Thunderstorms.

di piuma_rosaEbianca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. The antiseptic to the sore. ***
Capitolo 2: *** 2. Wait 'till the past leaks out. ***
Capitolo 3: *** 3. You won't get much closer till you sacrifice it all. ***



Capitolo 1
*** 1. The antiseptic to the sore. ***


TS - The antiseptic to the sore. Buonasera.
Vi do il benvenuto all'inizio di questa follia.
In collaborazione con Bi_Lu, santissima ragazza che sopporta, non so come, i miei scleri e tutti i miei problemi mentali.
Credo che mi sgozzerà prima della fine di questo progetto, ma vabbè. Ti voglio bene, Cogh. ♥
Questa storia comincia nell'estate del 2000, prima dell'inizio di tutto quello che noi conosciamo ora come Arctic Monkeys.
Non vi tolgo altro tempo alla lettura, riservo ulteriori note e spiegazioni alla fine.

Buona lettura.
~

Guardavo la pista mentre l'aereo decollava, e mi sentivo straordinariamente calma.
Ignoravo deliberatamente la hostess a cui ero stata affidata e fissavo l'asfalto allontanarsi velocemente e l'orizzonte incurvarsi.
Non pensavo a niente se non che finalmente me ne andavo.
Non avevo pianto salutando i pochi legami che avevo, non avevo risposto all'abbraccio di mio padre, non avevo detto niente da quando mi avevano dato la notizia.
Solo un abbraccio alla mia migliore amica, l'unico contatto che avrei mantenuto, ed ero partita senza ripensamenti.
Non sapevo dove stavo andando, non conoscevo le persone che mi avrebbero ospitato e non avevo idea di quanto sarei dovuta rimanere lì.
L'unica certezza che mi dava conforto era che le cose sarebbero cambiate sicuramente in meglio, perché niente poteva essere paragonato all'ultimo anno di agonia passato con quell'uomo che ormai facevo fatica a riconoscere come mio padre.
Rimasi in silenzio per quelle due ore e mezza, senza staccare gli occhi dal finestrino, senza mangiare né bere, e cercando di non pensare a niente, di non immaginarmi niente.
Rannicchiata sullo spazioso sedile, la fronte appoggiata allo spesso vetro del finestrino, ascoltavo la musica a tutto volume dal mio lettore CD portatile e pensavo che la musica era tutto quello che mi rimaneva di buono. L'unica eredità concreta lasciatami dai miei genitori.
Quando l'aereo atterrò sentii distintamente un peso sollevarsi dal mio petto.
Scesi di corsa, neanche sentendo le grida della hostess attraverso le cuffie, e respirai a pieni polmoni quell'aria nuova.
I primi istanti della mia nuova vita sapevano di pioggia, erba tagliata e benzina.
In una scena che sembrava da film mi fermai in mezzo alla gente, ridendo e sorridendo al cielo coperto, aspettando che la hostess venisse a riprendermi.
La seguii distrattamente, giocando con il manico del mio bagaglio a mano, guardandomi intorno come una che è vissuta sotto terra e dopo anni vede finalmente la luce del sole.
Un sacco di persone mi passavano accanto senza neanche vedermi, un sacco di vita mi scorreva vicino senza neanche minimamente sfiorarmi.
Erano ormai più di cinque ore che nessuno mi chiedeva come mi sentissi, cosa stessi provando, ed era semplicemente magnifico per me, avendo passato gli ultimi mesi fra psicologi e assistenti sociali preoccupati.
Andammo a recuperare le mie due enormi valige e poi, all'uscita, fui affidata a un autista silenzioso con un cartello in mano che riportava il mio cognome in maiuscolo.
Mi aspettavo una limousine, o almeno una costosa macchina dai finestrini oscurati, ma fuori dall'aeroporto c'era solo un grosso autobus già pieno di persone, diretto, a quando diceva un cartello, verso “Sheffield, South Yorkshire, England”.
L'autista caricò i miei bagagli sull'autobus e mi fece salire, obbligandomi a sedermi nel piccolo, scomodo sedile reclinabile accanto alla porta.
Per tenermi d'occhio, disse.
Annuii sistemandomi alla meno peggio e guardando la strada.
Per l'ora e i dieci minuti seguenti non pensai assolutamente a niente, se non a quanti alberi ci fossero là intorno.
Quando l'autobus si fermò dovetti aspettare che fossero scesi tutti e che tutti avessero preso i loro bagagli, prima di scendere e recuperare i miei.
Qui l'autista mi disse semplicemente come uscire dalla stazione. Poi ritornò sull'autobus e ripartì.
Mi diressi lentamente verso il grande varco a mattoni dietro al quale si spalancava Sheffield, enorme, viva, bellissima.
Il cielo era coperto di nuvole scure, probabilmente sarebbe iniziato a piovere entro poco, ma sapevo che lì era normale e sorrisi come si fa di solito al cielo nelle belle giornate.
Amai da subito quel cielo, segno distintivo della mia nuova terra, della mia nuova vita.
Abbassai lo sguardo sulla strada, perdendomi un attimo fra autobus, taxi e macchine sfreccianti, e vidi un altro cartello con il mio cognome sopra, sorretto da una donna sorridente appoggiata a una Ford.
Iniziai ad avvicinarmi, e non appena capirono che Cassandra Allen ero io un uomo mi venne incontro per aiutarmi con le valige.
Mentre le caricava nel bagagliaio della macchina, la moglie si presentò.
Mary Cook, felicissima di conoscermi, era una donna piuttosto bassa, magrolina, con capelli lisci e lunghi castano chiaro, tenuti indietro da un sobrio cerchietto nero, e occhi piccoli e azzurri.
Io sorrisi appena rispondendo timidamente al suo abbraccio, senza proferire parola.
Il signor Cook era un uomo più riservato della moglie. Alto, spalle larghe, con folti capelli biondi e occhi verdi dallo sguardo intelligente, mi strinse la mano guardandomi da sopra gli occhiali e abbozzò un sorriso, dicendo di chiamarsi Tony e che vedermi di persona, finalmente, era davvero un piacere.
Con lui non mi premurai neanche di sorridere: mi limitai a stringergli la mano con ostentata sicurezza e non rompere il contatto visivo prima che lo facesse lui.
Pensai che forse era sbagliato dimostrarmi così fredda con quelle persone che mi avevano accolto con tanta gentilezza, ma per quel primo giorno potevo avere la scusa del trauma della partenza e della stanchezza del viaggio.
Avevo tempo per sciogliermi, per il momento potevo rimanere in silenzio appoggiata al finestrino, guardando il frenetico centro della città sparire velocemente per cedere il passo alla più tranquilla periferia.
High Green, come scoprii dopo che si chiamava il posto in cui avrei vissuto, unita a Chapeltown, risultava un complesso intricato di vie,e sembrava quasi una città separata da Sheffield. Circondata da campi e boschi, neanche collegata con un autobus a Sheffield, era il posto ideale dove rifugiarsi per crescere dei bambini lontani dal caos della metropoli.
La macchina si fermò al 6 di Renshaw Close.
Appena scesa notai la diversità da Sheffield.
La strada era completamente libera dal traffico, l'aria aveva un odore molto più pulito, e, a quell'ora del pomeriggio, c'era quasi totale silenzio.
Il signor Cook scaricò le mie valige e le trascinò verso casa.
Io, tenendo il mio bagaglio a mano, restai fuori un altro po' per guardarmi intorno.
La casa, identica a tutte quelle di tutta la via, era bianca, bassa e ben curata.
Il prato era stato tagliato recentemente, e le peonie che sbocciavano tutte intorno al basso portico erano chiaramente fiori a cui qualcuno, probabilmente la signora Cook, doveva tenere molto, per come erano tenute.
La bassa siepe di gelsomino che correva tutta intorno alla casa era fiorita ed emanava un profumo fortissimo che dava alla testa, e i fiori bianchi si mescolavano alla ghiaia chiara del vialetto.
Mentre il signor Cook parcheggiava la macchina dentro il garage, posto sulla destra della casa, notai che nel giardino dell'abitazione accanto c'era un ragazzo seduto su una sdraio.
Mi avvicinai cautamente, come se fosse un animale feroce di cui non volevo richiamare l'attenzione.
Era davvero piccolo, pallido, sembrava quasi malaticcio rannicchiato su quella sedia di plastica verde.
Aveva i capelli scuri, tenuti un po' lunghi, schiacciati sulla fronte, e un'ombra strana negli occhi.
Portava delle enormi cuffie calate sulle orecchie, e fra le pieghe di un bianco, informe maglione si notava un lettore CD identico al mio.
Fra le mano si rigirava un disco che riconobbi come (What's the Story) Morning Glory? degli Oasis, e cantava sottovoce Wonderwall, seguendone il testo sul booklet dell'album.
Sentii un vago sorriso prendere forma sulle mie labbra, e senza neanche accorgermene mi ritrovai a cantarla anche io, a memoria.
Forse cantavo a voce un po' troppo alta, perché il ragazzo se ne accorse.
Alzò lo sguardo su di me, e mi guardò strizzando gli occhi, forse per capire chi fossi, o magari per intimidirmi, non l'ho mai capito.
Non mi mossi, paralizzata dall'ansia. Quello strano ragazzo mi metteva decisamente paura. In più, tutti i ragazzi che conoscevo erano tutti cattivi e violenti, capaci di picchiarti anche solo perché li stavi guardando.
Alla prima occhiata, mentre quello si toglieva le cuffie, si alzava, lasciando il lettore sulla sdraio, e avvicinandosi lentamente, pensai che anche lui fosse un tipo del genere.
Ma non appena fu abbastanza vicino per vedermi bene sgranò gli occhi dalla sorpresa, e un sorriso dolcissimo gli si allargò sulle labbra.
-Tu sei Cassandra!-, disse con voce stranamente profonda per il suo aspetto tanto fragile.
Annuii, combattuta fra l'istintivo timore e l'improvvisa tenerezza che quel ragazzo mi suscitava.
-Io sono Alex, piacere.-, disse tendendomi la mano e sorridendo ancora.
-Piacere.-, mormorai con voce roca, stringendogli la mano.
Era la prima parola che dicevo da ore.
-Benvenuta ad High Green.-, disse poi in un italiano stentato che mi fece sorridere.
Era il primo vero sorriso che facevo da mesi.
Doveva essersela preparata da tempo, per fare colpo.
-Grazie.-, risposi
Restammo in silenzio, sorridendo entrambi un po' imbarazzati, cercando qualcosa da dire.
Guardandomi intorno, lo sguardo mi cadde sul CD lasciato sulla sedia.
-Ascolti gli Oasis?-, chiesi curiosa.
Lui si voltò a guardare il disco, poi guardò di nuovo me.
-A dire il vero no. Me l'ha prestato Matt, un mio amico. Li ascolta suo fratello. Io è la prima volta che li sento.-, rispose, masticando le parole con il tipico accento strascicato della zona.
Ero cresciuta sentendo parlare mio padre in quel modo, quindi non avevo alcun problema a capirlo.
-E ti piacciono?-, chiesi, e il mio accento risultò eccessivamente londinese. Colpa della scuola.
-Beh, non sono proprio il mio genere, ma sì. Sopratutto quella Wonderwall. Ha un bellissimo testo.-,  disse con un sorriso e uno sguardo quasi sognante.
-Concordo, è una delle mie canzoni preferite.-, commentai.
Restammo ancora in silenzio, ma un po' più leggeri di prima. Parlare di musica, evidentemente, sollevava entrambi.
Prima che potessimo trovare qualcos'altro da dire, però, una donna si affacciò da casa di Alex, urlandogli di rientrare subito.
-Scusami, devo andare.-, mi disse.
-Non preoccuparti. È stato un piacere, Alex.-, dissi sorridendo.
Era il primo vero contatto umano piacevole in troppo, davvero troppo tempo.
-Piacere mio, Cassandra.-, rispose, e corse via, riprendendo lettore e CD dalla sdraio ed entrando in casa.
Rimasi in piedi davanti alla ringhiera fissando la porta dietro alla quale era sparito finché anche la signora Cook non si affacciò dal portone per dirmi, con estrema gentilezza, di entrare in casa.
Obbedii subito. La ghiaia del vialetto scricchiolava sotto i miei piedi, e il profumo di gelsomino all'interno del piccolo giardino era quasi insopportabile.
Entrai timidamente in casa, senza sapere cosa aspettarmi.
La prima sensazione che mi colpì non appena mi fui chiusa la porta alle spalle fu di calore.
Forse era dovuto ai colori caldi che predominavano ovunque, o al fuoco che, sebbene fosse fine giugno, scoppiettava nel camino in salotto, oppure al profumo di torta che proveniva dalla cucina.
Subito davanti alla porta c'erano delle scale che portavano al piano di sopra.
Sulla destra si apriva il salotto, piccolo e accogliente.
Il pavimento era parquet scuro, ad asticelle larghe.
La carta da parati era a fiori rosa corallo su sfondo color crema, coordinata ai due divanetti di broccato con lo stesso motivo e ad un basso tavolino di vetro.
A sinistra del camino c'era una bella, ampia libreria di legno scuro, alta quasi fino al soffitto, che girava sull'angolo della stanza e percorreva tutta la parete, e vicino ad essa, girata verso il fuoco, stava una vecchia poltrona color crema.
Alla fine della libreria, accanto alle scale, c'era una porta bianca, che supposi conducesse ad un bagno, o ad un seminterrato.
Sulla destra del camino, su un mobiletto stracolmo di videocassette, c'era un piccolo televisore, e su un ripiano sotto di esso stava un videoregistratore.
La stanza creava uno stranissimo contrasto con il cielo grigio che si vedeva dalla grande finestra affacciata sul davanti.
-Cassandra!- esclamò qualcuno alle mie spalle.
Sobbalzai e mi girai di scatto.
Una ragazzina stava in fondo alle scale e mi fissava.
Aveva capelli biondo miele, raccolti in due treccine, grandi occhi azzurri e un sorriso immenso.
Sulla pelle pallida del viso, intorno al naso spiccavano delle lentiggini, che le davano un'aria incredibilmente innocente.
Era piuttosto alta e magrissima. Assomigliava un sacco al padre.
Indossava, a fare contrasto con l'aria angelica, un paio di jeans strappati e una maglietta dei Red Hot Chili Peppers decisamente troppo larga.
-Tu sei Cassandra!-, disse, avvicinandosi.
Annuii.
-Io sono Emery.-, disse e tese la mano.
La strinsi timidamente.
-Allora, come ti sembra la zona?-, chiese sciogliendo la stretta e andando a sedersi sul divano.
-Tranquilla. E silenziosa.-, risposi sedendomi accanto a lei.
-Ah, sì. Se non pensi che è così solo perché siamo isolati praticamente da tutto riesci ad apprezzarlo.-, disse con un sorrisetto sarcastico.
-Ma non vi pesa tanto, no? Voglio dire, vi conoscete fra vicini di casa, avete comunque qualcosa da fare.-, dissi incerta. Era solo un'idea che mi ero fatta, avevo paura di dire una sciocchezza.
-Beh, sì. Il vicinato non è male, no. Anche se ci sono pochissime ragazze, e sono tutte delle oche pazzesche. Io passo quasi tutto il tempo da sola, o con mio fratello e i suoi amici.-, rispose, ed arrossì un po' sulle ultime parole.
-Tuo fratello?-, chiesi. Probabilmente me ne avevano parlato negli ultimi giorni, ma ovviamente non stavo ascoltando.
-Jamie. Ha quindici anni. Ora è giù a giocare a carte con i suoi amici.-, rispose.
-E il ragazzo della casa qui accanto? Non è suo amico?-, domandai, non riuscendo a trattenere la curiosità.
-Alex?-, chiese, arrossendo ancora.
Annuii, fingendo di non averlo notato.
-Sì, sono amici. Oggi non c'è perché è in punizione, di nuovo.-, disse.
Ridacchiai. Sembrava proprio il tipo da cacciarsi nei guai in continuazione.
-Come fai a conoscerlo?-, domandò poi, il tono vagamente accusatorio.
-Era in giardino quando sono arrivata. Abbiamo scambiato giusto due parole.-, risposi.
Emery sorrise, rassicurata.
-Che tipo ti sembra?-, chiese.
-Un po' strano. Ma in senso positivo, credo.-.
-Ah, sì. Lui è così.-, disse con un risolino.
Sospettai qualcosa, ma evitai di dirlo per non fare una figuraccia. Magari era solo una mia impressione.
Proprio in quel momento un gruppetto di ragazzi uscì dalla cucina, parlando e ridendo.
Io ed Emery ci voltammo a guardarli, e tutti ammutolirono quando videro me.
Uno, piuttosto alto, riccio e brufoloso, vestito da rapper, prese in giro Emery.
-Ehi, guarda un po' Jam, tua sorella ha smesso di fare la spocchiosa e ha trovato un'amica!-, esclamò, sgomitando uno dei ragazzi che doveva essere Jamie.
Emery lo fulminò con lo sguardo.
-Lei è Cassandra, la ragazza italiana che si è trasferita qui.-, spiegò in tono duro.
Tutti mi fissarono, ed io arrossii.
Jamie si fece avanti tendendo la mano con un sorriso imbarazzato.
-Io sono Jamie, piacere.-, disse.
Gli strinsi la mano sillabando:
-Piacere mio.-.
Lo guardai attentamente.
Era molto simile a sua madre: basso, capelli castano chiaro, lisci, e occhi piccoli e azzurri.
Non assomigliava per niente alla sorella, ma c'era qualcosa, forse nella sua espressione e nel suo modo di fare, che aveva la stessa profonda dolcezza che entrambi, evidentemente, cercavano di nascondere.
Quello che aveva preso in giro Emery sorrise e disse, sventolando in aria la mano:
-Io sono Matt!-.
Un ragazzo al suo fianco disse di chiamarsi Andy. Era il più alto di tutti, e anche il più grosso, ma sembrava estremamente timido e riservato.
-Che peccato che Alex sia in punizione proprio oggi.-, rise Matt.
-Già, aspettava il tuo arrivo con più ansia di noi.-, mi disse Jamie.
-L'ho incontrato prima qui fuori.-, risposi.
Tutti risero fragorosamente.
-Te l'ha detta quella frase in italiano? Se la prepara da una settimana.-, disse Andy, il primo a smettere di ridere.
Non risposi, notando che Emery si era irrigidita al mio fianco.
-Ohoh, smettiamo di parlarne, che la piccola Em si ingelosisce.-, disse Matt in tono canzonatorio.
-'Fanculo Helders.-, ringhiò a denti stretti.
-Dai, Matt, smettila. Andiamo.-, disse Jamie, lanciando un'occhiata alla sorella.
Salutarono tutti e uscirono, lasciandoci di nuovo sole.
Emery tratteneva a stento le lacrime.
-Ehi, tutto bene?-, chiesi piano.
Lei annuì, ma stringeva i pugni e i denti, per trattenersi, credo, dal piangere, o dall'urlare, o magari dal fare entrambi.
-Sono ragazzi, dai. Fanno tutti così.-, dissi cercando di consolarla.
Lei rise, prima amaramente, poi con più leggerezza.
-Quindi anche in Italia è così? Pensavo di essere io l'unica sfigata.-, commentò ironica.
-È così dappertutto. Non ho mai conosciuto un ragazzo intelligente. Non di quell'età almeno.-, dissi.
-Alex lo è.-, mormorò, dando conferma ai miei sospetti.
Sorrisi, rimanendo in silenzio.
Dopo un po', quando si fu totalmente calmata, Emery recuperò il suo sorriso.
-Ti va di vedere la casa?-, mi chiese.
Accettai con entusiasmo. Non vedevo l'ora.
Ci alzammo, e uscite dal salotto mi condusse al piano di sopra.
Le scale sfociavano su un ampio pianerottolo.
Sulle pareti la carta da parati era la stessa del soggiorno, e il pavimento era lo stesso identico parquet.
C'era una grande finestra sporgente, con un sedile imbottito che poteva essere chiuso da una spessa tenda scura. Ora era tirata su un lato, e si vedeva interamente il bel giardino sul retro, con un piccolo orto e una rete da calcio.
Sul pianerottolo si aprivano cinque porte, tutte bianche.
La porta appena accanto alle scale dava su un bellissimo studio, interamente rivestito di legno. Lungo tutto il perimetro della stanza correva una libreria.
In un punto si apriva una scrivania con un computer sopra, e in un altro una piccola finestra che dava sul giardino sul retro. Sotto di essa stava una poltrona blu scuro dallo schienale alto, con un basso poggiapiedi davanti, intonato.
Dall'altro lato del pianerottolo c'erano due porte, la prima della camera di Jamie, la seconda della camera di Emery, e adesso anche mia.
Quella di Jamie era chiusa a chiave.
L'altra, che io mi aspettavo estremamente femminile, aveva le pareti quasi completamente coperte di poster, ritagli di giornale, foto stampate e disegni, tanto che quasi non si distingueva la carta da parati violetta sottostante.
Il pavimento era coperto da una folta moquette rossa.
Fra i due letti appoggiati alla parete di sinistra c'era un tavolino ingombro di libri che faceva da comodino per entrambe, con due lampade da lettura sopra.
Sopra di esso una finestra.
Sulla parete opposta c'era un grande armadio scuro, con un'anta coperta da un grosso specchio e il resto, come le pareti di fogli, foto e scritte.
Accanto alla camera un piccolo bagno, e alla sua sinistra una porta conduceva alla camera dei signori Cook, dove, mi disse Emery, era generalmente vietato entrare.
Scendemmo di nuovo le scale ed entrammo nella cucina e sala da pranzo.
I banconi, posti all'angolo adiacente a quello della porta, erano di legno chiaro, anticato ad arte, che faceva contrasto con il frigorifero e il forno, entrambi modernissimi e rosso acceso.
Vicino all'angolo opposto c'era un tavolo di legno scuro con le gambe riccamente decorate, chiaramente un pezzo d'antiquariato che contribuiva alla generale aria vintage che permeava in tutta la casa.
Le sei sedie intorno, simili al tavolo, avevano tutte un soffice cuscino rosa a fiori.
Attaccato al soffitto proprio al centro della stanza c'era uno splendido lampadario in ferro battuto, decorato con fiori e foglie, come le gambe del tavolo.
Era un insieme strepitoso.
Anche qui c'era la solita carta da parati, e il parquet si interrompeva solo in una piccola area intorno ai banconi, dove veniva sostituito a delle mattonelle di un colore piuttosto simile.
Fra il tavolo e i banconi si apriva una porta che dava sulla dispensa.
Qui c'erano diversi scaffali chiusi da lunghe tende, e un grosso congelatore. Accanto ad essi una porta a vetri portava al giardino sul retro. In un angolo, sul pavimento, si apriva una botola.
Scendemmo la rozza scala di legno e ci ritrovammo in una tavernetta dall'aria un po' trascurata, ma pur sempre accogliente.
Sul pavimento c'era una moquette verde bottiglia, consunta e piuttosto sporca. Le pareti di mattoni erano coperte quasi interamente di poster e locandine di film e concerti e ritagli di giornale, come se fossero una sorta di coloratissima carta da parati.
C'erano due divani sfondati in un angolo, e delle sedie spaiate intorno a un rozzo tavolo ricavato da una tavola di legno appoggiata su due cavalletti.
Davanti ai divani, su un mobiletto identico a quello del salotto ma pieno di videogiochi, stavano una televisione e una play station. In un cestino si identificavano tre controller normali, e un DualShock.
Accatastati lì vicino c'erano una pila di giochi da tavolo e scatoloni di giocattoli. 
Un bidone della spazzatura ammaccato straboccava di bicchieri di plastica e cartoni di pizze.
Era chiaramente un posto totalmente gestito dai ragazzi.
Sul tavolo c'erano ancora le carte con cui dovevano aver giocato prima, e dei bicchieri con ancora qualcosa dentro.
Sorrisi di tutto quello. Era in qualche modo affascinante vedere come alla fine, sotto tutte quelle stanze pulitissime e arredate con estrema attenzione, c'era quel seminterrato dall'aria di averne passate troppe.
Tornammo su, mentre Emery diceva:
-Non è un granché, ma è casa.-, con un sorriso un po' imbarazzato.
-Io la trovo magnifica.-, risposi, sorridendo.
In salotto c'era Jamie, disteso sul divano a sfogliare un numero di NME, mentre alla TV, su M2, passavano una classifica di canzoni punk rock.
Emery si sedette al suo fianco e gli rubò la rivista, mentre io mi avvicinai all'enorme libreria per vedere cosa contenesse.
Pensai a quanto ero fiera di quella che avevo nella mia camera a Firenze, e mi sentii un po' una stupida.
I miei dieci scaffali traballanti, neanche del tutto pieni, erano niente in confronto a quello splendore di legno pregiato e libri importanti.
Libri, fra l'altro, tutti divisi per argomento e autore.
Sorrisi, accarezzandone le coste e cercando titoli che conoscevo.
Alle mie spalle Jamie, dopo una breve lotta,  mollò il giornale ad Emery e si alzò per raggiungermi.
-Quelli sono tutti di mia madre. C'è un po' fissata.-, disse, notando che stavo guardando la sezione dedicata all'arte, la fotografia e l'architettura.
-Ho perso il conto di tutte le mostre a cui ci ha trascinati quando eravamo piccoli.-, aggiunse, ridacchiando.
-A te non piace l'arte?-, chiesi, voltandomi a guardarlo.
-Non quella che piace a mia madre. A me interessa la musica. E il cinema, un po'.-, rispose, indicando tre scaffali pieni di biografie di musicisti e registi, raccolte di testi e spartiti, manuali.
Poi mi mostrò dei cassetti alla base della libreria strapieni di riviste specializzate.
-E non sono tutti. Ne tengo alcuni anche in camera.-, disse con aria compiaciuta.
Sorrisi, felice di aver trovato finalmente qualcuno simile a me.
Emery si alzò dal divano, lanciando la rivista sul tavolino e avvicinandosi a me e Jamie.
-Fa tanto l'intelligente, ma in realtà ne avrà letti meno della metà di tutti quei libri.- commentò ridacchiando.
Jamie le tirò una gomitata nelle costole, piano.
-Ma se li so praticamente a memoria. Tu piuttosto, i tuoi grandi classici, ne avrai letti al massimo tre.- rispose, lanciando un'occhiata agli scaffali dedicati.
Seguii il suo sguardo, e i miei occhi si illuminarono a vedere quella splendida raccolta di narrativa di ogni genere, nazionalità ed epoca.
Riconobbi tanti titoli che possedevo, e tanti altri che volevo da sempre e che adesso potevo finalmente leggere.
-Orgoglio e Pregiudizio è uno dei miei libri preferiti.- dissi, osservandone la copia rilegata ovviamente in lingua originale, così diversa dalla mia spiegazzata ed ingiallita tascabile.
La mia attenzione cadde poi su una collana di opere di Shakespeare dall'aria piuttosto antica.
Finalmente avrei potuto leggerli tutti.
-Qual'è il tuo preferito?- chiesi ad Emery.
-Non li ho ancora letti tutti, ma per ora Romeo e Giulietta.- rispose, indicandomelo.
Non potei impedirmi una smorfia di disappunto, che fu notata.
-A te non piace?- mi chiese Emery, un po' offesa.
-Sì, è bello, ma lo trovo un po' sopravvalutato. Per quanto toccante, la trama è un po' scarsa. Preferisco di gran lunga La dodicesima notte.- risposi, addolcendo il tono involontariamente saccente con un sorriso.
Jamie rise all'espressione accigliata della sorella, ed io mi apprestai a cambiare argomento.
-Chi è che legge fantasy?- domandai, notando, nello scaffale accanto, Le cronache di Narnia, tutti i libri di Tolkien, ed i primi tre libri di Harry Potter.
-Noi due. In realtà io sono più per la fantascienza.- disse Emery, indicando praticamente l'intera bibliografia di Asimov, qualche scomparto più in basso.
Stavolta riuscii a celare un po' meglio il disappunto.
-Tra pochissimo esce il quarto libro di Harry Potter.- disse Jamie, con un sorriso enorme.
Emery alzò gli occhi al cielo e sbuffò esasperata.
-Esce esattamente l'otto luglio, per il suo compleanno, per mia immensa sfortuna.- rispose al mio sguardo interrogativo.
Ridacchiai.
-Che bello. Ora che sono qui non devo aspettare la traduzione italiana per leggerlo.- dissi, sorridendo lanciando un'occhiata complice a Jamie.
Ricambiò, ridendo.
Emery ripeté lo sbuffo esasperato.
Aprì bocca per dire qualcosa, ma proprio in quel momento i signori Cook scesero le scale ed entrarono in salotto.
-State facendo amicizia?- chiese la signora Cook sorridendo teneramente.
-Jamie ha trovato un'altra fissata col fantasy.- disse Emery sbuffando, ancora.
Il signor Cook scambiò uno sguardo strano con il figlio, e lui si mise a ridere.
-Em è solo gelosa perché una volta tanto non è passata per il genio di turno.- disse Jamie, spettinandole affettuosamente i capelli.
Sorrisi con una certa malinconia nel vederli scherzare insieme.
L'unico vero rimpianto della mia infanzia era di non aver mai potuto condividere un rapporto come quello con nessuno.
Adesso, forse, potevo finalmente avere la mia occasione.
Adesso, magari, con quella famiglia, sarei riuscita a vivere la vita che avevo sempre sognato.
Il signor Cook fu l'unico ad accorgersi dell'ombra che mi aveva scurito lo sguardo, e mi chiese se stessi bene.
Annuii, ritornando presente a me stessa.
Smetti di pensarci, mi dissi. Cerca di essere felice.
-Comunque potete andare a lavarvi le mani. Fra cinque minuti ceniamo.- disse la signora Cook, dirigendosi verso la cucina seguita dal marito.
Jamie ed Emery mi guidarono verso la porta bianca che avevo notato prima.
Dietro c'era un piccolo disimpegno sul quale si aprivano altre due porte, una sulla destra e una esattamente parallela a quella affacciata sul salotto.
Una portava ad un ripostiglio, e l'altra ad un bagno con lavanderia.
Un paio fili appendi abiti, appesi a dei ganci sul muro, appena sopra la parte di parete coperta di piastrelle in finto marmo, correvano attraverso il bagno, carichi di bucato ad asciugare.
Dietro di essi la lavatrice e il wc, e davanti, sul lato della porta, due lavandini e un grosso specchio.
Ci lavammo le mani – sapone liquido alla lavanda e asciugamani azzurri – e tornammo in salotto.
Un delizioso odore di arrosto aleggiava per tutto il piano terra.
Appena entrati in cucina ognuno andò a sedersi al proprio posto, ed io rimasi in piedi a guardarli.
Il signor Cook sedeva a capo tavola. Alla sua destra la moglie, alla sinistra Emery. Jamie stava accanto alla madre.
Seduti in un silenzio leggero, con il cibo caldo e appetitoso disposto davanti su vassoi e ciotole pulite, sorridenti. I piatti quasi splendevano per quanto erano bianchi, senza graffi o aloni di vecchie macchie. Le posate e i bicchieri, colorati, diversi per ciascuno, avevano chiaramente l'aria di essere tenuti con cura.
La tovaglia candida e il cestino del pane completavano la scena, e contribuivano al suo essere così irreale.
Sembrava una di quelle foto di prova nelle cornici, una scena di una commedia americana, una pubblicità della Mulino Bianco.
Stavo lì immobile a fissarli, con la paura che muovendomi avrei rovinato tutto.
Fui colpita dall'impulso di correre via, prima di corrompere minimamente quella perfezione, quella serenità.
Prima che potessi anche solo pensare di fare qualcosa, Emery scostò la sedia al suo fianco, e lo stridio del legno duro contro il parquet mi richiamò alla realtà.
Mi accorsi di avere gli occhi lucidi e di star trattenendo il fiato.
Trassi un profondo respiro, ricacciando indietro le lacrime, sfoderando il miglior sorriso che riuscivo a fare, e andai a sedermi.
Solo il signor Cook vide il mio passo incerto, e le mie mani che tremavano, ma dovette capirne il motivo perché non disse niente a riguardo.
Piuttosto, si alzò in piedi e iniziò a distribuire pollo e purè di patate a tutti.
In breve, il tintinnio di posate e il dolce suono di una conversazione tranquilla e cortese sostituì il silenzio.
I genitori si informarono delle giornate dei figli, ed entrambi si lamentarono, ma non troppo seriamente, della loro invadenza, per poi iniziare a parlare di scuola e di altre cose.
Io stavo zitta, occupando la bocca solo nel mangiare, ed ascoltavo, in attesa di un qualsiasi suono che tradisse quella calma irreale.
Ma forse, mi dissi dopo un po' che aspettavo invano, tutto quello era irreale solo per me.
Solo a me, nella mia realtà distorta, quel momento sembrava impossibile.
Un sogno creduto irraggiungibile per anni.
Quasi tutte le cene della mia vita erano state un concerto di urla, litigi furiosi, stoviglie infrante e silenzi insostenibili.
Da più di un anno le stoviglie erano diventate bottiglie più o meno vuote, e i litigi frenetici monologhi, sfoghi deliranti di un ubriaco, di un folle.
O silenzio. Assordante silenzio fra cibo da microonde o cartoni di pizza. Silenzio che contrassegnava la mia solitudine, e la relativa calma della cosa.
Lì, in quella casa, in quella nuova realtà, non ritrovavo niente di quello che avevo sempre conosciuto, e questo mi disorientava e mi rassicurava allo stesso tempo.
Immersa nelle mie riflessioni avevo smesso di ascoltare la conversazione che stavano tenendo, quando la signora Cook pensò di chiedermi un parere.
-Cassandra, tu che ne pensi?- esordì sorridendomi.
Alzai la testa di scatto.
-Riguardo a c-cosa?- chiesi, arrossendo.
La signora Cook ridacchiò.
-Stavamo parlando di cosa potreste fare domani. Avevo proposto ad Emery di portarti in centro a Sheffield, ma...-.
-Ma ho pensato che sarebbe meglio farti conoscere High Green e Chapeltown, prima di Sheffield.- la interruppe Emery, guardandomi in modo strano.
-Dopotutto è carino, il centro di High Green.- la spalleggiò Jamie, ghignando in direzione della sorella.
Mi sentii come messa all'oscuro di qualcosa, ma pensai che Emery mi avrebbe spiegato tutto lontana dalle orecchie dei genitori.
-Tu cosa preferisci fare?- mi chiese di nuovo la signora Cook.
-N-non lo so. Forse, sì, è meglio che conosca un po' H-high Green.- balbettai, in imbarazzo.
Emery sorrise vittoriosa, e Jamie abbassò lo sguardo sul piatto per non mettersi a ridere.
-Bene, allora. A Sheffield potremmo andare sabato tutti insieme.- disse il signor Cook, sembrando serio, ma trattenendo a stento un sorriso.
-Veramente io avrei già programmato di andarci con gli altri. Matt deve comprare un regalo per i suoi.- disse Jamie veloce, probabilmente mentendo, scambiando uno sguardo allarmato con la sorella.
-Potremmo andare con loro. Matt non è capace di scegliere un regalo del genere da solo.- disse Emery, cogliendo la palla al balzo.
Tutt'ora non ho capito se la signora Cook fosse davvero così ingenua o lo lasciasse credere ai figli.
-Benissimo, allora. Non vorrei mai che Jill e Clive ricevessero l'ennesima pianta carnivora.- decretò la signora Cook, alzandosi e iniziando a sparecchiare.
Tutta la famiglia si accinse ad aiutarla.
Osservandoli, notai che ognuno aveva il suo compito ben preciso, ed erano tutti coordinati gli uni agli altri.
Per la prima volta, mi sentii di troppo. Ero una presenza ingombrante in quella famiglia felice. Un'intrusa arrivata da chissà dove ad intralciare le loro abitudini, i loro modi di fare.
Mi sentivo una stupida, rimasta seduta da sola al tavolo, guardandoli fare con tanta naturalezza gesti che a me sembravano assurdi.
E mi chiesi che impressione dovessi fare, vista dai loro occhi. Forse una vittima, un qualcosa che si è tenuti ad accudire per non perdere la faccia, come un uccellino caduto dal nido, o un cane trovato abbandonato in autostrada.
Sentii pesare i segni di quello che avevo passato, per quanto volessi dimenticare, passare oltre, innestarmi stabilmente in qualcosa che forse, per la prima volta, mi avrebbe fatto stare bene.
Forse intuendo il mio disagio, il signor Cook tentò di darmi qualcosa da fare.
-Cassandra, potresti togliere la tovaglia, per favore?- mi chiese, fermandosi un attimo dallo sciacquare un piatto.
Mi alzai di scatto, annuendo sollevata, ma la signora Cook tentò di impedirmelo accorrendo per farlo lei stessa.
-La prego, voglio rendermi utile.- la fermai, sperando di non suonare scortese.
Non volevo che mi vedessero come un'ospite.
Lei si fermò a metà strada fra il bancone e il tavolo, stringendosi le mani e osservandomi dubbiosa.
Mi sforzai di non guardarla, mentre scuotevo la tovaglia dalle briciole e la piegavo.
Emery mi indicò il cassetto dove riporla, e mi sbrigai a farlo.
Prima che potessi chiedere dove fossero la scopa e la cassetta, la signora Cook le prese e si mise a spazzare.
Ci sarebbe voluto tempo.
Quando tutti i piatti furono messi sulla rastrelliera ad asciugare, e le posate e i bicchieri riposti nei mobiletti appesi sopra ai banconi, i signori Cook ci mandarono in salotto, mentre loro rimasero seduti al tavolo a parlare concitati di qualcosa.
Jamie mise un film e si distese sul divano, mentre io ed Emery ci sedemmo sull'altro.
Avrei voluto chiederle cosa avremmo fatto il giorno seguente, ma all'improvviso mi sentivo terribilmente stanca, e non ebbi la forza di dire niente.
Mi rannicchiai nel mio angolo, con la testa piegata sulle ginocchia, e sia Emery che Jamie ebbero il tatto di non dire niente.
Li sentivo parlare di come Jamie avesse salvato la situazione prima, e del fatto che avrebbero dovuto convincere Matt ad andare davvero a comprare qualcosa per sua mamma.
Avrei voluto unirmi alla conversazione, essere di compagnia, ma davvero non ci riuscivo.
Non so se mi fossi addormentata o meno, ma dopo quelli che a me sembravano pochi minuti si erano fatte le undici, e i signori Cook intimarono ai ragazzi di spegnere tutto e andare a letto.
Il film era finito, e Jamie già dormiva sul divano.
Emery mi scosse con delicatezza, e mentre mi alzavo e mi stiracchiavo, si accinse a svegliare il fratello.
Tutti e tre, in fila, un po' barcollanti, salimmo le scale.
Jamie ci augurò la buonanotte prima di entrare in camera sua. Io ed Emery rispondemmo in coro, e lo vidi sorridere prima di chiudersi la porta alle spalle.
Una volta sole in camera, rilasciai un sospiro di sollievo, sedendomi sul letto.
Emery, che si stava cambiando dietro un'anta dell'armadio, mi chiese se stessi bene.
-Sì, alla grande.- risposi, cercando di non suonare sarcastica. -Sono solo stanca. E felice che la giornata sia finita.- aggiunsi, per amor di onestà.
-Dev'essere stato difficile, per te, cambiare casa e paese da un giorno all'altro.- disse, riemergendo dall'armadio e sedendosi anche lei sul fondo del suo letto.
-Magari fosse stato da un giorno all'altro! Non ne potevo più di test e controlli, tutti quegli psicologi, professori e dottori che credono di sapere tutto, di leggere nella mia testa. Li odiavo tutti. No, sono felice di essermene andata. Solo che oggi è stata una lunga giornata.- dissi, felice di potermi finalmente sfogare con qualcuno.
Emery sorrise, anche lei allietata dal tono più sciolto che avevo assunto.
Mi chinai su una delle valigie a cercare un pigiama.
-Domani sarà ancora più lunga, sappilo. Ho intenzione di farti stancare.- disse, mentre mi alzavo dal letto.
Mi accompagnò in bagno, spiegandomi un po' i suoi piani.
-Ad High Green non c'è niente, in realtà. Un po' di negozi e bar, tutti a gestione familiare. Voglio farti vedere i posti dove vado io, di solito da sola, ma stavolta farò un'eccezione.- disse mentre si scioglieva le trecce e si pettinava i capelli, sorridendo al mio riflesso nello specchio.
Nonostante lei ci scherzasse sopra, capivo che fosse un gran sacrificio condividere quei posti con un'estranea. E mi sentii lusingata da tanta, innata fiducia.
Sputai il dentifricio nel lavandino e le sorrisi, grata.
-La sera di solito cosa fate qui?- chiesi, una volta posato lo spazzolino da denti e tirata fuori la spazzola, tentando di restituire una direzione ai miei capelli.
-Niente.- disse, e si mise a ridere.
Le lanciai un'occhiata interrogativa.
-Non c'è quasi mai niente da fare qui, ci sono sempre le stesse persone negli stessi posti. È un mortorio. D'estate poi, è davvero un incubo. A volte sto con Jamie e gli altri, quando vengono qua. O esco con Jane, dovrò presentartela, e andiamo al Rose Inn. Ma per il resto è sempre come stasera.- spiegò.
Entrambe pronte per dormire, tornammo in camera, e ci infilammo sotto le coperte.
-Anche Jamie, quindi, esce poco?- domandai.
-Beh, no. Stasera è stata un eccezione perché dovevamo cenare tutti insieme. Di solito lui e i suoi amici passano le serate tutti a casa di uno, a rotazione. O vengono a dare fastidio a Jane e me.- rispose, con un po' di amarezza.
-Ma domani siamo sole.- dissi, e in qualche modo non era una domanda.
-Sì, domani sì. Meglio che ti ambienti, prima che i ragazzi inizino a pretendere di conoscerti.- disse ridacchiando, per poi rabbuiarsi subito dopo.
Non mi fu difficile capire a cosa avesse pensato, ma non dissi niente.
-Beh, non mi dispiacerebbe. Dove stavo prima i ragazzi mi giravano tutti a largo. Si avvicinavano solo per infastidirmi. Spero che qui sia diverso.- dissi.
-Di sicuro. Non hai visto le loro reazioni, prima? Sei una novità, in un posto dove non succede mai niente. Almeno per i primi tempi di staranno sempre attorno. Jamie, specialmente, se ne vanterà con tutti.- disse, e non riuscii a capire se le facesse piacere o meno.
Decisi che avrei aspettato di ritrovarmi in quella situazione, prima di giudicare.
-Dici? Non sembra il tipo.- fu l'unica cosa che mi venne da dire.
Stavolta Emery rise davvero.
-Imparerai a conoscerlo, fidati.- rispose.
Si lasciò sfuggire uno sbadiglio.
-Vedremo.- dissi, in tono quasi di sfida.
-Buonanotte, Cass.- disse, sorridendo.
Era la prima volta che qualcuno mi chiamava così, da quando ero piccola.
-Buonanotte.- risposi.
La prima notte della mia nuova vita, il primo sonno a Sheffield fu lungo, profondo e senza sogni.
Come non succedeva da troppo.

~
Bene, here we are.
High Green è, come spero saprete, il luogo in cui sono nati e cresciuti quasi tutti i membri degli Arctic Monkeys.
I nomi dei luoghi sono, per quanto mi è stato possibile, attendibili. Non so di che anno è la mappa su google maps, ma ha tutto comunque un fondamento reale.
Gli eventi, sopratutto quelli narrati nei prossimi capitoli, cercheranno di essere il più possibile realistici, per quanto si possa pretendere da una fanfiction.
Neanche a dirlo, non conosco né la famiglia Turner, né la famiglia Cook, né nessun altro, nessuno mi paga per scrivere di loro, e niente di tutto questo è fatto con l'idea di guadagnarci qualcosa.
Cassandra Allen è frutto della mia immaginazione malata, con il cognome rubato ad un adorabile muser australiano.
Emery Cook è liberamente ispirata alla mia collega, ma giusto un po', come i film che differiscono dal libro dal quale sono tratti il tanto che basta per non pagare il copyright.
A proposito di Emery, vi invito a leggere il side project che Bi_Lu ha appena iniziato e che riporta il diario scritto dalla piccola Cook, e che quindi mostra questa storia da un altro punto di vista.
Io inserirò di tanto in tanto capitoli non POV Cass, ma comunque se volete vedere un'altra angolazione di Thunderstorms. beh, leggetela. Non ve ne pentirete c:
Il titolo della storia è tratto dal titolo di una canzone degli Arctic, She's Thunderstorms, e il titolo del capitolo è una frase di No Buses, sempre degli Arctic. 
Ringrazio gli Arctic Monkeys, per aver mandato in fumo la poca sanità mentale che mi era rimasta e avermi convinta a buttarmi di testa in questo progetto folle. Se riuscirò a finirlo, costruirò una statua a loro, e a voi che siete arrivate a leggere fino a qua.
Spero lo abbiate apprezzato, davvero. 
Se questo primo capitolo vi è piaciuto, vi prego, vi prego, fatemelo sapere.
E anche se vi ha fatto schifo, se avete qualsiasi appunto, critica, consiglio da dare, vi supplico, fatelo.
Spero di aggiornare in modo abbastanza regolare, tempo e ispirazione permettendo.

A presto,
Piuma_

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Capitolo 2
*** 2. Wait 'till the past leaks out. ***


TS - E dopo quasi cinque mesi eccomi di nuovo all'attacco.
Scusatemi, so di essere assolutamemente imperdonabile per tutto il tempo che è passato dal primo capitolo, ma spero che siate ancora disponibili a leggermi.
Per farmi perdonare, questo capitolo è quasi più lungo del primo. Non siete felici? *ride nervosamente*
E, se ne avete voglia, vi invito ad andare a rileggere un po' anche il primo capitolo, dato che ho effettuato qualche piccolissimo cambiamento, e fra le note in fondo c'è una sorpresina che potrebbe piacervi. Credo.
Comunque, vi lascio subito alla lettura, ci vediamo giù.
~

Ero in un confuso dormiveglia, disorientata dalla flebile, grigia luce che riempiva la stanza, quando qualcosa di grosso e rosso mi saltò addosso, togliendomi il fiato.
Mi alzai a sedere di scatto, e l'enorme gatto rotolò giù dal mio petto sollevando una nuvola di peli.
Miagolò una flebile protesta contro il mio tossire, prima di prendere a strusciarsi contro le mie gambe.
Tornai a stendermi, premendomi il cuscino sugli occhi.
Mi girava la testa per il movimento troppo veloce di prima, e il gatto mi si era accoccolato sulle gambe, impedendomi qualsiasi movimento.
-Aslan! Ecco dove ti eri cacciato!- esclamò la voce di Emery, sulla porta.
Sollevai il cuscino per guardarla, e la vidi ridere della mia faccia sconvolta.
Si andò a sedere sul bordo del suo letto, mentre io mi alzavo a fatica, appoggiando la schiena al muro e allungandomi a carezzare il grosso gatto, che subito chiuse gli occhi allungandosi per farsi coccolare meglio.
-Scusalo- disse. -A volte si dimentica di esser un gatto.- rise, sporgendosi per accarezzarlo.
-Tranquilla. Un gatto così può saltarmi addosso ogni volta che vuole.- risposi sorridendo teneramente e grattandolo piano sotto il mento.
Mentre passavo le dita fra il folto, lungo pelo rossiccio, sorridendo delle profonde e sonore fusa che facevano tremare tutto il letto, pensai che il nome Aslan gli si addiceva tantissimo.
Quando lo dissi, Emery rise.
-Puoi immaginare chi l'abbia scelto. I suoi altri, normali, amici di otto anni gli consigliarono Simba, o Mufasa, ma no, lui era indeciso fra Merlin e Aslan.- disse in tono finto contrariato.
Mentre parlava, il gatto si era rotolato sulla schiena, mostrandomi il pelo candido sotto la pancia.
-È troppo poco bianco per chiamarsi Merlin.- dissi, accarezzandolo.
-Jamie disse la stessa cosa.- disse Emery.
Quando non riuscii a trattenere un sorrido compiaciuto, lei mi lanciò un'occhiata strana, ma lasciai correre.
Prima che una delle due potesse aggiungere qualcos'altro, la sveglia sul comodino suonò.
I grossi numeri verdi sul display segnavano le otto in punto.
Ci alzammo entrambe, e fra sbadigli e mugolii ci preparammo per uscire.
Emery, vedendomi indecisa sui vestiti da indossare, mi avvertì sul fatto che ci sarebbe stato da camminare nel fango e evitare i rovi, quindi mi misi vestiti vecchi e sacrificabili.
-Allora. Oggi conoscerai i due lati di High Green. La tua vita qui dipenderà tutta da quale preferirai.- disse infilandosi le Reebok.
Il suo tono serio mi spaventò un po'.
Scendemmo in cucina, e, dato che nessuna delle due aveva voglia di fare colazione, Emery riempì uno zaino con una bottiglia d'acqua, panini al latte e formaggio a fette, nel caso ci fosse venuta fame fuori.
Uscimmo di casa che erano passate le nove, e la città aveva appena iniziato a svegliarsi.
Il cielo coperto e lattiginoso faceva male agli occhi, e rendeva difficile guardare in alto.
Un vento leggero ma gelido accarezzava le strade semi deserte, sollevando pigramente le poche foglie e cartacce sui marciapiedi.
L'aria fredda e chiara era riempita dalle voci assonnate degli impiegati ritardatari, e delle ultime macchine che uscivano dai vialetti e sgommavano via veloci.
Lì, la gente, mi spiegò Emery, o aveva un negozio in centro o insegnava. Il resto lavorava Sheffield, o anche più lontano.
Tempo pochi minuti e ricadde il silenzio assoluto.
Sembrava quasi una città fantasma, con tutte le porte e finestre chiuse e nessuno in giro.
Rimanevamo solo noi e il vento ad occupare la strada.
-Se tu non l'avessi ancora capito- disse Emery -High Green è silenziosa.-.
Dal tono che usò capii che la cosa non le piaceva molto.
A me lì per lì piaceva perché non ero abituata a quella calma, ma potevo facilmente immaginare come fosse viverci da anni.
Iniziammo a camminare piano, in religioso silenzio.
Emery teneva lo sguardo basso, mentre io mi guardavo intorno con occhi spalancati, raccogliendo dettagli.
Procedendo lungo Ashwood Road, notai come nelle due file continue di case si alternavano villette a due piani con mattoni rossi a vista e bassi cottage di pietra, tutte corredate di curatissimi giardini e garage.
Le imposte bianche delle finestre erano per la maggior parte ancora serrate, e le poche finestre aperte erano comunque schermate da tende.
Ebbi l'impressione che la gente lì fosse molto riservata.
Lo dissi ad alta voce, ed Emery confermò.
-Sì, stanno tutti molto sulle loro. Ci conosciamo tutti, sì, ma parliamo raramente. Ogni tanto capita di fare una grigliata di quartiere, ed è tutto sempre piuttosto deprimente.- spiegò con una certa amarezza.
Eravamo fuori casa da appena dieci minuti ed ero già piuttosto delusa.
High Green non era altro che fila e fila di case immerse nel silenzio.
Sembrava quasi di sentire odore di chiuso, perfino all'aperto.
Il cielo grigio e l'asfalto umido contribuivano a dare al tutto un'aria davvero, davvero triste.
Girammo a destra alla fine della strada, e ci trovammo davanti al Rose Inn, e il morale di Emery si risollevò un po'.
-Da fuori sembra squallido, ma dentro, la sera, è quasi più confortevole di casa nostra. Magari una sera di queste ti ci porto, se vuoi.- disse abbozzando un sorriso.
La triste facciata grigia e lo sbiadito verde scuro delle insegne e della porta erano rallegrati un po' dal giardinetto sulla sinistra e dal minuscolo portico che si intravedeva sul retro.
Sembrava, tutto sommato, un posto gradevole. Probabilmente l'unico nel raggio di miglia.
Scendemmo per Thompson Hill, per poi girare in Oak Lodge Road.
Rimasi un attimo senza fiato.
Non riuscivo a spiegarmi il perché, ma quella strada emanava una certa vitalità che le strade prima non avevano.
Le case all'inizio della via erano di un rosso più scuro e più acceso delle case viste in precedenza.
Assurdamente, anche l'erba sembrava di un verde più brillante.
C'erano più alberi, più macchine, più finestre aperte, e perfino più suoni provenienti dalle case.
Riuscivo a sentire la sigla di un cartone animato da una finestra aperta poco distante, e vedevo una luce accesa dietro ad un'altra.
Mi guardai attorno con più attenzione, spalancando gli occhi nel tentativo di vedere di più, di riempirli di quella bellezza ritrovata.
Sorrisi dell'aiuola di fiori viola al centro del cortile di un'abitazione, e quasi risi di una staccionata bianca da ranch posta a chiudere un vialetto, due case più avanti.
Il rosso delle case cedette il passo al grigio, di ogni tonalità possibile.
Da un marroncino chiaro, a un grigio scuro, quasi nero.
Quelle case uscivano dagli schemi.
Mi sentii un po' stupida a pensarlo, perché insomma, erano solo case, ma era la verità.
Era come se tutte uscissero individualmente da quell'uniformità che contraddistingueva quella piccola città, e risplendeva di colori, e dettagli che le rendevano uniche, sebbene fossero comunque sempre uguali alle altre.
C'era vita, in quella strada. C'era voglia di vivere ad High Green, voglia di rimanere.
Forse semplicemente del fatto che quelle case sembravano davvero abitate.
Vissute.
Non dissi niente, perché non sarei riuscita ad esprimere ad alta voce quello che pensavo, ma Emery notò il mio guardarmi in torno affascinata con occhi e bocca spalancati, e rise, probabilmente della stupidità della mia espressione.
-Non avevo mai visto qualcuno tanto sorpreso di una strada.- disse, ridacchiando.
-È che è bellissima!- esclamai.
Emery non riusciva a capire cosa ci trovassi di tanto straordinario.
Si limitò a guardare divertita la mia espressione evidentemente molto stupida.
Quasi mi dispiacque arrivare alla fine di quella via.
In Springwood Lane, dopo qualche metro, le case venivano sostituite da due file di alberi.
Emery, lì, si rilassò, e finalmente mi rivolse un vero sorriso.
-La cosa migliore di High Green è, beh, lo dice il nome stesso: il verde.-
Dopo il tratto di strada fra gli alberi Springwood Lane continuava con una sola schiera di case sulla sinistra, mentre sulla destra correva una bassa siepe.
Al di là di essa ci si poteva riempire gli occhi della natura selvaggia che circondava il paese.
Guardai quel paesaggio, e avrei dovuto apprezzarlo, ma, mio malgrado, non riuscivo a gioirne. Il connubio di cielo grigio ed erba giallognola non faceva che rattristarmi.
Il campo incolto e poi il bosco, la natura così vicina alla città, sovrana della zona, faceva sentire in un certo senso liberi, perché non c'era il senso di soffocamento che si ha vivendo in città grandi, ma anche intrappolati fuori dalla realtà, in quella cittadina di provincia dimenticata dal mondo.
All'improvvisò capii come doveva sentirsi Emery, confinata da tredici anni in quella finta libertà fatta di silenzio, grigiume e sterpaglie.
-Questa è davvero la cosa che preferisci di High Green?- le chiesi cercando di nascondere la mia incredulità.
-Capisco che per te possa essere difficile da capire. Sei abituata ad un posto totalmente diverso.- disse con un sorriso sincero. -Ma devi vederla dal punto di vista giusto. Qui fuori sono da sola. Posso saltare la siepe, andarmi a perdere fra gli alberi e fingere di essere, che so, l'ultima sopravvissuta all'apocalisse. Per me è l'unico modo di sopravvivere qui, dimenticarmi ogni tanto dell'esistenza degli altri, e senza questo non ci riuscirei.- continuò, indicando il paesaggio con un ampio gesto della mano.
Rimasi un attimo spiazzata da quella risposta. Collegai quelle parole a l'insinuazione che l'amico di Jamie aveva fatto il giorno prima sul suo non avere amiche.
-Io non vedevo l'ora di venire qua sperando che gli inglesi fossero davvero persone migliori degli italiani.- dissi, abbassando lo sguardo.
Lei rise, com'era prevedibile.
-Credo che la gente di qui ti deluderà. Vecchi insopportabili, ragazzine spocchiose e ragazzini immaturi che cercando di andarsene non appena finita la scuola, ma che a mala pena riescono ad arrivare a Sheffield.- disse.
Intanto eravamo arrivate alla fine di Springwood Lane e avevamo girato a sinistra in Greengate Lane.
Percorrendo quella strada leggermente in salita non riuscivo ancora a metabolizzare le parole di Emery.
Ritenevo, sì, che quel quasi assoluto silenzio fosse un po' più fuori luogo lontana dalla vista sulla sterminata campagna, ma continuavo ad adorare quelle casette a schiera, e l'aria di serenità domestica che emanavano.
Forse, pensai, era dovuto al fatto che quello per me fosse una novità.
In quel momento sperai con tutta me stessa che non avrei cambiato idea col tempo.
-È tanto diversa la tua città da High Green?- chiese Emery mentre imboccavamo Foster Way, sulla sinistra.
Stavolta fu il mio turno di ridere.
-Non puoi neanche immaginare quanto.- risposi scuotendo leggermente la testa.
-Ma sarà più o meno come Sheffield, no?- insistette lei.
-Beh no, è sicuramente più piccola, ma è, come tutta l'Italia del resto, molto più rumorosa. E sporca, e piena di incivili e di teste di cazzo.- spiegai sputando le ultime parole quasi con rabbia.
-Sai, credo che sarà difficile per questo posto deludermi dopo lo schifo che ho visto laggiù.- aggiunsi sovrappensiero, guardandomi intorno.
Foster Way procedeva sinuosa tagliando a metà High Green e formando quello che si poteva chiamare il suo centro.
Ai suoi lati si aprivano molti vicoli ciechi che costituivano come dei piccoli quartieri, un po' come la strada in cui vivevano i Cook.
-Il centro di Firenze è puro caos. Troppe macchine, troppi negozi, troppe persone ovunque. Visitarla immagino che possa essere bello, ma viverci, viverci è un incubo.- dissi continuando il discorso precedente.
-Qui per la maggior parte del giorno puoi sentire una porta sbattere nella via accanto.- commentò Emery.
-Per me è il paradiso. Stanotte, per esempio, ho dormito come mai prima d'ora. Fra i rumori di fuori e i rumori dentro, per anni mi è stato impossibile dormire per più di poche ore a notte.- dissi, per poi accorgermi di aver detto troppo.
Con molto tatto, Emery evitò di fare domande sulla mia sbadata allusione, anche se potevo vedere chiaramente dalla sua espressione che avrebbe tanto voluto.
Probabilmente non le era stato spiegato niente del perché io mi ero ritrovata ad invadere la loro vita, e altrettanto verosimilmente le era stato vietato di fare domande.
Volevo scusarmi perché mi sembrava di starmi vittimizzando, ma sarebbe sembrato fuori luogo, così evitai.
Continuammo a camminare per un po' in silenzio, a passo svelto.
Verso la metà di Foster Way le case sparivano e si apriva un ampio spazio verde, occupato da un campo da calcio e uno da basket.
Sulla sinistra si stagliava un enorme condominio dall'aria piuttosto inquietante.
-Quelli sono i Fosters. Nessuno sa bene chi ci vive, ma non è granché sicuro passarci vicino di notte, a quanto dicono, né in macchina né tanto meno a piedi.- spiegò Emery tentando forse di essere minacciosa, senza riuscirci.
-E in realtà?- chiesi.
-In realtà la cosa più spaventosa che puoi trovarci sono topi, scarafaggi e ogni tanto qualche spacciatore, ma loro se ne stanno vicino ai garage ed è facile evitarli. C'è gente che si diverte a inventarsi leggende, ce ne sono a decine per ogni appartamento, e a sfidare gli amici a passarci la notte. Quello stupido di Jamie una volta l'ha fatto. Matt è stato morso da un ratto ed è si è rotto un polso inciampando per le scale.- disse lanciando un'occhiataccia all'edificio, come se fosse colpa sua.
Cercai di trattenermi dal ridere.
-Tu ci sei mai entrata?- domandai, invece.
-Una volta stavo per farlo, l'estate scorsa, con delle mie compagne di classe, ma Jamie mi ha vista e mi ha fatto una scenata, prima di portarmi via praticamente di peso. A scuola qualcuno ancora mi prende in giro per questa cosa.- rispose amareggiata, lo sguardo basso fisso sull'asfalto, probabilmente intenta a rivivere la scena.
-E il parco? Non dirmi che anche questo è pericoloso.- dissi subito, cercando di sviare il discorso e i suoi pensieri da quel brutto episodio.
-Dipende cosa intendi per pericoloso.- disse lei, ritrovando il sorriso.
Superammo i Fosters e ci avvicinammo al parco che si apriva enorme sulla destra.
C'era un gruppo di ragazzi che giocavano a calcio, urlandosi insulti da una parte all'altra del campo.
Erano in dieci, cinque contro cinque, e dovevano far parte tutti dello stesso gruppo perché praticamente nessuno di loro giocava per far vincere la squadra, ma piuttosto per segnare personalmente più goal.
C'era un ragazzo enorme, da quella distanza non capivo se fosse grasso o muscoloso, che doveva piuttosto temuto dagli altri a giudicare da come gli si tenevano a distanza.
-Se ti metti contro di loro sì, è molto pericoloso.- disse Emery, indicandoli.
-Quel tizio è enorme.- commentai stupidamente, seguendolo con lo sguardo.
-Dovresti vederlo da vicino!- rise lei, capendo ovviamente subito a chi mi riferivo.
-Voi non venite mai a giocare qui?- chiesi.
-Quasi mai. Questo posto è controllato da loro, bisogna chiederglielo settimane prima e avere fortuna che il giorno prescelto siano di buon umore. Di solito i ragazzi, come tutti gli altri, preferiscono andarsene nei due parchi più verso Chapeltown. Ci sono tipo otto campi, mi pare, tre da una parte e cinque dall'altra. E sono gestiti dalla parrocchia di Saint Saviour Mortomley, quindi con un certo criterio. In più hanno anche tre campi da tennis. Non che qualcuno ci sappia davvero giocare, ma si divertono provandoci.- rispose, ridacchiando sommessamente probabilmente in ricordo di qualche partita.
-Non è difficile il tennis, basta avere i riflessi pronti.- dissi, memore del corso di tennis fatto a scuola l'anno prima.
-Dillo ad Alex tira-più-piano Turner.- commentò lei scoppiando a ridere.
Continuammo a camminare lungo il parco, mentre Emery mi raccontava una serie delle migliori figuracce fatte dai ragazzi giocando a calcio o a tennis.
Li prendeva in giro con una velata tenerezza, con un sorriso che lasciava trapelare tutto l'affetto che provava per loro, nonostante si lamentasse della loro costante presenza nella sua vita.
-È come avere quattro fratelli maggiori, uno peggio dell'altro. A volte è bello, ma ci sono momenti in cui diventano eccessivamente protettivi. Tutti quanti. Contemporaneamente. A volte sembrano una scorta piuttosto che degli amici. A scuola poi, dato che Jamie non c'è perché va ad Ecclesfield e noi a Stocksbridge, diventano insopportabili. Soprattutto Matt. Se qualcuno non lo sapesse lo denuncerebbe per stalking per il modo in cui mi tiene d'occhio da lontano.- raccontò con aria infastidita.
-Per non parlare delle figure di merda che mi fanno fare. Quello che ti ho detto prima è solo una. Non posso avvicinarmi a nessun ragazzo, neanche miei compagni di classe, senza ritrovarmi Matt o Alex a portata d'orecchio che cercano di fare gli indifferenti. Ma sono dei pessimi attori, fidati. E intimidiscono la gente fissandola, così che poi mi girano largo. E hanno anche la faccia tosta di prendermi in giro sul mio non avere amici.- continuò piuttosto infervorata.
Per quanto per lei probabilmente fosse abbastanza brutta come cosa, io non potei impedirmi di sorridere
-Non dovrebbe lusingarti almeno un po' sapere che loro ti considerano qualcosa da proteggere? È abbastanza tenera come cosa.- dissi.
-Beh sì, mi fa piacere, ma spesso esagerano. E poi mi irrita la loro incoerenza nell'essere tutti iperprotettivi fuori e nel trattarmi di merda in privato. Soprattutto Matt.- rispose.
-Il loro scopo suppongo sia quello di proteggerti dagli altri per tenerti tutta per loro. Ha senso il proteggerti fuori e lo strapazzarti dopo. Probabilmente lo vedono come una sorta di premio per il lavoro che hanno fatto.- dissi cercando di non suonare saccente.
Emery mi guardò un po' stupita, poi sembrò decidere che era troppo tardi per cambiare idea e cambiò argomento.
Salivamo a passo lento lungo Thompson Hill, io guardandomi intorno senza riuscire ancora a smettere di stupirmi per quanto grazioso fosse quel posto, ed Emery, pensierosa, tenendo lo sguardo basso.
Avevamo appena superato una stranissima casa quasi completamente ricoperta di vite americana, quando iniziò a piovere.
Prima piano, pianissimo, così piano che neanche si sentiva, ed Emery mi disse di star tranquilla, sarebbe finito entro qualche minuto.
Ma non successe.
Lentamente la pioggia si infittì ed aumentò d'intensità, e noi accelerammo il passo fino a ritrovarci a correre sotto quel pungente getto gelato.
In pochi secondi ci ritrovammo fradice e congelate.
Emery correva qualche passo avanti a me per farmi strada.
Percorremmo quello che rimaneva di Thompson Hill e poi giù a rotta di collo per Ashwood Road.
Rischiammo svariate volte di cadere, in discesa sul marciapiede bagnato.
Emery aveva lasciato il cancello aperto prima, quindi imboccò il vialetto senza esitazioni e si fiondò alla porta, attaccandosi al campanello e sperando che Jamie fosse sveglio.
La seguii a ruota, o almeno ci provai.
Nel salire le scale del portico scivolai su un'impronta fangosa lasciata da Emery e caddi per terra.
Posai una mano sul corrimano per rialzarmi, ma scivolai sul legno bagnato e mi tagliai con un chiodo leggermente sporgente.
La ferita non sembrava profonda, dato che la punta del chiodo era piuttosto corta, ma usciva un sacco di sangue.
Non appena andò a mescolarsi alla pioggia sui gradini scuri e il suo odore mi riempì il naso la testa prese a girarmi fortissimo e svenni.


Mi risvegliai dopo quelle che a me sembrarono diverse ore e ci misi un po' a capire dove mi trovassi.
Girai la testa sulla sinistra e vidi, attaccato alla parete bianca, un cartello con su scritto “Northern General Hospital”.
Diedi un'occhiata al mio polso e lo vidi fasciato.
Andai poi a tastarmi la testa che mi faceva un male cane, e sentii una fasciatura anche lì.
Dedussi che dovevo aver battuto la testa cadendo.
Mi sentii improvvisamente stupida e debole.
Non mi era mai capitato di svenire alla vista del sangue. Che mi girasse la testa sì, ma mai così forte.
Guardai di nuovo la benda bianca intorno al polso e dovetti trattenere l'insana, improvvisa voglia di strapparla via.
Riabbassai la mano e riportai la testa dritta, gli occhi al soffitto dello stesso identico bianco accecante delle pareti.
La testa mi faceva troppo male per anche solo tentare di sollevarla.
Mentre stavo cercando una posizione comoda per rimettermi a dormire sentii la porta aprirsi e qualcuno entrare.
Mi voltai di scatto e feci appena in tempo a vedere Jamie avvicinarsi al letto prima che una serie di lucine colorate mi esplodesse davanti agli occhi e la testa prendesse a girarmi di nuovo.
-Ehi, tutto bene?- chiese lui evidentemente preoccupato.
Aspettai che la stanza smettesse di ruotarmi intorno prima di rispondere un flebile sì.
Attese per un po' che aggiungessi qualcosa, poi si voltò e uscì, borbottando che andava a chiamare un medico.
Pochi minuti la stanza fu riempita da un dottore seguito da Jamie, Emery e il signor Cook.
-Ciao Cassandra. Sono il dottor Gaines. Come ti senti?- mi disse il tarchiato e barbuto uomo che stava in piedi accanto al mio letto coprendomi la vista di tutti gli altri.
Un cartellino pinzato a una tasca del suo camice riportava scritto Dr. J. Gaines.
-Sto bene. Quando posso andarmene?- chiesi subito, piantando lo sguardo più convinto che avevo dritto nei suoi occhi.
Rise del mio pessimo tentativo di fingermi forte.
-In teoria dovremmo tenerti una notte in osservazione. Anche se non hai battuto molto forte è meglio non rischiare, alla tua età, e nella tua condizione.- rispose.
-Quale condizione? Non ho nessuna malattia, sono solo svenuta!- dissi allarmata.
-Lo sappiamo. Mi riferivo alla tua condizione, beh, psicologica.- disse lui con un sorriso che voleva essere rassicurante.
Rimasi un attimo interdetta, non certa di aver capito bene.
-Mi scusi, ma adesso chi inciampa sulle scale deve avere dei problemi mentali? Pioveva, era scivoloso, sono caduta.- dissi, cercando di mantenere la calma.
Lui rise di nuovo. Non mi stava prendendo sul serio.
-Certo, Cass. Però dovrai comunque parlare con qualcuno.- disse poi, in tono accomodante.
-Mi chiamo Cassandra, e l'unica cosa di cui ho bisogno è uscire di qui.- ribattei seriamente irritata.
Il sorriso del dottore vacillò per un attimo, velandosi per un attimo di irritazione.
-Cassandra, non importa essere così aggressive. Si risolverà tutto, vedrai. Adesso facciamo un po' di controlli, ok?- disse poi, ritornando a sorridermi smagliante.
Lo guardai con gli occhi sgranata, non potendo credere alla sua stupidità.
Dovetti mordermi la lingua per evitare di insultarlo.
Me ne stetti buona mentre mi puntava una lucina negli occhi e mi controllava le fasciature che scoprii avere anche sulle ginocchia.
-Fisicamente stai bene. Hai bisogno di un po' di riposo, ma ti riprenderai in fretta. Adesso vado a chiamarti la dottoressa Joyce.- disse e uscì prima che potessi dire qualsiasi cosa.
Emery e Jamie stavano in silenzio a fissarmi, probabilmente si sentivano in colpa per non essere riusciti ad aiutarmi in qualche modo.
Il signor Cook invece si avvicinò preoccupato.
-Quello che hai detto prima al dottore è la verità? È stato un incidente?- mi chiese.
Non riuscivo a capire il motivo di quella domanda.
-Sì che è la verità. Cos'altro può essere stato? Non sono stupida, non mi faccio male volontariamente.- dissi, provando anche a ridere della cosa.
Ma appena pronunciate quelle parole capii, e le cose mi sembrarono addirittura peggiori, se possibile.
-Credete che mi sia fatta male da sola? Seriamente? Ma è assurdo! Perché dovrei?- chiesi, davvero sconvolta.
Il signor Cook lanciò un'occhiata ad Emery e Jamie come per dirgli di uscire, ma li fermai.
-Non ce n'è davvero bisogno. Non abbiamo niente di privato da dirci.- dissi, ridendo adesso per l'assurdità di tutto quell'accaduto.
Ma prima che qualcuno potesse dire qualsiasi cosa, la dottoressa Joyce entrò nella stanza, anche lei sfoderando un tiratissimo sorriso tutto denti come il dottor Gaines.
-Se mi fate il piacere di lasciare la stanza. Il colloquio fra me e Cassandra durerà solo mezz'ora.- disse ai miei visitatori.
Lanciai uno sguardo supplicante di aiuto in direzione di Emery e Jamie, sperando che dicessero qualcosa che mi avrebbe risparmiato quell'ennesima tortura.
Fu Emery ad intervenire, probabilmente memore di quello che le avevo detto la sera prima riguardo a tutti i controlli psicologici che avevo affrontato nei mesi passati.
-Dottoressa io non credo che ci sia bisogno di parlare con Cass. Io...- cominciò, ma la dottoressa la interruppe.
-Grazie, ma credo di sapere di cosa Cass abbia bisogno.- disse sempre sorridente.
Emisi un suono che suonava in modo inquietante come un ringhio, reprimendo davvero a fatica l'impulso di prenderla a pugni.
Il signor Cook spinse i figli fuori, lasciandomi sola con l'irritante psicologa.
-Allora Cass, dimmi un po', come ti sei sentita quando sei caduta?- mi domandò, prendendo una sedia dal fondo della stanza e accomodandosi alla mia destra.
-Mi chiamo Cassandra, e ho sentito dolore. Poi altro dolore. Poi sono svenuta. E prima che lei possa fare altre domande stupide, no, non mi ha fatto piacere, e no, non me lo sono auto inflitto. Abbiamo finito?- risposi in fretta, gelida.
Lei tirò ancora di più il suo sorriso, al punto che mi chiesi quanto poteva sopportare la sua faccia prima di strapparsi.
-Non c'è bisogno di essere così aggressive. Sei al sicuro qui.- disse.
Se qualcuno mi avesse ripetuto un'altra volta di non essere aggressiva, mi dissi, lo sarei diventata sul serio.
-Dottoressa, può per favore dimenticarsi l'idea assurda che vi siete fatti di me, iniziare ad ascoltare quello che le sto dicendo e quindi mandarmi a casa in pace? Glielo chiedo per favore.- dissi con estrema calma.
-Quale idea pensi che ci siamo fatti di te?- chiese senza cambiare di una virgola il suo tono mellifluo e accondiscendente.
Sospirai esasperata, alzando gli occhi al cielo.
Mio malgrado, decisi di rispondere alla sua domanda, nella speranza che tutto quello sarebbe finito presto.
-Penso che voi crediate che io sia una ragazzina problematica che ha avuto un crisi nervosa dopo il trasferimento e che per qualche ragione ha deciso di fingere un incidente per farsi male. Ma non è così. Non ne avrei motivo. Sono felice di essermene andata e non vorrei fare del male neanche a mio padre, figuriamoci a me stessa!- dissi, alzando la voce sull'ultima frase.
-Ti senti in qualche modo responsabile di quello che è successo alla tua famiglia?- chiese la dottoressa senza dar segno di aver ascoltato le mie parole, ma scrivendo qualcosa sulla mia cartella.
-Non ho mai avuto una famiglia. Eravamo solo tre persone capitate insieme per sbaglio.- dissi con decisione.
Avevo maturato quel pensiero solo nell'ultimo anno, osservando mio padre distruggersi. Tutto l'odio che provavo prima verso di loro per aver distrutto quello che avevamo era sparito quando avevo capito che non avevamo davvero mai avuto niente.
-Pensi di essere sbagliata?- domandò la psicologa interpretando di nuovo male le mie parole.
-No.- risposi seccamente, con un sospiro.
-Sono felice di essere nata e non mi dispiace quello che mi è successo. Poteva andarmi meglio, sì, ma anche peggio. Le cose brutte succedono e non ha senso lamentarsene e passare la vita ad odiare qualcuno per qualcosa che doveva succedere comunque.- aggiunsi poi, giusto per mettere in chiaro le cose.
-Non senti la mancanza di una figura di riferimento nella tua vita?- domandò l'incompetente.
-Perché dovrei? I miei genitori mi hanno insegnato abbastanza su quali errori non fare nella vita.- risposi concedendole un mezzo sorriso mentre vedevo che il suo svaniva lentamente.
Sembrava delusa.
-Bene. Abbiamo finito. Magari ci rivediamo presto.- disse dopo qualche secondo, risfoderando quei maledetti denti in un sorriso che mal celava una certa rabbia.
-Magari no.- dissi io serissima.
Uscì trattenendosi dallo sbattere la porta.
Sentii delle voce da fuori che riconobbi come quelle del dottor Gaines e del signor Cook. Non mi sforzai di capire cosa dicessero, stanca com'ero mi rimisi distesa e chiusi gli occhi, che avevano preso a bruciarmi a causa dei neon.
Dopo qualche minuto il dottor Gaines entrò, con il suo sorriso inquietante e il suo irritante modo di fare.
-Ti faccio cambiare le fasciature e poi ti dimettiamo, ok? Riposati ed evita movimenti bruschi nei prossimi giorni. Dovrai tornare fra una settimana che ti togliamo i punti, e poi speriamo di non rivederci più.- disse e rise della sua battuta.
-Speriamo davvero.- commentai io a denti stretti.
Finse di non avermi sentita e uscì.
Arrivò subito un'infermiera che mi tolse la fasciatura alla testa e mi sostituì quelle alle ginocchia e sul polso.
Chiusi gli occhi per evitare di guardare le ferite e sentirmi male di nuovo, e la ragazza si limitò a dirmi solo di alzare o abbassare le gambe o il braccio.
Se ne andò in silenzio com'era arrivata lasciandomi finalmente davvero sola.
Lentamente mi alzai e andai a chiudere la porta a chiave prima di cambiarmi con i vestiti che qualcuno, probabilmente Emery, aveva provveduto a portarmi.
Poi uscii, zoppicando un po' per via del leggero dolore alle gambe.
Fuori c'erano ad aspettarmi i tre Cook.
Non dissero niente. Si alzarono dalle seggioline verdi che costeggiavano tutto il corridoio e si avviarono verso l'uscita.
Jamie mi stava accanto con un braccio leggermente teso verso di me, probabilmente per riuscire a prendermi in fretta in caso fossi caduta.
Finsi di inciampare un paio di volte per il gusto di farlo preoccupare.
Vedevo Emery che ogni tanto si girava verso di me come per dirmi qualcosa, ma cambiava idea quasi immediatamente.
Scendemmo nel parcheggio e montammo in macchina nel più totale silenzio. Emery sembrava quasi scoppiare dalla voglia di parlare, al punto che spesso si mordeva le labbra per impedirselo.
Fu uno dei peggiori viaggi della mia vita, e sebbene fosse durato solo meno di venti minuti a me parvero ore, immersi come eravamo in quel pesante, imbarazzantissimo silenzio.
Non per me, che ero ancora piuttosto arrabbiata a causa di quei medici idioti, quanto perchè sentivo chiaramente che c'era una parte della questione che mi stava venendo nascosta.
Scendemmo, e lo sbattere delle portiere risuonò in tutta la strada.
Erano le tre di pomeriggio e c'era ancora silenzio totale.
Prima di entrare mii attardai un attimo sulle scale del portico e constatai che la pioggia aveva lavato via a dovere tutto il sangue.
Stupidamente, mi misi a grattare via con la punta del piede il fango incrostato, con rabbia, come se fosse stata tutta colpa sua.
Emery mi raggiunse, chiudendosi la porta alle spalle.
Mi osservò in silenzio finché non mi scocciai di ascoltare il suo respiro, accelerato dall'imbarazzo per quello che aveva da dirmi, e alzai lo sguardo dall'infausto gradino per posarlo su di lei e invitarla a parlare.
Inspirò profondamente, aprì la bocca con decisione, e poi la rischiuse.
Sospirai esasperata.
-Se hai da dire qualcosa fallo, sennò datti pace. Ho già le palle abbastanza girate per tutti quegli idioti, non vorrei peggiorare le cose.- sbottai.
-È colpa mia.- disse veloce.
La guardai come a dirle di spiegarsi meglio.
-Dopo aver chiamato l'ambulanza abbiamo telefonato a papà per dirgli cos'era successo e, ecco, potrei, nel panico, avergli detto solo che ti eri tagliata e che eri svenuta. Poi dopo ho tentato di spiegarlo al dottore, ma evidentemente non ci ha creduto.- spiegò imbarazzata e dispiaciuta.
La guardai fissa, indecisa fra ridere o arrabbiarmi.
Non feci niente.
-Che idioti. Spero di non rimetterci più piede.- mi limitai a commentare acida.
-Hey, non ce l'ho con te, tranquilla. Non è colpa tua se ci sono medici incapaci.- aggiunsi poi, vedendola piuttosto abbattuta.
Annuì, ma con poca convinzione.
Allora, trattenendomi dal sospirare di nuovo, salii le scale, la raggiunsi e la spinsi con delicatezza in casa.
Il signor Cook si stava preparando per tornare a lavoro.
Prima di uscire mi prese un attimo da parte in cucina.
-Scusa per prima. Emery mi ha riferito male cosa era successo e mi sono lasciato prendere dal panico. Ho raccontato ai dottori cosa credevo che fosse successo e non ho voluto ascoltare Emery mentre cercava di spiegarsi meglio.- disse, e stava per continuare, ma lo interruppi.
-Senta, davvero, basta. Non è la fine del mondo, è stato un malinteso, non importa. L'importante è esserci capiti.- dissi con fermezza.
Lui rimase un attimo interdetto. Sperai con tutte le mie forze che non dicesse niente perché non ne potevo davvero più.
-Bene così, allora.- disse infine, e tirai un sospiro di sollievo.
Uscì salutando i figli e chiudendosi la porta alle spalle.
Pochi secondi dopo chiamò Emery per farsi portare le chiavi della macchina.
Lei si fiondò subito fuori ma si fermò appena vide Alex e quella che supposi essere sua madre avvicinarsi al cancello. Io andai a distendermi sul divano nella speranza di farmi passare il mal di testa martellante, e da lì, attraverso la porta lasciata aperta da Emery, sentii la signora Turner informarsi sull'ambulanza che avevano evidentemente sentito arrivare, e il signor Cook spiegare un modo sbrigativo cos'era successo.
Chiusi gli occhi poi e distolsi l'attenzione da quanto succedeva fuori, per niente interessata a sentir raccontare la mia disavventura.
Fui però costretta a riscuotermi dal mio pacifico torpore faticosamente guadagnato quando furono le voci di Emery ed Alex a risuonare da fuori, sempre più vicine.
-No tranquillo, non ci sono problemi se state un po' da noi!- disse lei con un tono di voce inappropriatamente allegro.
Sospirai sconsolata.
Sarebbe stato un lungo, lunghissimo pomeriggio.

~
Ecco qua.
Deluse? Contente? Indifferenti?
Please let me know in any case. It really means a lot to me.
Il lavoro di ricerca per questo capitolo è stato lungo e faticoso. È anche per questo che ci ho messo tanto a scriverlo.
Il titolo del capitolo è un verso di Terrible Love, dei The National.
Tutte i luoghi descritti sono fin troppo attinenti alla realtà, High Green e il Northen General Hospital esistono davvero, come ogni altro posto citato.
Quasi tutti i personaggi sono frutto della mia fantasia, un po' influenzata da altri fandom, ma comunque fantasia. Ogni riferimento a fatti e/o persone realmente esistenti è puramente casuale. (quasi perché ovviamente Jamie, Alex e la signora Turner esistono davvero, come tutti sapete)
Gli Arctic Monkeys appartiengono a se stessi, non conosco né loro, né le loro famiglie, e non ricavo alcun compenso monetario da questa storia.
Vi invito nuovamente a leggere il diario di Emery se non l'avete già fatto.
E vi prometto che stavolta non ci metterò cinque mesi ad aggiornare. Giuro.
Ringrazio tutte le persone che hanno recensito lo scorso capitolo e messo la storia fra le seguite: spero di riuscire a mantenere vivo il vostro interesse.
Ne approfitto per augurarvi, un po' in ritardo, un buon anno e un buon rientro a scuola/lavoro.

A presto, mi auguro,
Piuma_

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Capitolo 3
*** 3. You won't get much closer till you sacrifice it all. ***


TS - You won't get much closer... Scusatemi tantissimo per il mostruoso ritardo!
Questo capitolo è anche un po' più corto dei precedenti, e copre un arco di tempo oscenamente breve per quanto c'ho messo a scriverlo, ma capirete tutto in seguito.
Buona lettura ♥

~
Riuscii a rimanere non vista per tutti e venti i minuti che l'acqua impiegò a bollire.
Il fischio del bollitore mi trapanò la testa già provata, seguito a ruota dalla voce di Jamie.
-Cass, lo vuoi anche tu il tè?- mi chiese probabilmente senza pensarci su due volte.
Sentii una sorta di squittio e un'imprecazione a mezza voce levarsi all'unisono.
Alex fece finta di non aver emesso alcun suono, mentre Emery diede la colpa al bollitore caldo.
Con deliberata lentezza mi sollevai dal divano e voltai la testa verso la cucina per mostrare tutto il mio disappunto a Jamie.
Appena mi ebbe vista e capita, cambiai la mia espressione corrucciata con il più falsamente affabile dei miei sorrisi e -Sì,- dissi. -Volentieri!-.
Mi alzai un po' più svelta e li raggiunsi in cucina.
Andai a sedermi al fianco di Jamie, con un po' di delusione da parte di Alex.
-Ne faccio un'altra? Quando ha detto che arrivava Matt?- chiese Emery mentre versava l'acqua nelle tazze.
-Ha detto cinque minuti, ma dato che sono i suoi cinque minuti tanto vale che glielo rifai dopo.- le rispose Alex.
-Col cazzo che glielo rifaccio.- borbottò lei con uno sbuffo, buttando l'avanzo di acqua nel lavandino e portandoci le tazze.
Ci fu uno smorzato coro di “grazie” mentre ce le posava davanti, insieme a latte e zucchero, e si sedeva a capotavola fra me e Alex.
-Cass, tu come lo prendi di solito?- mi chiese Alex, versandosi un po' di latte.
-Non ne ho idea, l'ho bevuto pochissime volte, un sacco di tempo fa. Mi ricordo a mala pena di cosa sa.- risposi mischiandolo lentamente, facendo vorticare le foglie.
-Questo è tè nero, piuttosto forte e amaro.- disse, annusandolo. -Dipende dai tuoi gusti, se lo vuoi più dolce e anche più cremoso aggiungi un po' di latte, ma poco. Se lo vuoi solo un po' più dolce vai per lo zucchero, pochissimo però, perché ne altera il sapore. L'ideale sarebbe lo zucchero candito bianco, ma da queste parti purtroppo non si trova.- spiegò, facendo una piccola smorfia di disappunto sull'ultima frase.
Jamie soffocò una risata nel suo tè, mentre Emery distolse il suo sguardo ammirato un attimo prima che venisse intercettato.
Puntai sul latte, e forse ne versai un po' troppo a giudicare dalla sua espressione.
Ma quando lo assaggiai era davvero buono. Decisamente migliore rispetto alla brodaglia insipida e troppo amara che ricordavo aver assaggiato da piccola.
Feci i complimenti ad Emery, e prima che lei potesse rispondere qualsiasi cosa oltre a un timido sorriso, intervenne Alex.
-Sei fortunata ad averlo assaggiato qua. Emery ha, oserei dire, un talento naturale per le dosi delle foglie. Neanche mia madre lo fa così bene.- disse Alex sorridendole, e prendendo un gran sorso del suo.
Lei diventò di un colore inquietantemente simile a quello delle pareti, ma sorrise e ringraziò a bassa voce.
Proprio in quel momento, giusto per aggiungere imbarazzo all'imbarazzo, suonarono alla porta.
Andò ad aprire Emery, nella speranza di darsi il tempo di ritornare ad un colorito normale, senza pensare che potesse essere solo Matt che arrivava a quell'ora.
E, infatti, fu lui a vederla ancora rossa e a scoppiarle a ridere in faccia, facendole ovviamente salire immediatamente il nervoso.
-Se sei venuto a rompere le palle puoi andartene subito.- gli disse lei acida, tentando di chiudergli la porta in faccia.
Jamie alzò gli occhi al cielo, esasperato dal comportamento dell'amico, ma non intervenne.
Alex invece si concentrò sul suo tè, con un'aria quasi stranamente colpevole.
Matt riaprì la porta con uno spintone, quasi facendo cadere Emery, e se la chiuse alle spalle entrando in cucina.
Tirò una pacca sulle spalle ai due amici andando a sedersi con mala grazia al posto di Emery e bevendo dalla sua tazza.
Lei lo seguì a qualche passo di distanza, e nel suo sguardo c'era puro odio mentre lo guardava indugiare sulla tazza per berla fino all'ultimo sorso.
Andò a sedersi accanto ad un improvvisamente silenzioso Alex, e lanciò un'occhiata cattiva anche a lui, come se tutto quello fosse colpa sua.
-Superbo, come sempre. Complimenti, piccola.- disse Matt a Emery, facendo probabilmente il verso ad Alex, anche se non era stato presente alla scena di prima, il che mi fece supporre che fosse qualcosa di abbastanza abituale.
-Era ai frutti di bosco, idiota. Spero che stavolta ti faccia vomitare anche l'anima.- disse lei, prendendo la tazza vuota e andando a sciacquarla.
L'espressione spavalda del ragazzo fu incrinata per un attimo da rabbia, verso se stesso probabilmente, ma aveva tutta l'intenzione di riversarla su di lei.
Jamie lo fermò con prontezza.
-Ragazzi, ve l'ho detto che Cass verrà a Stocksbridge da lunedì?- disse, con finto entusiasmo.
Forse pensava che parlare di scuola fosse terreno neutro per tutti, ma si sbagliava di grosso.
-Ah sì? Che bello! Dobbiamo organizzarci con gli orari così potrai tornare a casa con noi invece di prendere il bus. I miei genitori insegnano lì, quindi ci portano e riportano sempre loro.- disse Alex, sinceramente entusiasta.
-Ma pensa che fortuna, Emery smetterà di inseguirci per non pranzare da sola!- disse invece Matt con un falsissimo sorriso.
-Vorrai dire che magari voi smetterete di farmi i cani da guardia e potrò finalmente pranzare da sola.- rispose a tono Emery.
Jamie sospirò di nuovo sconsolato.
-Quali sono le tue materie preferite?- mi chiese Alex interrompendo sul nascere un altro litigio, e meritandosi un'occhiata di gratitudine da Jamie.
-Nella mia vecchia scuola erano Letteratura italiana, Inglese e Scienze. Ora credo che dovrò abituarmi un po' alle nuove.- risposi con un mezzo sorriso, nascondendo l'ansia che provavo al pensiero della nuova scuola.
-Beh, qua ovviamente non facciamo Letteratura italiana, ma sono abbastanza sicuro che adorerai allo stesso modo Letteratura inglese. Emery parla sempre così bene della sua prof, no?- disse Jamie.
-La signorina Mitchell è fantastica, sì, ma ci tratta troppo come dei bambini. Non vedo l'ora di passare alla Darragh l'anno prossimo.- rispose lei.
-La Darragh? Scherzi? È un'arpia quella! Non fa altro che mettermi note perché non finisco i compiti. Ce ne da una quantità assurda, ci credo io!- disse Matt, sbuffando.
-Per te qualsiasi cosa che richiede un minimo sforzo è troppo, non fai testo.- disse Alex ridendo.
-Ma voi andate tutti in classe insieme?- chiesi ai ragazzi.
-Io non vengo a Stocksbridge, vado ad Ecclesfield. Ma comunque qui non ci sono vere e proprie classi, ci sono tanti corsi e ognuno frequenta quello che vuole, circa. In realtà poi fino all'ottavo anno sono tutte obbligatorie.- spiegò Jamie.
-Questo vuol dire che dall'anno prossimo voi potrete scegliere le materie, sì. Anche se purtroppo Inglese, Matematica, Scienze e Informatica sono obbligatorie.- disse Matt.
-Anche Educazione Fisica è obbligatoria.- disse Emery.
-Ma quella dispiace farla solo a te perché ti scelgono sempre per ultima nelle squadre.- ribatté il ragazzo.
-Ma cosa dici? Sono la migliore del mio corso in praticamente tutto. La odio perché la mia prof è un'insopportabile dittatrice. L'unica donna maschilista sulla faccia della terra.- rispose a tono lei.
-Magari perché la Scaramall non è proprio tutta donna.- rise Alex.
-Gira voce che sia sposata con se stessa.- disse Matt, scoppiando a ridere.
-E comunque, Helders, a te Educazione fisica piace solo perché puoi farti notare dalle oche nel tuo corso. Tanto la Wight non fa che riderti dietro, lo sai benissimo.- disse Emery, con un sorrisetto canzonatorio e vittorioso.
-E tu come lo sai? Non sei abbastanza popolare anche solo per avvicinarti a Lisa.- la attaccò Matt, che se l'era presa per quella battuta.
-L'ho sentita a mensa. Tutti l'hanno sentita. Dovresti vedere che splendida imitazione di te fa il suo ragazzo, Jim Lydon.- rispose lei, sempre con la stessa espressione.
-Jim Lydon? Ma è un coglione. Frequenta il mio corso di Inglese, è un totale idiota. Il professor Baker non fa che buttarlo fuori dalla classe.- disse Alex, sgranando gli occhi.
-Non che la Wight sia tanto più sveglia. So che è riuscita a prendere zero in un compito di grammatica, al settimo anno. Ed era un compito di recupero.- disse Emery.
Io stavo là in silenzio a sentirli discutere con tanto fervore di cose e persone che io non conoscevo, e mi chiedevo se sarei mai riuscita a relazionarmi completamente con quel mondo.
Anche Jamie aveva un'aria un po' persa, frequentando un'altra scuola, ma sapeva di sicuro più di me dato che quelli dovevano essere argomenti ricorrenti nelle loro conversazioni.
A un certo punto, mentre Emery continuava a parlare male della ragazza che piaceva a Matt, e lui le rispondeva a tono, Alex si accorse della mia aria confusa e accorse a fermarli.
-Ehi Cass, tranquilla eh. Non sono tutti così in quella scuola. Mi sa che dovremo farti da guide per i primi giorni, anche se credo capirai da sola come funziona.- disse, con un mezzo sorriso poco rassicurante.
-L'importante è scegliersi le persone giuste con cui stare, e stare lontani dalla plebaglia.- disse Emery con l'aria di una che la sapeva lunga.
-Magari non troppo, che poi ti ritrovi come questa qua.- disse Matt, accennando ad Emery con un movimento della testa.
-Io sto benissimo lontana da quelle oche. Meglio stare da sola che con quella gente orrenda.- disse lei, disgustata.
-Non devi stare da sola, Em. Devi stare con noi.- disse Jamie, sorridendole con finta dolcezza, e provocandole una smorfia disgustata.
Notai che nonostante quello che mi aveva detto quella mattina, nonostante i battibecchi con Matt e l'imbarazzo costante per Alex, si trovava bene con loro.
E anche io, forse, iniziavo a sentire un inizio di quel calore, quell'accettazione e quell'affetto di cui era piena la sua vita e di cui io ero stata privata per così tanto tempo.
Giusto per confermare i miei pensieri, Matt aveva appena sfidato Emery a Tekken e lei aveva accettato sorridendo.
Mi offrii di rimanere su a sistemare la cucina, avendo voglia di stare da sola e in pace, ma me lo impedirono.
Scendemmo quindi tutti in cantina.
Si lanciarono tutti sui divani sfondati, Emery, Matt e Jamie su quello di fronte alla tv, io ed Alex sull'altro.
Mi rannicchiai su un lato mentre i ragazzi si litigavano i controller ad alta voce.
Li osservai giocare.
Matt e Emery ridevano tanto e si insultavano spesso. Jamie imprecava più verso la tv che il suo eventuale avversario, mentre Alex, con un po' più di contegno, imprecava fra i denti e ringhiava in modo piuttosto inquietante.
Provai a seguire il gioco, cercando di capire come funzionasse e cosa volessero dire le fin troppe barre sullo schermo, inutilmente.
Non feci domande per non infastidirli o distrarli.
Emery mi chiese distrattamente se avessi voglia di fare una partita anche io, ma non insistette quando rifiutai.
Le ginocchia strette al petto, la schiena rivolta alla tv e la testa appoggiata alla spalliera del divano, riuscii in qualche modo a chiudere le orecchie a ogni rumore e ad appisolarmi.
Sognai di essere ancora a Firenze, di camminare distrattamente per il centro assurdamente vuoto.
Non c'erano turisti con le loro macchine fotografiche sempre sollevate, non c'erano scolaresche urlanti, non c'erano neanche abitanti che camminavano in fretta per raggiungere il posto di lavoro o la fermata dell'autobus più vicina.
Tutti i negozi erano chiusi, sprangati. Qua e là vedevo vetri rotti, muri anneriti e crepati, ogni tanto qualcosa che bruciava.
Anche le statue e i monumenti erano tutti anneriti dalle fiamme, alcuni anche distrutti.
Il duomo sembrava essere stato bombardato: il marmo in frantumi sull'acciottolato quasi completamente divelto.
Le case intorno nient'altro che cumuli di macerie fumanti.
Camminavo in quella distruzione, e mi sentivo triste, ma non sorpresa.
Come se sapessi che sarebbe successo e fosse stata solo una questione di tempo.
Mentre attraversavo Piazza della Signoria, coperta da uno spesso strato di sabbia spessa che altro non era se non la vecchia pavimentazione completamente sbriciolata, notai qualcosa che si muoveva fra le rovine della Loggia dei Lanzi.
La testa bronzea di Perseo rotolò giù dal cumulo di pietre, e mi venne quasi da ridere per l'ironia della sorte.
Ma proprio quando il capo scolpito colpì la sabbia e si fermò, dalle macerie si sollevò un uomo.
Era alto, massiccio, coperto di polvere e sangue. Stringeva in mano una spada di bronzo, anch'essa polverosa e insanguinata, la stessa che il povero Perseo aveva probabilmente perso nella caduta dal suo piedistallo.
Scalò rapidamente il piccolo monte di dura pietra grigia e mi si avvicinò, minaccioso.
Per qualche ragione, nonostante il sole splendente, non riuscivo a vedergli il volto.
Quando fu a pochi passi da me, sollevò la mano armata e stava per calarla sulla mia testa. Ero paralizzata dalla paura, e mi avrebbe sicuramente uccisa, se non fosse stato troppo lento.
Un colpo di pistola risuonò assordante nella piazza deserta.
L'uomo si accasciò a terra, sangue e fumo che uscivano da un buco poco sopra l'orecchio sinistro.
Non mi voltai a vedere chi fosse stato a sparare.
Mezzo affondato nella sabbia grigia, bloccato per sempre dalla morte in un'espressione di rabbia folle, c'era mio padre.
Mi svegliai di soprassalto e mi ci volle un po' per rendermi conto di dove fossi.
Era buio pesto nella cantina ora deserta. Dalle due piccole finestre appena sotto il soffitto non veniva neanche un filo di luce, quindi supposi che fossero passate diverse ore.
Il collo mi doleva per essere stato a lungo piegato contro il divano, e quando distesi le gambe le mie ginocchia schioccarono rumorosamente.
Feci schioccare anche la schiena, intirizzita anche lei per la posizione scomoda assunta per troppo tempo.
Presi fiato, poi, ancora un po' scossa dal sogno, e mi alzai.
I miei occhi si erano un po' abituati all'oscurità e riuscii a trovare le scale senza troppi problemi.
Dalla botola socchiusa proveniva un tenue chiarore. Magari non era troppo tardi per la cena, sperai.
Dalla sera prima non avevo assunto altro che una tazza di tè e stavo morendo di fame.
Salii a tentoni, riuscii ad sollevare la porta di legno senza troppe difficoltà e ad entrare nella dispensa in penombra.
La visione dalla porta a vetri mi confermò che fosse ormai sera.
Preparandomi già miriadi di scuse, avanzai nella sala da pranzo, solo per trovarla deserta. Le luci erano accese, c'era qualcosa a cuocere nel forno e la tavola sembrava essere stata appena apparecchiata.
Dal salotto sentivo quello che sembrava un telegiornale provenire dalla tv. Andai a vedere.
C'erano i signori Cook abbracciati sul divano che stavano guardando la BBC News e commentavano di tanto in tanto le varie notizie.
Ferma sotto l'arco che separava le due stanze, non sapendo proprio cosa dire, mi schiarii la voce, sperando che mi sentissero.
La signora Cook si girò di scatto, mi fissò per quella che a me sembrò una vita e poi si alzò, precipitandosi ad abbracciarmi e parlando troppo veloce perché potessi capire cosa stesse dicendo.
Mi sembrò di intendere qualche scusa, forse un rimprovero smorzato, e un'infinita serie di domande preoccupate.
Quando si staccò, il signor Cook l'aveva raggiunta e la stava gentilmente invitando a lasciarmi respirare.
-Ma ti senti bene, tesoro?- mi chiese avendo recuperato un po' di contegno.
-Adesso sì. Non si preoccupi, signora Cook.- risposi sorridendo in quello che speravo fosse un tono rassicurante.
-Avrai fame. Ti abbiamo aspettata per cenare. Tony va' a chiamare i ragazzi.- disse, spingendomi poi nella sala da pranzo e verso il tavolo.
Mi fissò finché non mi sedetti allo stesso posto della sera prima, poi sorrise e si dedicò all'arrosto.
Tempo neanche un minuto e il resto della famiglia venne a sedersi.
Notai allora che l'orologio da parete accanto sopra il forno segnava le otto e un quarto, e mi sentii in colpa per averli fatti aspettare tanto.
Per tutta la cena, la signora Cook non fece altro che chiedermi informazioni sull'accaduto, nonostante i figli e il marito le avessero già riferito tutto.
Risposi educatamente ad ogni domanda, ma a un certo punto dovette notare la velata freddezza nel mio tono, perché sospirò e tacque di botto.
Il signor Cook, trattenendo un sorrisetto divertito per il comportamento della moglie, mi chiese piuttosto cosa mi fosse sembrato di High Green durante il mio tour mattutino.
-Silenziosa.- risposi, provocando una risatina a tutti.
-Ma la trovo adorabile. Non so se sperare di abituarmici presto e poterla vedere come casa, o di non farlo mai e continuare a sorprendermene.- aggiunsi sorridendo, ed ero sincera.
Continuammo a parlare amabilmente per il resto del pasto, e a tratti anche Jamie ed Emery si inserirono con commenti e altri aneddoti sulla città.
Dopo cena, esattamente come la sera precedente, sparecchiammo tutti insieme, ma stavolta non ci dirigemmo in salotto.
Jamie annunciò che usciva con “gli altri” e sparì sotto lo sguardo vagamente contrariato della madre.
Io ed Emery ci ritirammo in camera.
-Allora, come ti sono sembrati gli altri oggi?- mi chiese una volta che fummo entrambe pronte per la notte e distese sui rispettivi letti.
-Uhm, simpatici.- risposi, ma sentii da sola quanto poco convinta suonassi.
-Già. È questa l'impressione che fanno. Ma qualche volta possono essere anche davvero simpatici.- disse lei sorridendo.
-Anche Matt?- sorrisi con una certa malizia.
Emery sospirò, ma sorrideva anche lei.
-Sì, anche lui, a volte. Ma raramente eh!- e rise.
Rimasi un po' in silenzio, osservando il grosso poster degli Oasis attaccato proprio a lato del mio letto.
-Immagino di non essere la prima a dirlo, ma lo sai, sì, che siete carini insieme?- le dissi poi, voltandomi per vedere la sua reazione.
Lei sembrava inorridita.
-Ma no! Matt è un idiota totale! E poi neanche mi guarda come una vera ragazza. A volte mi sembra di essere il fratello di Jamie, piuttosto che la sorella.- disse.
-Ma non sono la prima a dirlo.- sorrisi.
Lei sospirò ancora.
-No, non lo sei.-
Tacqui di nuovo, portando l'attenzione a una vecchia foto attaccata sopra al comodino, semi nascosta dalla sveglia.
Ritraeva Alex, Emery, Jamie e Matt da piccoli, tutti con in testa un cappello da Babbo Natale, in un salotto che non era quello di casa Cook.
Alle loro spalle c'era un alto albero di Natale addobbato, e in un angolo quella che mi sembrava la madre di Alex sorrideva in direzione dei bambini.
Vedendola, mi tornò in mente un'altra domanda da fare.
-E Alex, invece? Credi che lui ti consideri più di quanto faccia Matt?-.
Ancora una volta, Emery sospirò, adesso però sconsolata.
-No. Anche lui non mi vede come altro che la sorellina di Jamie. Ma almeno, non so, lo fa con gentilezza.-.
-Ah sì, gentile lo è sicuramente. Anche troppo.- commentai io.
Lei sembrò capire cosa intendessi, perché ridacchiò.
-Aspetta che prenda confidenza. Sentirai quanto poco suona gentile, dopo.- ribatté.
-Sembrave a disagio, oggi, con me nei paraggi. O meglio, sembrava che si sforzasse di sembrare a suo agio, e dava l'effetto contrario.- dissi.
-Fa sempre così quando vuole provarci con qualcuna.- rispose Emery con una certa amarezza.
Chissà quante altre scene come quella di quel pomeriggio aveva dovuto sopportare.
-Scusami.- mormorai stupidamente, rattristata.
-E di cosa. È lui l'idiota.- replicò.
-Comunque tranquilla, a me non interessa. E vedrai che è solo questione di tempo prima che si accorga, che tutti si accorgano, che tu sei una ragazza. Fidati.- e sorrisi.
Nel suo timido sorriso di rimando, intravidi una quantità enorme di speranza contaminata da un profondo sconforto radicato nel tempo.
Sembrava chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto, dubitando nel profondo che sarebbe mai successo.
Dopo qualche minuto di silenzio un po' imbarazzato, annunciò di essere stanca e spense le luci, girandosi dall'altra parte.
Io, avendo dormito il pomeriggio, ci misi un bel po' ad addormentarmi.
Rimasi a lungo a guardare il soffitto, ascoltando il respiro della mia nuova amica.
Ripensai a quanto avevo detto al signor Cook a cena, e mi dissi che avrei tanto, davvero tanto voluto abituarmi a quel posto. Trovare una nuova casa, una nuova famiglia.
Mi sentivo bene lì, sebbene ancora piuttosto a disagio in certi momenti. E se non fosse mai cambiato niente? Se non avessi mai trovato il coraggio e la forza di scrollarmi di dosso il mio passato e approfittare a pieno quella nuova possibilità di vita?
Con lo sguardo che scorreva dal soffitto che al buio pareva viola scuro alle pareti tappezzate, fra le miriadi di facce più o meno visibili, rimuginai a lungo su queste domande.
Prima che riuscissi a darmi una qualsiasi risposta, però, scivolai in un sonno senza sogni.
~

Di nuovo, mi scuso dal profondo del cuore di questi sei mesi di blocco. Davvero, non sapete quanto mi dispiaccia.
Ho dovuto affrontare un periodo di crisi con gli Arctic, dovuto al fatto che su tre date in italia non andrò probabilmente a vederli neanche mezza volta.
Poi c'è stata la scuola, e un lungo, lunghissimo momento di indecisione sul cosa fare di questo capitolo che si è trascinato fino a qualche giorno fa.
Comunque, il giorno di oggi non è un giorno a caso per postare.
Approfitto di questo capitolo per fare tanti tanti auguri di buon compleanno alla mia collega, my partner in crime, Bi_Lu.
Tutto quello che posso fare è scriverti, anche quest'anno. Un giorno recupereremo tutti i festeggiamenti persi. Ti voglio tanto bene ♥
Oggi, magari vi interessa di più, è anche il compleanno della nostra cara Emery. (sì, lo so, è banale, ma non l'ho scelto io)
Perché non mi mandate un po' di auguri anche per lei? Sono sicura che li apprezzerà, anche se la faranno probabilmente arrossire.
Se non avete niente da fare, dato che è estate e ci sono le vacanze, perché non mi fate sapere se questo capitolo vi è piaciuto? O anche se vi ha fatto schifo, se ancora non mi detestate del tutto, o se vorreste darmi fuoco e guardarmi bruciare. Vi preeeego ç__ç
Il titolo del capitolo è tratto dal testo di Panic Station, dei Muse. (e ha senso, fidatevi. Capirete più avanti.)
I disclaimer li sapete. Se conoscessi gli Arctic Monkeys non saremmo qui a parlarne. Se qualcuno mi pagasse neanche.
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo e chi ha messo la storia fra le seguite. Scusatemi ancora per il ritardo, spero di non avervi delusa con questo capitolo.
Vi giuro che per il prossimo non aspetto altri sei mesi. GIURO!

A presto,
Piuma_

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