gesti a parlare per lui.
Il campanellino che annunciava la prossima fermata lo fece ripiombare nel pallore di quel venerdì ormai voltato alla sera. Il capo di Yoda ciondolava mentre una melodia sconnessa scivolava dalle sue labbra.
Gli mancavano ancora due fermate prima di potersi dire finalmente libero. Fino ad allora, doveva fare i conti con i propri spettri.
L’autobus cominciò a rallentare, Sehun guardò Chan-yeol. Quanto ci avrebbe messo a crollare di fronte quello che, in fin dei conti, altro non era che un misero filo conduttore con il passato? Un filo che, per quanto si ostinasse a pensarci, mai lo avrebbe riportato da lui.
Si alzò di scatto -Scusami, è la mia fermata.-
Il ragazzo lo fece passare non dopo avergli rivolto un’occhiata stralunata. Si sporse per guardare fuori, poi lo fissò confusamente –Ma… Adesso dove abiti?-
Sehun si irrigidì mentre le porte si aprivano –Sono tornato dove stavo prima. Ci si vede, ok?- e lo lasciò senza alcuna spiegazione, lasciandosi oltre le spalle un Certo… E comunque mi ha fatto piacere rivederti!, che gli scaldò il cuore, per quanto poco necessario fosse.
Scese dal pullman immettendosi nella calca, certo di aver perfino buttato a terra una povera anziana capitata nel posto sbagliato all’orario sbagliato, ovvero l’ora in cui i nodi venivano al pettine ma Sehun non aveva le forbici per reciderli senza troppi pensieri. Si piegò sulle ginocchia e prese fiato; cominciava a sentirsi meglio ora che l’autobus era solo un puntino lontano. Peccato che, avvinghiato alla gola, fosse rimasto quel tarlo pressante che continuava a sussurrargli come Jongin ora si stesse godendo una nuova vita con qualcun altro e che lui, di conseguenza, era solo un idiota che si struggeva per un amore finito oltre tempo.
Sehun non seppe più a cosa credere.
Sua madre gli aveva sempre detto di non fidarsi alla voci di corridoio, di non badare alle dicerie perché Il paese è piccolo e la gente mormora solo perché annoiata e che se voleva accertarsi della veridicità delle calunnie, doveva andare direttamente alla fonte. Poco importava quanto distante fosse, poco importava quanto impervio sarebbe stato il cammino; ciò che contava era non lasciarsi scoraggiare e scoprire la realtà delle cose.
Fu forse per questo che il nome Jongin comparve prepotentemente sul display del cellulare, dopo mesi di preparazioni affinché le dita smettessero di scivolare sempre e solo lì quando doveva fare una chiamata.
Il pollice tremò appena quando premette sul tasto verde, gli occhi si appannarono quando il telefono squillò a vuoto e un singhiozzo sfuggì quando la chiamata si interruppe…
*Il numero da Lei chiamato, non è al momento raggiungibile…*
No, non al momento.
Kim Jongin non lo era mai stato.
*******
01 luglio 2013. Ore 1.24
Seoul, una strada qualunque.
Wu Fan era alto.
Lu Han se ne era reso conto per davvero la prima volta che si erano baciati. Che poi era stata la seconda, a voler essere pignoli. Non che prestasse granché attenzione a questi insulsi particolari da coppiette smielate, ma al solo pensiero un sorriso divertito spuntava spontaneo e allora le due cose andavano arbitrariamente distinte.
Il primo bacio sapeva di Pop-corn e Coca Cola ghiacciata, di quelle ormai acquose e sgasate che lasciavano un retrogusto dolciastro sul palato; come sottofondo un film di Charlie Chaplin scelto solo per prepararsi all’esame imminente sulla storia del cinema muto, mentre gli spettatori ridevano per chissà quale sua espressione buffa o gesto inconsulto. A Lu Han non dispiacque trascorrere quelle tre ore in balia delle labbra di Wu Fan; gli dispiacque solo dover buttare via altri soldi per rivedere il film una seconda volta -dato che la prima non aveva prestato granché attenzione- questa volta in compagnia di Xiumin, che lo aveva seguito solo perché di buon cuore. Come fa a piacerti qualcosa che non emette suono?! E’ noioso!, aveva blaterato lamentoso mentre scivolava sulla poltrona. Lu Han avrebbe voluto dirgli che ciò che era silenzioso gli era sempre piaciuto ma si era zittito, sentendosi opprimere dal vuoto che la non presenza di Sehun aveva lasciato. Aveva soffocato le parole sotto chili di patatine e le aveva fatte affogare nella Coca Cola, ricordandosi che Wu Fan lo aveva baciato proprio quando Chaplin sollevava il mappamondo, e allora aveva sorriso. Poi Xiumin aveva sbuffato un tediato Non capisco cosa ci trovi di così divertente, davvero, e la poesia per Chaplin e Wu Fan gli era passata.
La seconda volta che Lu Han baciò Wu Fan –e qui si rese conto di quanto fosse un nano al suo cospetto- fu davanti la scatola di sardine. Si era dovuto sollevare sulle punte per poterlo raggiungere e aveva dovuto sottostare alla sua risata svagata e forse un po’ derisoria, che lo aveva costretto a chiedersi perché avesse deciso di dedicare già due mesi della propria esistenza a quel babbeo.
Ricordava le dita dei piedi che premevano contro la punta delle converse scucite, la stanchezza dei polpacci tesi e di come Wu Fan lo avesse sorretto per tutto il tempo trattenendolo per la vita. Poteva ancora avvertire le unghie dello hyung farsi strada nella carne tanto era stata salda la presa, temendo una fuga che in realtà mai sarebbe avvenuta, per quanto Lu Han avesse pensato sul serio di filarsela. Il perché non lo sapeva, mentre il motivo per cui si era aggrappato alle sue spalle era ormai radicato nella sua anima: dietro sé lo aspettava una casa vuota pronta ad inghiottirlo in un silenzio assordante. Preferiva congelare nel freddo polare di quella notte di fine marzo piuttosto che respirare ancora l’assenza di Sehun.
Lanciò un’occhiata al proprio fianco, accertandosi che la pertica continuasse a pascolare. Quando si scontrò con un’orribile giacca nera a motivi triangolari –probabilmente rubata dall’armadio di Sir Elton John-, Lu Han tornò a guardare per terra, trattenendo uno sbadiglio. Non era scomparso, persisteva nell’accompagnarlo a casa nonostante più e più volte gli avesse intimato di lasciarlo stare.
Era alto, Wu Fan, e quella fu la terza volta che lo notò.
Camminavano gomito a gomito, lasciandosi trasportare per le vie dai loro pensieri. Lu Han pensava poco e parlava molto, doveva dire la propria in ogni benedetta occasione e quasi mai si curava delle conseguenze. Wu Fan, al contrario, pensava molto e parlava poco, diceva ciò che gli passava per la testa ma solo se necessario. A Lu Han piacevano i suoi silenzi; avevano colmato quelli di Sehun quando se ne era andato. Si era voltato e si era scontrato con il suo collo coperto da una sciarpa color miele, in pendant con la sua chioma bionda appena fresca di tinta. Aveva dovuto sollevare leggermente il mento per osservare la rifinitura dei suoi tratti decisi, in netto contrasto con i propri che invece erano delicati come quelli di una ragazzina, e scorgere i suoi occhi puntati a terra. Aveva le palpebre un po’ calate, trasmetteva stanchezza ad ogni passo che premeva sul marciapiede.
Han schivò un passante -E’ stato bello il film.- aveva esordito con noncuranza, stringendosi nella giacca di jeans.
Wu Fan arcuò le sopracciglia –Ma sei hai dormito quasi tutto il tempo.-
-Appunto, quasi…- storse il naso –Quel poco che ho visto, però, mi è piaciuto.- aveva continuato con la solita baldanza, udendo la lingua dell’altro scoccare contro il palato.
-L’ho notato che il cinema russo non è di tuo gradimento, eh- l’altro squittì e Wu Fan ghignò –Colpito e affondato.-
Lu Han sbuffò –Avere dei sottotitoli non sarebbe stato male.-
-Così avresti perso la bellezza delle scene- lo incalzò con severità; Wu Fan e la sua maledetta abitudine di fargli pesare la propria superficialità -Hai visto com’era curata la scenografia?-
Han sbuffò –Io ho visto solo due che, prima di baciarsi, si sono urlati contro anche se sorridevano e piangevano di gioia.- gli era uscita spontanea quella sparata, non c’era stata alcuna preparazione.
Ma Wu Fan aveva riso di gusto scuotendo la nuca -Questo prima di addormentarti?-
Lu Han portò le mani in tasca dopo aver imprecato mentalmente –Scusa, sono piuttosto stanco- buttò lì, la baldanza degli esordi ormai finita sotto le suole -Ho ancora degli esami da dare e—
-Tranquillo, ci sono passato anche io.-
Wu Fan era comprensivo. Ed era ormai libero. Si era laureato l’anno scorso, aveva trovato lavoro presso una compagnia teatrale e si occupava delle scenografie. Il suo sogno era arrivare a lavorare per qualche grande regista hollywoodiano, ma per fare gavetta quell’inizio non era male.
Lu Han sbirciò l’orologio da polso comprato in un negozio dell’usato a pochi isolati da casa, roteando gli occhi quando si rese conto che le lancette si erano fermate. Di nuovo. Gli capitava spesso, ultimamente. Sembrava quasi che il tempo stesso volesse arrestarsi, impedendogli di avvertire lo scorrere della sua noiosa vita. Oppure era Fan che glielo manometteva pur di trattenerlo con sé un po’ di più. Osservò lo hyung al suo fianco; nah, non poteva essere lui. Era troppo buono per commettere una simile cattiveria.
Lu Han fu sul punto di dirgli che se ne sarebbe tornato a casa, che non aveva voglia di bazzicare per Seoul con i piedi che strisciavano tanta era la stanchezza. Ma ci fu un istante, imprevedibile e a cui non era preparato, in cui l’altro si avvicinò. Gli aveva posato il braccio intorno alle spalle, incurante della gente che passava loro di fianco, gli carezzava il braccio con un mano in quella maniera così delicata da apparire impercettibile e gli sussurrò poche parole, con voce suadente -Vuoi venire a casa mia?-
Il suo non fu un semplice avvicinarsi fisicamente, fu come se volesse sfiorare le corde più tese della sua anima.
Lu Han rabbrividì -No, è meglio che torni a casa.-
Fu tenue il modo in cui l’espressione morbida di Fan si sciolse in dispiacere -Una sera dovrai venirci- la mano scivolò lungo il braccio, poi il nulla -Sono stanco di farlo nella tua auto. E’ piccola, non riesco neppure ad allungare le gambe.- portò le mani in tasca.
Lu Han alzò le spalle, scacciando quel remoto senso di colpa che vi si era appollaiato –Compratene una tu, allora- strinse i pugni intorno al laccio della borsa a tracolla; lo faceva sempre quando era nervoso -E poi c’è sempre il motel.- considerò annoiato.
Wu Fan sospirò, appariva sfiancato di fronte i suoi continui rifiuti -Non posso spendere tutti i miei soldi in motel.- gli fece notare con pacatezza.
-Sei tu a volere sempre offrire. Io non ti ho mai obbligato.- la voce gli si indurì mentre il passo si faceva stranamente veloce. Lu Han aveva il vizio di difendersi reagendo con arroganza, lasciando che gli altri si assumessero le colpe dei suoi capricci.
Ma Wu Fan non era gli atri e sembrava deciso a stare al suo passo –Lo sai che non è questo il punto- il rimprovero fu sottile ma ebbe la potenza di un pugno in pieno volto –Dico solo che casa mia sarebbe più comoda. Non avremmo limiti di tempo, lì.-
Tre ore sono anche troppe, avrebbe voluto confessare con sincera crudeltà ma quando Wu Fan gli fu davanti, con quel sorriso dolce dipinto sul volto, Lu Han le mise le catene e si zittì, incapace di reggere a tutto quello. Parlare con Wu Fan era sfiancante, cercare di tenergli testa era un’ardua impresa che risucchiava tutte le sue energie. Era peggio che giocare a Resident Evil[4] con Sehun che pigolava ogni due secondi per qualche zombie comparso a random.
-Non penso che--
-Sei il benvenuto, te l’ho sempre detto.- lo interruppe piano, talmente vicino che Lu Han poteva annusare il suo respiro che sapeva di Coca Cola.
Lo vide chinarsi e prontamente lo schivò, concedendogli la guancia –Non in pubblico. Erano i patti, ricordi?-
Wu Fan gettò il capo in avanti lasciandosi sfuggire uno sbuffo amaro –Tu e le tue regole… Dovresti essere meno rigido, lo sai?- Lu Han morsicchiò l’interno delle guance, vacillò nel proprio disagio -Motel, quindi?- guardò oltre la strada –O preferisci bere qualcosa?-
Lu Han guardò l’enorme orologio analogico che svettava sulla parete vetrata di un palazzo esageratamente alto: era già l’una passata -E’ tardi. Devo tornare a casa.- ripeté sfibrato, portando le mani in tasca.
-O devi tornare da Oh?- Fan scagliò quella domanda con maestria, incurante della piega che la discussione avrebbe potuto prendere. Non c’era gelosia nella sua voce dall’accento cinese. Frustrazione, forse, ma non gelosia. Wu Fan era così: sapeva quali tasti toccare e quali evitare. Sembrava conoscerlo meglio di quanto Han stesso si conoscesse ed era piuttosto snervante tutto questo, se solo ci ponderava con attenzione.
Lu Han trattenne un’imprecazione –No. Devo tornare a casa per studiare. Chissenefrega di Sehun.-
-Chissenefrega, certo…- alzò le spalle –Fa niente, sarà per un’altra volta. Lo studio prima di tutto.- quando faceva il padre della situazione lo odiava a morte, ma si limitò a storcere il naso.
-Sì, chissenefrega. Non sono mica la sua balia, eh- lo superò -Buona notte, Kris.- contro la schiena incurvata si infranse un tenue Buona notte, Han, prima che la distanza divenisse ormai troppa per essere azzerata.
-Lu Han?- lo richiamò; la sua voce riuscì a rapirlo dalle proprie paturnie. Nessuna traccia di disappunto solcava il suo volto ora rilassato in una maschera di comprensione, intaccata solo dalla piega ricurva che avevano assunto le sue labbra –Salutami Sehun.-
Wu Fan era alto, ma in quel momento gli parve un gigante.
*****
30 giugno 2013. Ore 13.01
New York City.
Sedeva a gambe incrociate sulle coperte sfatte, il mento appoggiato alla spalla scoperta e un po’ umida, lo sguardo rivolto alla finestra che si gettava sulle trafficate strade newyorkesi, dieci piani più in basso. I rombi delle moto si mescolavano al fracasso dei clacson, urtavano i suoi pensieri arrestatisi da quando aveva messo mano nel cassetto della scrivania dopo essersi fatto una lunga doccia –con conseguenti grida del coinquilino che continuava a sfracassargli le palle perché gli stava rubando tutta l’acqua calda-, rimestando in quel mucchio di ricordi che per un po’ aveva deciso di rinchiudere.
Non seppe spiegarsi perché proprio quel giorno avesse deciso di dar loro un’occhiata, sospinto dalla fievole sensazione che qualcosa sarebbe accaduto, eppure si era avvicinato alla scrivania con passo svelto e meccanico come se quel gesto l’avesse compiuto ogni benedetta mattina mentre una mano faceva sfrisare l’asciugamano sui capelli bagnati; lo aveva aperto e aveva rovistato fra il cumulo di foto, ritagli di giornale e lettere mai spedite, trovando finalmente ciò che cercava: quel Samsung dallo schermo sfrisato che non accendeva da mesi. Aveva dovuto rovistare nella matassa di ricordi per recuperare il codice Pin da inserire, avvertendo sudori freddi mischiarsi alle goccioline d’acqua che gli imperlavano la fronte quando era ormai giunto all’ultimo tentativo rimastogli. E si era battuto un cinque mentale quando, di punto in bianco, la memoria aveva cominciato a fare il suo lento corso, facendogli tornare alla mente quella serie di numeri che non avevano significato alcuno.
Era vecchio quel cellulare ora acceso che stringeva fra le mani, non tanto per il modello, quanto per i messaggi e i nomi che serbava ancora nella memoria. Non ne aveva cancellato nemmeno uno, non ne aveva avuto il cuore; ma non li aveva neppure più letti, non ne aveva avuto il coraggio. La cartella diceva che i messaggi arrivati erano cinquecento e lui si ricordava ancora che quattrocentocinquanta di quelli appartenevano alla stessa persona, così come ricordava che il tasto 1 delle chiamate rapide lo avrebbe portato dall’altra parte del mondo.
Nessuno lo aveva cercato. Del resto, si era premurato di lasciare ai contatti che ancora sentiva il nuovo numero di telefono. Fu forse per quello che non si stupì quando vide lo schermo spegnersi; se nessuno si era fatto vivo, significava che dall’altra parte del globo avevano smesso di cercarlo.
Va bene così…
Lo gettò sul letto prima di scostare le coperte e recuperare le scarpe da ginnastica giacenti ai piedi del letto. Davvero si era aspettato un messaggio, una chiamata, qualcosa che potesse inevitabilmente interrompere il presente per condurlo nel passato? Ma davvero ci aveva addirittura sperato? Un flebile -Cretino…- inondò la stanza irradiata dal Sole; piegò la testa, le dita si spersero fra i capelli corvini prima di annodarsi dietro la nuca.
Quel venerdì era cominciato come tutti gli altri, ma bastò poco per rimescolare tutto.
Bastò una vibrazione giunta in ritardo che non si sarebbe aspettato, bastò allungare una mano verso il telefono, aprire un messaggio che diceva Ho chiamato alle…, scorgere un nome che da tempo non aveva più letto nemmeno nelle pareti della propria memoria e una chiamata non risposta che non seppe se interpretare come il classico segno del destino o il millesimo errore.
Si sentì interrotto, per una manciata di secondi. Spaesato nel ritrovarsi in una stanza che non era la propria –anche se lo aveva accolto per quasi un anno-, tramortito nel rendersi conto che la parola casa assumeva tutto un altro significato se solo ripensava a cosa e chi aveva lasciato. E il vuoto che da tempo gli chiudeva la bocca dello stomaco, venne colmato da un senso di colpa che sempre aveva gridato, anche se lui aveva finto di non sentirlo.
Il pollice premeva sul centro dello schermo, a metà tra la cornetta verde e il tasto annulla. Gli sarebbe bastato poco per tornare indietro, per sentirsi un po’ più in pace con sé stesso. Per fare la cosa giusta, almeno questa volta…
Il coinquilino si affacciò, sorridendogli radioso -Jongin, sei pronto?-
Morse il labbro inferiore -Solo un attimo...-
Il pollice tremava ancora.
No, non lo era. Ma avrebbe cambiato qualcosa esserlo?
*******
01 luglio 2013. Ore 2.25
Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han.
Chiuse la porta con un gesto secco, immerso nel buio del salotto. Il silenzio regnava e solo i suoi lenti movimenti ne intaccavano la quiete. Buttò le chiavi nella ciotola posta sul basso tavolino all’ingresso e si tolse il cappello. Lu Han non aveva bisogno di accendere le luci per orientarsi nella scatola di sardine; la sua memoria era talmente levigata che sapeva quali ostacoli evitare e che strada era meglio percorrere per evitare che il mignolo del piede cozzasse contro qualche maledetto spigolo.
Quella notte però qualcosa non andava, lo aveva respirato sin dal portone d’ingresso.
Nel muovere un piede, qualcosa era stato schiacciato. Era morbido, non gli procurò dolore. Solo raccogliendolo tastò la consistenza di un tovagliolo arrotolato ed umido. Lo fece cadere mentre una smorfia di disgusto andava dipingendosi sul volto velato di confusione. Si pulì le mani contro la felpa e nel calpestare un altro tovagliolo, optò per accendere le luci.
-Ma che ca--
Le parole perirono in gola, ricaddero nello stomaco chiuso mentre gli occhi scuri si allargavano di fronte alla miriade di fazzoletti sparpagliati in giro. Sembrava che qualcuno avesse improvvisato una guerra a palle di neve, centrando addirittura la pianta grassa posta vicino alla finestra dalle tende svolazzanti.
Lu Han si massaggiò la nuca, conscio che quell’enigma non era poi così difficile da risolvere. Gli bastò adagiare lo sguardo sulla scia di fazzoletti accartocciati che portavano al divano, per rendersi conto che il fautore di quello scenario apocalittico altri non era che Oh Sehun.
Se ne stava su di un lato con un libro riverso per terra e un altro chiuso a fargli da poggia braccio. Lu Han si avvicinò con cautela schivando le umide trappole, facendo attenzione a non svegliarlo e una volta arrivatogli a pochi passi si chinò, agguantando il voluminoso tomo dalla copertina lucida e plastificata: “Dalì. Vita e opere, eccentricità e scandali, segreti e ossessioni”… Ci credeva che si fosse addormentato come un sasso. Quel libro doveva essere una mazzata sulle palle non indifferente! Lo lasciò cadere con malagrazia; il mugugno indecifrabile di Sehun lo fece sbuffare.
Che. Idiota, fu questo che pensò quando si ritrovò a sedersi sul bordo del divano con il volto fra le mani. Possibile che quel demente avesse rischiato di allagare casa solo perché si stava sorbendo una maratona nella vita di Dalì? Pensava che Sehun fosse ormai forgiato dal fuoco di mille notti insonni, che non sarebbe crollato per un esame un po’ più bastardo del solito. Ma ci fu qualcosa nel suo continuo mugugnare che lo mise in allarme. Che quel –Jongin…- biascicato e flebile, era la chiave di tutto.
Le mani di Lu Han scivolarono, caddero in picchiata sulle cosce mentre volgeva il viso in direzione del dongsaeng. Le sopracciglia di Sehun erano così aggrottate che le minuscole pieghe tra di loro si erano fatte più marcate del solito, le labbra traballavano e il suo corpo sembrava scosso da leggeri brividi. Fu a quella vista che Lu Han capì tutto.
La stanza sapeva di lacrime, se solo si concentrava poteva ancora udire i singhiozzi soffocati del ragazzo e lui era lì, immobile spettatore di una miriade di fazzoletti bagnati che rotolavano sul pavimento, incapace di fermare quel fiume di straripante dolore.
La sofferenza era palpabile. La sofferenza era Sehun disteso sul divano.
Lu Han fu solo capace di pensare che se solo non avesse trascorso la serata con Wu Fan, avrebbe potuto prosciugare la sua disperazione. Se solo Wu Fan non lo avesse trattenuto in quella strada affollata, sotto le insegne dei negozi ancora aperti, avrebbe avuto un’occasione per avvicinarsi a Sehun senza intimorirlo. Avrebbe potuto riavvicinarlo, superando le macerie dei loro ricordi che non permettevano loro di essere i grandi amici di un tempo.
Doveva essere successo qualcosa di epocale per ridurlo di nuovo così, dopo mesi.
Lu Han sfregò le mani, le torturò, le strinse forte, le giunse, fece di tutto pur di non far disperdere le dita fra i fili biondi di Sehun. Avrebbe rischiato di commettere qualche pazzia se solo non si fosse frenato, avrebbe finito col rimuovere ogni tassello di serenità che avevano posto intorno a loro, rischiando di far tornare quella cupa aura di astio che era stata spazzata via con una folata di vento.
La suoneria di un cellulare catturò la sua pigra attenzione. Era quella anonima di Sehun, quel trillo fastidioso che gli perforava il cervello le rare volte in cui qualcuno si azzardava a chiamarlo. Il ragazzo sembrava caduto in un sonno profondo, allungò le gambe ma non si mosse.
Lu Han si avvicinò al tavolo per spegnerlo, evitando che l’amico potesse svegliarsi. Lu han non ebbe il tempo di realizzare l’accaduto, fu il suo corpo a reagire d’istinto. Gli occhi si allargarono, il volto si contrasse di rancore, fu sul punto di scagliare il telefono contro il muro per ridurlo in minuscoli pezzettini…
*Chiamata in corso… Jongin.*
L’incubo era tornato.
Fu angosciante il modo in cui quelle lettere sfilarono davanti ai suoi occhi, fu ancora più straziante rendersi conto che qualcosa era accaduto quel giorno ormai passato, qualcosa che avrebbe rischiato di mandare in fumo ogni sua più minuscola aspettativa.
Qualcosa che andava troncata sul nascere.
Avvertì un movimento oltre le proprie spalle ricurve e appesantite dalla coscienza che continuava ad alitargli sul collo, impedendogli di compiere quel gesto inconsulto che avrebbe portato con sé conseguenze di cui non vedeva forma. Ma le scrollò quando udì un impastato –Lu Han, sei tu?- e non gliene fregò più nulla di niente.
Premette la cornetta rossa, gettò il cellulare con stizza sul tavolo. Sehun non avrebbe mai saputo che Kim lo aveva cercato e mai avrebbe dovuto saperlo. Andava bene così, era la cosa più giusta per lui.
-Chi vuoi che sia?-
Sehun mangiucchiò qualche insulto. Si massaggiò le spalle prima di strofinarsi il volto. Doveva essere parecchio stanco. E fragile. Glielo lesse negli occhi gonfi e che dovevano bruciargli, visto che se lo stropicciava ogni due secondi. Lu Han avrebbe voluto chiedergli cosa fosse accaduto, ma le guance purpuree del dongsaeng, con lo sguardo perso sui fazzoletti, lo costrinsero a tacere. L’imbarazzo di Sehun era palpabile, non voleva farlo sentire più orribile di quanto non fosse.
-Com’è andata con Kris?- chiese sonnolento, stiracchiandosi una volta in piedi.
Quando la maglietta si sollevò, Lu Han fissò il ventre piatto e bianco dell’amico, avvertendo le dita prudere –Come al solito… Ti saluta- scacciò il ricordo dell’espressione dello hyung, poi si concentrò sul coinquilino –Ma ti ho svegliato, per caso?-
-No. E’ stato il cellulare…- guardò il proprio con un occhio aperto –Era il tuo?- lo posò con pesantezza. A Lu Han parve vedere la speranza scodinzolare ai piedi di Sehun e andarsene, quando lo schermo del telefono si spense.
Lu Han imbavagliò la coscienza –Aha.-
-A quest’ora?- lanciò un’occhiata all’orologio da muro –E chi era?-
Lu Han si massaggiò il collo.
Sehun si stropicciò gli occhi, tirò su col naso.
-Nessuno…- deglutì –Solo uno che ha sbagliato numero.-
[1] La Buster Sword è l’arma principale di Cloud Strife, appartenuta a Zack Fair e prima ancora ad Angeal Hewley. Tutti i personaggi appartengono alla saga di Final Fantasy VII e Final Fantasy VII Crisis Core. Se non lo aveste ancora fatto, rimediate e giocateci immediatamente. Merita come pochi giochi al Mondo.
[2] Hanamichi Sakuragi è il protagonista di Slam Dunk, manga di Takehiko Inoue incentrato sul basket. Il ragazzo, dopo aver perso la testa per Haruko Akagi, entrerà a far parte della squadra di pallacanestro della scuola solo per far colpo su di lei. Akira Sendoh ([3]) è uno dei suoi avversari ed è considerato il giocatore migliore a livello liceale. Se non lo aveste ancora fatto, leggetelo. Questo manga è il tripudio del testosterone fa morire dal ridere.
[4] Resident Evil è un survival horror creato dalla Capcom nel 1996. Ambientato a Raccoon City, un gruppo di agenti si ritroverà ad indagare su di un virus prodotto dall’Umbrella Corpooration che ha infettato tutta la popolazione, trasformandola in zombie.
Inutili note conclusive:
Io ancora mi chiedo come ho potuto infilarci una Krishan. Una KRIShan. KRIS! L’ho detto nelle noti introduttive e lo ripeto qui: io non ho nulla contro quel caro ragazzo, davvero, mi piace come mi piacciono tutti gli EXO –Sehun, Kai e Lu Han e Lay e Chen e Xiumin e Suho sono un gradino sopra, ma questo è perché sono una fangirl pessima-, ma c’è qualcosa di lui che continua ad inquietarmi. Comunque, fan della Krishan che siete alla lettura, prendete e godetene.
Passando alle inutili note vere e proprie… Ma quella citazione tamarra ad inizio capitolo? Sì, lo so. I Subsonica c’entrano con il Kpop come Kris c’entra con la pittura ma ogni volta che ascolto Nuvole rapide non posso non immaginarmi questo Kai che corre alla ricerca di Sehun –non mi sono fumata nulla, giuro! E’ che tendo a fare associazioni d’idee un po’ particolari-.
Questo capitolo è nostalgico. L’ho infarcito di così tanti riferimenti personali che, seppur facesse schifo, io continuo ad esserne soddisfatta. E sono soddisfatta anche perché finalmente mi sono decisa ad aggiungere le note numerate di tutti quei riferimenti a cose/persone che, forse, solo io potrei conoscere –ma tanto so che là fuori ci sono fan di FF VII e Slam Dunk, me lo sento!-
Ultimo ma non meno importante: le età dei protagonisti sono sballate. Questo perché non ho tenuto fede della realtà e mi sono presa una minuscola licenza poetica solo ai fini della trama. Non penso sia qualcosa di così sconvolgente, ma mi sembra corretto mettere le cose in chiaro.
La taglio qui che il capitolo è già bello lunghetto –vi siete preparate psicologicamente?- e passo ai ringraziamenti, questa volta più sentiti del solito –e sono già sentitissimi, ormai non so più con che parole dirlo-: a Shinushio (COMPLEMENTARI!!!), WhiteRose88, Silver_Princess e dylandogs va tutto il mio affetto da fanwriter mancata per aver commentato il precedente capitolo. Io… Boh, mi avete riempita di così tante belle parole che mi sento sempre un po’ pessima a sommergervi di risposte nonsense. Grazie di cuore, mi fate sempre sentire brava e non è poco.
Ringrazio anche chi ha aggiunto la storia fra le seguite/ricordate/preferite e chi legge in silenzio. Se vi andasse, ditemi pure la vostra. Qualsiasi tipo di critica o non è sempre ben accetta :)
Alla prossima!
HeavenIsInYourEyes. |
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Capitolo 5 *** I'm sorry, but your Sehun is in another castle ***
o
Mi
scuso profondamente con quelle poche anime che magari si aspettavano un
aggiornamento lampo ma ho avuto altro per la testa e Absentia
è uscita dalla lista delle priorità,
purtroppo. Sono
tornata perché le voglio comunque bene e piano piano sto
mettendo insieme i
pezzi. Non so quando riuscirò ad aggiornare ancora, dato che
sul fronte lavoro
si prospettano tempi neri fino a… Marzo 2014?
(così dice la boss, almeno.), ma
spero di non sparire.
Vorrei
tanto che questo fosse un comeback spumeggiante, ma non sono davvero in
vena.
Vi chiedo di perdonarmi se ciò dovesse notarsi anche in
ciò che ho scritto, per
quanto tenda a distaccarmi sempre.
E
niente, per chi fosse interessato qui c’è il nuovo
capitolo.
Mi
erano mancati questi disagiati, lo ammetto.
Buona lettura ♥
Absentia
“Ma
gli uomini mai mi riuscì di capire, perché
si combinassero attraverso l'amore.
Affidando ad un gioco la gioia e il dolore.”
-Un
chimico, Fabrizio De André-
Capitolo 4
I’m
sorry, but your Sehun is in
another castle
(Di
Super Mario, Kai e lettere d’amore)
14
luglio 2013. Ore 9.10
Seoul. Seoul Institute of the Arts.
Arrivare
al cuore di Sehun, per Lu Han era sempre stato
come uno Shoot 'em up [1].
Nemici
da affrontare lungo il percorso, munizioni
nascoste in scrigni e savepoints
lontani anni luce, che lo costringevano a non commettere nessun passo
falso pur
di non dover ricominciare da capo. Ogni sorriso strappato o
chiacchierata
conclusa tra le risate era una missione portata a termine, con
conseguenti
punti esperienza che lo rendevano un po’ più
invincibile.
Ma Lu Han, in quella specie di massacro, si era sempre
sentito il Super Mario della
situazione: sconfiggeva temibili avversari, superava prove di
inenarrabile
difficoltà e una volta arrivato a quello che doveva essere
il traguardo, con
tanto di boss cazzuto pronto a divorarlo, c’era qualcuno che
con seraficità
disarmante e assolutamente fastidiosa, gli diceva: Mi
dispiace, ma il tuo Sehun è in un altro castello!
Solitamente era
Minseok la voce della verità che gli ricordava quanto Sehun
fosse in realtà
ancora troppo innamorato di Bowser-Jongin,
per potersi accorgere di un idraulico baffuto dalla
sgargiante salopette
rossa. Ma Lu Han aveva dalla propria una dose massiccia di pazienza e
impavido
come sempre, sarebbe andato di castello in castello, fino a che non lo
avesse
trovato. O si fosse fatto trovare.
Cominciava a credere che fosse lo stesso
Sehun a scappare di mondo in mondo, solo per non venir salvato.
Perché
Sehun era diventato un’ombra nella sua
quotidianità fatta di discorsi interrotti, sguardi buttati e
parole sparse solo
per dar da mangiare
a quel silenzio
opprimente che continuava a schiacciarli. E quella mattina, Lu Han non
aveva
resistito: Sehun non lo aveva salutato quando i loro sguardi si erano
incrociati nella minuscola cucina, si era limitato ad
un’alzata di mano mentre
immergeva la faccia nella tazza di latte.
Purtuttavia era rimasto, convinto che
il proprio –Fa un freddo cane, non credi? Non sembra neppure
di stare a luglio.-
avrebbe fatto uscire l’amico dalla bolla di apatia che lo
accompagnava da ormai
qualche settimana.
Sehun
aveva però sollevato il viso e Lu Han era
naufragato nella sua sofferenza.
Poteva
leggerne il motivo nei suoi occhi rossi e gonfi,
nella meccanicità con cui masticava i cereali, nel suo
guardarlo senza davvero
accorgersi della sua presenza. E deleterio sarebbe stato il suo Hai pianto ancora?, perché
sapeva che ne
sarebbe seguito uno sfiancato Non ho
pianto a cui avrebbe ribattuto con uno scoglionato Ti ho sentito, lo sai? Non hai fatto altro per
tutta la notte!, e
inevitabilmente sarebbero precipitati in una discussione fatta di
ringhi e
ruggiti che avrebbe trovato il proprio culmine in Kim Jongin.
Perché
l’epicentro di tutto era sempre Kim Jongin.
Quel nome trascinava con sé
talmente tanto da costringerlo a scappare, onde evitare lo scoppio di
una
guerra che non aveva voglia di combattere; Lu Han si era reso conto di
essere
un mago negli sparatutto virtuali ma quando si trattava di viverli in
prima
persona, non era poi così geniale come dava a vedere.
Se
n’era andato prima che qualche cattiveria sfuggisse
al suo controllo, complice un Jong-dae che continuava a tempestarlo di
sms per
ricordargli che doveva fargli da cavia per un esame.
Non seppe neppure se
Sehun lo ebbe ascoltato quando gli disse –Farò
tardi. Sai che Jong è lento.-
talmente era impegnato ad imbronciarsi di fronte ad un cellulare
silenzioso. Non gli chiese chi stesse aspettando.
Lo sguardo che gli rivolse prima
di annuire, valeva più dei pianti notturni che avevano
riempito
casa loro da ormai due settimane.
L’università
era una landa deserta, a parte qualche
sparuta anima che vagava per i corridoi. Lu Han se ne stava incollato
all’enorme finestra che dava sul cortile bagnato dalla
pioggia scrosciante, gli
occhi fissi su di una busta bianca trovata nella cassetta della posta.
Non gli
erano mai piaciute le buste, in particolar modo quelle anonime.
Solitamente
nascondevano missioni secondarie talmente difficili da impedirgli di
completare
il gioco al 100% oppure riportavano scuse prestampate per non essere
stati
ammessi all’università dei propri sogni,
costringendolo ad accettarne una a
buon mercato. Altre volte, semplicemente, trasportavano talmente tanto
amore
adolescenziale non corrisposto, confessato nel retro della scuola, da
farlo
sentire in colpa per averlo rifiutato.
Questa
volta, invece, si celava chissà quale missione
secondaria che avrebbe compromesso ogni suo piano di conquista.
Perché quella
lettera anonima era indirizzata al suo coinquilino e cazzo, le cose
stavano
assumendo una piega che non gli piaceva.
Ringraziò il cielo di essere stato lui
a prendere la posta, altrimenti avrebbe rischiato che Sehun
Peach venisse a conoscenza di questo fantomatico spasimante
segreto. Il pollice continuava a carezzare il nome del ragazzo scritto
in
maniera così elegante da farlo sentire un rozzo, per via
del suo pessimo modo di scrivere. Si chiese cosa mai potesse esserci lì dentro,
alimentando la voglia
matta di aprirla per scoprire l’identità del
mandante e carpire
informazioni su come avrebbe portato a compimento il livello.
In certe
occasioni era sempre meglio anticipare le mosse
dell’avversario, anche se ciò
significava ricorrere a trucchi.
Sollevò
appena l’angolo dell’apertura, deglutendo
quando un flebile rumore di strappo rimbombò nel corridoio
vuoto. Che male ci
sarebbe stato, se anche avesse letto? Sicuramente Sehun
l’avrebbe cestinata,
lui lo stava solo anticipando sul tempo…
-Perdonami!
Sono in ritardo Questa mattina ci ho messo
più tempo del solito a prepararmi!- l’uragano
Jong-dae turbinò nella sua
atmosfera con capelli freschi di piega e sorriso smagliante,
interrompendo il
suo losco operato. Si guardava attorno con aria famelica, celata da
quel
sorriso un po’ furbetto che spesso intimoriva Min-seok (anche
se Min-seok era
praticamente terrorizzato dal mondo).
Lu
Han gli lanciò un’occhiata stizzita, poi
tornò a
concentrarsi sulla busta –Se stai cercando Min-seok, oggi non
viene. Sta poco
bene.-
Jong-dae
si rabbuiò, le braccia molli lungo i fianchi e
gli occhi saettanti -Vuoi dire che ho perso un’ora davanti
allo specchio per
niente?- Lu Han annuì –E tu lo sapevi?-
annuì ancora –Te l’ho mai detto che sei
uno stronzo, vero?-
-Tutti
i giorni. Ma amo sentirtelo dire.-
Jong-dae
era uno dei pochi amici che Lu Han conservava
con cura, di quelli a cui mai avrebbe rinunciato. Maestro supremo della
trollaggine, Jong riempiva le sue giornate con espedienti
più o meno creativi
per conquistare il puro ed innocente Minseok che, come da copione,
ovviamente
non si era accorto di come l’altro sbavasse ogni qual volta
sorridesse o
parlasse o semplicemente respirasse.
Lu Han si sentiva a proprio agio stando al
suo fianco; il proprio male, condiviso con qualcun altro nella sua
stessa
situazione, diveniva un po’ più sopportabile. Come
quel momento, con lui che
continuava a passare mentalmente in rassegna la carrellata di papabili
pretendenti che avrebbero potuto scrivere a Sehun, e Jong-dae, che nel
mentre se
la prendeva con la sua proverbiale sfiga.
-Si
può sapere che leggi?-
-Mh?
Questa? E’ una lettera per Sehun, ma non
c’è il
mittente.-
-Uh,
un ammiratore segreto?- appoggiò il mento sulla
sua spalla e studiò quei pochi ideogrammi scritti finemente
sulla busta
–Dev’essere un tipo raffinato. Guarda come scrive o
anche il tipo di carta
usata.-
-Nh,
e sapresti dirmi anche chi gliel’ha scritta, Sherlock?-
-Mi
spiace, Watson,
ma non ne ho la più pallida idea. So solo che dovresti
consegnargliela ed
evitare di combinare cazzate- fece per replicare ma l’altro
fu più veloce
–Niente stufa, niente accendini, niente acqua e soprattutto:
non aprirla.-
-Non
era mia intenzione.-
-Dal
tuo sguardo non si direbbe- Jong-dae gli tirò su
le guance, cercando di farlo sorridere, ma tutto ciò che
ottenne fu un Fanculo appena
biascicato e qualche
altro smadonnamento –E poi se non ti muovi, rischi sul serio
che qualcun altro
te lo porti via. Ancora…- il cuore di Lu Han
traballò nell’esatto istante in
cui quelle parole lo sfiorarono. Il passato incombeva come gli enormi
nuvoloni
che avevano coperto il cielo plumbeo di Seoul e più ci
rimuginava su, più
continuava a dirsi che avrebbe cambiato tutto se solo avesse avuto la
possibilità di tornare indietro -Non commettere gli stessi
errori, d’accordo?-
-Di
certo non sono io ad aver commesso errori- replicò
snervato, storcendo il naso al ricordo di un euforico Sehun che gli
annunciava
di star andando al primo, vero appuntamento con quel demente di Jongin.
Cose da
conati di vomito, sul serio –Magari è solo uno
scherzo.-
Jong-dae
arricciò le labbra, pensieroso –E se fosse di
Kim? Magari è tornato e non sa con che faccia ripresentarsi-
lo enunciò
seraficamente, con le mani dietro la testa e lo sguardo rivolto al
soffitto.
Per Lu Han fu come se il mondo avesse smesso di girare –Ormai
è via da un
sacco. Non aveva mica detto che—
-Non
so niente- lo interruppe lapidario, innervosendosi
quando il suo pedante –Ma tu— tornò alla
carica, costringendolo a rifilargli una
delle occhiate più cupe che possedesse –Non. So.
Niente.- esalò un’ultima
volta, rilassandosi di fronte al suo veloce annuire.
L’opzione Kim è tornato
in città non l’aveva presa
in considerazione e forse era stato un bene perché il
terremoto di sentimenti
che aveva causato, stava scombussolando la sua quiete interiore
faticosamente
rifocillata.
Jongin era un boss troppo difficile da sconfiggere, non ce
l’avrebbe mai fatta, non adesso. Non aveva armi potenti per
eliminarlo e cosa
più importante, Sehun ne era ancora troppo assuefatto
perché potesse schierarsi
dalla sua parte.
-Ah,
prima che me ne dimentichi!- Jong-dae ravanò nello
zaino, rapendolo dai propri farneticamenti -Ta-dan!- gli porse un
volantino su
carta patinata con un sorriso alla Cheshire
e Lu Han rabbrividì. Era
inquietante quando esclamava Ta-dan!,
anche perché di solito non seguiva mai nulla
di buono.
-Che
roba è?-
-Ma
che ne so. La galleria d’arte dove lavora mio
fratello ha indetto un concorso di fotografie per non ho capito cosa.
Mi ha
detto di distribuire i volantini ai miei amici- gli sorrise
–Ho pensato che
potresti darlo a Sehun. Magari gli servirà a distrarsi-
Si, certo… Peccato che Sehun avesse smesso di fare
fotografie, se
non per necessità. Diceva di andare al parco ma mai gli
aveva mostrato qualche
foto. Prima gli faceva perdere le ore nel descrivergli i giochi di
luce, le
pose... C’era così tanta bellezza in quei momenti,
che Lu Han cominciò ad
avvertirne l’asfissiante mancanza –Ci incamminiamo?
Siamo già in ritardo!-
Lu
Han annuì.
Infilò il volantino in tasca e prima che
potesse gettarvi anche la busta, guardò l’angolo
che aveva leggermente
strappato, sentendo il cuore precipitare, la coscienza
scalciare.
E poi c’era stata quella voce, che da tempo non aveva udito e che, ancora,
ebbe il
potere di farlo sentire sempre un passo indietro al mondo…
Mi
dispiace, ma il tuo Sehun è in un altro castello.
******
14
luglio 2013. Ore 18.48
Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han.
Sehun
aveva smesso di tormentarsi davanti ad un
telefono che non squillava mai all’età di sedici
anni, quando aveva capito a
proprie spese che la cotta adolescenziale, che da tempo aveva occupato
i suoi
sogni erotici, non lo avrebbe richiamato.
Anche se tra loro c’era stato un
bacio in discoteca, anche se il dj aveva messo quella che lui aveva
sempre
considerato la loro canzone –senza che l’altro lo
sapesse, com’era giusto che
fosse-, anche se gli aveva promesso che un giorno o l’altro
lo avrebbe invitato
a casa sua per ripassare fisica –e Sehun aveva ardentemente
sperato che stesse
parlando di educazione fisica.-.
Non
che ci fosse riuscito da solo, era troppo emotivo e
paranoico per poter uscire con le proprie mani dal baratro
dell’umiliazione;
era stato Lu Han a fargli capire che il tempo che sgocciolava davanti i
suoi
occhi lucidi, poteva essere speso in maniera più
costruttiva.
Ricordava ancora
quando si era presentato a casa sua in lacrime dopo una settimana di
messaggi
mai arrivati e chiamate mai ricevute, con gli occhi gonfi e il naso
rosso,
stringendoselo in un abbraccio da cui subito l’altro si era
divincolato perché Cristo, ci sono
i miei e poi sai che rompono
i coglioni!
Le parole erano state dure, gli sguardi dell’amico erano
scivolati sul suo corpo corrodendo quel briciolo di amor proprio che,
nonostante tutto, credeva gli fosse ancora rimasto. Ridursi
così per un cretino è proprio da deficienti,
aveva esalato
aspro prima di rituffarsi nel proprio mondo fatto di tubi, funghi e
omini
baffuti, Non capisco perché la
gente si
disperi per queste cazzate. Morto uno stronzo ne arrivano sempre altri
cento.
E
piano piano, aveva sentito l’amarezza divenire indifferenza,
fino a che ogni
traccia di affetto e devozione non era finita nel dimenticatoio.
Lu
Han aveva sempre avuto modi bruschi di sbattergli in
faccia la realtà, riuscendo a non farlo sprofondare. Eppure
non gli parlò della
chiamata a vuoto fatta a Jongin, che aveva preso a pugni ogni cumulo di
speranza che serbava nel vederlo tornare indietro solo e unicamente per
lui. Non sarebbe
stato capace di sopportare i suoi
sguardi, i lineamenti del suo volto che andavano tumefacendosi per la
collera, le
sue parole pregne di disprezzo che avrebbero finito con
l’avvilirlo un po’ di
più.
Sehun
era stanco di tutto quello.
Lui
voleva solo sapere perché. Perché fossero
arrivati
a quel punto di non ritorno, perché tutto non stesse andando
come avevano
programmato.
Perché, alla fin fine, era sempre lui quello che veniva
lasciato
indietro.
Non c’era attimo in cui non se lo chiedesse, ma neppure le
notti
insonni erano state propizie. Il mondo si stava sgretolando sotto i
suoi occhi
colmi di questi Perché?,
e più
tentava di raccoglierne i cocci, assemblandoli, più quello
continuava a sbriciolarsi.
E
se neppure Sehun sapeva che farsene del proprio mondo
crollato in pezzi, chi altro avrebbe voluto rovistare fra le sue
macerie, cercando
addirittura di ricostruirlo?
-I
Backstreet
boys?- Lu Han si intromise nei suoi vaneggi –Deve
girarti proprio male.-
-Tu
non dovresti parlare- abbassò il volume dello stereo
-L’ultima volta che sono entrato in casa, stavi ballando Baby one more time.- un
ghigno appena scorgibile sbucò, quando le guance dello hyung
si tinsero di un
acceso rosa pastello.
-Quell’esame
era più complicato del solito.- si giustificò,
mangiando ogni sillaba come se il suo stesso disappunto servisse a
prevenire
eventuali prese per il culo.
Cosa
che ovviamente Sehun cercò di trarre a proprio
vantaggio, visto che le occasioni di poter superare Lu Han in
stronzaggine
erano pressoché nulle, ma lo sguardo cadde in picchiata
sulla pozza d’acqua
sotto le sue Nike
sporche e subito il suo istinto da massaia repressa sbucò
-Non
azzardarti a fare un passo!- gli intimò con cupezza,
assottigliando gli occhi
quando Lu Han si tolse il giaccone fradicio e lo gettò per
terra –Ho appena
pulito!-
-Ripasserai
lo straccio.-
-Io
non ripasserò proprio nulla. Sarai tu a farlo!-
-Scordatelo.
Sei proprio un rompipalle, lo sai?-
-No,
sei tu che rompi!-
-Quante
storie per un po’ d’acqua.-
-Il
problema non è l’acqua!- puntò il dito
contro le
piastrelle –Il problema è l’acqua sul
pavimento appena lavato!- esalò pratico,
facendo lampeggiare l’indice sulla sua figura grondante di
pioggia.
Lu
Han alzò le spalle e come se nulla fosse
attraversò
il piccolo salotto per rifugiarsi nella propria tana, ignorando il suo
restarsene immobile ed attonito con quell’indice a
mezz’aria che, ormai, aveva
smesso di muoversi. Seguì le sue impronte disegnate da
gocce, facendo
attenzione a non calpestarle. Impresa più facile a dirsi che
a farsi, perché Lu
Han aveva sempre avuto la brutta abitudine di trascinare quei suoi
maledetti
piedoni, anziché sollevarli come ogni essere umano.
-Potresti
alzare quei maledetti piedi, una volta tanto?
Stai bagnando tutto il pavimento!- Lu Han si infilò in
camera, Sehun captò un
annoiato Che due coglioni
frantumarsi
a pochi centimetri dai propri calzini bagnati –Che due
coglioni lo dico io,
chiaro? E non imprecare, hai capito? Non farlo! Mi dai sui nervi quando
lo
fai!-
Lu
Han non si degnò neppure di voltarsi, continuava la
sua svestizione senza badare alle occhiate infuocate o agli sbuffi o
qualsiasi
altra cosa che avrebbe dovuto catturare la sua svagata attenzione.
Sehun sentì
la rabbia mescolarsi alla verdognola gelosia; anche a lui sarebbe
piaciuto
vivere senza alcun pensiero, lasciarsi ogni paranoia o fobia alle
spalle e
trascorrere serenamente il resto della propria esistenza.
Capì però ben presto,
quanto solo pochi eletti come Lu Han potessero riuscire in tale
impresa: lui
non era in grado di rinunciare ai ricordi e, soprattutto, non riusciva
ad
abbandonare le anime che avevano sostato nel suo cosmo.
-Sembri
mia madre, dico sul serio. Hai anche lo stesso
grembiule.-
Sehun
aprì le labbra, pronto a ringhiargli contro che
sua madre non aveva mai usato grembiuli e che se lo ricordava
benissimo, perché
indelebili erano le sue magliette a fiori sporche di farina e i
pantaloni
maculati di marmellata o cioccolata.
Ma le parole si aggrovigliarono in un
gomitolo indissipabile, che rotolò nelle cavità
più buie della sua mente mentre
le guance andavano imporporandosi.
Lu Han si stava spogliando davanti ai suoi occhi ora
larghi e, diamine, certi spettacoli erano da fiato mozzato in gola, di
quelli
che poche volte si provavano nella vita e quando ciò
avveniva, lasciavano un
segno talmente profondo che il ricordo non poteva più essere
manomesso. La
schiena nuda di Lu Han trascinava con sé una scomoda
sensazione di déjà-vu.
Fu
uno spettacolo già visto, eppure ai suoi occhi parve nuovo.
La
sua schiena svettava nel candore della camera da
letto, che sapeva di detersivo al limone comprato nel negozietto sotto
casa.
Era stretta, lattea, di quel bianco che stonava con l’azzurro
tenue della
stanza, che strideva con l’ultima che aveva visto. Che era
ambrata, larga, capace
di reggere ogni sua paura ed insicurezza...
-Dovresti
chiudere la porta quando ti cambi!- gracidò
dandogli le spalle.
-Come
se non mi avessi visto nudo già un mucchio di
volte. E comunque sei stato tu a seguirmi.-
Sehun
strinse i pugni, indeciso se ammazzarlo seduta
stante o aspettare che pagasse la sua quota di affitto.
Guardò oltre la spalla
e lo vide trafficare nel comò alla ricerca di una maglietta
pulita. Decise in
quel momento che l’unica vendetta era mutilarlo, almeno non
avrebbe potuto più
giocare ai suoi amati videogames e sarebbe perito nella disperazione.
-Era
diverso.- osservò nostalgico, memore di
un’infanzia fatta di bagni assieme al migliore amico e
svestizioni negli
spogliatoi della scuola prima di un torneo. Non c’era mai
stata malizia, forse
per la giovane età o forse perché Lu Han era una
specie di fratello rompipalle,
giunto appositamente per rovinargli l’esistenza
già di per sé schifosa e, anzi,
se solo ripensava a quei momenti, un sorriso di pura nostalgia
sbocciava
irrefrenabile.
La
nostalgia legata a Lu Han non gli faceva male.
Sapeva
di torte appena sfornate nei pomeriggi di
primavera, quando studiava nel giardino sfiorito di casa e Lu Han si
presentava
con una scatola di latta di Dragon Ball
con dentro i suoi tesori: le carte dei Pokemon
che raccoglieva con tenacia e fatica. Sapeva dei suoi sorrisi sbilenchi
mentre
si vantava di aver trovato quel Blastoise
argentato rarissimo e delle sue colorite ma mai pesanti imprecazioni
quando lui,
invece, gli sbatteva in faccia con placidità di aver trovato
nel cassonetto
della spazzatura un Charizard dorato
nuovo di zecca. Sapeva del cigolio delle altalene al parco fuori
città quando
facevano a gara a chi per primo avrebbe toccato il cielo, anche se
Sehun
perdeva sempre perché soffriva di vertigini e allora si
fermava a metà. Aveva
lo stesso sapore della speranza quando guardava i bui cieli
d’agosto con il
naso all’insù, seduto sul tetto di casa, di fianco
ad un Lu Han stravaccato che
continuava a ripetergli quanto stupido fosse il loro aspettare le
stelle
cadenti, l’esprimere centinaia di desideri che mai si erano
avverati e sentirsi
dire con scazzo Te l’avevo detto.
La
malinconia che provava per Jongin, invece, faceva un
male atroce.
Anche
in quel momento poteva udire i suoi passi
cadenzati riecheggiare nel corridoio, le proprie grida mentre gli
intimava di
tornarsene in camera e non rendere vane le sue ore di pulizie; la sua
risata
spensierata che riempiva ogni crepa del muro, capace di malleare
perfino il
mutismo più spesso che era solito rivolgergli quando non
sapeva come altro
incazzarsi. E il modo in cui lo abbracciava quando prendeva un bel voto
o
quando semplicemente aveva bisogno di coccole, mostrandosi per il
bambinone che
era sempre stato; il suo sorriso smagliante quando diceva Sì a qualche sua improvvisa
idea e il broncio decisamente adorabile
che gli piazzava quando si negava, in qualsiasi circostanza.
Sehun
aveva sempre amato considerarsi la riva su cui
Jongin sempre si sarebbe infranto, ma lui era una di quelle onde che
carezzava
il bagnasciuga e poi si ritrascinava in acqua,
perché quello era il suo
posto.
-Non
sono poi così cambiato- la sua svagatezza lo
trasse in salvo –Ma dove cacchio sono le mie magliette? Le
hai spostate di
nuovo tu?!-
Sehun
si mosse, impietosito dai gesti irascibili del
compagno. Sollevò la pila di libri sulla poltrona posta
nell’angolo della
camera e gliele mostrò con una smorfia –Dovresti
mettere in ordine.- gli rifilò
quelle parole con incertezza, intimorito al pensiero che potesse
rinfacciargli
qualcosa come Non sai mettere in ordine
la tua, di vita, e vieni a lamentarti con me?, del resto
sarebbe stato
tipico di Lu Han. Ma quello si limitò a mangiucchiare delle
scuse mentre
sceglieva una maglietta dal mucchio, concedendogli di nuovo la vista
della sua
schiena candida e stretta.
Era
vero, Lu Han non era poi così cambiato dal bambino
di dieci anni che picchiava i bulli che gli rubavano il pranzo o da
quello di
quindici anni che lo consolava malamente quando l’ennesima
cotta rifiutava le
sue avances. Solo i gesti erano mutati, divenendo radi e calcolati,
come se un
abbraccio in più avesse potuto scalfire quel loro rapporto
perennemente in
bilico su di un filo che, Sehun, nemmeno sapeva quando fosse stato
filato.
E le
parole… Lu Han ci aveva sempre giocato, con le parole.
Amava rigirarle,
invertirle, metterne una in più per fargli sbrodolare il
cervello e toglierne
qualcuna per farlo vivere nell’ansia.
Ma
nonostante tutto, non si era spogliato delle vesti
di amico pronto a trasformarsi nella sua ancora di salvezza.
Fu forse per questa sacrosanta certezza che Sehun si
ritrovò a svelargli quel terribile segreto che da settimane
aveva custodito nei
cassetti della propria mente, non senza un certo imbarazzo misto a
timore di
venir pietosamente deriso.
-La
settimana scorsa ho provato a chiamarlo.- la
discesa della maglietta rallentò, a Sehun parve che ogni suo
movimento fosse
rallentato.
-Chi?-
Sehun
si mise a braccia conserte –Oh, lo sai benissimo
di chi sto parlando.-
-Naha,
proprio no.-
Sbuffò
–Ma sì, di lui…-
Lu Han lo guardò oltre la spalla, scosse la nuca e attese
con espressione a
metà fra Ti prego non dirmelo, non
voglio
saperlo e Ma ti muovi,
sì o no?. Sehun deglutì e con
mastodontica difficoltà,
pronunciò poche lettere che, sapeva, avrebbero
inevitabilmente incrinato la
loro conversazione -…Kai.-
La
maschera di apatia di Lu Han si sgretolò, lasciando
in bella vista una smorfia di disappunto che subito gli venne negata e,
di
nuovo, si ritrovò a scrutare la sua schiena ora
più incurvata del solito.
Kai
era il tutto e
il niente
del suo universo.
Era il Kim Jongin dei suoi giorni cupi, quella figura
distorta che stava ricostruendo sulla base dei se,
i forse, i magari.
Era il nomignolo che aveva affibbiato
alla felicità, relegata in una fotografia che aveva
abbandonato in una casa
vuota, piena di spifferi, dalle pareti tremanti quando il treno passava
alle
tre del mattino.
Quel mucchio di abiti smessi, chiusi in una scatola di cartone
su cui aveva scritto “Non aprire”, quella valanga
di parole che faceva franare
sul proprio cuore invece di mandarle alla deriva del mondo che lo
circondava e
che, a dispetto di ogni suo più macabro pronostico, non
aveva smesso di girare.
Kai
era il nome che aveva dato all’assenza, solo
perché
così faceva meno male.
Aveva
pascolato qualche mese prima, fra il sale e
l’olio, vicino al ramen preconfezionato e subito aveva
portato scompiglio. Ricordava
lo sguardo di compatimento di Lu Han, quelle sopracciglia talmente
aggrottate
che avrebbe voluto far rilassare passandoci sopra i polpastrelli,
quando lo
enunciò per la prima volta, con la stessa
placidità con cui si direbbe l’ora ad
un estraneo. Ricordava i suoi esasperati E
ora cos’è ‘sta roba?, gli
scazzati Fatti
curare, dico sul serio, accompagnati da sbuffi, parolacce e
spessi silenzi
in cui era annegato.
E
alla fine, si era arreso. Lu Han si arrendeva sempre, per lui.
-Ah…-
fu tutto ciò che gli lasciò, concentrandosi sulla
lampo dei jeans. Sehun si ritrovò ad osservare la scala di
vertebre che
scompariva dietro l’elastico dei boxer e si
ricordò che proprio quello era il
punto debole di Jongin. Quante notti aveva accarezzato quel lembo di
pelle
color caramello, quanti brividi aveva sentito scorrere fino a divenire
pura
elettricità. Incredibile come ancora potesse sentire sotto i
propri
polpastrelli certe cose, come se stesse compiendo quei gesti in quel
preciso
momento.
-Beh,
cosa ne pensi?-
-Penso
che “Kai” sia un soprannome troppo bello per un
coglione del genere.-
Sehun
scivolò lungo lo stipite –Sii serio, ti scongiuro.-
-Ma
infatti lo sono!-
Sehun
capitolò, non provò neppure a vincere quella
battaglia, già persa quando le scarpe bagnate di Lu Han
avevano contaminato il
pavimento lucente del salotto. Decise di chiuderla lì con un
blando –Finisco di
pulire, che è meglio.- ma la pazienza di Lu Han
placò ogni sua decisione di
resa.
-E
cosa ti ha detto?- Sehun lo fissò con occhi sbarrati
e labbra semiaperte; Lu Han gli rifilò un’occhiata
scettica prima di far
scivolare i pantaloni lungo le gambe magre –Beh? Prima rompi
e adesso non rispondi?-
Si
riprese dallo shock, dovuto in parte all’improvviso
interesse dell’amico e in parte alla vista completa dei suoi
boxer a righe blue
e bianche. Cos’era quell’attorcigliamento di
budella nel ritrovarsi davanti Lu
Han mezzo nudo?! Richiamò all’ordine lo stomaco e
ogni organo e muscolo che
aveva deciso di contrarsi tanto da fargli male, ma vani furono i
tentativi di
placare i battiti del cuore.
Decisamente, aveva bisogno di scopare, di quelle
sane botte di sesso che gli avrebbero fatto addirittura dimenticare
come si
tiene in mano una forchetta.
-Non
mi ha detto nulla, non era raggiungibile.-
-Magari
ha cambiato numero- ipotizzò infilandosi i
calzoni della tuta, riassestando così i suoi battiti ormai
impazziti –Ma perché
lo hai chiamato? Credevo fosse passata quella fase.-
-Quale
fase?-
-Quella
che: se non sai perché se n’è andato,
non
potrai andartene via da questo mondo in santa pace. Pensavo non fosse
più così
importante.-
Sehun
non ebbe bisogno di realizzare quanto le cose non
fossero poi così tanto cambiate, nonostante il tempo avesse
ormai logorato la
sua pazienza, l’unica capace di sostenerlo mentre attendeva
un suo ritorno. Tutti
quei Ci penserà a me almeno un
po’?,
i sofferenti Anche lui si starà
chiedendo
se sto sopravvivendo?, i laceranti Mi
avrà già rimpiazzato?, non erano mai
cessati, persistevano nel tormentarlo
e se riusciva a non crollare, era solo per paura di venir lasciato
indietro
anche da quei pochi che si erano sorbiti i suoi pianti.
–Non
l’ho chiamato per quello. Io volevo solo—
già,
cosa voleva chiedergli? Se stesse bene? Se si sentisse uno schifo per
essersi
comportato da insensibile bastardo? Magari voleva sentirsi dire che la
vita,
senza di lui, era uno schifo colossale? O appurare che i brividi,
nell’udire la
sua voce profonda, erano ancora gli stessi? Sehun si ritrovò
a brancolare nell’angoscia
e quando Lu Han lo incalzò con i suoi occhi larghi e un velo
di noia a farlo
sbadigliare, tutto ciò che riuscì a dire fu
–Volevo solo dirgli: Ciao.-
perché, dopotutto, non era poi
così lontano dalla realtà.
Perché prima di essere stati due tremendi amanti, erano
stati l’uno il porto sicuro dell’altro, uniti da un
inossidabile vincolo di
amicizia che credeva sarebbe perdurato nei secoli.
E
l’amicizia di Jongin, quella, era stata talmente
bella che il cuore gli si scioglieva ancora…
La
prima volta che staccarono la luce per non aver pagato le bollette,
Sehun stava
studiando inglese per l’esame del giorno dopo. Era
acciambellato sul futon quando
un'assordante “Tac” aveva anticipato il
buio.
Sehun
non ricordava granché cosa fosse successo negli istanti
successivi. C’era stata
una sonora imprecazione di suo padre, proveniente dalla cucina; sua
madre era
divenuta una mitragliatrice di domande e più queste non
trovavano risposta, più
andava in escandescenza. Le urla si erano librate alte, mescolandosi ad
un
pianto che Sehun non era riuscito a sopportare.
C'era stato il motore dell’auto che risuonò in
cortile -perché suo padre se ne andava sempre quando le cose
si facevano ingestibili- e tutto ciò che rimase, fu il
pianto nervoso di sua madre che marciava fino in camera.
Avvertì gli
occhi pizzicare quando si accorse di non poter più reggere a
tutto quello
sfacelo, perché le sue spalle erano troppo gracili e se non
si lasciò andare,
fu solo perché un’ombra gli scompigliò
i capelli, facendolo urlare.
-Sehun,
sei sveglio?-
-Jongin,
demente! Vuoi per caso uccidermi?!- la
sua risata gli perforò un timpano, miscelandosi ai battiti impazziti del suo cuore.
-Tesoro?
Qualcosa non va?- sua madre bussò, gli parlava oltre la
porta con malandata
tranquillità.
-No,
mamma, non è niente!- si accertò che i suoi passi
sfumassero, poi diede una
spinta all’amico appallottolato al suo fianco
–Cretino, vuoi farti scoprire?!-
-Scusami,
è che eri così spaventato che non sono riuscito a
trattenermi- sbrodolò senza
fiato; doveva avere un sorriso da capogiro in quel momento -Stavi
dormendo?-
Sehun non rispose, Jongin continuò con incertezza
–Ho visto le luci tutte
spente, così ho pensato che—
-Papà
non ha pagato le bollette.- lo interruppe con bruschezza,
giocherellando con il
cuscino a forma di panda rubato a casa di Lu Han.
-Oh…
Mi dispiace- Sehun alzò le spalle, ringraziando il buio che
inghiottiva lo
sguardo di pietà dell’amico; il suo non lo avrebbe
sopportato –Sarebbe
divertente se venissero quei tizi con le pistole laser che fanno
scomparire i
divani e i televisori. Come in “The sims”!-
trillò euforico, strappandogli uno
sbuffo misto a risata.
-Già,
sarebbe divertente…- ricacciò indietro le lacrime
–Ascolta, se sei qui per i
compiti di inglese, non li ho finiti. Non ho voglia di—
-In
realtà volevo portarti fuori- il cuore di Sehun perse
qualche battito, la
cadenza della sua voce era perfino più dolce che nei suoi
sogni –Mia sorella
dice che stasera ci saranno un mucchio di stelle cadenti… Ti
va di vederle
assieme?-
Avrebbe
voluto dirgli di no, perché doveva finire di studiare e poi
non era in vena di
stronzate. Voleva solo dormire e magari svegliarsi morto o qualcosa del
genere.
Ma Jongin gli aveva tirato addosso il cappotto e prima che potesse
brontolare,
lo stava seguendo silenziosamente sul tetto...
Parlavano
di tutto e niente.
A dir la verità, era Jongin che intavolava discorsi e li
portava a termine senza attendere un commento. Aveva quel sorriso
scintillante
che condiva ogni sua chiacchiera, quegli occhi sempre sorridenti in cui
si
smarriva e la sua spensieratezza, diamine, la sua spensieratezza era
talmente
adorabile da fargli dimenticare per un attimo che, una volta rientrato
dalla
finestra, una montagna di problemi lo avrebbero divorato.
-Ti
ricordi che tra due settimane c’è il saggio?- la
sua domanda euforica fu un tir
che lo colpì in pieno. Il suo sorriso traballava un poco,
eppure non accennava
a diminuire.
-Aha,
cercherò di esserci.-
-No,
tu dovrai esserci. Me lo avevi promesso.- lo riprese con puntiglio,
imbronciandosi mentre si stringeva nel piumino per ripararsi da una
sferzata di
vento improvvisa.
-Vedrò
di non mancare.- ripeté con un briciolo di entusiasmo, quel
tanto che bastava
per farlo tornare il solito moccioso che era. Con i suoi sorrisi e i
suoi occhi
colmi di ingenuità, le sue mani che battevano e i piedi che
dondolavano oltre
il cornicione, come se i mali del mondo lui nemmeno sapesse cosa
fossero. E per
un breve istante, quando Jongin scoppiò a ridere per una
cazzata non meglio
identificata, anche Sehun si sentì allo stesso modo:
spensierato e libero.
Su
quel tetto, da solo con lui, era come stare sospesi e assaporare la
vera
felicità in tutta la sua lucentezza.
-Senti,
mh, ecco…- si grattò la nuca, morse il labbro
inferiore mettendo in bella
mostra la fila di denti bianchi –Domani
c’è il test di inglese e—
-Non
ti lascio copiare.-
Le
mani di Jongin sbatterono sulle cosce –Ma non volevo
chiederti quello!-
-Se
mi stai riproponendo di scambiarci i compiti, la risposta resta sempre
quella
di prima.-
Jongin
gonfiò le guance, gli ricordava il criceto di Lu Han quando
si rimpinzava di
semi di girasole –Andiamo, ho bisogno di prendere un bel
voto! Se venissi
bocciato anche lì, mio padre sarebbe capace di sbattermi
fuori di casa!- si
lamentò mogio, poggiando il mento sui pugni chiusi. Sehun
nascose un sorriso
divertito dietro la sciarpa, guardandosi le mani guantate pur di non
fissarsi
sul suo profilo che, ormai, sarebbe riuscito a tratteggiare anche
bendato –E
allora verrò qui e sarete costretti ad ospitarmi.- aggiunse
ferreo.
Sehun
pensò che non sarebbe stato male vederlo gironzolare per
casa in boxer o mentre
improvvisava qualche passo di danza. Gli sarebbe piaciuto vedere sua
madre
ridere per le sue sciocche battute e suo padre rimproverarlo
bonariamente
perché non metteva lo studio al primo posto.
Averlo
sempre intorno, così, come se non vi fossero limiti di tempo.
-Non
punire i miei genitori, loro non c’entrano nulla.-
rimarcò ironico, sbuffando
quando cominciò a scuoterlo per la spalla con bambineschi
“Non sei
divertente!”. No, non lo era affatto… Ma Jongin
sì, era talmente divertente che
Sehun faticò a non scoppiare a ridere di fronte alle sue
narici dilatate e le
orecchie fumanti.
-A
tua madre piaccio. Forse le piaccio più io, di te.-
brontolò acquattandosi nel
suo cantuccio, giocherellando con i lacci dorati delle Air Jordan
appena
comprate. Erano quelle rosse e nere, con il simbolo della Nike di un
oro
brillante. Sehun le aveva amate non appena lo sguardo era scivolato per
caso
sulla vetrina, ma la modica cifra di 84.835 Won [2]
lo
aveva fatto imprecare mentalmente
mentre ripercorreva i propri passi.
-A
mia madre piacciono tutti i miei amici, indistintamente. Vorrebbe
adottarli in
massa.-
-Anche
Lu Han?- Sehun non badò a quella domanda posta con
leggerezza, proprio mentre
un'auto passava con la musica a palla.
-Oh,
lui è in cima alla sua lista.- lo aveva quindi pronunciato
con la stessa,
placida tonalità con cui Jongin si era rivolto a lui, con il
naso puntato
all’insù e il volto modellato dalla
serenità.
-Lo
è anche nella tua?- e quando fece piovere una domanda del
genere, dopo
un’eternità di quiete, Sehun non seppe cosa fosse
quel terremoto che gli colpì
il cuore.
Improvvisamente, trascinandosi dietro una valanga di domande che gli
affollarono il cervello ormai in tilt.
Osservò
il proprio respiro arrotolarsi nell’aria, come se potesse
dargli le risposte
che cercava, ma tutto ciò che riuscì a replicare
fu un gracidante -Ma io non
voglio adottare Lu Han!- stringendosi nel cappotto, riparandosi dal
buio della
notte cosicché non si accorgesse delle sue gote arrossate.
Rossore che divenne
color peperone quando la risata di Jongin si spandé
nell’aria.
-Non
intendevo quello!-
Sehun
lo guardò di sottecchi e per un attimo il suo profilo gli
parve distorto. La
fronte era leggermente corrugata, c’era la linea morbida del
naso solcata da
quella impercettibile gobbetta che avrebbe voluto tracciare con i
polpastrelli
e le labbra piene erano arricciate in una smorfia, come se dalla sua
riposta
fosse dipesa la loro amicizia –Non ho alcuna lista,
figurati.- tutto si
inabissò in un silenzio teso, di quelli che non era solito
affrontare quando
Jongin era l’interlocutore. Lui parlava sempre per entrambi,
adorava colmare i
loro silenzi senza però risultare pesante. Oddio, per cinque
minuti, poi veniva
voglia di trivellarlo con una mitraglietta.
Sehun
fu sul punto di chiedergli il perché di quella domanda,
perché il coraggio gli
veniva sempre quando era lui ad esporsi, in quella maniera un
po’ criptica e
che lo faceva vivere in un limbo per giorni interi, fino a che la
normalità non
si ristabiliva.
Ma
il ragazzo era esploso in un –Wow!- che per poco non fece
affacciare sua madre
e prima che potesse accertarsi della sua sanità mentale,
Jongin stava già
strattonando il suo braccio –Una stella cadente!
L’hai vista?! Esprimi un
desiderio, coraggio!- e mentre lo pronunciava, aveva
un’espressione talmente
stupida che Sehun si ritrovò a nascondere un sorriso dietro
la sciarpa a
scacchi che Lu Han gli aveva regalato il precedente Natale, gli occhi
ormai
incollati sul suo profilo: le sopracciglia e il naso erano arricciati
per lo
sforzo, minuscole rughette si diramavano agli angoli degli occhi chiusi
e il
modo in cui si inumidì le labbra fu solo un colpo in pieno
petto, che trasformò
le gambe in due budini.
Sehun
guardò il cielo e un tripudio di desideri prolificarono come
un’emorragia
inarrestabile.
Gli sarebbe piaciuto avere più soldi per poter aiutare i
suoi,
avrebbe voluto vincere quella borsa di studio tanto agognata
così da non dover
sobbarcare mamma e papà di ulteriori sacrifici, sarebbe
voluto diventare
astronauta o chirurgo, e che Lu Han la smettesse di chiamarlo nel cuore
della
notte per dirgli di aver completato qualche stupido livello.
Ma
più di tutto, in quel preciso momento, ardeva dal desiderio
che Jongin lo inglobasse
in una bolla e lo portasse via su di una stella o un pianeta
sconosciuto,
qualsiasi posto andava bene purché ci fosse lui a tenergli
la mano. Dicendogli
che tutto andava bene e che avrebbero superato qualsiasi
avversità, come nelle
migliori favole che sua madre gli leggeva prima di addormentarsi, da
bambino.
-Allora,
lo hai espresso?- annuì appena, perdendosi nel suo sorriso
così folgorante da
illuminare perfino la notte –E cos’hai chiesto?-
-Non
si dice! Altrimenti non si avvera!-
La
gioia di Jongin si sgretolò in un –Oh…-
che concretizzò il suo imbarazzo –Ecco
perché non se n’è mai avverato neppure
mezzo. Io li spifferavo sempre alle mie
sorelle!- scoppiò a ridere fragorosamente, prima di
sdraiarsi sul tetto e
bombardarlo ancora di ricordi legati alla sua infanzia, che Sehun
annotava
mentalmente.
Jongin
se ne andò solo quando suo padre rincasò, qualche
ora più tardi, come se avesse
capito che per lui quella casa sommersa da pianti e lacrime era solo un
Inferno, e che da solo non sarebbe riuscito a sopravvivere.
Era così buono, ma
così buono, che sentì le lacrime scendere quando
vide la sua schiena scomparire
oltre il vicolo, cullato solo da quell’ultima frase
lasciatagli
inaspettatamente…
-Oh,
e comunque neppure io ho una lista. Ma se l’avessi... Saresti
di sicuro in cima.-
E
che lo aveva fatto innamorare un po’ di
più…
Fu
una palla di carta quella che si schiantò sul suo
viso senza delicatezza alcuna. La osservò perplesso,
avvertendo il sollievo
scivolare in ogni vena pulsante del suo corpo teso come corde di
un’arpa. La
raccolse con infinita lentezza e quando la aprì, fu solo
confusione mista ad
incredulità. Le parole Concorso
e Fotografia e Mostra
si rincorrevano tra di loro, mandando in completo blackout
il suo cervello già malfunzionante.
-Che
roba è?-
-Me l’ha dato
Jong-dae. Pensa
che potrebbe interessarti- Lu Han raccolse un
mucchio di magliette sporche e stropicciate; imprecò quando
gliene scivolò
qualcuna dalle braccia –Potresti sempre dimostrare a quello
stronzo del tuo
prof che non sei uno da sufficienza scarsa.- lo pronunciò
con tutto il sostegno
di questo universo; Sehun avrebbe solo voluto sprofondare in una
voragine per
avergli raccontato una cazzata.
-Ci
penserò…- mormorò sfibrato, deglutendo
un secco No che avrebbe fatto
incazzare il coinquilino.
Sehun non era abituato a mostrare i propri lavori, a meno che non
servissero
per un esame. Era geloso del mondo che ritraeva su pellicola patinata e
aveva
il costante timore che la gente potesse scoprire ogni sfaccettatura del
suo
microcosmo, se solo avesse compreso il perché di determinate
angolazioni,
giochi di luce e sguardi che valevano più di mille sorrisi o
parole.
Sehun
non era bravo a mettersi in gioco, preferiva che
fossero gli altri a trascinarcelo dentro, così da poter dar
loro tutta la colpa
in caso di sconfitta.
-Tanto
so che non lo farai…- bisbigliò apatico, quasi
avesse seguito il flusso dei suoi pensieri -Dove hai messo il
detersivo?-
-Cosa?-
-Il
detersivo… Dove l’hai messo?-
-E’
vicino alla lavatrice, perché?-
Lu
Han alzò le spalle prima di superarlo col suo
esercito di magliette, biascicando mugugni incomprensibili.
Da
un po’ di tempo Sehun si sognava le cose.
Ma
giurò di aver udito un incerto –Ti aiuto a
pulire.- che
lo fece sorridere di cuore.
*******
19
luglio 2013. Ore 23.14
Seoul. KTV.
“Quindi,
ti andrebbe di uscire con me?”.
Così
recitavano le ultime parole di quella lettera che
stringeva fra le mani, letta per la prima volta quella sera e solo
perché
costretto dalla seconda birra. Ideogrammi di inchiostro blu che si
seguivano
disordinatamente sul giallo canarino di fine carta di riso, scorrevano
davanti
i suoi occhi solcati da noia. Era infarcita di cliché, cose
alla Il cuore perde colpi quando ti vedo,
dal primo momento che ti ho visto non ho
fatto altro che pensare a te e tante altre cose che, se mai
le avessero
propinate a lui, probabilmente gli avrebbero fatto essiccare le palle.
Insomma,
chi sarebbe mai potuto cadere per cose come Non
riesco a smettere di pensarti? A lui, cose così,
mettevano un’ansia
talmente tanto profonda da farlo soffocare…
-Si
può sapere cosa stai leggendo?- la voce di Wu Fan
sovrastò il vociare concitato di un gruppo di ragazzi che
cantava Fantastic Baby davanti al
televisore. O
quel che ne rimaneva... Ma chi gliel’aveva data la licenza
per cantare, a quei quattro?!
Probabilmente TOP si stava rivoltando nel letto, a quest’ora.
Chissà se GD
sarebbe stato lì, pronto a placare le sue pene. A proposito,
una volta tornato
a casa avrebbe dovuto controllare se SunsetGlow aveva aggiornato la sua
fanfiction
a rating rosso oppure no. Aveva lasciato un TOP fedifrago nella
disperata
missione di riconquistare un GD ormai votato alla depressione
permanente e,
dannazione!, erano ormai due mesi che quella non aggiornava!
-Non
dirmi che è un’altra di quelle robacce che trovi
su internet.- mormorò caustico, il capo penzolante in avanti
quando Lu Han gli
rivolse un’occhiata colma di sdegno.
-Le
fanfiction non sono robacce. Molte
hanno una trama decisamente più solida di tanti libri
che ho letto. Come Twilight, ad
esempio. Quello può essere considerato un libro, secondo
te?- sventolò la
lettera, rischiando di versare sul pavimento la birra che reggeva
nell’altro
mano.
Wu
Fan roteò gli occhi mentre scivolava sul divano in
pelle bianca –Ti scongiuro, non cominciare.-
mugolò mettendosi a mani giunte,
stuzzicando il suo sopito senso di colpa. Quando Lu Han partiva a
parlare di
film e libri, diveniva un fiume in piena inarrestabile;
constatò in quel
momento quanto doveva aver rotto i coglioni a Kris con la storia di
Twilight,
perché solitamente si limitava a seguire i suoi deliri senza
interromperlo, con
quel sorriso candido che spesso lo metteva a disagio.
-Comunque,
sto leggendo una lettera.- si premurò di
precisare, storcendo il naso quando lo sguardo ricadde in picchiata
sugli
ideogrammi.
-Oh,
un ammiratore segreto- la cadenza maliziosa e
rauca che aveva assunto la voce di Kris lo ridestò
–Devo esserne geloso?- il
suo alito sapeva di birra e tequila tanto da stordirlo. O forse era il
suo
sorrisetto a farlo rabbrividire.
-Non
è per me- lo spintonò con una gomitata leggera,
ma
quello non si mosse di un millimetro. Nh, forse pure lui aveva
esagerato con la
Qingdao[3]
–E’
per Sehun.- la sventolò, poggiando poi la guancia sul palmo
aperto.
Il
viso di Wu Fan si fece distante. Pochi millimetri di
spessa aria li separavano ma Lu Han sentì che nulla avrebbe
potuto tagliarla,
neppure le sue labbra protese in un bacio che non sarebbe stato
ricambiato –E…
Perché ce l’hai tu?-
Il
tono di rimprovero con cui quella domanda venne
pronunciata non gli piacque, non gli piacque per nulla. Si premurò di
imprimere nella mente
altre poche parole di quella roba che stringeva fra le dita e
tornò a fissare
il ragazzo. Non v’era traccia di gelosia sui suoi lineamenti
marcati ora costretti
in una morsa di disappunto. Il disappunto di Kris era qualcosa di
inquietante,
lo ammise con una deglutizione e un gioco di sguardi a cui non
partecipò. I
suoi occhi appuntiti tendevano ad aguzzarsi più del solito,
la palpebra destra
poi si abbassava di qualche millimetro conferendogli un’aria
da mastino pronto
ad azzannarlo alla gola e le labbra si serravano, tanto da perdere la
loro
linea ben definita.
Insomma,
quando Wu Fan si incazzava, era meglio correre
ai ripari.
Lu
Han si guardò attorno ma nessun angolo sembrava fare
al caso suo. Forse avrebbe fatto meglio a salutare i commensali
sparpagliati
sui divani, fra le cibarie o vegetanti sul pavimento, e dirgli che si
sarebbero
rivisti un altro giorno, perché la piega che il suo volto e
la conversazione
stavano assumendo, facevano presagire l’Apocalisse. Fece per
muoversi, ma la
mano di Kris era stretta sul suo ginocchio –Perché
l’ho trovata nella buca
della posta.- ed era la pura verità! Il fatto che glielo
avesse confessato con
occhi larghi e ciglia sbatacchianti non era un incentivo a credergli?
-E
questo ti da il diritto di leggerla?-
…
No, a quanto pareva no.
-Mi
sto solo assicurando che non sia una trappola.-
-Una
trappola?!-
-Non
capisco il perché di tanta sorpresa. Sehun ha il
radar per gli stronzi, quelli sono capaci di trovarlo anche se fosse
invisibile.- spiegò con assoluta serietà, memore
di tutti i suoi precedenti
abbagli che si erano consumati fra le pareti di camera sua in
singhiozzi.
-E
da cosa, esattamente, hai capito che questo qui è
uno stronzo?-
-I
cretini che ti intortano con cazzate come Mi
togli il fiato, sono solo stronzi
camuffati da santoni.- sancì ferreo, mandando giù
un po’ di birra. Wu Fan lo
guardò a lungo prima di scuotere la nuca e perdersi in
sbuffi pesanti, che
gravarono sulle spalle ricurve di Lu Han.
-Ottimo,
altre cose da appuntare sulla “lista delle
cose da non fare” per evitare che ti scazzi- fu un sibilo
leggero, di quelli
che trapassavano lo spesso strato di indifferenza che aveva erto e si
insidiavano
fra i suoi pensieri –Coraggio, andiamo. Domani devo
lavorare.- indossò la
giacca con secchezza.
-Oi,
non puoi guidare. Hai bevuto un—
-Tranquillo,
sto bene. Incredibile come certe cose
portino alla sobrietà, tu non trovi?- i suoi occhi erano
campi di lampi e
saette, talmente infuocati da paralizzarlo sul divanetto di quel
karaoke. Era incazzato
e questa volta non sarebbe riuscito ad addolcirlo con qualche moina o
semplicemente ignorandolo. Non seppe neppure perché si
stesse preoccupando così
tanto, Lu Han, mentre saliva in macchina con un muso lungo quando il
Nilo.
Il
viaggio verso casa fu un calvario, scandito da
sospiri e sbuffi che resero l’aria irrespirabile. Lu Han si
chiese come
avessero potuto finire così, come una coppia che rincasava
da una bella cena a
lume di candela rovinata da qualche parola di troppo. Lui non era
portato per
questo genere di cose, le rifuggiva come se dovesse morirne. Si
sentì opprimere
dall’ansia al pensiero che una cosa del genere stesse
capitando proprio a loro,
dopo tutti i paletti e le regole che avevano creato. O
meglio… Che lui aveva
imposto.
Perché Lu Han voleva tenere un posto libero per Sehun, nel
qual caso
si fosse accorto di come ormai la loro amicizia gli andasse stretta.
Lu
Han si affacciò alla realtà solo quando
l’auto
arrestò la sua corsa. La scatola di sardine mai gli parve
così confortevole,
come se stesse per portare a termine quel livello impossibile su cui
stava
penando da settimane. La voce di G-Dragon
lambiva quel silenzio pesante che Wu Fan non accennava a rigare e
quando la
mano fu ormai sulla maniglia, Lu Han sentì che non poteva
andarsene con il
broncio e incazzosi Cercami solo quando
ti sarà passata.
Loro due non potevano permettersi certi lussi da
coppiette felici ed innamorate.
-Non
mi chiedi se voglio venire a casa tua?-
-Ho
smesso di fare domande di cui so già la risposta. E
poi, anche se mi dicessi di sì, sono troppo stanco. Voglio
solo dormire- già,
dormire. Lu Han represse un sorriso amaro, conscio che lui non avrebbe
chiuso
occhio. Il pianto di Sehun, nell’altra stanza, lo avrebbe
tenuto sveglio fino a
che gli occhi non si sarebbero serrati dalla disperazione.
Il freddo lo colpì
in pieno quando uscì dall’auto, fu come uno dei
tanti schiaffi che forse Wu Fan
avrebbe voluto rifilargli, limitandosi però a colpirlo con
le sole parole –Lu
Han, ascolta, Sehun non è un bambino. Impara a lasciarlo
camminare con le sue
gambe. Se non si scotta, come può capire di non dover
giocare con il fuoco?- lo
abbandonò davanti casa con quella perla pescata dal cilindro
delle “Frasi
mature e ad effetto da usare per farlo sentire uno stronzo” e
che risvegliarono
il suo senso di colpa mandato in letargo.
Niente baci, niente sesso, niente
scomode richieste a trascorrere la notte assieme… Lu Han
trovò tutto così serio,
da farlo pentire di aver
cominciato quel gioco con Wu Fan.
Risalì
le scale come un automa, rendendosi conto di
essere già in cucina quando l’odore di the verde
gli fece storcere il naso. Di
Sehun non v’era traccia, probabilmente era già a
dormire. Fu grato di ciò,
almeno non avrebbe potuto vedere il suo volto costretto in una maschera
di
frustrazione.
Adagiò la lettera sul tavolo, richiamato dal cestino che
continuava
ad ammaliarlo con languidi Usami, vedrai
che le cose andranno meglio.
La lettera bruciò sotto i suoi polpastrelli e prima che
potesse dare ascolto a tutta la cattiveria che continuava a fargli
commettere
scemenze, Lu Han le aveva già dato le spalle.
-Fanculo.-
fu tutto ciò che
riuscì a mormorare fra i denti prima di sbattere la porta di
camera propria.
Solo
l’indomani si sarebbe accorto di quanto fosse
bello e al contempo doloroso, poter vedere Sehun camminare sulle
proprie gambe.
Accadde
di prima mattina, mentre l’odore del caffè
permeò la cucina silenziosa. C’era stato il suo
sciabattare fino al tavolo, con
quei suoi capelli biondicci tutti scompigliati, il suo
–‘Ngiorno.- sbadigliato, il
suo stringersi nella felpa e stropicciarsi gli occhi, com’era
solito fare da
bambino. Furono proprio questi ultimi a far vibrare il cuore di Lu Han
fino a
che non provò le vertigini. Erano scuri, non più
arrossati, ci si sarebbe perso
infinite volte.
-Ciao…
Dormito bene?- aveva smesso di chiederglielo da
quando il silenzio faceva loro compagnia, a colazione. Quella mattina
volle
però accertarsi che tutto ciò non fosse una
chimera, che davvero Sehun stava risalendo
la via della guarigione. E poco importava a quanti Autogrill si fosse
fermato…
Bastava saperlo in cammino, bastava solo quello.
Annuì
–Hai fatto tardi? Non ti ho sentito rientrare.-
-Come
al solito.- buttò giù un po’ di
caffè,
ricacciando indietro le parole di Wu Fan che per tutta la notte lo
avevano
tormentato. Sehun non si tuffò in chiacchiere e Lu Han
gliene fu grato. Sentiva
che, quella volta, non sarebbe riuscito a raccontargli frottole e
l’idea di
crollare di fronte a lui, era ciò che di più
snervante potesse esserci.
-E
questa?- la sua confusione lo strappò ai propri
pensieri, riportandolo bruscamente in quella realtà di carta
velina che si
sfaldava con niente. A volte bastavano poche parole, proprio come
quelle due
dall’altro appena pronunciante.
-Cosa?-
-Questa
lettera. E’ per me…- analizzò ogni
angolo e
ideogramma, sussultò dopo averla letta superficialmente
–Ma è una dichiarazione
d’amore! Non ne ricevevo una dalle superiori!- un mix tra
imbarazzo e
gongolamento intaccarono il piattume della sua voce un po’
roca –Come c’è
finita qua?- gli rifilò un’occhiata confusa,
inclinò il capo e lo scrutò ad
occhi socchiusi.
-Non
ne ho idea. Probabilmente era in qualche tuo libro
e non te ne sarai neppure accorto. Tonto come sei, non mi stupirebbe.-
-Non
sono tonto!- si rabbuiò, lasciando che la carta
che veniva stropicciata colmasse il vuoto in cui si erano gettati. Lu
Han
studiò ogni suo più minuscolo gesto, appoggiato
al lavabo, incanalando tutto il
nervosismo nelle dita che stringevano l’enorme tazza. Si
chiese cosa potesse
esserci di meglio che svegliarsi la mattina e trovarsi Sehun davanti,
come
avesse fatto a sopravvivere quando la sua figura scombinata non gli
aveva dato
il Buongiorno.
Era così importante che tutte le sue collezioni di Action
figures, videogiochi e manga, potevano venir cestinate e a lui non
sarebbe
importato.
Per lui, Sehun era importante tanto così.
Si
ridestò quando un –Oh, mamma…-
sfuggì alle sue
labbra ora serrate. Quelle parole dovevano davvero averlo tramortito,
perché
cadde sulla sedia con un tonfo sordo.
Lu
Han respirò la bellezza di quel momento, provando un
dolore lancinante a livello del petto. Se Kris fosse stato
lì, probabilmente
sarebbero stato orgoglioso di quella che lui reputava una puttanata
colossale… Si allontanò dal lavabo, scrutandolo.
-Io
vado a studiare.-
Niente…
-Poi
magari mi butto dal balcone.-
Nada,
nessun segnale dalla base spaziale Oh…
-Ma
prima do fuoco alla casa, così non morirò da
solo.-
Ma
Sehun non lo ascoltava, seguiva ogni ideogramma con
sempre più concentrazione, fino a che gli angoli delle
labbra non si
sollevarono di propria sponte.
Lu
Han non riuscì a guardarlo che per pochi secondi,
prima di sciabattare in camera.
Giusto il tempo di ricordarsi quanto gli
facessero bene i sorrisi genuini del ragazzo, quanto riuscissero a
conficcarsi
in ogni cicatrice e sanarle, ricordarsi che proprio grazie a quelli se
ne era
invaghito tanti anni prima.
Il
tempo di ricordarsi che a lui, quei sorrisi, non li
aveva mai rivolti.
[1]
Videogiochi
“sparatutto”.
[2]
Circa
80 dollari (se non ho cannato, eh).
[3]
Tipica
birra cinese. E’ buonissima ♥
Inutili
note conclusive:
Il
mio consiglio è: non giocate a Mario
Kart
per più di quattro ore consecutive immedesimandovi nei
personaggi che
scegliete. Finirete col venire odiati perché avete scelto Mario (everybody hates Mario, a quanto
pare), insultare il vostro
amico appellandolo come Baby Peach,
sognare di fare una strage perché il tipo che avete
tamponato vi fa una
constatazione amichevole farlocca, e infine si scriveranno certi
capitoli.
Ammetto
che non mi dispiace, l’ho rimaneggiato talmente tanto che non
avrei potuto fare
di meglio.
E niente, se vi va lasciatemi pure detto cosa vi garba e cosa no,
qualsiasi tipo di critica è sempre ben accetta.
Ringrazio
infinitamente dylandogs e CassidyKeynes che hanno commentato lo
scorso capitolo, chi ha aggiunto la storia fra le seguite/ricordate/preferite e
coloro che
leggono in silenzio.
You make my days, sappiatelo.
Alla
prossima!
HeavenIsInYourEyes.
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Capitolo 6 *** Abituati alla sua assenza ***
A
C.
E'
bastato un abbraccio
e
mi sono dimenticata perché volessi buttarci via.
Questa volta
uno spiraglio di Hunhan.
Perché a volte
tendo a dimenticarmi che prima di essere un “amore a senso
unico”,
i miei Sehun e Lu Han sono due amici.
E perché le
cose finalmente!!! cominciano un
po’ a muoversi.
Buona
lettura ♥
Absentia
“Il
vero casino della vita, pensò,
era
dover fare i conti con i problemi altrui.”
-Charles
Bukowski, Confessioni
di un codardo.-
Capitolo
5
Abituati
alla sua assenza
(Quando
Lu Han fa sentire bello Sehun)
23
luglio 2013. Ore 23.45
Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han
-Secondo
te è uno scherzo?-
-Non
lo so.-
-Credi
che sia un maniaco?-
-Non
ne ho idea.-
-Credi
che dovrei—
-Non
lo so.-
-Ma
non mi hai fatto finire di parlare!- Lu Han sobbalzò; la
voce di
Sehun si era fatta stridula, cozzava con la calma apparente che lo
aveva spinto a sedersi al suo fianco, seppure con titubanza.
Era
entrato in punta di piedi, come suo solito, gli si era acciambellato
vicino e silenzioso aveva partecipato alla contemplazione del corpo
nudo di Malcolm
McDowell
che rispondeva con entusiasti Certo,
sir!,
al secondino che lo sorvegliava[1].
Gli fu lampante come Sehun non fosse stato richiamato dalla musica di
Beethoven né dai suoi continui smadonnamenti
perché Cazzo,
questo esame non lo passerò mai!;
il suo costante agitarsi sul posto e guardarlo di sottecchi erano
indizi sufficienti.
-Cosa
vuoi, si può sapere?- sbottò sconfitto,
pregustando l’amaro
sapore di una conversazione da ragazzine che non avrebbe sopportato.
Sarebbe arrivato al secondo squittio; al terzo lo avrebbe rispedito a
calci a pulire la camera.
-Volevo
solo qualche consiglio su come comportarmi, ma l’unica cosa
che sai
dire è: Non lo so.- rimbrottò
offeso, sventolando la lettera
sgualcita. Doveva averla letta un mucchio di volte, tanto era
spiegazzata. Lu Han si chiese quanti gracidii fossero sfuggiti nella
quiete della sua camera da letto, quante volte si fosse morsicato il
labbro inferiore nel vano tentativo di frenare il crescente imbarazzo
che si spandeva sulle sue guance. Da quanto, semplicemente, avesse
atteso un momento come quello per sentirsi come gli altri.
Lu
Han depose la penna e il block-notes, guardandolo esasperato -Sehun,
io so solo che devo finire di vedere ‘sto film e spararmene
un
altro. Di Kubrick.
Abbi pietà- sventolò gli appunti e biascicate
scuse fu tutto ciò
che ottenne, anticipate da uno sbuffo che lo fece desistere dal
comportarsi da stronzo. Doveva approfittare dei rari momenti in cui
l’amico usciva con le proprie mani dal letargo della
depressione
-Dov’è il problema, si può sapere?-
Sehun
sbatacchiò gli occhi un paio di volte. Forse non si
aspettava un suo
coinvolgimento sincero in quel mucchio di cretinate. Si
grattò la
punta del naso -Il problema è—Tutto!-
-Tutto?-
-Insomma…
Tutto, sì, tutto!- agitò le mani –Io
non so nemmeno chi sia
questo che mi ha scritto eppure non riesco a non sorridere ogni volta
che rileggo la lettera!-
Lu
Han studiò il tremore delle sue dita ossute, poi
tornò a guardare
il film –A tutti fa piacere ricevere lettere e dichiarazioni.
Ci
fanno sentire importanti.-
Sehun
annuì e l’angolo destro delle labbra
guizzò all’insù, quando i
polpastrelli tornarono a scorrere sul foglio bianco –Dice che
è
rimasto colpito dal mio sorriso. Riesci a crederci?-
Fu
un E come non potrei? appena pensato quello che
faticosamente
cacciò indietro, deglutendolo, fino a quando non lo
sentì
precipitare nello stomaco, pesante come tutto quei pensieri che da
anni continuava a tacergli. I sorrisi di Sehun erano davvero pochi e
mai sprecati, gli uscivano sempre dal cuore e quando lo facevano,
dissipavano la coltre di malsane paranoie che lo avvolgevano.
Ancora
ricordava i battiti accelerati del cuore e il colpo all’anima
che
lo avevano preso alla sprovvista, quando Sehun gli aveva rivolto il
primo, vero sorriso.
Era
stato fra le lacrime, gli aveva sollevato le guance bordeaux e aveva
spazzato via ogni granello di polvere che imperlava il suo viso, i
suoi vestiti. Era seguito un tremulo Grazie ma Lu
Han neppure
lo aveva ascoltato, troppo preso a chiedersi come un esserino
così
debole potesse sorridergli anche dopo essere stato assalito dai
bulletti della scuola, rivolgendo tanta armoniosità a lui
che si era
limitato ad allontanarli.
Aveva
appena nove anni quando conobbe Sehun e fu forse uno dei giorni
più
felici che Lu Han ebbe mai vissuto. Ricordava tutto nitidamente, come
se il piccolo Oh della sua infanzia fosse ancora davanti a lui, ad
arrovellarsi perché Ma se compro un pacchetto di
figurine in più,
come lo prendo poi il rullino?, con quei suoi sorrisi di
vittoria
quando facevano qualche sciocca scommessa e vinceva quei pochi Won
che mettevano in palio. E molte volte Lu Han avrebbe voluto dirgli Ti
ho lasciato vincere, perché era effettivamente
così, ma si era
riscoperto affascinato dal modo in cui suoi occhi si assottigliavano
quando era felice e allora che vincesse, che si comprasse i suoi
stupidi rullini con i soldi in premio.
L’importante era che
continuasse a sorridergli in quel modo straordinario e Sehunesco
che, davvero, era diventata una delle poche ragioni di vita a
cui
continuava ad aggrapparsi –insieme ai videogiochi, i film e
le
fiere dei fumetti-.
-Lo
incontrerai, quindi?- lo domandò con pigrizia, avvertendo il
cuore
accelerare mentre il silenzio si faceva interminabile. Sehun ci stava
pensando sul serio, lo poteva leggere nelle sue sopracciglia
aggrottate e in quel lampo di curiosità che gli aveva
attraversato
gli occhi ora socchiusi. Non pensava che vederselo portare via
un’altra volta facesse così male. Come se gli
stessero strappando
l’anima, lasciandola in brandelli.
Tuttavia,
il volto di Sehun tornò a rilassarsi e Lu Han
riassaporò i benefici
del sollievo –Non lo so. Non lo conosco, potrebbe anche
essere uno
scherzo- le labbra si assottigliarono –Però se mai
lo incontrassi,
vorrei dirgli grazie. Da tempo non mi sentivo
così—
-Ragazzina
liceale e mestruata?-
-Apprezzato…-
concluse lapidario, rifilandogli un’occhiata pregna di
fastidio. Lu
Han storse il naso a quella constatazione. Era come sentirsi dire che
lui non si stava impegnando abbastanza nel farlo sentire il solo e
unico degno di nota nell’intero cosmo, ma Sehun si
aprì in un
sorriso amaro e subito quei pensieri fluttuarono lontani.
E
quando lo chiamò, con quel –Han…?-
domandato con timore,
preferendo guardare Arancia Meccanica piuttosto che
il suo
viso cosparso di confusione, Lu Han non poté non ritrovarsi
invischiato nelle sue stesse paure, facendole proprie, pronunciando
uno spaesato –Cosa?- che non sapeva a cosa avrebbe portato.
-Ti
sei mai sentito… Svilito? Come se qualcuno ti avesse fatto
sentire
sul tetto del mondo e improvvisamente ti avesse rispedito nei
bassifondi?- Sehun si carezzò la nuca, disperdendo le dita
nei fili
biondi ormai opachi; era un movimento così ipnotico che per
un breve
istante fu tentato di sostituire la sua mano con la propria.
Fu
in quel preciso istante che Lu Han si chiese se Kim Jongin avesse mai
compreso cosa si stava perdendo. Che persone come Sehun si
incontravano una volta nella vita e andavano tenute strette, legate a
sé, perché l’assenza che avrebbero
lasciato non sarebbe stata
colmabile.
La
stessa assenza che lui, andandosene, aveva lasciato a Sehun.
-Mi
sono sentito così quando Kai mi ha lasciato- il nomignolo
dell’idiota stridette in mezzo a tutti quei ricordi, come se
non
c’entrasse nulla con il dolore del ragazzo –Lui mi
faceva sentire
bello senza neppure dirmelo.-
Lu
Han lo guardò, speranzoso che dal suo sguardo potesse
scorgere
quanto lui lo trovasse assolutamente fantastico. Ma Sehun continuava
a stropicciare la lettera e Alex DeLarge gridava troppo
perché
potesse ignorarlo.
Sehun
era bello, di quella bellezza che gli faceva contorcere lo stomaco.
C’erano i suoi occhi, contornati da vistose occhiaie, eppure
così
luminosi e lucidi da farlo fremere dalla punta dei piedi fino alla
radice dei capelli rossicci e scompigliati; c’erano le sue
guance
rosee sull’incarnato pallido. Ma più di tutto e
tra tutto, c’erano
le sue labbra. Sollevate, anche se impercettibilmente, un po’
tremanti e assolutamente da vertigini, di quelle che davano uno
scossone al mucchio di sentimenti sparpagliati come foglie e
tornavano prepotenti, ricordandogli perché mai
fosse
completamente perso per quel ragazzo dal sorriso spezzato.
Lu
Han aveva infatti capito che i propri Cazzo, Sehun
è da togliere
il fiato, non erano dovuti alla mera facciata, ma scavavano
più
in profondità. Era il suo essere così malinconico
a renderglielo
caro, tanto da mettere da parte ogni buon proposito di lasciarlo
colare nella sua disperazione, tanto da strappargli ogni briciolo di
felicità se ciò significava averlo tutto per
sé, ciecamente
convinto che solo lui potesse donargliela. Per anni era stato certo
di ciò, dispensando consigli dall’alto della
propria esperienza,
assuefatto dal senso di importanza che il suo costante seguirlo gli
dava. Fino a che non era cresciuto, aveva scoperto il mondo intorno a
sé e il mondo non si era accorto di lui, cercando la sua
compagnia.
Sehun
neppure si accorgeva di quanta gola facesse e da quando Jongin lo
aveva lasciato, le cose erano peggiorate.
Fu
allora che si inoltrò nella nube di pensieri reconditi che
mai Sehun
lasciava uscire allo scoperto, talmente densi da apparire
invalicabili -E se fosse Kim?- lo aveva pronunciato con noia, ignaro
dello scompenso emotivo che avrebbe potuto creare nell’amico,
ora
immobile al suo fianco. Si preoccupò quando non lo
sentì respirare,
specchiandosi nei suoi occhi ora larghi e pregni di angoscia. Lu Han
scostò lo sguardo; quel lampo di speranza che gli aveva
visto
nascondere con uno sbattere frenetico di ciglia finissime, era un
boccone troppo amaro da mandare giù.
-Impossibile,
si sarebbe firmato.-
-Magari
ha pensato che firmandosi, tu nemmeno lo avresti preso in
considerazione.-
-Oh…-
Com’era
possibile che nutrisse ancora speranza nel rivedere quel coglione?
Non sapeva se definire patetico o sciocco questo suo morboso
attaccamento a ciò che erano stati, annullando addirittura
quel poco
di autostima che aveva faticosamente guadagnato negli anni.
Com’era
possibile che lo amasse ancora, nonostante tutto?
Dopo
quella che gli parve un’eternità, si
ritrovò a contemplare la
malinconia che smussava i suoi lineamenti dapprima contratti e che,
inevitabilmente, aveva intaccato la mitezza nei suoi occhi -Non penso
sia lui- aveva pronunciato con rassegnazione, come se quel pensiero
lo avesse tallonato per chissà quanti giorni –Kai
non mi avrebbe
mai scritto cose del genere. Lui era più—
-Cretino?-
-Sottile…-
lo pronunciò con calma, rifilandogli comunque
un’occhiata bieca
–Non si lasciava mai andare a complimenti, a malapena mi
diceva che
mi voleva bene. Non è mai stato portato per i discorsi- un
sorriso
di nostalgia fece capolino; Lu Han avrebbe voluto spaccarglielo a
suon di ceffoni e ripetuti Dimenticati di quel demente, ti
scongiuro. Kim non si meritava la sua devozione, non dopo
essere
sparito nel nulla –Lui era un tipo più…
Fisico, ecco.-
Lu
Han si stupì di come riuscisse ad accennare qualcosa sul suo
conto
con scioltezza, come se ogni frammento di ricordo ancora rimastogli
non gli facesse più così male. Eppure le sue mani
tremavano ancora,
gli occhi divenivano lucidi e i denti continuavano a mordicchiare il
labbro inferiore.
Quanta
fatica stava facendo, Sehun, nel non crollare ancora una volta?
Quanto era difficile, per lui, parlarne come se da un momento
all’altro dovesse aprire la porta e dirgli Ehi,
sono rientrato!,
stringendoselo fino a che fuori non faceva buio? Quanto ancora si
sarebbe fatto del male, solo per non schiodarsi da quel passato a lui
ancora così caro e che lo stava lacerando lentamente?
Lu
Han trattenne l’impulso di abbracciarlo, carezzargli i
capelli o
anche solo lasciarsi andare a chissà quale stronzata che lo
avrebbe
fatto chiudere a riccio. Strinse le dita intorno alla penna, si perse
nella musica di Beethoven e attese che Sehun si alzasse, lasciandolo
a leccarsi le ferite che il solo nome Kim aveva
inferto al suo
corpo.
Tuttavia persisteva nel restare, quasi fosse intimorito al
pensiero di dover affrontare tutto quello senza qualcuno cui
sorreggersi.
E
Lu Han lo amava troppo per poterlo lasciare in balia di sé
stesso.
-E
se fosse lui?- ripeté, ostinato.
Sehun
vibrò –Ti ho detto che non può essere
lui.-
-Ma
se lo fosse?- lo guardò con serietà; si
dimenticò di mettere
pausa, troppo concentrato sulla piega di terrore che aveva assunto
tutto il suo viso –Non hai mai pensato che potesse tornare e
rivolerti con sé? Dopotutto, non sai neppure
perché se ne sia
andato.-
Sehun
aprì le labbra ma nessun suono prese forma. Era
pietrificato, come
se avesse paura di dire ciò che pensava e sentirsi
rispondere Lo
sai che ti stai illudendo inutilmente? Sospirò, si
morse
l’interno delle guance e poi alzò le spalle
–Ci ho pensato
spesso. A lui che torna da me, intendo. Ma credo che non
accadrà
mai. Come potrebbe?- la sua voce era bassa, velata di rassegnazione
–A volte mi dico che non c’è un
perché se ne sia andato.
Probabilmente si era stancato, tutto qua- aggrottò le
sopracciglia
–Bello com’è, avrà
sicuramente trovato qualcun altro con cui
stare. Qualcuno che migliore di me.-
Lu
Han rabbrividì. Il discorso si stava facendo pesante, non si
sentiva
capace di potersi giostrare fra i propri sentimenti sempre
più
accecati dalla rabbia e quelli tremuli e fragili di Sehun. Avrebbe
rischiato di romperlo, di metterlo di fronte ad una realtà
che forse
era meglio tacergli.
Che
Kim se ne era andato via non per qualcuno, ma per qualcosa.
Inghiottì
tutto, poggiò pigramente una guancia sul palmo aperto e
mascherò la
propria ansia dietro un’indifferenza che in quel momento non
gli
apparteneva –Se non torna indietro a prenderti, tanto peggio
per
lui- confessò con tedio, scribacchiando sul block-notes
–Là fuori
c’è di peggio.-
Sehun
corrugò la fronte, replicò con un incerto
–Grazie…?- e si
carezzò le braccia quando, sbilanciatosi troppo,
urtò contro il suo
gomito; Lu Han pregò che non si fosse accorto
dell’elettricità
che gli aveva attraversato il corpo –Tu quindi torneresti a
prendermi?-
Se
Lu Han avesse avuto una bibita fra le mani, a quell’ora la
starebbe
ancora sputando sul pavimento del salotto. Ma che cazzo di domanda
era? Voleva ucciderlo per caso?! Si irrigidì sotto il suo
sguardo
impaziente –Io non torno mai! Sono gli altri a tornare da
me!-
bofonchiò imbarazzato, spaventato al pensiero che Sehun lo
stesse
torchiando solo perché aveva compreso quanto ormai lui fosse
stufo
di essere posto sul piedistallo dell’amicizia.
Ma
Sehun sbuffò, fece cadere il capo in avanti
–E’ solo un
esempio…- lo guardò di sottecchi –Tu
torneresti a prendermi?
Anche se là fuori c’è di meglio?-
Lu
Han si chiese cosa sarebbe accaduto se si fosse limitato ad un deciso
Sì, sarei un cretino a non farlo, anche
perché tu sei il meglio
che possa esserci. Ma Sehun tremava ancora, i suoi occhi
sembravano trasmettere diapositive in bianco e nero dei suoi giorni
felici con Jongin e allora tutto ciò che poté
concedergli fu un
blando –Ovvio che tornerei. Siamo amici, no?- che
sembrò bastargli
–Perché?-
–E’
che—Ecco— si umettò le labbra -Io non mi
vorrei indietro- era
serio, Sehun, mentre si confessava–Non sono questo
granché. Piango
tutte le notti, dormo poco, sono sempre isterico—
-Sei
così da quando ti ha lasciato.- puntualizzò
brusco, conscio che non
sarebbe mai stato capace di farlo sentire importante. Solo Kim
c’era
riuscito e questo lo mandava in bestia. Spesso si era chiesto cosa
avesse quel demente che lui non poteva dargli e quando aveva capito
che l’amore non ragionava per logiche ma era mistero puro e
semplice[2],
Lu Han aveva smesso di perderci il sonno.
Sehun
scosse la nuca -Lo sono sempre stato. Kai è stato
l’unico capace
di sopportarmi- miliardi di spilli cominciarono a perforare la sua
pazienza –Credo si sia stancato di me. Perché
dovrebbe tornare a
riprendersi un peso del genere?-
Per
tutta la durata del discorso, l’unica cosa a cui era riuscito
a
pensare erano stati una miriade di E io? che si
erano
accavallati, costringendolo a reggersi la testa pur di non perderla.
Lu Han, in tutto quello, che posto aveva? Anche lui lo aveva
sopportato e supportato in qualsiasi sua scelta, anche lui
c’era
sempre stato seppur in maniera criticabile ma così sincera
che,
cazzo, ma davvero il cuore non gli si era mai scaldato?
L’amore
che provava per Sehun non si era ancora spento. Possibile che
ciò
non bastasse a renderlo un po’ meno invisibile, anche se
l’ombra
di Jongin continuava a stagliarsi intramontabile su di lui?
Era
frustrante, era snervante. Ed era oltre il suo controllo.
Lo
guardò di sottecchi, alzò il volume della
televisione quasi volesse
mutamente dirgli che il loro tempo era scaduto –Tu non sei un
peso.
E’ solo Kim ad essere un coglione. Prima lo capirai, meglio
starai.- sentenziò ferreo, tornando a concentrarsi sul film.
Sehun
inclinò il capo, tamburellò le dita sul ginocchio
–Credi che
dovrei andare, allora?- domandò nuovamente, come se la sua
decisione
dipendesse dalla sua risposta. Se da un lato Lu Han avrebbe voluto
dirgli di stare a casa, rischiando di fargli perdere
un’occasione
d’oro ma al contempo consapevole di averlo ancora tutto per
sé,
dall’altra parte c’erano le parole sincere di Kris
e quel suo
fargli comprendere come non potesse più permettersi di
trattare
Sehun come un burattino…
-Fai
come ti senti.-
…
Doveva
staccare i
fili e sperare che l’altro non si perdesse un’altra
volta.
Sehun
non fiatò più sino alla fine del film,
imbronciandosi per quella
risposta che non lo aveva tratto in salvo. Lu Han non seppe spiegarsi
perché non si defilò, dopotutto lui trovava
Kubrik indigesto.
Eppure era rimasto, con il suo braccio che sfiorava il proprio, con
il suo silenzio spesso ma in cui si poteva convivere e con il suo
torturarsi mentre quella lettera si faceva sempre più
stropicciata.
Lu
Han, in un impeto di delirio, si immaginò vecchio decrepito
con
Sehun al proprio fianco, con le sue sopracciglia un po’
più folte
ma sempre aggrottate, con le sue labbra sottili perennemente tese ma
che, una volta apertesi, avrebbero mostrato un sorriso un po’
sdentato capace però di fargli palpitare il cuore nella
stessa,
intensa maniera di adesso.
Averlo
nella propria quotidianità in quel Per sempre
a cui lui non
credeva, gli parve uno di quei sogni irrealizzabili seppur a portata
di mano…
-Mi
spiace tu non abbia finito di studiare per colpa mia.-
mormorò Sehun
dietro la sua schiena, seguendolo in corridoio.
-Se
non dovessi passare l’esame, mi offrirai un Bubble the.- fu
la sua
pacata risposta, beandosi della sua leggera risata che gli
riempì il
cuore, i polmoni e il cervello. E quando la sua buonanotte giunse con
un sorriso e lo scricchiolio della porta che si apriva, Lu Han si
disse che non poteva lasciarlo scappare così. Che Sehun non
meritava
di andarsene a letto con il peso del passato sulle spalle, con quel
suo sentirsi inferiore all’universo intero solo
perché il centro
della sua gravità si era spostato chissà dove.
-Sehun…?-
allora lo chiamò piano, facendo ben attenzione ad essere
già nel
proprio santuario, così da potergli sfuggire nel caso avesse
posto
domande scomode.
-Mh?-
E
fu come se avesse raggiunto il suo cuore, anche se solo per un
istante…
-Non
hai bisogno di Kim per essere bello.-
*******
26
luglio. Ore 22.18
New York City
Jongin
si ricordava di avere un passato, solo quando un minuscolo
“1”
arancione svettava nell’angolo del pc, in quelle rare volte
in cui
si rammentava di aver installato Skype per un motivo ben preciso: non
permettersi di scomparire. Jongin era fatto così: lasciava
cose
indietro e sperava che gli altri si adeguassero a questo suo
atteggiamento, senza ovviamente rivendicargli nulla.
Ma
anche se avesse voluto, qualcuno pronto a salvarlo da sé
stesso
c’era sempre…
-Certo
che se non ti chiamassi io…- la frase si interruppe a
mezz’aria,
carica di irritazione e un misto di apprensione.
-Dai
Tae, lo sai che sono molto impegnato.- le guance del coetaneo si
gonfiarono mentre bofonchianti imprecazioni lo raggiungessero
sconnessamente.
… Che
aveva corti capelli castani, gli zigomi alti e le labbra alla
Usher,
come bonariamente amava definirle, beandosi dei suoi pigolii
affinché
smettesse di prenderlo in giro. Ricordava ancora la prima
volta
che glielo aveva detto, prima di un’esibizione importante al
Teatro
Nazionale. Lo aveva pronunciato con ingenuità e solo per
alleviare
un po’ del suo palpabile nervosismo. Era cominciato tutto da
lì,
ora che ci pensava… Quando lui gli aveva parlato senza
costrizioni
e l’altro si era lasciato andare ad una risata divertita,
mormorandogli un Grazie
fra le lacrime incontenibili.
-Anche
io sono sempre preso, però cinque minuti per te li trovo
sempre…-
la sua frase cadde ancora in picchiata, spezzata e pregna di un
fastidio comprensibile. Da quando era volato a New York si era fatto
sentire poco, complici gli orari disumani di allenamento cui la
compagnia lo sottoponeva e le uscite con gli amici conosciuti in quei
mesi. Fece per scusarsi, ma lo sguardo affilato di Taemin si
liquefò
di dolcezza –Ehi, sto scherzando. So bene quanto tu sia
impegnato,
non potrei chiederti di più.-
E
poi aveva quel sorriso enorme e abbagliante che metteva in ordine
ogni cosa fuori posto nel suo incasinato e minuscolo mondo e Jongin
si ricordava perché si ostinasse a tenerselo stretto.
Lee
Taemin era una delle poche cose belle che Jongin avesse preservato in
tutta la sua vita.
Conosciutisi
ormai ventenni, Kim aveva trovato nel coetaneo un modello da seguire,
un ottimo confidente e l’unico con cui poter condividere
pienamente
la propria passione: la danza. Lo aveva conosciuto alla scuola di
ballo che aveva frequentato una volta tornato a Seoul e da
lì, i due
erano stati inseparabili.
Lee
Taemin era la sua ancora di salvezza.
-Come
vanno lì le cose?-
-Solito…
Casa-danza, danza-casa, Na-eun[3]-
gli occhi si illuminarono quando quel nome si spandé
nell’aria, le
dita si strinsero intorno al cuscino con cui stava giocherellando
–Settimana prossima andiamo a Jejudo per il nostro
anniversario.-
aggiunse caramelloso, rischiando di investirlo con una marea di
cuoricini che oltrepassarono lo schermo del portatile.
-Tutto
questo amore è nauseante, smettila.- mormorò con
una smorfia,
sorridendo quando la risata dell’altro lo raggiunse.
-Animale…-
sentenziò scuotendo la nuca, battendo poi le mani
–Ma tu tra
quanto torni? Ci manchi un sacco.-
Jongin
avvertì gli occhi pizzicare di fronte a tutta quella
disarmante
sincerità -Tra tre mesi finisco. Ma mi hanno proposto di
fare un
altro anno, sai?-
Taemin
gridò –Ah, ma è fantastico! Non
è quello che hai sempre
sognato?!-
-Già…-
mormorò piano, grattandosi la nuca corvina. Le cose stavano
andando
esattamente come aveva sempre voluto, ma proprio non gli venne voglia
di festeggiare insieme all’amico. Per arrivare a quello aveva
dovuto fare un mucchio di sacrifici e tra questi ce n’era uno
che
continuava a tormentarlo.
-Ma…?-
Taemin si crucciò -Non mi sembri molto contento.-
-No,
lo sono. Però…-
Era
in momenti come questi che si accorgeva di cosa si era lasciato
indietro.
Il
passato di Jongin era come una torta divisa in piccole fette: una di
queste era Taemin, poi c’erano i suoi amici, la scuola di
ballo,
sua madre, le sue sorelle… E poi ce n’era una
gigante, talmente
enorme che doveva starsene in un vassoio a parte…
-E’
per Sehun, non è così?-
… La
sua faccenda
in sospeso.
Jongin
perse un battito. E poi un altro, e poi altri cento, fino a che non
ne perse il conto. Il suo nome risuonava armonioso nel buio della
stanza, riportando a galla quel mazzo di emozioni che aveva legato e
posto in un angolo, da riprendere a tempo debito. Solitamente
accadeva quando le cose gli andavano male, allora rivedere i sorrisi
di Sehun, le loro nottate trascorse a parlare, i loro progetti ormai
crollati, gli dava conforto.
-Lo
hai sentito, alla fine?-
Jongin
morse l’interno delle guance –Ho provato a
chiamarlo ma ha
chiuso. Non credo voglia sentirmi.-
-Neppure
io vorrei sentirti, dopo esserti comportato così.-
-Taemin,
tu sì che sei un ottimo consolatore.-
Il
ragazzo rise di cuore –Se può farti stare meglio,
Chanyeol l’ha
incontrato un po’ di tempo fa. Dice che sta bene e che gli
sembra
il solito Sehun.-
Jongin
sorrise tirato. Il solito Sehun era quello con le labbra piegate, la
fronte corrugata, le sopracciglia aggrottate… Era quello
che,
quando sorrideva, nemmeno si accorgeva di illuminare tutto
ciò che
lo circondava. Per un istante gli tornarono in mente i suoi occhi, il
suono della sua voce, quella “s” blesa che tanto
adorava, le sue
mani e il suo corpo snello… Fu un colpo all’anima
improvviso, di
quelle potenti e che gli facevano perdere i sensi.
-Sono
felice per lui.- avvertì una sensazione di vuoto a livello
dello
stomaco e il cuore contorcersi. Sehun stava bene anche senza di lui.
Avrebbe dovuto esserne felice, se lo meritava, eppure si
ritrovò a
fare i conti con lacrime che premevano per uscire e labbra secche.
-Dovresti
richiamarlo e scusarti. Non ti sei comportato esattamente da
fidanzato esemplare, lo sai?-
-Lo
so… Ma ormai è tutto inutile- Taemin fece per
interromperlo ma
Jongin fu più veloce –E se decidessi di restare?
Sarebbe inutile
illuderlo, tanto vale che ci dimentichiamo.-
-Ma
tu non l’hai fatto, vero?- Jongin lo guardò ad
occhi larghi,
perdendosi nella dolcezza delle sue labbra incurvate. Incredibile
come lo capisse al volo –Io non so cosa tu debba fare, spetta
a te
decidere. Però…- Taemin si fermò,
l’indecisione dipinta sul
volto –Però eri molto più felice quando
eri qui, lo sai? Quando
uscivi dagli spogliatoi e mi dicevi che avresti cenato con Sehun
avevi un sorriso che faceva il giro del mondo tanto era grande.-
Jongin
guardò fuori. Guardò le luci di New York e si
disse che quello
spettacolo, per quanto mozzafiato, valeva poco senza qualcuno con cui
condividerlo -Cosa devo fare, Taeminnie?-
Il
segnale di internet era ormai sparito, quando tornò a
concentrarsi
sul migliore amico. Forse il Karma voleva punirlo per essersi
comportato da insensibile bastardo. Non gli era rimasto nulla se non
un nuvolo di ricordi impolverati e parole così sincere da
fargli
salire il magone.
Guardò
il calendario.
Tre
mesi per prendere una decisione era un tempo ragionevolmente lungo,
no?
******
30
luglio 2013. Ore 12.32
Seoul. Caffetteria dell’università.
Sehun
era seriamente convinto che dopo Jongin, nessuno se lo sarebbe
filato. Sarebbe perito nella solitudine, conscio che là
fuori
nessuno si sarebbe preso la briga di rammendare un giocattolo bello
che distrutto.
Tuttavia,
Lay sollevò lo sguardo dalla lettera e le certezze di Sehun
si
incrinarono ancora, rischiando di precipitare nell’oblio
delle sue
domande senza risposta –Quindi?-
-Quindi
cosa?-
La
sventolò –Che intenzioni hai?-
-Nessuna…-
Lay non fiatò di fronte alla sua ferrea risposta ma aveva
l’espressione di chi vuole sentirsi dare una spiegazione.
Possibile
che anche con i suoi problemi dovesse indossare i panni dello
psicologo modello? Sehun si grattò la chioma bionda -Non mi
sento
pronto. E’—E’ troppo presto.- aveva il
terrore a pronunciare
tale constatazione. L’ultima volta gli era sfuggita in
presenza di
Lu Han e quello se ne era saltato fuori con un esasperato Sono
passati già tre mesi! Basta piangerti addosso!, prima
di
smadonnare contro Lara Croft che non voleva saperne
di saltare
su di una rupe –Sì, so cosa stai per dire: dieci
mesi sono un
sacco di tempo, ma io davvero non ci riesco.- strinse le bacchette,
frenandosi solo quando il legno cominciò ad incurvarsi.
Sehun
era sempre stato lento nel leccarsi le ferite. Quando prendeva un
brutto voto, ci rimuginava su per mesi fino a che la macchia non
veniva debellata da un’eccellente interrogazione; quando le
cotte
estive degli amici si eclissavano nella salsedine dell’ultimo
giorno di mare, lui continuava a pensarci fino a che la nostalgia non
lasciava spazio all’imbarazzo di essersi comportato da
cretinetta.
E
visto il modo ignobile in cui Kim lo aveva piantato, si sentiva in
pieno diritto di poterlo piangere fino a che non si fosse stancato. O
fino a che qualcuno non lo avesse ucciso, era lo stesso.
Lay
però, in barba ad ogni pronostico, si era addolcito di
fronte a
tutta quella sincerità –Ognuno ci mette il tempo
di cui ha
bisogno- gli aveva detto con saggezza, continuando a leggere gli
ideogrammi. I loro sguardi si incrociarono per una frazione di
secondo e quello spento di Sehun naufragò in quello pregno
di
delicatezza di Yixing. Gli si strinse il cuore al pensiero che quello
sguardo, Lay glielo aveva sempre riversato da quando Jongin se ne era
andato. Costantemente –Qualcosa non va?-
Si
riscosse -Tutto bene…- lo vide ritornare a leggere, non
senza un
pizzico di preoccupazione, e lo lasciò a crogiolarsi nel
silenzio.
Tutto
bene, come no…
Avrebbe
voluto dirgli che stava bene, ma bene davvero, anche solo per vederlo
rilassarsi e sorridergli beato, perché nulla più
lo turbava. Non
tanto per mentirgli, quanto per vederlo sereno e ripagarlo
dell’appoggio che gli dava senza rimesse, solo
perché amici.
Yixing era buono, di una bontà così spassionata
da farlo sentire
sempre un egoista approfittatore che rubava il suo tempo solo per
impiegare il proprio e distrarsi, evitando che i pensieri molesti lo
incupissero più del dovuto. Sarebbe stata forse una delle
rare volte
in cui gli avrebbe dimostrato la propria gratitudine con i gesti, non
a parole.
Ma
Sehun non stava bene, non stava bene per niente.
Il
suo essere reagiva all’assenza che Jongin gli aveva lasciato
e più
i mesi passavano, più si sentiva avvolgere
dall’opprimente senso
di solitudine che neppure i ricordi sembravano sopraffare. Aveva
pensato che vedere il suo spettro gironzolare per casa, cullarlo la
notte e vegliarlo di giorno sarebbe servito a qualcosa. Ma averlo
lì,
a porta a di mano e non poterlo toccare, consapevole che si sarebbe
dissolto come il bel sogno che era, non faceva altro che alimentare
quel senso di vuoto che niente e nessuno riusciva a colmare.
-Lu
Han dice che il tempo aggiusterà ogni cosa, ma non va
affatto così.-
mormorò assorto, distraendolo dalla lettura.
Yixing
guardò il soffitto, pensoso -Allora ammazzalo.-
-Lu
Han?-
La
testa di Yixing cadde in avanti; alle sue orecchie giunse uno sbuffo
misto a risata, quasi il ragazzo si stesse trattenendo dal trovare
divertente la sua sparata –No, il tempo. Se ci riesci,
potresti
anche cominciare a dimenticarlo.-
-Io
ci sto provando a dimenticarlo, ma forse non mi sto impegnando
abbastanza.-
Lay
rise divertito, in quel modo cristallino che lo faceva sentire un
po’
più leggero -Non è questione di impegno.
E’ questione di
abitudine- lo guardò con serietà, come se ci
fosse passato anche
lui -Abituati alla sua assenza.-
-Ma
perché “x5 - x +
1 = 0”?!-
-E’
la regola.-
-Sì,
ma perché?!-
-Ma
non lo so! Manda una lettera a “Ruffini” se
può farti piacere!-
-Sì,
ecco, credo proprio che gliela manderò!-
-E’
morto secoli fa, Kim.-
-Ah…-
Com’era
finito a dargli ripetizioni?
Davanti
ad una tazza fumante di the, nonostante fuori il sole picchiasse
alto, seduto in un anonimo bar vicino alla metropolitana, Sehun
continuava a porsi questa domanda che ancora non aveva trovato
risposta. Il fulcro dei suoi pensieri se ne stava beatamente seduto
dall’altra parte del tavolo, le dita sperse a giocherellare
con
delle ciocche di fini capelli neri e le labbra arricciate per la
concentrazione; quel problema di algebra doveva affaticarlo
parecchio, suppose mentre il non numerabile sbuffo cadeva in
picchiata a squarciare la loro quiete.
Kim
Jongin era infantile, un bambinone nascosto in un corpo da
adolescente che vedeva nell’algebra e nei numeri un nemico
troppo
difficile da sopprimere. Sehun represse un mugugno di scazzo al suo
ennesimo gesto impulsivo, trattenendosi dal chiudere il libro e
andarsene via senza degnarlo di aiuto alcuno. Sehun aveva bisogno di
uscire con una media eccellente se voleva prendere una borsa di
studio per iscriversi ad una buona università e quel babbeo
di
Jongin non lo avrebbe di certo ostacolato.
-Basta!-
decretò esausto –Mi sta friggendo il cervello!- la
fronte sbatté
sul tavolo con un tonfo sordo.
Sehun
sospirò mentre sollevava lo sguardo dal libro –Dal
rumore direi
che lì dentro non c’è nulla-
girò la pagina con fin troppa
energia –E’ impossibile che ti stia friggendo
qualcosa che non
esiste.-
Jongin
sollevò il capo con velocità, fissandolo a guance
gonfie –Sehun-ni,
sei pessimo!-
-E
tu sei rumoroso. Questa è la quinta pausa che facciamo.-
chiuse il
libro con secchezza, a volergli incutere timore e magari stimolare il
suo latente senso di colpa.
Ma
Jongin non sapeva nemmeno cosa fosse il senso di colpa, non quando si
trattava dello studio –Sei proprio noioso.- si
scompigliò i
capelli prima di scivolare sul tavolo e provare a commuoverlo con
sguardo da cucciolo bastonato; Sehun ammise a sé stesso che
quel
giochetto gli usciva piuttosto bene, quando metteva il broncio
avrebbe voluto ucciderlo a suon di baci.
Sì.
A suon di baci. E pure a suono di qualcos’altro, ma poi lo
avrebbero arrestato per violenza. Non si scompose quando quei torbidi
pensieri gli attraversarono la mente, giacché la notte
questi
continuavano a riempire le sue fantasie. E non si scompose nemmeno
quando si rese conto che il protagonista era proprio quel bel ragazzo
davanti a lui.
Kim
Jongin era passato dall’essere un semplice buon amico, al
protagonista indiscusso dei suoi sogni erotici.
-Ho
perso già quattro lezioni.- lo sentì asserire fra
gli sbuffi e le
occhiate melense andate a vuoto.
Sehun
corresse un appunto sul quaderno –Non hai fatto assenze in
questi
mesi.- corrugò la fronte; ma era ubriaco quando aveva
scritto tutte
quelle cazzate? Ah… Ma quella era la calligrafia di Lu Han.
Maledetto! Ma perché andava sempre a rovistare fra i suoi
appunti e
glieli modificava?!
-Parlavo
della danza- spiegò con tono cupo, giocherellando con un
tovagliolino mentre lo sguardo si sperdeva all’esterno. Si
adombrava sempre quando qualcosa non andava –A fine maggio ho
il
saggio. Rischio di venir tagliato fuori se ne perdo altre. Mamma ci
teneva a vedermi.- i suoi occhi si incupirono, Sehun riuscì
a
reggerne lo sguardo per un paio secondi appena, poi tornò a
fissare
il libro. Jongin infelice era uno sgradevole spettacolo che non
riusciva a sopportare. Era come ritrovarsi ad osservare uno splendido
dipinto e adocchiare, nell’angolo più insulso
della tela, una
macchia fuori posto e che stonava con tutti gli altri colori
finemente mescolati tra loro, rovinandolo.
-Tuo
padre verrà?-
-Figurati…-
la sua voce si abbassò –Sarebbe capace di
insultarmi anziché
applaudire. Continua a dirmi che dovrei concentrarmi sugli studi, sul
basket e lasciar perdere queste “cose da
ragazzine”.- poggiò la
guancia sul palmo aperto, lo sguardo rivolto all’enorme
finestra
che gettava sul parco del locale. Sehun si era spesso chiesto se il
padre di Jongin fosse a conoscenza di quanto il figlio fosse portato
per la danza.
Quando
Jongin ballava era di una bellezza stratosferica, di quelle che ti
entrano dentro e non si scollano più. Lo aveva visto un paio
di
volte e aveva potuto sentire la terra aprirsi in una voragine, quella
stessa voragine che aveva risucchiato il suo cuore senza ridarglielo.
Era come se riuscisse ad inglobare tutto ciò che lo
circondava in
una bolla, lasciando il male al di fuori di essa. E poco importava se
il male era armato di spilli e spuntoni, tanto non riusciva a
scoppiarla.
Jongin,
quando ballava, lo trascinava su di un altro pianeta.
Fu
di fronte alla sua tristezza malcelata che Sehun volle salvarlo. Un
essere talmente puro non meritava di vedersi privare della
felicità
e lui sarebbe voluto diventare il solo ed unico capace di
donargliela. Avrebbe capito a proprie spese quanto Jongin non avesse
bisogno solo di lui per sentirsi bene, ma fino ad allora avrebbe
continuato a proteggerlo.
-Gli
esami sono vicini, non dovresti distrarti.-
-Ma
la danza non è una distrazione!-
-Intendo
ora…- spinse il libro verso di lui –Se finiamo
altri tre
problemi, possiamo saltare il ripasso di giovedì-
tornò a guardare
il voluminoso tomo, evitando di affrontare gli occhi brillanti
dell’amico –Così non perdi
un’altra lezione.-
Di
sottecchi vide Jongin accennare ad uno scatto, quasi avesse voluto
sporgersi per abbracciarlo con la sua solita impulsività.
Rimase
però seduto dov’era, forse intimorito dal
campanellino che
annunciava l’arrivo di nuovi clienti, limitandosi a giungere
le
mani e sorridergli raggiante. Da che ci pensava, Jongin e lui non
avevano mai avuto alcun tipo di contattato che andasse oltre le
semplici pacche sulle spalle e sgomitate quando qualche bel ragazzo
sfilava loro davanti; gomitate che finivano puntualmente sul costato
del povero Oh. Perché Jongin non aveva mai accennato nulla
riguardo
al proprio orientamento sessuale, era così preso dalla danza
che
sembrava non accorgersi di quanto gli altri se lo mangiassero con gli
occhi. Non aveva mai fatto apprezzamenti su nessuno, mai gli aveva
raccontato di sue precedenti relazioni e quando aveva scoperto il suo
essere gay, si era limitato ad alzare le spalle dicendogli
–L’importante è che tu sia felice.-, il
tutto corredato da un
sorriso talmente puro da farlo sentire in pace con sé stesso.
Kim
Jongin era un’incognita, di quelle che mai sarebbe riuscito a
risolvere.
-L’ho
sempre detto che sei un grande!-
-Hai
detto che sono pessimo- lo udì grugnire –Questo
dieci minuti fa.-
-Non
sei mai contento…- mugugnò mogio, giocherellando
con la matita
mentre si lasciava scivolare sul libro -Se dovessi passare gli esami,
ti porterò al mare.- proruppe ad un tratto, con
serietà.
-Cosa?!-
il capo si sollevò con scatto fulmineo, gli occhi dilatati e
colmi
di sorpresa si immersero in quelli scuri e vispi di Jongin,
ora
intento a guardarlo con un sorriso di velato divertimento. Teneva le
braccia incrociate sul tavolo e il mento poggiato su di esse, sul
viso non v’era nulla che potesse fargli indurre che stesse
mentendo. Quel sorriso a trentadue denti era talmente ripieno di
sincerità che Sehun si ritrovò a fare i conti con
un cuore che
batteva troppo forte e troppo veloce, rischiando di far spuntare
sulle sue guance un dubbio colorito purpureo.
Jongin
alzò le spalle, inclinò il capo e lo
fissò -Hai detto di non
averlo mai visto, no?- Sehun annuì piano, timoroso di
spezzare
l’armonia tra loro -Ti ci porto io. Andiamo a farci una
vacanza.-
Sehun
deglutì il fiato fermo in gola, prese a giocherellare con
una ciocca
castana -Non ho abbastanza soldi.- glielo confessò con
riluttanza.
Kim
sventolò le mani –Non sono un problema! I miei zii
hanno lì una
casa e per il biglietto non preoccuparti, posso offrirtelo al posto
di pagarti l’ultima lezione!- lo disse ridendo, ma Sehun
sapeva
bene come non stesse scherzando. Quello aveva le mani bucate, era
talmente spendaccione che sarebbe arrivato a vendersi la nonna pur di
soddisfare ogni più stupido capriccio.
Sehun
abbassò il capo, un sorriso appena accennato a velargli le
labbra
–Si può fare.-
Jongin
si agitò sulla sedia -Davvero?!- Sehun alzò lo
sguardo, giusto in
tempo per vedere i suoi occhi allargarsi e abbagliarlo -Oh, perfetto!
Allora ce ne andiamo al mare, ti porto lì e poi—
-Ma
l’ultima lezione me la paghi lo stesso.- lo interruppe
serafico,
completando l’esercizio di matematica sotto i suoi
piagnistei.
-Sei
pessimo, Sehun-ni. Pes-si-mo.-
E
lui avrebbe voluto dirgli che non vedeva l’ora di osservarlo
in
costume, mezzo nudo. Che non vedeva l’ora di buttarsi in
acqua con
la speranza che il mare fosse mosso, cosicché avesse una
scusa per
potersi aggrappare al suo corpo.
-Dovresti
sorridermi di più così…- la sua voce
pacata lo riscosse,
facendolo sobbalzare. Sehun nemmeno si era accorto di star sorridendo
e Jongin lo guardava con fin troppa dolcezza perché il suo
cuore
potesse non esplodere –Mi fai sentire bravo, come se fossi un
supereroe.-
Sehun
si sentì trasportato su di un pianeta, una stella, dove
c’erano
solo loro.
Avrebbe
voluto dirgli che per lui lo era davvero, un supereroe.
-Abituarmi?-
domandò confuso, senza neppure sapere da dove bisognasse
cominciare.
Era come se Jongin avesse sempre dato un senso alla sua vita e ora
che non c’era, questa diventava scialba, addirittura inutile.
Spesso Sehun si svegliava nel cuore della notte chiedendosi
perché
l’indomani avrebbe dovuto alzarsi, se tanto avrebbe finito
con il
cadere preda della disperazione. E quando si voltava e si accorgeva
di come la parte sinistra del letto fosse vuota, allora i ricordi
tornavano prepotenti e lui nascondeva la testa sotto il cuscino per
soffocare i singhiozzi, pregando che Lu Han non lo scoprisse -E
come?- sorrise senza potersi contenere, rifilandogli tutta
l’amarezza
che quelle labbra piegate portavano con loro –Ho provato di
tutto,
ma a quanto pare esaurirmi non funziona granché.-
L’amico
scosse la nuca -Sfiancarti non è la soluzione migliore. I
pensieri
non se ne vanno, restano lì e quando hai un momento di pausa
tornano
ad opprimerti. Tutti insieme. Dovresti riprendere in mano la tua
vita- lo guardò cauto –Ti accorgeresti che non
è così male,
anche se non c’è Kim a condividerla con te.-
Sehun
rimase in silenzio e quando quello si fece troppo opprimente, si
lasciò andare ad una di quelle confessioni che mai si era
lasciato
sfuggire, neppure con Lu Han -Da quando se n’è
andato, non mi
piace neppure più fotografare- fu appena sussurrata, di
quelle che
facevano paura perfino a lui. Fotografare era sempre stata la sua
ragione di vita… Come aveva fatto Jongin a
surclassarla?
Era come
se Sehun avesse cominciato a fotografare solo ed unicamente per
arrivare a quel giorno in metropolitana, immortalandolo in tutta la
sua freschezza –Io amavo fotografare, mi piaceva sul serio.-
la sua
voce tremò mentre le mani andavano a scompigliargli i
capelli.
Yixing
lo guardò con dispiacere, quel tipo di dispiacere che lo
mandava in
bestia perché lui non era così, era solo il
frutto della
disperazione e l’angoscia -Prova a disegnare- la sua voce
pensosa
interruppe il filo dei suoi pensieri -Quando mamma e papà si
sono
separati, io continuavo a disegnare. Ha funzionato, sai?-
-E
come potrebbe funzionare?-
-Riversavo
tutto il mio odio per i miei sulla carta- spiegò con
placidità
-Papà era diventato il postino e mamma il cane rabbioso che
lo
inseguiva.-
-Hai
avuto un’infanzia difficile, eh?-
Yixing
ridacchiò. Sehun lo guardò con un sopracciglio
arcuato ma la
vibrazione del cellulare gli fece accantonare il disagio mentale in
cui versava l’amico…
“Esame
passato. Ti porto a prendere del Bubble the.
Poi
mi compri Batman: Arkham Origins[4].”
Idiota…
Premette
i tasti con velocità, dandogli
dell’incommensurabile cretino per
pretendere un regalo che nemmeno voleva fargli. Ma sapeva almeno
quanto costava quel maledetto videogioco?! Avevano un affitto da
pagare e—Ah, ci rinunciava. Lu Han era un demente fatto e
finito.
-Sai
che mi mancavano?- la voce di Yixing era velata di divertimento,
tanto che Sehun si ritrovò costretto ad affrontare le sue
fossette
stritola stomaco e la sua morbidezza.
-Che
cosa?-
-Quei
sorrisi che fai quando non vedi l’ora di vedere qualcuno-
Sehun
sentì il cuore esplodergli in petto -Quando Jongin ti diceva
che
tutto andava bene e tutto andava bene sul serio.- aggiunse,
guardandolo con dolcezza.
Sehun
li ricordava bene quei sorrisi. Solitamente gli uscivano quando lo
baciava piano, lento, nel buio della camera da letto o nel silenzio
del salotto fiocamente illuminato. Quando rincasava e se lo trovava a
ballare in cucina, mentre dimenticava i fornelli accesi e serviva per
cena uova bruciate con riso incollato. Quando gli diceva di farsi
trovare pronto alle 8.00 e poi si presentava alle 9.00, riempiendolo
di scuse. Quando lo abbracciava, gli sussurrava di amarlo e gli
diceva che non c’era alcun problema e allora era
così, tutti i
problemi si volatilizzavano…
-Non
hai bisogno di Kim per essere bello.-
O
quelli che faceva quando Lu Han gli diceva che era bello.
Però
prima lo ero di più…
Anche
se Jongin non c’era.
[1]
Scena tratta da Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, quando Alex
DeLarge (interpretato da Malcolm McDowell) ormai in carcere, deposita
i propri averi. Un capolavoro (il film, non il corpo di McDowell ma
diciamo pure quello).
[2]
“L’amore è mistero puro e
semplice”, citazione presa da I
ponti di Madison County.
[3]
Son Na-eun, cantante delle A Pink. Perché con Taemin? Ho
preso
ispirazione da We Got Married quel programma fintissimo
come
Cher. Non per altro, solo che il mondo non è
tutto gay, per
dirla banalmente. Cosa che dimentico ogni volta che scrivo qualcosa
sugli Exo.
[4]
Videogioco della Warner Bros. La trama in breve: viene messa una
taglia su Batman da tutti i malvagi di Gotham City e lui deve fargli
il culo (cit. ragazzo di F.). Insomma, quei videogiochi fatti
bene in cui capisci perché hai sempre avuto una cotta per il
Joker e
l’Enigmista e hai sempre schifato Batman.
Inutili
note
conclusive:
Capitolo nato
dopo aver visto la puntata di Batman sul Cappellaio Matto, quando
Alice la segretaria gli dice tutta raggiante Tu sì
che sei un
amico speciale!, con F. che urla –E’
stato FRIENDZONATO!!!- e
io che muoio sul tavolo.
Lasciatemi poi
spargere amore su quel trottolo di Taemim ** Perché se Absentia non
fosse una Sekai, i protagonisti sarebbero Taemin e Jongin (prima o
poi dovrò scriverla una Taekai. Troppi feels che non riesco
a
contenere).
E spargo amore
anche su Jongin che per quanto scemo e stronzo qui sia, a me fa una
tenerezza indicibile.
Ringrazio
infinitamente _MoonAyame_, heretic overdose e CassidyKeynes
per aver commentato il precedente capitolo. Siete state carinissime e
il sostegno che mi avete dato non solo per Absentia
ma anche
per ciò che succede qua fuori mi ha scaldato il cuore, sul
serio.
Vorrei regalare
ad ognuna di voi un Exo.
Ringrazio anche
chi ha aggiunto la storia fra le seguite/ricordate/preferite
e
chi legge in silenzio.
Alla prossima!
HeavenIsInYourEyes.
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