Absentia

di HeavenIsInYourEyes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Linea 3 ***
Capitolo 3: *** Insomnia ***
Capitolo 4: *** E Jongin? ***
Capitolo 5: *** I'm sorry, but your Sehun is in another castle ***
Capitolo 6: *** Abituati alla sua assenza ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Leggere attentamente le avvertenze. Non somministrare ai bambini sotto i dodici anni.
Prima fanfiction che pubblico nel fandom degli EXO *ansia da prestazione vattene, te ne prego*, prima slash che scrivo in assoluto *morte per ansia da prestazione ciao, ben arrivata*. Perché slash? Perché ammettiamolo, gli EXO trasudano gaiezza da ogni poro, si shippano tra di loro che è una meraviglia e sembrano fatti apposta per essere slashati. E poi ho scoperto EFP anni orsono grazie alle Yaoi, non potevo non cimentarmici almeno una volta. Ciò premesso, se mai vi venisse voglia di dirmi cosa pensate di Absentia, siate clementi e brutali.
Vorrei non dilungarmi, ma credo che qualche nota introduttiva sia d’obbligo prima che vi gettiate in questa… Cosa
Sekai, principalmente. Con accenni –accenni un paio di palle- Hunhan, perché Lu Han è una primadonna e quando non è impegnato a giocare alla play, con i cubi di Rubik o ad infrattarsi da qualche parte con qualche membro X degli EXO all’urlo di Gotta Catch ‘hem all! , monopolizza Sehun. E con la gentile partecipazione di Lay e Kris. In realtà avrei voluto creare una Sekailu degna di tal nome, ma: 1) il mondo non è pronto a tale meraviglioso sfoggio di gaiezza3; 2) la Sekai è la mia OTP sacra, non potevo non dedicarle questa scemenza; 3) in geometria faccio schifo. Non oso immaginare che porcheria sarebbe potuta uscire.
Storia nata dopo aver passato tre ore (3 ORE FILATE!!!) ad imparare i nomi degli EXO, con missioni aggiuntive quali: 1) distinguere Sehun da Lu Han; 2) non urlare quando l’immagine sfuocata di Kris compariva random –non me ne vogliano le fan di Kris, ma mi è stato proposto in versione John Travolta in Grease. Abbiate pietà-; 3) non innamorarsi follemente e perdutamente di Sehun. Le prima due sono andate a buon fine –oddio, Kris ancora mi inquieta un pochetto-… L’ultima è stata un Game Over colossale. Così, quando Kai mi è apparso in sogno e ha detto: Senti, io voglio farmi Sehun. Scrivimi una Sekai., non mi sono potuta tirare indietro. E’ la parola di Kai contro la mia! Perciò per qualsiasi lamentela rivolgetevi a lui. Nah, sono aperta a qualsiasi tipo di critica; non vedo che male possano fare se servissero a migliorarmi :)
Preparatevi a chili di pensieri; amo scavare nella psicologia dei personaggi, non posso farne a meno. E preparatevi ad eventuali capitoli che sembrano infiniti; quando distribuivano il dono della sintesi, probabilmente ero a guardare l’opuscolo informativo gentilmente concessomi da sua maestà la Pigrizia. Anzi, facciamo che mi scuso sin da ora per questo, così da lenire un po’ il senso di colpa D:
Il rating è arancione perché quello rosso mi ha chiesto il divorzio. Si lascia solo leggere dalla sottoscritta ma quando si tratta di lasciarsi scrivere, mi chiude le porte in faccia.
Per quanto sia contro la nota OOC quando si parla di persone reali, mi è sembrato doveroso aggiungerla. Semmai procederete con Absentia, perfino quel parente alla lontana che pensa che il Kpop sia una marca di patatine si renderà conto di come i caratteri dei personaggi poco ci azzecchino con quelli veri. Per farla breve: dubito che Lulu, SehunLaPrincipessa e KaiSonoFigoESoDiEsserlo siano degli psicopatici.
Ok, penso di aver finito con queste note introduttive –che tra poco sono più lunghe del prologo stesso, so sad…-, perciò non mi resta che augurarvi una buona lettura, con la speranza di ritrovarvi a fine capitolo


 

A F. Che mi ha costretta a pubblicare le mie storie quando volevo tenerle nascoste nel Pc, che ancora si chiede perché io scriva su “band coreane composte da ragazzi che paiono minorenni” ma mi lascia fangirleggiare senza fiatare, che c’è sempre quando non so da che parte sbattere la testa. E più di tutto, non mi fa mai sentire “indietro”.

E a Shinushio. Senza la quale non saprei nemmeno che faccia abbia Sehun e perché ha visto nascere questa storia. Ma ancora più importante… Mi ha fatto riscoprire l’amore per lo yaoi che credevo ormai morto e sepolto.

Grazie, ma grazie di cuore

 

 

 

Absentia

 

La coppia è per definizione un insieme di tre persone

di cui una è momentaneamente assente.”

                                                               David Riondino

 


 

Prologo

(Di birre, sbornie e Lui che ritorna)

 

 

10 dicembre 2012. Ore 7.32

Seoul. In una stanza qualunque (o forse no)

 

 

Era una stanza qualunque.

La luce filtrava dalle finestre aperte disegnando arabeschi spaiati sulle pareti azzurrognole che stonavano con quelle bianco ospedale, solite ingarbugliarlo ogni mattina. L’aria fresca di un dicembre ormai inoltrato cullava il suo cercare di capire perché il proprio letto fosse diventato più piccolo e lungo, perché la parte destra di quel materasso fosse calda, come se qualcuno avesse vegliato al suo fianco per tutto il tempo. Forse stava ancora dormendo e nei suoi sogni le pareti erano colorate e tutto era distorto. I polpastrelli strisciarono lentamente sul tessuto ruvido, allungandosi verso il comodino che nascondeva stralci del suo passato, rattoppi di un presente tedioso e un futuro ancora da definire. Come ogni risveglio lo avrebbe aperto e la foto dei suoi genitori sorridenti gli avrebbe ricordato che ancora non aveva risposto al messaggio in segreteria che sua madre gli—preservativi… Da quando teneva dei preservativi nel comodino? Anzi, da quando aveva dei preservativi?!

Lo chiuse di colpo, cadendo di peso sul letto che copriva le sue gambe nude, la schiena scoperta su cui avvertiva ancora dita tracciargli meticolosamente l’ossatura della spina dorsale. Gli occhi bruciavano, come se avesse pianto ininterrottamente, la bocca impastata sapeva di alcool. Più cercava di ricordare cosa fosse accaduto, più la mente si ostinava a dolere, proteggendolo da scomodi e amari ricordi. O forse erano piacevoli? Poco importava, entrambi avrebbero fatto male solo poi.

Sehun stropicciò il volto intorpidito e massaggiò la testa che continuava a proiettare immagini sfuocate, confuse, che avevano però la forza di un pugno allo stomaco. Si affacciò nuovamente in quella realtà scombinata e cominciò a metterla a fuoco.

Quella non era una stanza qualunque. Aveva qualcosa di familiare.

Ma non era la propria.

E non era neppure una stanza d’albergo. O forse sì? Difficile a dirsi, anche perché gli eventi della notte appena ecclissatasi con i clacson della città in subbuglio continuavano a nascondersi dietro sequenze che non riconosceva. Gli parve di aver partecipato ad un film senza nemmeno sentirsi il protagonista: c’erano piatti sporchi e scatole di takeaway scadente, bottiglie di birra consumate come acqua e passi di danza improvvisati mentre due mani delicate stringevano la sua vita esile.

E la propria voce. Incrinata, tremante, protetta da una mano che troppo spesso andava a riparargli il volto, quasi volesse nasconderlo. Ma da cosa? Da chi?

Un brivido scorse lungo la schiena mentre si metteva a sedere, osservando le mura spoglie della camera da letto disordinata e che ben sembrava dipingere il caos dei propri vaneggi. Un paio di camice erano morte sul pavimento; lui non avrebbe mai lasciato le camicie per terra, le avrebbe piegate e riposte nell’armadio. Non avrebbe mai lasciato che una scarpa giacesse vicino al cestino e la sua compagna morisse vicino alla porta, le avrebbe accoppiate perché così non sarebbero state separate. Da bambino aveva sempre creduto che gli oggetti, mentre non c’era o dormiva, si animassero e vivessero una vita decisamente più interessante della propria. Lu Han diceva che aveva visto troppe volte Toy Story, lui rispondeva che aveva troppo buon cuore per permettere che la Nike destra ululasse disperata alla ricerca della Nike sinistra. E poi c’erano libri accatastati, fogli sparsi, caos dappertutto. Solo una borsa da ginnastica se ne stava immacolata sulla sedia, quasi fosse la cosa più importante fra quelle pareti azzurrognole che stavano cominciando a colorare i suoi ricordi ora un po’ più nitidi.

Un rumore di pentole ridestò la sua intontita attenzione. Quel Chi o Cosa era ancora lì e faceva un casino atroce che non aiutava il suo lancinante mal di testa. Sehun si guardò attorno con aria assonnata, alla ricerca di particolari che potessero aiutarlo a ricordarsi come avesse fatto a finire in quel bozzolo di coperte anonime senza le sue stampe a fumetti... Nudo. Sapevano di buono, di fresco, sapevano di corpi che si cercavano e si perdevano in un piacere che ancora poteva avvertire sulla propria pelle chiara, come se i segni fossero ancora lì a rammentargli che per un po’ la felicità lo aveva sfiorato. Una felicità che aveva occhi allungati e scuri, labbra carnose e capelli morbidi come seta che le sue dita non avevano abbandonato per un istante.

La felicità aveva un nome, lo aveva pronunciato per tutta la notte, ancora poteva avvertirne il dolce retrogusto sul palato. Ma dirlo di nuovo, da sobrio… Gli parve impossibile, addirittura surreale.

-Cazzo…- soffiò coprendosi il volto pallido, passandosi una mano fra i capelli scompigliati prima di circondare le gambe con entrambe le braccia.

Com’è che era finito a casa sua con un sacchetto del takeaway dietro casa e bottiglie di birra? A Sehun nemmeno piaceva la birra. Però a lui sì. E gli aveva detto che se fosse stato pronto ad ascoltarlo, a lasciarlo spiegare, sarebbe bastato correre da lui con dell’ottima Cass. Ricordava la pioggia che scrosciava sul cappuccio sollevato, le lacrime che non volevano saperne di scendere ma che avevano premuto sugli occhi quando lui gli aveva aperto la porta e lo aveva guardato con sorpresa. Ricordava di come gli avesse dato la sua felpa preferita, un asciugamano, una birra a cui poi era seguita una seconda e una terza forse pure una quarta, una spalla su cui piangere e una mano da stringere mentre la voce di un attore sconosciuto proveniente dalla tele accesa si spargeva nell’aria, mescolandosi alla propria.

Già, la propria voce…

Com’è che aveva monopolizzato tutta la serata con i propri discorsi? A Sehun nemmeno piaceva parlare.

Aveva sempre avuto un difetto di pronuncia, Sehun. Quella maledetta S blesa era stata la sua croce, fonte di continue prese in giro e di consigli su come un buon logopedista potesse aiutarlo a eliminare quell’unico neo che l’invidiosa madre natura aveva deciso di dargli per scalfire la sua perfezione, come aveva suggerito sua zia durante l’ultima riunione di famiglia. Non ricordava precisamente quando aveva optato per il silenzio o per i discorsi brevi e sottovoce; forse quando si era stancato delle risate soffocate, quando le imitazioni frivole dei compagni lo avevano esasperato, quando si era accorto che udirsi lo irritava.

O quando si era reso conto che lui, con le parole, non sapeva giocarci. Perché Sehun non c’era proprio portato.

Non andavano d’accordo, si rifiutavano di corrergli in soccorso e quando lo facevano, procuravano solo dolore. Sehun era portato per gli occhi pieni di discorsi impronunciabili ma che con un solo sguardo dicevano tutto, per le mani che sfiorandolo gli strappavano il respiro, per labbra spaccate da parole in fila mai gettatesi nell’aria, che sapevano di pollo fritto e sorrisi consumati, ma mai sprecati. Era per le spiegazioni fra i sospiri, per i ricordi messi su fogli di carta e appesi al frigorifero -perché nemmeno con la memoria andava d’accordo-, per l’amore silenzioso che mescolava il nero e bianco delle sue giornate. Per quell’amore che colorava il monocromatismo della sua esistenza. Era per i baci sulla fronte che sapevano di sbadigli mattutini soffocati, per i Buongiorno che odoravano di caffè, per i Resta non detti ma che si avveravano sempre e per i Buonanotte che sapevano di Lui. Era per i sorrisi imbarazzati catturati dal flash della propria macchina fotografica, per il rumore di passi che danzavano sul tappeto mentre la musica inondava quel minuscolo appartamento di periferia, per le liti fatte di piatti rotti e che si concludevano con i cocci calpestati per raggiungersi.

Era per i discorsi che non nascevano e quando lo facevano, si consumavano nei gemiti sotto le coperte mentre i corpi si attorcigliavano.

Sehun non amava parlare, ma da un po’ di tempo non riusciva a stare in silenzio e i motivi erano due.

Uno: il suo psicologo personale -Lu Han- aveva professato che solo parlando l’imbarazzo verso quel tanto odiato difetto di pronuncia sarebbe svanito.

Due… Due

 

-Oh, buongiorno!- la tonalità bassa di quella voce l’avrebbe riconosciuta fra milioni ma Sehun decise comunque di voltarsi, così da stemperare il ricordo confuso della nottata trascorsa con quell’unico che mai sarebbe sbiadito. Che era rimasto uguale, non era mutato. La memoria spesso tradiva, la sua poi gli giocava sempre brutti scherzi, facendolo arrivare tardi dal dentista o facendogli perdere due lezioni di fila; la sua memoria cambiava il colore di una camicia e la forma di un auto, distorceva la realtà che aveva vissuto in qualcosa che avrebbe voluto vivere. Ma con Lui… Con lui era rimasta fedele. Sempre.

-Ehi…- alzò un poco la mano, portandola subito alla testa. Dio, ma che cazzo aveva combinato? –Che è successo? Mi scoppia la testa.-

Il ragazzo appoggiato allo stipite rise un poco –Si chiama post-sbronza- con un cenno del mento indicò alcune bottiglie di birra vuote che giacevano sulla scrivania –Ci hai dato dentro ieri sera.-

E forse anche noi, avrebbe voluto ironizzare, guardando di sfuggita il proprio corpo nudo che bruciava a contatto con le candide coperte, ora tirate su a mo’ di bozzolo. Le stesse che avevano avvolto le loro pelli che si mischiavano, un gioco di incastri che non era più stato lo stesso da quando aveva trovato LA foto sul cuscino. E come un flash, le immagini della sua notte brava tornarono a tormentarlo, sospinte da un silenzio che gli stava facendo montare l’ansia.

Senti, io ora devo scappare, ho una visita dal fisioterapista. Intanto tu puoi dormire o guardare la tele- si morse il labbro inferiore; anche lui glielo aveva morso poche ore prima, poteva sentirne ancora la consistenza -O vomitare.-

Sehun arcuò un sopracciglio prima di cercare con lo sguardo i propri vestiti -No, grazie. Credo che—

-Ma torno…- si irrigidì, assaporando il retrogusto amaro dell’ennesima promessa che non sarebbe stata mantenuta –Torno per pranzo.- il ragazzo recuperò la borsa immacolata e zampettò verso di lui; un leggero bacio che sapeva di menta sfiorò le sue labbra. Un gesto che gli aveva sempre dato la forza per affrontare un nuovo giorno e che quando era venuto a mancare lo aveva gettato in un baratro di sconforto e rancore.

La felicità gli sorrise, gli carezzò una guancia. E il cuore di Sehun fu sul punto di esplodere.

Quando l’amore lo abbandonava nell’assenza, che fine faceva?

Arrivava senza avvertire, lo faceva parlare di più e piangere di meno, spariva lasciando una foto nel silenzio dei suoi sogni. Lo guardava con lo zaino calato su di una spalla, in attesa che il suo mondo si muovesse.

Attendeva.

Sehun morse l’interno delle guance prima di stringersi nelle spalle, a disagio –Jongin, senti--

 –E’ bello riaverti, Sehun.- se ne andava con un sorriso promettendogli di ritornare. Questa volta per davvero.

 

Due… Jongin.

Una volta gli aveva detto che il suo difetto era carino. Che lo rendeva unico.

E da allora, Oh Sehun non si era più stancato della propria voce.


 


 


 


Inutili note conclusive:

Avendovi ammorbato ad introduzione capitolo, non è che ora abbia granché da dire. A parte che questo è solo il prologo, che è corto, ma solitamente do il meglio/peggio di me nei capitoli. E' una minaccia? No, io la vedrei più come una preparazione psicologica.

Ah, sì, e che ho una paura boia per aver iniziato questa nuova storia perché non so fino a dove mi porterà, perché ho abbandonato il fandom madre e mi sono gettata un po' in un buco nero e perché a volte mi pare di scrivere scemenze abissali. Confido nella vostra buon'anima. Così come confido nella mia acerrima nemica ispirazione affinché non migri come è solita fare. Per ora cercherò di essere costante -sanità mentale permettendo-.

E niente, se voleste lasciare un segno del vostro passaggio io non potrò che esserne contenta e grata :) Ciritche di qualsiasi tipo sono sempre ben accette ^^


 

Alla prossima!

HeavenIsInYourEyes.

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Capitolo 2
*** Linea 3 ***


Absentia

 

E quando questi due esseri si incontrano, e i loro sguardi si incrociano,

tutto il passato e tutto il futuro non hanno più alcuna importanza.

Esistono solo quel momento e quella straordinaria certezza

che tutte le cose sotto il sole sono state scritte dalla stessa Mano.”

                                                                                     -Paulo Coelho, L’Alchimista-

 

 

 

Capitolo 1

Linea 3

(Di fotografie, Dead Space e metropolitane)

 

 

08 giugno 2013, ore 15.34

Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han

 

 

Lo scatto della macchina fotografica inondò la stanza immersa nella fioca luce di un giovedì mattina qualsiasi, coprendo per un millisecondo il vociare concitato di un paio di alieni che avevano invaso il soggiorno –o era la navicella spaziale nel televisore?- e il premere esagitato dei pollici sul joystick, mentre velate minacce si libravano leggiadre nell’aria.

Lu Han aveva comprato un nuovo videogioco e dal modo in cui fissava lo schermo, probabilmente doveva piacergli parecchio. Sehun lo comprese dal numero illimitato di imprecazioni che lanciava ad intervalli regolari di cinque minuti. Era infatti da lui scientificamente testato che più Lu Han imprecava, più il gioco era di suo gradimento. Le stranezze di un nerd che spendeva parte della sua paga in videogames.

Sehun osservò la fotografia appena uscita dalla Polaroid, lasciandola riposare senza spostare lo sguardo dal profilo che piano piano andava delineandosi sulla pellicola patinata: la concentrazione di Lu Han traspariva dai denti bianchi che andavano a mordere il labbro inferiore mentre un fastidioso riflesso copriva parte del suo volto. La luce non rendeva giustizia alla delicatezza dei suoi lineamenti, ma da quella posizione e in quel soggiorno perennemente adombrato, non poteva pretendere la perfezione. Guardò per un istante gli enormi palazzi che si ergevano oltre la finestra e che impedivano alla brillantezza del sole di invadere il salotto grosso quanto una scatola di sardine, ma la leggerezza del portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni, gli rammentò quanto poco avesse da lamentarsi: con lo schifo che guadagnava lavorando al ristorante di Baozi all’angolo della strada nel solo week end, non poteva pretendere un attico con vista oceano.

Tornò a guardare la foto ora nitida, accartocciandola quando sentenziò a sé stesso che non poteva usarla per l’esame che avrebbe dovuto sostenere la settimana a venire. Avrebbe continuato a scattare foto fino a che la soddisfazione non gli avesse fatto increspare le labbra in un tenue sorriso; sino ad allora, lo hyung doveva arrendersi ad essere il malcapitato modello.

Lu Han doveva essersi accorto del suo disappunto, perché dopo aver sbattuto un mano sul ginocchio quando un alieno gli aveva sferrato un attacco quasi mortale e in attesa che il caricamento si completasse, gli aveva rivolto uno sguardo al limite della scocciatura –Si può sapere cosa stai facendo?-

Sehun premette il tasto, il solito rumore invase la stanza e Lu Han storse ancora di più il naso, conscio di essere appena stato ignorato –Faccio foto.-

Lu Han roteò gli occhi –Lo sento. Mi chiedo solo: perché?-

-Perché mi piace, lo sai.- un’altra foto, un altro sbuffo.

Sehun amava fotografare.

Non era un semplice puntare l’obiettivo verso l’orizzonte e premere un tasto, non era un banale inquadrare un viso e armonizzarlo con ciò che lo circondava, un mettere in risalto ciò che di bello il mondo aveva da offrire. Per Sehun la fotografia era arte, era l’essenza stessa della sua esistenza. Un banale click corrispondeva ad un battito del suo cuore che andava perdendosi sulla carta patinata e che, se lasciato riposare con la dovuta cura, si trasformava, prendeva forma.

Plasmava la realtà a proprio piacimento, questo faceva Sehun quando fotografava.

Lu Han diceva che era strano, quando era in vena di gentilezze gli dava dello stramboide. Sehun credeva di essere solamente troppo appassionato per ragionare con lucidità.

-Smettila di fotografarmi.- Lu Han lo riprese con scocciatura, gli occhi puntati sulla televisione mentre un impavido aeronauta si infilava in una navicella invasa da mostri. Sehun non capiva la logica di quei giochi che tanto piacevano all’amico e, sinceramente, nemmeno ci teneva a capirla. Quale idiota si sarebbe avventurato fra i rottami di una navicella spaziale solo per capire che fine avesse fatto l’equipaggio? Insomma, se ne nessuno rispondeva ad un segnale radio che faceva le bizze, forse il messaggio implicito era: non fare cazzate, la morte ti attende. Che tanto Sehun sapeva come andavano a finire quei giochi: l’equipaggio sicuramente era stato preda dei mostri che comparivano a caso dietro gli angoli e lui, scemo di turno, si ritrovava a vagare per corridoi pieni di stralci di una vita quasi perfetta prima che la morte fosse giunta a rovinare tutto. Che poi certi scempi gli facevano passare la poesia per E.T., tanto che quando lo trasmettevano in tv si ritrovava a guardarsi programmi di cucina e telefilm di dubbio gusto.

Un sorriso di ironia gli increspò le labbra sottili quando si ritrovò a fissare le foto della polaroid ancora un po’ sbiadite –Solo se tu la smetti di giocare- Lu Han scoccò la lingua, segno che non avrebbe mai spento la Play -Che senso ha, me lo spieghi?- guardò Lu Han di sfuggita –Quale idiota si avventurerebbe in una navicella spaziale piena di rottami, buia e con rumori di sottofondo che nemmeno in Saw?- e lo aveva esposto con tutta la pacatezza e genuina incomprensione che possedeva. Perché no, proprio quel gioco non aveva senso.

-Lo stesso per cui uno si avventura fra i rottami del proprio passato.Armato di Polaroid...- e poi Lu Han se ne usciva con queste frecciatine che lo facevano pentire di aver dato inizio ad una conversazione. Perché Sehun voleva bene a Lu Han, lo considerava un fratello e l’unico coinquilino che mai avrebbe ucciso, per quanto molesto e rompicoglioni fosse, ma certe volte istigava alla violenza tanto era indisponente –Non lo sai che esistono le macchine digitali?-

-E tu non lo sai che non fa bene stare tutto il giorno davanti alla tele?- un alieno squarciò la gamba del protagonista e Sehun tornò nel proprio mondo fatto di obiettivi, flash ed esami che avrebbero finito col deteriorare anche quell’ultima cellula grigia sopravvissuta ad anni di cazzate.

-Tanto fuori non c’è nulla di interessante- bofonchiò leccandosi le labbra quando riuscì a ripararsi dentro un ascensore con la luce intermittente -Qual è il tema dell’esame?- lo squadrò con un ghigno -Rompi le palle al coinquilino mentre gioca a Dead space II?-

-Raffigurare la tristezza.- esalò Sehun con praticità, ripuntando l’obiettivo sul volto del ragazzo, ora contratto in una smorfia di scetticismo.

Lu Han mise da parte l’attenzione per quello zombie comparso dall’ascensore, mise in pausa e lo fissò –Ti sembro triste?- si indicò il volto, rivolgendogli l’espressione più dolciastra che avesse potuto reperire nel suo sgabuzzino piene di maschere. Tipico di Lu Han cambiare atteggiamento pur di uscire vincitore da qualsiasi conversazione.

Sehun non era però uno sprovveduto. Sapeva quando era bene fare attenzione ai repentini cambi d’umore dell’amico, così si limito ad alzare le spalle -Un ragazzo che con questo sole potrebbe essere al parco a correre e invece se ne sta chiuso qui con degli alieni…- annuì –Sì, sei triste.-

-Anche tu sei chiuso qui, con me.-

-Se il mio modello se ne sta in casa, sono costretto a starci pure io.- un’altra foto, un’altra imprecazione trattenuta.

Il capo di Lu Han cadde in picchiata sulle ginocchia, mugugni inesplicabili riempirono l’aria e Sehun si chiese perché l’amico dovesse per forza ostinarsi a rompergli così tanto l’anima. Come se già non fosse abbastanza dilaniata, oltretutto.

-Beh, esci, vai al parco e trova qualcun altro da fotografare- indicò la tele –Ho cose più importanti da fare.-

-Dovresti essere onorato di essere stato scelto- supponente come non credette di poter essere, Sehun si ritrovò a fronteggiarlo quando l’ennesimo alieno aveva deciso di interrompere la loro discussione; Lu Han lo ignorava volontariamente -oppure era davvero nei cazzi in quel magazzino coperto di sangue, corpi sbudellati e mostri che saltavano giù dal soffitto-, fatto stava che Sehun odiava non essere preso in considerazione. Così gli diede un calcio –involontariamente, ovvio- rischiando di fargli mancare il bersaglio. Lu Han si volse inviperito e Sehun a stento trattenne un ghigno di vittoria. Conscio di avere ormai la sua completa e scazzata attenzione, poté finalmente decretare la propria vittoria –Sai bene che non fotografo chiunque.-

Ed era vero, Sehun non fotografava chiunque gli capitasse a tiro. Poche erano state le persone baciate dai suoi flash, pochi erano stati i soggetti, sempre su gentile richiesta, che avevano avuto l’onore di ritagliarsi un posto nella parete della sua stanza su cui svettavano una manciata di foto che, ancora adesso, gli davano i brividi se solo provava a vederle. Erano venti appena, se lo ricordava a memoria perché aveva sempre avuto il brutto vizio di contarle quando non riusciva ad addormentarsi. Ma una fitta al petto, dolente e improvvisa, gli fece comprendere di aver commesso un banalissimo errore di calcolo: da esattamente nov mesi, erano diventate diciannove.

Un movimento sul pavimento appena lucidato lo mise in allarme e sollevando lo sguardo contrito verso il coinquilino, si ritrovò a deglutire come se fosse l’ultima volta. Perché Lu Han aveva allargato gli occhi, gli aveva sorriso di infinita, macabra dolcezza e si era sporto, la voce bassa e calibrata quasi volesse far tremare le corde delle sue memorie –Oh, sai bene anche tu che non è affatto così…- e il suo mormorio giunse letale –Linea 3…-

 

Sehun odiava prendere la linea 3, lo odiava da morire.

A dir la verità, parlando più in generale, odiava prendere la metropolitana. Sempre piena di gente che correva in giro freneticamente, zeppa di persone che camminavano e si arrestavano di colpo, senza motivo alcuno, costringendolo a deviare all’ultimo pur di non sbatterci contro mentre dentro sé mille e più imprecazioni gli coloravano l’umore già nero.

Quando fece passare lo zaino sotto lo scanner all’entrata, seguito dallo sguardo annoiato e sonnolento di un paio di giovani poliziotti, si chiese perché i suoi genitori non lo avessero iscritto alla scuola di fronte casa, invece di costringerlo a quel calvario che nemmeno un girone dell’Inferno. Probabilmente in una vita precedente era stato uno spietato killer o un cacciatore di streghe e ora si ritrovava a dover patire pur di sopravvivere.

Sospirò mentre, zaino in spalla, cominciava a seguire un branco di studenti casinari che dovevano essersi drogati per essere così felici di lunedì mattina. Insomma, era mattina! Ed era lunedì! Un’unione così terrificante da fargli venire i brividi. Li sorpassò a passo veloce, salendo le scale che lo avrebbero condotto alla famigerata linea 3, di un immotivatamente allegro color arancione.

Sì, proprio quella che odiava.

E non è che Sehun la disprezzasse così, per partito preso. Insomma, non era come i broccoli che li odiava perché facevano schifo –e no, non aveva mai provato a mangiarli, ma quei cosi non avevano un bell’aspetto-, e non era nemmeno come Minseo della prima A che ci aveva spudoratamente provato con lui negli spogliatoi, accampando la scusa di aver perso lì gli occhiali. Peccato che fosse quello degli uomini e lei non portasse occhiali, ma dettagli.

No, Sehun la odiava perché la linea 3 era quanto di più orribile potesse esserci nella vita di una persona.

Poco affollata, questo era il suo unico pregio degno di menzione e onore, la linea 3 aveva sempre quel nauseante aroma di birra mista a curry, un binomio da suicidio per uno che era astemio e odiava ogni tipo di spezia. Gli bastava mettere un piede dentro l’abitacolo per sentir la testa girare, i cereali della mattina nuotare gioiosi nella bile e altre bellezza che non volle elencare pur di non farsi ulteriore male. Così, quando vide il treno avvicinarsi, respirò a fondo e trattenne in corpo quanta più aria avesse, deciso a farsi venti minuti di apnea pur di non morire lì, fra scolari e imprenditori che urlavano al telefono in un inglese biascicato e forse pure inventato.

Sehun sbatacchiò le palpebre alla vista delle banchine quasi deserte, chiedendosi dove tutta la gente fosse scomparsa. Magari qualche buon Dio aveva deciso di sterminare metà Seoul cosicché lui potesse vivere in piena tranquillità, senza scocciatori che lo fissava o tentavano di attaccare bottone. Perché lui lo sapeva, non c’era niente di peggio –linea 3 a parte, ovvio- che stare seduti al tavolo di un bar a studiare e puntualmente venir assalito da ragazzine che gli chiedevano il numero di cellulare o addirittura una foto assieme, nemmeno fosse Gackt giunto in villeggiatura in quel di Seoul.

E in quei frangenti avrebbe voluto rispondere loro con un friabile “Sono gay”, sostituito invece da un ostentato mutismo dovuto più allo stupore che alla vergogna. Perché sì, Oh Sehun era felicemente e semi-dichiaratamente gay e no, non se ne vergognava. Certo però, non gli sembrava saggio sbandierarlo seraficamente e a gran voce fra cappuccini e cornetti, ecco.

Ma c’era qualcosa che stonava, quel giorno. Qualcosa che non era al proprio posto. Come se il cambiamento stesse giungendo con placidità, colorando il grigiore di quel lunedì mattina che sapeva di routine e noia.

Sehun poteva respirarlo nell’aria che gli parve pulita o almeno non così stomachevole, poteva udirlo nel leggero concitamento proveniente alle proprie spalle, meno rumoroso del solito, mentre sostava immobile oltre la linea gialla. Poteva sentirlo nei discorsi frivoli di ragazzine con l’apparecchio e la divisa scolastica che parlottavano tra loro, emettendo risolini caustici che avrebbe voluto sopprimere.

Mentre indicavano la “stonatura”.

Che era al suo fianco, a meno di un metro di distanza, una macchia nera su di un foglio immacolato. Uno sprazzo di colore in quella tela nera che era sempre stata la sua vita da adolescente asociale e privo di qualsivoglia desiderio di ribalta in un mondo che non lo considerava.

Ma qualcuno cambiò tutto. Senza muoversi, stando fermo, ma lo cambiò.

Gli parve che il mondo da sempre ignorato avesse assunto connotazione ben marcate, nell’esatto istante in cui il suo sguardo svogliato si era posato impercettibilmente sull’unica persona che avesse catturato la sua attenzione in mezzo ad impiegati, banchieri e sporadici studenti.

Un comune ragazzo.

Era un comune ragazzo che, per motivi a lui ignoti, scuoteva il suo interesse.

Banale nel suo vestiario approssimativo e scialbo, nel suo ciondolare la testa a ritmo di musica che fuoriusciva dagli auricolari neri, nel suo fissare davanti a sé quasi non volesse perdere nemmeno un secondo per potersi infilare nel vagone. Di quel 22 ottorbe di un 2006 trascorso troppo lentamente, Sehun ricordava ogni minuscolo istante, anche quello più insignificante. Di come una ragazza gli avesse intimato di non starsene lì impalato, di come un impiegato gli fosse andato contro quando ero sceso a gran velocità facendogli un male cane alla spalla, di come una calca di persone si era insinuata nel suo minuscolo spazio vitale e lo aveva spintonato all’interno del vagone senza delicatezza alcuna, di come si fosse piazzato in posizione strategica pur di continuare a sbirciare l’estraneo dalla pelle olivastra.

Di come, nonostante tutto, quel ragazzo continuasse a rimanere prepotentemente presente.

Nascosto fra due studenti assonnati, si era concesso di studiarlo un po’ più a lungo, le dita che si attorcigliavano sulla sbarra di metallo. Perché quello sconosciuto era bello, talmente tanto che era quasi impossibile smettere di guardarlo.

La maglietta un po’ larga di un blu scuro che ben si mescolava all’espressione pensosa del suo volto, la visiera del cappellino ruotata di lato che lasciava intravedere il ciuffo ordinato e i capelli un po’ lunghi, tutto di quel ragazzo sembrava gridare ribellione, ma per qualche strana ragione gli parve l’essere più placido che mai avrebbe potuto incontrare. Si teneva aggrappato al maniglione, fissava assorto lo srotolarsi di una Seoul immersa nello smog, apparentemente ignaro di essere divenuto l’attrazione di quasi tutti i presenti.

Sehun nemmeno si era reso conto di aver tirato fuori dallo zaino la Polaroid, non si era nemmeno accorto che l’indice si era posato delicatamente sul pulsante, così come non si era accorto che il rumore dello scatto aveva permeato l’abitacolo per un istante.

E prima ancora che il suo cervello potesse dargli del coglione, il casino era stato fatto.

Aveva notato solo il flash, talmente forte da essere paragonabile ad una sonora mazzata in testa, e quel quadrato di pellicola bianca su cui cominciavano a intravedersi i primi segni del danno. E aveva notato il ridestarsi dello sconosciuto, ora irrigidito e spaesato, che lo fissava con sopracciglia arcuate.

Ok, si era accorto di lui. Missione 1, conosciuta altresì come “Resta fermo e immobile e nessuno si accorgerà che esisti”: fallita.

Lo sconosciuto aveva occhi scuri allungati e un po’ larghi per la sorpresa, naso schiacciato e labbra carnose schiuse di velata incredulità, l’espressione di chi si è appena reso conto di essere nel vagone di una metropolitana, circondato da persone. Come se fosse stato prigioniero dei propri pensieri e il suo stupido flash fosse stato la liberazione.

Non gli parve arrabbiato, constatò Sehun mentre tentava di nascondersi meglio alla sua vista e ricacciava la maledetta Polaroid nello zaino. Ma non gli parve nemmeno così felice di essere divenuto l’oggetto di interesse di uno stalker provetto. Del resto, come biasimarlo? Venir fotografato da un perfetto estraneo che probabilmente per tutto il tempo lo aveva fissato con espressione da giocatore di poker, di lunedì mattina, non doveva essere molto… Normale.

 

*Anguk, stazione di Anguk*

 

La voce metallica proveniente dall’altoparlante fu un coro d’angeli in mezzo a quell’Inferno. Finalmente sarebbe potuto uscire da quel girone divenuto troppo piccolo per poterlo nascondere e, soprattutto, avrebbe potuto lasciare nel vagone la colossale figura da coglione che lo avrebbe erto a re dei mentecatti.

Il ragazzo al proprio fianco lo sorpassò con un gesto fluido, recidendo per una manciata di microsecondi quel filo invisibile che non gli aveva permesso di scostare lo sguardo dallo sconosciuto, ancora fermo ed immobile ad osservarlo.

E fu un attimo.

In mezzo alla bolgia, in mezzo al vociare e agli starnuti dei presenti, in mezzo ad un caos che Sehun rifuggiva come la peste, in mezzo al proprio sconforto, imbarazzo e desiderio di suicidio… Lo sconosciuto gli aveva sorriso. Poco, impercettibilmente, divertito, come se fosse compiaciuto del suo essere stato scorto in mezzo a tanto ciarpame.

Come se per un breve istante fosse stato chiaro ad entrambi che erano finiti lì, in quel vagone, quel giorno, solo perché ciò potesse accadere.

Sehun avvertì i polmoni svuotarsi e senza pensarci due volte, uscì da quel posto divenuto rovente. L’aria irrespirabile gli permise di non svenire sulle linee gialle della banchina mentre udiva le porte chiudersi, anche se in realtà avrebbe voluto chiedere a quel gentile vecchietto davanti a sé di spingerlo sui binari mentre il treno era in corsa.

Perché era passato da ragazzino invisibile a maniaco che fotografava piacenti sconosciuti ed era sceso alla fermata sbagliata. Più precisamente a sei fermate prima della propria. E il prossimo treno sarebbe arrivato tra cinque minuti. Fantastico… Sarebbe arrivato in ritardo a scuola, davvero fantastico.

Lu Han, dopo il suo racconto, gli aveva detto che doveva vedere uno psicologo coi controcazzi se voleva salvare quel minimo di cervello che possedeva. O di scoparsi qualcuno, almeno avrebbe smesso di fotografare sconosciuti e poi usare le foto per pratiche erotiche in solitaria. Sciocco Lu Han… Come se davvero lui usasse i suoi gioiellini per certe frivolezze, rischiando addirittura di sporcarli!

Sehun, ad ogni modo, aveva smesso da un pezzo di dare retta all’amico.

Perché guardando la foto appena divenuta nitida fra le proprie mani, si disse che ne era valsa la pena. Per la prima volta da quando aveva impugnato una macchina fotografica, Sehun si era ritrovato a sorridere di fronte al proprio lavoro che sapeva di scemenza, birra e curry.

Oh Sehun odiava la linea 3, la odiava con tutto il cuore, certe cose non potevano mutare.

Ma per una volta, si disse che non era poi così male…

 

Il flash della macchina fotografica illuminò i suoi pensieri, riportandolo alla realtà.

La Polaroid era stata rapita da un Lu Han ghignante che, da inesperto fotografo, stava continuando a sventolare la pellicola appena uscita.

Sehun avvertì una stretta al cuore –ancora incerto se dovuta alla nitidezza dei suoi ricordi o alla coglionaggine dell’amico- e si allungò per strappargliela di mano, spingendolo a sedere a terra. La musica del game over, nel mentre, risuonava macabra fra le quattro mura della scatola di sardine.

-Cretino, così si rovina!- lo rimproverò storcendo il naso, guardando la pellicola sbiadirsi leggermente; solo allora realizzò chi Lu Han si era permesso di fotografare –Non devi farmi foto!- lo aveva esalato con un pizzico di rabbia, accentuato dalle sopracciglia aggrottate e gli occhi assottigliati. Perché Sehun odiava essere fotografato; si ostinava a credere che tutto fosse bello e fotogenico meno che sé stesso.

All’occhiata risentita che gli aveva appena regalato, il coinquilino replicò con un sopracciglio alzato e un tono di voce sprezzante –E’ da tutta la mattina che rompi le palle facendomi foto, non lagnarti- Lu Han si allungò, sorridendo –E comunque sei uscito bene!- gli circondò le spalle con un braccio mentre con l’indice puntellava la foto. Sehun studiò il proprio volto circondato da ombrosità, chiedendosi perché mai assumesse quell’aria incazzosa quando si ritrovava a pensare troppo e per troppo tempo. O forse diveniva così assorto solo quando pensava a Lui. Lu Han si alzò in piedi e si pulì i jeans spiegazzati, arricciò le labbra –Qualcosa non va?-

Sehun scosse la nuca mentre spegneva la Polaroid, adagiandola con cura sulla poltrona dietro di sé –Stavo solo pensando.-

-Pensare ti fa male- osservò l’amico sgranchendosi le spalle –Soprattutto pensare a certe cose, non devi- spense la tele e guardò la finestra –E’ una così bella giornata… Ti va di andare a prendere del the?- e gli aveva sorriso debolmente, come se si stesse sforzando per uscire di casa e non continuare a lasciarsi uccidere da alieni e zombie.

Come se volesse impedirgli di ingabbiarsi nei propri ricordi. Incredibile come Lu Han riuscisse a capire tutto senza bisogno di spiegazioni.

E Sehun non sorrise, ormai non sorrideva più da un po’. Ma annuì e questo sembrò rendere felice Lu Han che, aiutandolo ad alzarsi, gli scompigliò i capelli disordinati prima di rubargli la foto –Io userei questa per il compito- sghignazzò –Cristo se sei triste, Sehun.-

Già, Lu Han aveva il brutto vizio di ricordarglielo sempre…

 

-Sehuni, sei sempre così triste!-

-E tu sei un idiota, Kim.-

 

E anche Jongin.

 

 

 

 

Inutili note conclusive:

Un aggiornamento così puntuale -addirittura in anticipo, a voler essere pignola- non lo vedrete mai più, credo. Questo perché i primi capitoli sono praticamente completi, ma i successivi... Stendiamo un velo pietoso che è meglio.

Passando a questo coso -che io amo definire: il nulla cosmico-... Succede poco o nulla, lo so. Ma mi serviva introdurre per bene quelli che saranno i vari protagonisti della storia, anche se tutto ruota intorno a Sehun -come stai crescendo bene figliolo, sono così fiera di te ♥- 
La lunghezza rientra ancora nella soglia della decenza; questo perché c’è un solo POV. Più si va avanti, più si degenera. Spero inoltre che i balzi temporali passato/presente non vi facciano venire il mal di mare. Ho sempre desiderato scrivere una fanfiction dove c’era l’alternanza tra i due, sono commossa di esserci finalmente riuscita ;.;

E chi sarà mai questo figopaura della metropolitana, mh? No, tanto so che lo avete capito da soli. Non sono in grado di creare suspense, ho rinunciato a provarci.

Che altro? Ah, sì, sono lenta, lentissima con l’evolversi delle situazioni. Lo metto subito in chiaro per evitare fraintendimenti. Nel senso… Ecco, non aspettiamoci baci o dichiarazioni d’amore già dai primi capitoli, perché non è mia intenzione. Sono per le storie che, seppur fantasiose, hanno al loro interno un minimo di veridicità. Non credo nel colpo di fulmine, l’amore è per me un processo lento e faticoso e credo che ciò si riverserà anche in Absentia. Insomma, mi spiacerebbe che vi creaste aspettative e queste venissero deluse.

Infine -e poi la chiudo, lo giuro-, un paio di precisazioni che mi preme dare –per puntiglio a dire il vero, tanto so che sono palesi-:

-Le date ad inizio capitolo o quelle sparse in giro sono importanti. Ho basato la storia sullo scorrere del tempo, pertanto vedete le scene come missing moments sparsi qua e là.

-Le scene del passato, al momento, sono in ordine cronologico ma più avanti potrebbe capitare che vi siano sbalzi temporali –esempio stupido: nel capitolo 1 si parlano come se fossero marito e moglie e in quello dopo si comportano da perfetti estranei-, questo perché non ho voluto dare loro una linearità. Sono scene rievocate da determinate parole o azioni e proprio come succede nella vita reale, non seguono un filone logico. Quindi se vi parrà che abbia dato per scontato qualcosa... Abbiate fede!

Bom, posso chiudere qui la fiera delle banalità e passare ai ringraziamenti (aaaah, quanto adoro questa parte!): a Atomo, Shinushio, dylandogs e WhiteRose88 va tutta la mia più sincera gratitudine. Per me è stato un piacere immenso vedere che il prologo di Absentia abbia suscitato l’interesse di qualcuno. Credevo sarebbe stato ignorato ;.; Quindi grazie, ma grazie infinite.

Ringrazio anche chi ha aggiunto la storia fra le seguite/ricordate/preferite e chi legge in silenzio. Se qualcuno fosse interessato ad insultarmi sulla pubblica piazza, ho un account facebook -HeavenisinyourEyes Efp- dove riverso tutto il mio amore viscerale per il Kpop -e va bene, Sehun principalmente.-

 

Alla prossima!
HeavenIsInYourEyes.

 

 

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Capitolo 3
*** Insomnia ***


Absentia


 

Gli incontri più importanti sono già combinati dalle anime prima ancora che i corpi si vedano.
Generalmente essi avvengono quando arriviamo ad un limite.

Quando abbiamo bisogno di morire e rinascere emotivamente.” 
                                                                          -Paulo Coelho, Undici minuti-

 


 

Capitolo 2

Insomnia

(Quando Sehun non riesce a dormire e Lu Han gioca)


 

17 giugno 2013, ore 19.47

Seoul. Ristorante di Baozi

 

 

Sehun aveva sempre avuto un problema con i soldi: entravano nel portafogli alla velocità della luce e magicamente… Sparivano! Dove finissero, era mistero puro e semplice e Sehun aveva smesso da tempo di trovare una spiegazione logica. Certe cose erano come i miracoli: eventi arcani.

L’orticante questione finanziaria era iniziata da bambino, quando aveva scoperto che i rullini delle macchine fotografiche non erano infiniti e che una volta terminati andavano sostituiti con dei nuovi… Che costavano. E no, a quanto pareva i commessi non accettavano le banconote del Monopoli. Suo padre lo aveva assecondato fino a che aveva potuto, quando poi era cresciuto gli aveva rifilato un metaforico calcio nel culo e lo aveva gentilmente esortato –leggasi costretto- a trovarsi un lavoro che potesse soddisfare i suoi capricci. Avrebbe tanto voluto dirgli che la fotografia non era un capriccio, ma suo padre non era mai stato un grande ascoltatore.

-Guarda che se continui a strofinare, lo crepi quel tavolo.- Lay gli passò di fianco con un sorriso divertito sulle labbra ma Sehun replicò con l’arricciamento del naso. Quel giorno c’era poca gente e lui, come al solito, doveva tenere la mente impegnata.

Alzò la nuca, abbracciando con lo sguardo il piccolo locale illuminato da lampade di taglio cinese che creavano un atmosfera romantica, anche se lui l’avrebbe definita angosciante. Non gli era mai piaciuto il romanticume, le smancerie gli davano il voltastomaco. Forse era per questo che si era trovato bene con Jongin: non lo aveva mai sommerso di cazzate e putridume. I suoi Puoi restare se ti va, fuori è buio ed è pericoloso, erano sempre valsi più di mille baci, carezze e sguardi rubati.

Tornò a concentrarsi sul tavolo che stava lucidando da una manciata di minuti. Ora che ci pensava, Jongin lo aveva aiutato a trovare quel lavoro quando frequentavano l’ultimo anno di superiori.

Era una tiepida giornata di fine aprile, si avvicinavano i test finali e con loro l’inevitabile cambiamento da adolescente in piena crisi ormonale a studente universitario in piena crisi pre-esame. Jongin era la solita anima spensierata che viveva di Basta che esco da questa scuola, con quanto non importa, che gli aveva fatto comprendere come fossero differenti sotto ogni punto di vista. Lui lavorava per l’eccellenza, Jongin si accontentava di restare nella media. Ad ogni modo, in tutto quello c’era il fatto che Sehun non aveva soldi né per coltivare la propria passione, né per iscriversi ad un’università decente. Fu proprio quel giorno che nel mucchio di cazzate che gli aveva propinato per tutto il viaggio casa-scuola, ben consapevole della situazione economica tragica in cui versava, che Jongin se ne era uscito fuori con un blaterante C’è questo posto all’angolo tra la East road e la West che cerca camerieri per il fine settimana. Perché non provi? E così tra un No, il suo Un giorno mi ringrazierai!, un Non rompermi le palle, il sempre evergreen E’ permesso, signora Oh? e uno scocciato Ma non ce l’hai una casa tua?!, Sehun si era ritrovato a trascorrere il weekend al Park Baozi come addetto ai tavoli.

Il ristorante era piccolo, di vecchio stampo coreano e perennemente profumato di pasta appena cotta, la stessa fragranza che era stata solita accoglierlo in casa quando viveva con i suoi genitori. Forse era per questo che si sentiva protetto, quella sensazione di familiarità mitigava la sua inquietudine. Anche se la familiarità aveva assunto toni un po’ sbiaditi da quando Jongin non si recava più lì.

Già, perché da quando aveva cominciato a lavorare lì, Jongin non aveva mai smesso di presentarsi al ristorante reclamando la sua dose giornaliera di baozi. Aveva sempre odiato ritrovarselo fra i piedi senza un motivo apparente mentre lavorava, ma l’altro gli aveva vietato ogni tipo di lamentela: E’ grazie a me se ora hai un lavoro, mi devi un favore! E pur non avendolo mai ammesso, gliene era grato, così come in fondo era contento di saperlo lì per lui.

Se solo ci ripensava, Sehun non poteva non sorridere di pura malinconia e sollevando il capo poteva ancora scorgere lo spettro di quel ragazzo dalla pelle dorata che aveva colorato le sue grigie giornate.

Sedeva al tavolo numero 8 –sempre quello, anche se il perché non gli era mai stato chiaro- vicino alla finestra, con la visiera del cappello ruotata di lato e lo sguardo assorto rivolto ai passanti, l’unico istante in cui poteva cogliere l’essenza seria di quel demente. Sehun non aveva mai compreso il perché della sua costante presenza al Park quando era palese che si annoiasse, eppure Jongin non se ne andava, continuava a restare, a cercarlo con lo sguardo, sorridendogli in quel modo giocoso e anche un po’ infantile che gli trasmetteva spensieratezza. Come quando ordinava un succo d’arancia e pur di passare il tempo in qualche modo stupido, si ritrovava a soffiare nella cannuccia per far uscire le bolle. Sciocco, decisamente. E adorabile, assolutamente.

Non aveva voluto baozi gratis né altro, si era sempre accontentato di starsene seduto facendo finta di studiare, disturbandolo per ogni minuscola sciocchezza, strappandogli una risata quando un cliente un po’ troppo rompicoglioni gli aveva fatto esaurire ogni scorta extra di pazienza, attendendolo a fine serata per riaccompagnarlo a casa.

Jongin si era sempre accontentato di poco.

Forse era questa la causa di tutto. Forse quando si era accorto che quel che Sehun gli dava era troppo poco, aveva smesso di accontentarsi e si era inevitabilmente stancato di lui.

-Allora, come va?-

Al suono di quella domanda, Sehun alzò il capo con indolenza. Quel quesito cominciava ad odiarlo, al solo Come gli veniva l’orticaria mentre la voglia di azzannare l’interlocutore diveniva il suo unico pensiero. Oh, non pensiamo che Sehun fosse così asociale da schifare anche la più semplice educazione, eh. Semplicemente, da quando tutto era andato a rotoli la gente sembrava sempre più interessata alla sua sanità mentale ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Lu Han diceva che era colpa delle sue perenni sopracciglia aggrottate e il sorriso spezzato, peculiarità che costringevano il prossimo ad accertarsi che il loro gatto non fosse stato stirato da una macchina. Sehun -oltre a rammentargli che non avevano un gatto e mai lo avrebbero avuto, dato che i soldi per loro non bastavano, figurarsi per sfamare un altro animale- era convinto che gli esseri umani non riuscissero a farsi i fatti propri, dovevano sempre ficcanasare nella vita altrui, un po’ per rifuggire allo schifo in cui erano impantanati, un po’ per appurare che c’era chi stava peggio e sentirsi automaticamente meglio…

-Non hai una bella cera.-

E forse sì, forse era anche un po’ colpa sua.

Quando Sehun scrutò il sorriso placido di Lay, avvertì indistintamente le proprie sopracciglia dolere, quasi le avesse aggrottate troppo; perfino le labbra incurvate cominciarono a pesare. Era come se tutto il viso stesse per creparsi da un momento all’altro; un’immagine orribile che comportò anche l’arricciamento del naso. Fantastico, probabilmente sembrava un Picasso.

-Ieri sera non ho dormito.- se ne uscì con la prima giustificazione che passò di lì, convinto che la gente non fosse mai realmente interessata al suo stato d’animo. Faceva domande, ma solo per mera educazione.

Poi c’erano i casi eccezionali, poche anime pie che vivevano per comprendere il prossimo, aiutarlo e magari sanare le loro ferite. Lay, ora intento ad sciugarsi le mani sul grembiule, era una di quelle –Pensavo fosse passata l’insonnia- si scostò il ciuffo dalla fronte –Ricordo che con Kim dormivi semp—

-Non passa mai- lo interruppe brusco, portando lo straccio sulla spalla –Si ferma, ma poi ritorna.-

Lay annuì, si guardò attorno e poi riprese –Da quando?-

Sehun si irrigidì, conscio che quel Come va? aveva trascinato dietro sé il solito trito e desolante discorso che avrebbe finito col mettere alla berlina i suoi pensieri. Ma Lay attendeva paziente –Non dormo da quando sono ritornato a casa.- lo pronunciò con indifferenza, tanto era già in una pessima posizione.

A meno che il fondo del suo barile non avesse una botola, dubitava potesse cadere ancora più in basso.

Lay sospirò ma a dispetto di ogni sbuffo o orripilante previsione, si limitò a scuotere la nuca e sorridergli dolcemente –Ti va di staccare un attimo?- lanciò un’occhiata in direzione dell’orologio –La nostra pausa di dieci minuti è cominciata da un quarto d’ora.-

Sehun guardò il locale semivuoto, i pochi camerieri impegnati a servire i clienti e poi il tavolo che stava pulendo, talmente lucido che poteva specchiarcisi sopra. Una pausa poteva concedersela, anche perché la questione era tragica: se avesse detto di no, Lay gli avrebbe triturato le palle con il suo sguardo da cucciolo bastonato. Annuì e andò ad attenderlo nel loro Santuario: il retrobottega con i bidoni dell’immondizia e un paio di casse di Cass adibite a panca.

Faceva schifo, ma era talmente putrido che nessuno osava metterci piede.

Si lasciò cadere sulla cassa e subito le dita ossute andarono a giocherellare con un lembo del grembiule, cercando di eliminare una macchia di cioccolata che solo il Dio Johnny Depp sapeva come se la fosse procurata. Perché no, loro non vendevano cioccolata e sì, Johnny Depp era un Dio. Avrebbe ucciso chiunque avesse professato il contrario… Tipo Lu Han, che a quanto pareva si divertiva un mondo a confutare ogni suo credo. Ma Lu Han non faceva testo. Quello meritava la morte per talmente tante cose che ormai aveva perso il conto. Per non finire in galera però, si sarebbe limitato a nascondere il suo Zelda dorato -che valeva più del loro appartamento- giusto per farlo soffrire un po’.

Sehun avvertì gli occhi farsi pesanti, maledicendo la tempestività con cui Morfeo veniva a fargli visita -e la lentezza con cui Lay preparava un paio di tazze da the-, perché la notte quel maledetto non si presentava mai, ma chissà perché di giorno era sempre pronto a tenergli compagnia. Storse il naso; prendersela con Morfeo era ingiusto.

Il fatto era che dormire gli era sempre sembrato inutile, addirittura senza senso. Sehun faceva tutto solo perché c’era un motivo alla base e una meta da raggiungere. C’erano un inizio e una fine, nessuna interruzione. Lui non era portato per le interruzioni, davvero non sapeva come aggirarle, superarle, sconfiggerle e si bloccava alle loro soglie, indeciso se chiedere Permesso o buttarcisi a capofitto e vedere dove sarebbe potuto arrivare. Come in quel momento della sua vita: era talmente perduto nella propria storia interrotta da non riuscire a intravederne la fine e guardando indietro, si chiedeva perfino dove fosse finito l’inizio. Si chiedeva se ci fosse perfino stato un inizio.

Lo scalpiccio delle scarpe di Lay sul terreno lo aiutò a non cadere preda della propria scemenza. Yixing si sedette al suo fianco con leggerezza, gli porse il the e rimase in silenzio a fissare la propria tazza; dal modo in cui se la rigirava, doveva scottare parecchio. A Sehun parve sciocco soffermarsi su quell’insulso particolare, ma ormai viveva di particolari; erano gli unici che gli permettevano di non impazzire. Come quando si sedeva sul divano non riuscendo ad addormentarsi e studiava in religioso mutismo la sagoma di Lu Han semi illuminata dalla tele, intento a giocare a chissà quale stupido videogame. Osservava la delicatezza del suo profilo, ne tracciava i tratti nell’aria con l’indice, guardava le sue dita pigiare con velocità sul joystick - prima la X blu, poi il quadrato rosa, il triangolo verde, il cerchio rosso… Avrebbe potuto indovinare la mossa che stava compiendo solo dal tasto che aveva appena schiacciato-, si cibava dei suoi Vai a letto, è tardi, dei suoi sbuffi scocciati quando non veniva ascoltato, per poi porgergli il joystick e farlo giocare fino alla nausea, scaldandosi quando sbagliava. Erano sciocchezze ma al pensiero di perderne anche solo una, sentiva il respiro venire meno.

Non voleva più smettere di respirare, non voleva più. Gli era capitato molto tempo addietro ed era stata la sensazione più straziante che avesse mai dovuto sopportare.

Anche in quel momento, Sehun divorò ogni minuscolo dettaglio che Lay gli offriva senza nemmeno rendersene conto. Si chiese perché, ad esempio, se ne stava seduto su quella panca con regalità, nemmeno fosse un trono, con le gambe serrate e i pollici che carezzavano in movimenti circolari la fine porcellana. Risalì con lo sguardo, studiò le sue labbra sottili che abbracciavano il bordo della tazza, i suoi occhi chiusi, le minuscole fossette sulle guance che sbocciavano quando sorrideva, l’armoniosità della semplicità dei suoi gesti sempre calcolati, mai impulsivi o decisi.

Zhang era la quiete fatta ragazzo, Sehun lo aveva capito dal primo istante in cui si erano guardati e un timido sorriso aveva dipinto le labbra dello hyung, mentre lo sguardo si infrangeva sul pavimento. Sembrava che nessuna intemperia emozionale potesse scalfire la sua pace sempre integra. Criptico come pochi, lasciava trasparire raramente le proprie preoccupazioni e anzi, sembrava sempre incline a preferire quelle degli altri alle proprie, come se mettersi al secondo posto fosse cosa buona e giusta. Forse era per questo che si era iscritto alla facoltà di psicologia, per aiutare meglio i disagiati che come lui si ritrovavano a pulire lo stesso tavolo per venti minuti mentre evitavano di sollevare il capo convinti che il loro ex stesse facendo le bolle nell’aranciata lì, a pochi passi da loro. Lu han, che doveva sempre dire la propria con cattiveria gratuita, gli diceva che chi studiava psicologia lo faceva solo e unicamente per aiutare il proprio casino interiore…

-Hai provato a prendere qualcosa? Non ti fa bene non dormire.-

Ma Lay, ne era certo, era l’eccezione che confermava la sciocca regola di Lu Han.

Sehun inspirò il fumo del the verde, poi scosse la nuca con vigore -Non prendo più nulla. Quelle cose lobotomizzano il cervello- gesticolò con le mani, versando un po’ di the sul grembiule rosso a scacchi bianchi –Mi sdraio e cerco di dormire. Se non ci riesco, gioco con Lu Han.-

-Svegli Lu Han per giocare?- gli rivolse quella domanda con un pizzico di stupore, addirittura gli parve di scorgere una punta di risentimento mentre la voce andava alzandosi.

Avrebbe voluto dirgli che il suo coinquilino lo torturava in maniera peggiore e che questa non poteva nemmeno definirsi vendetta ma per amore della verità, Sehun si ritrovò a dissentire –No, è già sveglio. Io mi unisco a lui e basta- studiò il contenuto della propria tazza –E poi credo che tutto sia dovuto agli esami, comunque. Sono troppi e il tempo è poco.-

-Quindi stai sveglio per studiare?-

-Ormai mi riduco a fare tutto di notte- alzò le spalle –Almeno non penso.- lo aveva appena sussurrato, ma non abbastanza da non essere udito. Non dormire non aveva mai rappresentato un grosso problema, aveva ormai imparato a conviverci, ma da quando Jongin non alimentava le sue nottate, l’insonnia stava cominciando a diventare fastidiosa. Se non dormiva, pensava e pensare lo riduceva ad un ammasso di insicurezze indistricabili.

-Non pensi?- Lay corrugò la fronte.

-No, non penso- storse il naso quando il the verde, più amaro del solito, gli scivolò in gola; al Diavolo Lay e il suo vizio di dimenticarsi dello zucchero –Sono talmente concentrato sui libri che mi dimentico di tutto. Ma hai messo lo zucchero?! Questo coso fa schi--

-Ti dimentichi anche di Jongin?-

Sehun rabbrividì mentre le sopracciglia si aggrottavano. Possibile che anche a distanza di tempo, il cuore continuasse ad esplodergli udendo il suo nome? E poi perché quello veniva tirato fuori in ogni sacrosanto discorso? Cos’è, alla gente piaceva pronunciare il suo nome? Nh, ok, un po’ li capiva, del resto anche a lui era sempre piaciuto il suono della propria voce quando diceva Kim Jongin, la fluidità con cui scivolava sulle labbra, lasciandogli sul palato un retrogusto di affetto e imbarazzo. Da un po’ però aveva smesso di pronunciarlo; non era più così semplice come una volta.

-No. Tante cose- calciò un ciottolo –Tipo che tra poco devo pagare l’affitto, devo comprare le attrezzature per l’esame di luglio che non ho ancora cominciato, devo trovare un modo per bruciare tutta la collezione di Call of Duty di Lu Han, devo—

-Call of Duty è una gran bel gioco, non merita una fine così orrenda!- lo interruppe con una risata, piegandosi in avanti.

Un traballante sorriso si impossessò delle sue labbra ben celate dietro la tazza, anche se sapeva che il divertimento avrebbe macchiato la sua indifferenza –Già, ma Lu Han non è una gran bella persona. Meriterebbe di vedere la loro fine.-

-Oh, suvvia, sta facendo così tanto per te- Sehun non annuì né negò; non voleva pensare all’aiuto salvifico di quel mentecatto, non dopo tutto ciò che avevano passato –Non credo sia così malvagio come lo dipingi.- Lay si alzò e si pulì i jeans.

Sehun lo imitò –Solo perché non ci abiti assieme e non lo conosci bene.-

Lay recuperò le due tazze e sbuffò un rassegnato –Esagerato…- che sfumò sotto lo scalpiccio delle sue scarpe. Sehun si arrese all’amara evidenza: nessuno poteva credere che Lu faccia da cerbiatto Han potesse essere un tremendo frantuma palle –Hai proprio un modo strano di essergli riconoscente.-

-E lui ha un modo strano di essermi amico.- inclinò il capo mentre vedeva Lay fissarlo scettico, quasi non cogliesse il senso delle sue parole. La verità era che Sehun non voleva parlare di Lu Han forse più di quanto non volesse tirare in ballo l’argomento Jongin. Era un discorso troppo impervio e la sua incapacità di comprenderlo nonostante la loro datata amicizia, lo metteva in una posizione scomoda.

Lay scosse la nuca e alzò le mani in segno di resa; quando il silenzio faceva loro da padrone, capiva che era il momento di gettare la spugna. E poi Sehun non aveva voglia di ripescare stralci del suo passato, era stanco di scovare dettagli che non facevano altro che appesantire il suo presente monocolore.

Sehun, lo sai cosa vuol dire insonnia?- la voce pensosa di Lay lo ridestò; tamburellava le dita sotto il mento e fissava il cielo grigio.

-Mh?-

Lay aprì un poco la porta –Deriva dal latino insomnia e significa “mancanza di sogni”- gli rivolse un fugace sorriso prima di scappare dal Santuario –Magari è per questo che non dormi. Dovresti ritrovarli, lo sai? Almeno uno, il resto verrà da sé.-

Sehun rabbrividì. Il resto era il sonno, ma i sogni ormai erano un vago quanto lontano ricordo. Forse aveva dimenticato come si faceva, così come aveva scordato la sensazione di spaesamento che provava quando, svegliandosi di soprassalto, sapeva di aver sognato ma proprio non ricordava cosa.

Dove poteva cercarli, se il più importante se ne era andato via?

 

Sehun odiava essere in ritardo e amava essere invisibile. Due modi d’essere che non potevano coesistere, non nella sua esistenza.

Tenere lo sguardo basso mentre camminava era la sua priorità, seguita simultaneamente da quel laconico mantra che recitava “Santo TOP, fa che non incontri qualcuno che conosco; in cambio prometto che butterò via tutti i miei poster di Jaebeom a torso nudo”;  la musica lo accompagnava in questo suo rituale mentre saettava fra i passanti, la schiena curva come se la vita fosse troppo pesante da reggere. Sehun era sempre stato così, non lo era diventato a seguito di chissà quali indicibili traumi infantili.

Asociale sin da bambino, non era mai stato bravo a mescolarsi con i suoi coetanei; avevano sempre avuto il brutto vizio di bruciare le tappe e sua madre gli aveva insegnato che non doveva manomettere le lancette del tempo o avrebbe rischiato di perdersi. Ai giochi di gruppo nel cortile dell’asilo, aveva preferito starsene seduto in disparte a colorare sgorbi che aveva osannato come capolavori; aveva preferito raccogliere margherite da portare a sua madre piuttosto che alzare le gonne delle compagne, conscio che lì sotto non c’era assolutamente nulla di interessante; aveva scelto le serate nello sgabuzzino di casa adibito a camera oscura anziché partecipare a festini e vita mondana. La sua vita sociale non aveva mai brillato e se lo aveva fatto, era stato solo merito di Lu Han. Ancora si chiedeva quale pazienza interiore gli avesse permesso di stare con lui nonostante l’abissale differenza che li caratterizzava: Sehun avrebbe volentieri disintegrato il genere umano, Lu Han riusciva a renderselo amico senza sforzo alcuno.

Oh Sehun voleva solo eclissarsi e fino a quel giorno, tutti i corpi celesti lo avevano aiutato in questa sua decisione. Fino a che non aveva fotografato uno sconosciuto sulla linea 3. Fino a che non era sceso alla fermata sbagliata. Fino a che non si era ritrovato a correre a perdifiato pur di non mancare all’appello evitando così una probabile punizione, che solitamente consisteva nel fermarsi di più a scuola per pulire la classe… Con compagni stronzi che sporcavano più del solito di proposito.

Quando aveva varcato i cancelli della scuola, il silenzio del cortile vuoto lo aveva accolto con una fragorosa risata, quasi lo stesso deridendo per il suo essere uno sfigato di dimensioni colossali. Come se non bastasse, la 3 sezione B si trovava sulla cima dell’edificio e si poteva raggiungere solo dopo aver schivato il drago sputa fiamme –la bidella-, i troll di montagna –i bulli che si divertivano a ciondolare per i corridoi-, Ade in persona –il preside-, e le varie ed eventuali trappole posizionate qua e là –pavimenti bagnati-.

Si scapicollò mentre correva per i corridoi. L’insegna 3-B al quarto piano –gradini scalati rigorosamente tre a tre- brillò in lontananza e Sehun udì indistintamente la voce della prof di algebra –lei era il classico boss di fine livello, per intenderci- stridula ed incazzosa già di prima mattina.

Ok. Era lunedì, era in ritardo e alla prima ora aveva algebra... Che combo micidiale!

Si sistemò alla bene e meglio, dicendosi che quella divisa gialla stonava con il proprio malumore, rinunciò a dare un senso ai capelli scompigliati mentre la frangia era ormai un ammasso informe e appiccicoso e aprì la porta senza nemmeno curarsi di bussare, pregando che l’insegnante si lasciasse commuovere dai suoi occhi lucidi per la corsa, il fiatone, le labbra secche e il suo lagnoso –Mi scusi per il ritardo.- che in realtà non venne mai alla luce.

Il fiato pesante per la corsa si arrestò a metà strada fra i polmoni e la trachea, procurandogli una fitta lancinante al petto che lo costrinse a chiudere un occhio per lo sforzo di non accasciarsi a terra. Deglutì, avvertì la gola bruciare e la saliva faticare a scendere mentre la lingua andava ad inumidire il labbro inferiore ormai prosciugato. Boccheggiò, provò a parlare ma niente, le parole non vollero saperne di uscire. Eppure erano lì, le aveva sulla punta della lingua, gli pizzicavano il palato tanto era forte il desiderio di librarsi nell’ar-- No, alt, fermi tutti! Perché stavano tornado indietro, le maledette?!

Sehun sbatacchiò le palpebre, l’ansia prosciugò ogni rimasuglio di coraggio e lucidità. A renderlo più ameba di quanto già non fosse, non erano gli sguardi dei compagni puntati sulla sua figura rigida, non era il chiacchiericcio frivolo di un paio di ragazze che decantavano la sua straordinaria bellezza –per quanto uno appena tornato da una maratona possa rientrare nei canoni “straordinaria bellezza”- e non era neppure la scoccante affermazione della signora Choi, che se ne era uscita con un tediato –Vedo che ha deciso di degnarci della sua presenza, signorino Oh.-

No, no, niente di tutto quello. Il problema era ben peggiore.

Aveva grandi occhi scuri, capelli un po’ lunghi, lisci ed ordinati, labbra carnose e sguardo mite, divenuto tempestoso quando gli sguardi si erano inevitabilmente incrociati.

Per la seconda volta nell’arco di un’ora.

Lì, in piedi di fianco alla cattedra, lo sconosciuto dalla pelle olivastra svettava in tutta la sua armoniosa bellezza, come monito della sua enorme coglionaggine. Nessun accenno di rabbia solcò i suoi tratti delicati, lo stupore era sfumato nel giro di una deglutizione e Sehun sperò che non si ricordasse del flash che aveva inondato l’abitacolo per un microsecondo. Del resto non era mai stato un tipo che rimaneva impresso alla gente; era il classico soggetto di cui ci si dimenticava subito, quello che si presentava e subito il suo nome finiva nel dimenticatoio.

Oh Sehun era l’inutilità fatta uomo.

La donna richiamò l’attenzione della classe con un ruggito e Sehun si ritrovò a vacillare sul posto -Ho-Ho perso la metro.- inventò sul momento, vedendo il ragazzo trattenere a stento una risata. No, ok, quello si ricordava di lui.

Che. Sfigato. Colossale.

-Si vada a sedere- ordinò la donna senza nemmeno accennare ad un’eventuale punizione; magari il fatto che avesse una buona media nella sua materia, era un incentivo a guadagnarsi la sua stima –Dopo le lezioni può fermarsi qui per pulire la classe. Direi che come punizione è più che sufficiente.- si afflosciò sulla sedia, la testa cadde in picchiata sul tavolo. Della presentazione dello sconosciuto, Sehun non seguì nemmeno mezza sillaba. Era troppo impegnato a crogiolarsi nella disperazione, angosciato dal fatto che quello avrebbe potuto sfruttare la sua figuraccia a proprio piacimento, magari per accaparrarsi l’amicizia di tutti quei compagni infidi che sempre lo aveva evitato per ogni suo grammo di stranezza.

Poteva andare peggio di così?

-Può sedersi là, dietro il nostro ritardatario.-

Sehun sollevò il capo di scatto, gli occhi larghi mentre vedeva l’anonimo incamminarsi con placidità, un sorriso sornione ancora dipinto sulle labbra. Avvertì una leggera brezza sfiorargli il braccio quando gli fu accanto e una volta seduto, ma forse fu solo frutto della sua immaginazione, udì un sussurro che lo costrinse a morire ancora un po’ su quel banco…

 

Spero almeno di essere uscito bene.

Oggi ho delle occhiaie spaventose.-

Sì, decisamente poteva andare peggio…

 

Qualcuno qui sta pensando troppo.-

Una mano gelida sul collo lo fece rinsavire. Sentiva il volto andargli in fiamme mentre il cuore pompava più del dovuto. Doveva smetterla di farsi del male, sul serio. Si voltò di scatto, raggelando con lo sguardo quel demente che aveva osato mettere in pausa i suoi ricordi, sprofondando nelle iridi scure di Lu Han, comparso dal nulla come un maledetto Pokémon selvatico.

-Che ci fai qui?- gli rivolse quella domanda con noia, un pizzico di irritazione nel venir disturbato anche mentre lavorava. Studiò il suo volto dai tratti delicati, cercandovi qualche traccia di presa per il culo; non era da Lu Han piombare al Park Baozi, non da solo almeno. Solitamente si faceva scortare da quel santo ragazzo che era Min-seok, l’unico sulla faccia della terra capace di sopportare quel rompipalle; guardò oltre la sua chioma rosso rame, ma di Xiumin nemmeno l’ombra.

-Perché la gente viene al ristorante, Sehun-na?- lo incalzò il ragazzo.

-La gente normale viene qui per mangiare- braccia incrociate, lo fulminò con lo sguardo –Tu, vieni qui solo per rompermi le palle.-

-Non dovresti essere così sgarbato con un cliente- lo ammonì –Diglielo anche tu, Yixing.-

Lu Han sporse il labbro inferiore e Lay capitolò -Sehun—

-Che ci fai qui?- lo interruppe, scompigliandosi i capelli di un improponibile color canarino. Sì, proprio così, canarino. Non platino, non biondo, non color del grano… Canarino. Sarebbe stato meno umiliante se avesse raccontato che quello stronzo di Lu Han gli aveva colorato i capelli nel sonno ma la triste realtà era che lui stesso si era recato al negozio sotto casa per comprare la tinta. Lay gli aveva detto che se voleva dare un taglio drastico al passato, doveva partire da piccoli ma significativi cambiamenti. Probabilmente era drogato quando aveva deciso di dargli ascolto –Non dovevi studiare per l’esame?-

-Ho studiato. Poi mi sono stufato e sono andato a comprare qualche gioco e per caso sono capitato qui - sottolineò quel per caso con troppa enfasi –Allora, mi dai qualcosa da mangiare o devo aspettare che Max Payne irrompa qui dentro e minacci i cuochi?-

Lay li fissò e Sehun alzò subito bandiera bianca -Servilo tu.-

Lay era l’unico lì dentro capace di non perdere le staffe di fronte alla faccia da schiaffi di Lu Han. Che ok, in quel momento era entrato nella modalità Mi mostro tenero come un agnellino così la gente non sospetterà quanto in realtà io stronzo sia, ma Sehun aveva ormai ben compreso come dietro quel sorriso dolciastro si nascondesse altro.

Che il suo essere capitato lì, per caso, e che sempre per caso avesse deciso di mangiare dei Baozi, non era poi così casuale.

Lu Han grugnì ma desistette, forse a testimonianza del suo essere venuto lì in buona fede. Fu nell’arco di un Ti prendo il menù e un acido Scordati i miei manga di Evangelion d’ora in poi, che Sehun precipitò nello sconforto più totale. Lu Han si stava accomodando al tavolo numero 8, quello stesso tavolo che aveva fissato per tutta la giornata e al quale poteva ancora scorgere seduto Jongin, dai tratti intermittenti. Sehun reagì d’istinto, avvertendo un dolore lancinante a livello dello sterno; subito la sua mano andò ad afferrargli il polso, il volto in procinto di incrinarsi in una maschera di angoscia –Puoi non sederti lì?- gli uscì in un flebile sussurro, reso ancora più lacerante dal pallore che gli aveva colorato il volto.

Lu Han arcuò finemente un sopracciglio, le labbra nascoste dietro il foulard nero a scacchi –Come?-

-Non sederti lì. Non--  Sehun deglutì, inumidì le labbra, si guardò attorno sopraffatto da un senso di ansia ed inquietudine. Gli capitava sempre quando qualcuno provava a sedersi a quel tavolo. Era come vedere lo spettro di Jongin sbiadire, sfumare fino alla sua eterna cancellazione e sapere che qualcun altro prendeva il suo posto, gli faceva comprendere come tutto di lui fosse destinato a divenire il nulla.

Il fatto che fosse così facilmente rimpiazzabile, andava ad intaccare l’indispensabilità a cui si era sempre aggrappato e che lo aveva reso l’orbita del suo piccolo, monotono universo.

Gli altri erano satelliti che potevano venir risucchiati in un enorme buco nero, Jongin era il Sole.

-Ehy, ma che ti prende?- Yixing gli pose una mano sulla spalla, l’espressione mite –Vuoi andare a riposarti? Vuoi—

-Che palle…- masticò Lu Han facendo ondeggiare il sacchetto –Dovrebbero bruciarlo quel tavolo…- si afflosciò al quello adiacente e pose i videogiochi con cura sulla superficie di mogano; Sehun si chiese perché riponesse tante attenzioni nei confronti di un paio di cd mentre con le persone si comportava da sociopatico -Qui va bene?- indicò il tavolo con gli indici, mettendosi poi a braccia conserte mentre si sistemava sulla sedia. Sehun annuì, deglutendo un grazie che non volle saperne di uscire -Cos’è quella faccia, si può sapere? Piantala di essere malfidente.-

Sehun avvertì le guance imporporarsi di imbarazzo; l’espressione torva di Lu Han deformava i suoi lineamenti efebici, lo sguardo posato sui fiori al centro del tavolo avrebbe rischiato di mandare a fuoco il locale tanto era ardente. Fu solo sotto il sospiro esasperato di Lay, spettatore scomodo, che realizzò quanto lì l’idiota di dimensioni bibliche fosse lui, non Lu Han.

-Perché sei qui?- lo domandò con curiosità, annaspando nella propria incapacità di saper gestire anche il più sciocco discorso.

Lu Han si mosse impercettibilmente, un paio di gesti secchi che tradirono la sua sicurezza impostata. Da tempo non palpava il suo disagio, come se si fosse pentito di essere passato a trovarlo. Solo dopo qualche secondo lo hyung decise di degnarlo di una risposta -Pensavo ti facesse piacere tornare a casa assieme- alzò le spalle -Ma ora non ne sono più sicuro.-

-Pensavi male.- borbottò flebilmente, stropicciando il grembiule a scacchi.

Lay si intrufolò fra i suoi mormorii sconnessi e dopo aver scosso la testa si limitò ad un blando –Basterebbe un grazie, lo sai?- che lo colpì in pieno petto. Lui dire grazie… A Lu Han?! Non lo avrebbe fatto né ora né mai. Cosa stava facendo per lui, a parte rovinargli l’esistenza? Certo, lo aveva accolto in casa –quando avrebbe meritato un biglietto di sola andata per il paese di Fanculandia-. E lo faceva distrarre portandolo a prendere il the –anche se dimenticava sempre il portafogli e toccava a lui sborsare i soldi-, lo faceva giocare alla play –anche se gli strappava il joystick di mano perché era un impedito cronico-, non si sedeva al tavolo 8 evitando di porre imbarazzanti domande che avrebbero comportato viaggi nei labirinti della sua mente.

Cercava di farlo vivere. E i risultati erano quel che erano, ma almeno ci provava. Si sforzava, a differenza sua, cercava di dare un senso a ciò che ormai era privo di significato. E quell’aria di familiarità andata sbiadendo, parve riassumere connotazioni ben nitide.

Sehun studiò la figura di Lu Han, chiusa in un mutismo che non gli apparteneva. Sembrava essersi davvero offeso per la sua reazione gentile come quella di un sonagli a cui hanno calpestato la coda e un vago senso di colpa si intrufolò nella sua coscienza ricoperta di polvere.

Lay lo perforò con lo sguardo, poi si rivolse pacatamente allo hyung –Allora, cosa prendi?-

Lu Han picchiettò le dita fini sulla guancia mentre le altre giocherellavano con il numerino di legno -Un piatto di Xiumin.- asserì atono, lo sguardo ora rivolto in direzione della finestra. Sehun deglutì a quella visione, chiedendosi cosa stesse passando nella testa dell’amico in quel preciso istante. Dubitava che nella sua scatola cranica albergasse un buco nero, a differenza di quella di Jongin, ma era pur vero che addentrarsi nei pensieri di Lu Han era come giocare alla Roulette russa.

Lay fissò Lu Han con un sopracciglio arcuato e Sehun, incapace di reprimere un sorriso, si ritrovò a fargli da interprete –Un piatto di baozi- studiò l’amico, immobile e apparentemente indifferente –Mettili sul mio conto.-

Lay li fissò scettico ma decise di non commentare la loro ennesima stranezza. Si limitò ad annuire e ad allontanarsi, anche se un accenno di sorriso aveva fatto capolino in mezzo al disappunto, come se avesse colto ciò che stava dietro l’apparenza di quel banale gesto.

Perché Sehun non gli avrebbe detto grazie
 

-Sehun?- si voltò, richiamato dalla tiepidezza dell’amico; ne studiò il profilo delicato rivolto verso la finestra, il palmo aperto a coprirgli le labbra sottili. Gli parve di veder le sue guance sollevarsi, come se stesse sorridendo o almeno, a Sehun piacque immaginarsi ciò.

-Nh?-
 

Gli avrebbe offerto solo dei baozi…
 

-Prego.-

 

Tanto Lu Han avrebbe capito.

 

*******

 

22 giugno 2013, ore 03:48

Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han.


 

Quando Sehun guardò la sveglia sul comodino, le 3:48 erano appena scoccate.

Un mugugno di stizza inondò la quiete della camera, scalfita dal solo ululare del vento che quella notte faceva più casino del solito. Gli sarebbe piaciuto dare la colpa a quel maledetto per la sua incapacità di prendere sonno ma la verità era che proprio non voleva saperne di addormentarsi. Oh, certo, lui avrebbe voluto crogiolarsi in un torpore privo di sogni, ma il suo cervello continuava a restare connesso.

Era in perenne movimento, continuava ad acchiappare pensieri e parole, mescolandole tra loro e lo costringeva a pensare. I protagonisti, le scene e le battute erano ormai così consumate che molti dettagli del copione cominciavano ad essere illeggibili, addirittura tediosi. Si chiedeva se davvero, in quel determinato momento, lui avesse riposto sì, no o non lo so, se davvero Jongin si era versato del caffè o aveva spento i fornelli, se davvero la location era stata la cucina e non il soggiorno. E inevitabilmente si chiedeva cosa sarebbe potuto accadere se fosse tornato indietro e avesse modificato le proprie azioni, parole, pensieri. Allora cominciava ad inventare situazioni probabili che avrebbe potuto vivere, costruiva palcoscenici in cui era l’indiscusso burattinaio e le marionette si muovevano a suo piacimento e solo lui decideva quando era giunto il momento di recidere i fili e farle uscire di scena.

Se fosse stato migliore di quel che era, forse a quell’ora non sarebbe fra quelle quattro mura ma in un appartamentino di periferia vicino alla ferrovia, dove il treno passava ogni mezzora facendo tremare le pareti e le finestre ed era impossibile riuscire a dormire, eppure non ricordava di aver passato nemmeno una notte sveglio.

Probabilmente se avesse detto molti più no che , non sarebbe sotto le sue coperte con stampe a fumetti ma avvolto da quelle bianco candido che creavano un piacevole contrasto con la pelle ambrata di Kim, anche se molte volte era stato proprio il suo corpo a fargli da lenzuolo.

Si sollevò a sedere, osservando la stampa di Batman che prendeva a pugni il Joker capitato lì per caso. Massaggiò gli occhi pesanti e come richiamato da un grido in lontananza, si affacciò nella triste realtà delle proprie nottate insonni. Rabbrividì quando i piedi si scontrarono con il pavimento gelido e sulle punte si addentrò per il corridoio, seguendo la fioca luce che poteva intravedere dal soggiorno.

Fece capolino senza farsi notare, rimirando la sagoma di Lu Han scarsamente illuminata dal televisore. Poggiava mollemente la guancia sul palmo della mano mentre le dita dell’altra tamburellavano sul joystick, impaziente che il video terminasse per tornare così a giocare. Sehun non glielo avrebbe mai detto, ma adorava vederlo sollazzarsi davanti alla play o accompagnarlo ad acquistare qualche nuovo videogioco.

A pochi metri dal negozio in centro cominciava ad accelerare il passo, le mani che si sfregavano per poi andare a stringere il laccio della borsa a tracolla mentre gli intimava di non rallentare; Sehun faticava a stargli dietro ma non fiatava, anche perché Lu Han non lo faceva parlare tanto era perso ad elencare la sfilza di giochi che avrebbe potuto comprare, per poi uscirsene sempre con quei due o tre usati o scontati. Sembrava ritornare in vita quando si addentravano in quel mondo a lui ignoto e poco interessante, si animava mentre scorreva fra le mensole colme di giochi, si perdeva tra trame che sembravano identiche ma che lui descriva con minuzia, trovandone pregi e difetti, acquistava un entusiasmo che raramente intaccava la sua impassibilità.

Quando Lu Han giocava era di una bellezza assurda.

Ma anche questo, Sehun non glielo avrebbe mai detto. C’erano cose che era meglio tacere, altre dimenticare. Quando si trattava di Lu Han, era meglio nasconderle.

-Smettila di camminare in punta di piedi, tanto ti sento lo stesso.- il suo rimprovero giunse monocorde, seguito da uno sbuffo per il video che sembrava durare più del previsto.

 Sehun smise di sollevarsi e abbassarsi sui talloni, le braccia conserte –Come fai sempre a sentirmi, si può sapere?-

-Quando pensi fai rumore- mormorò alzando le spalle -Fai più casino del branco di gnu che ha ucciso Mufasa.-

Sehun si massaggiò le tempie -Non nominarlo, lo sai che la ferita è ancora fresca.-

-Non avrei dovuto lasciartelo guardare ieri sera- Sehun ridacchiò un poco, divertito dalla loro strabiliante capacità di infilarsi in discorsi insensati capaci di fargli dimenticare le sua paturnie, anche se solo per poco –Brutti sogni?- Lu Han si sfregò le mani quando fu tornato in possesso del personaggio. Era vestito con un’armatura in latta e reggeva un bazooka più grande di lui. L’ennesimo sparatutto privo di trama logica, il cui unico scopo era quello di creare una carneficina per il semplice gusto dello splatter.

Sehun si grattò la nuca; che fossero belli o brutti, ormai di sogni non ne aveva più -Nemmeno uno- si acciambellò sulla poltrona –Posso restare un po’ qui?- indicò la tele con un cenno del capo –Magari mi annoierò così tanto che riuscirò a prendere sonno.-

-Basta che non commenti ogni tre secondi come tuo solito- Lu Han passò la lingua sul labbro inferiore e riprese ad ignorarlo. Sehun poggiò la nuca contro lo schienale e osservò L’uomo di latta aggirarsi fra i detriti di una cittadina abbandonata caduta ormai in rovina, sobbalzando di tanto in tanto quando qualche Bruto supermutante compariva random. Possibile che non ci fosse mai qualche gioco in cui bisognava cavalcare pony arcobaleno in un mondo fatato, invece di questi scenari post-apocalittici che gli facevano montare l’ansia? Quale mente malata si sarebbe divertita nello sbudellare innocenti predatori o strani orsi giganti che cercavano di azzannarli? Ma del resto, constatò, Lu Han non era mai stato normale.

-Vuoi giocare un po’?- la voce tediata di Lu Han si mescolò al vociare concitato di un paio di personaggi che stavano interagendo con il protagonista.

Sehun mise i piedi a terra e soppesò l’eventualità di morire fra imprecazioni colorite per il suo essere una pippa assurda –Che gioco è?- dilatò il tempo, sperando che Lu Han non alzasse subito bandiera bianca. Mai giocare con la sua magnanimità.

-Fallout 3…- Lu Han sventolò il joystick –E’ bello.-

A parte che avevano due concezioni di bello nettamente differenti –e quando se ne usciva fuori con certe cazzate, non poteva che dirsi quanto il cervello dell’amico fosse ormai bollito-, Sehun non era poi così portato per gli spara-spara dove l’impulsività e la tecnica facevano da padrone. Lui era per i giochi di logica, quelli dove bisognava stare in silenzio ad analizzare la situazione e poi risolvere gli enigmi. Lui era per i punta e clicca, in parole povere. Meno dinamici, più tranquilli, che lo costringevano ad aguzzare la vista e l’ingegno se voleva scorgere particolari che lo avrebbero portato avanti nella storia. Altrimenti si sarebbe infognato in un vicolo cieco da cui era impossibile sfuggire, sarebbe dovuto andare a ritroso e trovare l’indizio mancante che bloccava tutto il resto.

A meno che non avesse scelto il tasto reset.

Fu sotto lo sguardo incitate dell’amico che realizzò quanto gli sarebbe piaciuto avere il tasto reset anche nella vita. Avrebbe lasciato che le sue memorie scorressero davanti i suoi occhi come immagini su pellicola proiettate sul muro di camera propria, avrebbe messo in pausa e si sarebbe chiesto se tutto ciò fosse valso a qualcosa, se sarebbe potuto sopravvivere anche senza il ricordo del sorriso di Jongin o della risata spastica di Lu Han, degli occhi colmi di amore di sua madre e dei sorrisi stanchi ma mai forzati di suo padre. Avrebbe lasciato ancora scorrere, avrebbe premuto Stop e avrebbe cancellato ciò che non andava.

Sarebbe stato bello se avesse potuto sovrascrivere le reminiscenze di Jongin con un film migliore.

Scosse la nuca e si concentrò sull’amico -Di cosa parla?-

Lu Han sparò ad un tizio -C’è stata la guerra atomica e tu vivi sottoterra insieme a psicopatici che dicono che non potrai mai uscire, che sei nato e morirai dentro al vault 101- un sospiro annunciò il racconto della trama, Sehun poteva scorgere i suoi occhi brillare anche nella penombra –Tuo padre è scappato e tu devi cercarlo. Sei solo in un mondo di cui hai solo sentito parlare, che ti è stato descritto come un incubo, armato di una sola pistola e cinque fottute munizioni perché hai deciso di giocare in modalità Dio anziché normale.-

-Meglio una pistola che a mani vuote- soppesò storcendo il naso alla vista di un povero Rattotalpa appena spappolato. Sehun si alzò, lisciò i pantaloncini e sempre in punta di piedi andò a sedersi al suo fianco –Ma perché sei andato a cercarlo? Non era meglio startene a casa?-

Lu Han non rispose subito alla sua sciocca domanda ma quando lo fece, una nota di irritazione lambì la sua voce –Ehi, lamentati con i programmatori!- un colpo di pistola seguì le sue parole, poi continuò –E poi… Non andresti a cercare anche tu l’unica cosa importante che ti è rimasta, se andasse via senza darti spiegazioni?- Sehun a quelle parole rabbrividì, non capendo se l’amico stesse parlando del gioco o della sua inguaribile situazione.

Il discorso stava prendendo una piega che non gli piaceva e pur di non dover affrontare paranoie incontrastabili, si ritrovò gomito a gomito con Lu Han, il joystick fra le mani e i consigli dell’amico a pochi centimetri dal proprio orecchio. La sua voce era pacata ma poteva scorgere una nota di orgoglio per averlo convinto a partecipare al massacro di innocenti Rattitalpa. Non seppe spiegarsi come e perché, ma Sehun si era ritrovato a premere su quei tasti con fin troppo trasporto, facendo continue domande all’amico affinché la trama potesse diventare un po’ più chiara.

E più procedeva a tentoni, più quel gioco diveniva uno stralcio di vita rivissuto e calpestato troppo spesso.

-Ma hai trovato tuo padre, alla fine?-

-Aha.-

-E dov’è?- girò l’angolo di una metropolitana abbandonata e un Ghoul feroce corse verso di lui. Gli pianse il cuore quando dovette sparargli; quel mucchietto d’ossa era tenero, se si toglievano i suoi lamenti e le unghie infilzanti.

Lu Han stese le braccia dietro la schiena e si allungò, sbadigliando sonoramente –E’ morto per salvarti- Sehun lo guardò allucinato; ma nemmeno Bambi era così tragico! –Ora stai andando ad uccidere i suoi assassini.-

-Ma è senza senso!- sbraitò agitando le mani –Non era tutto ciò che ti rimaneva?-

Lu Han alzò le spalle –Era… Poi il gioco deve continuare, la vita va avanti eccetera, eccetera…- si mise a gambe incrociate, le dita che si torturavano mentre lo sguardo si perdeva sul mucchio di Ghoul appena schiantatisi al suolo. E le sue parole, un pugno in pieno petto –Sehun, ormai lui non è più la tua unica ragione di vita.-

 

La quiete della biblioteca della scuola aveva il potere di rilassarlo. Sehun si trovava a proprio agio, immerso nel silenzio. Nessuna parola a frustrarlo, nessuna conversazione futile che avrebbe rischiato di annoiarlo. Solo lui, i suoi libri e il suo mondo, dove pochi eletti potevano entrare a farne parte. La selezione era dura, non lasciava prigionieri e mieteva vittime.

Forse era per questo che nessuno decideva di albergarvici. Era futile sprecare energie per qualcosa di così poco interessante.

Sehun stese le gambe sotto il lungo tavolo mentre fra le dita continuava a rigirarsi la fotografia scattata quel mattino. Quante possibilità aveva di ritrovare nella propria classe il soggetto dei suoi istinti maniaci? Possibilità altamente improbabile. Ma siccome era uno sfigato colossale, era ovvio che il nuovo arrivato appena trasferitosi fosse proprio colui che aveva catturato la sua attenzione. E giusto perché non c’era mai fine al peggio, fu ovvio che se lo sarebbe ritrovato anche in classe.

Avrebbe dovuto pensarci subito invece di fare lo stoccafisso davanti all’intera classe.

Appoggiò la polaroid sul libro di storia pieno di appunti scarabocchiati, deglutendo una sonora imprecazione che avrebbe fatto crollare le pareti. Doveva scusarsi con quel ragazzo non appena fosse stato possibile. Magari prima, però, avrebbe accampato una scusa plausibile che potesse dare un senso al suo gesto. Di certo non poteva dirgli “Lo sai? Non ho mai visto un ragazzo più bello di te! Così ho deciso di farti una foto!”, non poteva. Sarebbe dovuto migrare in un altro stato se solo lo avesse fatto.

Ma ancora peggio, in tutto quel casino, era che non sapeva cosa aspettarsi da quello. Aveva avvertito per tutto il tempo il suo sguardo sulla propria nuca castana, aveva temuto che da un momento all’altro gli perforasse il collo con una matita ben appuntita o che nel bel mezzo della lezione di inglese si alzasse in piedi e urlasse “Posso cambiare banco? Non voglio un maniaco davanti a me”. Invece non si era scomposto, lo aveva ignorato, aveva adoperato un sangue freddo che Sehun aveva smarrito sulla linea 3.

Si era reso invisibile ai suoi occhi, proprio come lui stava cercando di fare senza successo alcuno.

Un passo intaccò la sua quiete e quando Sehun guardò dritto davanti a sé, quel maglione blu scuro riportò a galla l’ansia che credeva di aver perduto dopo essersi volatilizzato dall’aula. Un paio di occhi allungati scalfirono la sua pace interiore e Sehun credette di star per morire. La morte si era avvicinata armata di sorrisetto beffardo, mani in tasca, auricolari penzolanti lungo il collo e zaino calato su di una spalla. Si era fermata e lo aveva squadrato.

Lo ammetteva, la morte era di una bellezza spaventosa, ma per quel giorno era stanco di ritrovarsene faccia a faccia perdendo ogni facoltà mentale.

-Fotografi tutti quelli che incontri o sono stato solo fortunato?- la domanda era veleggiata seria nell’aria, con una nota di divertimento misto ad irritazione. Un connubio così contrastante che Sehun si chiese come potesse rimettere così tante emozioni in un sciocco quesito.

Eppure, incrociando la sua figura slanciata, non gli parve arrabbiato per l’accaduto. Confuso forse, decisamente impaziente di avere una risposta che soddisfacesse i suoi dubbi e perché no?, forse che potesse gonfiare il suo ego. Ma non arrabbiato… E questo, per motivi a lui ignoti, lo rincuorò.

Sehun chiuse il libro di scatto, celando l’arma del delitto.

-Ho premuto per sbaglio, non volevo.-

Il petto di Jongin andò sgonfiandosi lentamente mentre le labbra si incurvarono di disapprovazione -Per sbaglio…-

-Sì, per sbaglio!- le gambe sotto il tavolo traballarono –Non crederai mica che faccio foto ad estranei. Non sono un maniaco!- e davvero, lui non lo era! Anche se quella mattina si era ricreduto, lo ammise ad un recalcitrante sé stesso.

Jongin inclinò il volto, assottigliò gli occhi e si allungò con fluidità, strappandogli il libro da sotto le mani con velocità; Sehun ci mise un po’ per realizzare ciò che stava accadendo e quando lo vide sfogliare le pagine con malagrazia, un seccato –Cosa stai facendo?!- si sparse nell’aria, colorandogli le guance di porpora. Perché non si limitava ad ucciderlo e poneva fine alla sua triste esistenza?

-Cercavo questa- la sventolò, brandendola come un tesoro appena trovato -Non ti dispiace se mi tengo il tuo “sbaglio”, vero?- domandò poco dopo, gettando il quaderno sul tavolo. Sehun lo guardò allucinato, chiedendosi perché quest’acqua cheta stesse agitandosi improvvisamente. Gli aveva dato l’impressione di un ragazzo placido, invece si stava rivelando uno scassa palle che nemmeno Lu Han.

-Come ti pare- si afflosciò sulla sedia –Tanto non me ne farei nulla.-

Il ragazzo annuì e mentre un sorriso spuntava sulle sue labbra, si lasciò cadere pesantemente sulla sedia davanti a lui. E ora perché non se ne andava?! Quanto ancora sarebbe durato quel supplizio? E perché sorrideva? C’era qualcosa che non andava in quello.

Peròòò, sono uscito proprio bene! Tu non trovi…- il sorriso si spense, l’indice andò a grattare una tempia mentre le sopracciglia si aggrottavano. Quando pensava, quel tipo sembrava divenire più scemo di quanto non fosse. Ma come Diavolo si chiamava?! -Ahm, uhm…-

-Oh Sehun.- il proprio nome risuonò cavernoso, ovattato dalla mano che andò a riparare le labbra ora serrate mentre lo sguardo si scostava da quello del ragazzo, largo e incuriosito. Sehun odiava pronunciare il proprio nome, a dire il vero odiava pronunciare tutte le parole che cominciavano per S e che lui, inevitabilmente, emetteva con un agghiacciante “TH” che spesso aveva suscitato l’ilarità della gente. Come se non avessero mai udito un difetto di pronuncia, quei bifolchi patentati.

Ed eccola lì, quella risata che mai giunse. Ci fu silenzio, il suo scuotere la nuca e poi sorridergli –Ah, già, è vero- giocherellò con una ciocca –Scusami, non sono granché bravo a ricordare i nomi- ridacchiò –E nemmeno i compleanni, gli appuntamenti, l’algebra.-

-Nemmeno io.- mormorò spaesato, chiedendosi perché quel ragazzo continuasse a mantenere vivida la conversazione. Sarebbe dovuto essere un’anima di passaggio che aveva sfiorato la sua attenzione per puro caso, invece si ostinava a sostare.

-Stamattina mi sono perso tre volte- ridacchiò scioccamente –Non sono bravo nemmeno con le strade.- il suo sorriso bianco si allargò e Sehun non poté non sorridere di rimando. Aveva qualcosa di contagioso, quello sconosciuto, come se per un istante il mondo avesse trovato la sua giusta collocazione. Era la linea 3, era la Terza sezione B, era la biblioteca fiocamente illuminata e colma di scaffali ripieni di libri e genete china sui tavoli.

Gli parve strano trovarsi a proprio agio nell’arco di così poco tempo con qualcuno che non fosse Lu Han, ma qualcosa gli diceva di diffidare da quel ragazzo dalla pelle dorata e lo sguardo perforante.

Non resse al loro silenzio, si ritrovò a parlare -Ti sei trasferito da molto?-

-Sono qui da una settimana. E’ bello qui.-

-Se ti piace l’Inferno.-

L'altro rise un poco –Mia mamma ha sempre detto che è come il Paradiso- vide i suoi occhi brillare quando la parola “mamma” scivolò dalle sue labbra carnose –Vedremo chi ha ragione- lo vide guardare l’orologio sul polso –Ora devo andare o rischio di fare tardi.- si alzò e aggiustò il cappellino. Lo vide sventolare le dita in segno di saluto e dargli le spalle senza attendere un cenno, la fotografia stretta nella sua mano.

Mentre fissava il modo buffo con cui portava lo zaino sulle spalle, quasi fosse un teppista da strada che cercava di andare contro il sistema, Sehun si disse che non sapeva ancora il suo nome. Pazienza, tanto lo avrebbe rivisto in classe.

Passi veloci catturarono nuovamente la sua attenzione ora rivolta alle pagine del libro. Corrugò la fronte quando vide il ragazzo davanti a sé, una mano a massaggiarsi il collo e l’altra che stringeva la foto.

-Hai dimenticato qualcosa?-

Annuì, impacciato rispetto alla spavalderia con cui si era presentato –Questo.-

Si chinò, rubò una penna dal suo astuccio senza fare troppi complimenti e scribacchiò qualcosa sul retro della foto. Sehun, palmo aperto sulle labbra, lo squadrò –Che stai facendo?-

-Do un nome al tuo capolavoro.-

-Non credi di star esagerando?-

-Oh, il capolavoro sono io, che avevi capito?- gliela porse con un sorriso un po’ infantile, gli diede le spalle e mani intrecciate sulla nuca si dileguò lasciandolo con un sussurro appena accennato che lo lasciò interdetto.

E non lo comprese, non subito almeno.

Gli ci sarebbero voluti mesi, anni, per scoprire che mai sarebbe riuscito a capire Jongin. Era come trovarsi di fronte ad un puzzle di solo cielo, una sfida troppo difficile per uno che scappava alla prima difficoltà. E anche ripensandoci, di quel loro primo e vero incontro non è che ricordasse granché, a dirla tutta. Erano solo dettagli, sfumature che avevano assunto tonalità diverse man mano che tentava di riprendere in mano quel momento.

Era così quando maneggiava i ricordi, finivano con lo sbiadire, distorcendosi.

Ma c’erano cose che per quanto si ostinasse a rimuoverle, continuavano a restare indelebili.

Di quel giorno, Sehun ricordava passi rumorosi che avevano attraversato il silenzio della sua quiete e il sorriso che aveva tremato sulle proprie labbra prima di aprirsi, mentre lo sguardo si infrangeva su di una schiena larga e un po’ ricurva.

Di quel 24 Ottobre 2006, Sehun ricordava il suo nome, Kim Jongin, impresso con inchiostro nero sul retro della polaroid…

 

-Almeno non te lo dimenticherai.-

 

E nella sua mente.

 

-Da qua!- Lu Han gli strappò il joystick di mano e mugugnando parole a caso cominciò a picchiare nemici su nemici. Com’è che erano finiti in una specie di città abbandonata? Ma prima non erano nei cunicoli di una metropolitana radioattiva? –Cristo se sei negato.-

-Sai che non sono bravo in queste cose.- borbottò risentito, mettendosi a braccia conserte.

Lu Han si grattò la nuca e sventolò una mano, mangiucchiando delle scuse che mai gli giunsero chiare. Passarono i minuti e solo dopo aver salvato Lu Han decise di degnarlo della sua attenzione –A proposito, com’è andato l’esame?- lo guardò con un ghigno –Scommetto che sei stato premiato con la lode, secchione.-

C’era una nota di irriverenza nella sua voce melliflua, ma Sehun non volle dargli corda. Meglio fingersi sciocchi che esserlo per davvero –L’esame?-

-La cosa sulla tristezza.- sventolò una mano, quasi avesse perso l’interesse dopo averlo visto così sfibrato. Chissà perché ma Lu Han tendeva ad annoiarsi ogni qualvolta lo cogliesse con le mani fra i propri pensieri, come se fosse infastidito dal fatto che il loro epicentro fosse Jongin. Cominciava ad esserne stanco anche lui, ad essere sincero.

Sehun alzò lo spalle, più per scacciare il peso di quel nome solo pensato, che altro –Ho preso diciotto…- Lu Han allargò gli occhi scuri e Sehun tornò a guardare la tele –Dice che avrei potuto fare di più.-

-Oh…- si acquattò, mordendosi il labbro inferiore –Vuoi che andiamo a bucargli le gomme dell’auto?-

Sehun sbuffò una risata, facendo cadere la nuca in avanti. A volte Lu Han se ne usciva con stronzate talmente apocalittiche che non poteva trattenersi. E l’angolo destro delle labbra dell’amico guizzava all’insù, quasi fosse orgoglioso di essere riuscito in quest’ardua impresa.

-Nah, va bene così…- sorrise –Mi rifarò con il prossimo compito.-
 

Lu Han annuì. Sehun deglutì l’amaro sapore delle bugie.

Non gli disse mai di aver preso 30 con lode.

Vedere la propria tristezza lodata, non gli parve mai così squallido come allora.

 

 

 

Inutili note conclusive:

Non se essere più disperata per il fatto che più scrivo i capitoli, più mi pare di non andare da nessuna parte o perché Kai si è fatto biondo. O perché mentre sto scrivendo queste note c’è come sottofondo Nek vi prego strappatemi le orecchie.

Come al solito il nulla cosmico aleggia in Absentia, ma credo che la lentezza sia insita nella mia natura. Vorrei promettervi di metterci più azione, ma questa storia è costruita sui pensieri dei personaggi perciò non mi resta che affidarmi alla vostra pazienza con la speranza che possa piacervi girovagare fra i labirinti contorti della mente di Sehun e, soprattutto, che non vi tedi. Per quanto riguarda il sistema di valutazione adottato per l'università... Mh, facciamo che chiudiamo tutti gli occhi? Mi è stato fatto notare -che poi ci avevo già pensato, ma ho postato ad occhi chiusi e ammetto di essermelo fatto sfuggire- che in Corea non utilizzeranno sicuramente il nostro metodo di votazioni; mi sono documentata ma la ricerca è stata infruttuosa, perciò mi sono presa questa licenza poetica. Nel caso qualcuno fosse più informato della sottoscritta, mi faccia notare l'errore, così posso sistemare ^^

Non ho nulla da aggiungere, a parte che questo è l’ultimo aggiornamento lampo che ho da offrirvi. Ho deciso di postare ora perché questo weekend non so quanto tempo avrò a disposizione e per i prossimi capitoli… Cercherò di essere costante, ma non prometto nulla. Il lavoro mi sta mangiando ogni energia, spero possiate comprendere. Se doveste notare errori o sbalzi temporali fatemeli pure notare con tutta la spensieratezza di questo mondo; è tardi e qualcosa potrebbe essermi sicuramente sfuggito.

 

E come al solito ringrazio quelle anime pie che hanno commentato il capitolo precedente: a dylandogs e Shinushio va la mia gratitudine più sincera. Sapere che questa storia continua a suscitare il vostro interesse non può che rendermi felice. Grazie, ma grazie davvero.
Ringrazio anche chi ha inserito la storia fra le seguite/ricordate/preferite e chi legge in silenzio. 
Se foste arrivati fino a qui e voleste dirmi cosa ne pensate, mi farebbe enormemente piacere :)

 

Alla prossima!

HeavenIsInYouEyes.

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Capitolo 4
*** E Jongin? ***


Absentia

 
 

E rimarrà forse il vuoto di noi a disarmare i rimpianti che so,

per ricordarci in un attimo che… Passerà.”

                                                                              -Subsonica, Nuvole rapide-

 

 

Capitolo 3

E Jongin?

(Di pullman, chiamate non risposte e film russi)

 

 

30 giugno 2013, ore 18:26

Seoul. Sull’autobus, tratta blu.

 


 

Il cielo quel giorno prometteva pioggia.

Seduto sul primo pullman che aveva trovato gironzolando per strada, Sehun poggiò la fronte sul finestrino, immergendosi nel grigiore di una Seoul trafficata e più frenetica del solito. Adorava viaggiare in pullman senza una meta precisa, ascoltando musica e lasciando che la mente pascolasse per lidi incontaminati da molesti pensieri. Ricordava con nostalgia la sua adolescenza fatta di incontri alla fermata del bus con Lu Han, quei giorni soleggiati dei suoi quattordici anni quando si munivano di Mp3, salivano sull’autobus verde e scendevano solo al capolinea, scegliendo ovviamente la tratta più lunga; nessuno dei due fiatava durante il viaggio, si limitavano a stare gomito a gomito guardando salire e scendere le persone, chiedendosi dove stessero vagando. Quella vecchietta che stringeva un sacchetto della spesa stava andando a far visita ai nipoti o era solo annoiata di stare in casa? E quel giovane impiegato in giacca e cravatta stava andando a lavoro o a far visita alla moglie ricoverata in ospedale?

Lu Han era fermamente convinto che andassero a trovare l’amante –sì, pure la signora anziana-; per Sehun erano solo anime di passaggio che approfittavano della vita più di quanto lui facesse con la propria. E amava ricamarci sopra, cucire storie sui loro volti assorti.

Sehun storse il naso alla vista degli enormi nuvoloni che stavano cominciando a coprire i palazzi e che lo avevano costretto a scappare dal parco, adibito a set fotografico. Pochi ma inestimabili gioielli su pellicola patinata giacevano come reliquie nella sua borsa a tracolla, vicino al suo tesoro più grande, quella Polaroid talmente vecchia che avrebbe potuto esalare l’ultimo flash da un momento all’altro. Quando sarebbe accaduto, le avrebbe dato degna sepoltura sotto il cipresso dietro casa, di fianco al gatto della signora Park, quel maledetto felino che più volte si era intrufolato in casa loro mangiando quei pochi avanzi lasciati fuori dal frigo o adibendo il loro minuscolo balcone a lettiera… Ripensandoci, capiva perché Lu Han avesse cercato in molte occasioni di mutilarlo con la Buster Sword[1] in miniatura comprata alla fiera del fumetto.

Posò la nuca contro il poggiatesta, lo sguardo perso sul paesaggio monotono che si srotolava davanti i suoi occhi pesanti. Vedendosi riflesso nel finestrino di quell’autobus blu stranamente poco affollato, Sehun si rese conto di come vistose occhiaie solcassero il suo volto pallido, facendolo apparire un malato ancora lontano dalla via della guarigione. Una via di cui ancora non vedeva l’imbocco. Qualcuno doveva aver nascosto i cartelli oppure i segnali erano stati spostati, confondendolo. Qualsiasi fosse la ragione, Sehun non stava bene e dubitava vi fosse un antidoto a tutto questo. Lu Han gli aveva detto che il tempo avrebbe sistemato ogni cosa ma se il tempo stesso diventava una malattia, dubitava sarebbe rinsavito. Il solo fatto che si fosse ritrovato a viaggiare su di un pullman senza un perché o un dove anziché rincasare, la diceva lunga sulla sua sanità mentale ormai precaria.

Forse avrebbe fatto bene ad accettare l’invito di Lu Han e starsene nella loro scatola di sardine con lui a guardare un film di non ricordava chi per un suo esame di non ricordava cosa, ma aveva preferito ritagliarsi quelle ore di libertà dallo studio per stare un po’ in compagnia della sua macchina. A causa degli esami che non gli davano tregua, l’aveva trascurata così tanto da sentirsi in colpa nei suoi confronti; ogni santa mattina quella guaiva non appena l’obiettivo incrociava il suo sguardo sonnolento e la notte ululava quando si ritrovava a studiare sul letto in balia dell’ansia pre-esame, con un Lu Han casinista dall’altra parte che smadonnava contro un protagonista cerebroleso che non riuscirebbe a battere nemmeno mia nonna in una gara con la sedia a rotelle!, o qualcosa del genere. Gli smadonnamenti di Lu Han poi si stavano facendo sempre più acuti e frequenti ma dubitava fossero interamente rivolti ai suoi adorati videogiochi.

Ultimamente neppure l’amico sembrava granché propenso alle chiacchiere. Da qualche settimana continuava a rinchiudersi in camera ogniqualvolta il cellulare squillasse, era più nevrotico del solito e usciva solo per mangiare, giocare alla play ed insultarlo. Sehun come osservatore faceva schifo, ma non gli ci volle una laurea in astronomia per comprendere che qualcosa nell’universo di Lu Han stava cambiando. Forse qualche satellite si era staccato dalla sua orbita e il suo essere incapace di trattenerlo a sé lo stava riducendo ad uno psicolabile; forse i pianeti stavano cambiando, mandandolo in crisi; forse l’esame di fine mese era più impegnativo dei suoi pronostici e si era reso conto che ridursi a studiare gli ultimi giorni non sarebbe stato redditizio, non come al solito perlomeno.

O forse aveva litigato con Wu Fan, il suo non quantificabile ragazzo. L’ultima preda catturata, per dirla a parole sue. Ecco come amava dipingere Lu Han i suoi spasimanti: prede. Per essere una specie di nerd che trascorreva le proprie giornate davanti alla tele, il numero di uomini che avevano sostato fra le sue braccia non potevano contarsi sulla punta delle dita, nemmeno se alla conta avesse aggiunto quelle dei piedi. Era carismatico, Lu Han, aveva la strabiliante capacità di accaparrarsi le simpatie degli altri senza sforzo alcuno, senza danneggiarsi per il sarcasmo e l’ironia con cui era solito infarcire ogni discorso. E a quanto pareva, i ragazzi ne erano visibilmente attratti se continuavano a ronzargli intorno come api col miele.

Per Sehun, invece, Lu Han era come la marmellata d’arancia: delicato come un’albicocca,  dall’apparenza un po’ dolciastra che catturava al primo sguardo, bastava averci poco a che fare per scontrarsi con un carattere dai risvolti amari. Ma a Sehun andava bene così. La marmellata d’albicocche gli aveva sempre fatto venire la nausea.

Lu Han era riservato, non parlava granché delle sue conquiste. Usciva senza dirgli dove andava e rincasava con qualche succhiotto malamente coperto dalla sciarpa; lasciava la scatola di preservativi ancora piena sul tavolo e giorni dopo gliela faceva trovare ormai mezza vuota, in bella vista e sempre nello stesso punto; giocava meno alla play e preferiva concedersi qualche ora all’aria aperta, sembrava perfino più propenso alla simpatia. Mai era successo che pronunciasse ad alta voce il nome del suo nuovo compagno, semplicemente perché le sue avventure erano troppo brevi perché quello meritasse di venir memorizzato. E quando il flirt finiva, tutto tornava nella norma.

Ma questa volta, Sehun aveva creduto fosse diverso.

Stavano mangiando del ramen preconfezionato -di quelli scadenti e che gli restavano sullo stomaco-, Sehun poteva ancora avvertirne la collosità sul palato mentre l’odore del brodo si mescolava a quello di pollo fritto proveniente dal palazzo adiacente. Sehun aveva detto Domani potremmo guardare quel film di cui mi avevi parlato, pronunciato più per colmare quel vuoto che altro e Lu Han, sguardo annoiato indirizzato alla tele che trasmetteva il telegiornale, se ne era uscito con un serafico Mi devo vedere con Wu Fan a cui era seguita una fugace spiegazione di chi fosse, come, dove e quando si fossero incontrati con sottofondo lo sciabordio dei piatti. Spontaneamente, senza aver dovuto indagare nella sua vita privata, come se la relazione fosse ormai giunta ad un livello così importante che solo parlandone ad alta voce sarebbe diventata concreta.

Fu strano vedersi rendere partecipe della vita sentimentale del suo migliore amico; fu ancora più strano avvertire un briciolo di invidia montare a livello dello stomaco e risalire graffiante verso il cuore. Era contento per Lu Han, di certo quel ragazzo doveva mettere la testa a posto, ma sentiva che qualcosa inevitabilmente riportava a galla spiacevolezze che avrebbe preferito dimenticare.

Che tutte quelle sensazioni che si nutrivano avendo a fianco qualcuno avrebbe voluto riprovarle, ma dubitava ne sarebbe stato ancora capace. Sulla propria pelle diafana poteva ancora avvertire il calore di Jongin, le abrasioni lasciate dalle sue labbra carnose, le ruvide cicatrici lasciate dai suoi sguardi che scorrevano meticolosamente sul suo corpo baciato dal pallore della luna o dalla fioca luce della cucina; al solo pensiero che tutti quegli indelebili segni –gli  unici doni che il ragazzo non si era portato via- potessero venir sostituiti da quelli di qualcun altro, Sehun cominciava a veder sfuocato mentre miliardi di brividi risalivano lungo l’esposta spina dorsale, le  gambe divenivano molli e le pareti della stanza cominciavano a farsi più strette, perfino i propri ricordi cominciavano a divenire asfissianti.

Si sentiva senz’aria, sperso nel vuoto di loro.

-Oh… Sei proprio tu?!- un picchiettio leggero sulla spalla fece riavvolgere il flusso dei suoi pensieri, fino a che la pellicola non si bruciò –Non posso crederci!-  

E questo sarebbe…?

Alto e slanciato, si ergeva davanti a lui un ragazzo sconosciuto nella sua familiarità. I contorni del volto ovale erano maleati in una smorfia sbarazzina, accentuata da rossicci capelli mossi tendenti ad un arancione inguardabile che non riuscivano a coprire un paio di orecchie esageratamente grandi. Era resa ancora più insopportabile da un sorriso così largo capace di irradiare l’intera città e da cui sbucava una perfetta fila di denti bianchi. Sehun aveva una teoria tutta propria al riguardo: più il sorriso era grande, più la bocca era larga. E Sehun non andava d’accordo con le bocche larghe.

-Eh, già— la lingua si attorcigliò, impedendogli di commettere una delle sue consuete gaffe. Ma perché la gente non viaggiava con delle targhette con inciso sopra il nome? Gli avrebbero reso la vita decisamente più facile.

Fu inutile provare a ricordare come si chiamasse l’appendiabiti ambulante, tanto quello aveva preso a dargli amichevoli pacche sulle spalle –facendogli addirittura sfilare un paio di volte gli auricolari- bombardandolo con domande a raffica senza nemmeno dargli il tempo di rispondere.

-Ma dov’eri scomparso?!-

Non sono io quello scomparso, avrebbe voluto esalare con tutta la forza che aveva in corpo, invece un blando -Sono sempre stato qui.- crepò il muro d’indifferenza che aveva erto per di non mostrarsi spaesato.

-Certo che ne è passato di tempo!- portò la mano sulla fronte –Ero sempre lì a dirmi: “Chan-yeol, devi chiamare Sehun!”, ma poi mi dimenticavo. Sai com’è… Gli impegni!- l’abitacolo si riempì della sua risata rumorosa ma Sehun non poté che essere grato del suo parlare a macchinetta.

Fu infatti a quella constatazione che lo scantinato del cervello si illuminò. Chan-yeol era un lontano amico di Kim, conosciuto per caso una remota sera di qualche anno prima, di quelle in cui Jongin usciva sudato dal teatro con la borsa in spalla e con ancora lo scrosciare degli applausi a circondarlo. Ricordava che il suo sorriso stanco gli mozzava sempre il fiato in quelle occasioni; la sua potenza era tale che al solo pensarci, quella sensazione di vertigini si presentava prepotente.

Ricordava ancora come quel deficiente di Jongin glielo avesse presentato con il nome sbagliato con conseguente sua figura di merda colossale, di come gli avesse stretto la mano tutto raggiante prima di uscirsene con un serafico –Oh, quindi sei tu Yoda! Jongin non fa che parlarmi di te!- -Ma io non mi chiamo Yoda.- -Ah, no?- -No, io sono-- e non colse nulla perché dietro le proprie spalle c’era quel demente di Kim che stava sputando l’anima tanto rideva a crepapelle. Per tutto il tragitto verso casa non aveva fatto altro che insultarlo, prenderlo a calci e a morsi sugli stinchi e più si infervorava, più quello ciondolava sul marciapiede con le mani dietro la testa impestando l’aria già di per sé tossica con la propria argentea risata. Fino a che, esausto, si era unito a lui nell’ilarità del momento, costringendosi a dover tenere una mano sullo stomaco dolente pur di non spiaccicarsi sugli scalini d’ingresso. E ricordava lo sguardo luminoso di Jongin, il suo rotolarsi a letto in preda all’eccesso di risa se solo ripensava alla sua figuraccia e il suo Potrei morire, senza rendersi conto che più lui si comportava così, più era Sehun quello che moriva un po’.

-Ti spiace se mi siedo?- indicò il seggiolo vuoto al suo fianco e quando annuì, lo vide afflosciarsi. Fece per stendere  le gambe ma erano troppo lunghe; le ritrasse con un moto di stizza che deturpò la serenità dipinta sul volto ovale -Allora, come va? Studi ancora fotografia?-

-Aha…- avrebbe voluto dirgli che pochi esami lo separavano alla libertà, ma ciò avrebbe comportato una chiacchierata che in realtà non voleva fare  -e comunque Chancoso aveva monopolizzato la conversazione, solo per amore della cronaca-. Era più forte di lui: ogni qual volta si trattava di conversare la bocca si seccava e le parole non volevano saperne di venir stanate. Ed era grato alle persone come Chan-yeol: erano talmente chiacchierone che gli evitavano di dover prendere parte attiva alla conversazione. Si limitava ad ascoltare, captando ciò che gli interessava, interagendo se interpellato.

Questa volta però il motivo per il quale Sehun fu così restio a parlare fu solo uno: la Torre Eiffel vivente era un legame con Jongin. Inevitabilmente avrebbero finito col renderlo il centro permanente del loro cicaleccio e Sehun non si sentiva pronto per questa sfida.

-Per il resto… Come va?- strabuzzò gli occhi quando il silenzio aleggiò attorno al loro. C’era sospensione nel suo sguardo, come se davvero si aspettasse una risposta sincera. Sehun cominciò a sentirsi a disagio spiaccicato contro il finestrino, trattenendosi dal strangolarlo per quel millesimo Come va? a cui sarebbe sicuramente seguito qualche impervio discorso. Ma quello sorrideva, lo incalzava con occhi sempre più larghi e Sehun non se la sentì di essere così maleducato dal voltargli le spalle.

Uno schifo, avrebbe voluto rispondergli con tutta la sincerità di cui era capace, magari condendo il tutto con un’espressione tremebonda e voce scoccante di rabbia repressa. Ma se ne uscì con un mite –Si va avanti.- che era il classico tutto e niente. Yoda sembrò farselo bastare perché per qualche istante si zittì, ma c’era qualcosa nei suoi occhi scuri che tradiva curiosità e un pizzico di imbarazzo, quasi fosse sul punto di spararne una grossa.

E Sehun attese.

Attese la fatidica domanda cercando qualche canzone nell’Ipod, guardando i palazzi scorrere, ascoltando il frivolo gracidio di un paio di ragazze che sparlavano di una terza amica non presente, dicendosi che tanto non sarebbe stato più doloroso di quanto già non fosse. Perché il tempo era scorso su di loro, ormai alla deriva di un amore che non li rappresentava e allora no, non avrebbe fatto più male…

 

-E Jongin?-

Crack.

 

Anche se certe cose non sarebbero mai cambiate.

Lo avvertì a livello del cuore, lo strappo.

Fu agghiacciante la velocità con cui il suo corpo reagì al suono di quel nome, la velocità con cui tutti i suoi muscoli si tesero in sincrono mentre il cuore smetteva di battere, le gambe divenivano molli e la mente si svuotava. Era come morire lentamente, lasciando che ogni energia si prosciugasse mentre l’intorpidimento prendeva il sopravvento. Sudori freddi cominciarono ad imperlargli la fronte e guardandosi al finestrino, si accorse di come il pallore avesse cominciato a tingergli la pelle già di per sé chiara.

Quella domanda era difficile, un livello di difficoltà che lui non era pronto ad affrontare, per quanto si fosse preparato psicologicamente. Perché E Jongin? non era uguale a Pensi ancora a Jongin?

Pensare a Jongin era ormai una scomoda abitudine che lo svegliava al mattino e non lo faceva dormire la notte, lo tallonava nelle sue noiose giornate e lo abbracciava quando cadeva preda dello sconforto. A quel Pensi ancora a Jongin?, Sehun mentiva, contorceva la verità a proprio piacimento e costringeva gli altri a credergli. Ma se si tirava in ballo quel E Jongin?, chiesto con curiosità, allora le carte in tavola venivano mischiate e Sehun non sapeva più che assi giocare per trarsi d’impiccio.

C’era che non poteva rispondere semplicemente perché non aveva risposta alcuna.

Jongin si era perso, Jongin non c’era più. Sehun non sapeva più nulla di Jongin.

-E Jongin… Cosa?- a fatica riuscì a smuovere le parole messesi in fila ma timorose di mostrarsi. La bocca pesava, quasi gli doleva.

Quello alzò le spalle, trasudava ingenuità da ogni poro –Beh, mh, come sta?-

Già, come stava? Stava bene? Pregava di no. Pregava notte e giorno che il Karma gliela stesse facendo pagare con atroci sofferenze.

-Non lo so- fu un soffio flebile, sospinto da quell’avanzo di forza rimastogli in corpo –Ci siamo lasciati.-

La notizia non parve turbare il ragazzo. Se ne rimase immobile, lo sguardo puntato nel suo e l’aria di chi sa ma non vuole apparire invadente –Oh, l’ho saputo…- una nota di rammarico macchiò la sua voce allegra –Mi dispiace.-

-Cose che capitano.- alzò le spalle, più per scrollarsi di dosso la sensazione di compatimento che lo aveva rivestito che per marcare l’indifferenza della propria constatazione.

-Non deve essere stato facile.-

-Ci sono cose peggiori.- la sua voce sfumò di qualche ottava mentre cercava di autoconvincersi di ciò che aveva appena pronunciato. Pregò che anche Chan ci cascasse con il tutto il sorriso e le orecchie.

-Già. Però sai… Eravate una così bella coppia!- glielo confessò con radiosità raggelante, di quelle che lo costringevano a fare i conti con la dura realtà delle proprie giornate. Quell’eravate stonò con l’affetto che ancora serbava per quel cretino di Jongin, facendo incrinare ogni più piccolo angolo del suo viso. Si guardò nel finestrino; quella maschera d’indifferenza che aveva appena indossato era orribile –Io non ci ho voluto credere quando me lo hanno detto.-

-A cosa?-

Yoda si mosse sul posto, si massaggiò la nuca e il sorriso scomparve dietro una deglutizione –Che ti ha tradito e allora l’hai lasciato- sventolò le mani –D’accordo, Jongin non era un santo, però--

-Tradito?!- quell’accozzaglia di lettere venne sputata con repulsione, come se non potesse credere a ciò che aveva appena udito. Ed effettivamente, non ci credette. Sehun aveva tante volte cercato un motivo plausibile per la sparizione improvvisa del ragazzo ma il tradimento non era mai stato contemplato.

Era un’anima libera, Jongin, di quelle intrattenibili le cui ali non potevano essere spezzate. Più volte sulla sua pelle ambrata aveva avvertito l’odore di qualcuno che non era lui, ma Sehun aveva sempre trovato conforto in un’unica certezza: se lui non gli avesse rubato il suo cuore, di sicuro nessun’altro ci sarebbe riuscito.

Quindi no, non lo aveva tradito. Probabilmente si era volatilizzato, ma da solo. Non in compagnia. Solo lui. Sempre e solo lui, senza nessuno al suo fianco. Quella era l’unica cosa che teneva alimentata la flebile fiammella della speranza su cui troppi venti contrari continuavano a soffiare. Se si fosse estinta, sarebbe morto con lei.

Allibito come mai prima d’allora, guardò il ragazzo con sguardo allucinato –Lui non mi ha tradito!- Credo…

-Oh, beh…- sventolò le mani, le guance purpuree per l’imbarazzo -E’ questo che si dice in giro, così pensavo che—

-Si dice in giro?- sbatacchiò le palpebre, strinse i jeans a pugni stretti, le nocche ormai bianche  -La gente parla di noi?!- gli parve impossibile, addirittura indicibile un’eventualità di tale calibro. Sehun non era mai stato granché chiacchierato, non era uno di quei ragazzi che stava sulla bocca di tutti. Jongin lo era, ma nel suo caso il significato di stare sulla bocca di tutti assumeva variegate sfumature.

Yoda annuì, le labbra andarono serrandosi mentre Sehun si faceva minuscolo sul seggiolo –Quando lo abbiamo saputo, siamo venuti a trovarti ma tu non c’eri già più- la sua voce bassa si macchiò di una nota di colpevolezza che Sehun non seppe spiegarsi –Avremmo dovuto capirlo che non ti avremmo trovato. Stare in una casa piena di ricordi non deve essere fa—

-E’ troppo costosa per una persona sola- lo interruppe brusco, fissando le persone che cominciavano ad alzarsi –Non ho così tanti soldi.- inghiottì tutte le verità che volevano spaccarsi nell’aria satura di tensione, offrendo al ragazzo quella mera facciata che da tempo aveva utilizzato come riparo da ogni intemperia emotiva che il ricordo di Jongin portava con sé.

Chae forse non se ne accorse e se lo fece non obiettò, limitandosi ad annuire prima di rovistare fra le canzoni dell’Ipod, lasciandogli un briciolo di tregua. Fu solo quando l’autobus si arrestò, in mezzo al fracasso degli altri passeggeri, che Chan-yeol mormorò quella domanda che da tanto, troppo tempo lo tormentava…

 

-Chissà dov’è ora?-

 

Che gli rubava il sonno...
 

-Ma lui non ti ha detto nulla?- le spalle si incurvarono, Sehun non poteva sopportare oltre –Mh, beh, ma sai che non raccontava mai niente.-

-Lo so.-
 

Che nonostante tutto, lo teneva ancora in vita…
 

-E non parlava molto, comunque.-

Ma pensavo fosse diverso, con me …

Guardò fuori -So anche questo.-


 

-E Kim Jongin segna!-

La palla finì nel canestro senza sbavature, facendo tintinnare le fini catenelle di ferro. Fu un tiro perfetto, preciso, tirato con mirabile leggiadria dalla linea dei tre punti.

-Sono o non sono un mostro?- portò le mani sui fianchi, il petto gonfio.

Sehun storse il naso -Se ti impegnassi così anche nello studio, a quest’ora saresti professore di algebra.- lo incalzò secco, guardando in cagnesco i libri di scuola giacenti a pochi metri da loro, vicino agli zaini afflosciati sul terreno.

Jongin rise, non sembrò offendersi per la sua frecciatina neppure troppo velata. Figurarsi se qualcosa tangeva la spensieratezza fatta uomo. Quell’idiota era talmente felice che, per festeggiare la propria vittoria, si era messo ad improvvisare il Moon Walk.

-Sei solo invidioso perché io sono un genio del basket.-

-Certo, Hanamichi[2]. Perché quando andrò a lavorare in banca, al colloquio mi chiederanno se so tirare le cartacce nel cestino dalla linea dei tre punti.- ironizzò mettendosi a gambe incrociate, poggiando il mento sul palmo aperto. Jongin per poco non inciampò mentre andava a recuperare il pallone cozzato contro l’alta rete del campetto da basket, ridendo come il deficiente che era. Sehun scosse la nuca, anche se i suoi occhi piegati tradivano divertimento.

Kim si posizionò oltre la lunetta e segnò, battendo le mani quando compì l’ennesimo canestro.

Sehun aveva seguito come ipnotizzato ogni più piccolo movimento di quella gazzella vestita in tuta che zampettava sul campetto da basket schivando invisibili avversari. C’era grazia nel suo sollevare le braccia in aria, la meccanicità elegante tirava, senza aver bisogno di prendere la mira.

Sembrava una bolla di sapone tanto leggero era.

-Sei bravo…- se lo lasciò sfuggire in un soffio, allargando un po’ gli occhi quando lo vide voltarsi in sua direzione. “Sehun, controllo!” -Chi ti ha insegnato a giocare?- appoggiò il mento sulle ginocchia ora piegate, cercando di calibrare la voce affinché apparisse annoiata. Forse, in questa maniera, non gli avrebbe dato modo di intendere quanto lo trovasse affascinante mentre si comportava come l’Akira Sendoh[3] dei poveri.

Jongin si pulì la fronte con la canotta, mettendogli in bella vista l’addome piatto imperlato di sudore e di quel color ambrato che tanto gli ricordava il miele. E pensare che il miele neppure lo faceva impazzire, ma per una volta gli sarebbe piaciuto saggiarlo. Sehun avvertì le guance imporporarsi quando l’amico si portò indietro i capelli, ma era colpa del caldo. Sì, era solo colpa del caldo…

-Mio padre- replicò affannato -Dice che devo fare sport per uomini.- le seguenti parole uscirono incatramate di rancore, con quella tonalità bassa e un po’ incrinata che usava quando gli raccontava dell’ennesima ricaduta di sua madre, ora costretta a letto con la febbre. Jongin non era mai stato chiaro al riguardo, si limitava a dirgli che non stava bene e lui era troppo codardo per osare intromettersi. Aveva il timore che sfilando troppo il gomitolo dei suoi pensieri, avrebbe corso il rischio di allontanarlo.

Ormai gli era diventato così caro che proprio non riusciva a vedersi senza la sua amicizia.

-Per uomini?-

-Aha…- fece girare il pallone fra le mani -Non gli va giù l’idea che mi piaccia la danza.-

-Cos’ha contro la danza?-

Jongin rise. Una risata amara, priva di quella consueta allegria che era solita solcare ogni suo tratto; perfino i suoi lineamenti si tesero a tal punto da apparire in procinto di spezzarsi –Dice che è non per i maschi. E quelli che lo praticano sono tutti “froci”- Sehun drizzò le orecchie a quell’epiteto, guardandolo con tanto d’occhi; Jongin alzò le spalle –Ehi, non guardarmi così. Sono parole sue.-

Sehun si chetò. Il signor Kim era un conservatore, di quelli fissati con le tradizioni, il rigore e poco incline all’umorismo. Non vedeva di buon occhio il fatto che l’unico figlio maschio su due femmine avesse deciso di praticare la danza –con risultati davvero eccelsi, oltretutto-; e doveva avere un radar anti-gay incorporato, perché una volta che era venuto a prendere il figlio a scuola lo aveva squadrato come se fosse un miserabile insetto. Forse era per questo che Jongin non lo invitava mai a casa sua. Forse voleva prevenire la sua morte.

-E tu cosa ne pensi?-

-Che a me piace. E’ questo l’importante.- fu istintiva la sua risposta, come se l’avesse elargita innumerabili volte. Sehun si chiese per la prima volta quanto frequentemente il ragazzo discutesse con il padre a proposito della danza, quante volte fosse stato insultato per questa sua scelta e se mai ne avesse pianto. Perché Jongin era imperturbabile, sembra non venir mai scalfito da nulla e Sehun faticava a seguire la linfa dei suoi pensieri.

-Giusto…-gli uscì flebilmente, ammaliato dalla forza d’animo che ogni suo gesto trasmetteva.

Jongin alzò le mani al cielo, una mano a reggere la palla e l’altra ad accompagnarla nella giusta traiettoria -Sehun…?- lo chiamò piano, in quella maniera un po’ infantile che gli colorava la voce quando non sapeva se procedere con la domanda o tenersela per sé –Non ti è mai successo che i tuoi non fossero d’accordo con le tue scelte?- tirò, mancando il canestro.

I pensieri di Sehun rimbalzarono insieme alla palla. C’era così tanto di personale in quella domanda, che il ragazzo si ritrovò a deglutire mentre osservava la schiena incurvata di Kim. Gli celava il volto, come se stesse indossando una maschera di disperazione che non voleva mostrargli.

Sehun posò i piedi a terra e zampettò fino alla sfera rotolata distante, prendendo tempo. Contò ad occhio i passi che lo distanziavano dal canestro; non sarebbe mai riuscito a farcela -I miei mi hanno sempre appoggiato in tutto- se la rigirò fra le mani –A loro basta che io sia felice…- sollevò le braccia in aria, la punta della lingua sporta mentre si concentrava –Se io sono felice, lo sono anche loro- seguì la parabola compita dalla palla che, da pronostici, cadde senza neppure avvicinarsi al canestro –Ehi, sicuro che vada tutto bene?- l’amico fermò la palla con la punta del piede. Gli parve strano che ancora non avesse deriso le sue scarse doti sportive.

Jongin, più di tutto, gli sembrava strano.

Lo vide sorridere fiocamente –Se tutti fossero come i tuoi, la vita sarebbe migliore.- e udì quella risposta che non gli fu d’aiuto, che lo lasciò brancolante nel buio delle loro frasi spezzate.

Mentre lo vide tirare a canestro con eleganza, Sehun si rese conto di quanto sapesse poco o nulla di Jongin. Erano ormai diventati amici da un bel po’, da quando quello spiacevole episodio della Linea 3 era stato accantonato, eppure Sehun non sapeva molto di quel ragazzo piombato a Seoul senza alcun motivo apparente. “Mio padre è venuto qui per lavoro”, gli aveva detto una volta mentre compravano dei libri per la lezione di lettere “E noi lo abbiamo seguito. Mamma ha vissuto qui da bambina, penso sia stata l’unica contenta di essersi trasferita”.

Il silenzio che seguì fu un lampante segno che Jongin non voleva più sapersi privato della propria privacy. Tipico di lui incominciare i discorsi per poi troncarli quando si andava sul personale.

Sehun si concesse di spingersi oltre, stranamente certo che il ragazzo non lo avrebbe scacciato –Senti… Ma sei ancora dispiaciuto?-

-Per cosa?- un altro tiro, un altro canestro.

-Per esserti trasferito.- lo vide irrigidirsi prima di chinarsi e raccogliere la sfera arancione. Lo aveva fatto con lentezza, quasi volesse prolungare l’attesa che li separava dalla risposta. Sehun fece strisciare un piede sul terreno mentre arricciava le labbra sottili; lo faceva sempre quando sentiva di aver superato il limite.

 

-Ehi, Sehun-ni…- alzò il volto, richiamato dalla sua voce bassa.

Jongin non gli diceva mai le cose come stavano, non si esponeva mai a parole…

-Coraggio…- gli lanciò il pallone –Uno contro uno, ti va?- si mise in posizione, sorrise.

 

Lasciava che fossero i gesti a parlare per lui.


 

Il campanellino che annunciava la prossima fermata lo fece ripiombare nel pallore di quel venerdì ormai voltato alla sera. Il capo di Yoda ciondolava mentre una melodia sconnessa scivolava dalle sue labbra.

Gli mancavano ancora due fermate prima di potersi dire finalmente libero. Fino ad allora, doveva fare i conti con i propri spettri.

L’autobus cominciò a rallentare, Sehun guardò Chan-yeol. Quanto ci avrebbe messo a crollare di fronte quello che, in fin dei conti, altro non era che un misero filo conduttore con il passato? Un filo che, per quanto si ostinasse a pensarci, mai lo avrebbe riportato da lui.

Si alzò di scatto -Scusami, è la mia fermata.-

Il ragazzo lo fece passare non dopo avergli rivolto un’occhiata stralunata. Si sporse per guardare fuori, poi lo fissò confusamente –Ma… Adesso dove abiti?-

Sehun si irrigidì mentre le porte si aprivano –Sono tornato dove stavo prima. Ci si vede, ok?- e lo lasciò senza alcuna spiegazione, lasciandosi oltre le spalle un Certo… E comunque mi ha fatto piacere rivederti!, che gli scaldò il cuore, per quanto poco necessario fosse.

Scese dal pullman immettendosi nella calca, certo di aver perfino buttato a terra una povera anziana capitata nel posto sbagliato all’orario sbagliato, ovvero l’ora in cui i nodi venivano al pettine ma Sehun non aveva le forbici per reciderli senza troppi pensieri. Si piegò sulle ginocchia e prese fiato; cominciava a sentirsi meglio ora che l’autobus era solo un puntino lontano. Peccato che, avvinghiato alla gola, fosse rimasto quel tarlo pressante che continuava a sussurrargli come Jongin ora si stesse godendo una nuova vita con qualcun altro e che lui, di conseguenza, era solo un idiota che si struggeva per un amore finito oltre tempo.

Sehun non seppe più a cosa credere.

Sua madre gli aveva sempre detto di non fidarsi alla voci di corridoio, di non badare alle dicerie perché Il paese è piccolo e la gente mormora solo perché annoiata e che se voleva accertarsi della veridicità delle calunnie, doveva andare direttamente alla fonte. Poco importava quanto distante fosse, poco importava quanto impervio sarebbe stato il cammino; ciò che contava era non lasciarsi scoraggiare e scoprire la realtà delle cose.

Fu forse per questo che il nome Jongin comparve prepotentemente sul display del cellulare, dopo mesi di preparazioni affinché le dita smettessero di scivolare sempre e solo lì quando doveva fare una chiamata.

Il pollice tremò appena quando premette sul tasto verde, gli occhi si appannarono quando il telefono squillò a vuoto e un singhiozzo sfuggì quando la chiamata si interruppe…

 

*Il numero da Lei chiamato, non è al momento raggiungibile…*

 

No, non al momento.

Kim Jongin non lo era mai stato.

 

*******

 

01 luglio 2013. Ore 1.24

Seoul, una strada qualunque.

 

Wu Fan era alto.

Lu Han se ne era reso conto per davvero la prima volta che si erano baciati. Che poi era stata la seconda, a voler essere pignoli. Non che prestasse granché attenzione a questi insulsi particolari da coppiette smielate, ma al solo pensiero un sorriso divertito spuntava spontaneo e  allora le due cose andavano arbitrariamente distinte.

Il primo bacio sapeva di Pop-corn e Coca Cola ghiacciata, di quelle ormai acquose e sgasate che lasciavano un retrogusto dolciastro sul palato; come sottofondo un film di Charlie Chaplin scelto solo per prepararsi all’esame imminente sulla storia del cinema muto, mentre gli spettatori ridevano per chissà quale sua espressione buffa o gesto inconsulto. A Lu Han non dispiacque trascorrere quelle tre ore in balia delle labbra di Wu Fan; gli dispiacque solo dover buttare via altri soldi per rivedere il film una seconda volta -dato che la prima non aveva prestato granché attenzione- questa volta in compagnia di Xiumin, che lo aveva seguito solo perché di buon cuore. Come fa a piacerti qualcosa che non emette suono?! E’ noioso!, aveva blaterato lamentoso mentre scivolava sulla poltrona. Lu Han avrebbe voluto dirgli che ciò che  era silenzioso gli era sempre piaciuto ma si era zittito, sentendosi opprimere dal vuoto che la non presenza di  Sehun aveva lasciato. Aveva soffocato le parole sotto chili di patatine e le aveva fatte affogare nella Coca Cola, ricordandosi che Wu Fan lo aveva baciato proprio quando Chaplin sollevava il mappamondo, e allora aveva sorriso.  Poi Xiumin aveva sbuffato un tediato Non capisco cosa ci trovi di così divertente, davvero, e la poesia per Chaplin e Wu Fan gli era passata.

La seconda volta che Lu Han baciò Wu Fan –e qui si rese conto di quanto fosse un nano al suo cospetto- fu davanti la scatola di sardine. Si era dovuto sollevare sulle punte per poterlo raggiungere e aveva dovuto sottostare alla sua risata svagata e forse un po’ derisoria, che lo aveva costretto a chiedersi perché avesse deciso di dedicare già due mesi della propria esistenza a quel babbeo.

Ricordava le dita dei piedi che premevano contro la punta delle converse scucite, la stanchezza dei polpacci tesi e di come Wu Fan lo avesse sorretto per tutto il tempo trattenendolo per la vita. Poteva ancora avvertire le unghie dello hyung farsi strada nella carne tanto era stata salda la presa, temendo una fuga che in realtà mai sarebbe avvenuta, per quanto Lu Han avesse pensato sul serio di filarsela. Il perché non lo sapeva, mentre il motivo per cui si era aggrappato alle sue spalle era ormai radicato nella sua anima: dietro sé lo aspettava una casa vuota pronta ad inghiottirlo in un silenzio assordante. Preferiva congelare nel freddo polare di quella notte di fine marzo piuttosto che respirare ancora l’assenza di Sehun.

Lanciò un’occhiata al proprio fianco, accertandosi che la pertica continuasse a pascolare. Quando si scontrò con un’orribile giacca nera a motivi triangolari –probabilmente rubata dall’armadio di Sir Elton John-, Lu Han tornò a guardare per terra, trattenendo uno sbadiglio. Non era scomparso, persisteva nell’accompagnarlo a casa nonostante più e più volte gli avesse intimato di lasciarlo stare.

Era alto, Wu Fan, e quella fu la terza volta che lo notò.

Camminavano gomito a gomito, lasciandosi trasportare per le vie dai loro pensieri. Lu Han pensava poco e parlava molto, doveva dire la propria in ogni benedetta occasione e quasi mai si curava delle conseguenze. Wu Fan, al contrario, pensava molto e parlava poco, diceva ciò che gli passava per la testa ma solo se necessario. A Lu Han piacevano i suoi silenzi; avevano colmato quelli di Sehun quando se ne era andato. Si era voltato e si era scontrato con il suo collo coperto da una sciarpa color miele, in pendant con la sua chioma bionda appena fresca di tinta. Aveva dovuto sollevare leggermente il mento per osservare la rifinitura dei suoi tratti decisi, in netto contrasto con i propri che invece erano delicati come quelli di una ragazzina, e scorgere i suoi occhi puntati a terra. Aveva le palpebre un po’ calate, trasmetteva stanchezza ad ogni passo che premeva sul marciapiede.

Han schivò un passante -E’ stato bello il film.- aveva esordito con noncuranza, stringendosi nella giacca di jeans.

Wu Fan arcuò le sopracciglia –Ma sei hai dormito quasi tutto il tempo.-

-Appunto, quasi…- storse il naso –Quel poco che ho visto, però, mi è piaciuto.- aveva continuato con la solita baldanza, udendo la lingua dell’altro scoccare contro il palato.

-L’ho notato che il cinema russo non è di tuo gradimento, eh- l’altro squittì e Wu Fan ghignò –Colpito e affondato.-

Lu Han sbuffò –Avere dei sottotitoli non sarebbe stato male.-

-Così avresti perso la bellezza delle scene- lo incalzò con severità; Wu Fan e la sua maledetta abitudine di fargli pesare la propria superficialità -Hai visto com’era curata la scenografia?-

Han sbuffò –Io ho visto solo due che, prima di baciarsi, si sono urlati contro anche se sorridevano e piangevano di gioia.- gli era uscita spontanea quella sparata, non c’era stata alcuna preparazione.

Ma Wu Fan aveva riso di gusto scuotendo la nuca -Questo prima di addormentarti?-

Lu Han portò le mani in tasca dopo aver imprecato mentalmente –Scusa, sono piuttosto stanco- buttò lì, la baldanza degli esordi ormai finita sotto le suole -Ho ancora degli esami da dare e—

-Tranquillo, ci sono passato anche io.-

Wu Fan era comprensivo. Ed era ormai libero. Si era laureato l’anno scorso, aveva trovato lavoro presso una compagnia teatrale e si occupava delle scenografie. Il suo sogno era arrivare a lavorare per qualche grande regista hollywoodiano, ma per fare gavetta quell’inizio non era male.

Lu Han sbirciò l’orologio da polso comprato in un negozio dell’usato a pochi isolati da casa, roteando gli occhi quando si rese conto che le lancette si erano fermate. Di nuovo. Gli capitava spesso, ultimamente. Sembrava quasi che il tempo stesso volesse arrestarsi, impedendogli di avvertire lo scorrere della sua noiosa vita. Oppure era Fan che glielo manometteva pur di trattenerlo con sé un po’ di più. Osservò lo hyung al suo fianco; nah, non poteva essere lui. Era troppo buono per commettere una simile cattiveria.

Lu Han fu sul punto di dirgli che se ne sarebbe tornato a casa, che non aveva voglia di bazzicare per Seoul con i piedi che strisciavano tanta era la stanchezza. Ma ci fu un istante, imprevedibile e a cui non era preparato, in cui l’altro si avvicinò. Gli aveva posato il braccio intorno alle spalle, incurante della gente che passava loro di fianco, gli carezzava il braccio con un mano in quella maniera così delicata da apparire impercettibile e gli sussurrò poche parole, con voce suadente -Vuoi venire a casa mia?-

Il suo non fu un semplice avvicinarsi fisicamente, fu come se volesse sfiorare le corde più tese della sua anima.

Lu Han rabbrividì -No, è meglio che torni a casa.-

Fu tenue il modo in cui l’espressione morbida di Fan si sciolse in dispiacere -Una sera dovrai venirci- la mano scivolò lungo il braccio, poi il nulla -Sono stanco di farlo nella tua auto. E’ piccola, non riesco neppure ad allungare le gambe.- portò le mani in tasca.

Lu Han alzò le spalle, scacciando quel remoto senso di colpa che vi si era appollaiato –Compratene una tu, allora- strinse i pugni intorno al laccio della borsa a tracolla; lo faceva sempre quando era nervoso -E poi c’è sempre il motel.- considerò annoiato.

Wu Fan sospirò, appariva sfiancato di fronte i suoi continui rifiuti -Non posso spendere tutti i miei soldi in motel.- gli fece notare con pacatezza.

-Sei tu a volere sempre offrire. Io non ti ho mai obbligato.- la voce gli si indurì mentre il passo si faceva stranamente veloce. Lu Han aveva il vizio di difendersi reagendo con arroganza, lasciando che gli altri si assumessero le colpe dei suoi capricci.

Ma Wu Fan non era gli atri e sembrava deciso a stare al suo passo –Lo sai che non è questo il punto- il rimprovero fu sottile ma ebbe la potenza di un pugno in pieno volto –Dico solo che casa mia sarebbe più comoda. Non avremmo limiti di tempo, lì.-

Tre ore sono anche troppe, avrebbe voluto confessare con sincera crudeltà ma quando Wu Fan gli fu davanti, con quel sorriso dolce dipinto sul volto, Lu Han le mise le catene e si zittì, incapace di reggere a tutto quello. Parlare con Wu Fan era sfiancante, cercare di tenergli testa era un’ardua impresa che risucchiava tutte le sue energie. Era peggio che giocare a Resident Evil[4] con Sehun che pigolava ogni due secondi per qualche zombie comparso a random.

-Non penso che--

-Sei il benvenuto, te l’ho sempre detto.- lo interruppe piano, talmente vicino che Lu Han poteva annusare il suo respiro che sapeva di Coca Cola.

Lo vide chinarsi e prontamente lo schivò, concedendogli la guancia –Non in pubblico. Erano i patti, ricordi?-

Wu Fan gettò il capo in avanti lasciandosi sfuggire uno sbuffo amaro –Tu e le tue regole… Dovresti essere meno rigido, lo sai?- Lu Han morsicchiò l’interno delle guance, vacillò nel proprio disagio -Motel, quindi?- guardò oltre la strada –O preferisci bere qualcosa?-

Lu Han guardò l’enorme orologio analogico che svettava sulla parete vetrata di un palazzo esageratamente alto: era già l’una passata -E’ tardi. Devo tornare a casa.- ripeté sfibrato, portando le mani in tasca.

-O devi tornare da Oh?- Fan scagliò quella domanda con maestria, incurante della piega che la discussione avrebbe potuto prendere. Non c’era gelosia nella sua voce dall’accento cinese. Frustrazione, forse, ma non gelosia. Wu Fan era così: sapeva quali tasti toccare e quali evitare. Sembrava conoscerlo meglio di quanto Han stesso si conoscesse ed era piuttosto snervante tutto questo, se solo ci ponderava con attenzione.  

Lu Han trattenne un’imprecazione –No. Devo tornare a casa per studiare. Chissenefrega di Sehun.-

-Chissenefrega, certo…- alzò le spalle –Fa niente, sarà per un’altra volta. Lo studio prima di tutto.- quando faceva il padre della situazione lo odiava a morte, ma si limitò a storcere il naso.

-Sì, chissenefrega. Non sono mica la sua balia, eh- lo superò -Buona notte, Kris.- contro la schiena incurvata si infranse un tenue Buona notte, Han, prima che la distanza divenisse ormai troppa per essere azzerata.

-Lu Han?- lo richiamò; la sua voce riuscì a rapirlo dalle proprie paturnie. Nessuna traccia di disappunto solcava il suo volto ora rilassato in una maschera di comprensione, intaccata solo dalla piega ricurva che avevano assunto le sue labbra –Salutami Sehun.-

 

Wu Fan era alto, ma in quel momento gli parve un gigante.

 

*****

30 giugno 2013. Ore 13.01

New York City.

 

Sedeva a gambe incrociate sulle coperte sfatte, il mento appoggiato alla spalla scoperta e un po’ umida, lo sguardo rivolto alla finestra che si gettava sulle trafficate strade newyorkesi, dieci piani più in basso. I rombi delle moto si mescolavano al fracasso dei clacson, urtavano i suoi pensieri arrestatisi da quando aveva messo mano nel cassetto della scrivania dopo essersi fatto una lunga doccia –con conseguenti grida del coinquilino che continuava a sfracassargli le palle perché gli stava rubando tutta l’acqua calda-, rimestando in quel mucchio di ricordi che per un po’ aveva  deciso di rinchiudere.

Non seppe spiegarsi perché proprio quel giorno avesse deciso di dar loro un’occhiata, sospinto dalla fievole sensazione che qualcosa sarebbe accaduto, eppure si era avvicinato alla scrivania con passo svelto e meccanico come se quel gesto l’avesse compiuto ogni benedetta mattina mentre una mano faceva sfrisare l’asciugamano sui capelli bagnati; lo aveva aperto e aveva rovistato fra il cumulo di foto, ritagli di giornale e lettere mai spedite, trovando finalmente ciò che cercava: quel Samsung dallo schermo sfrisato che non accendeva da mesi. Aveva dovuto rovistare nella matassa di ricordi per recuperare il codice Pin da inserire, avvertendo sudori freddi mischiarsi alle goccioline d’acqua che gli imperlavano la fronte quando era ormai giunto all’ultimo tentativo rimastogli. E si era battuto un cinque mentale quando, di punto in bianco, la memoria aveva cominciato a fare il suo lento corso, facendogli tornare alla mente quella serie di numeri che non avevano significato alcuno.

Era vecchio quel cellulare ora acceso che stringeva fra le mani, non tanto per il modello, quanto per i messaggi e i nomi che serbava ancora nella memoria. Non ne aveva cancellato nemmeno uno, non ne aveva avuto il cuore; ma non li aveva neppure più letti, non ne aveva avuto il coraggio. La cartella diceva che i messaggi arrivati erano cinquecento e lui si ricordava ancora che quattrocentocinquanta di quelli appartenevano alla stessa persona, così come ricordava che il tasto 1 delle chiamate rapide lo avrebbe portato dall’altra parte del mondo.

Nessuno lo aveva cercato. Del resto, si era premurato di lasciare ai contatti che ancora sentiva il nuovo numero di telefono. Fu forse per quello che non si stupì quando vide lo schermo spegnersi; se nessuno si era fatto vivo, significava che dall’altra parte del globo avevano smesso di cercarlo.

Va bene così…

Lo gettò sul letto prima di scostare le coperte e recuperare le scarpe da ginnastica giacenti ai piedi del letto. Davvero si era aspettato un messaggio, una chiamata, qualcosa che potesse inevitabilmente interrompere il presente per condurlo nel passato? Ma davvero ci aveva addirittura sperato?  Un flebile -Cretino…- inondò la stanza irradiata dal Sole; piegò la testa, le dita si spersero fra i capelli corvini prima di annodarsi dietro la nuca.

Quel venerdì era cominciato come tutti gli altri, ma bastò poco per rimescolare tutto.

Bastò una vibrazione giunta in ritardo che non si sarebbe aspettato, bastò allungare una mano verso il telefono, aprire un messaggio che diceva Ho chiamato alle…, scorgere un nome che da tempo non aveva più letto nemmeno nelle pareti della propria memoria e una chiamata non risposta che non seppe se interpretare come il classico segno del destino o il millesimo errore.

Si sentì interrotto, per una manciata di secondi. Spaesato nel ritrovarsi in una stanza che non era la propria –anche se lo aveva accolto per quasi un anno-, tramortito nel rendersi conto che la parola casa assumeva tutto un altro significato se solo ripensava a cosa e chi aveva lasciato. E il vuoto che da tempo gli chiudeva la bocca dello stomaco, venne colmato da un senso di colpa che sempre aveva gridato, anche se lui aveva finto di non sentirlo.

Il pollice premeva sul centro dello schermo, a metà tra la cornetta verde e il tasto annulla. Gli sarebbe bastato poco per tornare indietro, per sentirsi un po’ più in pace con sé stesso. Per fare la cosa giusta, almeno questa volta…

 

Il coinquilino si affacciò, sorridendogli radioso -Jongin, sei pronto?-

Morse il labbro inferiore -Solo un attimo...-

Il pollice tremava ancora.
 

No, non lo era. Ma avrebbe cambiato qualcosa esserlo?

 

*******


01 luglio 2013. Ore 2.25

Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han.

 

Chiuse la porta con un gesto secco, immerso nel buio del salotto. Il silenzio regnava e solo i suoi lenti movimenti ne intaccavano la quiete. Buttò le chiavi nella ciotola posta sul basso tavolino all’ingresso e si tolse il cappello. Lu Han non aveva bisogno di accendere le luci per orientarsi nella scatola di sardine; la sua memoria era talmente levigata che sapeva quali ostacoli evitare e che strada era meglio percorrere per evitare che il mignolo del piede cozzasse contro qualche maledetto spigolo.

Quella notte però qualcosa non andava, lo aveva respirato sin dal portone d’ingresso.

Nel muovere un piede, qualcosa era stato schiacciato. Era morbido, non gli procurò dolore. Solo raccogliendolo tastò la consistenza di un tovagliolo arrotolato ed umido. Lo fece cadere mentre una smorfia di disgusto andava dipingendosi sul volto velato di confusione. Si pulì le mani contro la felpa e nel calpestare un altro tovagliolo, optò per accendere le luci.

-Ma che ca--

Le parole perirono in gola, ricaddero nello stomaco chiuso mentre gli occhi scuri si allargavano di fronte alla miriade di fazzoletti sparpagliati in giro. Sembrava che qualcuno avesse improvvisato una guerra a palle di neve, centrando addirittura la pianta grassa posta vicino alla finestra dalle tende svolazzanti.

Lu Han si massaggiò la nuca, conscio che quell’enigma non era poi così difficile da risolvere. Gli bastò adagiare lo sguardo sulla scia di fazzoletti accartocciati che portavano al divano, per rendersi conto che il fautore di quello scenario apocalittico altri non era che Oh Sehun.

Se ne stava su di un lato con un libro riverso per terra e un altro chiuso a fargli da poggia braccio. Lu Han si avvicinò con cautela schivando le umide trappole, facendo attenzione a non svegliarlo e una volta arrivatogli a pochi passi si chinò, agguantando il voluminoso tomo dalla copertina lucida e plastificata: “Dalì. Vita e opere, eccentricità e scandali, segreti e ossessioni”… Ci credeva che si fosse addormentato come un sasso. Quel libro doveva essere una mazzata sulle palle non indifferente! Lo lasciò cadere con malagrazia; il mugugno indecifrabile di Sehun lo fece sbuffare.

Che. Idiota, fu questo che pensò quando si ritrovò a sedersi sul bordo del divano con il volto fra le mani. Possibile che quel demente avesse rischiato di allagare casa solo perché si stava sorbendo una maratona nella vita di Dalì? Pensava che Sehun fosse ormai forgiato dal fuoco di mille notti insonni, che non sarebbe crollato per un esame un po’ più bastardo del solito. Ma ci fu qualcosa nel suo continuo mugugnare che lo mise in allarme. Che quel –Jongin…- biascicato e flebile, era la chiave di tutto.

Le mani di Lu Han scivolarono, caddero in picchiata sulle cosce mentre volgeva il viso in direzione del dongsaeng. Le sopracciglia di Sehun erano così aggrottate che le minuscole pieghe tra di loro si erano fatte più marcate del solito, le labbra traballavano e il suo corpo sembrava scosso da leggeri brividi. Fu a quella vista che Lu Han capì tutto.

La stanza sapeva di lacrime, se solo si concentrava poteva ancora udire i singhiozzi soffocati del ragazzo e lui era lì, immobile spettatore di una miriade di fazzoletti bagnati che rotolavano sul pavimento, incapace di fermare quel fiume di straripante dolore.

La sofferenza era palpabile. La sofferenza era Sehun disteso sul divano.

Lu Han fu solo capace di pensare che se solo non avesse trascorso la serata con Wu Fan, avrebbe potuto prosciugare la sua disperazione. Se solo Wu Fan non lo avesse trattenuto in quella strada affollata, sotto le insegne dei negozi ancora aperti, avrebbe avuto un’occasione per avvicinarsi a Sehun senza intimorirlo. Avrebbe potuto riavvicinarlo, superando le macerie dei loro ricordi che non permettevano loro di essere i grandi amici di un tempo.

Doveva essere successo qualcosa di epocale per ridurlo di nuovo così, dopo mesi.

Lu Han sfregò le mani, le torturò, le strinse forte, le giunse, fece di tutto pur di non far disperdere le dita fra i fili biondi di Sehun. Avrebbe rischiato di commettere qualche pazzia se solo non si fosse frenato, avrebbe finito col rimuovere ogni tassello di serenità che avevano posto intorno a loro, rischiando di far tornare quella cupa aura di astio che era stata spazzata via con una folata di vento.

La suoneria di un cellulare catturò la sua pigra attenzione. Era quella anonima di Sehun, quel trillo fastidioso che gli perforava il cervello le rare volte in cui qualcuno si azzardava a chiamarlo. Il ragazzo sembrava caduto in un sonno profondo, allungò le gambe ma non si mosse.

Lu Han si avvicinò al tavolo per spegnerlo, evitando che l’amico potesse svegliarsi. Lu han non ebbe il tempo di realizzare l’accaduto, fu il suo corpo a reagire d’istinto. Gli occhi si allargarono, il volto si contrasse di rancore, fu sul punto di scagliare il telefono contro il muro per ridurlo in minuscoli pezzettini…

 

*Chiamata in corso… Jongin.*

 

L’incubo era tornato.

Fu angosciante il modo in cui quelle lettere sfilarono davanti ai suoi occhi, fu ancora più straziante rendersi conto che qualcosa era accaduto quel giorno ormai passato, qualcosa che avrebbe rischiato di mandare in fumo ogni sua più minuscola aspettativa.

Qualcosa che andava troncata sul nascere.

Avvertì un movimento oltre le proprie spalle ricurve e appesantite dalla coscienza che continuava ad alitargli sul collo, impedendogli di compiere quel gesto inconsulto che avrebbe portato con sé conseguenze di cui non vedeva forma. Ma le scrollò quando udì un impastato –Lu Han, sei tu?- e non gliene fregò più nulla di niente.

Premette la cornetta rossa, gettò il cellulare con stizza sul tavolo. Sehun non avrebbe mai saputo che Kim lo aveva cercato e mai avrebbe dovuto saperlo. Andava bene così, era la cosa più giusta per lui.

-Chi vuoi che sia?-

Sehun mangiucchiò qualche insulto. Si massaggiò le spalle prima di strofinarsi il volto. Doveva essere parecchio stanco. E fragile. Glielo lesse negli occhi gonfi e che dovevano bruciargli, visto che se lo stropicciava ogni due secondi. Lu Han avrebbe voluto chiedergli cosa fosse accaduto, ma le guance purpuree del dongsaeng, con lo sguardo perso sui fazzoletti, lo costrinsero a tacere. L’imbarazzo di Sehun era palpabile, non voleva farlo sentire più orribile di quanto non fosse.

-Com’è andata con Kris?- chiese sonnolento, stiracchiandosi una volta in piedi.

Quando la maglietta si sollevò, Lu Han fissò il ventre piatto e bianco dell’amico, avvertendo le dita prudere –Come al solito… Ti saluta- scacciò il ricordo dell’espressione dello hyung, poi si concentrò sul coinquilino –Ma ti ho svegliato, per caso?-

-No. E’ stato il cellulare…- guardò il proprio con un occhio aperto –Era il tuo?- lo posò con pesantezza. A Lu Han parve vedere la speranza scodinzolare ai piedi di Sehun e andarsene, quando lo schermo del telefono si spense.

Lu Han imbavagliò la coscienza –Aha.-

-A quest’ora?- lanciò un’occhiata all’orologio da muro –E chi era?-

 

Lu Han si massaggiò il collo.

Sehun si stropicciò gli occhi, tirò su col naso.

-Nessuno…- deglutì –Solo uno che ha sbagliato numero.-

 


 


[1] La Buster Sword è l’arma principale di Cloud Strife, appartenuta a Zack Fair e prima ancora ad Angeal Hewley. Tutti i personaggi appartengono alla saga di Final Fantasy VII e Final Fantasy VII Crisis Core. Se non lo aveste ancora fatto, rimediate e giocateci immediatamente. Merita come pochi giochi al Mondo.

[2] Hanamichi Sakuragi è il protagonista di Slam Dunk, manga di Takehiko Inoue incentrato sul basket. Il ragazzo, dopo aver perso la testa per Haruko Akagi, entrerà a far parte della squadra di pallacanestro della scuola solo per far colpo su di lei. Akira Sendoh ([3]) è uno dei suoi avversari ed è considerato il giocatore migliore a livello liceale. Se non lo aveste ancora fatto, leggetelo. Questo manga è il tripudio del testosterone fa morire dal ridere.

[4] Resident Evil è un survival horror creato dalla Capcom nel 1996. Ambientato a Raccoon City, un gruppo di agenti si ritroverà ad indagare su di un virus prodotto dall’Umbrella Corpooration che ha infettato tutta la popolazione, trasformandola in zombie.




 

Inutili note conclusive:

Io ancora mi chiedo come ho potuto infilarci una Krishan. Una KRIShan. KRIS! L’ho detto nelle noti introduttive e lo ripeto qui: io non ho nulla contro quel caro ragazzo, davvero, mi piace come mi piacciono tutti gli EXO –Sehun, Kai e Lu Han e Lay e Chen e Xiumin e Suho sono un gradino sopra, ma questo è perché sono una fangirl pessima-, ma c’è qualcosa di lui che continua ad inquietarmi. Comunque, fan della Krishan che siete alla lettura, prendete e godetene.

Passando alle inutili note vere e proprie… Ma quella citazione tamarra ad inizio capitolo? Sì, lo so. I Subsonica c’entrano con il Kpop come Kris c’entra con la pittura ma ogni volta che ascolto Nuvole rapide non posso non immaginarmi questo Kai che corre alla ricerca di Sehun –non mi sono fumata nulla, giuro! E’ che tendo a fare associazioni d’idee un po’ particolari-.

Questo capitolo è nostalgico. L’ho infarcito di così tanti riferimenti personali che, seppur facesse schifo, io continuo ad esserne soddisfatta. E sono soddisfatta anche perché finalmente mi sono decisa ad aggiungere le note numerate di tutti quei riferimenti a cose/persone che, forse, solo io potrei conoscere –ma tanto so che là fuori ci sono fan di FF VII e Slam Dunk, me lo sento!-

Ultimo ma non meno importante: le età dei protagonisti sono sballate. Questo perché non ho tenuto fede della realtà e mi sono presa una minuscola licenza poetica solo ai fini della trama. Non penso sia qualcosa di così sconvolgente, ma mi sembra corretto mettere le cose in chiaro.

La taglio qui che il capitolo è già bello lunghetto –vi siete preparate psicologicamente?- e passo ai ringraziamenti, questa volta più sentiti del solito –e sono già sentitissimi, ormai non so più con che parole dirlo-: a Shinushio (COMPLEMENTARI!!!), WhiteRose88, Silver_Princess e dylandogs va tutto il mio affetto da fanwriter mancata per aver commentato il precedente capitolo. Io… Boh, mi avete riempita di così tante belle parole che mi sento sempre un po’ pessima a sommergervi di risposte nonsense. Grazie di cuore, mi fate sempre sentire brava e non è poco.

Ringrazio anche chi ha aggiunto la storia fra le seguite/ricordate/preferite e chi legge in silenzio. Se vi andasse, ditemi pure la vostra. Qualsiasi tipo di critica o non è sempre ben accetta :)

 

Alla prossima!

HeavenIsInYourEyes.

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Capitolo 5
*** I'm sorry, but your Sehun is in another castle ***


o

Mi scuso profondamente con quelle poche anime che magari si aspettavano un aggiornamento lampo ma ho avuto altro per la testa e Absentia è uscita dalla lista delle priorità, purtroppo. Sono tornata perché le voglio comunque bene e piano piano sto mettendo insieme i pezzi. Non so quando riuscirò ad aggiornare ancora, dato che sul fronte lavoro si prospettano tempi neri fino a… Marzo 2014? (così dice la boss, almeno.), ma spero di non sparire.
Vorrei tanto che questo fosse un comeback spumeggiante, ma non sono davvero in vena. Vi chiedo di perdonarmi se ciò dovesse notarsi anche in ciò che ho scritto, per quanto tenda a distaccarmi sempre.
E niente, per chi fosse interessato qui c’è il nuovo capitolo.
Mi erano mancati questi disagiati, lo ammetto.
Buona lettura

 

Absentia

 

“Ma gli uomini mai mi riuscì di capire, perché si combinassero attraverso l'amore.
Affidando ad un gioco la gioia e il dolore.”
                                                                      -Un chimico, Fabrizio De André-

 

Capitolo 4

I’m sorry, but your Sehun is in another castle

(Di Super Mario, Kai e lettere d’amore)

 


14 luglio 2013. Ore 9.10
Seoul. Seoul Institute of the Arts.

 

 

Arrivare al cuore di Sehun, per Lu Han era sempre stato come uno Shoot 'em up [1].

Nemici da affrontare lungo il percorso, munizioni nascoste in scrigni e savepoints lontani anni luce, che lo costringevano a non commettere nessun passo falso pur di non dover ricominciare da capo. Ogni sorriso strappato o chiacchierata conclusa tra le risate era una missione portata a termine, con conseguenti punti esperienza che lo rendevano un po’ più invincibile.
Ma Lu Han, in quella specie di massacro, si era sempre sentito il Super Mario della situazione: sconfiggeva temibili avversari, superava prove di inenarrabile difficoltà e una volta arrivato a quello che doveva essere il traguardo, con tanto di boss cazzuto pronto a divorarlo, c’era qualcuno che con seraficità disarmante e assolutamente fastidiosa, gli diceva: Mi dispiace, ma il tuo Sehun è in un altro castello! Solitamente era Minseok la voce della verità che gli ricordava quanto Sehun fosse in realtà ancora troppo innamorato di Bowser-Jongin, per potersi accorgere di un idraulico baffuto dalla sgargiante salopette rossa. Ma Lu Han aveva dalla propria una dose massiccia di pazienza e impavido come sempre, sarebbe andato di castello in castello, fino a che non lo avesse trovato. O si fosse fatto trovare. 
Cominciava a credere che fosse lo stesso Sehun a scappare di mondo in mondo, solo per non venir salvato.

Perché Sehun era diventato un’ombra nella sua quotidianità fatta di discorsi interrotti, sguardi buttati e parole sparse solo per  dar da mangiare a quel silenzio opprimente che continuava a schiacciarli. E quella mattina, Lu Han non aveva resistito: Sehun non lo aveva salutato quando i loro sguardi si erano incrociati nella minuscola cucina, si era limitato ad un’alzata di mano mentre immergeva la faccia nella tazza di latte. 
Purtuttavia era rimasto, convinto che il proprio –Fa un freddo cane, non credi? Non sembra neppure di stare a luglio.- avrebbe fatto uscire l’amico dalla bolla di apatia che lo accompagnava da ormai qualche settimana.

Sehun aveva però sollevato il viso e Lu Han era naufragato nella sua sofferenza.

Poteva leggerne il motivo nei suoi occhi rossi e gonfi, nella meccanicità con cui masticava i cereali, nel suo guardarlo senza davvero accorgersi della sua presenza. E deleterio sarebbe stato il suo Hai pianto ancora?, perché sapeva che ne sarebbe seguito uno sfiancato Non ho pianto a cui avrebbe ribattuto con uno scoglionato Ti ho sentito, lo sai? Non hai fatto altro per tutta la notte!, e inevitabilmente sarebbero precipitati in una discussione fatta di ringhi e ruggiti che avrebbe trovato il proprio culmine in Kim Jongin. 
Perché l’epicentro di tutto era sempre Kim Jongin. 
Quel nome trascinava con sé talmente tanto da costringerlo a scappare, onde evitare lo scoppio di una guerra che non aveva voglia di combattere; Lu Han si era reso conto di essere un mago negli sparatutto virtuali ma quando si trattava di viverli in prima persona, non era poi così geniale come dava a vedere.

Se n’era andato prima che qualche cattiveria sfuggisse al suo controllo, complice un Jong-dae che continuava a tempestarlo di sms per ricordargli che doveva fargli da cavia per un esame. 
Non seppe neppure se Sehun lo ebbe ascoltato quando gli disse –Farò tardi. Sai che Jong è lento.- talmente era impegnato ad imbronciarsi di fronte ad un cellulare silenzioso. Non gli chiese chi stesse aspettando.
Lo sguardo che gli rivolse prima di annuire, valeva più dei pianti notturni che avevano riempito casa loro da ormai due settimane.

L’università era una landa deserta, a parte qualche sparuta anima che vagava per i corridoi. Lu Han se ne stava incollato all’enorme finestra che dava sul cortile bagnato dalla pioggia scrosciante, gli occhi fissi su di una busta bianca trovata nella cassetta della posta. Non gli erano mai piaciute le buste, in particolar modo quelle anonime. Solitamente nascondevano missioni secondarie talmente difficili da impedirgli di completare il gioco al 100% oppure riportavano scuse prestampate per non essere stati ammessi all’università dei propri sogni, costringendolo ad accettarne una a buon mercato. Altre volte, semplicemente, trasportavano talmente tanto amore adolescenziale non corrisposto, confessato nel retro della scuola, da farlo sentire in colpa per averlo rifiutato.

Questa volta, invece, si celava chissà quale missione secondaria che avrebbe compromesso ogni suo piano di conquista. Perché quella lettera anonima era indirizzata al suo coinquilino e cazzo, le cose stavano assumendo una piega che non gli piaceva. 
Ringraziò il cielo di essere stato lui a prendere la posta, altrimenti avrebbe rischiato che Sehun Peach venisse a conoscenza di questo fantomatico spasimante segreto. Il pollice continuava a carezzare il nome del ragazzo scritto in maniera così elegante da farlo sentire un rozzo, per via del suo pessimo modo di scrivere. Si chiese cosa mai potesse esserci lì dentro, alimentando la voglia matta di aprirla per scoprire l’identità del mandante e carpire informazioni su come avrebbe portato a compimento il livello. 
In certe occasioni era sempre meglio anticipare le mosse dell’avversario, anche se ciò significava ricorrere a trucchi.

Sollevò appena l’angolo dell’apertura, deglutendo quando un flebile rumore di strappo rimbombò nel corridoio vuoto. Che male ci sarebbe stato, se anche avesse letto? Sicuramente Sehun l’avrebbe cestinata, lui lo stava solo anticipando sul tempo…

-Perdonami! Sono in ritardo Questa mattina ci ho messo più tempo del solito a prepararmi!- l’uragano Jong-dae turbinò nella sua atmosfera con capelli freschi di piega e sorriso smagliante, interrompendo il suo losco operato. Si guardava attorno con aria famelica, celata da quel sorriso un po’ furbetto che spesso intimoriva Min-seok (anche se Min-seok era praticamente terrorizzato dal mondo).

Lu Han gli lanciò un’occhiata stizzita, poi tornò a concentrarsi sulla busta –Se stai cercando Min-seok, oggi non viene. Sta poco bene.-

Jong-dae si rabbuiò, le braccia molli lungo i fianchi e gli occhi saettanti -Vuoi dire che ho perso un’ora davanti allo specchio per niente?- Lu Han annuì –E tu lo sapevi?- annuì ancora –Te l’ho mai detto che sei uno stronzo, vero?-

-Tutti i giorni. Ma amo sentirtelo dire.-

Jong-dae era uno dei pochi amici che Lu Han conservava con cura, di quelli a cui mai avrebbe rinunciato. Maestro supremo della trollaggine, Jong riempiva le sue giornate con espedienti più o meno creativi per conquistare il puro ed innocente Minseok che, come da copione, ovviamente non si era accorto di come l’altro sbavasse ogni qual volta sorridesse o parlasse o semplicemente respirasse.
Lu Han si sentiva a proprio agio stando al suo fianco; il proprio male, condiviso con qualcun altro nella sua stessa situazione, diveniva un po’ più sopportabile. Come quel momento, con lui che continuava a passare mentalmente in rassegna la carrellata di papabili pretendenti che avrebbero potuto scrivere a Sehun, e Jong-dae, che nel mentre se la prendeva con la sua proverbiale sfiga.

-Si può sapere che leggi?-

-Mh? Questa? E’ una lettera per Sehun, ma non c’è il mittente.-

-Uh, un ammiratore segreto?- appoggiò il mento sulla sua spalla e studiò quei pochi ideogrammi scritti finemente sulla busta –Dev’essere un tipo raffinato. Guarda come scrive o anche il tipo di carta usata.-

-Nh, e sapresti dirmi anche chi gliel’ha scritta, Sherlock?-

-Mi spiace, Watson, ma non ne ho la più pallida idea. So solo che dovresti consegnargliela ed evitare di combinare cazzate- fece per replicare ma l’altro fu più veloce –Niente stufa, niente accendini, niente acqua e soprattutto: non aprirla.-

-Non era mia intenzione.-

-Dal tuo sguardo non si direbbe- Jong-dae gli tirò su le guance, cercando di farlo sorridere, ma tutto ciò che ottenne fu un Fanculo appena biascicato e qualche altro smadonnamento –E poi se non ti muovi, rischi sul serio che qualcun altro te lo porti via. Ancora…- il cuore di Lu Han traballò nell’esatto istante in cui quelle parole lo sfiorarono. Il passato incombeva come gli enormi nuvoloni che avevano coperto il cielo plumbeo di Seoul e più ci rimuginava su, più continuava a dirsi che avrebbe cambiato tutto se solo avesse avuto la possibilità di tornare indietro -Non commettere gli stessi errori, d’accordo?-

-Di certo non sono io ad aver commesso errori- replicò snervato, storcendo il naso al ricordo di un euforico Sehun che gli annunciava di star andando al primo, vero appuntamento con quel demente di Jongin. Cose da conati di vomito, sul serio –Magari è solo uno scherzo.-

Jong-dae arricciò le labbra, pensieroso –E se fosse di Kim? Magari è tornato e non sa con che faccia ripresentarsi- lo enunciò seraficamente, con le mani dietro la testa e lo sguardo rivolto al soffitto. Per Lu Han fu come se il mondo avesse smesso di girare –Ormai è via da un sacco. Non aveva mica detto che—

-Non so niente- lo interruppe lapidario, innervosendosi quando il suo pedante –Ma tu— tornò alla carica, costringendolo a rifilargli una delle occhiate più cupe che possedesse –Non. So. Niente.- esalò un’ultima volta, rilassandosi di fronte al suo veloce annuire.
L’opzione Kim è tornato in città non l’aveva presa in considerazione e forse era stato un bene perché il terremoto di sentimenti che aveva causato, stava scombussolando la sua quiete interiore faticosamente rifocillata. 
Jongin era un boss troppo difficile da sconfiggere, non ce l’avrebbe mai fatta, non adesso. Non aveva armi potenti per eliminarlo e cosa più importante, Sehun ne era ancora troppo assuefatto perché potesse schierarsi dalla sua parte.

-Ah, prima che me ne dimentichi!- Jong-dae ravanò nello zaino, rapendolo dai propri farneticamenti -Ta-dan!- gli porse un volantino su carta patinata con un sorriso alla Cheshire e Lu Han rabbrividì. Era inquietante quando esclamava Ta-dan!, anche perché di solito non seguiva mai nulla di buono.

-Che roba è?-

-Ma che ne so. La galleria d’arte dove lavora mio fratello ha indetto un concorso di fotografie per non ho capito cosa. Mi ha detto di distribuire i volantini ai miei amici- gli sorrise –Ho pensato che potresti darlo a Sehun. Magari gli servirà a distrarsi-
Si, certo…
Peccato che Sehun avesse smesso di fare fotografie, se non per necessità. Diceva di andare al parco ma mai gli aveva mostrato qualche foto. Prima gli faceva perdere le ore nel descrivergli i giochi di luce, le pose... C’era così tanta bellezza in quei momenti, che Lu Han cominciò ad avvertirne l’asfissiante mancanza –Ci incamminiamo? Siamo già in ritardo!-

Lu Han annuì. 
Infilò il volantino in tasca e prima che potesse gettarvi anche la busta, guardò l’angolo che aveva leggermente strappato, sentendo il cuore precipitare, la coscienza scalciare. 
E poi c’era stata quella voce, che da tempo non aveva udito e che, ancora, ebbe il potere di farlo sentire sempre un passo indietro al mondo…

Mi dispiace, ma il tuo Sehun è in un altro castello.


******

 

14 luglio 2013. Ore 18.48
Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han.

 

Sehun aveva smesso di tormentarsi davanti ad un telefono che non squillava mai all’età di sedici anni, quando aveva capito a proprie spese che la cotta adolescenziale, che da tempo aveva occupato i suoi sogni erotici, non lo avrebbe richiamato. 
Anche se tra loro c’era stato un bacio in discoteca, anche se il dj aveva messo quella che lui aveva sempre considerato la loro canzone –senza che l’altro lo sapesse, com’era giusto che fosse-, anche se gli aveva promesso che un giorno o l’altro lo avrebbe invitato a casa sua per ripassare fisica –e Sehun aveva ardentemente sperato che stesse parlando di educazione fisica.-.

Non che ci fosse riuscito da solo, era troppo emotivo e paranoico per poter uscire con le proprie mani dal baratro dell’umiliazione; era stato Lu Han a fargli capire che il tempo che sgocciolava davanti i suoi occhi lucidi, poteva essere speso in maniera più costruttiva. 
Ricordava ancora quando si era presentato a casa sua in lacrime dopo una settimana di messaggi mai arrivati e chiamate mai ricevute, con gli occhi gonfi e il naso rosso, stringendoselo in un abbraccio da cui subito l’altro si era divincolato perché Cristo, ci sono i miei e poi sai che rompono i coglioni!
Le parole erano state dure, gli sguardi dell’amico erano scivolati sul suo corpo corrodendo quel briciolo di amor proprio che, nonostante tutto, credeva gli fosse ancora rimasto. Ridursi così per un cretino è proprio da deficienti, aveva esalato aspro prima di rituffarsi nel proprio mondo fatto di tubi, funghi e omini baffuti, Non capisco perché la gente si disperi per queste cazzate. Morto uno stronzo ne arrivano sempre altri cento.
E piano piano, aveva sentito l’amarezza divenire indifferenza, fino a che ogni traccia di affetto e devozione non era finita nel dimenticatoio.

Lu Han aveva sempre avuto modi bruschi di sbattergli in faccia la realtà, riuscendo a non farlo sprofondare. Eppure non gli parlò della chiamata a vuoto fatta a Jongin, che aveva preso a pugni ogni cumulo di speranza che serbava nel vederlo tornare indietro solo e unicamente per lui.  Non sarebbe stato capace di sopportare i suoi sguardi, i lineamenti del suo volto che andavano tumefacendosi per la collera, le sue parole pregne di disprezzo che avrebbero finito con l’avvilirlo un po’ di più.

Sehun era stanco di tutto quello.

Lui voleva solo sapere perché. Perché fossero arrivati a quel punto di non ritorno, perché tutto non stesse andando come avevano programmato. 
Perché, alla fin fine, era sempre lui quello che veniva lasciato indietro. 
Non c’era attimo in cui non se lo chiedesse, ma neppure le notti insonni erano state propizie. Il mondo si stava sgretolando sotto i suoi occhi colmi di questi Perché?, e più tentava di raccoglierne i cocci, assemblandoli, più quello continuava a sbriciolarsi.

E se neppure Sehun sapeva che farsene del proprio mondo crollato in pezzi, chi altro avrebbe voluto rovistare fra le sue macerie, cercando addirittura di ricostruirlo?

-I Backstreet boys?- Lu Han si intromise nei suoi vaneggi –Deve girarti proprio male.-

-Tu non dovresti parlare- abbassò il volume dello stereo -L’ultima volta che sono entrato in casa, stavi ballando Baby one more time.- un ghigno appena scorgibile sbucò, quando le guance dello hyung si tinsero di un acceso rosa pastello.

-Quell’esame era più complicato del solito.- si giustificò, mangiando ogni sillaba come se il suo stesso disappunto servisse a prevenire eventuali prese per il culo.

Cosa che ovviamente Sehun cercò di trarre a proprio vantaggio, visto che le occasioni di poter superare Lu Han in stronzaggine erano pressoché nulle, ma lo sguardo cadde in picchiata sulla pozza d’acqua sotto le sue Nike sporche e subito il suo istinto da massaia repressa sbucò -Non azzardarti a fare un passo!- gli intimò con cupezza, assottigliando gli occhi quando Lu Han si tolse il giaccone fradicio e lo gettò per terra –Ho appena pulito!-

-Ripasserai lo straccio.-

-Io non ripasserò proprio nulla. Sarai tu a farlo!-

-Scordatelo. Sei proprio un rompipalle, lo sai?-

-No, sei tu che rompi!-

-Quante storie per un po’ d’acqua.-

-Il problema non è l’acqua!- puntò il dito contro le piastrelle –Il problema è l’acqua sul pavimento appena lavato!- esalò pratico, facendo lampeggiare l’indice sulla sua figura grondante di pioggia.

Lu Han alzò le spalle e come se nulla fosse attraversò il piccolo salotto per rifugiarsi nella propria tana, ignorando il suo restarsene immobile ed attonito con quell’indice a mezz’aria che, ormai, aveva smesso di muoversi. Seguì le sue impronte disegnate da gocce, facendo attenzione a non calpestarle. Impresa più facile a dirsi che a farsi, perché Lu Han aveva sempre avuto la brutta abitudine di trascinare quei suoi maledetti piedoni, anziché sollevarli come ogni essere umano.

-Potresti alzare quei maledetti piedi, una volta tanto? Stai bagnando tutto il pavimento!- Lu Han si infilò in camera, Sehun captò un annoiato Che due coglioni frantumarsi a pochi centimetri dai propri calzini bagnati –Che due coglioni lo dico io, chiaro? E non imprecare, hai capito? Non farlo! Mi dai sui nervi quando lo fai!-

Lu Han non si degnò neppure di voltarsi, continuava la sua svestizione senza badare alle occhiate infuocate o agli sbuffi o qualsiasi altra cosa che avrebbe dovuto catturare la sua svagata attenzione. Sehun sentì la rabbia mescolarsi alla verdognola gelosia; anche a lui sarebbe piaciuto vivere senza alcun pensiero, lasciarsi ogni paranoia o fobia alle spalle e trascorrere serenamente il resto della propria esistenza. Capì però ben presto, quanto solo pochi eletti come Lu Han potessero riuscire in tale impresa: lui non era in grado di rinunciare ai ricordi e, soprattutto, non riusciva ad abbandonare le anime che avevano sostato nel suo cosmo.

-Sembri mia madre, dico sul serio. Hai anche lo stesso grembiule.-

Sehun aprì le labbra, pronto a ringhiargli contro che sua madre non aveva mai usato grembiuli e che se lo ricordava benissimo, perché indelebili erano le sue magliette a fiori sporche di farina e i pantaloni maculati di marmellata o cioccolata. 
Ma le parole si aggrovigliarono in un gomitolo indissipabile, che rotolò nelle cavità più buie della sua mente mentre le guance andavano imporporandosi.
Lu Han si stava spogliando davanti ai suoi occhi ora larghi e, diamine, certi spettacoli erano da fiato mozzato in gola, di quelli che poche volte si provavano nella vita e quando ciò avveniva, lasciavano un segno talmente profondo che il ricordo non poteva più essere manomesso. La schiena nuda di Lu Han trascinava con sé una scomoda sensazione di déjà-vu. 
Fu uno spettacolo già visto, eppure ai suoi occhi parve nuovo.

La sua schiena svettava nel candore della camera da letto, che sapeva di detersivo al limone comprato nel negozietto sotto casa. Era stretta, lattea, di quel bianco che stonava con l’azzurro tenue della stanza, che strideva con l’ultima che aveva visto. Che era ambrata, larga, capace di reggere ogni sua paura ed insicurezza...

-Dovresti chiudere la porta quando ti cambi!- gracidò dandogli le spalle.

-Come se non mi avessi visto nudo già un mucchio di volte. E comunque sei stato tu a seguirmi.-

Sehun strinse i pugni, indeciso se ammazzarlo seduta stante o aspettare che pagasse la sua quota di affitto. Guardò oltre la spalla e lo vide trafficare nel comò alla ricerca di una maglietta pulita. Decise in quel momento che l’unica vendetta era mutilarlo, almeno non avrebbe potuto più giocare ai suoi amati videogames e sarebbe perito nella disperazione.

-Era diverso.- osservò nostalgico, memore di un’infanzia fatta di bagni assieme al migliore amico e svestizioni negli spogliatoi della scuola prima di un torneo. Non c’era mai stata malizia, forse per la giovane età o forse perché Lu Han era una specie di fratello rompipalle, giunto appositamente per rovinargli l’esistenza già di per sé schifosa e, anzi, se solo ripensava a quei momenti, un sorriso di pura nostalgia sbocciava irrefrenabile.

La nostalgia legata a Lu Han non gli faceva male.

Sapeva di torte appena sfornate nei pomeriggi di primavera, quando studiava nel giardino sfiorito di casa e Lu Han si presentava con una scatola di latta di Dragon Ball con dentro i suoi tesori: le carte dei Pokemon che raccoglieva con tenacia e fatica. Sapeva dei suoi sorrisi sbilenchi mentre si vantava di aver trovato quel Blastoise argentato rarissimo e delle sue colorite ma mai pesanti imprecazioni quando lui, invece, gli sbatteva in faccia con placidità di aver trovato nel cassonetto della spazzatura un Charizard dorato nuovo di zecca. Sapeva del cigolio delle altalene al parco fuori città quando facevano a gara a chi per primo avrebbe toccato il cielo, anche se Sehun perdeva sempre perché soffriva di vertigini e allora si fermava a metà. Aveva lo stesso sapore della speranza quando guardava i bui cieli d’agosto con il naso all’insù, seduto sul tetto di casa, di fianco ad un Lu Han stravaccato che continuava a ripetergli quanto stupido fosse il loro aspettare le stelle cadenti, l’esprimere centinaia di desideri che mai si erano avverati e sentirsi dire con scazzo Te l’avevo detto.

La malinconia che provava per Jongin, invece, faceva un male atroce.

Anche in quel momento poteva udire i suoi passi cadenzati riecheggiare nel corridoio, le proprie grida mentre gli intimava di tornarsene in camera e non rendere vane le sue ore di pulizie; la sua risata spensierata che riempiva ogni crepa del muro, capace di malleare perfino il mutismo più spesso che era solito rivolgergli quando non sapeva come altro incazzarsi. E il modo in cui lo abbracciava quando prendeva un bel voto o quando semplicemente aveva bisogno di coccole, mostrandosi per il bambinone che era sempre stato; il suo sorriso smagliante quando diceva a qualche sua improvvisa idea e il broncio decisamente adorabile che gli piazzava quando si negava, in qualsiasi circostanza.

Sehun aveva sempre amato considerarsi la riva su cui Jongin sempre si sarebbe infranto, ma lui era una di quelle onde che carezzava il bagnasciuga e poi si ritrascinava in acqua, perché quello era il suo posto.

-Non sono poi così cambiato- la sua svagatezza lo trasse in salvo –Ma dove cacchio sono le mie magliette? Le hai spostate di nuovo tu?!-

Sehun si mosse, impietosito dai gesti irascibili del compagno. Sollevò la pila di libri sulla poltrona posta nell’angolo della camera e gliele mostrò con una smorfia –Dovresti mettere in ordine.- gli rifilò quelle parole con incertezza, intimorito al pensiero che potesse rinfacciargli qualcosa come Non sai mettere in ordine la tua, di vita, e vieni a lamentarti con me?, del resto sarebbe stato tipico di Lu Han. Ma quello si limitò a mangiucchiare delle scuse mentre sceglieva una maglietta dal mucchio, concedendogli di nuovo la vista della sua schiena candida e stretta.

Era vero, Lu Han non era poi così cambiato dal bambino di dieci anni che picchiava i bulli che gli rubavano il pranzo o da quello di quindici anni che lo consolava malamente quando l’ennesima cotta rifiutava le sue avances. Solo i gesti erano mutati, divenendo radi e calcolati, come se un abbraccio in più avesse potuto scalfire quel loro rapporto perennemente in bilico su di un filo che, Sehun, nemmeno sapeva quando fosse stato filato. 
E le parole… Lu Han ci aveva sempre giocato, con le parole.
Amava rigirarle, invertirle, metterne una in più per fargli sbrodolare il cervello e toglierne qualcuna per farlo vivere nell’ansia.

Ma nonostante tutto, non si era spogliato delle vesti di amico pronto a trasformarsi nella sua ancora di salvezza.
Fu forse per questa sacrosanta certezza che Sehun si ritrovò a svelargli quel terribile segreto che da settimane aveva custodito nei cassetti della propria mente, non senza un certo imbarazzo misto a timore di venir pietosamente deriso.

-La settimana scorsa ho provato a chiamarlo.- la discesa della maglietta rallentò, a Sehun parve che ogni suo movimento fosse rallentato.

-Chi?-

Sehun si mise a braccia conserte –Oh, lo sai benissimo di chi sto parlando.-

-Naha, proprio no.-

Sbuffò –Ma sì, di lui…- Lu Han lo guardò oltre la spalla, scosse la nuca e attese con espressione a metà fra Ti prego non dirmelo, non voglio saperlo e Ma ti muovi, sì o no?. Sehun deglutì e con mastodontica difficoltà, pronunciò poche lettere che, sapeva, avrebbero inevitabilmente incrinato la loro conversazione -…Kai.-

La maschera di apatia di Lu Han si sgretolò, lasciando in bella vista una smorfia di disappunto che subito gli venne negata e, di nuovo, si ritrovò a scrutare la sua schiena ora più incurvata del solito.

Kai era il tutto e  il niente del suo universo. 
Era il Kim Jongin dei suoi giorni cupi, quella figura distorta che stava ricostruendo sulla base dei se, i forse, i magari.
Era il nomignolo che aveva affibbiato alla felicità, relegata in una fotografia che aveva abbandonato in una casa vuota, piena di spifferi, dalle pareti tremanti quando il treno passava alle tre del mattino. 
Quel mucchio di abiti smessi, chiusi in una scatola di cartone su cui aveva scritto “Non aprire”, quella valanga di parole che faceva franare sul proprio cuore invece di mandarle alla deriva del mondo che lo circondava e che, a dispetto di ogni suo più macabro pronostico, non aveva smesso di girare.

Kai era il nome che aveva dato all’assenza, solo perché così faceva meno male.

Aveva pascolato qualche mese prima, fra il sale e l’olio, vicino al ramen preconfezionato e subito aveva portato scompiglio. Ricordava lo sguardo di compatimento di Lu Han, quelle sopracciglia talmente aggrottate che avrebbe voluto far rilassare passandoci sopra i polpastrelli, quando lo enunciò per la prima volta, con la stessa placidità con cui si direbbe l’ora ad un estraneo. Ricordava i suoi esasperati E ora cos’è ‘sta roba?, gli scazzati Fatti curare, dico sul serio, accompagnati da sbuffi, parolacce e spessi silenzi in cui era annegato.

E alla fine, si era arreso. Lu Han si arrendeva sempre, per lui.

-Ah…- fu tutto ciò che gli lasciò, concentrandosi sulla lampo dei jeans. Sehun si ritrovò ad osservare la scala di vertebre che scompariva dietro l’elastico dei boxer e si ricordò che proprio quello era il punto debole di Jongin. Quante notti aveva accarezzato quel lembo di pelle color caramello, quanti brividi aveva sentito scorrere fino a divenire pura elettricità. Incredibile come ancora potesse sentire sotto i propri polpastrelli certe cose, come se stesse compiendo quei gesti in quel preciso momento.

-Beh, cosa ne pensi?-

-Penso che “Kai” sia un soprannome troppo bello per un coglione del genere.-

Sehun scivolò lungo lo stipite –Sii serio, ti scongiuro.-

-Ma infatti lo sono!-

Sehun capitolò, non provò neppure a vincere quella battaglia, già persa quando le scarpe bagnate di Lu Han avevano contaminato il pavimento lucente del salotto. Decise di chiuderla lì con un blando –Finisco di pulire, che è meglio.- ma la pazienza di Lu Han placò ogni sua decisione di resa.

-E cosa ti ha detto?- Sehun lo fissò con occhi sbarrati e labbra semiaperte; Lu Han gli rifilò un’occhiata scettica prima di far scivolare i pantaloni lungo le gambe magre –Beh? Prima rompi e adesso non rispondi?-

Si riprese dallo shock, dovuto in parte all’improvviso interesse dell’amico e in parte alla vista completa dei suoi boxer a righe blue e bianche. Cos’era quell’attorcigliamento di budella nel ritrovarsi davanti Lu Han mezzo nudo?! Richiamò all’ordine lo stomaco e ogni organo e muscolo che aveva deciso di contrarsi tanto da fargli male, ma vani furono i tentativi di placare i battiti del cuore. 
Decisamente, aveva bisogno di scopare, di quelle sane botte di sesso che gli avrebbero fatto addirittura dimenticare come si tiene in mano una forchetta.

-Non mi ha detto nulla, non era raggiungibile.-

-Magari ha cambiato numero- ipotizzò infilandosi i calzoni della tuta, riassestando così i suoi battiti ormai impazziti –Ma perché lo hai chiamato? Credevo fosse passata quella fase.-

-Quale fase?-

-Quella che: se non sai perché se n’è andato, non potrai andartene via da questo mondo in santa pace. Pensavo non fosse più così importante.-

Sehun non ebbe bisogno di realizzare quanto le cose non fossero poi così tanto cambiate, nonostante il tempo avesse ormai logorato la sua pazienza, l’unica capace di sostenerlo mentre attendeva un suo ritorno. Tutti quei Ci penserà a me almeno un po’?, i sofferenti Anche lui si starà chiedendo se sto sopravvivendo?, i laceranti Mi avrà già rimpiazzato?, non erano mai cessati, persistevano nel tormentarlo e se riusciva a non crollare, era solo per paura di venir lasciato indietro anche da quei pochi che si erano sorbiti i suoi pianti.

–Non l’ho chiamato per quello. Io volevo solo— già, cosa voleva chiedergli? Se stesse bene? Se si sentisse uno schifo per essersi comportato da insensibile bastardo? Magari voleva sentirsi dire che la vita, senza di lui, era uno schifo colossale? O appurare che i brividi, nell’udire la sua voce profonda, erano ancora gli stessi? Sehun si ritrovò a brancolare nell’angoscia e quando Lu Han lo incalzò con i suoi occhi larghi e un velo di noia a farlo sbadigliare, tutto ciò che riuscì a dire fu –Volevo solo dirgli: Ciao.- perché, dopotutto, non era poi così lontano dalla realtà.
Perché prima di essere stati due tremendi amanti, erano stati l’uno il porto sicuro dell’altro, uniti da un inossidabile vincolo di amicizia che credeva sarebbe perdurato nei secoli.

E l’amicizia di Jongin, quella, era stata talmente bella che il cuore gli si scioglieva ancora…


La prima volta che staccarono la luce per non aver pagato le bollette, Sehun stava studiando inglese per l’esame del giorno dopo. Era acciambellato sul futon  quando un'assordante “Tac” aveva anticipato il buio.

Sehun non ricordava granché cosa fosse successo negli istanti successivi. C’era stata una sonora imprecazione di suo padre, proveniente dalla cucina; sua madre era divenuta una mitragliatrice di domande e più queste non trovavano risposta, più andava in escandescenza. Le urla si erano librate alte, mescolandosi ad un pianto che Sehun non era riuscito a sopportare. 
C'era stato il motore dell’auto che risuonò in cortile -perché suo padre se ne andava sempre quando le cose si facevano ingestibili- e tutto ciò che rimase, fu il pianto nervoso di sua madre che marciava fino in camera. 
Avvertì gli occhi pizzicare quando si accorse di non poter più reggere a tutto quello sfacelo, perché le sue spalle erano troppo gracili e se non si lasciò andare, fu solo perché un’ombra gli scompigliò i capelli, facendolo urlare.

-Sehun, sei sveglio?-

-Jongin, demente! Vuoi per caso uccidermi?!- la sua risata gli perforò un timpano, miscelandosi ai battiti impazziti del suo cuore.

-Tesoro? Qualcosa non va?- sua madre bussò, gli parlava oltre la porta con malandata tranquillità.

-No, mamma, non è niente!- si accertò che i suoi passi sfumassero, poi diede una spinta all’amico appallottolato al suo fianco –Cretino, vuoi farti scoprire?!-

-Scusami, è che eri così spaventato che non sono riuscito a trattenermi- sbrodolò senza fiato; doveva avere un sorriso da capogiro in quel momento -Stavi dormendo?- Sehun non rispose, Jongin continuò con incertezza –Ho visto le luci tutte spente, così ho pensato che—

-Papà non ha pagato le bollette.- lo interruppe con bruschezza, giocherellando con il cuscino a forma di panda rubato a casa di Lu Han.

-Oh… Mi dispiace- Sehun alzò le spalle, ringraziando il buio che inghiottiva lo sguardo di pietà dell’amico; il suo non lo avrebbe sopportato –Sarebbe divertente se venissero quei tizi con le pistole laser che fanno scomparire i divani e i televisori. Come in “The sims”!- trillò euforico, strappandogli uno sbuffo misto a risata.

-Già, sarebbe divertente…- ricacciò indietro le lacrime –Ascolta, se sei qui per i compiti di inglese, non li ho finiti. Non ho voglia di—

-In realtà volevo portarti fuori- il cuore di Sehun perse qualche battito, la cadenza della sua voce era perfino più dolce che nei suoi sogni –Mia sorella dice che stasera ci saranno un mucchio di stelle cadenti… Ti va di vederle assieme?-

Avrebbe voluto dirgli di no, perché doveva finire di studiare e poi non era in vena di stronzate. Voleva solo dormire e magari svegliarsi morto o qualcosa del genere. 
Ma Jongin gli aveva tirato addosso il cappotto e prima che potesse brontolare, lo stava seguendo silenziosamente sul tetto...

 

Parlavano di tutto e niente.
A dir la verità, era Jongin che intavolava discorsi e li portava a termine senza attendere un commento. Aveva quel sorriso scintillante che condiva ogni sua chiacchiera, quegli occhi sempre sorridenti in cui si smarriva e la sua spensieratezza, diamine, la sua spensieratezza era talmente adorabile da fargli dimenticare per un attimo che, una volta rientrato dalla finestra, una montagna di problemi lo avrebbero divorato.

-Ti ricordi che tra due settimane c’è il saggio?- la sua domanda euforica fu un tir che lo colpì in pieno. Il suo sorriso traballava un poco, eppure non accennava a diminuire.

-Aha, cercherò di esserci.-

-No, tu dovrai esserci. Me lo avevi promesso.- lo riprese con puntiglio, imbronciandosi mentre si stringeva nel piumino per ripararsi da una sferzata di vento improvvisa.

-Vedrò di non mancare.- ripeté con un briciolo di entusiasmo, quel tanto che bastava per farlo tornare il solito moccioso che era. Con i suoi sorrisi e i suoi occhi colmi di ingenuità, le sue mani che battevano e i piedi che dondolavano oltre il cornicione, come se i mali del mondo lui nemmeno sapesse cosa fossero. E per un breve istante, quando Jongin scoppiò a ridere per una cazzata non meglio identificata, anche Sehun si sentì allo stesso modo: spensierato e libero.

Su quel tetto, da solo con lui, era come stare sospesi e assaporare la vera felicità in tutta la sua lucentezza.

-Senti, mh, ecco…- si grattò la nuca, morse il labbro inferiore mettendo in bella mostra la fila di denti bianchi –Domani c’è il test di inglese e—

-Non ti lascio copiare.-

Le mani di Jongin sbatterono sulle cosce –Ma non volevo chiederti quello!-

-Se mi stai riproponendo di scambiarci i compiti, la risposta resta sempre quella di prima.-

Jongin gonfiò le guance, gli ricordava il criceto di Lu Han quando si rimpinzava di semi di girasole –Andiamo, ho bisogno di prendere un bel voto! Se venissi bocciato anche lì, mio padre sarebbe capace di sbattermi fuori di casa!- si lamentò mogio, poggiando il mento sui pugni chiusi. Sehun nascose un sorriso divertito dietro la sciarpa, guardandosi le mani guantate pur di non fissarsi sul suo profilo che, ormai, sarebbe riuscito a tratteggiare anche bendato –E allora verrò qui e sarete costretti ad ospitarmi.- aggiunse ferreo.

Sehun pensò che non sarebbe stato male vederlo gironzolare per casa in boxer o mentre improvvisava qualche passo di danza. Gli sarebbe piaciuto vedere sua madre ridere per le sue sciocche battute e suo padre rimproverarlo bonariamente perché non metteva lo studio al primo posto.

Averlo sempre intorno, così, come se non vi fossero limiti di tempo.

-Non punire i miei genitori, loro non c’entrano nulla.- rimarcò ironico, sbuffando quando cominciò a scuoterlo per la spalla con bambineschi “Non sei divertente!”. No, non lo era affatto… Ma Jongin sì, era talmente divertente che Sehun faticò a non scoppiare a ridere di fronte alle sue narici dilatate e le orecchie fumanti.

-A tua madre piaccio. Forse le piaccio più io, di te.- brontolò acquattandosi nel suo cantuccio, giocherellando con i lacci dorati delle Air Jordan appena comprate. Erano quelle rosse e nere, con il simbolo della Nike di un oro brillante. Sehun le aveva amate non appena lo sguardo era scivolato per caso sulla vetrina, ma la modica cifra di 84.835 Won [2] lo aveva fatto imprecare mentalmente mentre ripercorreva i propri passi.

-A mia madre piacciono tutti i miei amici, indistintamente. Vorrebbe adottarli in massa.-

-Anche Lu Han?- Sehun non badò a quella domanda posta con leggerezza, proprio mentre un'auto passava con la musica a palla.

-Oh, lui è in cima alla sua lista.- lo aveva quindi pronunciato con la stessa, placida tonalità con cui Jongin si era rivolto a lui, con il naso puntato all’insù e il volto modellato dalla serenità.

-Lo è anche nella tua?- e quando fece piovere una domanda del genere, dopo un’eternità di quiete, Sehun non seppe cosa fosse quel terremoto che gli colpì il cuore. 
Improvvisamente, trascinandosi dietro una valanga di domande che gli affollarono il cervello ormai in tilt.

Osservò il proprio respiro arrotolarsi nell’aria, come se potesse dargli le risposte che cercava, ma tutto ciò che riuscì a replicare fu un gracidante -Ma io non voglio adottare Lu Han!- stringendosi nel cappotto, riparandosi dal buio della notte cosicché non si accorgesse delle sue gote arrossate. Rossore che divenne color peperone quando la risata di Jongin si spandé nell’aria.

-Non intendevo quello!-

Sehun lo guardò di sottecchi e per un attimo il suo profilo gli parve distorto. La fronte era leggermente corrugata, c’era la linea morbida del naso solcata da quella impercettibile gobbetta che avrebbe voluto tracciare con i polpastrelli e le labbra piene erano arricciate in una smorfia, come se dalla sua riposta fosse dipesa la loro amicizia –Non ho alcuna lista, figurati.- tutto si inabissò in un silenzio teso, di quelli che non era solito affrontare quando Jongin era l’interlocutore. Lui parlava sempre per entrambi, adorava colmare i loro silenzi senza però risultare pesante. Oddio, per cinque minuti, poi veniva voglia di trivellarlo con una mitraglietta.

Sehun fu sul punto di chiedergli il perché di quella domanda, perché il coraggio gli veniva sempre quando era lui ad esporsi, in quella maniera un po’ criptica e che lo faceva vivere in un limbo per giorni interi, fino a che la normalità non si ristabiliva.

Ma il ragazzo era esploso in un –Wow!- che per poco non fece affacciare sua madre e prima che potesse accertarsi della sua sanità mentale, Jongin stava già strattonando il suo braccio –Una stella cadente! L’hai vista?! Esprimi un desiderio, coraggio!- e mentre lo pronunciava, aveva un’espressione talmente stupida che Sehun si ritrovò a nascondere un sorriso dietro la sciarpa a scacchi che Lu Han gli aveva regalato il precedente Natale, gli occhi ormai incollati sul suo profilo: le sopracciglia e il naso erano arricciati per lo sforzo, minuscole rughette si diramavano agli angoli degli occhi chiusi e il modo in cui si inumidì le labbra fu solo un colpo in pieno petto, che trasformò le gambe in due budini.

Sehun guardò il cielo e un tripudio di desideri prolificarono come un’emorragia inarrestabile.
Gli sarebbe piaciuto avere più soldi per poter aiutare i suoi, avrebbe voluto vincere quella borsa di studio tanto agognata così da non dover sobbarcare mamma e papà di ulteriori sacrifici, sarebbe voluto diventare astronauta o chirurgo, e che Lu Han la smettesse di chiamarlo nel cuore della notte per dirgli di aver completato qualche stupido livello.
Ma più di tutto, in quel preciso momento, ardeva dal desiderio che Jongin lo inglobasse in una bolla e lo portasse via su di una stella o un pianeta sconosciuto, qualsiasi posto andava bene purché ci fosse lui a tenergli la mano. Dicendogli che tutto andava bene e che avrebbero superato qualsiasi avversità, come nelle migliori favole che sua madre gli leggeva prima di addormentarsi, da bambino.

-Allora, lo hai espresso?- annuì appena, perdendosi nel suo sorriso così folgorante da illuminare perfino la notte –E cos’hai chiesto?-

-Non si dice! Altrimenti non si avvera!-

La gioia di Jongin si sgretolò in un –Oh…- che concretizzò il suo imbarazzo –Ecco perché non se n’è mai avverato neppure mezzo. Io li spifferavo sempre alle mie sorelle!- scoppiò a ridere fragorosamente, prima di sdraiarsi sul tetto e bombardarlo ancora di ricordi legati alla sua infanzia, che Sehun annotava mentalmente.

Jongin se ne andò solo quando suo padre rincasò, qualche ora più tardi, come se avesse capito che per lui quella casa sommersa da pianti e lacrime era solo un Inferno, e che da solo non sarebbe riuscito a sopravvivere. 
Era così buono, ma così buono, che sentì le lacrime scendere quando vide la sua schiena scomparire oltre il vicolo, cullato solo da quell’ultima frase lasciatagli inaspettatamente…

-Oh, e comunque neppure io ho una lista. Ma se l’avessi... Saresti di sicuro in cima.-

E che lo aveva fatto innamorare un po’ di più…

 

Fu una palla di carta quella che si schiantò sul suo viso senza delicatezza alcuna. La osservò perplesso, avvertendo il sollievo scivolare in ogni vena pulsante del suo corpo teso come corde di un’arpa. La raccolse con infinita lentezza e quando la aprì, fu solo confusione mista ad incredulità. Le parole Concorso e Fotografia e Mostra si rincorrevano tra di loro, mandando in completo blackout il suo cervello già malfunzionante.

-Che roba è?-

-Me l’ha dato Jong-dae. Pensa che potrebbe interessarti- Lu Han raccolse un mucchio di magliette sporche e stropicciate; imprecò quando gliene scivolò qualcuna dalle braccia –Potresti sempre dimostrare a quello stronzo del tuo prof che non sei uno da sufficienza scarsa.- lo pronunciò con tutto il sostegno di questo universo; Sehun avrebbe solo voluto sprofondare in una voragine per avergli raccontato una cazzata.

-Ci penserò…- mormorò sfibrato, deglutendo un secco No che avrebbe fatto incazzare il coinquilino. Sehun non era abituato a mostrare i propri lavori, a meno che non servissero per un esame. Era geloso del mondo che ritraeva su pellicola patinata e aveva il costante timore che la gente potesse scoprire ogni sfaccettatura del suo microcosmo, se solo avesse compreso il perché di determinate angolazioni, giochi di luce e sguardi che valevano più di mille sorrisi o parole.

Sehun non era bravo a mettersi in gioco, preferiva che fossero gli altri a trascinarcelo dentro, così da poter dar loro tutta la colpa in caso di sconfitta.

-Tanto so che non lo farai…- bisbigliò apatico, quasi avesse seguito il flusso dei suoi pensieri -Dove hai messo il detersivo?-

-Cosa?-

-Il detersivo… Dove l’hai messo?-

-E’ vicino alla lavatrice, perché?-

Lu Han alzò le spalle prima di superarlo col suo esercito di magliette, biascicando mugugni incomprensibili.

Da un po’ di tempo Sehun si sognava le cose.

Ma giurò di aver udito un incerto –Ti aiuto a pulire.- che lo fece sorridere di cuore.

 

*******

19 luglio 2013. Ore 23.14
Seoul. KTV.


“Quindi, ti andrebbe di uscire con me?”.

Così recitavano le ultime parole di quella lettera che stringeva fra le mani, letta per la prima volta quella sera e solo perché costretto dalla seconda birra. Ideogrammi di inchiostro blu che si seguivano disordinatamente sul giallo canarino di fine carta di riso, scorrevano davanti i suoi occhi solcati da noia. Era infarcita di cliché, cose alla Il cuore perde colpi quando ti vedo, dal primo momento che ti ho visto non ho fatto altro che pensare a te e tante altre cose che, se mai le avessero propinate a lui, probabilmente gli avrebbero fatto essiccare le palle. Insomma, chi sarebbe mai potuto cadere per cose come Non riesco a smettere di pensarti? A lui, cose così, mettevano un’ansia talmente tanto profonda da farlo soffocare…

-Si può sapere cosa stai leggendo?- la voce di Wu Fan sovrastò il vociare concitato di un gruppo di ragazzi che cantava Fantastic Baby davanti al televisore. O quel che ne rimaneva... Ma chi gliel’aveva data la licenza per cantare, a quei quattro?! Probabilmente TOP si stava rivoltando nel letto, a quest’ora. Chissà se GD sarebbe stato lì, pronto a placare le sue pene. A proposito, una volta tornato a casa avrebbe dovuto controllare se SunsetGlow aveva aggiornato la sua fanfiction a rating rosso oppure no. Aveva lasciato un TOP fedifrago nella disperata missione di riconquistare un GD ormai votato alla depressione permanente e, dannazione!, erano ormai due mesi che quella non aggiornava!

-Non dirmi che è un’altra di quelle robacce che trovi su internet.- mormorò caustico, il capo penzolante in avanti quando Lu Han gli rivolse un’occhiata colma di sdegno.

-Le fanfiction non sono robacce. Molte hanno una trama decisamente più solida di tanti libri che ho letto. Come Twilight, ad esempio. Quello può essere considerato un libro, secondo te?- sventolò la lettera, rischiando di versare sul pavimento la birra che reggeva nell’altro mano.

Wu Fan roteò gli occhi mentre scivolava sul divano in pelle bianca –Ti scongiuro, non cominciare.- mugolò mettendosi a mani giunte, stuzzicando il suo sopito senso di colpa. Quando Lu Han partiva a parlare di film e libri, diveniva un fiume in piena inarrestabile; constatò in quel momento quanto doveva aver rotto i coglioni a Kris con la storia di Twilight, perché solitamente si limitava a seguire i suoi deliri senza interromperlo, con quel sorriso candido che spesso lo metteva a disagio.

-Comunque, sto leggendo una lettera.- si premurò di precisare, storcendo il naso quando lo sguardo ricadde in picchiata sugli ideogrammi.

-Oh, un ammiratore segreto- la cadenza maliziosa e rauca che aveva assunto la voce di Kris lo ridestò –Devo esserne geloso?- il suo alito sapeva di birra e tequila tanto da stordirlo. O forse era il suo sorrisetto a farlo rabbrividire.

-Non è per me- lo spintonò con una gomitata leggera, ma quello non si mosse di un millimetro. Nh, forse pure lui aveva esagerato con la Qingdao[3] –E’ per Sehun.- la sventolò, poggiando poi la guancia sul palmo aperto.

Il viso di Wu Fan si fece distante. Pochi millimetri di spessa aria li separavano ma Lu Han sentì che nulla avrebbe potuto tagliarla, neppure le sue labbra protese in un bacio che non sarebbe stato ricambiato –E… Perché ce l’hai tu?-

Il tono di rimprovero con cui quella domanda venne pronunciata non gli piacque, non gli piacque per nulla. Si premurò di imprimere nella mente altre poche parole di quella roba che stringeva fra le dita e tornò a fissare il ragazzo. Non v’era traccia di gelosia sui suoi lineamenti marcati ora costretti in una morsa di disappunto. Il disappunto di Kris era qualcosa di inquietante, lo ammise con una deglutizione e un gioco di sguardi a cui non partecipò. I suoi occhi appuntiti tendevano ad aguzzarsi più del solito, la palpebra destra poi si abbassava di qualche millimetro conferendogli un’aria da mastino pronto ad azzannarlo alla gola e le labbra si serravano, tanto da perdere la loro linea ben definita.

Insomma, quando Wu Fan si incazzava, era meglio correre ai ripari.

Lu Han si guardò attorno ma nessun angolo sembrava fare al caso suo. Forse avrebbe fatto meglio a salutare i commensali sparpagliati sui divani, fra le cibarie o vegetanti sul pavimento, e dirgli che si sarebbero rivisti un altro giorno, perché la piega che il suo volto e la conversazione stavano assumendo, facevano presagire l’Apocalisse. Fece per muoversi, ma la mano di Kris era stretta sul suo ginocchio –Perché l’ho trovata nella buca della posta.- ed era la pura verità! Il fatto che glielo avesse confessato con occhi larghi e ciglia sbatacchianti non era un incentivo a credergli?

-E questo ti da il diritto di leggerla?-

… No, a quanto pareva no.

-Mi sto solo assicurando che non sia una trappola.-

-Una trappola?!-

-Non capisco il perché di tanta sorpresa. Sehun ha il radar per gli stronzi, quelli sono capaci di trovarlo anche se fosse invisibile.- spiegò con assoluta serietà, memore di tutti i suoi precedenti abbagli che si erano consumati fra le pareti di camera sua in singhiozzi.

-E da cosa, esattamente, hai capito che questo qui è uno stronzo?-

-I cretini che ti intortano con cazzate come Mi togli il fiato, sono solo stronzi camuffati da santoni.- sancì ferreo, mandando giù un po’ di birra. Wu Fan lo guardò a lungo prima di scuotere la nuca e perdersi in sbuffi pesanti, che gravarono sulle spalle ricurve di Lu Han.

-Ottimo, altre cose da appuntare sulla “lista delle cose da non fare” per evitare che ti scazzi- fu un sibilo leggero, di quelli che trapassavano lo spesso strato di indifferenza che aveva erto e si insidiavano fra i suoi pensieri –Coraggio, andiamo. Domani devo lavorare.- indossò la giacca con secchezza.

-Oi, non puoi guidare. Hai bevuto un—

-Tranquillo, sto bene. Incredibile come certe cose portino alla sobrietà, tu non trovi?- i suoi occhi erano campi di lampi e saette, talmente infuocati da paralizzarlo sul divanetto di quel karaoke. Era incazzato e questa volta non sarebbe riuscito ad addolcirlo con qualche moina o semplicemente ignorandolo. Non seppe neppure perché si stesse preoccupando così tanto, Lu Han, mentre saliva in macchina con un muso lungo quando il Nilo.

Il viaggio verso casa fu un calvario, scandito da sospiri e sbuffi che resero l’aria irrespirabile. Lu Han si chiese come avessero potuto finire così, come una coppia che rincasava da una bella cena a lume di candela rovinata da qualche parola di troppo. Lui non era portato per questo genere di cose, le rifuggiva come se dovesse morirne. Si sentì opprimere dall’ansia al pensiero che una cosa del genere stesse capitando proprio a loro, dopo tutti i paletti e le regole che avevano creato. O meglio… Che lui aveva imposto. 
Perché Lu Han voleva tenere un posto libero per Sehun, nel qual caso si fosse accorto di come ormai la loro amicizia gli andasse stretta.

Lu Han si affacciò alla realtà solo quando l’auto arrestò la sua corsa. La scatola di sardine mai gli parve così confortevole, come se stesse per portare a termine quel livello impossibile su cui stava penando da settimane. La voce di G-Dragon lambiva quel silenzio pesante che Wu Fan non accennava a rigare e quando la mano fu ormai sulla maniglia, Lu Han sentì che non poteva andarsene con il broncio e incazzosi Cercami solo quando ti sarà passata.
Loro due non potevano permettersi certi lussi da coppiette felici ed innamorate.

-Non mi chiedi se voglio venire a casa tua?-

-Ho smesso di fare domande di cui so già la risposta. E poi, anche se mi dicessi di sì, sono troppo stanco. Voglio solo dormire- già, dormire. Lu Han represse un sorriso amaro, conscio che lui non avrebbe chiuso occhio. Il pianto di Sehun, nell’altra stanza, lo avrebbe tenuto sveglio fino a che gli occhi non si sarebbero serrati dalla disperazione. 
Il freddo lo colpì in pieno quando uscì dall’auto, fu come uno dei tanti schiaffi che forse Wu Fan avrebbe voluto rifilargli, limitandosi però a colpirlo con le sole parole –Lu Han, ascolta, Sehun non è un bambino. Impara a lasciarlo camminare con le sue gambe. Se non si scotta, come può capire di non dover giocare con il fuoco?- lo abbandonò davanti casa con quella perla pescata dal cilindro delle “Frasi mature e ad effetto da usare per farlo sentire uno stronzo” e che risvegliarono il suo senso di colpa mandato in letargo. 
Niente baci, niente sesso, niente scomode richieste a trascorrere la notte assieme… Lu Han trovò tutto così serio, da farlo pentire di aver cominciato quel gioco con Wu Fan.

Risalì le scale come un automa, rendendosi conto di essere già in cucina quando l’odore di the verde gli fece storcere il naso. Di Sehun non v’era traccia, probabilmente era già a dormire. Fu grato di ciò, almeno non avrebbe potuto vedere il suo volto costretto in una maschera di frustrazione. 
Adagiò la lettera sul tavolo, richiamato dal cestino che continuava ad ammaliarlo con languidi Usami, vedrai che le cose andranno meglio.
La lettera bruciò sotto i suoi polpastrelli e prima che potesse dare ascolto a tutta la cattiveria che continuava a fargli commettere scemenze, Lu Han le aveva già dato le spalle.

-Fanculo.- fu tutto ciò che riuscì a mormorare fra i denti prima di sbattere la porta di camera propria.

Solo l’indomani si sarebbe accorto di quanto fosse bello e al contempo doloroso, poter vedere Sehun camminare sulle proprie gambe.

Accadde di prima mattina, mentre l’odore del caffè permeò la cucina silenziosa. C’era stato il suo sciabattare fino al tavolo, con quei suoi capelli biondicci tutti scompigliati, il suo –‘Ngiorno.- sbadigliato, il suo stringersi nella felpa e stropicciarsi gli occhi, com’era solito fare da bambino. Furono proprio questi ultimi a far vibrare il cuore di Lu Han fino a che non provò le vertigini. Erano scuri, non più arrossati, ci si sarebbe perso infinite volte.

-Ciao… Dormito bene?- aveva smesso di chiederglielo da quando il silenzio faceva loro compagnia, a colazione. Quella mattina volle però accertarsi che tutto ciò non fosse una chimera, che davvero Sehun stava risalendo la via della guarigione. E poco importava a quanti Autogrill si fosse fermato… Bastava saperlo in cammino, bastava solo quello.

Annuì –Hai fatto tardi? Non ti ho sentito rientrare.-

-Come al solito.- buttò giù un po’ di caffè, ricacciando indietro le parole di Wu Fan che per tutta la notte lo avevano tormentato. Sehun non si tuffò in chiacchiere e Lu Han gliene fu grato. Sentiva che, quella volta, non sarebbe riuscito a raccontargli frottole e l’idea di crollare di fronte a lui, era ciò che di più snervante potesse esserci.

-E questa?- la sua confusione lo strappò ai propri pensieri, riportandolo bruscamente in quella realtà di carta velina che si sfaldava con niente. A volte bastavano poche parole, proprio come quelle due dall’altro appena pronunciante.

-Cosa?-

-Questa lettera. E’ per me…- analizzò ogni angolo e ideogramma, sussultò dopo averla letta superficialmente –Ma è una dichiarazione d’amore! Non ne ricevevo una dalle superiori!- un mix tra imbarazzo e gongolamento intaccarono il piattume della sua voce un po’ roca –Come c’è finita qua?- gli rifilò un’occhiata confusa, inclinò il capo e lo scrutò ad occhi socchiusi.

-Non ne ho idea. Probabilmente era in qualche tuo libro e non te ne sarai neppure accorto. Tonto come sei, non mi stupirebbe.-

-Non sono tonto!- si rabbuiò, lasciando che la carta che veniva stropicciata colmasse il vuoto in cui si erano gettati. Lu Han studiò ogni suo più minuscolo gesto, appoggiato al lavabo, incanalando tutto il nervosismo nelle dita che stringevano l’enorme tazza. Si chiese cosa potesse esserci di meglio che svegliarsi la mattina e trovarsi Sehun davanti, come avesse fatto a sopravvivere quando la sua figura scombinata non gli aveva dato il Buongiorno.
Era così importante che tutte le sue collezioni di Action figures, videogiochi e manga, potevano venir cestinate e a lui non sarebbe importato.
Per lui, Sehun era importante tanto così.

Si ridestò quando un –Oh, mamma…- sfuggì alle sue labbra ora serrate. Quelle parole dovevano davvero averlo tramortito, perché cadde sulla sedia con un tonfo sordo.

Lu Han respirò la bellezza di quel momento, provando un dolore lancinante a livello del petto. Se Kris fosse stato lì, probabilmente sarebbero stato orgoglioso di quella che lui reputava una puttanata colossale… Si allontanò dal lavabo, scrutandolo.

-Io vado a studiare.-

Niente…

-Poi magari mi butto dal balcone.-

Nada, nessun segnale dalla base spaziale Oh…

-Ma prima do fuoco alla casa, così non morirò da solo.-

Ma Sehun non lo ascoltava, seguiva ogni ideogramma con sempre più concentrazione, fino a che gli angoli delle labbra non si sollevarono di propria sponte.

Lu Han non riuscì a guardarlo che per pochi secondi, prima di sciabattare in camera. 
Giusto il tempo di ricordarsi quanto gli facessero bene i sorrisi genuini del ragazzo, quanto riuscissero a conficcarsi in ogni cicatrice e sanarle, ricordarsi che proprio grazie a quelli se ne era invaghito tanti anni prima.

 

Il tempo di ricordarsi che a lui, quei sorrisi, non li aveva mai rivolti.

 

 

 

[1] Videogiochi “sparatutto”.

[2] Circa 80 dollari (se non ho cannato, eh).

[3] Tipica birra cinese. E’ buonissima

 

 

Inutili note conclusive:

Il mio consiglio è: non giocate a Mario Kart per più di quattro ore consecutive immedesimandovi nei personaggi che scegliete. Finirete col venire odiati perché avete scelto Mario (everybody hates Mario, a quanto pare), insultare il vostro amico appellandolo come Baby Peach, sognare di fare una strage perché il tipo che avete tamponato vi fa una constatazione amichevole farlocca, e infine si scriveranno certi capitoli.
Ammetto che non mi dispiace, l’ho rimaneggiato talmente tanto che non avrei potuto fare di meglio. 
E niente, se vi va lasciatemi pure detto cosa vi garba e cosa no, qualsiasi tipo di critica è sempre ben accetta.
Ringrazio infinitamente dylandogs e CassidyKeynes che hanno commentato lo scorso capitolo, chi ha aggiunto la storia fra le seguite/ricordate/preferite e coloro che leggono in silenzio. 
You make my days, sappiatelo.

Alla prossima!
HeavenIsInYourEyes.

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Capitolo 6
*** Abituati alla sua assenza ***


A C.
E' bastato un abbraccio
e mi sono dimenticata perché volessi buttarci via.



Questa volta uno spiraglio di Hunhan.
Perché a volte tendo a dimenticarmi che prima di essere un “amore a senso unico”, i miei Sehun e Lu Han sono due amici.
E perché le cose finalmente!!! cominciano un po’ a muoversi.
Buona lettura

Absentia

Il vero casino della vita, pensò,
era dover fare i conti con i problemi altrui.”
                                                                      -Charles Bukowski, Confessioni di un codardo.-

 
 

Capitolo 5

Abituati alla sua assenza

(Quando Lu Han fa sentire bello Sehun)

 

23 luglio 2013. Ore 23.45
Seoul. Scatola di sardine di Sehun e Lu Han

-Secondo te è uno scherzo?-

-Non lo so.-

-Credi che sia un maniaco?-

-Non ne ho idea.-

-Credi che dovrei—

-Non lo so.-

-Ma non mi hai fatto finire di parlare!- Lu Han sobbalzò; la voce di Sehun si era fatta stridula, cozzava con la calma apparente che lo aveva spinto a sedersi al suo fianco, seppure con titubanza.

Era entrato in punta di piedi, come suo solito, gli si era acciambellato vicino e silenzioso aveva partecipato alla contemplazione del corpo nudo di Malcolm McDowell che rispondeva con entusiasti Certo, sir!, al secondino che lo sorvegliava[1]. Gli fu lampante come Sehun non fosse stato richiamato dalla musica di Beethoven né dai suoi continui smadonnamenti perché Cazzo, questo esame non lo passerò mai!; il suo costante agitarsi sul posto e guardarlo di sottecchi erano indizi sufficienti.

-Cosa vuoi, si può sapere?- sbottò sconfitto, pregustando l’amaro sapore di una conversazione da ragazzine che non avrebbe sopportato. Sarebbe arrivato al secondo squittio; al terzo lo avrebbe rispedito a calci a pulire la camera.

-Volevo solo qualche consiglio su come comportarmi, ma l’unica cosa che sai dire è: Non lo so.- rimbrottò offeso, sventolando la lettera sgualcita. Doveva averla letta un mucchio di volte, tanto era spiegazzata. Lu Han si chiese quanti gracidii fossero sfuggiti nella quiete della sua camera da letto, quante volte si fosse morsicato il labbro inferiore nel vano tentativo di frenare il crescente imbarazzo che si spandeva sulle sue guance. Da quanto, semplicemente, avesse atteso un momento come quello per sentirsi come gli altri.

Lu Han depose la penna e il block-notes, guardandolo esasperato -Sehun, io so solo che devo finire di vedere ‘sto film e spararmene un altro. Di Kubrick. Abbi pietà- sventolò gli appunti e biascicate scuse fu tutto ciò che ottenne, anticipate da uno sbuffo che lo fece desistere dal comportarsi da stronzo. Doveva approfittare dei rari momenti in cui l’amico usciva con le proprie mani dal letargo della depressione -Dov’è il problema, si può sapere?-

Sehun sbatacchiò gli occhi un paio di volte. Forse non si aspettava un suo coinvolgimento sincero in quel mucchio di cretinate. Si grattò la punta del naso -Il problema è—Tutto!-

-Tutto?-

-Insomma… Tutto, sì, tutto!- agitò le mani –Io non so nemmeno chi sia questo che mi ha scritto eppure non riesco a non sorridere ogni volta che rileggo la lettera!-

Lu Han studiò il tremore delle sue dita ossute, poi tornò a guardare il film –A tutti fa piacere ricevere lettere e dichiarazioni. Ci fanno sentire importanti.-

Sehun annuì e l’angolo destro delle labbra guizzò all’insù, quando i polpastrelli tornarono a scorrere sul foglio bianco –Dice che è rimasto colpito dal mio sorriso. Riesci a crederci?-

Fu un E come non potrei? appena pensato quello che faticosamente cacciò indietro, deglutendolo, fino a quando non lo sentì precipitare nello stomaco, pesante come tutto quei pensieri che da anni continuava a tacergli. I sorrisi di Sehun erano davvero pochi e mai sprecati, gli uscivano sempre dal cuore e quando lo facevano, dissipavano la coltre di malsane paranoie che lo avvolgevano.

Ancora ricordava i battiti accelerati del cuore e il colpo all’anima che lo avevano preso alla sprovvista, quando Sehun gli aveva rivolto il primo, vero sorriso.
Era stato fra le lacrime, gli aveva sollevato le guance bordeaux e aveva spazzato via ogni granello di polvere che imperlava il suo viso, i suoi vestiti. Era seguito un tremulo Grazie ma Lu Han neppure lo aveva ascoltato, troppo preso a chiedersi come un esserino così debole potesse sorridergli anche dopo essere stato assalito dai bulletti della scuola, rivolgendo tanta armoniosità a lui che si era limitato ad allontanarli.

Aveva appena nove anni quando conobbe Sehun e fu forse uno dei giorni più felici che Lu Han ebbe mai vissuto. Ricordava tutto nitidamente, come se il piccolo Oh della sua infanzia fosse ancora davanti a lui, ad arrovellarsi perché Ma se compro un pacchetto di figurine in più, come lo prendo poi il rullino?, con quei suoi sorrisi di vittoria quando facevano qualche sciocca scommessa e vinceva quei pochi Won che mettevano in palio. E molte volte Lu Han avrebbe voluto dirgli Ti ho lasciato vincere, perché era effettivamente così, ma si era riscoperto affascinato dal modo in cui suoi occhi si assottigliavano quando era felice e allora che vincesse, che si comprasse i suoi stupidi rullini con i soldi in premio. 
L’importante era che continuasse a sorridergli in quel modo straordinario e Sehunesco che, davvero, era diventata una delle poche ragioni di vita a cui continuava ad aggrapparsi –insieme ai videogiochi, i film e le fiere dei fumetti-.

-Lo incontrerai, quindi?- lo domandò con pigrizia, avvertendo il cuore accelerare mentre il silenzio si faceva interminabile. Sehun ci stava pensando sul serio, lo poteva leggere nelle sue sopracciglia aggrottate e in quel lampo di curiosità che gli aveva attraversato gli occhi ora socchiusi. Non pensava che vederselo portare via un’altra volta facesse così male. Come se gli stessero strappando l’anima, lasciandola in brandelli.

Tuttavia, il volto di Sehun tornò a rilassarsi e Lu Han riassaporò i benefici del sollievo –Non lo so. Non lo conosco, potrebbe anche essere uno scherzo- le labbra si assottigliarono –Però se mai lo incontrassi, vorrei dirgli grazie. Da tempo non mi sentivo così—

-Ragazzina liceale e mestruata?-

-Apprezzato…- concluse lapidario, rifilandogli un’occhiata pregna di fastidio. Lu Han storse il naso a quella constatazione. Era come sentirsi dire che lui non si stava impegnando abbastanza nel farlo sentire il solo e unico degno di nota nell’intero cosmo, ma Sehun si aprì in un sorriso amaro e subito quei pensieri fluttuarono lontani.

E quando lo chiamò, con quel –Han…?- domandato con timore, preferendo guardare Arancia Meccanica piuttosto che il suo viso cosparso di confusione, Lu Han non poté non ritrovarsi invischiato nelle sue stesse paure, facendole proprie, pronunciando uno spaesato –Cosa?- che non sapeva a cosa avrebbe portato.

-Ti sei mai sentito… Svilito? Come se qualcuno ti avesse fatto sentire sul tetto del mondo e improvvisamente ti avesse rispedito nei bassifondi?- Sehun si carezzò la nuca, disperdendo le dita nei fili biondi ormai opachi; era un movimento così ipnotico che per un breve istante fu tentato di sostituire la sua mano con la propria.

Fu in quel preciso istante che Lu Han si chiese se Kim Jongin avesse mai compreso cosa si stava perdendo. Che persone come Sehun si incontravano una volta nella vita e andavano tenute strette, legate a sé, perché l’assenza che avrebbero lasciato non sarebbe stata colmabile.

La stessa assenza che lui, andandosene, aveva lasciato a Sehun.

-Mi sono sentito così quando Kai mi ha lasciato- il nomignolo dell’idiota stridette in mezzo a tutti quei ricordi, come se non c’entrasse nulla con il dolore del ragazzo –Lui mi faceva sentire bello senza neppure dirmelo.-

Lu Han lo guardò, speranzoso che dal suo sguardo potesse scorgere quanto lui lo trovasse assolutamente fantastico. Ma Sehun continuava a stropicciare la lettera e Alex DeLarge gridava troppo perché potesse ignorarlo.

Sehun era bello, di quella bellezza che gli faceva contorcere lo stomaco. C’erano i suoi occhi, contornati da vistose occhiaie, eppure così luminosi e lucidi da farlo fremere dalla punta dei piedi fino alla radice dei capelli rossicci e scompigliati; c’erano le sue guance rosee sull’incarnato pallido. Ma più di tutto e tra tutto, c’erano le sue labbra. Sollevate, anche se impercettibilmente, un po’ tremanti e assolutamente da vertigini, di quelle che davano uno scossone al mucchio di sentimenti sparpagliati come foglie e tornavano prepotenti, ricordandogli perché  mai fosse completamente perso per quel ragazzo dal sorriso spezzato.

Lu Han aveva infatti capito che i propri Cazzo, Sehun è da togliere il fiato, non erano dovuti alla mera facciata, ma scavavano più in profondità. Era il suo essere così malinconico a renderglielo caro, tanto da mettere da parte ogni buon proposito di lasciarlo colare nella sua disperazione, tanto da strappargli ogni briciolo di felicità se ciò significava averlo tutto per sé, ciecamente convinto che solo lui potesse donargliela. Per anni era stato certo di ciò, dispensando consigli dall’alto della propria esperienza, assuefatto dal senso di importanza che il suo costante seguirlo gli dava. Fino a che non era cresciuto, aveva scoperto il mondo intorno a sé e il mondo non si era accorto di lui, cercando la sua compagnia.

Sehun neppure si accorgeva di quanta gola facesse e da quando Jongin lo aveva lasciato, le cose erano peggiorate.

Fu allora che si inoltrò nella nube di pensieri reconditi che mai Sehun lasciava uscire allo scoperto, talmente densi da apparire invalicabili -E se fosse Kim?- lo aveva pronunciato con noia, ignaro dello scompenso emotivo che avrebbe potuto creare nell’amico, ora immobile al suo fianco. Si preoccupò quando non lo sentì respirare, specchiandosi nei suoi occhi ora larghi e pregni di angoscia. Lu Han scostò lo sguardo; quel lampo di speranza che gli aveva visto nascondere con uno sbattere frenetico di ciglia finissime, era un boccone troppo amaro da mandare giù.

-Impossibile, si sarebbe firmato.-

-Magari ha pensato che firmandosi, tu nemmeno lo avresti preso in considerazione.-

-Oh…-

Com’era possibile che nutrisse ancora speranza nel rivedere quel coglione? Non sapeva se definire patetico o sciocco questo suo morboso attaccamento a ciò che erano stati, annullando addirittura quel poco di autostima che aveva faticosamente guadagnato negli anni.

Com’era possibile che lo amasse ancora, nonostante tutto?

Dopo quella che gli parve un’eternità, si ritrovò a contemplare la malinconia che smussava i suoi lineamenti dapprima contratti e che, inevitabilmente, aveva intaccato la mitezza nei suoi occhi -Non penso sia lui- aveva pronunciato con rassegnazione, come se quel pensiero lo avesse tallonato per chissà quanti giorni –Kai non mi avrebbe mai scritto cose del genere. Lui era più—

-Cretino?-

-Sottile…- lo pronunciò con calma, rifilandogli comunque un’occhiata bieca –Non si lasciava mai andare a complimenti, a malapena mi diceva che mi voleva bene. Non è mai stato portato per i discorsi- un sorriso di nostalgia fece capolino; Lu Han avrebbe voluto spaccarglielo a suon di ceffoni e ripetuti Dimenticati di quel demente, ti scongiuro. Kim non si meritava la sua devozione, non dopo essere sparito nel nulla –Lui era un tipo più… Fisico, ecco.-

Lu Han si stupì di come riuscisse ad accennare qualcosa sul suo conto con scioltezza, come se ogni frammento di ricordo ancora rimastogli non gli facesse più così male. Eppure le sue mani tremavano ancora, gli occhi divenivano lucidi e i denti continuavano a mordicchiare il labbro inferiore.

Quanta fatica stava facendo, Sehun, nel non crollare ancora una volta? Quanto era difficile, per lui, parlarne come se da un momento all’altro dovesse aprire la porta e dirgli Ehi, sono rientrato!, stringendoselo fino a che fuori non faceva buio? Quanto ancora si sarebbe fatto del male, solo per non schiodarsi da quel passato a lui ancora così caro e che lo stava lacerando lentamente?

Lu Han trattenne l’impulso di abbracciarlo, carezzargli i capelli o anche solo lasciarsi andare a chissà quale stronzata che lo avrebbe fatto chiudere a riccio. Strinse le dita intorno alla penna, si perse nella musica di Beethoven e attese che Sehun si alzasse, lasciandolo a leccarsi le ferite che il solo nome Kim aveva inferto al suo corpo. 
Tuttavia persisteva nel restare, quasi fosse intimorito al pensiero di dover affrontare tutto quello senza qualcuno cui sorreggersi.
E Lu Han lo amava troppo per poterlo lasciare in balia di sé stesso.

-E se fosse lui?- ripeté, ostinato.

Sehun vibrò –Ti ho detto che non può essere lui.-

-Ma se lo fosse?- lo guardò con serietà; si dimenticò di mettere pausa, troppo concentrato sulla piega di terrore che aveva assunto tutto il suo viso –Non hai mai pensato che potesse tornare e rivolerti con sé? Dopotutto, non sai neppure perché se ne sia andato.-

Sehun aprì le labbra ma nessun suono prese forma. Era pietrificato, come se avesse paura di dire ciò che pensava e sentirsi rispondere Lo sai che ti stai illudendo inutilmente? Sospirò, si morse l’interno delle guance e poi alzò le spalle –Ci ho pensato spesso. A lui che torna da me, intendo. Ma credo che non accadrà mai. Come potrebbe?- la sua voce era bassa, velata di rassegnazione –A volte mi dico che non c’è un perché se ne sia andato. Probabilmente si era stancato, tutto qua- aggrottò le sopracciglia –Bello com’è, avrà sicuramente trovato qualcun altro con cui stare. Qualcuno che migliore di me.-

Lu Han rabbrividì. Il discorso si stava facendo pesante, non si sentiva capace di potersi giostrare fra i propri sentimenti sempre più accecati dalla rabbia e quelli tremuli e fragili di Sehun. Avrebbe rischiato di romperlo, di metterlo di fronte ad una realtà che forse era meglio tacergli.

Che Kim se ne era andato via non per qualcuno, ma per qualcosa.

Inghiottì tutto, poggiò pigramente una guancia sul palmo aperto e mascherò la propria ansia dietro un’indifferenza che in quel momento non gli apparteneva –Se non torna indietro a prenderti, tanto peggio per lui- confessò con tedio, scribacchiando sul block-notes –Là fuori c’è di peggio.-

Sehun corrugò la fronte, replicò con un incerto –Grazie…?- e si carezzò le braccia quando, sbilanciatosi troppo, urtò contro il suo gomito; Lu Han pregò che non si fosse accorto dell’elettricità che gli aveva attraversato il corpo –Tu quindi torneresti a prendermi?-

Se Lu Han avesse avuto una bibita fra le mani, a quell’ora la starebbe ancora sputando sul pavimento del salotto. Ma che cazzo di domanda era? Voleva ucciderlo per caso?! Si irrigidì sotto il suo sguardo impaziente –Io non torno mai! Sono gli altri a tornare da me!- bofonchiò imbarazzato, spaventato al pensiero che Sehun lo stesse torchiando solo perché aveva compreso quanto ormai lui fosse stufo di essere posto sul piedistallo dell’amicizia.

Ma Sehun sbuffò, fece cadere il capo in avanti –E’ solo un esempio…- lo guardò di sottecchi –Tu torneresti a prendermi? Anche se là fuori c’è di meglio?-

Lu Han si chiese cosa sarebbe accaduto se si fosse limitato ad un deciso Sì, sarei un cretino a non farlo, anche perché tu sei il meglio che possa esserci. Ma Sehun tremava ancora, i suoi occhi sembravano trasmettere diapositive in bianco e nero dei suoi giorni felici con Jongin e allora tutto ciò che poté concedergli fu un blando –Ovvio che tornerei. Siamo amici, no?- che sembrò bastargli –Perché?-

E’ che—Ecco— si umettò le labbra -Io non mi vorrei indietro- era serio, Sehun, mentre si confessava–Non sono questo granché. Piango tutte le notti, dormo poco, sono sempre isterico—

-Sei così da quando ti ha lasciato.- puntualizzò brusco, conscio che non sarebbe mai stato capace di farlo sentire importante. Solo Kim c’era riuscito e questo lo mandava in bestia. Spesso si era chiesto cosa avesse quel demente che lui non poteva dargli e quando aveva capito che l’amore non ragionava per logiche ma era mistero puro e semplice[2], Lu Han aveva smesso di perderci il sonno.

Sehun scosse la nuca -Lo sono sempre stato. Kai è stato l’unico capace di sopportarmi- miliardi di spilli cominciarono a perforare la sua pazienza –Credo si sia stancato di me. Perché dovrebbe tornare a riprendersi un peso del genere?-

Per tutta la durata del discorso, l’unica cosa a cui era riuscito a pensare erano stati una miriade di E io? che si erano accavallati, costringendolo a reggersi la testa pur di non perderla. Lu Han, in tutto quello, che posto aveva? Anche lui lo aveva sopportato e supportato in qualsiasi sua scelta, anche lui c’era sempre stato seppur in maniera criticabile ma così sincera che, cazzo, ma davvero il cuore non gli si era mai scaldato?

L’amore che provava per Sehun non si era ancora spento. Possibile che ciò non bastasse a renderlo un po’ meno invisibile, anche se l’ombra di Jongin continuava a stagliarsi intramontabile su di lui?

Era frustrante, era snervante. Ed era oltre il suo controllo.

Lo guardò di sottecchi, alzò il volume della televisione quasi volesse mutamente dirgli che il loro tempo era scaduto –Tu non sei un peso. E’ solo Kim ad essere un coglione. Prima lo capirai, meglio starai.- sentenziò ferreo, tornando a concentrarsi sul film.

Sehun inclinò il capo, tamburellò le dita sul ginocchio –Credi che dovrei andare, allora?- domandò nuovamente, come se la sua decisione dipendesse dalla sua risposta. Se da un lato Lu Han avrebbe voluto dirgli di stare a casa, rischiando di fargli perdere un’occasione d’oro ma al contempo consapevole di averlo ancora tutto per sé, dall’altra parte c’erano le parole sincere di Kris e quel suo fargli comprendere come non potesse più permettersi di trattare Sehun come un burattino…

-Fai come ti senti.-

Doveva staccare i fili e sperare che l’altro non si perdesse un’altra volta.

Sehun non fiatò più sino alla fine del film, imbronciandosi per quella risposta che non lo aveva tratto in salvo. Lu Han non seppe spiegarsi perché non si defilò, dopotutto lui trovava Kubrik indigesto. Eppure era rimasto, con il suo braccio che sfiorava il proprio, con il suo silenzio spesso ma in cui si poteva convivere e con il suo torturarsi mentre quella lettera si faceva sempre più stropicciata.

Lu Han, in un impeto di delirio, si immaginò vecchio decrepito con Sehun al proprio fianco, con le sue sopracciglia un po’ più folte ma sempre aggrottate, con le sue labbra sottili perennemente tese ma che, una volta apertesi, avrebbero mostrato un sorriso un po’ sdentato capace però di fargli palpitare il cuore nella stessa, intensa maniera di adesso.

Averlo nella propria quotidianità in quel Per sempre a cui lui non credeva, gli parve uno di quei sogni irrealizzabili seppur a portata di mano…


-Mi spiace tu non abbia finito di studiare per colpa mia.- mormorò Sehun dietro la sua schiena, seguendolo in corridoio.

-Se non dovessi passare l’esame, mi offrirai un Bubble the.- fu la sua pacata risposta, beandosi della sua leggera risata che gli riempì il cuore, i polmoni e il cervello. E quando la sua buonanotte giunse con un sorriso e lo scricchiolio della porta che si apriva, Lu Han si disse che non poteva lasciarlo scappare così. Che Sehun non meritava di andarsene a letto con il peso del passato sulle spalle, con quel suo sentirsi inferiore all’universo intero solo perché il centro della sua gravità si era spostato chissà dove.

-Sehun…?- allora lo chiamò piano, facendo ben attenzione ad essere già nel proprio santuario, così da potergli sfuggire nel caso avesse posto domande scomode.

-Mh?-

E fu come se avesse raggiunto il suo cuore, anche se solo per un istante…

-Non hai bisogno di Kim per essere bello.-

*******

26 luglio. Ore 22.18
New York City

 

Jongin si ricordava di avere un passato, solo quando un minuscolo “1” arancione svettava nell’angolo del pc, in quelle rare volte in cui si rammentava di aver installato Skype per un motivo ben preciso: non permettersi di scomparire. Jongin era fatto così: lasciava cose indietro e sperava che gli altri si adeguassero a questo suo atteggiamento, senza ovviamente rivendicargli nulla.

Ma anche se avesse voluto, qualcuno pronto a salvarlo da sé stesso c’era sempre…


-Certo che se non ti chiamassi io…- la frase si interruppe a mezz’aria, carica di irritazione e un misto di apprensione.

-Dai Tae, lo sai che sono molto impegnato.- le guance del coetaneo si gonfiarono mentre bofonchianti imprecazioni lo raggiungessero sconnessamente.


Che aveva corti capelli castani, gli zigomi alti e le labbra alla Usher, come bonariamente amava definirle, beandosi dei suoi pigolii affinché smettesse di prenderlo in giro.  Ricordava ancora la prima volta che glielo aveva detto, prima di un’esibizione importante al Teatro Nazionale. Lo aveva pronunciato con ingenuità e solo per alleviare un po’ del suo palpabile nervosismo. Era cominciato tutto da lì, ora che ci pensava… Quando lui gli aveva parlato senza costrizioni e l’altro si era lasciato andare ad una risata divertita, mormorandogli un Grazie fra le lacrime incontenibili.

-Anche io sono sempre preso, però cinque minuti per te li trovo sempre…- la sua frase cadde ancora in picchiata, spezzata e pregna di un fastidio comprensibile. Da quando era volato a New York si era fatto sentire poco, complici gli orari disumani di allenamento cui la compagnia lo sottoponeva e le uscite con gli amici conosciuti in quei mesi. Fece per scusarsi, ma lo sguardo affilato di Taemin si liquefò di dolcezza –Ehi, sto scherzando. So bene quanto tu sia impegnato, non potrei chiederti di più.-

E poi aveva quel sorriso enorme e abbagliante che metteva in ordine ogni cosa fuori posto nel suo incasinato e minuscolo mondo e Jongin si ricordava perché si ostinasse a tenerselo stretto.

Lee Taemin era una delle poche cose belle che Jongin avesse preservato in tutta la sua vita.

Conosciutisi ormai ventenni, Kim aveva trovato nel coetaneo un modello da seguire, un ottimo confidente e l’unico con cui poter condividere pienamente la propria passione: la danza. Lo aveva conosciuto alla scuola di ballo che aveva frequentato una volta tornato a Seoul e da lì, i due erano stati inseparabili.
Lee Taemin era la sua ancora di salvezza.

-Come vanno lì le cose?-

-Solito… Casa-danza, danza-casa, Na-eun[3]- gli occhi si illuminarono quando quel nome si spandé nell’aria, le dita si strinsero intorno al cuscino con cui stava giocherellando –Settimana prossima andiamo a Jejudo per il nostro anniversario.- aggiunse caramelloso, rischiando di investirlo con una marea di cuoricini che oltrepassarono lo schermo del portatile.

-Tutto questo amore è nauseante, smettila.- mormorò con una smorfia, sorridendo quando la risata dell’altro lo raggiunse.

-Animale…- sentenziò scuotendo la nuca, battendo poi le mani –Ma tu tra quanto torni? Ci manchi un sacco.-

Jongin avvertì gli occhi pizzicare di fronte a tutta quella disarmante sincerità -Tra tre mesi finisco. Ma mi hanno proposto di fare un altro anno, sai?-

Taemin gridò –Ah, ma è fantastico! Non è quello che hai sempre sognato?!-

-Già…- mormorò piano, grattandosi la nuca corvina. Le cose stavano andando esattamente come aveva sempre voluto, ma proprio non gli venne voglia di festeggiare insieme all’amico. Per arrivare a quello aveva dovuto fare un mucchio di sacrifici e tra questi ce n’era uno che continuava a tormentarlo.

-Ma…?- Taemin si crucciò -Non mi sembri molto contento.-

-No, lo sono. Però…-

Era in momenti come questi che si accorgeva di cosa si era lasciato indietro.

Il passato di Jongin era come una torta divisa in piccole fette: una di queste era Taemin, poi c’erano i suoi amici, la scuola di ballo, sua madre, le sue sorelle… E poi ce n’era una gigante, talmente enorme che doveva starsene in un vassoio a parte…

-E’ per Sehun, non è così?-

La sua faccenda in sospeso.

Jongin perse un battito. E poi un altro, e poi altri cento, fino a che non ne perse il conto. Il suo nome risuonava armonioso nel buio della stanza, riportando a galla quel mazzo di emozioni che aveva legato e posto in un angolo, da riprendere a tempo debito. Solitamente accadeva quando le cose gli andavano male, allora rivedere i sorrisi di Sehun, le loro nottate trascorse a parlare, i loro progetti ormai crollati, gli dava conforto.

-Lo hai sentito, alla fine?-

Jongin morse l’interno delle guance –Ho provato a chiamarlo ma ha chiuso. Non credo voglia sentirmi.-

-Neppure io vorrei sentirti, dopo esserti comportato così.-

-Taemin, tu sì che sei un ottimo consolatore.-

Il ragazzo rise di cuore –Se può farti stare meglio, Chanyeol l’ha incontrato un po’ di tempo fa. Dice che sta bene e che gli sembra il solito Sehun.-

Jongin sorrise tirato. Il solito Sehun era quello con le labbra piegate, la fronte corrugata, le sopracciglia aggrottate… Era quello che, quando sorrideva, nemmeno si accorgeva di illuminare tutto ciò che lo circondava. Per un istante gli tornarono in mente i suoi occhi, il suono della sua voce, quella “s” blesa che tanto adorava, le sue mani e il suo corpo snello… Fu un colpo all’anima improvviso, di quelle potenti e che gli facevano perdere i sensi.

-Sono felice per lui.- avvertì una sensazione di vuoto a livello dello stomaco e il cuore contorcersi. Sehun stava bene anche senza di lui. Avrebbe dovuto esserne felice, se lo meritava, eppure si ritrovò a fare i conti con lacrime che premevano per uscire e labbra secche.

-Dovresti richiamarlo e scusarti. Non ti sei comportato esattamente da fidanzato esemplare, lo sai?-

-Lo so… Ma ormai è tutto inutile- Taemin fece per interromperlo ma Jongin fu più veloce –E se decidessi di restare? Sarebbe inutile illuderlo, tanto vale che ci dimentichiamo.-

-Ma tu non l’hai fatto, vero?- Jongin lo guardò ad occhi larghi, perdendosi nella dolcezza delle sue labbra incurvate. Incredibile come lo capisse al volo –Io non so cosa tu debba fare, spetta a te decidere. Però…- Taemin si fermò, l’indecisione dipinta sul volto –Però eri molto più felice quando eri qui, lo sai? Quando uscivi dagli spogliatoi e mi dicevi che avresti cenato con Sehun avevi un sorriso che faceva il giro del mondo tanto era grande.-

Jongin guardò fuori. Guardò le luci di New York e si disse che quello spettacolo, per quanto mozzafiato, valeva poco senza qualcuno con cui condividerlo -Cosa devo fare, Taeminnie?-

Il segnale di internet era ormai sparito, quando tornò a concentrarsi sul migliore amico. Forse il Karma voleva punirlo per essersi comportato da insensibile bastardo. Non gli era rimasto nulla se non un nuvolo di ricordi impolverati e parole così sincere da fargli salire il magone.

Guardò il calendario.

Tre mesi per prendere una decisione era un tempo ragionevolmente lungo, no?

******

30 luglio 2013. Ore 12.32
Seoul. Caffetteria dell’università.

 

Sehun era seriamente convinto che dopo Jongin, nessuno se lo sarebbe filato. Sarebbe perito nella solitudine, conscio che là fuori nessuno si sarebbe preso la briga di rammendare un giocattolo bello che distrutto.

Tuttavia, Lay sollevò lo sguardo dalla lettera e le certezze di Sehun si incrinarono ancora, rischiando di precipitare nell’oblio delle sue domande senza risposta –Quindi?-

-Quindi cosa?-

La sventolò –Che intenzioni hai?-

-Nessuna…- Lay non fiatò di fronte alla sua ferrea risposta ma aveva l’espressione di chi vuole sentirsi dare una spiegazione. Possibile che anche con i suoi problemi dovesse indossare i panni dello psicologo modello? Sehun si grattò la chioma bionda -Non mi sento pronto. E’—E’ troppo presto.- aveva il terrore a pronunciare tale constatazione. L’ultima volta gli era sfuggita in presenza di Lu Han e quello se ne era saltato fuori con un esasperato Sono passati già tre mesi! Basta piangerti addosso!, prima di smadonnare contro Lara Croft che non voleva saperne di saltare su di una rupe –Sì, so cosa stai per dire: dieci mesi sono un sacco di tempo, ma io davvero non ci riesco.- strinse le bacchette, frenandosi solo quando il legno cominciò ad incurvarsi.

Sehun era sempre stato lento nel leccarsi le ferite. Quando prendeva un brutto voto, ci rimuginava su per mesi fino a che la macchia non veniva debellata da un’eccellente interrogazione; quando le cotte estive degli amici si eclissavano nella salsedine dell’ultimo giorno di mare, lui continuava a pensarci fino a che la nostalgia non lasciava spazio all’imbarazzo di essersi comportato da cretinetta.

E visto il modo ignobile in cui Kim lo aveva piantato, si sentiva in pieno diritto di poterlo piangere fino a che non si fosse stancato. O fino a che qualcuno non lo avesse ucciso, era lo stesso.

Lay però, in barba ad ogni pronostico, si era addolcito di fronte a tutta quella sincerità –Ognuno ci mette il tempo di cui ha bisogno- gli aveva detto con saggezza, continuando a leggere gli ideogrammi. I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo e quello spento di Sehun naufragò in quello pregno di delicatezza di Yixing. Gli si strinse il cuore al pensiero che quello sguardo, Lay glielo aveva sempre riversato da quando Jongin se ne era andato. Costantemente –Qualcosa non va?-

Si riscosse -Tutto bene…- lo vide ritornare a leggere, non senza un pizzico di preoccupazione, e lo lasciò a crogiolarsi nel silenzio.

Tutto bene, come no…

Avrebbe voluto dirgli che stava bene, ma bene davvero, anche solo per vederlo rilassarsi e sorridergli beato, perché nulla più lo turbava. Non tanto per mentirgli, quanto per vederlo sereno e ripagarlo dell’appoggio che gli dava senza rimesse, solo perché amici. Yixing era buono, di una bontà così spassionata da farlo sentire sempre un egoista approfittatore che rubava il suo tempo solo per impiegare il proprio e distrarsi, evitando che i pensieri molesti lo incupissero più del dovuto. Sarebbe stata forse una delle rare volte in cui gli avrebbe dimostrato la propria gratitudine con i gesti, non a parole.

Ma Sehun non stava bene, non stava bene per niente.

Il suo essere reagiva all’assenza che Jongin gli aveva lasciato e più i mesi passavano, più si sentiva avvolgere dall’opprimente senso di solitudine che neppure i ricordi sembravano sopraffare. Aveva pensato che vedere il suo spettro gironzolare per casa, cullarlo la notte e vegliarlo di giorno sarebbe servito a qualcosa. Ma averlo lì, a porta a di mano e non poterlo toccare, consapevole che si sarebbe dissolto come il bel sogno che era, non faceva altro che alimentare quel senso di vuoto che niente e nessuno riusciva a colmare.

-Lu Han dice che il tempo aggiusterà ogni cosa, ma non va affatto così.- mormorò assorto, distraendolo dalla lettura.

Yixing guardò il soffitto, pensoso -Allora ammazzalo.-

-Lu Han?-

La testa di Yixing cadde in avanti; alle sue orecchie giunse uno sbuffo misto a risata, quasi il ragazzo si stesse trattenendo dal trovare divertente la sua sparata –No, il tempo. Se ci riesci, potresti anche cominciare a dimenticarlo.-

-Io ci sto provando a dimenticarlo, ma forse non mi sto impegnando abbastanza.-

Lay rise divertito, in quel modo cristallino che lo faceva sentire un po’ più leggero -Non è questione di impegno. E’ questione di abitudine- lo guardò con serietà, come se ci fosse passato anche lui -Abituati alla sua assenza.-


-Ma perché
 x5 x + 1 = 0”?!-

-E’ la regola.-

-Sì, ma perché?!-

-Ma non lo so! Manda una lettera a “Ruffini” se può farti piacere!-

-Sì, ecco, credo proprio che gliela manderò!-

-E’ morto secoli fa, Kim.-

-Ah…-

Com’era finito a dargli ripetizioni?

Davanti ad una tazza fumante di the, nonostante fuori il sole picchiasse alto, seduto in un anonimo bar vicino alla metropolitana, Sehun continuava a porsi questa domanda che ancora non aveva trovato risposta. Il fulcro dei suoi pensieri se ne stava beatamente seduto dall’altra parte del tavolo, le dita sperse a giocherellare con delle ciocche di fini capelli neri e le labbra arricciate per la concentrazione; quel problema di algebra doveva affaticarlo parecchio, suppose mentre il non numerabile sbuffo cadeva in picchiata a squarciare la loro quiete.

Kim Jongin era infantile, un bambinone nascosto in un corpo da adolescente che vedeva nell’algebra e nei numeri un nemico troppo difficile da sopprimere. Sehun represse un mugugno di scazzo al suo ennesimo gesto impulsivo, trattenendosi dal chiudere il libro e andarsene via senza degnarlo di aiuto alcuno. Sehun aveva bisogno di uscire con una media eccellente se voleva prendere una borsa di studio per iscriversi ad una buona università e quel babbeo di Jongin non lo avrebbe di certo ostacolato.

-Basta!- decretò esausto –Mi sta friggendo il cervello!- la fronte sbatté sul tavolo con un tonfo sordo.

Sehun sospirò mentre sollevava lo sguardo dal libro –Dal rumore direi che lì dentro non c’è nulla- girò la pagina con fin troppa energia –E’ impossibile che ti stia friggendo qualcosa che non esiste.-

Jongin sollevò il capo con velocità, fissandolo a guance gonfie –Sehun-ni, sei pessimo!-

-E tu sei rumoroso. Questa è la quinta pausa che facciamo.- chiuse il libro con secchezza, a volergli incutere timore e magari stimolare il suo latente senso di colpa.

Ma Jongin non sapeva nemmeno cosa fosse il senso di colpa, non quando si trattava dello studio –Sei proprio noioso.- si scompigliò i capelli prima di scivolare sul tavolo e provare a commuoverlo con sguardo da cucciolo bastonato; Sehun ammise a sé stesso che quel giochetto gli usciva piuttosto bene, quando metteva il broncio avrebbe voluto ucciderlo a suon di baci.

Sì. A suon di baci. E pure a suono di qualcos’altro, ma poi lo avrebbero arrestato per violenza. Non si scompose quando quei torbidi pensieri gli attraversarono la mente, giacché la notte questi continuavano a riempire le sue fantasie. E non si scompose nemmeno quando si rese conto che il protagonista era proprio quel bel ragazzo davanti a lui.

Kim Jongin era passato dall’essere un semplice buon amico, al protagonista indiscusso dei suoi sogni erotici.

-Ho perso già quattro lezioni.- lo sentì asserire fra gli sbuffi e le occhiate melense andate a vuoto.

Sehun corresse un appunto sul quaderno –Non hai fatto assenze in questi mesi.- corrugò la fronte; ma era ubriaco quando aveva scritto tutte quelle cazzate? Ah… Ma quella era la calligrafia di Lu Han. Maledetto! Ma perché andava sempre a rovistare fra i suoi appunti e glieli modificava?!

-Parlavo della danza- spiegò con tono cupo, giocherellando con un tovagliolino mentre lo sguardo si sperdeva all’esterno. Si adombrava sempre quando qualcosa non andava –A fine maggio ho il saggio. Rischio di venir tagliato fuori se ne perdo altre. Mamma ci teneva a vedermi.- i suoi occhi si incupirono, Sehun riuscì a reggerne lo sguardo per un paio secondi appena, poi tornò a fissare il libro. Jongin infelice era uno sgradevole spettacolo che non riusciva a sopportare. Era come ritrovarsi ad osservare uno splendido dipinto e adocchiare, nell’angolo più insulso della tela, una macchia fuori posto e che stonava con tutti gli altri colori finemente mescolati tra loro, rovinandolo.

-Tuo padre verrà?-

-Figurati…- la sua voce si abbassò –Sarebbe capace di insultarmi anziché applaudire. Continua a dirmi che dovrei concentrarmi sugli studi, sul basket e lasciar perdere queste “cose da ragazzine”.- poggiò la guancia sul palmo aperto, lo sguardo rivolto all’enorme finestra che gettava sul parco del locale. Sehun si era spesso chiesto se il padre di Jongin fosse a conoscenza di quanto il figlio fosse portato per la danza.

Quando Jongin ballava era di una bellezza stratosferica, di quelle che ti entrano dentro e non si scollano più. Lo aveva visto un paio di volte e aveva potuto sentire la terra aprirsi in una voragine, quella stessa voragine che aveva risucchiato il suo cuore senza ridarglielo. Era come se riuscisse ad inglobare tutto ciò che lo circondava in una bolla, lasciando il male al di fuori di essa. E poco importava se il male era armato di spilli e spuntoni, tanto non riusciva a scoppiarla.

Jongin, quando ballava, lo trascinava su di un altro pianeta.  

Fu di fronte alla sua tristezza malcelata che Sehun volle salvarlo. Un essere talmente puro non meritava di vedersi privare della felicità e lui sarebbe voluto diventare il solo ed unico capace di donargliela. Avrebbe capito a proprie spese quanto Jongin non avesse bisogno solo di lui per sentirsi bene, ma fino ad allora avrebbe continuato a proteggerlo.

-Gli esami sono vicini, non dovresti distrarti.-

-Ma la danza non è una distrazione!-

-Intendo ora…- spinse il libro verso di lui –Se finiamo altri tre problemi, possiamo saltare il ripasso di giovedì- tornò a guardare il voluminoso tomo, evitando di affrontare gli occhi brillanti dell’amico –Così non perdi un’altra lezione.-

Di sottecchi vide Jongin accennare ad uno scatto, quasi avesse voluto sporgersi per abbracciarlo con la sua solita impulsività. Rimase però seduto dov’era, forse intimorito dal campanellino che annunciava l’arrivo di nuovi clienti, limitandosi a giungere le mani e sorridergli raggiante. Da che ci pensava, Jongin e lui non avevano mai avuto alcun tipo di contattato che andasse oltre le semplici pacche sulle spalle e sgomitate quando qualche bel ragazzo sfilava loro davanti; gomitate che finivano puntualmente sul costato del povero Oh. Perché Jongin non aveva mai accennato nulla riguardo al proprio orientamento sessuale, era così preso dalla danza che sembrava non accorgersi di quanto gli altri se lo mangiassero con gli occhi. Non aveva mai fatto apprezzamenti su nessuno, mai gli aveva raccontato di sue precedenti relazioni e quando aveva scoperto il suo essere gay, si era limitato ad alzare le spalle dicendogli –L’importante è che tu sia felice.-, il tutto corredato da un sorriso talmente puro da farlo sentire in pace con sé stesso.

Kim Jongin era un’incognita, di quelle che mai sarebbe riuscito a risolvere.

-L’ho sempre detto che sei un grande!-

-Hai detto che sono pessimo- lo udì grugnire –Questo dieci minuti fa.-

-Non sei mai contento…- mugugnò mogio, giocherellando con la matita mentre si lasciava scivolare sul libro -Se dovessi passare gli esami, ti porterò al mare.- proruppe ad un tratto, con serietà.

-Cosa?!- il capo si sollevò con scatto fulmineo, gli occhi dilatati e colmi di sorpresa si immersero in  quelli scuri e vispi di Jongin, ora intento a guardarlo con un sorriso di velato divertimento. Teneva le braccia incrociate sul tavolo e il mento poggiato su di esse, sul viso non v’era nulla che potesse fargli indurre che stesse mentendo. Quel sorriso a trentadue denti era talmente ripieno di sincerità che Sehun si ritrovò a fare i conti con un cuore che batteva troppo forte e troppo veloce, rischiando di far spuntare sulle sue guance un dubbio colorito purpureo.

Jongin alzò le spalle, inclinò il capo e lo fissò -Hai detto di non averlo mai visto, no?- Sehun annuì piano, timoroso di spezzare l’armonia tra loro -Ti ci porto io. Andiamo a farci una vacanza.-

Sehun deglutì il fiato fermo in gola, prese a giocherellare con una ciocca castana -Non ho abbastanza soldi.- glielo confessò con riluttanza.

Kim sventolò le mani –Non sono un problema! I miei zii hanno lì una casa e per il biglietto non preoccuparti, posso offrirtelo al posto di pagarti l’ultima lezione!- lo disse ridendo, ma Sehun sapeva bene come non stesse scherzando. Quello aveva le mani bucate, era talmente spendaccione che sarebbe arrivato a vendersi la nonna pur di soddisfare ogni più stupido capriccio.

Sehun abbassò il capo, un sorriso appena accennato a velargli le labbra –Si può fare.-

Jongin si agitò sulla sedia -Davvero?!- Sehun alzò lo sguardo, giusto in tempo per vedere i suoi occhi allargarsi e abbagliarlo -Oh, perfetto! Allora ce ne andiamo al mare, ti porto lì e poi—

-Ma l’ultima lezione me la paghi lo stesso.- lo interruppe serafico, completando l’esercizio di matematica sotto i suoi piagnistei.

-Sei pessimo, Sehun-ni. Pes-si-mo.-

E lui avrebbe voluto dirgli che non vedeva l’ora di osservarlo in costume, mezzo nudo. Che non vedeva l’ora di buttarsi in acqua con la speranza che il mare fosse mosso, cosicché avesse una scusa per potersi aggrappare al suo corpo.

-Dovresti sorridermi di più così…- la sua voce pacata lo riscosse, facendolo sobbalzare. Sehun nemmeno si era accorto di star sorridendo e Jongin lo guardava con fin troppa dolcezza perché il suo cuore potesse non esplodere –Mi fai sentire bravo, come se fossi un supereroe.-

Sehun si sentì trasportato su di un pianeta, una stella, dove c’erano solo loro.

Avrebbe voluto dirgli che per lui lo era davvero, un supereroe.


-Abituarmi?- domandò confuso, senza neppure sapere da dove bisognasse cominciare. Era come se Jongin avesse sempre dato un senso alla sua vita e ora che non c’era, questa diventava scialba, addirittura inutile.
Spesso Sehun si svegliava nel cuore della notte chiedendosi perché l’indomani avrebbe dovuto alzarsi, se tanto avrebbe finito con il cadere preda della disperazione. E quando si voltava e si accorgeva di come la parte sinistra del letto fosse vuota, allora i ricordi tornavano prepotenti e lui nascondeva la testa sotto il cuscino per soffocare i singhiozzi, pregando che Lu Han non lo scoprisse -E come?- sorrise senza potersi contenere, rifilandogli tutta l’amarezza che quelle labbra piegate portavano con loro –Ho provato di tutto, ma a quanto pare esaurirmi non funziona granché.-

L’amico scosse la nuca -Sfiancarti non è la soluzione migliore. I pensieri non se ne vanno, restano lì e quando hai un momento di pausa tornano ad opprimerti. Tutti insieme. Dovresti riprendere in mano la tua vita- lo guardò cauto –Ti accorgeresti che non è così male, anche se non c’è Kim a condividerla con te.-

Sehun rimase in silenzio e quando quello si fece troppo opprimente, si lasciò andare ad una di quelle confessioni che mai si era lasciato sfuggire, neppure con Lu Han -Da quando se n’è andato, non mi piace neppure più fotografare- fu appena sussurrata, di quelle che facevano paura perfino a lui. Fotografare era sempre stata la sua ragione di vita… Come aveva fatto Jongin a surclassarla? 
Era come se Sehun avesse cominciato a fotografare solo ed unicamente per arrivare a quel giorno in metropolitana, immortalandolo in tutta la sua freschezza –Io amavo fotografare, mi piaceva sul serio.- la sua voce tremò mentre le mani andavano a scompigliargli i capelli.

Yixing lo guardò con dispiacere, quel tipo di dispiacere che lo mandava in bestia perché lui non era così, era solo il frutto della disperazione e l’angoscia -Prova a disegnare- la sua voce pensosa interruppe il filo dei suoi pensieri -Quando mamma e papà si sono separati, io continuavo a disegnare. Ha funzionato, sai?-

-E come potrebbe funzionare?-

-Riversavo tutto il mio odio per i miei sulla carta- spiegò con placidità -Papà era diventato il postino e mamma il cane rabbioso che lo inseguiva.-

-Hai avuto un’infanzia difficile, eh?-

Yixing ridacchiò. Sehun lo guardò con un sopracciglio arcuato ma la vibrazione del cellulare gli fece accantonare il disagio mentale in cui versava l’amico…


Esame passato. Ti porto a prendere del Bubble the.
Poi mi compri Batman: Arkham Origins[4].

Idiota…

Premette i tasti con velocità, dandogli dell’incommensurabile cretino per pretendere un regalo che nemmeno voleva fargli. Ma sapeva almeno quanto costava quel maledetto videogioco?! Avevano un affitto da pagare e—Ah, ci rinunciava. Lu Han era un demente fatto e finito.

-Sai che mi mancavano?- la voce di Yixing era velata di divertimento, tanto che Sehun si ritrovò costretto ad affrontare le sue fossette stritola stomaco e la sua morbidezza.

-Che cosa?-

-Quei sorrisi che fai quando non vedi l’ora di vedere qualcuno- Sehun sentì il cuore esplodergli in petto -Quando Jongin ti diceva che tutto andava bene e tutto andava bene sul serio.- aggiunse, guardandolo con dolcezza.

Sehun li ricordava bene quei sorrisi. Solitamente gli uscivano quando lo baciava piano, lento, nel buio della camera da letto o nel silenzio del salotto fiocamente illuminato. Quando rincasava e se lo trovava a ballare in cucina, mentre dimenticava i fornelli accesi e serviva per cena uova bruciate con riso incollato. Quando gli diceva di farsi trovare pronto alle 8.00 e poi si presentava alle 9.00, riempiendolo di scuse. Quando lo abbracciava, gli sussurrava di amarlo e gli diceva che non c’era alcun problema e allora era così, tutti i problemi si volatilizzavano…

-Non hai bisogno di Kim per essere bello.-

O quelli che faceva quando Lu Han gli diceva che era bello.

Però prima lo ero di più…

Anche se Jongin non c’era.

 


[1] Scena tratta da Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, quando Alex DeLarge (interpretato da Malcolm McDowell) ormai in carcere, deposita i propri averi. Un capolavoro (il film, non il corpo di McDowell ma diciamo pure quello).

[2] “L’amore è mistero puro e semplice”, citazione presa da I ponti di Madison County.

[3] Son Na-eun, cantante delle A Pink. Perché con Taemin? Ho preso ispirazione da We Got Married quel programma fintissimo come Cher. Non per altro, solo che il mondo non è tutto gay, per dirla banalmente. Cosa che dimentico ogni volta che scrivo qualcosa sugli Exo.

[4] Videogioco della Warner Bros. La trama in breve: viene messa una taglia su Batman da tutti i malvagi di Gotham City e lui deve fargli il culo (cit. ragazzo di F.). Insomma, quei videogiochi fatti bene in cui capisci perché hai sempre avuto una cotta per il Joker e l’Enigmista e hai sempre schifato Batman.



Inutili note conclusive:
Capitolo nato dopo aver visto la puntata di Batman sul Cappellaio Matto, quando Alice la segretaria gli dice tutta raggiante Tu sì che sei un amico speciale!, con F. che urla –E’ stato FRIENDZONATO!!!- e io che muoio sul tavolo.
Lasciatemi poi spargere amore su quel trottolo di Taemim ** Perché se Absentia non fosse una Sekai, i protagonisti sarebbero Taemin e Jongin (prima o poi dovrò scriverla una Taekai. Troppi feels che non riesco a contenere).
E spargo amore anche su Jongin che per quanto scemo e stronzo qui sia, a me fa una tenerezza indicibile.
 
Ringrazio infinitamente _MoonAyame_, heretic overdose e CassidyKeynes per aver commentato il precedente capitolo. Siete state carinissime e il sostegno che mi avete dato non solo per Absentia ma anche per ciò che succede qua fuori mi ha scaldato il cuore, sul serio.
Vorrei regalare ad ognuna di voi un Exo.
Ringrazio anche chi ha aggiunto la storia fra le seguite/ricordate/preferite e chi legge in silenzio.
 
Alla prossima!
HeavenIsInYourEyes.

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