Fuoco mangia Fuoco

di Kimmy_90
(/viewuser.php?uid=37)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Io e il Mio Mascara ***
Capitolo 2: *** Scordatelo, Stupido Testimone di Geova ***
Capitolo 3: *** Col cazzo che te la ripago, la porta! ***
Capitolo 4: *** Ecco perchè evitavo di pormi certe domande ***
Capitolo 5: *** Chotto chotto, matte: nana... san... ... roku! ***



Capitolo 1
*** Io e il Mio Mascara ***




[Edited, with thanks]
Lo sapevo, con House sono particolarmente arrugginita. Grazie a Niky87 per le dritte, in effetti andavo facendo un bel po' di confusione. Spero di aver aggiustato tutto! Se ci sono problemi, riprendetemi pure :3

*Preambolo dell'autrice
Seh, seh. E' una storia contorta, ma che vedrò di far corta. E' da molto che non inserisco personaggi nuovi in un ambiente già fissato, quindi non ho dea di cosa possa uscirne fuori: ho la cattiva abitudine di darmi alle MarySue.
Mi accingo per la prima volta a solcare il mare del FanDom di DottorHouse...
Che il vento mi sia favorevole!

*Ambientazione Temporale.
Ora, correggetemi se sbaglio, ma il periodo dovrebbe essere questo:
Foreman è prossimo a cambiare lavoro, il polotto scassamaroni è sistemato, House ha fatto tutti quei casini per placcare Foreman ma niente da fare. Per il seguito.. cancelliamo.


*Noticine di lettura
Volevo scrivere alcuni pezzi in giapponese, ma poi mi sono resa conto che erano troppi, che il mio giapponese è paragonabile a quello di un bradipo, che non posso appellarmi continuamente al dizionario, che non tutti voi possedete un dizionario e , soprattutto, che tanto non ci avreste capito una mazza comunque. Quindi, salutate il valore assoluto: ovvero, “|Addio|” sta per “Sayonara”.
I titoli sono prime persone dei personaggi, a voi capire chi sta parlando (titoletto e titolo hanno lo stesso pg :P)
Daisuke si pronuncia Dài'ske, giusto per fare pignoleria.


E bon, dopo avervi rotto le palle con le mie seghe mentali, procediamo.





___________________________________________________________________________

Fuoco Mangia Fuoco

Uno, Giusto per Chiarire:
Io e il Mio Mascara



Era appoggiato al lavandino dell'aereoporto, totalmente inclinato verso avanti, la bocca aperta, la pelle del volto tesa. L'angolo di marmo gli premeva sul ventre, ma sopportava, preoccupato di ben altro: faceva scorrere il pennellino nero sulle ciglia con maestria. Piccoli colpetti secchi e precisi, tipici di chi ha il polso saldo ed è molto avezzo al gesto.
Ogni tanto, qualche viaggiatore lo scrutava indispettito, per poi allontanarsi fugacemente dal giovane.
“Yoss.. Soh!”
Si staccò dalla postazione, ammirando un istante, compiaciuto, il proprio operato, e dunque chiuse l'aggeggio per gettarlo nella sacca appoggiata per terra.
“Socchan!”
A lui si avvicinò un frugoletto che serrava fra le mani uno zainetto a forma di tigrotto. Si mise a fissare l'altro dal basso, immobile se non per il respiro.
“|Avanti, Soh. Ho finito, possiamo andare. Su'|”
Poggiò una mano sulla testolina di quello e lo spinse leggermente per direzionarlo verso l'uscita del bagno.


Fuori dall'aereoporto c'era una brezza primaverile da far venire voglia di buttarsi in fiume. Peccato che di fiumi non ce ne fossero, e che lui avesse altro da fare: non poteva di certo far rientrare una gitarella in campagna fra le sue priorità, che ora erano ben più alte.
Certo che la voglia restava.
Si appoggiò al muro, lanciando continue occhiate verso Soh, mai che gli girasse di fare qualcosa di strano. Levò leggermente il capo, intento ad annusare l'odore di primavera, che veniva drasticamente cancellato dallo smog.
Non aveva nulla da fare, pensò. Dovevano aspettare fin troppo tempo, il pullman se ne sarebbe arrivato con tutta la calma del mondo. Che Noia.
Chi passava di lì notava due esseri piuttosto anomali, anche se non del tutto incontemplati dal mondo. Uno era un bimbetto di forse cinque anni, i capelli neri, come gli occhi, il naso minuscolo e le guanciotte abbondanti, la carnagione color biscotto: aveva dei vestiti larghi, comodi, perfettamente proporzionati e colmi dei più teneri scarabocchi.
L'altro, intento a prender sole appoggiato ad un muro, sembrava in qualche modo tener conto del più piccolo, sebbene non apparisse particolarmente sicuro, come balia: condivideva con l'altro il colore della pelle e quello dei capelli, nonostante questi si presentassero con ciocche bionde e fortemente ricoperti di gel per costringerli in una posizione assurda: pesanti sul davanti, sparati sulla nuca. Indosso una camicia bianca e nera, a righe verticali, rilucente, con una cravatta rossa intenta a svolazzare allegra; i pantaloni erano corti e strappatissimi, sotto, una calzamaglia nera, a chiudere con i calzetti nuovamente a righe, questa volta orizzontali, che strabordavano da stivali scuri. Le dita con svariati anelli, i polsi e le caviglie ornate di bracciali; al collo pendagli d'ogni genere, argentati e sinuosi, a rappresentare spade e tribali; sulla vita catene che penzolavano non senza fare un certo rumore. I lineamenti erano netti e lisci, dolci, tanto da lasciare un vago dubbio riguardo la sua età e, forse, anche sul suo genere, per quanto gli zigomi possenti e la mascella angolare lasciassero intendere una forte mascolinità. Per i suoi connazionali si sarebbe potuto erigere a monumento del perfetto ragazzo orientale, amato e bramato da qualsiasi femmina: se non fosse stato per quegli, stonatissimi, occhi.


“No”
Stava diventando Routine, e ne' lui, ne' lei, potevano farci niente.
Non solo la richiesta non sarebbe mai e poi mai mutata, ma nemmeno la risposta aveva alcuna speranza.
Rimaneva solamente il contratto: e, ormai, erano giunti al punto di rottura.
“Quattro?”
“Sei!”
“Quattro.”
“Sei.”
“Sei una lagna”
“SEI ORE!”
“Cinque, prendere o lasciare.”
“SEI, o ti licenzio.”
House spostò lo sguardo sul pavimento. Poi lo rialzò.
“Lo fai apposta. Guarda che lo so”
“Sono meno di quelle che spettano agli altri, e già questo non è perfettamente coerente, quindi, SEI, e vattene via prima che ti incateni in ambulatorio.”
“Adesso fa l'agressiva, ma poi le passa.”
Il cane fissò House quasi avesse capito, per poi andare a nascondersi dietro la scrivania della Cuddy.
“E portati via questo stipudo cane!”
“Non è mio, è di Wilson”
“Ma il cane di Wilson ce l'avevi tu”
“Nego l'evidenza. Che se lo riprenda il suo legittimo proprietario”
“PORTALO VIA!”
Il cane rimaneva accucciato, lanciando, ogni tanto, qualche mugolìo.
“Guarda, lo fai piangere.”
“House!”
“Wilson!”
“Non mi interessa!”
“Non posso farci niente, non è colpa mia.” Era un tono di pura ovvietà.
Cuddy, infastidita, guardò il cane. Il Cane guardò la Cuddy, poi tornò a mugolare, depresso.
”Per favore! Non so neanche come ci è entrato, qui”
“E perchè la cosa dovrebbe riguardarmi?”
“Sono il tuo Capo.”
“Ma io curo gii uomini, mica gli animali, hu.” Levò le sopracciglia, gli occhi cerulei larghi, sulle fronte la tipica schiera di rughette: il tono quasi infantile.
“Cosa c'entra!?”
“Cosa c'entro io, semmai”
“Ce l'avevi tu, il cane di Wilson!”
“Cosa c'entra!?”
Cuddy era lì lì per disperare, terrorizzata dal cane, che ormai piangeva, a sua volta terrorizzato dalle urla dei due.
“Ti tolgo un'ora di ambulatorio, VA BENE? SEI CONTENTO?”
House si poggiò sul bastone, esibendosi in un sorriso ebete, soddisfatto e schernidore.
“No.”
Volse le spalle alla Primaria, zoppicando, soddisfatto, fuori dal suo ufficio. Cuddy rimase immobile al voltafaccia dell'altro, che aveva preferito un'ora di pallosissimo ambulatorio al portare via il cane di Wilson dal suo ufficio.
Il cane starnutì.


“Nii-chan.”
Sul tavolo che divideva i due, una piantina spalancata ed una manciata di fogli sparpagliati.
“Onii-chan...”
Sul pavimento, due grossi borsoni pronti all'esplosione da sovraccarico.
“Daisuke-niichaaan!”
Daisuke si decise a levare lo sguardo dalla carta, guardando il fratellino, che lo fissava imbronciato e contrito.
“|Scusami, Socchan. Che c'è, hai fame?|”
D'altro canto, erano in un McDonalds. Il bimbetto annuì, esasperato.
“|Già. Giusto. Cosa vuoi?|” domandò il ragazzo, resosi conto di essere lì da quasi un quarto d'ora e non aver comprato ancora niente: le ragazze del bancone stavano iniziando a guardarlo male. Soh non rispose.
“|Va bene, ho capito come va a finire. Aspettami qui, va', e vedi di non muoverti, che ci manca solo che ti rincorra per tutta New York.|”
Soh annuì impercettibilmente, ma per Daisuke era sufficiente: si avvicinò al bancone, subendo una serie di occhiate per il suo aspetto stravagante, senza mancare di catturare l'attenzione delle più giovani, per dunque ritrovarsene una buona manciata intente a contemplarlo, dimentiche del proprio lavoro.
“Due Big Mac ed un the alla pesca. Grande.”
Pronuncia impeccabile, parlata leggermente scolastica. Quelle che si erano improvvisate sue fan furono lì per svenire sentendo la voce dall'intonazione a metà fra il grave ed il leggerissimo, molto distante dalla voce media Americana. Nemmeno perfettamente Giapponese.
“E un Happy Meal, per favore.”
Se ne tornò dopo aver lasciato alla commessa una montagna di monetine da smistare, per nulla intenzionato a sprecare le preziose banconote. Porse il cibo al bambino che iniziò a mangiare, muto, ma dall'aria felice.
“|La prossima volta si va in supermercato, che non ti faccia strane idee, Socchan.|”
Quello addentò le patatine oleose.
“|Se no finisce che ti ammazzi. Non siamo abituati 'ste cose, noi. E temo che non vedremo Nikomi Udon per un bel po'.|”
Soh si bloccò, fissando il fratello, implorante.
“|Poi qui costa una marea.|”
Ma Soh pensava ai Nikomi Udon, penando per la loro annunciata assenza nella sua dieta, e continuava a guardare il fratello in attesa che quello si smentisse.
“|Socchan, dài, non fare quella faccia. Vedrai che ti abituerai, non è mica un dramma.|”
Ma per Soh era un dramma.
Daisuke temette di averlo traumatizzato, come se quello che era accaduto fino ad allora non bastasse. Si pentì delle sue parole.
“|Da qui al New Jersey non è corta, vedrai che qualche ristorante giapponese lo troviamo, prima o poi.|”
Sapeva di starsi arrampicando sugli specchi, ma a Soh bastò: si attaccò alla cannuccia del the, cancellando il problema.
Daisuke si chinò nuovamente sulla carte, controllando gli orari delle varie linee per riuscire ad arrivare il prima possibile. Si poggiò la mano sul fianco, esausto, stanco di tutto quel progettare e trafficare con venticinquemila cartine diverse dell'America. Sul mappamondo gli era sempre sembrata meno temibile di quanto non lo fosse adesso.
Sui pantaloni, però, venne colpito dall'assenza di qualcosa. Iniziò a guardarsi attorno: non era per terra, ne' sul divanetto.
Oddìo.
Soh si era messo a giocare con la sorpresina dell'Happy meal, quando Daisuke andò a guardare terrorizzato il piccolo.
“|Hm... Socchan...|”
“|Zaino|”
Rispose lui, con la vocina acuta. Daisuke si scagliò sullo zaino ed iniziò a ravanarci dentro. Quando ricomparve da sotto il tavolo, esibì il mascara con una certa fierezza: ma Soh era molto più interessato dalla macchinina. Si mise l'oggeto ritrovato in tasca, facendo pat-pat con il palmo della mano sui jeans, come gesto scaramantico perchè rimanesse lì dove era, al sicuro.
Ma tanto era una battaglia persa: lo avrebbe imbucato di nuovo, ne era certo.






Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Scordatelo, Stupido Testimone di Geova ***


[After Edit]
Ringrazio nuovamente Nike87 che ormai temo vada per farmi da betatester XD Temo, perchè, insomma, povera Nike XD
Attenzione che dal prossimo cado sicuramente in MarySue + trama banale.

_________________________________________________________________________________________

Due, Se proprio non ci arrivi:
Scordatelo, Stupido Testimone di Geova



“Come ci è arrivato Hector nell'ufficio della Cuddy?”
“Sono i misteri irrisolti della scienza”
Wilson scosse la testa, capendo che a quella domanda House non avrebbe mai risposto.
“Non ci credo che hai preferito lasciare lì Hector piuttosto che risparmiarti un'ora di ambulatorio”
House sorrise vagamente: una smorfietta divertita, accompagnata da una piccola espirazione rumorosa.“Non puoi odiare così tanto la Cuddy” continuò l'oncologo
“Non lo so, potrebbe essere. Ma forse no.”
Continuarono a camminare: ormai lo studio di diagnostica era prossimo.
“E allora perchè l'hai fatto?”
“Perchè tu sei una persona superficiale.”
“..Eh?”
House si appoggiò alla porta trasparente, il bastone puntato sulla moquette.
“La domanda è: odio di più Hector o odio di più la Cuddy?”
Wilson si fece perplesso, domandandosi in quale strana sega mentale si stesse avviluppando la mente di House.
“Nel dubbio, lascerò che quei due si odino a vicenda... per vedere quale sopravvive per essere degno del Mio Odio.”
L'oncologo taceva.
“E' una selezione, non posso mica sprecare il fastidio così, a gratis.”
House pareva fin troppo convinto.
“Tu sei andato, House.”
E lo zoppo entrò nella stanza, i tre paperotti svaccati sulle sedie ad aspettarlo.


Avere un cugino assistente sociale si era rivelato una cosa molto comoda, fatta eccezione per il fatto che, troppo occupato nel lavoro che conduceva da soli tre mesi, non aveva potuto accompagnarli fino a luogo d'arrivo, per quanto sarebbe stata una cosa dovuta, specialmente in una situazione del genere.
Poco male, aveva pensato Daisuke, colmo della sua innocenza di adolescente: figurarsi se non riesco a cavarmela da solo.
Eppure ora la schiena iniziava a fargli male, fra viaggio in aereo di non poca durata ed ora nel pullman, stretto, scomodo, fastidioso. Si era poi accorto di non essere proprio una cima nel leggere le cartine, anche se la cosa era fortunatamente andata a suo pro: sarebbero bastate un paio d'ore, e, magia, sarebbero arrivati.
Robe da non crederci.
“|Nii-chaan, ho fame|”
“|Non puoi avere già fame.|”
“|Ma ho fame|”
“|Socchan... manca veramente poco, adesso arriviamo.|”
“|Ma ho famee~|”
Il ragazzo sbuffò, infastidito dal cantilenare tedioso del piccolino. Si guardò, semi riflesso nell'amplio finestrino, preoccupato per il suo aspetto. Il gel andava perdendo forza, le piccole crestine che aveva sulla nuca che si ammosciavano.


“Novità?” Esordì lui.
I paperotti si guadarono, riuscendo ad apparire quasi svogliati. Così House non ebbe risposta, il che equivaleva ad un no.
“Dovremmo essere in ambulatorio” Sottolineò Foreman, senza mancare d'inserire un po' di acidità nel suo dire. “Perchè ci hai chiamati, se continua a non esserci nulla da fare?”
“Per sapere se avevate trovato qualcosa di interessante. Chessò, un uomo con la pelle blu, ad esempio. Adoro gli uomini blu, fanno molto jazz.”
Rimasero in silenzio, atterriti dalla battuta priva di un vero senso del diagnosta. In pratica, significava che si stava annoiando.E che non voleva saperne di andare in ambulatorio, ovviamente.
“Se capiterà ti chiamerò, allora” Chase si levò frettolosamente “non so come la vedi tu, ma io, se non lavoro, non prendo il mio stipendio”
“Siete un branco di materialisti”
Gli altri due si alzarono a loro volta, pronti ad andarsene. House li lasciò fare, arricciando le labbra, facendo ondeggiare il bastone sul pavimento.
“Hu-hu-hu, Cameron...”
Cameron si fermò, guardando in alto, a domandarsi cosa diamine volesse quello: Foreman e Chase si dettero ad una fuga silenziosa, intenzionati a non avere nulla a che fare con il diagnosta finchè non fosse capitato qualche caso che necessitasse di tutta l'equipe.
“Cosa vuoi?”
“Vai ad aiutare la Cuddy, va'.”
“Devo stare in ambulatorio, se non hai ancora afferrato il concetto.”
“Non starai mica tutta la giornata lì, no?”
“Ho anche una vita privata, sai?”
“Ne dubito”
“Ha. Ha. Ha.”
Curioso come Cameron gli avesse risposto. Si domandò se avesse effettivamente davanti a se' la ragazzina che lavorava con lui, o un qualche suo surrogato.
“Non intendo usare il mio tempo libero per aiutarti nell'architettare qualche strano piano per il tuo puro divertimento personale”
“Non stiamo parlando di me, ma della Cuddy. Onestamente la cosa non mi riguarda nemmeno.”
E allora?, avrebbe voluto replicare Cameron. Ma preferì rinunciare, voltandogli le spalle e tornando al suo lavoro a grandi passi, a marcare la sua decisione di non volerci avere nulla a che fare.
House rimase lì, seduto, domandandosi se l'esca fosse stata abbastanza interessante da far smuovere il medico e farle fare ciò che voleva che facesse, cioè andare a formare il definitivo gruppetto delle Tre Grazie.
Beh, anche se Hector si sarebbe dovuto definire Grazio, ma quella era una cosa irrilevante.


Si imbucò nel bagno di un piccolo bar, approfittandone per comprare un po' di cioccolata a Soh, e diede finalmente mano allo zaino. Tornò con la dritta sulla tasca dei Jeans per controllare che il mascara fosse al suo posto, e, una volta rassicuratosi, iniziò ad estrarre i gel vari che stipava nella borsa come reliquie.
Fu una cosa alquanto lunga, ma il sedicenne ci teneva ad apparire sempre come voleva essere. Un po' complessato, come lo avevano definito i maestri alle elementari: ma non riusciva a nascondere la goduria che provava nel vedere le ciocche dei capelli modellarsi sotto le sue mani.
Soh lo guardava con il medio serrato fra i denti, ammirando l'abilità con cui il fratello si sistemava, sebbene non ne capisse esattamente la motivazione.
Passò al viso, dandogli una pulita generale e rispalmando tutto l'ombretto, una striscia nera, una rossa, sfumando.
Già che c'era, si diede anche una passata di deodorante, dato che era riuscito a cambiarsi solamente una volta da quando era partito.
“|Cos'è?|”
Domandò Soh, vedendo l'aggeggio che nebulizzava il liquido profumato.
Daisuke gli rispose spruzzandogliene un po' addosso.
“|Ecco. Mai che mi fai brutta figura|”
Cioè non gli aveva risposto. Prese finalmente mano al mascara, concludendo, fiero, l'opera d'arte. Si osservò, contemplandosi a lungo, finchè decise che andava bene.
Ora si sentiva più in pace con se' stesso. Completamente noncurante di quello che avrebbero potuto pensare gli altri: al contrario di quello che pensava per Soh, per se' stesso il concetto di 'mai che faccio brutta figura' non esisteva. Lui era lui, fine. Ed era sereno solamente se conciato a quel modo.
Nulla al mondo lo avrebbe fatto tornare sulle sue scelte.



Non sapeva di preciso perchè si fosse impiantato a suonare quel valzer. Era fin troppo allegro, per i suoi gusti: uno scoppiettante, felice e contento valzer francese.
Non si ricordava nemmeno dove avesse trovato lo spartito: avrebbe giurato che quella cosa non sarebbe mai e poi mai potuta essere sua. Anche se lo avesse trovato nella confezione di una qualche pianola utilizzata in passato, lo avrebbe di certo bruciato.
Il problema era che non gli riusciva. Si trattava solo di qualche accordo cosparso da qualche nota per la melodia fondamentale, eppure non gli riusciva. A prima vista era stato certo che sarebbe stato veramente stupido, e invece, s'incartava dopo nemmeno tre righe di pentagramma.
Ora stava diventando una questione di principio: non poteva non saper suonare quello stupido valzer francese. Errore di valutazione o meno che fosse, ora, lui, Gregory House, avrebbe suonato quel valzer, a costo di rimanere sveglio tuta la notte.
Si mise a contemplare lo spartito, domandandosi cosa ci potesse essere di così complicato da bloccarlo. Il salto era grande, va bene: ma non era nulla che non avesse già affrontato.
E allora?
Le sue contemplazioni furono interrotte dal trillo del campanello. Mise giù i fogli, a metà fra il soddisfatto e l'infastidito, sicuro di quello che lo aspettava: Cameron aveva ceduto. E Hector era tornato, perchè era certo che la dottoressa si sarebbe lanciata a compiere la sua buona azione giornaliera. Già se la vedeva, con la sua tipica smorfia da 'lavoro per un idiota', lo sguardo torvo, e quel cane pluricentenario in braccio.
Aprì la porta, pronto a montare la sua faccia soddisfatta.
Ma non ne ebbe l'occasione.


“Cameron, ferma!”
Cameron si lanciò a correre, senza badare alla Cuddy che la invitava ad evitare il gesto. La Primaria si voltò per non guardare, una mano a coprirla; quando sentì un piccolo urletto da parte della ragazza, ritornò su di lei: era in ginocchio, i capelli arruffati, di sicuro scivolata sul pavimento, caduta e slittata in avanti... ma cingeva Hector per il collo, e nonostante questo si dimenasse, la presa dell'immunologa era ormai ben salda.


Davanti a lui si ritrovò un ragazzo che teneva un bambino per mano.
Tutti e due asiatici, il più piccolo normale, l'adolescente un po' meno: era conciato in una maniera decisamente assurda. Sembrava uscito da un cartone animato, o, peggio, da una di quelle demenziali Visual Band che andavano tanto in voga in Giappone. I vari strati di gel mantenevano i capelli in una posizione antigravitazionale.
House tacque, perplesso.
L'altro lo guardava senza un'espressione precisa. Sull'uomo si incollarono le due iridi color ghiaccio, del tutto stonate rispetto al resto del corpo, che pretendeva due occhi neri, come qualsiasi orientale che si rispetti.
Il medico inclinò leggermente il capo, e poi chiuse la porta.

Daisuke rimase alquanto sorpreso dalla reazione di quello, domandandosi se avesse sbagliato indirizzo. Ma scartò rapidamente quest'ipotesi, dato che quella, ora, era la sua unica certezza. Rimaneva il problema del perchè di quello strano comportamento: senza trovare una debita risposta logica, suonò di nuovo il campanello.

House era a metà strada fra il pianoforte e la porta quando sentì nuovamente il trillo. Si fermò, senza prendere nemmeno in considerazione l'idea di fare dietrofront.
“Non sperare nella mia carità, ragazzino” fece a voce alta, il capo verso l'alto ”Coi soldi che hai sui capelli potresti andare avanti per mesi senza mai soffrire la fame!”
Il campanello suonò di nuovo.
Decise di tornare indietro per chiarire le sue posizioni una volta per tutte: riaprì la porta, trovandosi nuovamente davanti il ragazzo.
“Capisci l'inglese o devo sillabare?”
Daisuke corrugò la fronte.
“Certo che capisco l'inglese”
“Ah. Bene.”
Chiuse nuovamente la porta.
E quello suonò di nuovo.
Questa volta il medico fece capolino dalla fenditura, scrutando attentamente il ragazzo.
“Niente testimoni di Geova, grazie”
Chiuse.
Suonò.
Riaprì, senza lasciare opportunità all'asiatico di dire qualsiasi cosa.
“Mi fate schifo, se proprio ci tieni.”
Richiuse.
Suonò, riaprì.
“Non sono un testimone di Geova” replicò il più rapidamente possibile Daisuke, indignato.
“Ah, allora... vale lo stesso per Scientology, Mormoni o qualsiasi altra setta di drogati tu possa rappresentare”
Disse il fattone di vicodin.
“Ora, starei suonando il pianoforte, quindi, una casa più in là c'è una bellissima coppietta da tormentare, te la consiglio vivamente: è la migliore, del quartiere.”
Chiuse la porta.
Daisuke arretrò, sconvolto dal comportamento dell'uomo. Completamente disarmato, guardò Soh, che aveva assistito al susseguirsi di battute dell'americano senza capire nulla.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Col cazzo che te la ripago, la porta! ***









Tre: cosa diamine ha quest'uomo?!
Col cazzo che te la ripago, la porta!


“Ehi.”
Silenzio.
Sbuffò, preso un po' dal panico e un po' dalla situazione ante imponderabile. Aveva passato giorni a sistemare un discorso decente, per non traumatizzare troppo l'americano, calcolando più o meno ogni opzione possibile.
'Più o meno', perchè che Gregory House fosse una persona del genere era un'idea che non aveva sfiorato nemmeno da lontano la sua mente. Soh continuava a guardarlo, domandandosi che cosa sarebbe successo, adesso. Se lo chiedeva anche lui, perchè ora era veramente terrorizzato.
Forse era un brutto momento, pensò, come ultima scusa per l'altro.
“Ehi!”
Un pianoforte iniziò a suonare un valzer particolarmente vivace, partendo con un certo brio ed interrompendosi poco dopo. Daisuke non era persona dall'orecchio fino, non sentiva che l'ultima o la penultima nota stonava in una maniera che mandava House in bestia.
Optò per un approccio più diretto, mai che quello si decidesse a calcolarlo.
“Mister House!”
Nah.
“Gregory House!”
No, non direi.
“Dottor House!!”

Il diagnosta, sentendo chiamato in causa il suo lavoro, cedette all'idea di pensare che quello, effettivamente, potesse essere un paziente, chissà, magari interessante. Era decisamente torturato dal far nulla, tanto che zoppicò nuovamente alla porta, aprendola.
“Va bene, ragazzino.”
Daisuke sorrise, raggiante.
“Adesso vai al Princeton Plainsboro Teaching Hospital, ti fai vedere, e se la cosa è veramente insolvibile come tutti voi sostenete, posso farci uno... mezzo pensiero.”
Questa volta il ragazzo ci mise un po' a collegare tutte le parole della frase, completamente esule dal contesto in cui stava parlando l'altro. Rimase imbambolato qualche secondo, fissandolo, e finalmente realizzò.
“No, non ci siamo capiti, allora...”
Confuso com'era, la sua parlata era decisamente tentennante.
“Senti” tagliò corto House “Se non sei un paziente ne' un omino della radio venuto a dirmi che finalmente sono miliardario, non posso aiutarti. Visto che dubito fortemente della seconda ipotesi e che la prima l'hai negata tu stesso, arrivederci.”
Fece per chiudere nuovamente la porta: questa volta Daisuke si ricordò di avere dei riflessi e che andavano usati. Così cacciò il piede fra lo stipite e il bordo della porta, impedendo al medico di richiuderla per l'ennesima volta.

Daisuke era furente.
In meno di trenta secondi Gregory House gli aveva distrutto il mondo fantastico che aveva costruito su di lui. Sentendosi perso, e soprattuto continuamente punzecchiato da quello che pareva estremamente infastidito dalla sua comparsa non ancora spiegata, mandò a quel paese i buoni propositi, le buone intenzioni e tutto ciò di positivo che aveva caricato dentro se' per andarsene all'altro capo del mondo alla ricerca di quest'uomo che lo aveva disarmato a bruciapelo: così passò al contrattacco, deciso, indipendentemente da qualsiasi cosa, a perseguire nel suo intento originale.
“Prova a richiuderla e io la sfondo.”
House la raprì, lentamente, ulteriormente infastidito dal comportamento del ragazzo, che, di colpo, da insistente ma docile, era mutato in alquanto aggressivo. Quello lo guardava con le sottili sopracciglia ravvicinate, gli occhi a mandorla taglienti, le iridi azzurre cariche di determinazione.
“Si può sapere cosa diamine vuoi?” domandò, finalmente.
Ormai Daisuke era partito per la tangente.
“Credo che se tu ci lasciassi entrare avremmo già fatto un grande passo avanti.”
Il tono era fortemente infastidito ed acido.
“Non faccio entrare in casa mia ragazzini simil-rock-punk-surrogato di visual band. Sai, è una questione di sicurezza.”
Ecco, ora faceva anche il superficiale.
“Lo sapevi che l'uomo con più eredi in assoluto al mondo è Gengis Khan?”
House arretrò, perplesso.
“E allora?” sottolineò, infastidito
“Niente, era così, per dire.”
Essere riuscito a portare l'altro a porgli domande gli parve una vittoria. Per un momento ebbe quasi l'impressione di averlo in pugno. S'illuse di aver smorzato il rifiuto iniziale dell'uomo.

Data l'insistenza dell'altro, House aveva iniziato a fiutare che la magica apparizione dell'asiatico non sarebbe stata cosa che si sarebbe risolta in una manciata di minuti. Neanche in qualche ora, a dirla tutta.
Ormai non poteva rinunciare, quello gli sarebbe stato addosso per lungo tempo, vista la determinazione con cui si muoveva.
“Ascoltami.” fece il giapponese con tono imperativo. “Per favore”, aggiunse poi, senza smentire le sue origini.
Ormai House non aveva più nessuna scappatoia. Espirò, chinando il capo verso il basso, come sgonfio, poi si volse di lato, appeso allo stipite per compensare il peso che la gamba priva di un bel po' di muscoli non poteva sostenere.
“Va bene”

Daisuke si sentì rasserenato, sicuro di aver sorpassato quell'inaspettato scoglio iniziale. Ad ogni modo, viste le prime (insensate) tensioni, preferì lasciar stare ed affidarsi alla verità della carta. Si limitò così a porgli tre gruppi di fogli graffettati, che avevano tutta l'aria di essere documenti. Come il medico le ebbe in mano, andò a stringere lievemente Soh per la spalla: il bimbo continuava a fissarlo, per nulla interessato all'americano. Daisuke iniziò a guardare quello con attenzione, studiandolo, approfittando del momento di stasi. Solo allora si accorse che non aveva mai, fino a quel momento, caricato il peso sulla gamba destra. Forse era un caso: in compenso era completamente appoggiato allo stipite della porta, alla sua sinistra. Lasciò stare il piccolo particolare, a cui, per quanto notato, non diede troppa importanza.

House fissò intensamente il suo nome, nero su bianco. Poi studiò la parola 'affidamento', che lo precedeva di qualche riga.
Non gli bastò. Colto dal suo più alto momento di narcisismo, cambiò foglio, per tornare a fissare intensamente il suo nome, analizzandone ogni singolo carattere. Poi deviò sulla parola 'padre'.
Salì leggermente, per incollarsi alla parola 'madre', e dunque si bloccò di nuovo. Lo lesse, più e più volte. Flesse leggermente l'angolo della bocca, perplesso: no, non si ricordava nessuna Tomoko.
E sì che ne aveva conosciute tante, di giapponesi.
Fantastiche giapponesi, fra parentesi.
Scese, il nome che continuava a rimbarzargli in testa, scrutando timbro e firma del certificato di nascita.
Perchè era in inglese, poi, se quelli venivano dal Giappone? Ebbe la sua risposta nel terzo documento, che decretava la veridicità della traduzione e portava con se' le pratiche dell'assistente sociale.
Dopo un lunghissimo temporeggiare, calò i fogli e rialzò lo sguardo sul ragazzo.
Ah.
Quello doveva essere il motivo per cui un asiatico aveva gli occhi azzurri.

Quando quello gli incollò lo sguardo addosso, Daisuke non seppe assolutamente che faccia fare. Teneva stretto Soh, mentre l'uomo lo fissava, serio, ma apatico. Il ragazzo deglutii, infastidito dallo sguardo, e si lasciò cedere al riflesso di sostenere l'occhiata con una altrettanto dura, a tratti provocatrice.
“Non ne hai le prove.” Concluse House.
Daisuke levò le sobracciglia, domandandosi se esisteva un limite alla sua sorpresa e alla capacità dell'altro di scoraggiarlo e farlo andare in panico. Le parole presero il sopravvento sulla sua mente, che si era inceppata.
“Il testamento parla chiaro.”
Mantenne il tono di sfida, chiedendosi se era veramente il tono che voleva esprimere.
A dire il vero, no. Ma la pressione dell'americano lo fece reagire praticamente d'impulso: diretto, tagliente.
House tonrò a guardare i fogli, per poi calarli una seconda volta.
“Sì, è vero.”
Sollievo.
“La domanda è:” continuò il diagnosta “dov'è il vostro assistente sociale?”
Cantilenava retorico, parlata di chi sa già la risposta.
“E' in Giappone.”
“Oh. Ne deduco che il fratellastro non avesse molto tempo per voi due.”
Non gli era certo sfuggito che il cognome del ragazzo e quello dell'assistente sociale erano uguali. Si arrischiò parecchio nel dire questo, consapevole del fatto che avrebbe potuto essere una coincidenza.
“Cugino”, precisò Daisuke, cadendo nella trappola. “E' questione di lavoro.” sottolineò
“Non credo tu possa arrivarmi in casa con una lettera, un bambino e l'assistente sociale dall'altro capo del mondo. Non è leale.”
“Evidentemente posso.”

Si domandava se il giapponese fosse partito con l'idea di avere un padre così degenere, data la fermezza con cui gli rispondeva. In pratica avevano già litigato prima ancora di convivere. Sempre se ciò fosse mai avvenuto, beninteso.
Daisuke gli sembrava si mantenesse sulla difensiva, nonostante la sua difesa fosse prossima a corrispondere all'attacco: lui lo punzecchiava, quello reagiva. No: di certo non si sarebbe mai aspettato un padre così.
E non aveva ancora visto il bastone.
Era anzi sicuro che il ragazzo lo avesse a lungo idealizzato, il che lo fece sentire in un certo modo fiero di averlo rirportato così rapidamente con i piedi per terra.
No.
Indipendentemente dal fatto che il suo nome, scritto dopo la parola 'padre', fosse stato messo lì perché la madre ne era convinta o perchè era il primo che le era passato per la testa, House era sicuro che non potesse avere molto a che spartire con quello, e, soprattutto, che non ne voleva sapere di bambini e adolescenti complessati che gli pascolavano per casa.
No.
Era qualcosa di inconcepibile.
Talmente inconcepibile che il problema dell'essere o meno suo padre (cosa di cui aveva seri dubbi) lo sfiorava solo vagamente, preceduto dalla volontà immediata di mandare altrove i due.

Toc Toc. Ciao, siamo i tuoi Dubbi Morali.
Perfetto, gli mancavano solo quelli.
Se fai così, sei uno Stronzo.
Beh, ma che lui fosse uno Stronzo non era una novità.
Sì, ma ora sei uno Stronzo-Figo. Diventeresti uno Stronzo-Stronzo.
Ma lui era House. House era Figo. Quindi Lui Era Figo, indipendentemente da qualsiasi cosa.
Non è Figo lasciare due orfani in strada.
Non è nemmeno Figo avere due orfani in casa. Cioè, esulava completamente dai suoi schemi mentali.
Sei ottuso.
Oh, Dubbi Morali, è House, non il pirla della porta accanto.
Sei ottuso.
House non è ottuso. E' House.
Potresti mutare un po', giusto per passare da Stronzo-Figo a Figo-Figo. Fare l'upgrade.
Non esiste il concetto di Figo-Figo. Esiste Scemo-Scemo, non Figo-Figo.
Lasciamo stare. Ce l'aveva detto, la tua coscienza, che era una causa persa.

House seguì alla lettera i consigli dei suoi Dubbi Morali.
“Senti... lascia stare.”
Daisuke continuava a lasciarsi fregare ogni volta, convinto che quello avrebbe smesso di comportarsi in quel modo ed avesse ceduto all'ultimo lembo di umanità presente in lui. Evidentemente non aveva nemmeno quello.
“Come sarebbe a dire 'lascia stare'?”
In compenso, l'aria di totale sfottò e fastidio che albergava fino a quel momento sul volto dell'americano svanì. Si fece stranamente serio, il tono grave, la voce tenue.
“Sul serio, non otterresti molto. Non ha senso.”
“E cosa dovrei fare, scusa?!”
“Vai tranquillo in affidamento da qualcuno, e lasciami perdere. Ti conviene.”
Adesso era Daisuke che iniziava a trovarsi in una situazione che esulava completamente dai suoi schemi mentali. Non gli importava più granchè di come fosse fatto quell'uomo, a lui serviva un tetto sulla testa, a Soh un'educazione, ma, soprattutto, quello era un suo dovere. Un preciso dovere che si aspettava il genitore si prendesse senza battereciglio, senza ripensarci su troppo, per il semplice fatto che doveva.
Cioè, doveva. Doveva.
Fu la goccia che lo fece partire definitivamente. Facendo appello a quel poco slang che conosceva dalla televisione, levò di molto la voce, facendo prendere un colpo al bambino, che sussultò.
“Che me ne frega se mi conviene o meno?! Sei mio PADRE!”
“Sono tuo padre su di un pezzo di carta, svegliati. Non ne sei nemmeno certo.”
“E anche se fosse? Cosa vuoi fare, lasciarci in strada?”
“Non volevo dirlo con tutta questa brutalità, ma.. sì. Non vi voglio fra i piedi – grazie.”
House fece per chiudere la porta, ma il piede di Daisuke continuava ad impedirglierlo. Così tornò ad aprire, fisssandolo, muto, qualche altro istante. Il ragazzo lo fissava duro, impettito, per nulla intenzionato ad abbandonare quella che ormai era un'impresa.
“Cosa ti aspettavi, che ti accogliessi a braccia aperte? Avresti dovuto farti venire i tuoi dubbi fin dal primo istante.”
Diasuke taceva.
“Sono un misantorpo, ok? Un cinico bastardo realista che non ha assolutamente intenzione di accogliere un ragazzino convinto che io sia suo padre. Non ti è mai balenata in mente l'idea che quel nome fosse semplicemente il primo che era venuto in testa a tua madre?”
No, non ci aveva pensato.
“Se anche così fosse, non ti avrebbe citato nel testamento, No?” ribattè convinto l'asiatico.
“Possibile che tu non voglia accettare l'idea di lasciar stare? Lascia perdere il tuo mondo dei sogni e vattene.”
“No.”
“Ho detto di andare VIA.”
“No. Tu sei mio padre e adesso TU mi prendi in casa, indipendentemente da quanto una persona di merda tu possa essere.”
House non accettava che l'altro non accettasse. Non gli balenava in testa l'idea che per lui il concetto 'dovere' era il più marcato in assoluto.
Daisuke, dal canto suo, non realizzava come quell'uomo potesse sottrarsi al suo onere. Tutta la sua vita era stata fondata sul mantenere le proprie posizioni e compiere i propri doveri, fare la propria parte e non uscirne, accettarla, perchè quello era il suo posto nel mondo, con tutti i suoi pro e contro. Come lui era un fratello maggiore e si era preso negli ultimi anni il cura del piccolino che cresceva, come il bambino lo rispettava docilmente come compenso del normale affaccendarsi dell'altro, ora lui si aspettava, senza alcun dubbio, che il padre, in quanto tale, si sarebbe preso in casa figlio e fratello del figlio, per il semplice fatto che doveva: e loro lo avrebbero onorato e rispettato come di consuetudine.
No. Quello non era uno scontro Diasuke-House.
Quello era Giappone vs House.
E in Daisuke la filosofia di vita giapponese era decisamente ben radicata.
“Non fare l'immaturo, ragazzino.”
“TU sei immaturo!”
Come il giapponese disse queste parole, colto dallo slancio, potò il corpo in avanti: il che implicò anche far perdere la saldezza al piede che si intrometteva fra stipite e porta, arretrandolo di poco. Ma quel poco bastò: House colse la palla al balzo e gli sbattè la porta letteramente in faccia.

Soh si era seduto per terra, l'indice in bocca, perplesso dal susseguirsi degli eventi. Aveva preso un po' di paura quando i due avevano iniziato ad urlare, per compiere addirittura un piccolo salto quando l'uomo aveva chiuso la porta in faccia al fratello. Ora si era tranquillizzato: e, seduto, attendeva pacifico che accadesse qualcosa di veramente rilevante. Perchè lui, fin'ora, era rimasto in piedi, muto ed immobile spettatore.

Daisuke tirava pugni sulla porta, urlando ad House di farlo entrare.
House suonava il valzer francese, incartandosi, aspettando che il ragazzo si arrendesse. Ma quello andò avanti.
Iniziò a far sbattere tutto l'avambraccio sul legno, sottolineando la sua insistenza. Andò avanti per una buona manciata di minuti: era una gara di resistenza. Vinceva chi non rinunciava.
“Che razza di uomo sei?! Non puoi lasciarci in strada così!”
“Evidentemente posso” apostrofò l'americano a voce alta, quasi facendo il verso a quanto aveva detto Daisuke qualche minuto prima.
“Fammi entrare!”
“Scordatelo.”
“Ehi!”
...
“EHI!”
Uno strano scricchiolio lacerò il timpano di House. Smise di suonare, turbato.
“Che cavolo hai fatto!?”
“Sto bussando, non senti?” ironizzò Daisuke, continuando a tirar colpi sulla porta.
House zoppicò verso l'uscio, seriamente preoccupato per l'integrità della sua dimora. L'asiatico, sentito che quello aveva smesso di suonare, percepì che la cosa aveva funzionato. E rincarò la dose.
Il suono divenne più sommesso e potente.
“Che cavolo stai facendo?”
Bastò una seconda spallata a far cedere definitivamente la serratura. Il legno s'incrinò, piegato dalla potenza dei colpi, e la porta si aprì verso l'interno con un rumore osceno. Daisuke perse l'equilibrio e mise per la prima volta piede nella casa del padre, a salvarsi da una caduta.
House sgranò gli occhi come vide quello, ingobbito, comparire sulla soglia, e la sua povera porta cedere al suo peso. Il ragazzo spalancò gli occhi a sua volta, resosi solo ora conto di cosa aveva effettivamente fatto. Sfondato una porta.
“L'hai sfasciata..!” emise House a metà fra l'adirato e l'incredulo.
Daisuke tacque, riergendosi leggermente, osservando turbato il suo operato.
“Tu, hai, sfondato, la, mia, porta.”
“Hu... sì.”
“Voglio i danni!”
“I COSA?”
“Me la ripaghi, razza di bastardino asiatico!”
“No!”
“No 'no', me la ripaghi, punto e basta! Quella era la MIA porta!”
“E con cosa, scusa? Non ho un soldo!”
“Non mi interessa! Lavora, rivendi il gel che hai sui capelli, prostituisciti - fai come vuoi, ma io voglio i soldi della mia porta!”
“Sei mio padre, ripagali tu, i danni che fa tuo figlio!”
“Allora sei in punizione - stanotte dormi in giardino, stupido orientale!”
Spinse via il figlio, si sporse, e con un rapido guizzo del braccio afferrò Soh per la collottola, che lo guardava con gli occhioni stralunati, e lo tirò dentro, richiudendo la porta che rimbalzò sulla serratura rotta.

Daisuke rimase lì, immobile, davanti all'uscio socchiuso, senza capire se quella doveva considerarsi una vittoria o una sconfitta.

_______________________________________________________________________________

[Sììì *__* sto andando tremendamente OOC *__* merrdaaaa XD]
[Spero che ora si siano chiarite le idee a lady house XD]

[che banalità, eh? XD]
[yeeeeh.. XD]






Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ecco perchè evitavo di pormi certe domande ***




[Edited! Cosa farei io senza Nike? Morirei XD Sistemato il 'neu', e poi c'è qualche minuscola variazione riguardo il giapponese di House (temo che devo essermi persa qualche episodio cruciale sull'argomento – d'oh.)]
_______________________________________



Quattro: Oh, mio, dio.
Ecco perchè evitavo di pormi certe domande.



House aveva poggiato Soh sulla poltrona, ed ora lo squadrava dal divano di fronte, torvo, e l'altro intento a non parlare. A vederlo, c'era da domandarsi se non fosse morto: il bambino respirava con una silenziosità sovraumana, e gli occhi neri non lasciavano capire se stesse guardando l'uomo oppure il vuoto.
Da fuori non giungeva nessun rumore. House si ritrovò più volte, per quanto controvoglia, a domandarsi cosa stesse facendo Daisuke da riuscire a sembrare assente, nonostante la porta socchiusa lasciasse entrare anche il più flebile dei rumori.
La sua attenzione veniva però sempre ricatturata dalla statua di sale che era il piccolo, e che, da ormai un'ora, coinvolgeva il medico in un assurdo, solenne, silenzio.
Fuori il tramonto, l'oscurità che inizia a comparire nell'etere, gli ultimi raggi del sole che tentano di fornire luce al New Jersey, che gli volta le spalle.
“Come ti chiami?”
La buttò lì lui, poco convinto del fatto che il bambino gli sapesse rispondere. Infatti Soh non mutò espressione.
Ovvio, Figurarsi se un giapponesino di cinque anni conosce l'inglese.
“Sei un tipo poco loquace, eh?” incalzò, lievemente infastidito dal mutismo di quello. Non pretendeva certo che lo capisse, ma almeno che reagisse, ecco: quella sarebbe stata una cosa dovuta.
Soh rimaneva immobile.
“... kamikaze!”
Era più o meno l'unica parola che, pensava, un americano avrebbe dovuto conoscere della lingua, e gliela sputò in faccia credendo che questa volta avrebbe reagito.
Niente.
“Bene, da una parte il punk, dall'altra il sordomuto. Cosa mai sarà un'oretta di ambulatorio, al confronto?”
House andava esibendosi nella sua miglior mimica facciale, fra ironia, fastidio e un po' di quella finta recita che caratterizzava il suo tono retorico.
Ma nulla. Il piccolo continuava a fissarlo, quasi fosse immune a qualsiasi input. House espirò, iniziando a pensare seriamente alla resa.
“Onaka ga suita” affermò il piccolo giapponese. House levò le sopracciglia, sorpreso. Il bambino manteneva la stessa espressione di prima, che ormai il medico andava traducendo in apatia.
“Isha-sama, onaka ga suita...” continuò quello.
L'americano arricciò le labbra, gli occhi azzurri mezzi nascosti dalle sopracciglia calate. Si levò in piedi, non senza un po' d fatica, e si domandò fosse il caso di andare a chiamare l'interprete che si doveva essere ormai accampato nel suo giardino. Poi lo sguardo scivolò sul pianoforte: lo spartito era ancora lì, ad aspettarlo. Si fermò qualche istante a contemplarlo, per poi venire ridestato dal suono del campanello.
“Non contare sulla mia clemenza, muso giallo!”
Fece avvicinandosi, zoppicante, alla porta sfondata. Questa, anziché essere socchiusa, era leggermente aperta, la Cuddy che spiava nella casa, sconvolta.
“Liisa!” esclamò, palesemente falso nella sua gioia ma per nulla nella sua sorpresa “Però, che tempismo perfetto” continuò ironico “Dimmi, sei così anche a letto?”
House si appoggiò con la mano al muro guardando la primaria, sguardo interlocutore, piazzatosi perfettamente a sbarrarle la strada.
La Cuddy era troppo presa dalla porta sfondata per badare alla battuta del medico.
“Che diavolo hai fatto alla porta?” domandò, gli occhi praticamente sgranati
“Mi mancava una presa d'aria, sai com'è.”
“Dico sul serio”
“Anch'io. Cosa fai qui? Sei venuta a darmi la buona notte? Molto carino, da parte tua. Sul serio.”
“Che cavolo è successo alla tua porta!?” una voce più giovane rimbalzò su di House da qualche metro di distanza. Cameron avanzò ancora di qualche passo, per poi fermarsi dietro alla Cuddy, lo sguardo che contemplava l'uscio mezzo distrutto in ogni suo particolare: Hector in braccio.
“Non avevo ancora pensato ad una cosa a tre, onestamente... ma se insistete tanto... il cane lasciatelo fuori, però – è meglio.”
“House, non fare l'idiota. Cosa è successo? Ti hanno svaligiato la casa?”
House osservò intensamente Cameron, valutando la proposta.
“Sì.” 'ammise' poi. “Ora che siete passate a controllare se non mi sono ancora suicidato, potete anche andarvene via serene. E portatevi via anche Hector.”
“Ah, no” fece al volo Cuddy “tieniti questo stupido cane.”
Cameron continuava a guardarlo perplessa, Hector ancora serrato fra le braccia.
House lanciava occhiate furtive sul giardino, domandandosi dove fosse andato a finire Daisuke, di cui non c'era nessuna traccia. La vocina del pargolo tornò a squillare.
“Nikomi Udon okudasaaai”
“Cos'era?” Cuddy era sempre attenta.
“La televisione.”
“Neeh, isha-samaa~”
“Però, hai un televisore fenomenale. Sembra vera.”
“Sai, sono solo, guadagno più di quattro insegnanti messi insieme... può succedere che io mi vizi un po'.”
Le due donne guardavano House per nulla convinte.
Un rumore di passi si avvicinò a loro.

Daisuke era finalmente riuscito a cambiarsi la camicia, sostituendola al volo con una larga maglia scarlatta lacerata in vari punti. Sulla spalla la tracolla di un borsone gli gravava, piegandolo, mentre avanzava verso la porta: le schiene di due donne gli apparvero nella penombra.
“Buonasera”
si limitò a dire facendo chinare lievemente il capo, e proseguì la sua avanzata pronto ad entrare in casa.
House lo bloccò, sbarrandogli la strada con un braccio: gli sguardi delle due attoniti.
“Dove credi di andare?”
“Dentro.”
“Sei un punizione.”
“Sì.”
“Allora resti fuori”
House non ammetteva repliche, ed anzi andava allargando le palpebre sempre di più, in uno sguardo alquanto intimidatorio. Daisuke ritrasse il capo. Le due dottoresse rimanevano immobili, incapaci di creare un pensiero che riuscisse a spiegare la situazione che avevano davanti a loro.
“Punizione?” Iniziò Cameron
“House, chi diavolo è questo?!” continuò Cuddy
“Che bello, siete come Cip e Cop! Fate anche le frasi in coro, magari?” House spinse via il ragazzo strappandogli la borsa di mano, che gli pesò sulla spalla molto di più di quanto avesse stimato. “Fuori, tu.”
“Ok, ok”
“House!” Cuddy fece sfoggio del suo miglior tono di primaria per riprendere il medico. “Chi è questo ragazzo?”
“Nessuno” rispose rapido l'uomo, stringendosi nelle spalle
“E tu metteresti Nessuno in punizione?” la dottoressa sottolineò il termine nessuno, facendo ben intendere che non gliela dava a bere.
Daisuke, dal canto suo, che rimaneva ancora inacidito dal comportamento del padre biologico, non mancò di approfittare della situazione, vedendo come l'altro andava perdendo la solidità con cui l'aveva visto fino ad allora. Assestò un bel calcio al mondo già traballante del medico.
“Gli ho sfondato la porta. Credo che a questo punto voglia disconoscermi.”
House lo guardò con istinti omicida che andavano riflettendosi negli occhi.
Il colpo di grazia, però, venne dall'interno della casa, con un sommesso pigolio lamentoso.
“|Onii-chaan! Ho fame!|”

Se House non si fosse trovato nei suoi panni, avrebbe trovato la cosa molto divertente. E non solo: c'erano infinite leggi della vita che avrebbe potuto trarre da quella scena.
Ad esempio, dare sempre nome falso quando si va a puttane.
Oppure, non costringere qualcuno a riportarti un cane ultracentenario se non sei matematicamente certo che non ti compaia un ragazzo che afferma di essere tuo figlio per tutta la giornata.
La cosa si complicava se poi le due donne erano l'una appena uscita da una cotta adolescenziale per te e l'altra che... beh, insomma.
Lasciamo stare.
“Sono suo figlio” concluse Daisuke, un sorriso cinico e al contempo sereno in faccia, i muscoli del volto ben tirati, gli occhi chiusi.
Le due non poterono non sgranare gli occhi di fronte al giapponese che, onestamente, con Gregory House pareva avere veramente poco a che fare.
Soh tornò a pigolare, House che faceva roteare gli occhi al cielo.
“Tuo figlio!?”
“Tu Hai un Figlio?”
“No!” sbottò il diagnosta, protesosi in avanti, il tono decisamente alterato “Possibile che crediate alla prima cosa che vi viene detta? Cos'è che ribadisco da anni, io? L'uomo mente! Sta mentendo – e voi gli state credendo!”
“Io non sto MENTENDO!” precisò, alterato a sua volta, Daisuke.
“Sì, tu stai mentendo”
“No! Io sono tuo figlio!”
“Tu non sei mio figlio, sei un ragazzino che si presenta alla mia porta con un foglio di carta in mano che dice che io sono suo padre!”
Cuddy e Cameron rimanevano immobili, attonite.
Intanto, la trama che House aveva tessuto per soddisfare il suo bisogno di divertimento quotidiano andava rivolgendoglisi contro in tutta la sua efficacia. Veniva malamente travolto dagli venti, cercando di sistemarli alla meno peggio per riuscire ad uscirne intero. L'unico evento riconducibile ad una cosa del genere era quando aveva, nolente, fatto credere a tutti di essere in procinto di morire per un tumore al cervello – ma, certo, quello non aveva alcuna rilevanza in confronto al casino in cui era immerso ora.

Cameron era lì, ancora intenta a sorreggere Hector, domandandosi come quel giapponese potesse essere il figlio di House. Avrà avuto almento quindici anni, forse molti di più, visto quanto i giapponesi riescano a sembrare dei folletti.. beh, insomma, ci doveva essere un limite all'attività di House.
Evitò di porsi certe domande troppo approfondite. Si sporse leggermente in avanti, contemplando il ragazzo.
Il vestiario era assurdo. Uscito da un anime, ecco cosa sembrava. I capelli, poi, sfidavano ogni legge della fisica, per non parlare del fatto che il giovane, per quanto fossero nella penombra, era visibilmente truccato – ed anche molto.
Non c'erano tracce del gene House. Nemmeno da lontano. Sarà stato alto un metro e settantacinque, mentre il medico superava il metro e novanta. Aveva lineamenti dolci, mentre il presunto padre era tutt'altra cosa, il volto un continuo susseguirsi di ombre.
Davvero, non v'era nesso fra i due. Quel giapponese le appariva autentico in tutto per tutto. Un purosangue. Se non, forse, per quella strana chiarezza degli occhi, solitamente neri, il cui colore preciso non riusciva ad identificare data la poca luce.
Diamine.
Un giapponese.
Se era veramente suo figlio, doveva essere anche figlio di una giapponese, di una signora giapponese. Beh, per House, sempre il meglio. Certo, se mai si fosse immaginata un eventuale figlio del suo capo (cosa che No, Non Aveva -Mai- Fatto, e a buona ragione, mentirebbe ora), sarebbe stato ben diverso.
Forse addirittura biondocchiazzurri.
Ma no, un giapponese no.

Cuddy pose una mano sulla spalla della giovane immunologa per richiamarne l'attenzione, evidentemente persa nei suoi pensieri. Evitava anche lei di pensare troppo alle origini del ragazzo.
“Onii-chaan”
Dalla porta, la primaria vide apparire un pargolo che si affacciava timido.
“|Oniichan, ho fame|”
“|Non hai mangiato?|” rispose il ragazzo nella sua madrelingua, in una parlata che si modellava perfettamente al suo timbro di voce, rapida e scattante, tipica dell'oriente.
“Iee.” rispose il piccolo.
“Non l'hai fatto mangiare?!” scattò Daisuke su House, sconvolto.
“Saranno le sette, che vuoi che sia? Casa mia - regole mie, giallino.”
“Se Soh non mangia subito dopo il tramonto va in crisi”
“Non essere patetico, ragazzino.”
Soh guardava il fratello implorante, grandi lacrimoni a lambirgli il volto.
Oddio, un altro. Cuddy stava iniziando a temere di star perdendo la cognizione delle cose: no, non potevano essere due. Non così piccolo, almeno – perchè se no c'erano veramente troppe cose che non conosceva di Gregory House, il che, da un certo punto di vista, la infastidiva.
Strinse ulteriormente la presa su Cameron, invitandola a voltarsi.
Intanto, i due più o meno accertati House si guardavano in cagnesco, con il mezzo il bimbo, disperato.
“Lasciamo che socializzino” affermò infine, invitando l'altra, semiparalizzata, ad andarsene. “House, domani ti lascio la mattina libera, eh? Così magari fate amicizia.”
“Grrazie” fece House, chiudendo la porta rotta.
I tre rimasero fuori. I quattro, contando anche Hector.
Le due donne rimasero immobile ancora qualche minuto ad osservare il sospettato figlio, che ricambiava le occhiate con uno sguardo sottile, intento a sua volta a studiare le due, senza far parola, senza apparire ne' sconcertato ne' intimidito dalle due che ho stavano praticamente passando allo scanner.
“Beh?” domando infine il ragazzo.
“Buona fortuna” rispose Cameron, che dopo un'ultima occhiata gli diede le spalle, allontanandosi con il cane in braccio, senza rendersi conto che era andata fin lì per renderlo al suo capo.
“Non farti traumatizzare troppo” concluse la Cuddy “E' uno stupido misantropo, tutto qui.” Prese anche lei la sua strada, non senza voltarsi indietro quel paio di volte sufficienti a guardare quel giapponese. Non sapeva cosa pensare, non aveva nemmeno idea di come sarebbe andata a finire. Su queste cose House era omprevedibile. Lui e i rapporti sociali erano due mondi scissi da parecchio tempo, oramai tangenti solamente in Wilson.
Daisuke rimase fuori.

Aveva capito che si chiamava Soh, e aveva capito che aveva fame. Era un buon inizio, dopo tutto.
Guardò il piccolo, tentando di capire se era meglio sorbirsi i due o farsi una mattinata di ambulatorio.
Soh piagnucolava.
“E non fare quella faccia”
Si addentrò nella casa, andando in cerca di qualcosa di commestibile allo stomaco di un piccolo giapponese. Daisuke era fuori, ed Hector non si era mai staccato da Cameron era amore – e almeno non avrebbe rivisto il cane fino al pomeriggio successivo.
Si fermò davanti al frigorifero, domandandosi se quella era da considerarsi una vittoria o una sconfitta.




_____________________________

Grazie x le recensioni, sono sempre gradite *.*'
Di qualsiasi natura *.*'
Grazie a tutti *.*'

Spero che aprezziate *.*'
(L)






Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Chotto chotto, matte: nana... san... ... roku! ***



*-*''
Rendo nota anche qui che ho apportato qualche modifica al capitolo precedente per non fare l'incoerente *.*'' mi ero persa un pezzo della vita di Housinoh (L)
Non succederà mai più, prometto *.*
E non picchiatemi se sbaglio un po' la sintomatica *_*'
___________________________________________________






Cinque: |Radice quadrata di 153 = dodici virgola quattro, zero, nove, sei... |
Chotto chotto, matte: nana... san... ... roku!


“Non ti è molto chiaro il concetto di fuori, a quanto vedo.”
Daisuke si passò le mani sugli occhi, che poi tentò di aprire: fu dissuaso immediatamente dalla luce che gli parve gli lacerasse la cornea. Li chiuse di scatto, e poi andò a guardare, le palpebre a fessura, l'uomo che troneggiava su di lui.
Il ragazzo era disteso all'inizio del corridoio, solamente una gamba che rimaneva fuori dall'uscio.
Si ricordava di essersi addormentato davanti alla porta, fuori dall'abitazione. Strane cose che fa, il sonno. Mugugnò qualcosa, tentando di riaprire meglio gli occhi dopo esserseli strofinati nuovamente.
Oddìo.
Sulle mani un rosso porpora rilucente al sole del mattino.
No. No.
Scattò in piedi, terrorizzato. “Lasciami andare in bagno, ti prego”
House lo guardò apatico. Poi si scansò, lasciando libero il passaggio, e indicando con un vago cenno del capo il corridoio. Daisuke corse verso il bagno, un'orrenda visione ad attenderlo: con quello stupido gesto, aveva sbavato completamente il trucco. Dagli occhi scendevano due righe rosse accompagnate da sbavature nerastre: era orribile. Aprì il rubinetto, pronto a far uso di qualsiasi solvente necessario per mandare via quell'abominio.

Sulla tavola c'era una tazza con del latte. Soh la stava fissando da qualche decina di minuti, il volto goloso, ma senza dare mai il minimo indizio di essere in procinto di afferrarla per bere.
House continuava a non capire che razza di logica governasse il bambino. Ogni tanto il pargolo si guardava attorno, e si soffermava su qualcosa, immobile, riuscendo a rimanerci per lunghissimo tempo. Il medico lo controllava mezzo incuriosito: prima era stato il televisore. Poi il fornello, infine la pila di giornali ammassati vicino alla lavastoviglie, su cui aveva perso ancora più tempo.
“Yo”
Daisuke fece la sua entrata trionfale con un asciugamano al collo, il torso nudo, indosso ancora i jeans e più nessuna traccia del trucco.
“Onii-chan!”
Il bimbo distese tutta la colonna vertebrale, illuminato alla venuta del fratello. Daisuke si sedette di fronte al piccolo, sorridendogli. Poi si rivolse ad House.
“Grazie”
“Non ho fatto niente da mangiare, per te.”
“Fa niente. |Soh, avanti, bevi il latte|”
Soh scosse la testa. “|No, non lo voglio|”
“|Come sarebbe a dire che non lo vuoi?|”
“|C'è il cacao.|”
“|Avanti, Soh, fai uno sforzo. Non è più buono, con cacao?|”
“|Sì|”
“|E allora? Bevilo.|”
“|Ma io il latte della mattina lo bevo col miele.|”
“|Dài, che ti ha messo il cacao pensando di farti un favore... non vorrai mica non berlo, no?|”
“|Bevilo tu. Io voglio il latte col miele.|”
“|Socchan...|”
“Ieeee, niichan!”
“Iamete!”
I due giapponesi si bloccarono all'intervento dell'americano, che li aveva gelati col suo urlo nella loro lingua. Soh, ammutolito, andò a guardare l'uomo, immobile, senza alcuna intenzione di calare lo sguardo. Daisuke tentennò qualche istante, per poi riprendersi.
“|Tu lo conosci il giapponese, allora!|” Il ragazzo si illuminò. Inizio a riacquistare un po' della grande fiducia nel padre che quello stesso aveva completamente demolito.
“Abbastanza da capire che è un bambino viziato.”
“Perchè non gli hai dato da mangiare, ieri?” continuò grave Daisuke, iniziando a percepire qualcosa di strano.
“Perchè erano le sette. Io non mangio alle sette – voi non mangiate alle sette.”
Il ragazzo sorrise. Il fatto che l'altro parlasse alludendo ad un concetto di futuro lo rasserenò non poco.
“Per quanto rimarrete qua” si affrettò ad aggiungere House, vista l'espressione dell'asiatico. Daisuke corrugò la fronte.
“Soh si angoscia se non mangia quando deve” ribadì il ragazzo, levandosi in piedi.
“Dove credi di andare?”
“A cercare il miele”
“Lascialo perdere, che impari a vivere.”
Daisuke non gli badò, ed iniziò ad aprire gli scaffali a caso, in cerca del dolce nettare. Soh permaneva con lo sguardo su House, per nulla intenzionato a sganciarsi. Il medico lo guardò a sua volta, sbuffando.
“Iamete.”
Soh sussultò al freddissimo 'smettila' di House: si volse rapidamente, andando a guardare i fornelli. Di nuovo.
Daisuke trovò il miele.
“|Adesso ti faccio il latte col miele, ok?|”
“No che non glielo fai” House era vivamente infastidito dalla servilità del presunto figlio, il quale si immobilizzò, allibito dal tono che non ammetteva replica del presunto padre. “Adesso si arrangia.”
“Ma... ma non è viziato, è solo un abitudinario. Cosa vuoi che cambi, se gli do il latte col miele o meno?”
“E' una questione di principio, minipunk.”
Daisuke non sapeva più cosa fare. Soh continuava a guardare i fornelli, ma con la coda dell'occhio aveva notato l'arrestarsi del fratello.
“Neeh, Daisuke!” iniziò a lamentarsi.
House guardò il ragazzo fisso, gli occhi azzurri severi.
“| E Il miele?|” continuò il piccino
“|Mmh..|”
“|Daisuke, il latte col miele!|”
Il giapponese non sapeva più cosa fare. Con il barattolo in mano, da una parte House, dall'altra Soh, era circondato.
“Oniii-chan! ... Onii-chan! |E' mattina, la mattina bevo il latte col miele! Perchè non me lo dai? ... Niichan!|”
Soh si era aggrappato ai bordi del tavolo e iniziava a scalpitare sulla sedia, incapace di capire perchè suo fratello temporeggiasse a tal modo, in procinto ad una crisi di panico. Daisuke posò il barattolo sul tavolo, scuotendo il capo.
“|Ma sì, Soh, adesso faccio. Tranquillo. Avrai il latte col miele.|”
Soh lo fissava negli occhi, il respiro quasi grosso. House scosse il capo, deluso, e si alzò.
Allora Daisuke riuscì a notare, finalmente, che zoppicava.

La mattinata House e Daisuke furono come due leoni che girano in tondo, studiandosi. Ogni tanto il più anziano lanciava qualche ruggito e il più giovane indietreggiava, intimorito, pronto a sottomettersi a quella che per lui rimaneva un'autorità. Ma subito dopo ricominciava a girare in cerchio, spinto da qualche gesto dell'altro che esulava dai suoi schemi mentali, e gli faceva riprendere un po' di ardore.
Soh zampettò in giro per il soggiorno, unico posto abbastanza sicuro per un bambino di quell'età: la maggior parte delle volte si immobilizzava a fissare i particolari di qualche oggetto. Piccole scrittine, placchette, zigrinature. Oppure fissava i palquet. Dopo la strana scena del miele, in cui pareva essere pronto di dare in escandescenze, rimase silente, impegnato nella sua strana esplorazione.
Daisuke dovette convincersi a lasciare il fratellino in mano del padre, che vedeva pronto a spezzare le sue abitudini alle quali, lo aveva visto anche lui, Soh non era capace di rinunciare: d'altro canto, lui doveva andare a prendere i bagagli rimanenti. Quando tornò, per suo enorme sollievo, non era cambiato nulla.
I due House avevano delle microdiscussioni che non stavano ne in cielo ne in terra, in genere scaturite da qualche battutina del medico o da qualche comportamento tipicamente asiatico di Daisuke che chiamava in causa l'altro o i princìpi dell'altro.
Del tipo andare in giro scalzo.
Cose idiote, che il medico faceva notare volentieri, e alle quali il figlio non poteva non rispondere, incapace di sottomettersi totalmente a quell'uomo così diverso da come lo aveva idealizzato.

Wilson affiancava la Cuddy in mezzo al corridoio, le braccia conserte: di fronte ai due, House si appoggiava quasi a peso morto sul bastone.
“Non ci posso credere.” Iniziò il rosso.
“Nemmeno io. Posso andare in ambulatorio, adesso, papà?” ironizzò, cercando la via di fuga dall'interrogatorio.
“House che scappa in ambulatorio: bella, questa. Allora, hai intenzione di sbatterlo fuori dalla porta?” continuò la primaria.
“E' esattamente quello che stavo pensando, mamma.”
“Non puoi fare una cosa del genere, House!” lo rimproverò Wilson
“Vi costa tanto pensare che possano stare meglio senza di me? Dov'è finita la vostra visione dell'House cinico, bastardo e asociale? Me li avreste levati immediatamente di casa, quando la pensavate così, cos'è che vi ha fatto cambiare idea?”
“Tutti possono essere genitori, House.”
“No! IO no! Non posso!”
“Ha ragione.” Cameron usciva giust'appunto dall'ascensore. Forse era lei quella dal tempismo perfetto, e non Cuddy. Ma il medico era troppo irritato per pronunciare quel pensiero.
“Ecco. Vedete? Ascoltate la crocerossina, per una volta.”
Cameron contrasse il volto, infastidita dall'epiteto.
“Ti costa così tanto cambiare?” continuò Wilson
“Sì!”
“Non essere patetico. E' tuo figlio”
“Non, è, mio, figlio! E' mio figlio su di un pezzo di carta, perchè credete ai pezzi di carta? Da quand'è che si crede ai pezzi di carta? Io nemmeno ricordo chi fosse sua madre, perchè allora dovrebbe essere mio figlio!?”
“Fai un test del Dna” tagliò corto Cameron, che già era perplessa all'ida di due minorenni in casa del suo capo.
House sbuffò. Strinse i denti, tentato seriamente di dare una bastonata ai tre: di solito ricorreva sempre a esami che potessero dare conferma alle sue ipotesi, ma quello non era un caso dell'ospedale. Cioè, era suo figlio. Forse.
Non che il suo modo di agire mutasse: solo che la sua ipotesi era ancora in cantiere. Traballante, non riusciva a chiarirsi le idee. D'altro canto, di tempo ne aveva. Magari non dieci giorni, ma due sì. Non sarebbe morto nessuno, nel frattempo: e lui si sarebbe potuto costruire il suo schemino per trovare, al solito, la verità.
Si voltò,mugugnando, e si allontanò, sciogliendo quel piccolo simposio che si era venuto a creare attorno a lui.

Aprì la porta socchiusa con il bastone: dalla casa usciva uno profumo decisamente interessante. Mosse qualche passo, sentendo uno sfrigolìo d'olio, e dunque entrò in cucina, fermandosi sulla porta a contemplare la scena.
Diasuke stringeva nella destra una padella che muoveva scattosamente nell'intento di far smuovere i pezzetti di pollo. Sul fornello, un'altra pentola fumava: Soh era seduto al tavolo, una calcolatrice scientifica fra le mani, accerchiato da verdure varia che evidentemente servivano da ingredienti. House guardò fuori: il tramonto.
“Dove l'ha presa, quella?” fece, alludendo alla macchinetta.
Diasuke si volse lievemente, ancora intento a spadellare, ed infatti non rimase con lo sguardo sull'americano più del dovuto, tornando subito a ciò che stava cucinando, dando così le spalle nude all'altro.
“Era su uno scaffale, impolverata. Non abbiamo aperto i cassetti, se è quello che ti preme. Tranne che in cucina.”
“Così rischi di ustionarti.”
“Ti preoccupi per me, wow.”
“Sono un medico, wow.”
Ad House giunse la strana, assurda sensazione di avere uno specchio davanti a se'. Diasuke riuscì a mantenere un tono talmente vago da non fargli capire se fosse precisamente serio o ironico. Beh, aveva fatto lo stesso anche lui, più o meno, ma questo non lo aveva aiutato in alcun modo nella comprensione.
“Io mangio alle nove.” Precisò. Dopotutto, anche House era un abitudinario: e poi ci teneva a sottolineare la sua autorità.
“Sono solo i Nikomi Udon per Soh.” accennò alla pentola in ebollizione ” Il pollo al curry dura di più. Se vuoi butto gli Udon che avanzano e noi mangiamo alle nove. A me non cambia niente, è Soh che dà fuori di matto. Già non so come ho fatto a farlo resistere due giorni senza Udon.”
“E dove li hai presi, gli Udon?”
“In un negozietto qui vicino”
“E hai lasciato Soh da solo?”
“No, ovvio.”
“Quindi tu te ne sei uscito con Soh lasciando la casa, che ha la porta sfondata, incustodita.... o sbaglio?”
Daisuke si ammutolì, colto in fallo.

“Ittadakimasuuu!”
Gli occhi di Soh brillavano alla vista degli spaghetti di riso e frumento in brodo, circondati da varie verdure lesse e un ovetto mezzo strapazzato. Si lanciò a mangiare il pasto, in mano due bacchette reperite sul fondo di qualche anfratto della cucina. Daisuke non ci aveva pensato, ma se non le avesse trovate, sarebbe stata di nuovo una tragedia. Per fortuna, House era più legato al Giappone di quanto non avesse lasciato intendere all'inizio.
Il medico arrotolava sulla forchetta gli Udon come fossero spaghetti italiani, sebbene sapesse benissimo che il metallo ammazzava qualsiasi gusto orientale. Ciò nonostante non poté fare a meno di notare una certa bravura da parte del ragazzo.
O forse era lui che non mangiava Nikomi Udon da molti anni.
“Quanti anni avresti, allora?” House iniziò il suo piccolo interrogatorio, dopo aver passato un intera giornata con due ragazzini di cui, alla fin fine, sapeva poco o nulla.
“Sedici.”
“Novanta?”
“Novantuno. Li ho... appena compiuti. Da qualche settimana, diciamo.”
“Quindi dovresti essere al primo anno di superiore.”
“Mhh, sì, in quel senso, dovrei.”
House allontanò la ciotola vuota poggiandosi allo schienale della sedia. Se quel ragazzo era suo figlio e figlio di una donna con cui lui era andato a letto, c'erano una serie di prerogative che non potevano mancare.
“E poi?”
Daisuke levò la faccia dalla ciotola “E poi cosa?”
“E poi cosa farai?”
Il ragazzo inclinò il capo verso la spalla, senza comprendere a fondo la domanda di quello.
“All'università” sottolineò acido House, senza mancare di fargli notare l'ovvietà della cosa.
“Ah. Boh, non andrò all'università.”
Un punto in meno per Daisuke.
“In Giappone l'università è praticamente tappa obbligata, se non fai quella, sei inutile.”
“E' che non sono proprio una cima”
Due punti un meno.
“Sono stato bocciato”
Tre punti in meno.
“Due volte.” Questa valeva cinque, che in tutto dava otto punti in meno a Daisuke.
Quello lì, suo figlio? Ha. Ma per favore. Non avevano un solo allele in comune, quei due.
“E allora andrai in giro a barboneggiare vestito da cosplayer per tuta l'America?”
Daisuke aggrottò le sopracciglia. Lui ci teneva, al suo stile. Ed era uno stile anche abbastanza usato, in Giappone. Certo, pochi erano spinti come lui, fra catene, orecchini e trucco incredibilmente pesante, però non c'era mica da scandalizzarsi. Il padre, invece, pareva avercela a morte con lui quel quel suo look da VisualBand.
“Beh, no. Cioè, tanto a scuola quest'anno ci sarò andato forse una volta alla settimana, fra una cosa e l'altra. Faccio... tipo circo, no? Accademia. Circo e recitazione. Corde, trapezio... quelle robe là. Acrobata. Poi, forse andrò a fare lo stuntman. Facciamo anche Jujutsu, non me la cavo male, sai.”
House fissò il ragazzo a lungo, continuando ad interrogarsi sulle sue vere origini. In pratica, si era rilevato il suo perfetto contrario. Aveva lasciato perdere la scuola e le materie di studio per dedicarsi a cose che richiedevano tutt'altra abilità: mimica, forza muscolare, elasticità. L'esercizio della mente non faceva parte del suo mondo.
“Ho iniziato quando ero piccolo” continuò il ragazzo, sentendo lo sguardo dell'uomo adosso “Ero follemente innamorato degli acrobati e delle arti marziali, che poi un po' sono la stessa cosa e un po' sono l'opposto, ma non importa. Quella era l'accademia ideale, poi abbiamo iniziato a fare recitazione e anche lì andavo bene... alla fine fare Giapponese antico o Matematica non è che mi aiutasse granchè, quindi alla fin fine ho iniziato ad andare più in accademia che a scuola. Fisica, ecco, forse quella era più carina, la riprenderò più avanti. Sai, per sapere come funziona il corpo e tutte le tecniche, dev'essere interessante uno studio del genere... però, boh, adesso devo approfittare del mio corpo, non sarà così per sempre. Ho solo scelto prima degli altri, alla fine.”
Non smetteva di parlare. Ne aveva bisogno, questo lo intuiva anche il medico, che non conoscendo affatto cosa fosse accaduto e cosa avessero combinato i due nell'arco di tempo dalla morte dei genitori alla loro comparsa in america, ne deduceva che di occasioni si sfogarsi ne aveva avute ben poche. Lasciò un altro lungo silenzio, ora intento a scrutar Soh.
“In pratica, sei un essere inutile all'umanità.”
Daisuke non l'aveva mai vista a quel modo. “Faccio divertire la gente e mi diverto io.”
“Se accadesse una qualche catastrofe che non permettesse più di sprecare tempo e soldi per i divertimenti, nel bel mezzo di una qualche guerra, sarebbe ben più utile un fisico – o un medico - di te. Non pensi al futuro, in pratica.”
Stoccata.
“Io faccio solo quello che mi piace fare, ci sono tanti modi per essere utili, al mondo, devi mica salvare vite in continuazione. E comunque so combattere.”
“Poco te ne fai del Jujutsu contro armi da fuoco ed armamenti nucleari.”
“Onestamente, non credo che l'umanità possa durare più di due ore con una guerra del genere, quindi il problema non sussiste.”
Almeno aveva detto una cosa intelligente. Un punto in più, anche se rimaneva a meno sette.
Daisuke si alzò per andare a prendere il pollo al curry. Soh, che aveva finito da tempo di mangiare, allungò la mano e, con una certa palese furtività, andò a prendere la calcolatrice per tornare a giocarci.
House lo guardò, rimurginando su quello scorcio di vita che aveva appreso dal ragazzo.
“E poi so due lingue, alla fine” Daisuke gli si avvicinò per calare il secondo nel piatto.
“Io ne so sette.” fece House, a sottolineare per l'ennesima volta l'inutilità dell'altro – specialmente confrontato a lui
“Beh, bravo.”
Nuovamente il tono di difficile decifrazione, a metà fra l'ironico e il dannatamente sincero.
“Dove hai imparato l'inglese?”
“Ka-san mi ha spedito alle scuole bilingui.” Si sedette, fermandosi a guardare House. “Secondo me tu sei veramente mio padre.” affermò, sincero
“Secondo me no. Ma non ne sono sicuro.” L'americano iniziò a mangiare.
“Mia madre ci credeva. Tanto da mandarmi ad una scuola di bilingue tanto da riuscire a dirmi ogni sera che avevo i tuoi occhi.”
“Fidati, non sono l'unico americano con gli occhi azzurri su questa terra. Siamo una razza abbondante, noi.”
“Però l'hai impressionata. Ti adorava.” Daisuke non voleva sentire ragione per credere che quell'uomo non fosse suo padre. Ormai ne era convinto, più di chiunque altro
“In genere la gente mi odia.”
“Bella autostima”
Daisuke continuava ad altalenare dalla venerazione per il medico al parlargli quasi quanto fosse un suo coetaneo.
“Cosa fa?” House accennò al bambino che continuava a trafficare con la calcolatrice.
“I conti” rispose con ovvietà Daisuke, avventandosi sulla sua creazione.
“Avrà cinque anni”
“Sì, ne ha cinque. Lui fa i conti.” Soh era completamente assorto nel suo lavoro. “E' un genietto” concluse poi.
House continuava a fissarlo: il piccolo sembrava non badare affatto a loro. L'uomo arricciò lievemente le labbra, perplesso da quel suo comportamento. Sempre pensando al piccolo come a un viziato, si allungò sul tavolo e gli tolse via la calcolatrice di mano. Soh ci rimase un isto male, osservando quello che gli sventolava sotto il naso la macchinetta, in aperta provocazione.
Daisuke osservò la scena perplesso ed infastidito dal comportamento dell'uomo. Soh fissò il diagnosta negli occhi per un attimo, poi tornò a guardare il nulla, a lungo. Infine si volse verso l'orologio, e lì si incantò.
Non aveva fatto una piega: House sembrava quasi deluso.
“Sarai contento, adesso. Te l'ho detto che è un angelo, ma non mi credi. Non è viziato. E tu sei stato uno stronzo.” Daisuke non tollerava. Osservava adirato l'uomo domandandosi cosa avesse in testa.
“Sì” esultò House “Così voglio sentirti parlare! Così ti convinci che questo non è il posto per voi e mi lasciate in pace, felice come stavo prima!”
Daisuke si fece particolarmente torvo. Si alzò con uno sbuffo infastidito per poi rendersi conto che non aveva una camera in cui andare a chiudersi.
“Non sperare che sia così facile” rispose acido al medico, per poi decidere che il divano poteva essere una buona soluzione.

Lasciò che Daisuke si appropriasse di divano e televisore, dando ogni tanto qualche occhiata alla sua figura svaccata. Mise alla meno peggio piatti e pentole nel lavello, innondandoli di un po' d'acqua, senza nemmeno sprecarsi troppo nel dare una pulita generale. Avrebbe fatto la mattina dopo. Forse.
A parte MTV a volume alquanto elevato, nella casa regnava il silenzio. Soh permaneva seduto senza far nulla se non continuare a guardarsi in giro.
“Ehi, tu.”
Il bimbetto non gli diede attenzione. Il medico zoppicò lungo il corridoio andando a reperire un suo fedele, piccolo contenitore giallo. Tornò indietro, non prima di essersi cacciato in bocca un paio delle pillole che conteneva, per poi appoggiarlo davanti al bambino.
“|Lo vedi questo?|” domandò House. Il bambino osservò intensamente il barattolo.
“Hai.”, rispose.
“|Bene. Se tu mangi queste caramelle, muori. Quindi non mangiarle.|”, concluse afferrando il barattolino di vicodin, per poi metterselo in tasca.
Soh annuiva lievemente sconvolto. Continuò a guardare House, le manine poggiate sul tavolo, muto.
“Allora, Piccolo Genio” continuò il medico, Soh che non capiva. “ vediamo... |Radice quadrata di sedici?|”
“Yon.”
“|Di centoventuno?|”
“|Undici.|”
“|Milleduecentonovantasei!|”
“|... trentasei.|”
House si ammutolì, dovendo ammettere che, per avere cinque anni, non era certo scemo. Però, si sapeva, imparare a memoria i quadrati perfetti non era certo una cosa che richiedesse un'intelligenza superiore.
“|Centocinquantasei virgola venticinque.|”
“|Mh... dodici... virgola cinque.|”
L'uomo ridusse gli occhi a due fessure, pronto ad uccidere il superego del bambino – nonostante, da quanto si era visto, pareva non lo avesse. Praticamente non aveva cognizione del fatto di essere, almeno per ora, un gradino più in su degli altri. Che lo fosse stato o meno, il medico lo avrebbe riportato al suo giusto posto con un violento strattone.
“|Cinquantaquattro.|”
Soh arretrò il capo un istante. Teneva gli occhi fissi su House, squadrandolo, il che iniziava ad infastidire l'uomo: poi, lentamente, il piccolo iniziò a mettere a fuoco il vuoto. Il diagnosta sentì odore di vittoria.
“|Sette... virgola tre... quattro... ... otto... |” Gli occhi di House si allargarono “|quattro...|” continuò, imperterrito “|... sei...|”
“Va bene, ho capito”
“|nove...|”
“Basta così”
“|... due|”
“Iamete!”
Il piccolo sussultò, come richiamato da un sogno ad occhi aperti. “Gomen nasai.”
House lo guardò, tentando di nascondere il fatto che era stato decisamente colpito. Di sicuro conosceva l'algoritmo della radice quadrata, e riusciva anche a farlo a mente. Scosse lievemente il capo, andando a rendere la calcolatrice al piccolo. Soh gli sorrise, entusiasta, e tornò a giocarci.

Il pennarello scivolava dolcemente sulla plastica della lavagna. I paperotti erano stati praticamente incatenati negli ambulatori, ma lui aveva finito il suo turno contrattato ed ora, finalmente, poteva fruire dello studio di diagnostica, vuoto.
Sulla sinistra, in alto, 'SON'; poi una riga dritta, verticale, e sulla destra 'FOOL'.
Si distanziò, per andare a contemplare lo scheletro del suo schema. Tornò ad avvicinarsi, iniziando a scrivere.
Aveva gli occhi azzurri, il che poteva valere, come no. Lo scrisse in piccolo. Dall'altra parte, invece, alquanto in grande, sottolineò il fatto che non era affatto intelligente. Cancellò: 'STUPID' rendeva meglio l'idea. Sotto, aggiunse 'ASIATIC, SHORT'.
Tornò ad allontanarsi.
C'era un'altra cosa che avrebbe dovuto includere, ma non ne era certo di doverla segnare. Poi si avvicinò, arrendendosi all'evidenza.
'Belivies in ON'.
Si allontanò, scrutò la lavagna, si sedette. E lì rimase per lungo tempo, facendosi girare il bastone nelle mani, giocherellandoci, impasticcandosi un po'.
“House”
Il medico si volse, notando la ragazza che era entrata silentemente nello studio. Cameron notò subito la lavagnetta, scrutandola con attenzione.
“Allora, mi portate qualche omino dalla carnagione blu?”
“No, nulla del genere. Siamo ancora senza un caso.”
“Le malattie stanno iniziando a perdere fantasia.”
“La Cuddy vuole vederti.”
“Perchè?”
“E io devo renderti il cane.”
“Tienilo pure. Cosa vuole, la Cuddy?” House si levò in piedi
“Non ne ho idea”
“Hu-hu.” Si avvicinò a Cameron, pronto per uscire. L'immunologa era sempre ferma lì, a contemplare lo schema.
“Dovresti trovargli un posto migliore.” fece la dottoressa, scoccando un'occhiata ad House. Il medico mimò un sorriso contratto.
“Ti ho fatta venire su bene, a quanto vedo.”
“Tu non puoi crescerli”
“Tranquilla, non è mia intenzione.”
Cameron scosse il capo, espirando.
“Che cavolo ci fai con un vasetto di miele sul tavolo?” domandò, notato l'oggetto leggermente fuori luogo.
“Lo metto nel caffè. Lo zucchero ingrassa, dovresti saperlo.”














Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=195423