Another Neverending Story

di RubyChubb
(/viewuser.php?uid=11150)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Dream a dream and what you see will be ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - The answer is written on the pages of a Never-Ending Story ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


DISCLAIMER: i personaggi qua sotto citati, esclusi quelli di mia invenzione, non sono stati utilizzati per scopo di lucro. Né intendo dare con questa storia rappresentazione veritiera delle loro vite.  Anche il libro citato non è  stato utilizzato per scopo di lucro.

Another Neverending Story

CAPITOLO 1

 

Spinse con forza la porta di vecchio legno scuro e vetro. Una serie che pareva infinita di scricchiolii e mugolii accompagnò quel breve momento e, non appena anche l’ultimo centimetro del suo corpo fu all’interno, la richiuse. Uno tintinnio sottolineò la sua presenza: attaccati sulla porta, piccoli e di bronzo, delle piccole campanelle avevano suonato fin dal primo istante in cui la sua mano si era appoggiata sulla nera maniglia esterna.
Ansimando, sudato e bagnato della fredda pioggia, attese che ogni singolo rumore da lui provocato si chetasse, restituendo al luogo la serenità e la calma che lo contraddistingueva ancora da prima che lui vi irrompesse dentro.
Appena sentì l’avvicinarsi delle voci, ovattato dalla porta, che lo stavano seguendo, trattenne il fiato, preso di nuovo dal terrore. Ma si sentiva comunque salvo, lì dentro, in quel posto sconosciuto e mai visto prima. Si voltò, guardò attraverso il vetro opaco e le vide correre, andare dall’altro lato della strada, chiedersi dove fosse finito, e poi riprendere di nuovo a correre, come dei poliziotti in cerca del ladro di turno.
Solo che lui non lo era.
Non appena ebbero svoltato l’angolo, tirò un sospiro di sollievo, si voltò ed appoggiò la schiena alla porta. Che giornata di m…
Ma dove si trovava? Cos’era quel posto?
Si guardò intorno, ma gli ci volle qualche attimo per rendersi conto di essere dentro ad una vecchia libreria. Le luci erano così soffuse che i suoi occhi dovettero adeguarsi alla calda penombra. Le lampade, attaccate al muro e volte verso il basso, non sembravano avere molta voglia di illuminare quel posto.
Davanti a lui un piccolo corridoio, delimitato sulla destra da un muro e sulla sinistra dalle costole degli scaffali di legno, impolverati e stracolmi di libri. Un passo dietro l’altro, intimidito ed incuriosito, andò verso la grande poltrona di cuoio e legno che, dondolando impercettibilmente, dava le spalle ai benvenuti. Sul tavolo dietro alla poltrona, numerose ed alte pile di libri, illuminate da una piccola abat-jour.
Ogni tanto, un anello di fumo guizzava sopra la testa della seggiola, segno che qualcuno, un vecchio signore pelato e con piccoli occhialini sul naso, come se lo era immaginato, si stava riposando, seduto comodamente a fumarsi la sua pipa.
Ad un suo passo, il parquet scuro sotto ai suoi piedi cigolò. Si fermò, mordendosi il labbro, come farebbe un ladro che si faceva scoprire dai suoi rumori.
Il dondolio della poltrona cessò e, muovendosi su se stessa, rivelò il vecchio signore pelato con piccoli occhialini sul naso che aveva pensato vi si sedesse sopra. La sua giacca, di un grigio squallido, stava a malapena abbottonata sulla sua pancia. Sulle sue gambe, un libro chiuso, dalla copertina di cuoio, che sicuramente stava leggendo, a vedere dal dito che il signore vi teneva in mezzo. La pipa, che stava ancora tra le labbra, venne tolta, insieme agli occhialini rettangolari da lettura.
Quello che il vecchio signore vide fu un alto ragazzo, con cappellino da baseball e giacchetta di pelle, pantaloni di jeans strappati e scarpe da ginnastica. Notò gocce di acqua scendere rapidamente sulla sua giacca, fuori doveva essersi messo a piovere.
“Oh, buon dio.”, disse. Con un colpo d’occhio, aveva visto il codino scendere fuori dall’apertura posteriore del cappellino ed un paio di occhiali da sole retti dalla mano destra del ragazzo.
“Stammi bene a sentire, io non soffro i tipi come te, con i capelli lunghi e tanti stupidi pensieri in testa. Questo non è un posto per te, vattene.”, gli disse, con molta gentilezza, e tornò a dargli le spalle con la sua poltrona.
Il ragazzo rimase sbalordito, da quando in qua i clienti si trattavano in quel modo? Beh, il signore non aveva tutti i torti, lui non era proprio un cliente… giusto uno che aveva sfruttato il suo negozio appartato per sfuggire da…
“Ancora qui?”, sbottò l’omino, voltando di nuovo la sua poltrona, “Cosa devo fare per liberarmi di te? Cos’hai da dire?”
“Beh… a dire il vero niente.”, disse il ragazzo, sentendosi improvvisamente come il bambino intimidito dal professore burbero.
“I ragazzi della vostra età non hanno nemmeno un briciolo di educazione!”, sibilò il vecchietto panzuto.
“Non penso di essere così maleducato…”, provò a contraddirlo il ragazzo.
“Ah sì? E allora perchè non ti presenti?”
“Ehm…”, fece il ragazzo, come indeciso, “Mi chiamo Moritz.”
Il vecchietto lo guardò, socchiudendo gli occhi con fare indagatore.
“Moritz? Non sembravi tanto sicuro. E’ il tuo vero nome?”, borbottò, infilandosi la pipa in bocca e sbuffando un anello di fumo che pareva quasi perfettamente circolare.
“Beh… a dire il vero mi chiamo Georg… e poi Moritz.”
“Oh bene Georg. Io sono il signor Metternich.”, disse il vecchio, sorridendogli.
Ma l’uomo, da gentile che era diventato, si rabbuiò di nuovo.
“Cosa ci fai qua? Sei un ladro? Hai rubato qualcosa?”, borbottò stizzito.
“No no!”, si affrettò a dire il ragazzo.
“I tipi con i capelli lunghi, i calzoni strappati e le giacche di cuoio sono tutti ladri. Ora va’ via da questo negozio, prima che chiami la polizia!”
“Non sono un ladro! Mi creda, sono una persona per bene!”, cercò di convincerlo il ragazzo, “Stavo solo scappando da…”
“Dalla polizia, lo so, te lo leggo in faccia che hai svaligiato la cassa di un negozio.”
Brutto, vecchio e pure rimbambito!, pensò il ragazzo.
“Stavo scappando da… da alcune ragazze!”, disse, sentendosi infinitamente idiota, ma era la verità e quel signore sembrava avere il sesto senso per smascherare le bugie.
“Ah sì? Dalle ragazze! Ma quelli come te non scappano dalle ragazze, se le prendono a braccetto!”, disse, sghignazzando.
“Eh… fosse così facile…”, disse Georg, togliendosi il cappello e grattandosi la testa.
“Ma perchè fuggivi da loro?”, chiese il signore, ormai così interessato alla sorte di quel ragazzo che chiuse definitivamente il libro che stava leggendo e lo ripose sulla scrivania, coprendolo in parte con un giornale.
“Perchè… avevo dei… conti in sospeso con loro.”, disse il ragazzo. Era l’unica cosa che gli pareva sensata in quel momento. Non poteva mica dirgli che suonava in una  band famosa in tutta Europa e quelle ragazze lo stavano inseguendo perchè erano sue fans! Lui manco l’aveva riconosciuto.
“Sicuramente i tipi come te non si fanno scrupoli ad andare dietro a più di una ragazza contemporaneamente, non è vero?”, disse il signore, con sguardo ammiccante.
“Beh… diciamo di sì.”, rispose l’altro, quasi arrossendo. Gli pareva di stare a parlare con suo nonno…
“E i tuoi genitori cosa ne pensano?”, gli chiese l’uomo, congiungendo le mani ed appoggiandole sulla sua pancia sporgente.
“Mah… a loro va bene così.”, rispose, insicuro.
Il vecchio, prima di poter contrattaccare, fu attirato dal suono del telefono, che proveniva da uno studiolo. Vi si accedeva da una piccola porta, accanto al bordo sinistro della scrivania. Gli occhi del ragazzo seguirono il grassoccio signore finché non scomparve nella stanzina, chiudendosi la porta dietro di sé, poi si spostarono sull’ambiente circostante.
Tanta polvere, poca luce, libri vecchi: un posto per collezionisti ed appassionati, di sicuro, che non poteva competere con le mega librerie dei centri commerciali.
Incuriosito, passò in rassegna i volumi che stavano al primo posto sulle pile sopra la scrivania. Vi leggeva i nomi di alcuni dei più grandi classici dell’avventura, da ‘Robinson Crusoe’ a ‘Viaggio al centro della terra’, tutti in edizione centenaria, con copertine di cuoio e titoli in argento o oro.
Poi, la sua vista cadde sul libro, coperto per metà da un giornale ingiallito, che prima aveva visto sulle gambe del vecchio bibliotecario. Con la punta del dito, toccò il piccolo pezzo di metallo ricurvo che spuntava fuori dal suo nascondiglio. Poi, con un gesto rapido e veloce, scostò del tutto il giornale.
Esso rivelò un ovale, composto da due serpenti che si mordevano la coda, uno chiaro ed uno scuro, che contornavano il titolo: ‘La Storia Infinita’. Ah sì! Lo aveva visto tante di quelle volte da piccolo, il film! E gli era piaciuto anche parecchio, benché in quel momento non se lo ricordasse tanto bene.
Lui non era un gran lettore, non lo era mai stato, e non sapeva che il film fosse stato tratto dal libro. Quello davanti a lui aveva una copertina di cuoio di un rosso così scuro che pareva quasi sangue.
All’improvviso, come se una folle molla fosse scattata in lui, afferrò il libro con le mani e se lo mise sotto la giacca…
Andò verso la porta e, per evitare che anche il più piccolo rumore attirasse l’attenzione dello strano libraio, aprì la porta così piano e così poco che a fatica riuscì ad uscire. Poi, preso da un’infinita paura, iniziò a correre.
Perchè lo stava facendo? Lo aveva rubato! Era un ladro!
Si fermò, pensando che avrebbe fatto meglio a restituirlo seduta stante, scusarsi infinitamente e dimenticare tutta la storia. Non voleva venire denunciato dal vecchio scorbutico…
Eppure non lo fece. Spinto da qualcosa di sconosciuto che gli nasceva dentro, riprese a scappare.
Corse, corse e corse di nuovo, scusandosi con ogni persona che urtava lungo il suo tragitto. Gli ci volle un po’ prima di rendersi conto dove si trovasse: per seminare quelle idiote si era infrattato nei peggiori vicoli. Una volta ritrovata la strada principale, concluse la sua corsa, lontanissimo dal vecchio negozio. Riprese fiato e tornò al suo passo normale.
Sotto la giacca di cuoio quel libro.
Individuò la porta del palazzo e, affrettando solo leggermente il passo, vi entrò dentro, salutò velocemente con un gesto della testa i due portieri ed andò verso l’ascensore. Premette il pulsante del decimo piano.
Sentiva l’impulso irresistibile di prendere il libro ma doveva provare con gli altri. Comunque,  se non fosse stato il primo ad arrivare, sarebbe stato il secondo, dopo Gustav, e le prove non sarebbero iniziate prima di una mezz’ora buona… forse avrebbe avuto il tempo per leggersi almeno un paio di capitoli. Tra meno di un mese sarebbe iniziato il tour europeo, dovevano mettersi sotto così tanto con le prove che avevano ridotto al minimo ogni loro comparsata al di fuori della sala prove. Tutti giorni provavano dalle quattro alle sei ore, quasi ininterrottamente…
Una volta fuori dall’ascensore, andò verso la grande porta di legno ed acciaio, suonò il campanello ed entrò dentro. Salutò velocemente tutti coloro che lavoravano per loro, per il gruppo, per i Tokio Hotel, e si chiuse dentro alla sala relax.
Non c’era ancora nessuno.
Guardò l’orologio.
Cazzo! Era di ben un’ora di anticipo!
Non se lo spiegò bene come poteva essere arrivato lì con tutto questo scarto temporale, ma se ne fregò altamente, aveva il suo libro da leggere…
Lo osservò di nuovo, lasciando che la punta del suo dito indice vi scorresse sopra. Il cuoio della copertina era liscio come il vetro, ma caldo, sia nel colore che al tatto. I caratteri del titolo erano stampati in rilevo, di un oro un po’ sbiadito e i due serpenti che lo contornavano erano decorati con dei piccoli taglietti che si incrociavano, per dare il senso delle squame della pelle di questi rettili.
Aprì il libro e l’odore della vecchia carta subito lo investì. Lui, che si era già detto non essere mai stato un gran lettore, si stupì nel pensare a quanto fosse buono quel profumo, tanto che prese una manciata di fogli e li fece scorrere velocemente tra le dita, per farsi pervadere.
Era il momento di leggere.
Sfogliò via la prima pagina, dove c’era riproposto il titolo del libro ed il nome del suo autore Michael Ende. Il prologo si apriva con una scritta al contrario, che dovette sforzarsi a leggere, che diceva: ‘Antiquariato’, e continuava con la storia del bambino che entrava dentro a quel negozio perchè inseguito dai bulli della sua scuola.
Alzò gli occhi, lontani dalle parole scritte. Che analogia! Anche lui si era trovato a fuggire via, ma non dai bulli, dalle sue fans! Bizzarro, pensò, ridendo tra sé e sé.
Riprese la sua lettura e si stupì ancora di più… il dialogo tra il bambino, un certo Bastian, ed il burbero libraio gli ricordò quello che lui stesso aveva avuto con il vecchietto scorbutico. Il ragazzetto, poi, rubò il libro così come lui aveva fatto.
“Cazzo…”, borbottò Georg, “Questo si che si chiama plagio!”
Sorrise, leggendo il titolo del primo capitolo: ‘Fantàsia è in pericolo’. Sotto di esso, una grande A, immersa in arabeschi e fiorellini.
E così si addentrò nel mondo di Fantàsia.
Quattro furono i primi personaggi di cui si parlava, in quel capitolo. Un Fuoco Fatuo, una piccola palla luminosa contenente all’interno un messaggero, un piccolo omino, di nome Blubb. Un Mordipietra, cioè una gigante fatto di pietra, che pietra mangiava e pietra usava per costruirsi ogni oggetto, di nome Piornakzac, in sella ad una bicicletta, fatta appunto di pietra. Un Minuscolino, di mone Ukuk, un ometto finissimo, con in testa un grande cappello rosso ed a cavallo di una lumaca da corsa; infine un Incubino, un grosso bruco con una folta pelliccia, nera come la pece, ritto in piedi e con manine piccole, accompagnato dal suo pipistrello.
Ognuno di questi personaggi… come poteva non avere una faccia a lui conosciuta? Sorrise nel pensare a Gustav come al Mordipietra, entrambi amanti della bicicletta; a Tom come al Minuscolino, con i loro cappelli ed Bill come all’Incubino, con le loro ‘pellicce’ nere. Sembravano fatti apposta!
Seppe che ognuno di loro era in viaggio, erano dei messaggeri, e che dovevano recarsi alla Torre d’Avorio. Sì, se la ricordava com’era nel film, una lunga torre altissima, tutta color panna, con in cima una grande terrazza, al cui centro vi stava il bocciolo di magnolia, la casa dell’Imperatrice Bambina, o Infanta Imperatrice, come si leggeva nel libro.
Ognuno di loro doveva dirle che piccoli e grandi pezzi delle loro terre erano scomparsi, volatilizzati nel nulla. Già, il Nulla, quel male misterioso che stava colpendo tutti i paesi di Fantàsia, da quello più sconfinato a quello più vicino, e che inghiottiva lentamente ogni cosa.
Lesse anche di come, nel secondo capitolo, intitolato ‘La chiamata di Atreiu’, questi quattro messaggeri seppero della strana malattia che aveva colpito l’Imperatrice Bambina e di come nessun medico, nemmeno il più saggio di tutta Fantàsia, il centauro Cairone, seppe dire quale fosse, tranne che aveva un nesso misterioso con quel Nulla che stava annientando il loro mondo. Sì, più o meno anche il film narrava la storia in quel modo, se lo ricordava.
Lanciò un’occhiata veloce all’orologio, era già passata un’ora. Almeno Gustav doveva già essere arrivato. Sugli altri due non ci contava molto: erano sempre, perennemente, instancabilmente, definitivamente in ritardo.
Tornò sul suo libro e alle vicende di Cairone che, munito dell’amuleto, affidatogli dalla stessa Infanta Imperatrice, Auryn, che altro non era il simbolo metallico fisso sulla copertina, partì alla ricerca di un certo Atreiu. Era stato lei stessa a rivelargli quel nome: gli aveva chiesto di trovarlo, di dargli Auryn e di spiegargli qual era il suo compito: vagare per Fantàsia, senza meta e senza armi, munito solo dell’amuleto, per scoprire quale era la cura per la sua malattia, dato che nessuno pareva saperlo.
“Questa me la devo segnare!”, sentì esclamare, nelle sue vicinanze.
Gustav, in piedi, a bocca aperta ed occhi stupiti, lo stava guardando leggere.
“Che c’è? Cosa ho fatto?”, fece Georg, perplesso.
“Stai leggendo… non te l’ho praticamente mai visto fare, a meno che non si trattasse di un giornale o di un manuale di istruzioni d’uso.”
“E piantala! C’è sempre un buon momento per iniziare!”, esclamò Georg, lievemente infastidito.
Gustav, percepito la sua stizza, si zittì, sedendosi nel divano di fronte a Georg, che intanto aveva ripreso a leggere. Afferrò la bottiglia di coca cola che stava appoggiata, ancora inviolata, sul tavolino accanto al bracciolo del suo divano e, dopo averne versata un po’ in un bicchiere, la bevve, leggendo il titolo del libro che tanto stava interessando il suo amico bassista.
“La storia… ma dai! Stai leggendo ‘La storia infinita’! E’ un libro per bambini!”, sbottò, meravigliato dal tipo di lettura poco consona alla venticinquenne età dell’altro.
“E allora?”, disse Georg, senza distogliere gli occhi.
“Mah… almeno è interessante?”
“Sì, finchè non sei arrivato tu a rompermi i coglioni!”, proruppe Georg, “Mi vuoi lasciare in pace?”
“Ok! Ok!... non ti scaldare.”, disse Gustav. Si poteva vedere uno che si incazzava per uno stupido commento su di un libro? Innervosito, uscì dalla sala relax, chiudendosi nella sala prove per iniziare a riscaldare le mani.
Poco pentito della sua reazione, Georg lasciò perdere il suo amico, concentrandosi di nuovo nella lettura.
Cairone era arrivato nella terra del Mare Erboso, così lontana dalla Torre d’Avorio che aveva dovuto correre per dieci giorni e dieci notti, quasi ininterrottamente. In quella terra vivevano cacciatori bravissimi, dai capelli nero bluastri e dalla pelle scura, del colore delle olive. Sia Georg che lo stesso Cairone, si aspettarono di trovarsi davanti ad un imponente uomo, valoroso e potente, ma invece Atreiu non era altro che un bambino.
“Un bambino?!?”, esclamò, così come Cairone.

Mpf! Così diventava un po’ troppo inverosimile… ma se non ricordava male anche nel film Atreiu era un bambino, un ragazzino. Eppure, nonostante la sua giovane età, Atreiu accettò e…
“Vaffanculo!”, sentì gridare. Proveniva dal corridoio, appena fuori la porta della sala relax.
“No vaffanculo un cazzo!”, fu la risposta.
“Sei un cretino, un deficiente e un pezzo di merda!”
“No! Sei tu un cretino, un deficiente e un pezzo di merda!”
La porta della sala relax fu spalancata di botto ed entrò un Bill a dir poco imbufalito, rosso in faccia e con le vene del collo pulsanti. A ruota, Tom, ancora più imbestialito.
“Sei un coglione!”, gli disse Bill, “Un imbecille! Vengo mai a frugare nelle tue cose?”
“Sì che ci vieni!”, ribatté Tom.
“No che non ci vengo perchè rispetto la tua privacy! E tu devi imparare a rispettare la mia!”, gli gridò in faccia, puntandogli un dito sul naso.
Georg, impossibilitato nel continuare la lettura, chiuse il libro, toccandosi stancamente le tempie. Avrebbe voluto prendere un cartello e scriverci sopra ‘Levatevi dal cazzo’, ma intorno a lui non c’era niente per poter realizzare quell’attacco d’arte.
“Non ti azzardare mai, e dico, mai più a mettere le tue manacce unte tra le mie cose, chiaro?”, ripeté Bill al fratello, che evidentemente si doveva essere macchiato del reato di violazione della proprietà privata di Bill.
“Hai rotto i coglioni Bill! Non puoi stare sempre a fare il dittatore!”, esplose Tom.
Georg iniziò a contare i proverbiali dieci secondi prima di parlare. Prese un profondo respiro e poi cercò di attirare l’attenzione dei due fratelli coltelli con un colpo di tosse.
“Ah… ciao Georg.”, disse Bill, notando distrattamente la sua presenza sul divano.
“Disturbiamo per caso?”, chiese Tom, con educazione.
“Mah…”, rispose Georg, facendo spallucce.
“E QUINDI VAFFANCULO TOM!”, gridò Bill, con tutto il fiato che aveva in gola, dopo aver interpretato il ‘mah’ di Georg come un no. Uscì a grandi passi dalla sala relax, lasciando il fratello nell’impossibilità di contrattaccare efficacemente. Tom, dopo aver stretto i pugni tanto da farsi sbiancare le nocche, si buttò sul divano, a braccia incrociate e viso imbronciato.
Silenzio di tomba.
Georg rilassò la schiena, contento della fine dell’animata discussione. La pelle del divano, sotto al suo peso, scricchiolò.
“Fatti i cazzi tuoi Georg!”, sbottò Tom.
“Ma io non ho detto nie….”
“FATTI I CAZZI TUOI!”, urlò Tom, alzandosi di scatto e precipitandosi fuori dalla stanza, sbattendo la porta lasciata aperta dal tornado Bill.
Il quadretto appeso sul legno dell’uscio, che recitava la scritta ‘Sala relax’, cadde. Georg sentì il vetro rompersi, fare ‘crack’ ed andare in mille pezzi.
Quale reale metafora poteva esprimere al meglio la sorte dei Tokio Hotel, se non quella?
C’era poco da spiegare, a parte il fatto che da un mese a quella parte non tirava aria buona tra di loro. La stanchezza, lo stress, il nervosismo avevano preso il sopravvento, lasciandoli quasi senza fiato. C’era chi reagiva bene, come lui o come Gustav, che cercavano sempre di mantenere il controllo finchè potevano. C’era che reagiva male, come i due Kaulitz, che esplodevano per un nonnulla.
E poi c’erano tutte le pressioni della casa discografica, l’album che non stava vendendo bene come gli altri, il tour in preparazione, le voci di una possibile crisi che prendevano sempre più piede, la stampa che ricamava pizzi e merletti sulle loro vicende private.
Una vacanza?
Ne avevano bisogno.
Progetto fattibile?
Mmh… certo che no.
Lavoro, lavoro, lavoro.
Stress, stress, stress.
Incazzamenti, incazzamenti, incazzamenti.
Si alzò dal divano per andare a raccogliere i vetri del quadretto e per riappenderlo alla porta. Il libro, benché molto più allettante delle prove, doveva essere abbandonato per un po’.

 

Le prove si conclusero nel giro di un’ora perchè Tom, che ancora aveva da smaltire l’incazzatura, se l’era presa a morte con Gustav, accusandolo di aver sbagliato tempo in un paio di canzoni. Dopo un battibecco durato all’incirca trenta secondi, in cui ebbe la meglio Gustav, i ragazzi decisero di interrompere definitivamente le prove, non era proprio giornata.
Uno alla volta, i duellanti uscirono dalla sala prove, facendo a gara a chi sbatteva di più la porta. Bill, seduto sul suo sgabello, era intento ad ignorare il mondo circostante e correggeva alcuni spartiti con una matita. Memore dello scricchiolio del divano, che aveva causato l’esplosione dell’ennesima bomba atomica, Georg cercò di riposare il suo basso senza fare il benché minimo rumore.
“Dove vai?”, gli chiese Bill, senza però abbandonare i suoi fogli.
“Beh…”, balbettò Georg. Ogni risposta poteva scatenare un’altra guerra mondiale, “Pensavo di tornarmene in sala relax.”
“Ah…”, fece l’altro, mettendosi la matita in bocca e concentrandosi sugli spartiti.
“Hai bisogno di una mano per qualcosa?”, gli chiese.
“No, grazie.”, disse Bill, storpiando le parole per via della matita.
“Va bene.”, fece Georg, avvicinandosi alla porta.
“Se vedi Tom mandalo a fanculo da parte mia.”, gli disse, poco prima che uscisse.
“Ok, riferirò… messaggi per Gustav?”
“E’ un coglione, aveva ragione Tom, ha sbagliato il tempo in due canzoni.”, disse Bill, riponendo i fogli sul leggio.
“No, non ha sbagliato, perchè anche io seguivo il suo stesso tempo, che è quello che avevano deciso insieme.”, ripeté Georg, usando più o meno le stesse parole utilizzate appena qualche secondo prima da Gustav.
“Alla fine avevamo stabilito di farla più lenta, non veloce in quel modo! Sembra un pezzo da sala da ballo, non da Tokio Hotel!”, esclamò Bill, prendendo la parte di suo fratello.
“Sì, ma poi avevamo provato con il nuovo tempo e sembrava troppo smielata!”, ribatté Georg.
“Io quello non me lo ricordo!”, si giustificò Bill, ormai alterato ed in cerca di un nuovo scontro.
“Io sì, quindi la prossima volta prendetevi un po’ di fosforo, tu e tuo fratello!”, disse Georg, rimanendo comunque calmo ed uscendo dalla sala prove.
Che palle, disse tra sé e sé.
Tornò nella sala relax a riprendersi il libro. Voleva solo tornarsene a casa e passare tutto il pomeriggio da solo, in compagnia di un qualche videogioco. Non voleva nemmeno pensare alla brutta giornata che stava vivendo, solo sfinirsi le dita sul joystick… e magari leggere ancora, ma tanta era la rabbia che aveva dentro che non ne aveva più voglia.
Non avvertì nemmeno gli altri, scese al piano terra e chiese ai due portieri di chiamargli un taxi. Dopo mezz’ora, era seduto sul tappeto, davanti al maxischermo, a giocare a Tomb Raider.





Arieccoce qua, a pubblicare la nuova storiella! Eheheh, ci ritroviamo dopo poco meno di un mese, con un nuovo protagonista, Georg. Dopo aver dedicato un'intera trilogia a Tom ed anche un'altra storia singola, credo che sia sufficiente!
Eeeeehhhh Giorgino *me sospira*
Ma passiamo a spiegare alcune cose: innanzitutto questa fanfiction sarà un po' strana, intendo nella trama. Sarà concentrata totalmente su di Georg, il punto di vista sarà esclusivamente il suo, ho escluso tutti i pensieri degli altri dalla narrazione. Protagonista assoluto quindi, tutti i fatti saranno sottoposti al suo unico giudizio... ma non è questa la cosa 'strana' di questa fanfiction, ed è qui che arriva il bello...
Ho il grande timore che troverete la storia del tutto assurda e senza fondamento. Non posso spiegarvi esattamente in quale senso, perchè altrimenti vi rivelerei come si evolve, ma ho continuamente questa paura. Indi per cui vi chiedo, ora come mai ho fatto prima, di essere del tutto obiettive nelle vostre recensioni, dirmi dove pecco, dove sbaglio e dove la storia non vi piace, dove vi sembra assurda e totalmente irreale. Non mi offenderò assolutamente of course XD anzi, mi serviranno per capire dove sbaglio!

In due occasioni ho riportato dei frammenti microscopici di libro, specificatamente nel prossimo capitolo e anche più avanti. Se andassi contro le regole del sito, ditemelo così vedo di arrangiarmi. L'ho fatto senza scopo di lucro, nè con l'intenzione di violare alcun copyright.

Ovviamente ringrazio tutte quelle che hanno recensito l'ultimo capitolo di 'Time and Destiny'... sniff sniff... tiro su la lacrimuccia e lascio i miei figlioli camminare lungo il viale del tramonto tenendosi mano nella mano...

Vi lascio, per adesso, in attesa del prossimo capitolo e spero vivamente che questo inizio  abbia stuzzicato la vostra fantasia.


....Perchè la Storia Infinita sta dentro la Storia Infinita....

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

 

Dopo essersi divorato letteralmente una pizza formato gigante con doppia mozzarella e doppia salsiccia, si sdraiò sul letto, sentendosi pieno come l’arca di Noè. Aveva passato tutto il pomeriggio a giocare ininterrottamente e ora, con la testa e gli occhi stanchi, avrebbe voluto solo dormire, ma soprattutto, dimenticare la giornataccia appena passata, senza pensare che la successiva sarebbe stata addirittura peggio. 
Se David avesse saputo cosa era successo, cioè che non avevano fatto altro che litigare, si sarebbe incazzato a sua volta…
Sentì il cellulare squillare prepotentemente dal salotto e, con riluttanza, andò a rispondere.
"Oh cavolo!", esclamò, quando vide da chi proveniva la chiamata… Helen, la sua ragazza, o meglio, quella con cui si frequentava da tre mesi, o giù di lì. Titubante, rispose.
“Pronto?”
Lo sapevo che te ne saresti dimenticato, lo sapevo!”, esclamò lei, appena l’ultima lettera venne pronunciata.
“Scusami Helen, ma oggi è stata una giornata tremenda!”, provò a giustificarsi Georg.
Non me ne frega niente! Ti dimentichi tutto!”, continuò lei, che ormai era partita per la tangente.
“Dai, Helen, capiscimi… lo sai che non è un periodo facile, che siamo sempre stressati e sotto pressione…”
Non sai lasciarti il lavoro alle spalle? Non sai chiudere i tuoi problemi fuori dalla nostra vita?
“Mi cambio e vengo.”, le disse, cercando di farla contenta.
No, guarda, puoi rimanere a casa!”, ribatté lei, chiudendo la chiamata.
Buttò stancamente il telefono sul divano e se ne tornò in camera, trascinandosi i piedi dietro. Ecco, poteva la sua giornata non concludersi con un’ultima discussione con Helen? Apparentemente no. Quella sera avevano programmato di passare la serata al cinema, a vedersi l’ultimo film di Spielberg. A parte il fatto che se n’era veramente dimenticato, non ne aveva nemmeno molta voglia.
Giornata di merda, trasformatasi in giornata del cazzo. Poteva solo starsene a letto, almeno in quel modo non avrebbe litigato con nessuno. Anche se erano le nove, spostò le coperte e, dopo aver sistemato i cuscini per rendere la sua seduta più comoda, si mise a guardare cosa proponeva la pay tv…. Dopo cinque minuti di zapping selvaggio, lo schermo diventò nero. Abbandonò il telecomando e, dopo aver avvicinato le gambe al petto, si mise a guardare il soffitto.
Niente sonno, niente in tv, niente di niente.
A meno che…
Uscì dalla camera e se ne tornò in salotto. Appoggiato sopra il divano, il libro.

Si rinfilò sotto le coperte e riprese la lettura.
Capitolo 3, ‘La vecchissima Morla’.
Ritrovò Atreiu, sul suo cavallo Artax, che correva senza direzione, senza meta, ma con uno scopo ben preciso. Trovare una cura per l’imperatrice. Si ricordava della scena che stava per leggere. La palude della tristezza… se non pensava male, il cavallo Artax stava per morire, inghiottito dalla melma della palude, che divorava chiunque si facesse prendere da tristi pensieri.
Ed infatti, dopo poco accadde. Poi lesse di come Atreiu parlò con Morla, la millenaria e scorbutica tartaruga, l’unica che sapeva quale fosse la cura per la regina. Lo aveva scoperto in sogno, glielo aveva detto il Bufalo Purpureo, l’animale che aveva sempre cacciato per sfamare il villaggio.

‘Tu hai la vita breve, piccolo, noi abbiamo la vita lunga. Troppo lunga. Ma viviamo nel tempo. Tu per poco, noi per molto. L’infanta Imperatrice no. Lei c’era già prima di noi. Ma non è vecchia. Lei è sempre giovane. Già, guarda un po’. Lei non vive nel tempo, ma nei nomi. Ogni tanto ha bisogno di un nume nuovo. Sicuro, ha sempre bisogno di nomi nuovi.’, lesse dalle pagine del libro.
Un nome nuovo?

‘Aspetta’, gridò Atreiu, ‘da dove prende i nomi nuovi? Chi le può dare un nome? Dove posso trovare un nome?’.
‘Nessuno di noi’, udì il gorgoglio di Morla, ‘ nessuna creatura di Fantàsia può darle un nome nuovo. Perciò è tutto inutile.’

Se era uno degli abitanti di Fantàsia a poterle dare un nome, non si sarebbe chiamata ‘La storia infinita’… 
Cercò di tornare con la mente al film, per cercare di capire quale sarebbe stata la soluzione di quel racconto, ma non si ricordava chi poi, alla fine, avrebbe dato un nome nuovo all’imperatrice.
Sbadigliò.

‘Ma chi allora?’, gridò Atreiu fuori di sé, ‘Chi allora può darle un nome e salvare tutti noi?’
Ecco, quella era una domanda sensata.
‘Non fare tanto baccano!’, fece Morla, ‘Lasciaci in pace e vai via. Neanche noi sappiamo chi può farlo.’
Eh, ma che palle!
‘Dimmi chi lo sa, e ti lascio in pace per tutta l’eternità.’
‘Ma che importa, tanto fa lo stesso.’, rispose, ‘Forse Uyulala dell’Oracolo Meridionale.’

Che stronza quella tartaruga gigante… se lo sapeva, perchè non glielo diceva e basta!
Sbadigliò ancora, i suoi occhi lacrimarono pesantemente.

‘Non ci puoi arrivare in nessun caso, piccolo. Non in diecimila giorni di viaggio. La tua vita à troppo breve per questo.’
Le sue mani persero forza e il libro cadde su di un lato.
Si era addormentato…
 

Sentì un rumore strano.
Poi di nuovo silenzio.
Poi ancora quel rumore.
Poi più niente.
Un’altra volta. Che rumore era? Pareva un animale.
Un nitrito?
Aprì gli occhi, attirato.
A due centimetri dalla sua fronte le narici di un cavallo. Si alzò di scatto a sedere e si guardò intorno, appena i suoi occhi furono capaci di distinguere le forme ed i colori. Tanta erba, tantissimo verde. Steli lunghi, alti, color smeraldo che si muovevano, ondeggiando come in una danza orientale.
Si mise in piedi, chiedendosi dove si trovasse. Intorno a lui colline, pendii e pianure di erba verde, come onde del mare… era nel Mare Erboso.
Un colpo sulla sua spalla. Si voltò.
Un maestoso cavallo bianco, senza sella, senza briglie. Era così alto e così muscoloso che pareva il più grande cavallo che avesse mai visto in vita sua… Artax?
Gli venne da guardarsi addosso. Aveva solo un gilet di pelle scura e pantaloni dello stesso colore, era scalzo. Un peso sulle sue spalle. Una faretra piena di frecce ed un arco. Era diventato… Atreiu?
…..
Ma che cazzo di sogno era?
Il cavallo nitrì di nuovo, si alzò sulle sue forti gambe posteriori e ricadde pesantemente sul suolo, facendolo vibrare sotto il suo peso. Pareva scosso ed agitato, si muoveva a piccoli passi a destra ed a sinistra, scuotendo la coda. Era molto nervoso
Era tutto così reale… l’odore dell’erba fresca, del cavallo, del cuoio dei suoi vestiti…
Un grido lontano.
Pareva avvicinarsi sempre di più a lui.
Guardò verso la direzione in cui pensava provenisse. Non appena la sua vista si mise a fuoco, represse a malapena una risata. Poi sentì la paura salire piano piano… piano piano… sempre di più.
“Laaaaadddddrrrroooooo!”, sentiva l’eco della voce del vecchio e bisbetico libraio.
Era lui che si stava avvicinando a corsa, brandendo un giornale arrotolato, e sembrava volerlo raggiungere per prenderlo a bastonate. Correva a grandi passi, sembrava quasi saltare, ed era sempre più vicino.
“Ridammi il mio libro! Ridammi il mio libro!”, prese ad urlargli, prima che Georg, con un’agilità che non si aspettava di avere, balzasse sulla schiena nuda del cavallo e, aggrappatosi alla sua bianca criniera, partì al galoppo…
Il tonfo del libro caduto a terra gli fece accendere la mente, risvegliandolo dal sogno. Stette per qualche secondo imbambolato, doveva trovare le forze per rendersi conto di nuovo dove si trovasse.
Era in camera sua.
Riconosceva il soffitto rosso scarlatto.
Tirò un sospiro di sollievo.
Si stiracchiò le braccia allungandole sopra la testa e, dopo un paio di sbadigli, si sporse dal letto e raccolse il libro.
Sogno del cazzo, pensò.
Ma era meglio restituire ciò che aveva sottratto con l’inganno.
O il libraio lo avrebbe preso a giornalate.

 

***

 

Si svegliò tardi, con la testa che pulsava e la schiena indolenzita. Non aveva dormito per niente bene, era stato tormentato tutta la notte dal libraio vendicatore, con il suo giornale arrotolato assassino.
Dio, che palle! Doveva perdere il sonno la notte per un cazzo di libro vecchio e ingiallito? Era meglio liberarsene, restituirlo al suo legittimo proprietario, per scacciare via tutti i rimorsi e tutti i brutti pensieri. Non aveva mai rubato, nemmeno una caramella. E non si era sentito tanto in colpa per quel gesto fino a quel momento.
Sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto quel giorno. Non voleva mica distruggersi la vita per un libro maledetto, e per di più stupido nella trama!
Questa Imperatrice Bambina che aveva bisogno di un nome nuovo per guarire, questa assurda Fantàsia che non riusciva ad immaginarsi perchè, appunto, troppo assurda!
Caro Michael Ende, poteva scrivere qualcosa di meglio, invece di un libro cretino. Poteva darsi all’ippica!
Doveva scusarsi con Gustav, prostrarsi pentito ai suoi piedi, con la testa cosparsa di cenere ed i ceci sotto le ginocchia… altro che libro per bambini! Gli stessi marmocchi avrebbero fatto una sonora pernacchia in faccia all’autore, se non fosse morto da anni.
Si preparò, salì in macchina, una due posti argentata, e partì alla ricerca della libreria polverosa da cui lo aveva rubato. Gli venne il dubbio di poterla rinvenire di nuovo… ora che ci pensava, l’aveva trovata per caso, sfuggendo da un trio di stupide scimmie urlanti che non avevano voluto saperne di accontentarsi di un autografo.
Si avvicinò al centro vecchio della città, lasciò la macchina da una parte e si mise alla ricerca della libreria. Aveva due ore di tempo per trovarla, poi doveva tornarsene alle prove. Si avventurò tra le strade di pietra, strette tra vecchi edifici, calandosi il cappellino sugli occhi e nascondendosi dietro ad una sciarpa nera e ad un paio di occhiali da sole.
Dopo diverse svolte si sentì perso, non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, aveva smarrito tutti i punti di riferimento… merda! Tutto era deserto, erano le nove di mattina, nessuno pareva intenzionato a mettersi sulla sua stessa strada.
Cazzo!
Girò a sinistra, poi a destra, poi ancora a destra e per tre volte consecutive a sinistra. Gesù… si era totalmente perso nel centro vecchio della città. E per di più, stava per mettersi a piovere!
Non sapeva proprio da che parte andare, oramai poteva solo sperare di uscire fuori da quel dedalo di strade. Prese la prima a destra.
Eccola lì.
La porta del negozio. Alla fine ci era riuscito…
Mise il libro sotto alla giacca, non doveva fargli prendere acqua. Affrettò il passo e ristudiò mentalmente tutto il discorso che si era preparato per scusarsi con il vecchio libraio. Prese la maniglia, recitò l’ultima preghiera e la spinse, sentendo il rumore dei campanellini che avvisavano del suo arrivo.
Era dentro.
Ormai nulla più poteva salvarlo dal giornale arrotolato.
La poltrona stava ancora dove l’aveva lasciata, voltata. Sicuramente c’era il signor Metternich seduto sopra… magari aveva già fatto la denuncia appena si era accorto del furto, magari aveva già la polizia alle calcagna, magari lui l’aveva veramente riconosciuto ieri ma non glielo aveva detto, magari stanno già pubblicando su tutti i giornali la sua foto con scritto sotto ‘ladro di libri per bambini’…
Ebbe l’improvvisa voglia di fuggire via di nuovo ma, cazzo, era un uomo! Doveva prendersi le sue responsabilità!
Si tolse il cappello e lo infilò dentro la tasca del suo giubbino di pelle. Allentò la sciarpa e si mise gli occhiali sulla testa. Dopo essersi schiarito la voce, iniziò a parlare alla poltrona voltata.
“Signor Metternich… buongiorno, sono il ragazzo di ieri… quello che lei pensava fosse un ladro eccetera eccetera…”, prese a dire, poi il buio. Non si ricordava più niente del perfetto discorsino da bimbo pentito che si era costruito mentalmente mentre si faceva la barba. Tolse il libro da sotto il suo riparo.
“Insomma, sono venuto a riportarle il libro. Lo so che ho fatto una cosa stupida, me ne pento veramente, ho fatto una cavolata e… se il libro si fosse sciupato, se lo avessi danneggiato in qualche modo me lo dica, me lo faccia sapere, potrei finanziare la sua restaurazione… potrei trovargliene un altro, i soldi non sono per me un problema. Mi basta solo sapere che lei non mi abbia denunciato, perchè altrimenti sarei davvero nei guai, mi creda, sarei veramente con la…”
Un colpo di tosse alle sue spalle lo distrasse completamente dal suo flusso ininterrotto di pensieri e parole.
Si voltò.
Un paio di occhi chiari, dietro a lenti cerchiate di lilla. Una treccia nera che pendeva quasi inanimata dalla spalla destra. Un libro, tenuto con entrambe le mani, sul petto.
“Posso far parte, almeno io, del pubblico del suo monologo?”, gli chiese la ragazza.
Georg la guardò perplessa.
“Beh… ehm…”, prese a balbettare.
“Cercava il signor Metternich, per caso?”, domandò di nuovo lei.
“Sì…”, disse Georg.
“Non c’è.”, rispose lei.
“E… quando potrei… trovarlo?”, fece lui, comprendendo dell’enorme figura del cavolo che aveva fatto. Avrebbe voluto sotterrarsi in quell’istante, lì, sotto il parquet scricchiolante della libreria.
“Non credo che torni più.”, rispose lei, secca e decisa.
“Ah…”, fece Georg, spiazzato completamente dalla sua risposta, “E… e… come mai?”
“Oggi c’è il suo funerale.”, disse la ragazza, abbassando gli occhi.
Cazzo.
Merda.
“Mi dispiace tanto… io non lo sapevo che… fosse morto.”, prese a balbettare Georg.
“Gli è preso un infarto quando ha scoperto che gli avevano portato via il suo libro preferito.”, disse lei, con lo stesso tono di voce che aveva sempre utilizzato, cioè perfettamente atono e senza sfumature.
Cazzo!
Merda!
L’aveva ammazzato lui!
Ed era venuto a tormentarlo da morto nel sonno per vendicarsi!
Ora avrebbe vissuto per sempre con il terrore di addormentarsi per non vederlo più agitare il suo giornale arrotolato!
Oh cazzo…
Oh merda!
“Stavo scherzando!”, esplose la ragazza, vedendo la faccia del cliente sbiancare di colpo e diventare quasi trasparente, “E’ più vivo e vegeto di me, mio nonno sopravvivrà ai suoi stessi nipoti!”
Cazzo…
Merda…
Il nonno libraio era sempre vivo.
Ma la nipote l’avrebbe uccisa Georg Moritz Hagen Listing con le sue stesse mani!
“Cavolo… mi ha fatto prendere un accidente!”, disse, mettendosi una mano al petto per evitare di mettergliela intorno al collo. Provò anche ad accennare ad un sorriso, ma sapeva che risultava più come una smorfia di odio.
“L’ho visto!”, disse lei, continuando a prenderlo in giro, “Cioè, le ho detto una mezza verità, a mio nonno è preso veramente un infarto quando ha visto che il suo libro non era più al suo posto! Ma era perchè lo avevo preso dallo scaffale, senza dirglielo, e me lo ero portato a casa!”
Ah…
Oltre al danno anche la beffa, pensò Georg. Quando lei gli aveva detto del libro preferito volatilizzato, aveva automaticamente pensato al suo furto…
Sentiva l’antipatia per quella ragazza aumentare fino alle stelle.
“Piuttosto… di cosa stava parlando prima? Ero intenta a rimettere a posto alcuni volumi, quindi non l’ho sentita molto bene.”, disse lei, tornando seria.
“Io? Ehm…”, disse Georg. Gli era stata data un’opportunità per redimersi… “Sono venuto a restituire questo libro. Lo avevo preso in prestito ieri ma…”
E l’aveva totalmente sprecata inventandosi una bugia…
“Ah… ma questa non è una biblioteca… è un negozio.”, disse la ragazza, prendendo il libro dalle mani di Georg ed esaminandolo.
“Beh sì ma… vede, mi ero messo d’accordo con suo nonno per prenderlo in prestito… e se mi fosse piaciuto lo avrei comprato.”, cercò di rimediare Georg.
“Capisco… ”, disse lei, che per tutto il tempo che lo aveva avuto in mano lo aveva controllato in ogni particolare, girandoselo sotto gli occhi.
Inquadrandola bene, quella ragazza poteva essere la rappresentante nazionale della categoria ‘bibliotecarie brutte’. Chiusa nel suo golf giallino, abbottonato fino al collo e in un paio di pantaloni di jeans un po’ larghi, non era per niente una bella ragazza.
“Ok… adesso avrei da andare… sono un po’ in ritardo.”, disse, ricambiando il sorriso ed andando verso la porta.
“Sì bene… che nome devo dire di lei a mio nonno?”, chiese la ragazza.
Georg ci pensò bene…
Cioè, non ci pensò affatto, perchè quella domanda significava che lei proprio non l’aveva riconosciuto! Il nonno era vecchio, era giustificato… ma lei! Era giovane, doveva avere più o meno la sua solita età, doveva pure averlo riconosciuto!
Però, nel penombra di quel negozio ammuffito, sicuramente nemmeno uno dei sui omonimi più celebri di lui, Gorge Clooney, poteva venire identificato con facilità.
“Gli dica di Moritz. Arrivederci!”, esclamò mentre apriva la porta.
L’arrivederci di lei fu sovrastato dalle campanelline di bronzo attaccate al legno. Uscendo fuori dal negozio, gli tornò in mente da che parte andare e, dopo dieci minuti, era già a bordo della sua macchina, diretto verso la sala prove.
Era così bello essersi lavato di dosso ogni colpa!


 

Secondo capitolo pronto!

Le parti scritte in corsivo sono prese direttamente dal libro, ovviamente senza scopo di lucro.

Voglio precisare una cosa: se ci fosse tra voi lettrici qualche appassionata del libro, più che del film, sicuramente noterà delle imprecisioni, dei particolari ispirati più alla versione cinematografica. Sono 'errori' voluti, per semplificare. 

Do ancora il mio indirizzo msn, per chi non lo avesse e fosse interessato a scambiare quattro chiacchiere con me: sil.stellina@hotmail.it

Passiamo ai ringraziamenti!

CowgirlSara: eheheh, mitico Giorgino! La carne del gruppo! XD anche Gugu però fa la sua parte 'carnosa' nel gruppo XD non so quanto altro posso aver rivelato con questo capitolo, ma un po' per volta capirai dove voglio arrivare... sicuramente comprenderai tutto prima della fine come sempre!

Picchia: certo che mi hanno contagiato! In fondo tutte noi siamo un po' bimbominkia!!!! Grazie per i complimenti che mi hai fatto in recensione e anche per quelli che mi fai su msn! Io spero sempre che l'alternanza tra reale e fantastico non sia un salto nel vuoto, ma risulti credibile... ancora però è troppo presto per dirlo! Ci sentiamo!!!

_Princess_: 20 anni? Io ne ho 22! XD E siamo qua a scrivere sui Tokio Hotel! Sarà l'età che avanza e gli ormoni che galoppano, io già sto pensando di costruire un recinto elettrificato! Giorgino è il mio preferito tra i quattro, non c'è che dire, di lui mi piace la sostanza ed il carattere. E' inutile dire che anche per me La Storia Infinita sia un film bellissimo, direi anche poetico. Se non hai letto il libro, ti consiglio volentieri di farlo, si rivelerà una sorpresa! Ti ho anche accontentato, pure senza volerlo, descrivendo Georg come Atreiu! Scusa se non mi sono soffermata molto sui particolari, ma non volevo trovarmi col cervelletto in tilt! Grazie mille per i complimenti, spero che non ti deluderò con l'evoluzione della storia. Se così invece accadesse, dimmelo subito. Sul serio XD Grazie ancora! 

LaTuM: Ti ringrazio tantissimo per tutti i complimenti che mi hai fatto, sia per recensione, che per email ed anche per msn! Veramente, li sento con il cuore! XD non ho molto altro da dirti, se non grazie ancora, già ti ho detto tutto per msn! Spero di trovarti in linea di nuovo! Ciaociao!

Sososisu: ma ciaoooooo!!! guarda che se non pubblichi, per rappresaglia, non pubblico più nemmeno io! XDD no scherzo, non cedere ai miei ricattini stupidi! Grazie per i complimenti, sono tornata e sono felice di ritrovare le mie lettrici fidate, con qualche nuova e graditissima aggiunta! Consiglio anche a te la lettura del libro, che è sicuramente mille volte meglio del film. Anche se devo dire che il film è totalmente indimenticabile! Quante volte avrei voluto essere Atreiu!... e dopo questo capitolo, quanto vorrei essere insieme ad Georgtreiu! XDDD ora basta, ormoni zitti!

Dark_Irina: ma ciao conterranea! Non hai mai visto il film! Gravissimo! XD no, scherzo, tranquilla! Spero che non troverai alcuni passi della fiction oscuri e incomrpensibili, perchè ho dato per scontato che la maggior parte dei lettori avesse visto almeno il film. Ma non penso che succederà, in questo caso magari chiedimi spiegazioni, sarò felice di dartela!

_Pucia_: ah, grazie per questa dichiarazione d'amore, mi ha fatto molto piacere! XD certo che esiste il libro, l'ho scoperto quasi per caso due o tre anni, fa e mi diverto ancora a leggerlo! Non si è capito? XDDD

Lidiuz93: eccola! Mi sei mancata! Davvero non hai potuto leggere l'altra storia? Peccato! Magari se la leggi fammi sapere (gustino ha messo lo zampino tra mac e tom per diversi capitoli.... così ti stimolo alla lettura)

Alanadepp: ecco la regina delle recensioni senza senso! XDDD beh, che devo dirti! Grazie mille anche a te, mi fa piacere averti ritrovato, anche su msn! Era tanto che non ci si sentiva! XDD alla prossima!!!

Come ho detto anche a Dark_Irina, se ci fossero dei punti in cui la storia risulta oscura, soprattutto quando cerco di riassumere in poche parole la trama del libro, ditemelo, così vi spiego meglio!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

 

Quella volta fu lui ad arrivare in ritardo. Era lui che stavano tutti aspettando in sala relax, seduti, stranamente tranquilli.
“Ti è successo qualcosa?”, si precipitò a dirgli Tom.
“Oh no, tranquilli, avevo solo da fare una commissione che mi ha portato via più tempo del previsto.”, disse Georg, togliendosi sciarpa, cappello e giacca.
“E cosa dovevi fare?”, continuò a domandargli Bill, mentre si arrotolava una ciocca di capelli tra le dita.
Riconsegnare un libro.”, disse Georg, sedendosi pesantemente sul divano.
“Il solito libro di ieri?”, gli fece Gustav, abbozzando un mezzo sorriso.
“Sì… quello. E scusami se ti ho aggredito perchè mi stavi disturbando mentre leggevo.”, gli disse, “Scusami davvero.”
“Oh no, tranquillo, figurati.”, rispose Gustav, con la sua solita calma, “Lo sapevo che non eri in te quel momento!”
“Sì, davvero, non so come ho fatto a perdermi per una cosa del genere!”, esclamò Georg ridendo.
“Perchè? Che libro era?”, domandò Tom con interesse.
“Era ‘La storia infinta.’, avete mai visto il film?”, disse Georg, ingenuamente.
Gli altri tre si guardarono, poi abbassarono la testa ed i loro occhi si fecero sfuggenti.
“Non vi ho chiesto se avete visto i vostri genitori fare sesso!”, sbottò lui, stupito dalla reticenza dei suoi amici.
“Beh… forse un paio di volte.”, disse Tom.
“Mi associo.”, rivelò Bill.
Gli occhi si spostarono su Gustav, l’unico che ancora non aveva parlato.
“Va bene… l’ho visto anche io.”, disse, sentendosi indagato dai loro sguardi.
“Lo hai restituito in biblioteca?”, gli fece Bill.
“Sì… una cosa del genere.”, circumnavigò Georg.
“Una cosa del genere?”, ribattè Tom.
I suoi amici sembravano essere diventati improvvisamente curiosi.
“Cos’è tutto questo interesse verso quel libro?”, sbottò Georg, lievemente infastidito.
“Beh… non leggi mai, dici sempre che non ti piace farlo… parli appunto di doverne riconsegnare uno e a noi pare strano. Tutto qui.”, spiegò con calma Bill.
“Almeno ti è piaciuto per quello che hai letto, Georg?”, disse Tom, alzandosi e stiracchiandosi.
“Sì… era carino, mi aveva anche preso, lì per lì…”, confidò loro Georg, sentendosi un po’ stupido per quello che diceva.
“Ah bene, stasera lo danno anche in tv se non sbaglio. Guarda un po’ il caso.”, disse Bill, sghignazzando, “Sono sicuro che ti metterai apposta a guardarlo perchè vuoi vedere se è uguale al libro!”
“Sì, prendetemi pure in giro…”, fece Georg, ridendo.
“Prenderti in giro?!? Noi?!?! Mai!”, esclamò Gustav, mettendosi una mano sul petto.
“E sicuramente la settimana prossima ci sarà pure il seguito in tv… La storia infinita due!”, disse Tom, sbuffando una risata.
“Ti sei dimenticato del tre, Tom!”, continuò Bill nello sfottimento generale di Georg.
“Che stronzi che siete.”, fece il ragazzo, mandando indietro la testa sullo schienale del divano.
“Sei tu che ti diverti con le robe per bambini!”, fece Tom, “Non pensi di essere un po’ cresciutello?”

 

 
Non ci furono battibecchi, musi lunghi e liti furibonde. Non c’era Bill che se la prendeva con Tom. Non c’era Tom che se la prendeva con Bill. Non c’era Bill che se la prendeva con Gustav. Non c’era Tom che se la prendeva con Gustav…
Insomma, non c’era nessuno che se la prendeva con qualcuno.
La quiete prima della tempesta?
Forse sì, forse no.
Tutti sembravano essersi svegliati di buon umore. Tutti, tranne Georg. A parte la sua personale condizione, tutto sembrava filare liscio. Non si sentiva in forma, per niente. Gli facevano male la testa, il collo e le spalle. Pure il fondoschiena, seduto su quello sgabello scomodo.
Gli pareva di essere un catorcio. 
Non aveva quasi chiuso occhio e, se aveva dormito, aveva sognato il signor Metternich che lo inseguiva con il suo giornale arrotolato. 
Aveva incontrato la sua nipote antipaticamente crudele. 
Gli altri tre lo avevano preso magnificamente per il culo e, a quando stava intuendo dalle note suonate da Tom, continuavano a farlo tutt’ora. Bill, sulla melodia del fratello, aveva preso a cantare la celeberrima colonna sonora del film.
Gustav sghignazzava alle loro spalle. Anzi, si stava quasi buttando in terra dalle risate.
E lui, che quando si svegliava male era una belva, sentiva che qualcosa laggiù iniziava a vorticare paurosamente.
“Continuiamo per piacere?”, disse, cercando di ignorarli.
“Ok… va bene…”, fece Bill, prima di scoppiare di nuovo a ridere, trascinando dietro a sé anche gli altri due.
"Andate a fanculo, va’!”, esclamò Georg, abbandonando il suo basso e uscendo dalla sala prove.
Va bene, aveva preso a leggere un libro per bambini… e con ciò? C’era qualcosa di male? Era punibile secondo codice penale? No!
E per questo non voleva nemmeno essere preso continuamente per il culo da quei tre deficienti che, forse, non leggevano quei libri ma, a vederli, sembravano più che bambini. Se la stava prendendo per una cazzata, ma siccome gli giravano le palle da quando si era alzato, era più che giustificato.
Andò in sala relax e si buttò sul divano, con le mani dietro la testa. Tre secondi ed anche gli altri sarebbero arrivati, ricominciando a sfotterlo perchè aveva fatto il permaloso.
Uno...
Due...

“E dai, Georg! Stavamo scherzando!”, fece Gustav, affacciandosi nella stanza.
Ecco il primo.
“Andiamo! Non fare il bambino!”, disse Bill.
Ecco il secondo. Ora mancava solo la conclusione perfetta.
“Vuoi che ti vada noleggiare il film così lo vediamo tutti insieme appassionatamente?”, esclamò Tom, infiocchettando un bel pacchetto regalo che conteneva un sonoro…
“Vaffanculo!”, gridò Georg, “Possibile che non sappiate mai capire quando è il momento di finirla con le cazzate?”
“Piantala Georg! Sei tu quello che non sa stare allo scherzo!”, fece Bill, incrociando le braccia.
“No, ti sbagli, allo scherzo ci sono stato finché non è diventato pesante!”, proseguì Georg, che intanto aveva iniziato a prendere le sue cose, “Siete voi che non riuscite a contenervi mai.”
Indossò in fretta il giubbotto e la sciarpa e, sotto gli occhi increduli dei suoi amici, se ne andò.
“Che sia rimbambito?”, fece Tom, infilandosi le mani in tasca.
“Mah…”, borbottò Gustav, “Secondo me… è diventato scemo.”

 

Guidò fino a casa, imprecando contro tutti quelli che si impegnavano diligentemente a rispettare i limiti di velocità. Lasciò la macchina nel parcheggio sotterraneo, insieme a tutte quelle dei proprietari degli altri appartamenti.
Sopra la sua testa, in superficie, stavano tre blocchi di appartamenti extra lusso. Vi si accedeva tramite un grande cancello, con una carta magnetica, oppure facendosi identificare dal vigilante, dentro al suo casottino, accanto al'entrata.
Nei pressi del centro della città, di recente costruzione, ogni blocco era composto da pochi appartamenti. Quello dove viveva lui, il terzo, era il più grande: aveva cinque piani, e quindi cinque appartamenti di minimo centocinquanta metri quadri. L’aspetto esterno era piuttosto lindo: muri lisci e bianchi, terrazzine, lunghe finestre, balaustre con colonne.
L’ascensore lo portò direttamente davanti alla porta di casa sua. Infilò le chiavi ed entrò, lasciandole poi abbandonate a se stesse su una piccola mensola, affissa al muro, vicino alla porta.
A passi mesti andò verso camera sua e, una volta vicino al letto, aprì le braccia e vi si buttò sopra, a faccia in giù.
Nei te chilometri di strade aggrovigliate che aveva percorso, si era pentito di essersi comportato irragionevolmente, irrazionalmente e deficientemente come aveva fatto. Gli altri volevano solo scherzare, mica offenderlo! Ma lui niente, pareva essere diventato ancora più permaloso di Bill.
E tutto per uno stupido, cretino, idiota, imbecille libro.
E di nuovo, libro per B-A-M-B-I-N-I.
Quando aveva smesso di essere un bambino? Forse verso di dodici, tredici anni e in quel momento, che ne aveva venticinque suonati, era un po’ troppo tardi per attaccarsi a ‘La storia infinita’.
Sì, era meglio chiamare tutti gli altri e scusarsi.
Ma lo avrebbe fatto forse più tardi…
In quel momento aveva sonno, tanto sonno…

 


Con la mente impastata, non seppe riconoscere se il trillo che sentiva era il telefono oppure la sveglia… o anche il citofono. Ma visto che la sveglia sul comodino non dava segni di vita ed il suo cellulare aveva come suoneria ‘Fear of the Dark’ degli Iron Maiden, il drin-drin che sentiva era senz'altro il campanello.
Andò lentamente verso la porta, stropicciandosi gli occhi e tirandosi le palpebre, per svegliarsi meglio. Guardò dallo spioncino ed una testolina bionda, dai lineamenti fini, stava ad aspettare che le venisse aperta la porta. Era Helen.
Con la mano pesante, afferrò la maniglia e la spinse in basso. Lei, silenziosamente entrò dentro l’appartamento.
“Ma… hai dormito vestito per caso?”, gli domandò, squadrandolo per cinque perenni secondi.
“No, è che… sì, diciamo di sì.”, fece Georg. Era troppo difficile articolare i pensieri.
“Ah bene…”, disse lei. Poi, dall’impercettibile movimento delle sue narici, Georg comprese che era meglio andare a darsi una lavata.
“Accomodati.”, le disse, “Vado a darmi una sistemata.”
“Ok.”, fece lei, sorridendogli.
Non era la prima volta che veniva a casa sua, forse poteva essere la quarta o la quinta, ma sembrava già sentirsi a suo agio. Velocemente, si sedette sul divano, prese il telecomando ed accese la tv mentre lui non riusciva nemmeno a coordinare i piedi nel modo corretto.
Ma dopo doccia e vestiti puliti, anche lui ragionava meglio. Dette uno sguardo veloce all’orologio appeso in bagno… erano le sei e mezza?!? Aveva dormito ininterrottamente da mezzogiorno, ora in cui aveva messo piede in casa, fino alle sei e mezza…
E dato che ci pensava, gli era venuta anche una fame da lupi. Tornò da Helen con l’idea di portarla a mangiare fuori e gliela propose, ma lei negò con la testa.
“No, non ne ho voglia.”, fece, con una smorfia, “Ci facciamo portare qualcosa dal cinese e lo mangiamo qua?”
“Mmhh…. Beh, può andare.”, disse lui. Non gli piaceva molto la cucina cinese, ma poteva accontentarsi per una sera.
Lei, rapida come sempre, prese il suo telefono e cercò il giusto nome in rubrica, ordinando ciò che pensava fosse adatto per entrambi.
L’aveva conosciuta tramite amici di Gustav, qualche mese fa e, prima lentamente, poi sempre più di frequente, avevano iniziato ad uscire insieme. Non che si potessero dire fidanzati, tutt’altro, ma erano semplicemente due che si frequentavano e che stavano bene insieme. Helen era carina, anzi molto carina, dolce e simpatica. Anche intelligente, lavorava come assistente del direttore di un noto giornale di moda tedesco e, per avere solo ventitre anni, era una che ci sapeva fare con gli altri. In pratica, otteneva sempre quello che voleva.
Dopo aver riposato il telefono, prese il suo ragazzo per la maglietta ed iniziò a baciarselo di gusto, lasciando che la televisione continuasse a riportare le notizie del giorno….
Era una che aveva sempre iniziativa, che non si faceva trascinare da nessuno. E queste era un particolare che a Georg non andava molto a genio.
In certe cose, a lui sarebbe piaciuto, diciamo, ‘attaccare il discorso’… Ma, come era successo in quel momento, o era lei ad iniziarlo, oppure sfoderava la classica e indelebile scusa del ‘scusami ma ho un po’ di mal di testa’.
Non c’era solo quel particolare che lo infastidiva un po’, ma anche il fatto che Helen era una persona un po’ troppo diretta. Era una che le cose non le mandava a dire dietro, le diceva direttamente in faccia, senza preoccuparsi di cosa poteva scatenare nell’altro. Poteva essere un pregio, a volte, ma spesso nelle sue mani diventava un’arma per mettere in ridicolo gli altri.
Una volta lo aveva fatto con Tom e lui, se non fosse stata una bella ragazza, le avrebbe quasi risposto con un bel ‘vaffanculo nana’, data la sua bassa statura. Ma siccome era carina aveva chiuso un occhio ed era passato sopra al suo ‘il look hip-hop trasandato andava moda negli anni ottanta, aggiornati’.
Non erano anime gemelle, anzi, tutt’altro: solo due persone che si trovavano bene insieme, senza volersi impegnare né obbligarsi in qualcosa di più. Fine della questione.

Un drin-drin interruppe la loro attività promiscua.
“Merda!”, esclamò Helen, prendendo a rivestirsi.
“Dai… vado io.”, disse Georg.
“No, faccio io.”, fece lei, dandogli un bacio schioccante.
Il fattorino la attendeva alla porta con le sue buste colme di cibo e, dopo averle ripassate nel microonde, si servirono la cena sul divano.
“Scusami ancora per ieri sera ma è stata una giornataccia. Anzi, è stata pessima.”, le disse Georg, mentre si mangiava i suoi spaghetti alla non-sapeva-che-cosa.
“Non ti preoccupare, ne ho fatto un dramma per niente.”, fece Helen, arricciando il suo nasino, “Cosa è successo?”
“Sembravano tutti incazzati, o meglio, lo erano davvero. Alla fine ce ne siamo dovuti tornare a casa per fatti nostri dopo nemmeno mezz’ora di prove.”
“Mi dispiace.”, disse lei, “Di chi era la colpa?”
“Di tutti e di nessuno. Ognuno aveva i suoi motivi per essere arrabbiato.”
“E il tuo qual era?”, gli chiese.
Georg preferì tacere sulla questione, inventandosi che si era alzato male.
“E oggi? E’ andata meglio?”
Tacque anche su quello, dicendole solo una parziale verità, cioè che si era un’altra volta levato con la luna di traverso.
“Come mai? Dormi poco la notte?”
E di nuovo sviò la risposta.
“Mi dispiace che in questi ultimi tempi siate un pochino in crisi.”, fece lei, “Ma vedrai che tutto si risolverà, è solo una cosa passeggera.”
“Sì, lo spero anche io. Ovviamente sai cosa devi fare.”, disse Georg, guardandola seriamente.
Lei si passò due dita sulla bocca. Se l’era immaginariamente cucita. 
Finirono di mangiare in silenzio, guardando distrattamente la tv.
“Non c’è nient’altro in tv?”, fece Helen, afferrando il telecomando ed iniziando a fare zapping alla ricerca di qualcosa di interessante.
Ogni canale veniva rimpiazzato da un altro nel giro di pochissimi secondi e, tra un’immagine sospesa ed un’altra…
“Ferma! Torna indietro…”, esclamò Georg.
“Visto qualcosa di interessante?”, disse l’altra, facendo zapping al contrario.
“Ecco… ferma qui.”, fece lui.
Trasmettevano l'immagine di un ragazzino che, in quella che pareva una vecchia soffitta, stava spostando un materasso e, dopo averci appoggiato sopra il suo zaino, vi si sedette a gambe incrociate, con un libro aperto tra le mani.
“Che film è?”, fece Helen, spazientita.
“Sembra… curioso.”, balbettò Georg, cercando di sembrare il più disinteressato possibile.
Il bambino iniziò a leggere e….
“Ah! Sì, ho capito… è quella storia infinita… due palle!”, esclamò Helen, cambiando inaspettatamente canale.
“E dai!”, protestò Georg, cercando di riprenderle il telecomando di mano “Rimettilo lì.”
“No, io non lo voglio vedere.”, fece lei, sfuggendogli, “Non l’ho mai sopportato.”
“Perchè?”, le chiese.
“Perchè è uno di quei classici film dove ti dicono sempre di credere ai tuoi sogni ed alle tue speranze… mpf! Ma fatemi il piacere! Rifilare queste sciocchezze ai bambini può far loro solo del male!”, sbottò lei, “E poi siamo troppo grandi per vederlo.”
Era inutile obiettare. O faceva come voleva lei, oppure c’era da litigare. E visto che lo aveva già fatto una volta quella mattina, poteva anche piegarsi alla sua volontà. 
Comunque aveva ancora una domanda da farle.
“E tu cosa sognavi, da bambina?”, le chiese, quasi con aria di sfida.
“Di diventare una fotomodella.”, rispose lei, con una smorfia sulla faccia.
“E perchè non hai seguito il tuo sogno?”
“Perchè sono troppo bassa. La realtà dei fatti ha costretto il mo sogno a frantumarsi. Ecco perchè i bambini dovrebbero crescere con il vero senso delle cose. Così quando diventano grandi e capiscono come gira veramente il mondo non ne rimangono delusi.”, disse lei, amaramente, “E il tuo? Qual era il tuo sogno?”
“Beh… diventare un musicista, ci ho creduto e lo sono diventato.”, le rispose.
Lei rimase un attimo in silenzio, poi spostò i suoi occhi sullo schermo e riprese a fare zapping.
“Questione di culo. Ti sei trovato con le persone giuste, nel momento giusto e nel luogo giusto.”, sibilò lei, quasi pareva invidiosa.
Se veramente non avesse già perso il controllo quella mattina con i ragazzi, l’avrebbe sbattuta fuori di casa in quell’istante, dicendole che non la voleva più vedere. 
Ma era stata fortunata.
E lui era comunque sempre troppo buono con lei.
“Guarda, questo sì che è un bel film.”, disse Helen, che non si era accorta dello stato fumogeno in cui riversava Georg, “Ti dispiace?”
“Che cosa è…”, fece lui, sconsolato.
“Guardia del corpo… quello con Whitney Houston…”, disse lei, contenta.
Gesù… era il film che odiava più di tutti in assoluto.
“Vai… inizia pure a guardarlo, io devo fare una cosa nel frattempo.”, le disse, alzandosi dal divano.
“E cosa?”, fece lei, guardandolo interrogativamente, quasi scocciata.
“Una… cosa… di là.”, balbettò, chiudendosi in camera.
Non aveva da fare un cazzo, ma si mise a girellare per la sua stanza a raccogliere i vestiti sparsi a terra ed a riassettare il letto ancora disfatto. E poi doveva farsi passare la rabbia che gli era fermentata dentro, altrimenti sarebbe scoppiato in un eccesso d’ira poco appropriato. Non gli piaceva dare di matto, lo odiava, e preferiva sempre ritrovare la calma, piuttosto che urlare in faccia alla gente.
Dopo qualche minuto Helen bussò alla sua porta, chiedendogli se c’era qualcosa che non andava.
“No, tranquilla, è tutto a posto.”, le disse. Stava mettendo nel sacco bianco di cotone tutti gli abiti da lavare, così quando la mattina successiva sarebbe venuta la domestica li avrebbe sistemati lei. 
“Credo che tu te la sia presa per quello che ti ho detto. Non è così?”, fece lei, appoggiandosi allo stipite della porta.
Georg sospirò e contò fino a dieci.
“No, ti ho detto che va tutto bene. Adesso fammi finire qua, poi torno da te.”
“Ma hai una domestica, falle fare a lei queste cose.”, ribatté Helen, continuando a provocarlo.
“Ci metto solo altri cinque minuti.”, disse Georg, sperando di essere più che convincente.
“Guarda che possiamo vedere un altro film, se vuoi.”, disse Helen, indicando la televisione alle sue spalle.
“Ti ho detto che arrivo subito!”, le gridò contro Georg, “Perchè devi sempre ribattere? Perchè non capisci mai quando è il momento di… chiudere quella maledetta bocca!”
Ecco.
Lo aveva fatto.
Era esploso di nuovo.
Lei, da prima sorpresa, poi straniata ed infine incazzata, si voltò sui tacchi, prese la sua roba e, senza dire una parola, uscì dall’appartamento.
Georg buttò a terra gli abiti raccolti, dando loro un calcio e facendoli volare per aria.
Si sedette sul letto sospirando.
Che cosa gli stava succedendo?
Perchè era diventato così irascibile?
Non lo era mai stato. Mai.
Sempre tranquillo, calmo e pacifico.

Make love not war
Eppure ultimamente non aveva fatto altro che perdere il controllo per niente. A dire il vero, Helen gli aveva dato un buon motivo per incazzarsi: in pratica gli aveva detto che aveva avuto successo solo per culo!
Ma il resto delle volte?
Non aveva senso, per niente.
Ultimamente, tutto sembrava andare storto.
I discografici avevano affilato i denti per stritolarli ben bene.
Il loro sesto album non stava raggiungendo il tetto delle vendite dei precedenti: era in vetta alla classifica da quando era uscito, cioè da ben quattro settimane, ma al terzo posto, mai al primo. I singoli si erano fermati massimo al quarto. La critica era stata come una ghigliottina: aveva mozzato le loro quattro teste, definendo le loro nuove canzoni come ‘una maionese impazzita dei vecchi successi’.
Alcune date erano saltate perchè l’organizzazione del tour aveva combinato dei casini tremendi. Su venti concerti, nemmeno uno era andato in sold out. Il resto aveva venduto solo poco più della metà dei biglietti.
I giornalisti stavano ricamando rose e fiori su di loro ed il titolo più quotato sulle riviste era: Tokio Hotel, bolla di sapone?. Cavolo, erano quasi dieci anni che erano diventati famosi ed ancora stavano lì a discutere sul fatto che fossero stati solo una meteora di inizio millennio o un gruppo destinato a durare!
Ma il problema più grosso era che il gruppo non era più unito come una volta. La pressione dei media, della casa discografica, le critiche pesanti, la sfiga che dilagava… insomma, era inutile stare a psicoanalizzare ogni singola causa del loro apparente declino. Quello che stava succedendo a loro era capitato a milioni di altri gruppi famosi e si poteva immaginare benissimo senza stare troppo a dilungarsi.
Ma siccome era una persona ottimista, era uno che stringeva i denti ed andava avanti, non si era mai fatto prendere dallo sconforto. Sperava semplicemente in un tempo migliore, in  un riscatto per lui e per gli altri. Prima o poi sarebbe arrivato. E se non succedeva, allora fanculo a tutto. Si sarebbe speso tutti i soldi in droga e poi lo avrebbero ritrovato morto in una camera d’albergo, abbandonato a se stesso.
Sì, certo, Georg avrebbe fatto quella fine? Sbuffò, scazzava anche nei pensieri. 
Si tolse dalla camera e tornò a guardarsi la tv. Dopo qualche minuto di zapping, la tv venne fermata su un canale preciso e, visto che non c’era nessuno a prenderlo per il culo, si guardò pacificamente quel film così tanto criticato dai suoi amici e dalla sua ragazza.

 

Ma questa è un’altra storia…”, fu la frase pronunciata dalla voce fuoricampo che concluse il film.
Beh, la tecnologia e gli effetti speciali utilizzati non erano molto di qualità, o meglio, al momento in cui fu girato erano state utilizzate sicuramente le migliori avanguardie cinematografiche ma ora si vedeva lontano un miglio che tutte le creature fantastiche erano degli manichini animati.
Tutto sommato non era stato poi un filmaccio, come lo avevano dipinto. Aveva una morale un po’ classica, cioè credere nei sogni e nelle speranze perchè altrimenti la vita si sarebbe ridotta ad una sorta di automazione robotica. Il Nulla era quindi il male cagionato dal mondo reale su quello fantastico: la perdita della speranza e dell’immaginazione dell’uomo si ripercuotevano su Fantàsia, facendola inghiottire dal Nulla.
Non aveva potuto seguire il film dall’inizio, lo aveva preso dal momento in cui Atreiu perse il Fortunadrago Falkor in una tempesta causata dal Nulla. Lui non aveva letto niente del genere nel libro, si era arrestato molto prima e gli venne la curiosità di sapere quanto la sceneggiatura cinematografica si fosse accostata alla storia descritta dall’autore. Sicuramente, quel Michael Ende aveva avuto un’immaginazione fervidissima per scrivere qualcosa del genere. Lui non ne aveva mai avuta molta, non si era mai perso in visioni di mondi come Fantàsia…
Se fosse vissuto nella Storia Infinita, poteva sentirsi in parte responsabile del dilagare nel Nulla!
Sorrise a quel pensiero, prima di mettersi sotto le coperte ed addormentarsi.

 



Ta-dah! Eccomi ancora con il nuovo capitolo!
Qualcuna di voi ha commentato dicendomi che i capitoli sono più corti del mio solito... sì, è vero, mea culpa! Mi metterò sui ceci, in ginocchio, in compagnia di Georg...
Per adesso siamo solo all'inizio, siamo ancora in fase di transizione, diciamo che ogni capitolo mi serve per introdurre qualche elemento nuovo oppure specificare una situazione già precedentemente rappresentata...
Dopo questa specificazione, passo ai ringraziamenti!

CowgirlSara: lo so che nella tua menticella già si sta formando il possibile risvolto della trama! Lo so! Lo so! Ti conosco, tu e i tuoi filmini! XD Sono sicura che già stai fermentando.... a proposito! E con Georg, l'altra sera? eheheh!

_Pucia_: sisi, l'autore Michael Ende è tedesco, precisamente di Garmish. Ci hai proprio indovinato, ho solo tenuto nascosto questo particolare perchè non lo ritenevo importante. Dopo aver letto che Georg veramente non legge libri, ho pensato: magari manco lo sa che è suo connazionale! XD Supposizione mia, personale, magari poi è stato suo vicino di casa... chi lo sa? XDDD Brava! Complimenti!

Dark_Irina: se ti sei informata da sola, benissimo! XD se ti sei anche vista il film, nel frattempo, meglio ancora! Grazie per la recensione!

LaTuM: eheheh, che i libri siano pericolosi è cosa risaputa! Pericolosissimi, e Georg ne imparerà a sue spese... via! Ho detto troppo! XD bene, hai parlato della bibliotecaria bruttina... mmm, personaggio che si rivelerà molto interessante (insieme al nonno psicotico!)... Il tuo amico Mulo ti ha fornito il film? Benebene! Guardatelo attentamente! Ma sappi che gli accenni che faccio sono sul libro, che è per molto versi totalmente differente dal film... era tanto per dirtelo, se non ce la fai a leggerlo tranquilla! Su wikipedia c'è il suo riassunto (fatto male, ma c'è). Ci sentiamo su msn! Ciaooo!

Picchia:  i tuoi maledetti amichetti ora sono recintati, ho usato il filo elettrificato, così se tentano la fuga se prendono la scossa! Eccheppalle! Sto Georgtreiu mi sta facendo andare il cervello in pappa... grazie per aver notato il sarcasmo nascosto nelle mie descrizioni! Come ho detto prima di iniziare i ringraziamenti, questi primi capitoli servono ad introdurvi nella mia mente malata... già dal prossimo si aprirà la storia vera e propria! Quindi hai ragione tu: la calma prima della tempesta...

Kltz: ho letto il tuo nome spesso tra l'elenco dei preferiti delle mie storie! Ma che piacere trovare una tua recensione! Grazie mille, davvero! Spero che tornerai di nuovo a lasciare un 'pensierino', come li chiamo io! E grazie per i complimenti, su questo sito spesso è il nome ad attirare i lettoni, non tanto le storie!

_Princess_: allora siamo in due, perfetta reincarnazione dei nostri sogni notturni! eheheh! Lui si sogna di essere Atreiu e noi sognamo lui! Hai colto perfettamente nel centro!
 
Sososisu:  eeeeehhhh non sei l'unica con il cervello in folle per il nostro amato Giorgino! Secondo me sta iniziando a riscuotere un certo successo in questa sezione... coalizziamoci! Portiamo il suo nome oltre i confini di Fantàsia... ok, basta con lo sclero, cerchiamo semplicemente di aumentare la sua popolarità, visto che di storielline su tom e bill ce ne sono già anche troppe!  Occupiamoci anche del tenero Gugu... poverino, si sente solo e poco considerato...

Lidiuz93:  scusa se non ho risposto alla tua mail, ho preferito ringraziarti per i complimenti sull'altra storia qui, adesso!  Grazie quindi per la recensione adesso e per la mail, sono felice che ti siano piaciute entrambe le storie!

Alanadepp:  nono, tranquilla, non farò alla My Fair Lady! O forse sì... o forse no? Ecco, vedi! Anche io per ringraziare te parto con la disconnessione mentale! ehehehe! .... credevi diventasse il cavallo? Non sarebbe stato niente male... un bello stallone.... aspetta, mi asciugo la bavetta... ok, basta, sennò poi mi disconnetto veramente! eheheh!

Ciribiricoccola: non sai quanto ci metto per scrivere il tuo nick, ogni tre secondi sbaglio... tra ciribiricoccola e chichibio mi si sono attrigate le dita! Eccoti il terzo capitolo! Spero che la tua ansia sia diminuita, altrimenti c'è lo xanax, funziona! ehehehe! Ci sentiamo bella!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4

  

Davanti alla porta di vecchio legno tarlato e vetro opaco, stette almeno tre minuti a pensare se avesse fatto bene ad entrare oppure no. Non sapeva il motivo di tutta quella indecisione, fatto stava che la sua mano era appoggiata al pomello senza avere intenzione di spingerlo in avanti.
Alla fine prese un profondo respiro e lo fece. Di nuovo, lo scampanellio si diffuse per tutta l’angusta libreria e, tra due file di scaffali, comparvero gli occhiali color lilla.
“Buongiorno!”, esclamò la ragazza e poi, dopo qualche secondo, “Tu sei il ragazzo di ieri.”
“Sì, sono io.”, fece Georg, togliendosi gli occhiali da sole.
Lei gli sorrise e gli fece cenno che poteva dirle cosa desiderava.
“Ehm… il libro… quello che ho riconsegnato.”, prese a balbettare.
“Sì?”, fece lei, disse lei, avvicinandosi.
“Ce lo ha ancora?”, chiese.
“No. Lo abbiamo venduto.”, disse la ragazza, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
Georg rimase qualche secondo in silenzio, aspettandosi che lei gli dicesse che stava scherzando.
“No, non sto scherzando. Lo abbiamo venduto sul serio.”, disse poi ridendo, come se gli avesse letto la mente.
“Ah…”, fece Georg, mascherando la sua delusione.
“Per un attimo ci siamo anche spaventati, quando non lo abbiamo trovato in negozio, l’altro ieri.”, proseguì lei, tornando tra gli scaffali per riprendere il suo lavoro, “Avevamo in programma questa vendita da diverso tempo ormai…”
Mentre parlava, prendeva i libri, se li rigirava tra le mani, li esaminava attentamente, li catalogava su un grosso quaderno appoggiato su uno sgabello e poi li riponeva tra gli scaffali.
“Mi dispiace aver causato tutti questi danni, io non mi ero neanche lontanamente immaginato che…”, prese a dire Georg, accortosi della gravità della sua azione, ma poi lei lo interruppe.
“Oh no! Si figuri! E’ stata tutta colpa di mio nonno. Sa, è un po’ arteriosclerotico e, quando lo ha prestato a lei, non si è ricordato che lo stavamo per vendere. Poi, ovviamente, si è anche completamente dimenticato di lei. Quando mi ha riconsegnato il libro, glielo dico sinceramente, mi ha fatto resuscitare!”, gli rivelò lei.
“Ah!”, esclamò Georg, ridendo.
“Ancora non riusciamo a fargli capire che non ha più l’età per lavorare… io sono qua dentro da un anno, per aiutarlo, e a volte penso di impazzire! Sposta i libri, dimentica tutto, mi fa perdere la pazienza!”, disse lei, ridendo, mentre annotava sul suo quaderno, “Comunque, a parte questo… desidera qualcos’altro?”
“Beh… mi sarebbe molto piaciuto continuare la lettura di quel libro.”
La ragazza posò la sua penna e lo guardò un po’ straniata.
“Dice sul serio?”, gli chiese.
“Sì… a parte tutto, si è rivelato essere un bel libro.”, fece, sentendosi piccino come una mosca per l’imbarazzo.
“Beh, mi dispiace, come le ho detto non è più in nostro possesso e quella era l’unica copia che avevamo. Ma se vuole abbiamo altri capolavori della narrativa fantastica da leggere.”, disse lei.
“Ho capito… va bene, come non detto.”
“Mi dispiace… Quella era una particolare edizione, per appassionati di collezionismo. Valeva anche molto.”, gli spiegò lei, “Ho la possibilità di farle avere un’altra copia, ma sicuramente nel giro di mezz’ora, se va in un’altra libreria, lo troverà anche in edizione economica.”
“Va bene… allora arrivederci.”, le disse.
“E’ stato un piacere rivederla.”, disse la ragazza, porgendogli la mano e sorridendogli.
Nessun segno di riconoscimento sulla sua faccia. Proprio non aveva capito chi era. Meglio così, gliene importava il giusto. Dette una sistemata al suo codino, inforcò di nuovo gli occhiali da sole ed andò verso l’uscita.
L’altra volta gli era rimasta più antipatica, ora era stata più professionale e gentile con lui. Sempre nel suo maglioncino giallo a bottoni e in una gonna grigia che le arrivava al ginocchio, continuava a personificare il prototipo della bibliotecaria brutta.
“Non è poi così male.”, sentì dire dalla ragazza.
Con la mano appoggiata alla maniglia, si voltò e le chiese cosa avesse detto. Lei, in mezzo al corridoio, se ne stava con le mani congiunte.
“Intendevo… il vostro nuovo album. Non fa tanto schifo, a me piace molto. Forse, come dicono le recensioni, non è molto originale rispetto agli altri, ma è sempre bello.”, disse, aggiustandogli nervosamente gli occhiali da vista.
“Ah… pensavo che non mi avessi riconosciuto.”, disse Georg, sorpreso.
“Beh… sono cieca come una talpa, ma quando voglio ci vedo più che bene!”, fece lei, ridendo, “Mi dispiace che la stampa vi dia tanto contro.”
“Cosa ci vuoi fare, ce la dobbiamo sorbire e basta.”, le rispose.
Lei gli sorrise di nuovo, gli fece cenno con la mano e se ne tornò tra gli scaffali.
“Quando potrò tornare per il libro?”, le chiese.
Fu lei quella volta a chiedere di poter ripetere, affacciandosi di nuovo nel corridoio.
“Il libro… torno la prossima settimana?”, si specificò meglio.
“Anche dopo domani!”, fece lei, ridendo.

 
 

Quando entrò dentro la sala relax, trovò David seduto sul divano, che si massaggiava le tempie. Brutto segno.
“Buongiorno…”, gli domandò, “Cosa c’è?”
“No, niente, solo un problema da risolvere.”, rispose lui.
“Che genere di problema? Grave o no?”
“Dai, Georg, è tutto a posto, tranquillo.”, cercò di rassicurarlo David, ma non fu efficace.
“Sembra che tu non abbia dormito da un mese. Cosa c’è?”, gli fece, risoluto.
David sospirò ed appoggiò la schiena contro il divano.
“Due date in Spagna su quattro sono saltate. Non abbiamo venduto abbastanza biglietti.”, gli rivelò.
Ecco qual era la questione…
“Avevamo stabilito una soglia al di sotto della quale il concerto non si sarebbe tenuto e… è risultata essere un po’ troppo alta.”, specificò David.
“E… e adesso?”, fece Georg, mentre si toglieva annoiato la giacca e la sciarpa. Quella notizia proprio non ci voleva.
“Che cosa adesso? Quale soglia?”, esclamò Gustav, entrando sorridente nella sala relax.
“Alcune date spagnole sono saltate perchè non abbiamo venduto i biglietti che ci aspettavamo.”, gli spiegò Georg, facendo decadere il sorriso che aveva sulla sua faccia.
“Davvero? Ma siete sicuri?”, chiese Gustav, grattandosi la testa, con il giubbotto tra le mani, “Ma… abbiamo sempre fatto il sold out in Spagna.”
“Evidentemente adesso non più.”, disse Georg.
“Non capisco cosa abbiamo fatto di sbagliato questa volta.”, fece Gustav, “Non mi sembra che l’album faccia così schifo! Per me era ottimo come tutti gli altri!”
“Forse siamo passati di moda, Gustav.”, disse Georg, “Forse non abbiamo tenuto conto che un cambio di stile poteva farci più che bene…”
“Appena lo sapranno gli altri due… non voglio nemmeno immaginarmelo…”, disse Gustav amaramente.
Ed infatti, quando Bill e Tom arrivarono e lo seppero, non la presero tanto bene. Tom se la rifece inaspettatamente col fratello, accusandolo di essere il problema fondamentale del gruppo.
“Le tue canzoni fanno schifo Bill, sono sempre tutte uguali!”, gli diceva.
“Guarda che le scriviamo tutti assieme!”, gli rispondeva l’altro, giustamente perchè la sua affermazione era più che veritiera.
“Sì, ma mentre noi altri eravamo più propensi a buttarci verso melodie più rock… tu sei voluto rimanere nelle solite canzoncine!”, contrattaccò Tom.
“Non è vero, non sono stato io, è stata una decisione presa da tutti! Quindi è colpa di tutti noi se questo album fa schifo e non vende! Non prendertela con me solo perchè abbiamo già litigato una volta stamani!”, lo zittì Bill.
“Tom, tuo fratello ha ragione.”, provò a dire Gustav, “E’ il gruppo che compone le canzoni… non lui e basta. E’ colpa di tutti noi se stiamo andando male.”
“Sì, Tom, è così…”, annuì Georg.
Era quella la verità.
“Abbiamo perso un pochino il nostro smalto. Vorrà dire che ci impegneremo di più la prossima volta.”, fece Gustav, anche lui naturalmente ottimista.
“Se ci sarà una prossima volta!”, esclamò Tom, “Se l’album va così male, la casa discografica ci straccia il contratto in mano e ci troveremo col culo per terra!”
“Guarda che non abbiamo mica venduto tre copie, adesso siamo al terzo posto qua in Germania! Vorrà dire qualcosa!”, disse Bill, “E anche nelle altre nazioni… non dico che siamo al primo, ma quasi!”
“Io non sono così ottimista come voi. Anzi, la vedo piuttosto brutta. Se in Spagna abbiamo dovuto cancellare tre date su quattro, secondo me si scatenerà una specie di effetto a catena… e non saranno le uniche date a saltare.”, fece Tom, esponendo chiaramente il suo pessimistico punto di vista.
“Vedremo col tempo, adesso non possiamo pensarci. Dobbiamo provare.”, disse Georg, guardando il suo orologio.
Mentre suonavano, pensava a cosa sarebbe potuto davvero succedere… Tom poteva averci visto bene: se si fosse veramente avviato il domino, era probabile che anche nelle altre nazioni sarebbero state cancellate alcune date. Per non parlare di quello che stava per raccontare la stampa, appena lo avesse saputo! Sicuramente nei prossimi periodici già si sarebbe parlato della disfatta totale dei Tokio Hotel!
C’era da impegnarsi, da buttare fuori il sudore. Potevano fare poco, tranne che rimboccarsi le maniche, studiare per bene le canzoni e puntare tutto sui concerti. L’album non era abbastanza rock? Allora lo sarebbero stati on stage, sul palco. La pubblicità non era stata efficace a fare vendere il loro prodotto? Ci avrebbero pensato loro dal vivo.
Di solito, succedeva sempre che dopo il tour c’era un lieve incremento delle vendite. Secondo lui quella era la strategia giusta per rimettersi in carreggiata. E dovevano finirla di litigare, di prendersi a brutte parole e di accusarsi a vicenda. Quel difficile momento li stava mettendo alla prova e loro non dovevano fallire, assolutamente.
Mentre stavano provando ‘Wir sterben niemals aus’, David entrò dentro alla sala prove, interrompendoli.
“Brutte notizie?”, fece Bill, posando il microfono sulle gambe.
“No, fortunatamente ne ho una buona. Sono riuscito a contrattare con la redazione di Viva per farvi fare un’esibizione unplugged… tanto per vedere se riusciamo a tirare su un po’ l’audience dell’album… L’abbiamo fissata per la prossima settimana, esattamente per venerdì.”, disse David, sperando di far loro cosa gradita.
“Beh…  oggi è mercoledì… c’è un po’ troppo poco tempo… non ce la faremo mai a prepararci.”, fece Tom, dopo un rapido calcolo mentale.
“Vorrà dire che ci chiuderemo qui dentro e ci faremo un culo così.”, disse Gustav, contento dell’opportunità che era stata loro data.
“Sì, ma io ho una vita privata al di fuori di qua!”, sbottò Tom, poco gentilmente.
“Però sei il primo a sparare a zero su di noi, ad accusarci di essere la rovina del gruppo!”, lo riprese Bill, esasperato al massimo dall’atteggiamento inconcludente ma critico del fratello.
“Ragazzi! Ragazzi!”, esclamò Georg, prendendo le redini della situazione, “Basta litigare. Ora lavorare. Cerchiamo di non strozzarci con le nostre stesse mani.”
Deciso e sicuro, riuscì a ristabilire la calma e ben presto finirono le canzoni da provare. Nel pomeriggio, si ritrovarono di nuovo chiusi nello studio, così come il giorno successivo. Non mancarono momenti di tensione, provare per tre ore consecutive la mattina e per quattro nel pomeriggio avrebbe sfiancato anche il più stacanovista dei musicisti. Ma era bene non farsi scappare quell’occasione, quell’esibizione live in unplugged poteva segnare, anche se durava solo 45 minuti, l’inizio della fine… oppure la fine della sfiga.

 

***

 

Si rigirava il cellulare in mano, cercando di capire se era una buona idea richiamare Helen oppure no. Non la sentiva da quando avevano litigato, anzi, da quando l’aveva aggredita verbalmente, due giorni prima.
Lei non aveva chiamato, forse ancora era arrabbiata. O forse lo aveva mandato letteralmente a quel paese. Era meglio accertarsene.
“Mi fanno male le mani…”, si lamentò Gustav, mentre se le scaldava aprendo e chiudendole continuamente.
“Dai, non fare il bambino.”, gli fece Tom, “Anche noi siamo stanchi.”
“Voglio andare a casa… sono disfatto.”, riprese Bill, “Che ne dite se stasera stendiamo qui e riprendiamo domani… Abbiamo gia fatto due ore di prove, può anche bastare.”
“No, dobbiamo fare di più. Faccio questa chiamata e poi ripartiamo.”, fece Georg, prima di mettersi il telefono all’orecchio ed allontanarsi un po’ dai tre.
Attese per qualche secondo, poi Helen rispose.
“Ehm… ciao…”, le fece, non sapendo come esordire.
Ciao… che vuoi.”, rispose lei, secca.
“Volevo solo… insomma, mi volevo scusare.”
Mh… e poi?
“Beh… scusami, ho fatto una cazzata. Non ti dovevo aggredire in quel modo, ero solo molto nervoso e… ho perso il controllo, scusami ancora.”
Senti, adesso ho da fare… ti chiamo io più tardi. Ciao.”, fece lei, chiudendo ermeticamente la chiamata.
In quel momento prese una decisione: se lo richiamava, va bene, tutto a posto. Se non lo richiamava, tante grazie. Ad essere sincero non era poi così tanto pentito di averla trattata in quel modo… ma con lei, in fin dei conti, ci stava bene.
Chiuse il telefono e richiamò gli altri al lavoro.

 

 

Si rallegrò nel vedere un piccolo fascio di flebile luce oltrepassare il vetro opaco della porta della libreria. Erano le sei, le prove erano finite circa una mezz’ora prima e la punta delle dita della mano destra gli facevano un male cane. Entrò dentro, rallegrandosi del caldo che trasmetteva quell’atmosfera un po’ cupa e legnosa del locale.
La poltrona si girò si se stessa ed il vecchietto, con un libro sulle gambe, prese a scrutarlo da capo a piedi. Georg si bloccò, come se fosse stato pietrificato dallo sguardo della medusa. L’ometto, reggendosi la pipa, che emetteva sbuffi di fumo, per un attimo sembrò non ricordarsi di lui…
“Tu sei quello che entrò l’altro giorno… quando pioveva.”, fece, alternando parole a fumo.
“Sì… sono io.”, disse Georg piano, avendo quasi paura.
“Mh…”, fece l’altro, “E cosa sei venuto a fare?”
“A comprare un libro.”, fece, come un sussurro.
“Cosa?”, esclamò il vecchietto, evidentemente un po’ sordo.
“A comprare un libro, signore.”, disse Georg, aumentando il volume della voce.
“Pensavo fossi tornato a rubare!”, disse l’ometto, rimettendosi in bocca la pipa e rivoltando la poltrona.
Cazzo… altro che vecchio rimbambito come diceva la nipote.
“Nonno! C’è qualcuno?”, sentì dire proprio dalla ragazza, che doveva essere da qualche parte nello studio.
“No, non c’è proprio nessuno, parlavo da solo!”, rispose lui, indignato ma con sarcasmo, “Non sono così pazzo come credete voi!”
Un rumore di passi in avvicinamento. Sua nipote sbucò fuori dalla porta vicino alla scrivania dove stava leggendo l’arzillo nonnetto.
“Bentornato!”, disse, porgendo la mano al ragazzo.
“Adesso ho capito tutto!”, sbottò il vecchio, dopo averli osservati per qualche istante, “Tu sei venuto a corteggiare mia nipote, non è vero? Io li conosco i tipi come te! Siete tutti uguali!”
“Nonno, per carità…”, fece la ragazza, avvicinandosi a lui, “Non importunare i clienti.”
“Clienti un corno! Lo sai cosa stava facendo l'altro giorno prima di entrare qua dentro? Lo sai?!?”
“Sì, nonno, lo so cosa stava facendo.”, disse lei accondiscendente, mentre cercava di farlo calmare.
“Era inseguito da delle ragazze che volevano arrabbiarsi con lui! E’ un donnaiolo! Ascolta tuo nonno, una volta ogni tanto, noi vecchi siamo la voce della saggezza!”, continuò a sbraitare l’ometto, mentre la nipote non sapeva più che pesci prendere.
“Nonno, per favore. Questo ragazzo è un cliente. Se continuerai così lo farai scappare.”
“Mpf! Cliente! Si chiamano così oggi i fidanzati! Ma fammi andare nel mio studio… e controlla che non rubi niente!”, fece lui, scendendo dalla sua poltrona ed avvicinandosi a piccoli passi alla porta dello studio. Si voltò, dette ancora una rapida occhiataccia al ragazzo, fece sbuffare la pipa e poi chiuse l’uscio.
Georg non sapeva se scoppiare a ridere o se scappare via.
“Lo perdoni ma… ma oggi ci sta meno del solito con la testa.”, disse la ragazza, imbarazzatissima.
“Ti ho sentito!”, gridò il vecchietto da dentro la sua stanzetta.
La ragazza roteò annoiata gli occhi.
“A volte è insopportabile, altre non dà problemi.”, disse lei, abbassando il tono per non farsi sentire.
“Ma è simpatico.”, disse Georg.
“Oh sì, provi a starci insieme una giornata intera!”, fece lei, ridendo, “Comunque il suo libro è arrivato, è sulla scrivania.”
“Ah, bene!”, fece Georg, “Però, per cortesia, me lo daresti del tu?”
“Beh… come vuoi!”, fece lei, sorridendo ancora, mentre glielo porgeva “Ecco. Sono riuscita a trovare una prima edizione, ben rilegata, con ancora la copertina intatta. C’è solo un piccolo orecchio a pagina centosettatacinque.”
“Va più che bene, hai fatto anche troppo in un solo giorno!”
“Beh, non è così difficile trovare certi libri. Se mi avessi chiesto, che so, ‘I racconti di Canterbury’ nella prima edizione stampata, avresti dovuto aspettare degli anni!”
“Oh no, per adesso mi accontento di questo…”, fece Georg, che poco era interessato ad altri libri che quello.
“Fai bene, non è che qua ci siano molti bei libri come quello. Sono tutti vecchi tomi per appassionati di antichità.”
“Piace anche a te?”, le domandò.
“Sì, l’avrò letto un milione di volte.”, fece, sorridendo, “E il film? Lo hanno dato l’altra sera e, secondo te, me lo sono perso?”
“L’ho visto anche io, ma solo alla fine purtroppo.”, disse Georg, “Adesso voglio controllare se corrisponde al libro.”
“Ne rimarrai deluso come sempre.”, disse l’altra, ridendo.
“Piuttosto, quanto costa?”
“Lascia fare.”, disse lei, “Niente.”
Georg rimase interdetto. Non esisteva né in cielo né in terra che lei glielo regalasse.
“Assolutamente, voglio sapere quanto costa o non lo prendo.”, ripetè.
“Allora puoi lasciarlo qua.”, rispose lei, tranquilla.
“Non lo farai mica perchè sono io?”, azzardò a domandarle. Se lei rispondeva di sì, lo avrebbe davvero lasciato sulla scrivania.. 
"No, ma semplicemente perchè l’ho avuto da un signore che ci doveva un favore. Non l’ho pagato niente, quindi non vedo perchè dovrei vendertelo. Te lo regalo come lui lo ha regalato a noi.”
“Beh… allora non posso fare altro che ringraziarti di cuore. E non so nemmeno il tuo nome.”
“Mi chiamo Mondenkind.”, disse lei.

Mondenkind  che nome bizzarro, si disse Georg.
“Allora grazie Mondenkind. Potrei offrirti un caffè uno di questi giorni, se ti va.”, le fece. 
Visto che era stata così gentile con lui, era il minimo che poteva fare.
“Grazie ma….”, fece lei, insicura, “Mi piacerebbe molto… però…”
“Come vuoi.”, disse Georg.
“Ok…”, disse lei, a testa bassa.
“Ok sì o ok no?”
“Ok… no.”
“Va bene, mi dispiace perchè non so come sdebitarmi con te.”, le disse, un po’ interdetto.
“Mi basta che tu legga il libro… magari torna a farmi una bella recensione. Va bene?”
“Perfetto. Ci vediamo!”, disse lui, stringendole la mano ed uscendo dalla libreria.
Certo che lì dentro erano tutti strani: lasciando fare il nonno rimbambito, la nipote non era mica poi tanto regolare. Facendosi prendere da un po’ di presunzione… cavolo! Era Georg Listing dei Tokio Hotel! Non gli si rifiutava un caffè!
Poi abbandonò il suo ego pompato e tornò ad essere normale.
Ad ogni modo, quella Mondenkind era strana.

Mondenkind
Già il suo nome era tutto un programma!

  

Seduto a gambe incrociate sul suo divano, con in sottofondo un canale qualsiasi tenuto a volume più basso del ‘muto’.
Aveva ritrovato con piacere Atreiu che, con una certa punta di immodestia, se lo era immaginato con la sua faccia e con il suo bel fisico prestante, dopo aver lasciato la vecchia tartaruga millenaria Morla per trovarsi tra le grinfie di Ygramul, un gigantesco mostro formato da milioni di insetti. Da Ygramul conobbe Fucur, un drago della fortuna.
“Ma non si chiamava Falkor nel film?”, si domandò.
Vabeh, adattamento cinematografico scadente.
Fattosi pungere da Ygramul, il quale gli aveva rivelato il suo più grande segreto, cioè che il suo veleno dava la capacità a chi era stato morso di farsi apparire in posti anche lontanissimi, insieme a Fucur si ritrovò da Enghivuc e Ungula, due nanetti chiamati Bisolitari che vivevano vicino all’Oracolo Meridionale, l’unico a sapere chi era in grado di poter dare un nuovo nome all’Imperatrice e farla guarire. Enghivuc era un grande studioso dell’Oracolo e parlò ad Atreiu di tutte le sfide che avrebbe dovuto affrontare prima di raggiungerlo.
Mentre Atreiu si trovava di fronte alla prima delle tre porte che conduceva all’oracolo, composta da due altissime sfingi dorate… il suo telefono prese a squillare. Lo prese, chiedendosi chi fosse, poi in un attimo gli tornò a mente Helen.
Ma non era lei, era bensì Tom.
“Pronto?”, rispose, con tono annoiato.
Primo o secondo blocco di appartamenti?”, gli domandò diretto.
“Terzo.”, gli rispose, chiudendo la chiamata.
Non se lo ricordava mai, erano sei mesi che viveva in quell’appartamento e lui, puntualmente, ogni volta che passava a trovarlo, gli telefonava sempre per chiedergli in quale blocco vivesse.
Non ci fu tempo per Atreiu di arrivare alla seconda porta perchè Tom lo precedette, presentandosi a quella di Georg. Stettero un attimo a fissarsi, prima che il padrone di casa si spostasse dall’entrata per consentirgli di passare.
“Tieni.”, fece lui, porgendogli una scatola di pizza.
“Oh grazie.”, fece Georg, e la aprì, “Ma c’è uno spicchio solo!”
“Ho avuto un certo languorino mentre guidavo.”, si giustificò Tom, passandosi una mano sulla pancia.
“Beh… grazie comunque.”, disse Georg, lievemente disgustato. La appoggiò sul tavolino di fronte al divano e si sedette insieme al suo amico, preoccupandosi che
Tom non  lo facesse sopra il suo libro, dato che non pareva essersi accorto. Lo tolse un attimo prima che le natiche dell'amico vi si posassero sopra.
“Cos’hai in mano?”, gli domandò Tom, vedendolo nascondere qualcosa dietro la schiena.
“Oh no, niente.”, disse Georg, facendo il finto tonto.
“Va beh…”, fece l’altro, poco convinto.
“Cosa ci fai qua?”, gli chiese Georg.
“Ero nelle zone e… sono passato a trovarti, tutto qua.”, disse Tom, mettendosi le mani dietro la testa ed allungando le gambe.
“Eri nelle zone?”, sbottò Georg, “Abiti all’angolo…”
Sì, lui e suo fratello avevano comprato un appartamento, un attico, a circa un chilometro da lì. Era la migliore zona di tutta la città. Gustav viveva invece fuori dal centro abitato, più vicino alla campagna, dove poteva scorrazzare felice in sella alla sua amata bicicletta.
“Allora non posso nemmeno più venire a trovarti quando voglio?”, fece l’altro, scocciato.
“No , tranquillo, era solo per dire!”, disse Georg.
“Ok…”, fece l’altro, mettendosi a picchiettare nervosamente il piede contro la gamba del tavolino di vetro.
Georg stette un pochino a fissarlo, chiedendosi cosa potesse essergli successo.
“Bill ti ha buttato fuori di casa.”, disse poi, usando il suo infallibile sesto senso.
“Sì…”, fece l’altro, sgonfiandosi ed accasciandosi sul divano.
“Che è successo?”, gli chiese Georg, sospirando.
“Non ne voglio parlare adesso.”, fece Tom, mugolando.
“Ok.”
Era già successo altre volte che Tom si trovasse col culo fuori casa per la notte, di solito succedeva dopo pesanti litigate con Bill. Lui prendeva e se ne andava da Georg, se la rifaceva con lui per ciò che gli aveva detto Bill, poi si addormentava ed il giorno dopo se ne ritornava a casa.
“Ehm… che so, vuoi uscire?”, gli propose Georg, “Così magari ti distrai un po’.”
Vide di sfuggita l’ora al suo polso, erano le undici, la notte era ancora giovane e, benché fosse un pochino stanco per via delle estenuanti prove, non gli dispiaceva uscire un po’. Era pure venerdì, quindi c’era un motivo in più per andarsene da qualche parte.
“No…”, rispose l’altro, che se ne stava ancora sfiancato sul divano.
“Allora… guardiamo un po’ di tv?”
“No…”
“Vuoi qualcosa da bere?”
“No…”
“Da mangiare?”
“No…”
Ecco, poste le rituali domande, lui il suo dovere di padrone di casa lo aveva assolto.
“Senti, visto che non vuoi uscire, non vuoi vedere la tv, non vuoi bere e non vuoi mangiare, io me ne andrei anche a letto, dato che sono stanco e che domattina ci sono le prove. Che dici?”, gli fece, attendendosi una sua reazione del tutto scoglionata come le altre.
“Ma è presto per andare a letto.”, disse Tom, alzando la testa.
“Non ti capisco, Tom, vuoi fare qualcosa o no?”, gli domandò di nuovo Georg.
“Non lo so…”
“Allora mentre ci pensi, io vado a prepararmi per andare a letto.”, disse l’altro, alzandosi ed andando verso la cucina, per prendersi un bicchiere d’acqua. La sua mossa ingenua ma alquanto incauta rivelò a Tom l’oggetto che l’amico si era prontamente nascosto dietro la schiena.
Era un libro. Lo prese e lo voltò per leggerne il titolo.
“Ma dai!”, esclamò ridendo, “Ancora con questa storia!”
Georg spuntò dalla cucina con il suo bicchiere, chiedendosi cosa avesse da borbottare quell’altro da solo. Ma comprese subito, vedendogli il libro in mano.
“Non avevi detto di averlo riconsegnato alla biblioteca?”, gli domandò Tom.
“Sì…”, fece Georg, stizzito.
“E poi te lo sei anche ripreso!”, proseguì l’altro, iniziando a sfogliarlo.
“Adesso ridammelo.”, disse Georg, togliendoglielo di mano e mettendoselo sotto il braccio.
“Un’ultima letturina per conciliarsi il sonno vero?”, sghignazzò Tom sotto i baffi.
“Guarda che se continui ti sbatto fuori anche da casa mia!”, lo intimidì Georg con un un’occhiataccia.
“Sei diventato strano Georg… ”, esclamò Tom, sedendosi normalmente. Pareva aver ritrovato il buonumore, “Tu, che sei sempre stato una pasta d’uomo, te la vai a prendere per una scemenza.”
Georg, accortosi del suo perseverare nell’errore, sospirò. Era vero, aveva colto precisamente nel punto.

 


Il ritorno di Georgtreiu, per la felicità delle sue fans, tra cui io, ovviamente! C'era da dirlo XD

Passiamo ai ringraziamenti:

CowgirlSara: oooohhh! Vi siete piastrati i capelli insieme??? That's ammmmore!!!! XDDD Grazie per i complimenti, te l'avrò ripetuto cinquantamila volte qual è la mia incertezza su questa storia... sti ragazzetti che stanno iniziando a passare di moda! Spero di continuare ad affrontare questa situazione nel modo più realistico e verosimile possibile, sfortunatamente non ho un bagaglio di esperienze di vita in questo campo! La tipa stronza è uscita di scena, contenta? Ma tornerà? mmmhhh chi lo sa?

LaTuM: beh, spero che anche questo capitolo ti abbia preso come tutti gli altri! XD Grazie per i complimenti,  anche qua lascio col fiato sospeso? Per me no, poi sai, io conosco come si evolve la storia, per me la suspence è sotto i piedi XD Ci sentiamo su msn! Ciaooo!

Picchia: viaggi surreali? mmmm, non credo di averne fatti, tranne di mentali, miei personali, che non compaiono su internet XD aspetto una recensione più lunga per questo capitolo eh! Non mi deludere!!!

Alanadepp: la signora delle due recensioni per capitolo! XD Sconclusionate come sempre! XDD L'idea tua era quella delal bibliotecaria che poi diventava la strafiga di turno? Mah... Decisamente NO XDDD Ma sarà comunque un personaggio molto presente fino alla fine della storia...

Sososisu: weeee Polly! E Giorgino vulcano, che scoppia ogni trenta secondi, non si sa controllare... ci vorrebbe qualcosa (qualcuno) che lo faccia sfogare ben bene... anche più di qualcosa (qualcuno) XDDD Io mi propongo, ti accodi al gruppo? XD ci sentiamo su msn! Ciaooo!!

Dark_Irina: sis, hai colto in pieno i miei richiami al libro anche con la storia di Mac. Diciamo che sono stati un po' involontari, soprattutto la storia del suo tatuaggio, perchè al tempo non avrei mai pensato di scrivere poi qualcosa sulla storia infinita. E poi quel tatuaggio vorrei farmelo tanto anche io, chissà se prima o poi mi marchierò a fuoco come il mio personaggio XD ma il finale di time and destiny, il 'ma questa è un'altra storia', è preso direttamente dal film, ma anche dal libro, perchè questa frase ricorre più volte anche all'interno dei capitoli centrali... vabbè, solo una spiegazione fatta al volo!  Spero che anche questo capitolo ti piaccia! ciao!!!

Kit2007: Sinceramente non ho mai pensato di farlo per professione, nono, è solo un diletto che impiega il mio tempo libero dallo studio XD lascio agli altri scrivere bei romanzi, io mi limito a queste fanfic! Grazie per tutti i complimenti, ci sentiamo su msn! ciaooo!

Lidiuz93:  Non sei l'unica che ha Helen in quel posto! eheheh! Grazie per la recensione e per tutto il resto! Ciaoo!

_Princess_: Helen, per il momento, è uscita di scena, quindi i tuoi dubbi amletici possono considerarsi terminati XD di incazzature tra di loro ce ne saranno diverse, più o meno pesanti. Spero di renderli realistici, o quantomeno, verosimili. Se non fosse così dimmelo, rimedierò in futuro. Ciao! E complimenti per la tua storia, mi piace davvero tantissimo! Bravissima!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

 

Si sedette accanto all’amico, con il libro appoggiato sulle gambe, lasciando che la testa si riposasse sulla spalliera del divano.
“C’è qualcosa che non va Georg?”, gli fece Tom.
“Bah…”, sbuffò l’altro, facendo spallucce, “L’album non vende, il gruppo sta andando a rotoli, la mia ragazza mi ha praticamente lasciato…”
“Dai, non metterti a fare l’emo, per cortesia, già basta mio fratello!”, sbottò Tom. 
Non aveva voglia di parlare di quanto fossero nella merda le loro vite in quel momento, già glielo aveva sbattuto in faccia Bill poco prima di farlo anche con la porta, quindi non era intenzionato a starsene ad ascoltare il lungo piagnisteo di Georg
“No, tranquillo, non mi taglierò le vene… almeno non stasera!”, disse Georg, ridendo.
“Ah meno male… avevo messo i vestiti nuovi e non volevo sporcarli subito.”, proseguì Tom nell’ilarità, seppur breve, del momento.
“E’ un periodo decisamente sfigato…”, disse Georg.
“Sì… lo è.”
“Abbiamo buttato la spugna.”
“Già.”
“E perso la speranza.”
“Eh sì.”
“Mi sto rifugiando in un libro per scappare un po’ dalla realtà.”
“Non lo avevo capito!”
“Sei un psicoanalista di merda.”
“Concordo pienamente.”
“Hai finito di annuire a tutto ciò che dico? Hai intenzione di ascoltarmi?”, fece Georg, sapendo che la conversazione non sarebbe stata più seria di così.
“Avrei un po’ di sonno Georg.”, disse Tom, facendo una piccola smorfia con le labbra. 
No, proprio no, non aveva voglia di ascoltarlo.
“Ti ricordi dov’è la camera degli ospiti oppure mi chiami per sapere dov’è?”, gli chiese poco ironicamente Georg.
“Stavolta non fallirò.”, fece l’altro, alzandosi ed andando verso la porta giusta.
“Bravo, è quella. Notte Tom!”, gli disse, con un cenno della mano.
“Notte anche a te.”, rispose l’altro, chiudendosi la porta alle spalle.
Georg sbuffò annoiato.
In condizioni normali, Tom sarebbe stato ad ascoltarlo. A guardarlo, pareva uno sbarbatello senza un minimo di intelligenza… ed invece si rivelava avere due belle orecchie pronte ad ascoltare chiunque avesse bisogno di sfogarsi. Tra i quattro era quello con cui aveva legato di più, avevano caratteri molto simili.
Ma tante cose erano cambiate, non solo dentro Georg, che si era fatto più scontroso ed irascibile. Tom pareva quasi sordo, le sue orecchie erano diventate piccole piccole e sembravano essere capaci di stare a sentire solo se stesso e non gli altri. Era diventato scostante e spesso anche irritante…E non erano gli unici ad aver subito questo cambiamento: anche Bill, pure Gustav, parevano diventati altre persone.
Quasi quattro estranei, poteva dire, che ormai avevano in comune solo il fatto di far parte dei Tokio Hotel. Per il resto quasi più niente. Beh, riflettendoci bene, ma proprio bene, non erano proprio messi così male. Erano sempre amici, ma…
Nemmeno con una catena sensata e razionale di pensieri sapeva come dare una spiegazione a quello che stava succedendo loro, ai Tokio Hotel. Ma soprattutto, cosa stava succedendo a Georg, Gustav, Bill e Tom.
Perchè erano loro i Tokio Hotel.
E se loro stavano male, anche i Tokio Hotel stavano male.
Forse con l’aiuto di un’analista poteva arrivare al capo della questione.
Da solo, purtroppo, non poteva riuscirci e probabilmente era per questo che quel libro fantastico lo attirava così tanto. Lasciare la realtà scorrere e perdersi in Fantàsia, nelle avventure… era una cosa infantile, da bambini piccoli, lo sapeva e non gliene fregava un bel niente.
Dato che fuori la vita faceva abbastanza schifo, almeno dentro quelle parole poteva trovare un po’ di pace. Era una serenità illusoria, che durava  il tempo di aprire e chiudere il libro; ne era perfettamente a conoscenza. 
Ma anche di questo non gliene fregava nulla.

  

***

Oramai trovava quella porta ad occhi chiusi. Avrebbe riconosciuto la crepa del legno che c’era in basso a sinistra tra mille altre crepe di mille altre porte uguali a quella. Ed avrebbe anche potuto distinguere il particolare tintinnio delle campanelline appese a quella; l’odore particolare del legno vecchio, della carta ingiallita, della polvere…
Quella libreria, così antica ed estranea alla modernità, aveva il suo fascino. Non sapeva in cosa consisteva: nella poca luce delle lampade appese al muro ma forse più semplicemente nell’essere proprio… vecchia. Lì dentro pareva non esserci niente di nuovo, tutto era datato, tutto era ingiallito, tutto era fuori moda, se così lo si poteva descrivere.
Tutto pareva di un’altra epoca, di un altro secolo. Non sembrava di essere nel ventunesimo millennio, lì dentro. Pareva di tornare indietro nel tempo, forse agli anni cinquanta o sessanta del novecento. Un salto nel passato.
Un’atmosfera magica, si azzardò a pensare Georg, prima di entrare.
Si tolse gli occhiali da sole, con la penombra gli rendevano impossibile la vista, e allentò la stretta della sciarpa.
Il signor Metternich spuntò guardingo dagli scaffali di legno: i suoi occhialini sulla punta del naso lo rendevano ancora più minaccioso.
“Buongiorno.”, gli disse, quasi timoroso.
“Ah sì, è lei, il giovanotto…”, fece il vecchietto, soffermandosi con molto sarcasmo sulla parola giovanotto. 
Si tolse la pipa dalla bocca, non dopo aver fatto un altro anello di fumo.
“Mia nipote non c’è.”, gli disse.
“Ok… e quando la posso trovare?”, gli domandò, colto alla sprovvista da quell’informazione così diretta.
“Mi faccia capire bene.”, fece il signor Metternich, avvicinandosi a lui con fare un po’ zoppicante, “A lei piace tanto andare per ragazze…. Cosa ci trova in mia nipote?”
L’ultima domanda suonò quasi come una minaccia.
“Beh… a dire il vero non è che io vada con tante ragazze…”, cercò di spiegare.
“Sì, sì… guardi che io non sono nato ieri!”, irruppe l’uomo, innervositosi.
“Senta, ho capito che pensa che io sia il diavolo sceso in terra, “, provò a dire Georg, “ma, mi creda, non ho nessuna brutta intenzione con sua nipote, non la sfiorerei nemmeno…”
“Forse vuol dire che è tanto brutta che non la si può nemmeno guardare?”, sbuffò subito l’ometto.
Oddio… questo era proprio un osso duro!
Stava per controbattere, quando sentì un rumore provenire dallo studiolo.
“Nonno? C’è qualche problema?”, sentì dire dalla voce della nipote, lontana ed ovattata dal muro che la separava dai due.
“No, tutto a posto.”, rispose il vecchietto.
“Hai bisogno di una mano?”, domandò lei, di nuovo.
“Sto risolvendo da solo!”, sbottò lui, infastidito.
O interveniva, oppure avrebbe dovuto sorbirsi di nuovo la predica del vecchietto.
“Ehm… Mondenkind?”, la chiamò. Il vecchietto gli lanciò un’occhiata di sbieco che avrebbe incenerito chiunque.
Dopo qualche secondo la ragazza apparve sulla porta dello studio.
“Hey! Ciao Georg!”, lo salutò lei, andandogli incontro per stringergli la mano, “Non aspettavo di vederti arrivare così presto! Sono solo due giorni che hai quel libro, già lo hai finito?”
“No, ancora no, sono sempre a metà. Ieri sera sono arrivato al punto in cui Atreiu arriva dall’Imperatrice ed avrei anche continuato se non mi fossi addormentato con il libro in mano!”, disse Georg, sorridendo.
“Non sarà mica un libro che ti fa addormentare?”, gli chiese Mondenkin sorridendogli.
“Certo che no!”, sbuffò Georg, “Tutt’altro, ma ieri sera ero molto stanco, ho avuto una giornata molto difficile.”
“A correre dietro ad altre ragazze!”, piombò il vecchietto, che fino a quel momento era stato messo in disparte e reclamava la sua parte nella conversazione.
“Nonno! Per favore!”, lo rimproverò Mondenkind, “Così lo metti in imbarazzo!”
L’ometto sbuffò, si rimise la pipa in bocca e, con il solito passo zoppicante, si allontanò dai due per chiudersi stizzito dentro lo studio.
“Scusalo, oggi è ancora più scorbutico del solito.”, disse Mondenkind.
“Fa niente.”, le rispose, “Allora? Ci stai per questa recensione dal vivo? Magari davanti ad un caffè? Conosco una caffetteria che il sabato pomeriggio si inventa dei miscugli pazzeschi e sono pure buoni!”
Il sorriso di Mondenkind parve diventare forzato appena lui le chiese quella cosa.
“Beh… volentieri… solo che ho un po’ di lavoro arretrato, devo catalogare dei nuovi arrivi….”, gli disse.
“Ok…”, le disse, “Ma in qualche modo dovrò pure ricambiare il libro.”
“Ti ho già detto che non mi devi niente, quel libro l’ho avuto senza tirare fuori un soldo.”, gli ripetè Mondenkind, come aveva fatto qualche giorno prima.
Lei sembrava del tutto restia a ricevere quel caffè. Proprio non ne voleva sapere e lui non capiva il motivo di tutto ciò.
“Per caso hai un fidanzato? E’ per questo che continui a non accettare?”, le chiese.
Lei parve reprimere un sorriso, abbassando la testa.
“No, non è per quello.”, disse, “E’ solo che…”
Allora Georg comprese che non era meglio insistere. 
Sicuramente lei aveva il suo buon motivo per non accettare e non era il caso continuare a chiederle perchè.
“Va bene, capisco. Non ti preoccupare, Mondenkind.”, le disse, sorridendole.
“Ok.”, fece lei, ridendo.
“Beh… visto che non posso sdebitarmi come vorrei, non mi rimane altro che dirti grazie ancora.”, le disse.
“Prego.”, rispose Mondenkind, con un sorriso un po’ troppo stretto. 
Era quasi indecifrabile: Georg non seppe dire se lo faceva solo per cortesia oppure se era imbarazzata.
“Scusami, non vorrei che insistendo abbia causato qualche problema.”, le fece, terribilmente mortificato con lei.
“Tranquillo, Georg.”, disse lei.
In quel momento accadde qualcosa che non si seppe spiegare. Fino a tre secondi prima, era del tutto sicuro che Mondenkind fosse la bibliotecaria bruttina, nipote del signor Mondenkind, con i capelli neri raccolti in una lunga treccia, con gli occhialini lillà sulla faccia che nascondevano un paio di occhi chiarissimi ed il golfino giallo. Eppure ci fu un momento, un attimo, un istante, una frazione di secondo in cui ebbe come una visione fugace, un fotogramma estraneo alla sua vista.
Mentre lei pronunciava il suo nome, scandendo con serenità, gli parve quasi di avere tutt’altra persona davanti. Ma non una persona normale, qualunque. Una persona che non era una persona… un essere umano…
“Georg? Georg ci sei?”, gli fece Mondenkind, con occhi preoccupati, scuotendolo con dei colpetti alla spalla.
“Oh sì… sì, certo.”, disse, recuperandosi, “Ho avuto solo… un giramento di testa, ecco.”
“Stai bene?”, gli chiese lei, facendosi immediatamente apprensiva.
“Sicuro, solo un momento di smarrimento.”, cercò di tranquillizzarla, ma non parve sortire l’effetto giusto.
“Vuoi sederti? Vuoi un bicchiere d’acqua?, gli domandò lei.
“No, sto benissimo, ogni tanto ho momenti del genere… è come un reset!”, le disse, sorridendo, mentre andava verso la porta, “Ci vendiamo Mondenkind. Tornerò quando avrò finito il libro!”
“Va bene…”, disse lei, rimanendo con le mani in mano.

 

Si sedette in macchina ma, invece di premere il pulsante dell’accensione, rimase qualche secondo a riflettere. Ancor prima di formulare qualsiasi pensiero, si dette dello stupido per essere rimasto a fissare imbambolato Mondenkind. Lei se ne era accorta, ma non sembrava esserne uscita imbarazzata, anzi, si era preoccupata per il suo ‘mancamento’, come lui lo aveva definito per scusarsi.
In quell’attimo fugace, forse un raggio di sole era entrato, oltrepassando l’opacità del vetro, e lo aveva, in un certo senso, accecato, facendogli percepire per un piccolo secondo tutta un’altra realtà.
E qual era questa fantomatica realtà che gli era parso di vedere?
Boh, non se la sapeva spiegare.
Non trovava le parole giuste per farlo.
Ma in quell’istante era stato quasi come se avesse avuto la capacità di vedere oltre agli occhialini lilla, alla treccia nera ed al golfino giallo di Mondenkind, per trovarci un’altra persona del tutto diversa da quella che lei sembrava essere.
Che tipo di persona? Anche lì, le parole che gli salivano sulle labbra non sembravano essere adatte.
Non era razionale quello che stava succedendo nella sua testa: aveva visto Mondenkind ma non era Mondenkind. Allora chi era? Era sempre lei con altri vestiti? I vestiti erano gli stessi ma cambiava lei? Lei era del tutto diversa? Aveva altri capelli, altri occhi, altro viso?
No. Quella che aveva visto in quella frazione era sempre Mondenkind, sempre lei. Ma non era lei… Era come se, intorno a lei, aleggiasse qualcosa di vago, indefinito…
Ah! Mannaggia alle parole, pensò Georg, e al non trovare quelle giuste!
……..
Erano pensieri sciocchi, stupidi, cretini. Lei non era nessun’altro se non la nipote del signor Metternich, che lavorava in quella libreria antiquaria e che era del tutto restia da prendere un caffè con lui.
Mondenkind era Mondenkind.
E su questo non c’era da discutere.
Mentre premeva il pulsante di accensione del motore gli venne da fare uno sbadiglio, talmente grande che gli lacrimarono gli occhi. Era stanco, avevano provato tutto il giorno, tutte le loro canzoni. Tutte.
Avrebbe tanto voluto sdraiarsi sul divano e dormire e sicuramente lo avrebbe fatto, ma avrebbe anche voluto uscire, svagarsi, divertirsi e non pensare a nient’altro.
Poteva chiamare gli altri tre.
No, erano già stati insieme per otto ore di fila, poteva anche bastare. Avevano litigato, anche abbastanza pesantemente, per due volte. Una alla mattina ed una alla sera, poco prima di salutarsi.
La questione aveva coinvolto, nel primo caso, lui con Bill: gli aveva rimproverato di essere ben un’ora in ritardo, tanto che Tom era arrivato per conto suo, e l’altro gli aveva risposto di farsi i cazzi suoi eccetera eccetera.
Nel secondo caso, Tom se l’era presa con Gustav ma, dato che lui era stato in bagno per parte della discussione, non aveva capito il motivo per cui stessero litigando.
Voleva buttarsi alle spalle quella settimana schifosa, voleva concluderla in bellezza, magari andando in un locale, in un club, conoscere qualcuna e passarci qualche ora insieme, senza pretese ma con tanto buon sesso. Ora che ci pensava, per via di tutti i suoi impegni, erano diversi giorni che non… insomma, a parte quella ultima mezza volta con Helen, prima che il fattorino li interrompesse. Ma anche prima di quella ce n’era stato ben poco…
Sì, i suoi programmi per la serata erano stati stabiliti. Avrebbe chiamato Fabian, il suo storico migliore amico, e si sarebbero chiusi in un locale a divertirsi.

  

Con il suo drink in mano, l’altro braccio appoggiato sul bancone, mentre alle sue spalle barman acrobatici stavano preparando cocktail alla velocità della luce. Fabian si era già accomodato con una simpatica rossa, lui ancora non aveva trovato nessuna di suo gradimento. Si guardava intorno, scrutava qualche faccia, qualche sorriso, qualche paio di gambe… ma niente.
Cazzo!
Era la serata del divertimento e si doveva divertire!
Punto e basta.
Punto e a capo.
Eppure niente.
La musica stava facendo schifo, la gente non era di meglio, intorno a lui solo gente alticcia. Era nel giusto mood, stava bene, si sentiva rilassato ma… niente, non c’era nulla da fare. Gli altri si davano alla pazza gioia e lui scompariva con la tappezzeria
Quei due accanto pomiciavano che era una meraviglia.
Lui se la faceva con il bicchiere di mojito.
Era meglio togliersi dai piedi, mandare un messaggio a Fabian e dirgli che se n’era tornato a casa in taxi. Erano venuti con la macchina di lui e, visto che decideva di togliere baracca e burattini prima della fine della serata, doveva arrangiarsi. Lo fece presto e, dopo aver riposto il cellulare in tasca, si avviò verso l’uscita.
Furono tante le persone con cui si scontrò, volarono diversi ‘scusami’ ma anche altrettanti ‘vaffanculo scemo guarda dove metti i piedi’. Non ricambiò nessuna di quelle parole, le ignorò semplicemente.
Prima che riuscisse a scavalcare l’ultimo gruppetto di persone, il suo braccio fu nuovamente urtato da qualcuno. Con la coda dell’occhio, fu sicuro di vedere una lunga treccia nera…
Si voltò e, come un’idiota, perse quasi l’equilibrio. Non c’era nessuna treccia nera… nessuna Mondenkind.
O si sentiva inconsciamente in colpa con lei per quel favore non ricambiato…
O si stava facendo sfottere il cervello.
Qualsiasi fosse stata la risposta a questi due dubbi, era meglio tornare a casa, farci una dormita sopra e dimenticare tutto.
Mondenkind compresa.

 
***

  

Mercoledì era arrivato.
Più velocemente di quanto avesse mai pensato.
I giorni, uno dopo l’altro, si erano susseguiti freneticamente. Prove, interviste e servizi fotografici per pubblicizzare l’evento. Non c’era stato un solo momento per respirare, avevano lavorato fino a tardi, lasciando il giorno agli appuntamento pubblici e la sera alle prove fino a tarda notte.
Inutile dire quante volte si erano scontrati tra loro, la tensione e la stanchezza erano così alti da far crepare un toro. Ma se quella esibizione fosse andata in porto, tutto avrebbe preso un’altra svolta. Se avessero fatto un buon lavoro, in diretta televisiva, la loro immagine si sarebbe sollevata e potevano buttarsi qualche spauracchio alle spalle, per poi partire con il tour… Se si fossero impegnati al massimo, avrebbero potuto anche prendere la loro sorte con più ottimismo, invece di stare sempre a pensare al peggio…
Era il loro giorno del giudizio
Paradiso o inferno, erano loro a disegnare il loro prossimo futuro.
Gustav era impegnato altrove, si stava concentrando con la sua musica e non voleva essere disturbato. Bill si stava scaldando la voce nell’altro camerino, lo poteva sentire anche da lì. Tom, sdraiato nel divano di fronte a lui, respirava profondamente.
Mancavano una quarantina di minuti all’inizio dello show.
Il nervosismo stava salendo, piano piano, lento, ma ad ogni minuto diventava sempre più grande. Qualcuno bussò alla porta ed entrò senza attendere che gli venisse dato il permesso per farlo.
Era David.
“Ragazzi, sono tutti con voi i vostri strumenti?”, chiese loro, con aria preoccupata.
“I miei due bassi sono qui.”, disse Georg, facendo spallucce.
“La mia chitarra è sul palco, l’ho lasciata lì.”, rispose a sua volta Tom, con tranquillità.
 “Tom, ne sei sicuro?”, chiese un’altra volta David.
“A meno che non abbia messo le gambe e non si sia incamminata per la via di casa…”, ironizzò Tom.
“Perchè ce lo chiedi?”, fece Georg, perplesso.
“Sul palco non c’è niente Tom… quante volte te l’ho detto che non dovete lasciare gli strumenti sul palco!”, si animò David, perdendo del tutto le staffe.
“Ma come? E dov’è?”, fece Tom, allarmandosi.
“Che cazzo ne so dov’è la tua chitarra, Tom! L’hanno presa! L’hanno portata via!”, gli gridò contro David, totalmente incazzato.
Come un fulmine, Tom sfrecciò via dalla stanza. La sua chitarra era scomparsa, non si trovava, l’avevano presa, l’avevano rubata, l’avevano nascosta… non si sapeva cosa era successo, fatto stava che era sparita dal suo sostegno, sul palco. 
Se non la trovavano erano fottuti…
David seguì prontamente Tom, mentre Georg affondò le dita nei capelli. C’era stata una possibilità, tutto stava per andare per il verso giusto… poi era arrivato il cretino di turno che si rubava la chitarra di Tom. Se lo avesse trovato, se avesse capito chi era questo coglione, gli avrebbe aperto il culo seduta stante.
Più che cercarla in lungo ed in largo, era meglio farsene dare un’altra dalla direzione dello spettacolo… Ma cazzo! Tom si portava sempre tre o quattro chitarre dietro, ad ogni cazzo di spettacolo… stavolta doveva venire solo con quella! E se la direzione non avesse avuto nessun strumento di riserva? Come cazzo avrebbero fatto? Non valeva la pena salire in una macchina e andare a prenderne un’altra allo studio… erano distanti almeno tre ore di viaggio!
Guardò velocemente l’orologio… mancava solo mezz’ora allo spettacolo.
“Merda!”, gridò ad alta voce. Con un gesto rapido ed arrabbiato della mano, fece volare via il cuscino che se ne stava pacifico sul divano.
Bill apparve alla porta del camerino, con viso stravolto.
“Te l’ha detto David?”, gli chiese.
“Sì…”, sbuffò Georg.
“Cosa lascia a fare in giro la sua chitarra!”, fece Bill, pronto a sfogare la sua rabbia.
“Non lo ha fatto apposta.”, cercò di difenderlo Georg.
Effettivamente, di tutte le volte che Tom, oppure lui stesso, avevano lasciato gli strumenti in scena, quella era la prima in cui sparivano.
“Non me ne frega un cazzo! Adesso per colpa sua lo spettacolo andrà a monte e ci faranno un culo così!”, continuò a gridare Bill, in una crisi isterica che sembrava appena iniziata.
“Bill, calmati, non serve a niente perdere la pazienza adesso…”, disse Georg fermamente, ma non servì a nulla. Bill scomparve dalla porta del suo camerino, furibondo, non avrebbe sentito altre ragioni tranne le sue, era meglio non averci a che fare.
Si buttò a peso morto sul divano, a braccia conserte sul petto. Un’occasione d’oro, l’unica disponibile sul mercato, buttata nel cesso. Non per colpa loro… ma comunque dentro al cesso, giù per il tubo, fino alle fogne, dentro al mare.
C’era solo da aspettare che la situazione si risolvesse… era necessario annunciare che ci sarebbero stati dei ritardi per colpa di disfunzioni tecniche.
Avrebbe voluto prendere tutto a calci e a pugni, ma era la cosa più inutile e stupida che potesse fare in quel momento. Se prima della scomparsa della chitarra di Tom era nervoso, adesso poteva dirsi in preda di una crisi d’ira. Doveva trovare un modo per calmarsi… Si accese una sigaretta ma, nel giro di pochi minuti, era già arrivato al filtro e si sentiva più incazzato di prima.
Andò nel frigo e prese una birra, se la scolò quasi in un secondo. Nessun effetto positivo. Anzi, si sentiva ancora come la corda tirata dai partecipanti, a destra e a sinistra, che stava per strapparsi in mezzo…
Camminava avanti ed indietro nel camerino, senza sosta, mentre la rabbia ribolliva dentro di sé. Incautamente, inciampò sul laccio del suo borsone, rovesciandolo a terra. Un asciugamano ed un maglietta di ricambio pendevano dal bordo dentellato della zip, un libro aperto, spaginato, giaceva invece sul pavimento freddo.
Lo raccolse e lo richiuse, sistemando le pagine affinché non si spiegazzassero ulteriormente. Rilesse il titolo, ormai lo conosceva a memoria.

La Storia Infinita.

Non si ricordava di averlo messo nel borsone. Anzi, gli pareva di averlo abbandonato nel cassetto del suo comodino, di avercelo messo quella sera di ritorno dalla discoteca… Mah, pensò, magari lo aveva buttato nella borsa in un momento in cui non doveva essere stato molto sveglio o attento.
Si sedette sul divano, una letterina fantastica poteva essere più utile di alcol e fumo. Sfogliò le pagine finchè non trovò il punto esatto in cui aveva lasciato la storia.
Ritrovò Atreiu in piedi davanti all’Infanta Imperatrice.
Lei cercava di spiegargli che la sua Grande Ricerca del Figlio dell’Uomo, l’unica persona in grado di poterle dare un nome e farla rinascere, era terminata, anche se lui era sicuro di aver fallito perchè non era riuscito a trovarlo in nessun luogo di Fantàsia.  Ma mentre Atreiu sembrava non capire, nel frattempo Bastian, che leggeva quelle parole, stava iniziando lentamente a realizzare qual era il suo ruolo in quella storia. Ma ancora non aveva la forza per pronunciare un nome…
Cosa ci voleva a dire un nome? Uno stupidissimo nome! Gliene venivano a mente un milione: Julia, Lia, Jennifer, Martha, Sarah… Ecco, lui l’avrebbe già salvata se fosse stato Bastian, ma sfortunatamente era Georg Moritz Hagen Listing e, vivendo nella realtà, non aveva questo ‘fantastico’ potere.
Costretta a ricorrere ad una via alternativa per chiamare Bastian in Fantàsia, per salvarla, l’Infanta Imperatrice dovette recarsi dal Vecchio della Montagna Vagante, l’unico che poteva darle un aiuto…
Gli tornò in mente il film, dove i fatti non si erano svolti assolutamente in quel modo. Infatti Bastian, pregato dall’Imperatrice in lacrime, si abbandonava ai suoi sogni e, affacciatosi alla finestra della soffitta della scuola, tra la pioggia ed i fulmini, gridava il nome di sua madre…
Tornò con la mente e gli occhi sul libro.
Trovato il Vecchio della Montagna Vagante, l’Infanta Imperatrice scoprì che era lui stesso a scrivere la medesima storia infinita che lui, lei, Bastian e tutti gli altri abitanti del mondo terrestre e di Fantàsia stavano vivendo.
Complicati!, esclamò Georg, ridendo tra sé e sé.
L’unico modo per far rinascere Fantàsia, ormai completamente inghiottita dal Nulla, era dare il suo destino nelle mani di Bastian. Sarebbe stato lui, con i suoi desideri, a farla rinascere dall’ultimo granello di polvere rimasto di essa.
Per chiamarlo a sé, il Vecchio della Montagna Vagante fu costretto a leggere tutto ciò che aveva scritto fino a quel momento.

...Perchè la Storia Infinita sta dentro la Storia Infinita…

Georg lo lesse direttamente dalle parole stampate, ma non riuscì a comprenderne a pieno il senso. Che cosa significava? Perché la storia infinita stava dentro se stessa? Provò a rifletterci sopra, però non riuscì comunque a capirci qualcosa… Forse non aveva colto il vero spirito di quel libro.
Ad ogni modo, Bastian nelle parole che il Vecchio leggeva sul libro, rivisse la sua giornata, dal momento in cui precipitò dentro alla libreria del signor Koreander fino a quello in cui il Vecchio prese a leggere il suo libro. E poi ancora, ed ancora… e ancora di nuovo. La storia iniziò a ripetersi nelle parole del Vecchio per decine di volte finchè Bastian, comprendendo che era l’unico in grado di poter fermare quel cerchio inesorabile, gridò improvvisamente un nome… 

...Mondenkind…

“Mondenkind?”, borbottò Georg.
Bastian aveva dato all’Infanta Imperatrice il nome Mondenkind…

Mondenkind.
Come la ragazza della libreria. Che coincidenza, pensò Georg, quando il caso ci si metteva di impegno…
“Georg! Che cazzo stai facendo!”, urlò Gustav, fuori dalla porta, rimasta per tutto il tempo aperta, interrompendo il suo sorriso a fior di labbra.
“Uhm?”, fece lui, distogliendo lo sguardo e l’attenzione dal libro.
“Ti vuoi muovere imbecille!”, gridò ancora l’altro, “Che cazzo ci fai ancora lì!”
“Beh…”, disse Georg, infilando il libro dentro la borsa.
“E dove cazzo sono gli altri!”, riprese Gustav, che quando perdeva la pazienza era un pericolo pubblico.
“A Tom hanno rubato la chitarra, lo sapevi?”, lo informò Georg, intuendo che forse lui non sapeva niente.
“Certo che lo so, mica sono deficiente! Siamo in ritardo di un quarto d’ora e là fuori vogliono farci il culo!”
Georg guardò l’orologio.
Aveva perso totalmente la cognizione del tempo. E anche della situazione reale che stava vivendo.
“Hanno ritrovato la sua chitarra?”, chiese a Gustav, mentre imbracciava il suo basso.
“Sì… quelli dello studio l’avevano messa al sicuro, al riparo… l’hanno trovata cinque minuti fa.”
“Ah bene… allora iniziamo?”
“Se non ti dispiace! Mancavi solo tu all’appello!”, gli fece Gustav, che sembrava avere i carboni ardenti sotto ai piedi.

 

L’unplugged dei Tokio Hotel, in diretta televisiva, per i minuti in cui la chitarra di Tom risultava ancora introvabile perchè coloro che se ne dovevano occupare sembravano essersi furbescamente volatilizzati proprio prima dell’inizio dello spettacolo, era stato sostituito da una specie di improvvisazione teatrale, fatta dal presentatore, un ragazzo buffo con un pizzetto strano, e dalla sua spalla, un paio di gambe chilometriche che sostenevano una ragazza bionda platinata.
Il pubblico, già in agitazione per l’evento, quando seppe che per problemi tecnici il gruppo non si sarebbe subito presentato sul palco, iniziò lentamente ad andare in escandescenza e, al momento in cui i ragazzi entrarono in scena, il regista fu costretto a mandare a nero, cioè a inserire uno stacco pubblicitario improvviso, per salvare gli spettatori a casa dalle cannonate di fischi che vennero rivolti ai Tokio Hotel.
Georg lesse la delusione sulla faccia di Bill.
La rabbia su quella di Tom.
La sconfitta su quella di Gustav.
E sulla sua?
Un miscuglio di tutti questi sentimenti.

  

Non era il caso di stare a rivangare tutto quello che era uscito dalle loro bocche dopo l’unplugged.
Non era il caso di pensare al fatto che l’esibizione aveva fatto schifo.
No, di più.
Aveva fatto letteralmente cagare.
Di merda.
Lo schifo più assoluto.
Fuori tempo, stonati, parevano un gruppo messo insieme all’ultimo momento. L’unica cosa che riuscirono a rispettare fu la scaletta, almeno su quella non si sbagliarono.
Il pubblico se n’era accorto all’istante e, anche se la redazione era riuscita a calmarlo, si fece sentire diverse volte con i suoi fischi.
Erano tornati in camerino imprecando e bestemmiando talmente tanto che i santi del calendario erano fuggiti via. Si erano gridati contro cose impossibili. Ognuno era salito nella macchina, guidata dal solito Saki, senza rivolgere all’altro nemmeno una parola, un pensiero o uno sguardo. E nello stesso modo erano stati accompagnati alle loro case.

 


EHEHEHEH 11 recensioni di cui almeno 10 si chiedevano: ma che minchia e minichia di nome è Mondenkind? eheheeh! Che genitori fantasiosi che ha quella ragazza? (che genitrice XDD). 

Ho scovato un giorno, girovagando per Wikipedia, che nella versione originale, cioè tedesca, del libro perchè l'autore è tettesco, che Mondenkind è il nome che Bastian da all'Imperatrice Bambina. In italiano è Fiordiluna (bleah). 

Questo avrà qualche ripercussione sulla trama? Tranquille, riponete i vostri cervellini andati in fiamme! Semplicemente mi piaceva come nome e l'ho usato.

Coooooooooomunque, ora che il "mistero" del nome è svelato, passiamo ai ringraziamenti!

Cowgirlsara: spero che ripeterai le solite parole che dicevi nella rcensione, cioè che la crisi è sempre più realistica... soprattutto da questi capitoli in poi, che saranno incentrati soprattutto su di loro ed il libro verrà lasciato perdere per un po'.... daidai! La cucina? Mondo convenienza oppure all'Ikea????

Dark_Irina: ecco il seguito delle mirabolanti avventure del nostro (mio) beniamino preferito, Georgtreiu! XDDD spero che il capitolo sia di gradimento almeno tanto quanto sono piacevoli le tue recensioni! *me arrossice*

Sososisu: weeee, Pollicina! Il club della piastra che non perdona è stato fondato, presidentesse onorarie me e te, ovviamente. C'è da dire altro? Ah, sì! Piaciuto il capitolo? Spero proprio di si! Ci sentiamo!

Princess: per rispondere ai tuoi tre punti 1) Helen sta sul cavolo anche a me che l'ho creata. 2) se mi uccidi la bilbiotecaria... XD la resuscito! XD 3) ti dispiace, quando ti accaparri dell'uomosesso, lasciarmelo almeno per cinque minuti? Tanto più di quelli non dura... XDD te lo ridò come nuovo, I promise! Ti rigrazio vivamente tutti i complimenti che mi hai fatto, detti da te mi fanno molto piacere, soprattutto perchè sei un'autrice che stimo tantissimo. La tua storia fa veramente venire i lacrimoni per la sua dolcezza (appena posto vado subito a leggere l'aggiornamento). Ah si? Anche tu hai scritto una caratterizzazione delle litigate dei due K che è simile alla mia? XDD ormai li conosciamo più di loro stessi (ma quanto siamo presuntuooooose!!! XDDD). Alla prossima!

Kltz: Fondiamo la lega per la soppressione sistematica di tutte le helen di questo modo (che poverelle hanno in comune con la mia solo il nome, ma fa lo stesso). Ah! Ho visto che hai pubblicato qualcosa di tu! Molto bene, lo leggerò sicuramente e lascerò un commento, te lo devo! Grazie di tutto!

Natalia: spero allora che anche questa storia vada tra i tuoi preferiti! XDD purtroppo non si può dare un parere sul georg migliore della sezione, secondo me, perchè forse a parte la mia e pochiiiiiiiissime altre non ci sono storie che parlano di lui, come protagonista, intendo! E la cosa mi dispiace parecchio perchè, oltre ad essere un gran pezzo di sequoia, è anche un personaggio che stimolerebbe la fantasia molto di più che dei Kaulitz, che sono sempre in primo piano. Prometto che mi impegnerò su questo fronte! E che ne scriverò una anche su Gugu... è già in cantiere!

LaTuM: il mulo deve avere una statua in ogni piazza italiana, una via dedicata in ogni sobborgo urbano!!! ehehe! Ci becchiamo su msn! E grazie di nuovo per la citazione sul tuo blog, non sai davvero quanto piacere mi abbia fatto!

Picchia:  ho pescato nel cappello del cappellaio matto di alice nel paese delle meraviglie!!! Il riciclo di Helen ci sarà... ma per una cosa mooooolto lontana dal libro... mooooolto reale... mooooolto vedrai XD nessuno sfogo agli amichetti, ci ho già pensato con le shot che ho scritto (ne ho terminata poi un'altra, te la passo se vuoi XD), la mia mente tossica lavora lavora lavora per voi! come nella salerno reggio calabria, solo che i lavori in corso vengono terminati XD

Ciribiricoccola: Tom rompicoglioni e anche un po' stronzarello. Eh, insomma, c'è il tuo amico che ha bisogno di un conforto e tu gli volti il culo? ma in che mondo vivi???? eheheh!

Kit2007: se il capitolo precedente ti è sembrato cinico e pessimista, quando leggerai gli altri ti metterai l'anima in pace... eheheh, tempi duri per i tokio!

Lidiuz93: eh, i twins sono dei grandissimi stronzi, se ci si mettono. Anche nella realtà, secondo me! XDDD grazie e alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 CAPITOLO 6

 

Profonde occhiaie stavano solcando i suoi occhi, mascherate dagli occhiali neri e dal classico cappello da baseball.
Gli angoli delle labbra sottili pendevano verso il basso.
Velocemente, un passio dietro l’altro, era arrivato alla porta di vecchio legno. La spinse, sentì i campanellini di bronzo suonare ed entrò, ringraziando la penombra naturale della libreria, che dava sollievo ai suoi occhi sensibili e stanchi.
“Ciao…”, disse Mondenkind, in piedi, davanti alla scrivania del nonno. 
Se ne stava con un libro tra le mani, aperto, sembrava esaminarlo.
“Hey…”, fece Georg, “Spero di non stare disturbando…”
Notò subito che la voce della ragazza, di solito abbastanza dolce e melodiosa, era spenta, quasi senz’anima. Vide anche un certo pallore sulla sua faccia, prima rosea.
“Ti senti bene?”, le chiese, senza pensarci due volte.
“Beh… non molto ultimamente.”, fece lei, chiudendo il libro e posandolo sulla scrivania, “Ma non ti preoccupare.”
“Magari torno un altro giorno…”, disse Georg, che non la vedeva affatto in salute. Per educazione, si tolse gli occhiali da sole ed il cappellino, anche se non era nell’aspetto migliore che avrebbe potuto avere.
“No… non sto mica per morire!”, sbottò lei ridendo, “Ma vedo che anche tu non sei messo molto bene.”
“Potrebbe andare meglio.”, disse Georg, lasciando in sospeso la frase.
“Mi dispiace per la vostra esibizione.”, fece Mondenkind, rattristandosi.
Georg fece spallucce.
“Lasciamo perdere.”, disse poi, con aria stanca.
Quanti giorni erano che non dormiva?
Quanti giorni erano che non accendeva la televisione, non comprava un giornale, non ascoltava la radio?
Quanti giorni erano che non sentiva nessuno degli altri…
Da mercoledì passato.
Cinque giorni.
Era esattamente lunedì. Dopo cinque giorni passati praticamente chiuso in casa, sprangato, aveva messo il naso fuori giusto per trovare una persona con cui parlare. Di tutto e di niente. Dell’argomento più stupido a quello più serio.
Aveva chiamato Fabian, ma non era raggiungibile. Gli aveva lasciato un messaggio in segreteria, ma aveva risposto che non riusciva a liberarsi per diversi giorni, per via del lavoro. Altri amici non ne aveva. Sì, c’erano almeno una decina di persone più strette ma… non se la sentiva di chiamarli, non erano così ‘amici’ da poter stare con loro a deprimersi, a crogiolarsi nei suoi problemi.
E poi aveva voglia di uscire, di prendersi una boccata di aria fresca.
Aveva voglia di lavarsi via di dosso tutta la stanchezza che aveva accumulato, tutta la pressione nervosa che covava dentro. E non trovava migliore soluzione di lasciare casa e parlare.
Ma con chi?
Dopo qualche giro a vuoto intorno alla città, sulla sua auto a due posti, aveva trovato chi poteva starlo un po’ ad ascoltare.
Inoltre, c’era ancora in ballo un caffè, se lei fosse stata d’accordo.
“Non l’ho vista in tv… ma ho letto. E capisco che tu non ne voglia parlare.”, disse Mondenkind, sorridendogli. Anche i suoi capelli neri, tenuti sempre docili in una treccia lunga, appoggiata sulla sua spalla, parevano spenti. Come il suo viso infantile. Anche il suo pullover bianco pareva ingrigito. La sua gonna, al ginocchio, anch’essa chiara, non riusciva a darle luminosità.
“Beh… a dire il vero…”, iniziò a balbettare Georg, ma non riusciva a parlare correttamente. Una confusione di pensieri gli stava intasando la testa, stava fondendo.
“Vuoi sederti? Mi sembri abbastanza… stanco.”, gli disse lei, voltando la vecchia poltrona di suo nonno.
“Oh no, tranquilla, sto bene… è solo che…”, disse Georg. Gli venne da toccarsi la testa, come per controllare se fosse stata al suo posto. Era lì, ma era come se fosse stata altrove.
“Ti va di andare a prendere quel caffè che dicevamo e che non vuoi concedermi?”, le disse, tutto d’un fiato, come se fosse stata una cosa proibita.
Lei tornò ad incupirsi, come aveva fatto esattamente l’altra volta.
“Sì, scusami…”, disse Georg, “Lo so… già mi hai detto di no un’altra volta. Perdonami, è che non sto per niente bene.”
Mondenkind si chiuse nelle sue braccia conserte.
“Se può farti stare meglio… perchè no.”, disse, quasi sottovoce, timida.
Georg pensò di non aver capito bene.
“Dici che acconsenti ad uscire dalla libreria per fare quattro passi con un caffè in mano? O anche seduti, come preferisci.”, le fece, titubante.
“Beh… sempre se ti può far stare meglio.”, ripetè lei, chiudendosi sempre di più dentro alle sue braccia.
“Penso di sì… e credo che farà bene un po’ anche a te.”, le disse, sorridendole.
Lei continuava a mostrarsi diffidente verso quel semplice caffè. Forse era meglio spiegarsi.
“Ascoltami, Mondenkind. Non so quale sia la tua opinione di me ma… Io non ho nessuna intenzione di farti del male, né di usarti in qualche modo. Voglio solo prendere un caffè con te, da amici. Senza nessuna pretesa, senza nessun imbroglio.”, le disse, “Ultimamente tutta la mia vita sta andando a puttane, niente va per il verso giusto. I miei migliori amici sono diventati i miei peggiori nemici… o quasi… e quelli con cui ho un buon rapporto non hanno tempo per me…”
Lei se ne rimaneva immobile, a fissarlo, con i suoi occhi chiari, quasi di ghiaccio.
“Lo so che non ci conosciamo, che ci siamo visti solo tre o quattro volte, che l’unica cosa che abbiamo in comune è un libro di fantasia… Ma visto che sembri essere l’unica persona che… che possa riuscire a starmi a sentire… così come io potrei stare a sentire te…”
Si rese conto che tutto quello che aveva detto non aveva nessun senso, era tutto un discorso disconnesso, senza alcun filo logico.
“Scusami ancora Mondenkind… forse ti ho davvero disturbato.”, disse Georg, “Sarà meglio che vada… magari un po’ di sonno riuscirà a farmi stare meglio.”
Fece qualche passo, poi lei lo richiamò.
“Prendo qualcosa per non sentire freddo.”, gli fece, e scomparve nello stanzino. 
Dopo un paio di minuti, tornò fuori con una giacca marrone.
“Andiamo.”, disse Mondenkind, avvicinandosi alla porta.
Fuori, il sole del primo pomeriggio stava scaldando l’aria, ancora un po’ fredda. Con educazione, le tenne la porta e la fece uscire. Pareva aver paura a mettere piede fuori, lo fece quasi con timore, ma un passo dopo l’altro, fu nel vicolo che portava alla libreria dove lavorava.
Le venne da alzare il viso al sole e si coprì la mano con gli occhi, mentre lo guardava.
“Hey! Così ti rovinerai gli occhi…”, le disse Georg, avvicinatosi a lei, dopo aver richiuso la porta della libreria.
Lì fuori, alla luce, vide quanto fosse pallida. Gli venne da preoccuparsi per lei, per la sua salute. Doveva avere magari l’influenza per essere così bianca. Glielo chiese.
“Non è che ti sei presa l’influenza… la tosse… il raffreddore…”
Che idiota! Voce nasale non ne aveva, non l’aveva nemmeno mai sentita tossire.
“No… è che… in questo periodo sono un po’ giù di corda… fisicamente.”, disse lei, prendendo a camminare.
A guardarla, pareva non avesse mai messo piede fuori da quella libreria! Magari era una tipa molto timida ed insicura, una di quelle che alle superiori venivano sempre prese in giro dai compagni di scuola perchè era una secchiona, o perchè era bruttina… e si era chiusa dentro al suo lavoro perchè il mondo fuori le era sempre stato ostile.
Sì, era sicuramente una ragazza del genere.
Era un peccato, perchè sicuramente era una persona vera, buona e gentile. E magari, sotto i suoi occhialetti lilla e i suoi vestiti antiquati, poteva esserci anche una bella ragazza.
“Dimmi, Mondenkind… quanti anni hai?”, le domandò.
“Ne ho… ventitre.”, rispose lei.
Camminava a testa bassa, con le mani di nuovo incrociate, sul grembo.
“E… cosa fai oltre a lavorare nella libreria?”, le domandò, sperando di non sembrare un impiccione.
“Beh… lavoro lì. E basta. Tramite una porta nello studio arrivo all’appartamento mio e di mio nonno.”, spiegò lei, “Ho sempre vissuto con lui. Tu, invece, cosa mi puoi raccontare di te stesso?”
“Se avessi un ego grande quanto un palazzo di Manhattan, potrei chiederti se ci sono delle cose di me che non sai!”, disse Georg, cercando di essere spiritoso, “Ma visto che non mi sembra di essere così presuntuoso, ti dico che per adesso sono un semplice bassista senza lavoro.”
“Senza lavoro…”, ripetè Mondenkind.
“Già…”
“Ti va di raccontarmi cosa è successo?”, disse la ragazza.
“Sì… ma davanti un caffè riesco ad esprimermi meglio.” 

 

“Vieni, da questa parte.”, disse Georg, facendole gesto di seguirla. 
Dopo qualche passo, fuori dalla libreria, aveva indossato di nuovo gli occhiali ed il cappellino e, con tranquillità, avevano passeggiato per il centro della città, senza essere disturbati da occhi indiscreti.
L’aveva portata in una caffetteria, una di quelle speciali e molto rare, dove la gente andava per starsene in pace a leggere il giornale, oppure un libro, ma anche per fare quattro chiacchiere rispettosamente sottovoce. Nessuno alzava gli occhi quando qualcuno entrava, nessuno scrutava l’altro, nessuno giudicava. Quelli che stavano lì dentro parevano alieni, non esseri umani: tutti erano per i fatti loro e, allo stesso modo, nessuno voleva essere disturbato dall’altro. Era diviso in tre stanzette ed in ognuna di essere prevaleva un colore diverso dalle altre: si prendeva il caffè seduti nei tavolini rotondi davanti al bancone, all’entrata. Si leggeva in tranquillità nella stanza color lilla, come gli occhialetti di lei. Si conversava indisturbati nella stanza rosa, davanti ad una tazza fumante di bevande calde e di pasticcini inglesi. Non era un posto da Georg, o meglio, non era un posto dove ci si poteva divertire con birra e rutto libero, ma era tranquillo, riservato e lontano da occhi curiosi.
Lo aveva sfruttato più di una volta per incontrarsi con le ragazze… anche se quella volta lo scopo era diverso, era comunque il posto in cui voleva andare.
Entrarono dentro e, di nuovo con galanteria, le tenne la porta. Durante quella camminata di circa una decina di minuti, non avevano chiacchierato molto. Lei sembrava restia a parlare di sé, era molto più interessata a sapere cosa gli fosse successo, e lui non voleva parlarne in pubblico.
La condusse nella saletta rosa, in quel momento vuota, come quasi anche il resto del locale, le tenne la sedia per farla accomodare e si sedette di fronte a lei.  Il proprietario della caffetteria, ed anche unico cameriere, venne prontamente a chiedere loro cosa volessero.
“Un caffè… lungo per cortesia.”, disse Georg, appena si fu tolto gli occhiali.
“Anche per me.”, disse Mondenkind, con un filo di voce.
“Perfetto, posso portarvi anche qualche stuzzichino?”, domandò l’uomo.
“Oh sì, grazie.”, rispose Georg, dopo aver cercato un segno di approvazione negli occhi di Mondenkind, che invece spaziavano intorno a sé, scrutando il locale in cui si trovava.
Capiva che non si stava sentendo a suo agio…
“Senti, Mondenkind… se ti senti a disagio, possiamo anche andarcene, non ci sono problemi.”, le fece.
“Oh no, tranquillo.”, disse lei, sorridendo. Si tolse la giacchetta marrone e la appese allo schienale della sua sedia, “Allora… non c’è il caffè, ma comunque puoi iniziare a parlare, se vuoi.”
“Beh… hai visto gli articoli sui giornali?”, le chiese, retoricamente.
“Sì… me ne è capitato uno tra le mani, proprio ieri.”, disse lei. Con le piccole mani unite, appoggiate al bordo del tavolo, se ne stava rigidamente seduta davanti a lui. La treccia le cadde dal suo usuale appiglio, la sua spalla destra, e si distese sulla schiena.
“Andava tutto bene, tutto tremendamente bene. Avevamo provato e gli strumenti erano a posto, noi eravamo prontissimi…”, disse Georg, scuotendo la testa affranto.
“Non è stata colpa vostra.”, fece Mondenkind, con un sorriso comprensivo, “Voi avete fatto del vostro meglio per riuscire ad affrontare questa sfida. Lo so, lo capisco.”
“Sei l’unica sulla faccia della terra, allora.”, disse Georg, incrociando le braccia sul petto, “Sono quasi dieci anni che esistiamo, come gruppo famoso intendo… ogni volta che succede un problema esterno, non voluto da noi… nessuno vuole stare a sentire le nostre ragioni, tutti ascoltano solo quello che vogliono sapere.”
“E cos’è che vogliono sapere?”, fece lei.
“Vogliono sapere se i Tokio Hotel esistono ancora oppure no.”, borbottò Georg, quasi mangiandosi le parole per paura di dirle.
“Questo lo potete sapere solo voi.”, disse Mondenkind, con una semplicità che pareva avere dell’incredibile.
“Sì… lo sappiamo bene.”, disse Georg.
Il cameriere arrivò con le loro ordinazioni. Due caffè lunghi e biscotti. Georg sospirò, bevve un sorso e riposò la sua tazza.
Le esili dita di Mondenkind afferrarono un biscotto. Lo guardò quasi con circospezione poi, con cautela, gli dette un piccolo morso. Georg non potè fare a meno di nascondere la risatina che gli era affiorata sulle labbra.
“E’ buono?”, le chiese.
Lei ne prese un altro morso e, con delicatezza, tolse via la piccola briciola che era rimasta attaccata al suo labbro.
“Sì sì… sono molto buoni.”, disse lei, sorridendo con un lieve imbarazzo.
“Adesso ti senti un po’ più a tuo agio?”, le fece, sorridendole.
“Sì, adesso sì.”, rispose lei.
“Bene, sono contento.”, rispose Georg, riuscendo finalmente a rilassarsi.
Se non fosse stato un pensiero idiota, avrebbe detto di nuovo che non aveva mai davvero messo piede fuori da quella libreria!
“Dicevi del tuo gruppo…”, gli ricordò spiacevolmente Mondenkind, prendendo un altro biscotto.
“Beh… sì…”
Le disse di come era scomparsa la chitarra di Georg, di come era stata ritrovata, dei fischi che aveva avuto e, nel flashback, gli tornò in mente ciò che aveva letto sul libro. Il nome che aveva letto. Magari poteva essere un appiglio per approfondire la sua conoscenza…
Bloccò il suo racconto e gli venne da sorridere, stupidamente.
“Sai una cosa?”, le fece, notando la sua espressione perplessa, “Poco prima di entrare in scena, ho continuato la lettura del libro…”
“E…”, disse lei, dubbiosa.
“Ti chiami esattamente come l’Infanta Imperatrice.”, le disse, sentendosi terribilmente idota, “Non credi che sia una coincidenza spaventosa?”
Mondenkind sorrise, abbassò gli occhi e portò alle labbra la sua tazza di caffè.
“Sì, lo so…”, disse, quando ebbe bevuto.
“Già a leggerlo, è un nome strano…”, disse Georg, “Senza offesa, ovviamente.”
“Si, tranquillo!”, disse Mondenkind, sorridendo, “A mio… mio padre piaceva molto quel libro, così mi ha dato quel nome.”
“Tuo padre?”
“Sì.. lui.”
“Beh… è strano, ma è un bel nome. Non si sente tutti i giorni!”, disse Georg, bevendo a sua volta.
“E poi cosa è successo? Intendo… dopo che avete finito lo spettacolo.”, riprese Mondenkind.
Un’altra volta aveva deviato la conversazione da se stessa a lui.
“Beh… spettacolo, che parolone!”, esclamò Georg, rassegnandosi nel sapere qualcosa in più su di lei,  “Abbiamo strimpellato… nonostante le prove estenuanti, la perfezione che avevamo raggiunto… niente, il pubblico e i suoi fischi ci hanno totalmente spaventato… peggio di bambini dell’asilo, abbiamo fatto letteralmente schifo.”
“Mi dispiace.”, disse Mondenkind.
“E dopo… dietro le quinte….”, disse Georg, scuotendo la testa, “Non posso dirti esattamente cosa ci siamo detti, perchè ti verrebbe da tapparti le orecchie.”
Un altro sguardo comprensivo da parte di lei.
“Sono diversi giorni che non sento nessuno di loro.”, le rivelò Georg, “Non so se sia il caso di fare il primo passo o aspettare che si facciano avanti loro. L’ultima frase che è uscita dalle nostre bocche è ‘Non fatevi più vedere’. E finora sono sempre fedele a quell’idea.”
“Perchè?”, gli chiese lei.
Georg sospirò, prese il suo cappellino, appoggiato alla sedia, e se lo rigirò tra le mani nervosamente.
“Perchè non ha più senso continuare a suonare quando… quando non c’è più armonia, c’è disaccordo tra di noi. Litighiamo per un nonnulla, non riusciamo a concentrarci sulla musica… il nostro ultimo album è uguale a tutti gli altri, non abbiamo più idee, né creatività…”, disse Georg, con sconforto.
“Vi manca la fantasia.”, disse Mondenkind.
“Sì… diciamo di sì… Ce l’hai una soluzione per questo problema?”, le fece, ridendo amaramente.
“Beh… forse sì.”, disse Mondenkind. Prese un altro biscotto e iniziò a mangiucchiarlo.
“E quale sarebbe?”, la esortò Georg.
“Forse la stessa storia infinita potrà esserti di aiuto.”, disse lei.
“Come sei solenne!”, la prese in giro Georg, “E’  un libro, una storia per bambini… cosa mi può insegnare?”
“Beh… secondo me un mucchio di cose.”, disse Mondenkind, sorridendogli.
“E quali?”, le chiese, quasi con aria di sfida.
Lei non rispose, continuò a mangiucchiare il suo biscotto.
“I miei problemi sono veri, Mondenkind, non ti offendere.”, disse Georg, “Devo riuscire a risolverli, ma non credo che un libro mi possa aiutare.”
“Un tentativo non può farti male.”, riprese Mondenkind.
“Parlerei più volentieri di qualcos’altro.”, sentenziò Georg, ormai stanco di trattare quell’argomento così doloroso.
“E io dovrei tornare in libreria… l’ho lasciata già per troppo tempo.”, disse Mondenkind. 

Usciti fuori dal locale, Mondenkind preferì tornarsene al lavoro da sola, lo pregò di non accompagnarla. Georg comprese che, forse, lei si era offesa per la sua ostilità nei confronti del libro, nel quale suo padre le aveva trovato il nome. Magari lei poteva esserci particolarmente affezionata…
Ma non ci poteva fare niente.

La storia infinita era un libro per bambini.
E non un manuale su come si rimetteva insieme un gruppo sfasciato.

 

***

 

Era stato David a pregarlo, in tutte le lingue del mondo, di tornare allo studio.
Alla sua prima chiamata non aveva risposto.
La seconda l’aveva rifiutata.
Alla terza aveva risposto con un ‘non mi rompere i coglioni’.
Alla quarta era stato a sentire cosa aveva da dirgli.
Alla quinta si era fatto supplicare di venire nello studio.
Adesso era lì, seduto accanto a Gustav, e non gli aveva ancora rivolto la parola.
Dal rumore dei passi lungo il corridoio, sentì che anche Bill e Tom erano arrivati. Entrarono nella sala relax, dove li stavano aspettando, e si sedettero nel divano di fronte a loro, senza dire una parola. David, da buon manager e moderatore, prese una sedia e si mise tra loro.
Sguardi fissi per terra, sulle mani, sulle punte delle scarpe. Braccia incrociate, gambe incrociate. Nessun suono dalle loro bocche.
“Ragazzi…”, disse David, leggendo nelle loro facce ancora tutta la rabbia ed il risentimento che si erano portati dentro, “Dobbiamo risolvere questa situazione.”
“Quale situazione…”, sbottò Tom.
Georg sospirò, non sarebbe stato facile parlare con loro e c’erano il cento per cento delle possibilità che nel giro di trenta secondi si sarebbe scatenata una lite furiosa. Nessuno di loro aveva accantonato la rabbia, era chiaro, quindi sarebbe stato meglio rimanere per fatti loro, incontrarsi al momento giusto.
Si erano detti troppe cose, si erano offesi troppe volte, si erano accusati troppo pesantemente per riuscire a tornare amici come prima in così poco tempo. Si erano addossati la colpa l’uno con l’altro, senza riuscire a comprendere che nessuno, effettivamente, quella sera aveva avuto colpe. Forse Tom, con la sua sbadataggine, forse lui poteva aver causato tutto quello, ma non era così, no, perchè anche lui avrebbe potuto commettere il suo stesso errore, lasciando il basso sul palco… E anche se poi la chitarra era stata ritrovata, era successo comunque troppo tardi.
Eppure, nella rabbia del momento, si erano gridati in faccia tutto quello che passava loro per la testa, dall’offesa più ignobile, al biasimo più assurdo. Bill, che per natura era molto permaloso, non avrebbe perdonato facilmente quello che era entrato nelle sue orecchie. Gustav, che era un tipo molto impulsivo e scaricava la sua rabbia quasi istantaneamente, era stato il primo a scoppiare. Tom, che era il più teso di tutti, si sentiva in parte colpevole per ciò che era successo e, per difendersi, aveva contrattaccato come meglio poteva.
Lui, Georg, incazzato per la situazione che aveva vissuto, si era comportato esattamente come gli altri.
Di chiedere scusa non se ne parlava.
Sarebbe stata la migliore cosa, ma non voleva farlo.
Almeno non ancora.
“Cerchiamo di rimanere calmi ed affrontiamo la situazione.”, ripetè David, “Avete letto i giornali? Guardato la televisione?”
Quattro teste dissero un no palesemente annoiato.
“Meglio così.”, disse David, spremendosi l’attaccatura del naso per la stanchezza.
“Cosa potranno mai dire se non che siamo finiti!”, sbuffò Bill, con gli occhi coperti da un paio di occhiali quasi più grossi della sua faccia esile.
“Non siete finiti!”, esclamò David, cercando di sembrare sicuro nel tono della voce, “Non siete… finiti! Insomma, è stato un incidente di percorso, ci risolleveremo anche da questo!”
“I concerti in Spagna sono stati dimezzati, l’album sta scendendo in classifica, puntavamo tutto su questa esibizione unplugged e ci hanno fregato…”, disse Tom, che era sicuro che la sua chitarra non fosse stata messa al sicuro, ma invece fosse stata nascosta di proposito da qualcuno che voleva speculare su di loro.
“E’ colpa tua!”, gli disse Bill, come aveva anche fatto l’altra sera, “Se tu non la lasciavi in bella vista, questi qua non se ne sarebbero approfittati!”
“Bill, ti prego, non continuare a dare la colpa a tuo fratello.”, disse Georg, con voce calma, “Sarebbe potuto benissimo accadere con il mio basso.”
“Ma tu non dimentichi le tue cose ovunque!”, gli fece Bill, che tornò poi a gridare contro il fratello, “Non hai la capacità di renderti conto che c’è gente che….”
“Hai rotto le palle Bill!”, esplose Tom, “E’ una settimana che continui a gridarmi contro le solite cose! Mi hai rotto i coglioni!”
“Se non la lasciavi sul palco non la portavano via! E non ci fischiavano durante tutto il concerto!”, contrattaccò Bill, ancora più arrabbiato di lui.
“Ci hanno fischiato perchè facevamo schifo!”, si inserì Georg, violando la legge per la quale tra nei litigi tra i due gemelli non si doveva intromettere nessuno.
“E facevamo schifo perchè se Tom non avesse lasciato la…”
“BASTA!”, urlò David, sovrastandoli.
I tre litiganti si chetarono e tornarono nel loro silenzio.
La situazione non si poteva recuperare in quel momento, era chiaro.
“Bill, Tom non ha colpe, mettitelo bene in testa!”, gli fece David.
“Ma se…”, provò a dire l’altro, ma fu subito bloccato dal suo manager.
“Bill, apri quelle cazzo di orecchie e ascoltami! Non c’entra niente tuo fratello!”, gli disse, guardandolo dritto negli occhi, arrabbiato, “Se proprio volete incolpare qualcuno…”
Riprese fiato, se lo sentiva mancare, era così rosso in viso che le vene gli pulsavano in superficie.
“Vi siete fatti impaurire come bambinelli dell’asilo! Siete dei professionisti o no?”, riprese David, “Un paio di fischi e hanno iniziato a tremarvi le gambe… Vi siete fatti spaventare… e avete fatto schifo! Prendetevela con voi stessi… e non con Tom.”
Si alzò e li lasciò da soli.
David aveva colto proprio nel segno.
Rimasero in silenzio, ognuno a riflettere per conto proprio.
“Ha ragione David.”, disse Georg, quando ebbe trovato la forza per far uscire un qualche suono dalla sua bocca, “E’ colpa di tutti noi. Non dovevamo farci atterrire dai loro fischi. Se avessimo suonato come sempre non avrebbero continuato a….”
“Stai zitto Georg.”, fece Bill, togliendosi gli occhiali dal viso.
Non potè non accontentarlo, non si aspettava di sentire tutto l’astio che c’era nella sua voce.
“Bill, fermati a ragionare.”, gli disse poi, non appena l’altro ebbe distolto il suo sguardo furioso da lui, “Abbiamo avuto paura… e ci siamo deconcentrati. Alle prove andavamo bene. Anzi, andavamo ottimamente. Non c’era motivo di suonare come strimpellatori di campagna, ma lo abbiamo fatto. E perchè? Perchè il pubblico ci si è rivoltato contro e…”
“Per colpa di Tom!”, ribattè lui, che non aveva compreso nemmeno una parola di quello che sia David che Georg cercavano di spiegarli.
“Ha ragione Bill… è colpa tua, Tom.”, seguì sulla stessa linea Gustav.
Il ragazzo alzò le mani al cielo, imprecò pesantemente ed uscì dalla sala relax, sbattendo violentemente la porta.
“Perchè non volete starmi a sentire!”, esclamò Georg, esausto dal comportamento infantile ed irragionevole dei suoi amici.
“Perchè dici solo cazzate.”, sibilò Bill, alzandosi dal divano, seguito da Gustav, e lasciando la sala. 

 

Entrò in casa e la prima cosa che fece fu scaraventare a terra il giubbotto e dargli un calcio, facendolo volare sguaiato sul divano.  A passi veloci, entrò in camera.
Girò un paio di volte su se stesso, come se fosse in cerca di qualcosa che sfuggiva repentino alla sua vista. In verità cercava solo un pretesto per sfogarsi, prendere un oggetto e scagliarlo contro il muro, romperlo, farlo andare in mille finissimi pezzi.
Era furioso.
Incazzato come non mai.
Avrebbe voluto spaccare il mondo in due.
Avrebbe voluto gridare.
Avrebbe voluto prendere a pugni qualcuno.
Solo per sfogarsi.
Solo per far scomparire la rabbia che aveva dentro.
Si sedette sul bordo del letto, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e giunse le mani davanti a sé, prendendo a sfregarle.
Doveva occupare la mente.
Ma soprattutto, doveva occupare le mani.
Altrimenti avrebbero potuto davvero posarsi su qualcosa per romperla.
Qualcosa come la testa di Bill e di Gustav.
Avrebbe tanto voluto sapere cosa ci poteva essere dentro i loro crani, controllare se tutto andava bene, oppure se c’era qualcosa di marcio.
Ma avrebbe fatto meglio a fare lo stesso con la sua, di testa, perché sua madre gli aveva insegnato che non bisognava mai scagliare la pietra sul peccatore se non si era più innocenti di lui.
E Georg Listing aveva commesso, in un primo tempo, il solito errore che sia Bill sia Gustav stavano perpetuando. Il dare la colpa a Tom invece che a loro stessi.
Era sempre più facile condannare gli altri.
Ma il fatto era semplice, ognuno di loro aveva contribuito alla mal riuscita dell’esibizione. Solo che due componenti su quattro parevano non aver voglia di rendersene conto.
Erano imbarcati nella solita slitta, in discesa, e al già enorme bagaglio di problemi irrisolti se ne era aggiunto un altro. A velocità impazzita, si stavano dirigendo verso la lunga striscia dell’arrivo.
Per quanto lo riguardava, l’avevano già passata. Esattamente da quel pomeriggio.
Adesso, per lui, i Tokio Hotel potevano anche andare a farsi benedire dal primo prete che incontravano.
Lui non li avrebbe accompagnati.



Ringraziamenti!

CowgirlSara: Io non ti dico niente. Hai già detto tutto tu. Stop.

LaTuM: Quando mi dicevi che quella ragazza sapeva fare anche le critiche negative, cavolo, le sa fare da dio! XD ho letto quello che ha scritto su between hate and pain... ma vabbè, mica si può pacere a tutti! Ovvio che no! (anche se ha dato della mary sue ad erin... come se lo avesse dato direttamente a me XDDDD pessimo carattere che ho! ora mi chiamerò RubySueBaggins!). Grazie comunque per aver citato anche questa storia nel tuo sito e grazie anche per i complimenti che mi hai fatto anche nel capitolo precedente... grazie sempre! Ci sentiamo su msn!

Kit2007: poveri piccioli, andiamo a consolarli tutti insieme! piangete sulle nostre spalle! ve le offriamo entrambe.... XDDD

Lidiuz93: ti mando un fazzolettino via fax, così puoi asciugare le tue lacrime XD daidai, tirate su il morale!

Sososisu: Prima riunione delle Piastraz Angelz, tirare fuori le piastre! Usate il Babyliss! E sfoderate il frisè! Facciamoci sentire! Adesso basta con le cazzate. Grazie come sempre, ci sentiamo!

Dark_Irina: non ti preoccupare per la recensione fatta al volo, tranquilla! Speriamo davvero che i ragazzi riprendano il volo, ma chi lo sa?

Kltz: ho visto un migliaio di volte quel film, Kiss Me, fino a qualche anno fa sbavavo dietro a quel maschione protagonista. Poi ho scoperto che sta con Buffy e mi è cascato il mito... ma vabbè, capita purtroppo! Davvero stai lavorando ad alcune storie? Ma bene! Voglio proprio leggerle, mi è piaciuto molto quello che hai scritto nella shot... davvero! Per i tuoi "dubbi"... non posso dirti niente, perchè comunque ti risponda, ti darei un indizio per comprendere il prossimo sviluppo della storia XDD gia, proprio così!

_Princess_: E ora che è uscita a prendere un caffè con lei? Andiamo direttamente a fare gli attentati dinamitardi alla libreria? Ah, per l'uomosesso posso dirti che per questo sabato sono libera, se ti va bene me lo passi ok? Grazie per i complimenti, mi ha fatto molto piacere conoscerti su msn! Ci sentiamo (vado a leggere la tua storia!!!)

Ciribiricoccola: questa libraria infida... mmm... stiamo attente... si infilerà ovunque!

Picchia: se fai un altro fotomontaggio del genere, ti prego, non me lo passare XD il nonno è da ospizio, ma è tanto cariiiino! Ci sentiamo su msn!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

 

Si era aggiornato.
Internet, tv e stampa.
Entrambi i tre grandi canali dell’informazione mediatica riportavano quasi all’unanimità il seguente titolo: ‘Farewell Tokio Hotel, Welcome to the next boy band’, per citare direttamente il ‘Daily Mirror’.
Eh sì.
Era successo.
Nessuna smentita e nessuna conferma.
Nessuna conferenza stampa.
Nessuna parola al riguardo.
No comment.
Strettissimo riserbo da parte di tutti i componenti della band e del loro staff.
Ma non ci voleva una laurea in scienze della comunicazione per comprendere cosa stava accadendo.
Cancellate le interviste programmate.
Cancellate le apparizioni televisive.
Cancellati i servizi.
Avvisaglie di cancellazione delle prime date del tour, ormai imminente.
Per essere sinceri, data la bassa prevendita di biglietti, una data italiana aveva subito un cambio di location e ben due date in Europa dell’est erano state messe in forse. Se si voleva essere davvero del tutto onesti, per la prima volta pochissimi concerti aveva fatto sold out. Neppure una delle date tedesche.
Era davvero passata la Tokio Hotel mania.
Passata come il monsone, ad essere ironici.
Erano arrivati, avevano portato un po’ di scompiglio, ma già al sesto album erano stati riposti nello sgabuzzino dei ricordi.
Le ragazzine che impazzivano per loro erano cresciute, avevano staccato tutti i poster, avevano cambiato modo di vestire, si erano iscritte all’università e non facevano più caso a loro. Magari addirittura si vergognavano di essere state loro fan.
Faceva un male cane realizzare tutto questo.
Straziava l’anima dentro.
Sapere che tutto quello per cui viveva era svanito lo faceva sentire vuoto, senza altri scopi nella vita.
Era nato con i Tokio Hotel, cresciuto con essi e, adesso che erano finiti a gambe all’aria… fino a due mesi prima non sarebbe stato in grado di pensare ad una cosa del genere.
Adesso la stava vivendo.
Sentì il cellulare vibrare sul comodino.
La sua mente, intorpidita ma perfettamente in grado di pensare, costrinse la sua mano ad uscire dal groviglio di coperte per prenderlo e rispondere. Non riuscì a leggere il nome che compariva sullo schermo, ma intuì perfettamente quale fosse e rifiutò la chiamata, restituendo al cellulare la sua posizione naturale.
Tornò ai suoi pensieri, alla sua depressione, alle sue coperte. Allungando l’orecchio, poteva sentire che la donna delle pulizie stava dando l’aspirapolvere in giro per il salotto. Aveva chiuso la porta della sua camera a chiave, da dentro, non sarebbe entrata a disturbarlo.
Di nuovo il cellulare prese a vibrare.
Aveva perso il numero delle volte che David lo aveva chiamato. Cinquanta? Settanta? Novantanove?
Rifiutò di nuovo ma, appena il cellulare ebbe toccato di nuovo il legno del comodino, tornò a vibrare.
Era l’ora di farla finita.
“Che cazzo vuoi David!”, gridò, rispondendo.
Georg… sono io, Helen…”, disse la voce femminile di lei.
Di tutte le persone che popolavano il globo terrestre, lei era quella a cui non aveva mai pensato dal momento in cui avevano rotto.
“Ah… ciao Helen…”, le disse, quasi annoiato, ma allo stesso tempo molto sorpreso.
Volevo… volevo sapere… ma se disturbo…”, fece lei, titubante.
“Oh no… tranquilla, è che non…”, disse Georg, ma gli si impastò la bocca.
Stavi dormendo, vero?"
“Beh… a dire il vero sì, ma non ti preoccupare, è l’ora di alzarsi.”, disse Georg e, con riluttanza, scansò le coperte e si mise a sedere sul bordo del letto, stropicciandosi la faccia.
Ho sentito, insomma, del gruppo e… volevo sapere come stavi.”, disse lei, con una voce così flebile che quasi non la sentì.
“Sto bene, sì… sto bene.”, disse Georg, poco convinto.
Sei sicuro?
“Sì, abbastanza.”, ripetè, con più sicurezza.
Vuoi parlarne?”, gli chiese Helen.
“Non mi farebbe male.”, disse, sospirando.
Davanti ad una tazza di caffè? Così magari ti svegli…”, disse lei, ridendo sommessamente.
“Sì, non è una cattiva idea.”, fece Georg.
Le disse che poteva passare nel tardo pomeriggio, o comunque quando fosse stata libera, e lei acconsentì.
Anche se avevano rotto in malo modo, quella chiamata gli fece un po’ piacere.
Parte di lui voleva parlare.
L’altra parte di lui…
Posò il telefono, si alzò dal letto ed andò a farsi una doccia.

  

Tutto era tornato al suo posto. Non c’erano più la barba incolta, i capelli spettinati, la camera in disordine ed il vago odore di scarpe che aleggiava nella casa. Tutto era stato lustrato a fondo, pulito e profumato. Quella casa non sembrava più il rifugio di un terremotato, né del bassista di una band della quale non si sapeva più nemmeno se esitesse ancora oppure no.
Dopo aver mangiato qualcosa, se ne stette per diverse ore davanti allo schermo del suo portatile, in cerca di qualche notizia in più che lo riguardasse. Solo voci, rumori, gossip, nessuna voce ufficiale. In ogni forum, in ogni rivista on-line o sito qualsiasi che parlasse di loro, ognuno aveva da dire la propria sul perchè i Tokio Hotel si erano sciolti.
Ma si erano davvero sciolti? Si chiese Georg.
Non poteva sapere le intenzioni degli altri, ma sicuramente vertevano su una risposta affermativa per quella domanda.
Più che ci rifletteva, più che si diceva che basta stop, la favola dei quattro di Magdeburg era giunta al termine.
Il campanello suonò alla porta, era arrivata Helen, interrompendo la sua divagazione mentale sull’argomento.
Si presentò sorridente e lui la abbracciò volentieri. Era stato carino da parte sua porgergli una spalla su cui aggrapparsi quando il resto del mondo sembrava sparito. Si era visto un paio di volte con Fabian, ma solo per qualche ora, perchè purtroppo il suo lavoro lo stava massacrando e, con grande rammarico, non aveva molto tempo da dedicargli… almeno lui aveva qualcosa da fare, pensò Georg, invece di starsene tutto il giorno a farsi seghe mentali, sdraiato sul letto... e non solo mentali...
“Grandi brutte occhiaie.”, gli disse lei, ridendo.
“Sì, purtroppo non dormo molto bene ultimamente.”, si giustificò Georg, mentendo spudoratamente perchè il dormire occupava il novanta percento della sua giornata, “Accomodati pure, vado a fare un po’ di caffè.”
Sparì per qualche minuto nella cucina, per tornare poi con un vassoio, su stavano cui due belle tazze di caffè fumante, zollette di zucchero e cucchiaini.
“Oh, grazie mille.”, disse Helen, prendendo la sua tazza.
“Non c’è di che… come va col lavoro?”, le chiese, prima di bere il suo caffè.
“Abbiamo appena finito i servizi speciali sulle settimane della moda di Londra e di Berlino… sono praticamente esausta!”, disse lei, col suo classico tono gioviali di cui lui non si era dimenticato.
“Come sarà la moda dei prossimi mesi? Dammi un anticipo!”, le fece.
“Il colore prevalente sarà il turchese, torneranno di moda i calzettoni al ginocchio e le scarpe basse… uno schifo, se vuoi la mia opinione!”, esclamò lei, facendolo ridere.
“Beh, non ho mai avuto un debole per il turchese…” disse Georg, “Penso che non comprerò nuovi vestiti!”
“Fai bene… piuttosto… Vuoi parlarne?”, gli chiese, con calma e serenità.
“Non c’è molto da dire.”, le fece, sorseggiando del caffè.
“A quanto leggo in giro sembra proprio di sì… ma perché non fate una conferenza stampa per smentire tutto?”, disse Helen.
“Perché…”, iniziò Georg, ma poi si bloccò.
“Stanno speculando in una maniera impensabile!”, riprese Helen, animandosi, “Ormai la vostra siete diventati come una telenovelas…”
A Georg scappò una risata a bassa voce.
“Se devo dirtela tutta, non sento nessuno di loro da diversi giorni. L’ultima volta che ci siamo visti è stato circa cinque o sei giorni dopo la live performance… e poi più niente.”, le rivelò Georg.
“Allora vi siete sciolti.”, ne dedusse Helen.
“Non lo so.”, rispose Georg, facendo spallucce, “Te l’ho detto, non sento nessuno di loro. E comunque rifiuto le loro chiamate.”
“Ah sì?”
“Sì… ho dei buoni motivi per farlo.”, disse semplicemente Georg.
“Mi dispiace…”, fece Helen, “Ma forse parlando con loro risolverete i vostri problemi.”
“Non credo.”, disse Georg, “Se avessimo voluto veramente risolvere in nostri problemi, lo avremmo già fatto… ma dato che siamo a questi livelli, penso proprio che non sia il caso di tornare indietro.”
“Ci avete almeno provato?”
“Io ho tentato… ma non è facile scontrarsi con delle mura di gomma, rischi solo di rimbalzarci e farti del male.”, disse Georg.
“Ma qual è il vero motivo di tutto questo casino!
", sbuffò Helen, "Non vorrai mica dirmi che quattro fischietti sono bastati per farvi mandate tutto a quel paese!”
“No, tranquilla, ci sono anche tante altre cose in sottofondo…”, disse Georg, grattandosi la fronte.
“E quali?”
Le lanciò un’occhiata di traverso.
“Sto iniziando a sospettare che tu voglia sapere queste cose per pubblicare poi un articolo sul giornale per cui lavori.”, le disse, cercando però di non far passare quella sua ipotesi come un’accusa.
“No, tranquillo!”, esclamò Helen, ridendo, “Non ho né microfoni né microspie addosso!”
“Lo sai che qualsiasi cosa detta da me non deve uscire di nuovo dalla tua bocca.”, le ripetè, sempre con il solito tono scherzoso ma comunque fermo e deciso.
“Sì, non me lo dimentico, puoi starne certo.”
L’importante era mettere le mani avanti prima di sbattere la testa, pensò Georg. Non che non si fidasse di Helen ma… Dato che certe notizie facevano gola a tutti, doveva tacere, e già aveva detto troppo. Certo, gli stava facendo bene sfogarsi con qualcuno. Ma data l’occupazione di Helen, era meglio drizzare le antenne e stare alla larga dal rivelare determinati dettagli.
“Mi dispiace per l’altra volta.”, disse poi lei, abbassando lo sguardo sulle sue mani, che giocherellavano con uno dei suoi anelli.
“Lascia stare, è stata colpa mia, non dovevo rivolgermi a te in quel modo.”, si scusò Georg.
“E io avrei dovuto richiamarti… ma ero troppo impegnata col lavoro e… poi ero ancora arrabbiata con te.”, proseguì Helen, con un lieve sorriso imbarazzato sulle labbra.
“Io ho fatto lo stesso.”, disse Georg, poi le porse la mano.
“Sì, meglio così.”, disse Helen, comprendendo che quel gesto era una sorta di riconciliazione da amici.
Quando entrambe le mani si lasciarono, ci fu qualche secondo di silenzio, quasi imbarazzato, in cui nessuno dei due trovava qualcosa di intelligente da dire.
Georg finì la sua tazza di caffè e la posò sul vassoio.
“Quindi… va tutto bene con il lavoro…”, disse, dato che la sua mente si era completamente svuotata in pochi secondi.
A dire il vero c’era una cosa ben precisa che incombeva nella sua mente, ma…
“Sì.”, rispose lei, con un sorriso stretto.
I suoi capelli biondi stavano legati in una coda di cavallo alta sulla nuca.  Aveva un maglioncino a collo alto nero, tinta unita, ed una giacca grigia con dei grossi bottoni neri ed una fascetta per tenerla ferma in vita.
Il nasino a punta, le piccola bocca, gli occhi verdi…
Le avvicinò una mano delicatamente al viso e la baciò, senza riflettere. Lei si liberò subito, discostandosi e guardandolo con occhi stupiti e quasi arrabbiati.
“Georg…”, disse poi, risentita.
“Scusami… non volevo, perdonami.”, disse lui immediatamente, pentitosi di quel piccolo gesto.
Al che fu lei a prendere il suo viso tra le mani e a baciarlo.

 

Mentre Helen si stava facendo una doccia in bagno, Georg ne approfittò per accendersi una sigaretta e fumarsela in pace.
Ne aveva proprio avuto bisogno.
Non della sigaretta.
Di quello che era venuto prima.
Non perché lo aveva appena fatto con Helen, ma semplicemente perché lo aveva fatto e basta.
Fatto davvero, nessun surrogato. Nessun menage a uno.
Completamente rilassato, con la spalla lievemente indolenzita per via di quei tre o quattro morsi che Helen gli aveva dato, se ne rimase a fissare il soffitto, in contemplazione della ragnatela che la donna delle pulizie non aveva tolto.
Nessun pensiero gli sfiorava la testa, a parte la possibilità di concedersi un bis, dato che lo scrosciare dell’acqua nel bagno lo stava stimolando di nuovo.
La sigaretta finì e venne spenta presto nel posacenere, sul comodino. Helen riapparve in camera con l’asciugamano legato sul petto e gli si distese accanto, appoggiando la testa sulla sua spalla. Gli dette un piccolo bacio sulla guancia e si mise, come lui, a fissare il soffitto.
“Hai una caramella?”, gli chiese, “Una di quelle gommose…”
“Non so.”, disse Georg, per il quale il dopo era sempre determinato da un lungo periodo di silenzio.
“Ah… accendo un po’ di tv.”, disse Helen e, guardandosi intorno, “Dov’è il telecomando?”
“Dentro al cassetto del comodino… dalla tua parte.”, le spiegò.
Nel mentre lei lo stava cercando, Georg ne approfittò per rivestirsi, stava iniziando a sentire un po’ di freddo.
“Cos’è questo?”, sentì dire ad Helen.
“Cosa?”, le chiese e, dopo aver indossato una t-shirt qualunque, si voltò verso di lei.
“Questo qui.”, disse Helen, porgendogli con sguardo divertito un libro.
Ancora quel libro.
“Lo sai cos’è.”, le rispose, tornando a sdraiarsi con noncuranza sul letto.
Lo aveva richiuso nel cassetto del comodino, come aveva fatto qualche tempo fa, per poi di ritrovarselo inaspettatamente dentro il borsone, pochi minuti prima dell’esibizione in unplugged. E lì lo aveva riposto ancora, dopo il piccolo 'screzio' con Mondenkind, capendo che quel coso, da quando lo aveva avuto in mano, non aveva fatto altro che mettergli strane idee in testa.
“Lo stavi leggendo?”, disse Helen, sedendosi a gambe incrociate sul letto ed iniziando a sfogliarlo.
“Un po’… me lo hanno regalato.”, le disse, mentendole in parte perché non aveva voglia di tornare sull’argomento. 
L’ultima volta che quel libro, ma soprattutto il film che ne era stato tratto, era entrato tra di loro, avevano rotto. Non che in quel momento fossero tornati insieme, assolutamente no. Ma tenersi Helen come una buona amica di letto non era una cattiva idea.
“Il film faceva schifo… figuriamoci il libro!”, sbottò Helen.
Poi si accomodò, appoggiando la schiena alla testata del letto, ammorbinendola con un cuscino, e prese a leggere qualche passo, in silenzio. Georg accese la tv con il telecomando che Helen si era dimenticata di prendere, attratta dal libro.
Si sistemò accanto a lei ma tra di loro c’era comunque una piccola distanza, quella classica che si aveva tra due persone, quasi estranee, ma che condividevano una sola cosa. Il sesso. Per il resto nient’altro.
“Non riesco a credere che la mia maestra delle elementari potesse credere nella demenzialità di queste parole.”, disse Helen, chiudendo il libro.
Georg, in un primo momento, non rispose, non era stato a sentirla.
“Diceva che il più grande insegnamento di questo libro era credere nei sogni, nella fantasia e nei desideri.”, proseguì Helen.
“Ne abbiamo parlato anche l’ultima volta che ci siamo visti e la serata non è andata a finire bene.”, le ricordò Georg, mentre saltava ininterrottamente da un canale all’altro.
“Sì, lo so… solo che quella volta ti sei arrabbiato. E stavolta no.”
“Perché dovrei farlo ancora?”, sbottò Georg.
“Perché parevi credere molto in quello che stavi leggendo.”, fece Helen, maneggiando il libro tra le sue mani, “Mi facesti capire che credere nei propri sogni era tutto nella vita.”
Georg fece spallucce e tornò al suo zapping.
“Ma i sogni spesso si infrangono… non è vero Georg?”, continuò Helen, alludendo evidentemente a quello che gli stava succedendo, “Quindi perché crederci? Prima o poi tutto finisce… e ne rimaniamo delusi.”
Come poterle dare torto, pensò Georg.
“Se non ricordo male”, fece Helen, “in questo libro il mondo della fantasia veniva mangiato ogni giorno dal cosiddetto Nulla. Non è così, Georg?”
“Sì…”, disse il ragazzo, abbandonando la tv ed il telecomando.
“E il Nulla… che cosa pensi che sia? E’ la realtà, Georg, che vince sulle stupidaggini. Cosa sogniamo a fare se poi tutto va sempre per il verso sbagliato? Bisogna prendere di petto la situazione ed andare avanti…”, disse Helen.
“Sei in vena di lezioni di vita, oggi…”, le fece Georg, che aveva visto scomparire tutte le possibilità di fare sesso per una seconda volta.
“La realtà ti ha raggiunto, ti ha mangiato…” continuò a dire Helen.
All’improvviso, Georg non potè fare a meno di pensare alle parole di uno specifico personaggio della storia. Quel personaggio, comparso anche nel film, si chiamava Mork. Nella trasposizione televisiva era un grosso lupo; sulla carta era comunque un lupo, però mannaro. In entrambe le versioni, era stato messo alle calcagna di Atreiu per catturarlo, per non farlo continuare oltre nella sua Grande Ricerca.
I due si erano incontrati nella città dei Fantasmi, detta anche Paese della Malagenia, ed ebbero una discussione fondamentale, forse la più importante di tutto il libro. Mork, il lupo mannaro, disse di avere la possibilità di poter passare da Fantàsia al mondo umano con semplicità, ma di  non appartenere né alla Terra, dove Atreiu avrebbe dovuto cercare il salvatore dell’Imperatrice, e dove lui aveva le sembianze di un essere umano, né al mondo di Fantàsia, dove invece era il mostro che Atreiu aveva davanti agli occhi. Disse di essere un servo del Potere, di quella forza oscura e maligna che sfruttava il Nulla per inghiottire Fantàsia, proiettandola sul mondo umano sotto forma di menzogne, paure, manie e disperazioni per assoggettare così il mondo degli uomini al suo completo controllo. 
'Che cosa siete dopotutto, voi abitanti di Fantàsia? Chimere, visioni fantastiche, immagini di fantasia, invenzioni del regno della poesia, personaggi di una storia senza fine! O forse che tu ti ritieni, in realtà figliolo?', disse Mork, dopo che Atreiu lui gli ebbe chiesto che tipo di menzogna sarebbe diventato se fosse caduto nel Nulla, che stava mangiando lentamente il posto in cui si trovavano insieme, 'Beh, sì, certo, qui nel suo mondo sei realtà. Ma una volta che sei passato attraverso il Nulla non lo sei più. Allora diventi irriconoscibile. Allora sei in un mondo diverso. Laggiù non avete più alcuna somiglianza con voi stessi. Voi portate nel mondo degli uomini accecamento e illusione. Diventate manie, idee fisse nella mente degli uomini, idee di disperazione là dove non c'è ragione di dipserarsi, immagini di angoscia dove non c'è motivo di angosciarsi...'
Quel libro era degno della trama di alcuni dei migliori film sul futuro catastrofico umano, pensò Georg.
Nel mondo degli uomini c’è una grande quantità di schiocchi (che naturalmente si considerano molto intelligenti e credono di servire la verità), zelantissimi nel convincere i bambini a non credere all’esistenza di Fantàsia. Chissà, forse sarai utile proprio a loro’, lesse Georg nelle parole di Mork.
Atreiu comprese allora che nessuno degli uomini voleva più venire a Fantàsia perchè tanto più la distruzione dilagava, tanto più grande diventava il fiume di menzogne che si riversava sul mondo degli umani. Ogni minuto che passava, quindi, allontanava sempre di più la possibilità che il figlio di Adamo, di cui lui era alla ricerca, venisse a salvarli, accecato dalle bugie e dalle manie.
Gli uomini avevano causato il Nulla, smettendo di sognare e di sperare.
Ed il Nulla stava arrivando per annientarli definivamente.
Avevano dimenticato i sogni.
Rinunciato alle speranze.
Perso la fantasia.
Ed Helen, in quel momento, con il suo sermone, pareva uno di quegli schiocchi zelantissimi nominati da Mork.
“Troverò un altro scopo nella vita, se è questo che ti interessa.”, disse Georg, stanco delle sue parole.
“Ecco, questo è un buon inizio.”, disse Helen, soddisfatta nell’aver sentito quello che voleva che uscisse dalla bocca di Georg.
Che palle, si disse Georg.
Pensava di essere lui il maestro della sua vita.
Di nuovo gli venne da fare un’altra analogia tra la sua vita e quel libro.
Avevano perso la fantasia: il nuovo album era esattamente uguale a tutti quelli precedenti. Non si erano rinnovati, non avevano dato spazio alle influenze da altri generi e si erano semplicemente lasciati trasportare dalla corrente, scrivendo pezzi che non avevano niente di diverso, stilisticamente parlando, da quelli pubblicati negli anni passati.
Avevano dimenticato i sogni: fare musica insieme, per sempre. Se lo erano promesso, a quindici anni.
Perso la speranza: non stavano facendo niente per rattoppare le loro vite, tornare a fare il sold out ai concerti ed avere riconoscimenti in tutto il mondo.
Il Nulla che loro stessi avevano generato, con i loro comportamenti sbagliati, adesso se li stava mangiando tra due belle fette di pane, magari anche con qualche condimento extra.
Era il momento di portare le scuse a qualcuno di sua conoscenza.

 

***

 

Quando vide Mondenkind rimase quasi spiazzato. Era talmente pallida che poteva benissimo essere trasparente. Era in piedi, stava catalogando dei libri mentre suo nonno fumava la sua pipa seduto sulla sua poltrona, assorto in una lettura.
Sembrarono non sentire il suono dei campanellini attaccati alla porta, quando lui entrò. Si voltarono verso di lui solo quando attirò la loro attenzione con un buongiorno, sventolando lievemente la mano destra, che teneva stretta il libro.
“Georg…”, disse Mondenkind, con una voce quasi inesistente.
“Ah… è arrivato il giovanotto!”, sbuffò subito suo nonno, mentre dalla sua pipa uscivano fuori anelli di fumo che si rincorrevano nell’aria, sopra la sua testa.
“Sì… sono proprio io…”, disse Georg, sorridendo a denti stretti.
“Allora me ne vado nel mio studio… così vi lascio soli.”, disse il simpatico vecchietto, alzandosi dalla sua amata poltrona e chiudendosi nello studiolo, insieme alla sua pipa e al libro.
I due ragazzi attesero che la porta si chiudesse per scambiarsi qualche parola.
“Sono venuto per… scusarmi. Per l’altro giorno, ovviamente.”, disse Georg, grattandosi la testa.
“Ti capisco benissimo Georg… ti ho innervosito con il mio atteggiamento un po’, come dire, da sapientona. Non volevo assolutamente passare per quella che dispensa lezioni di vita a destra e a manca. Ognuno deve fare ciò che vuole.”, disse  Mondenkind, chiudendosi nella sua felpina rosa, come se avesse avuto freddo.
Almeno lei aveva la maturità necessaria per capirlo, pensò immediatamente Georg, dopo essere tornato con la mente al giorno precedente, alla chiacchierata che aveva avuto con Helen.
“E comunque hai ragione… cosa ci potrai mai trovare in un libro come quello?”, proseguì Mondenkind, con una certa aria sconfitta.
“E’ proprio lì che volevo scusarmi.”, disse Georg, “Magari tu a questo libro ci tieni veramente, ci sei affezionata… tuo padre ti ha chiamato esattamente come l’Imperatrice! E io l’ho trattato come se fosse carta straccia!”
“Allora visto che ci tieni tanto… scuse accettate!”, disse Mondenkind, sorridendo.
Georg le porse la mano e lei, titubante, gliela strinse. Ma la tenuta di Mondenkind non aveva la benché minima forza, era debole. La sua mano era del tutto fredda, sterile e senz’anima.
Si stupì del cambiamento strabiliante che aveva visto nell’aspetto di quella ragazza. Dapprima era gioviale, la sua risata era contagiosa, la sua faccia era luminosa.
Adesso era l’ombra di se stessa.
Magari aveva solo bisogno di uscire un po’ di più all’aria aperta, di svagarsi, di conoscere nuova gente… di cambiare vestiti… di togliersi quegli occhialetti buffi… Di sicuro non le faceva bene passare tutto il suo tempo dentro a quella libreria, nella penombra, a trafficare libri antichi e vecchie edizioni. Se lei avesse accettato, le avrebbe fatto conoscere  un po’ dei suoi amici, così… tanto per toglierla di lì.
“Dovrei anche parlarti di un’altra cosa..”, disse Georg, sorridendole.
Lei ricambiò il suo sorriso con un espressione simile, ma molto stanca.
“C’è qualcosa che non va, Mondenkind?”, le chiese.
Non si sentì strano nel preoccuparsi per lei, dato che fino a quel momento il contatto più reale che aveva avuto con un essere umano, che non fosse stato se stesso, era avvenuto proprio con Mondenkind.
Una totale sconosciuta, l’unica cosa che aveva in comune con lei era quel libro, eppure quando si parlavano lei dimostrava sempre di capirlo, di accettare i suoi punti di vista. Silenziosamente, Mondenkind lo ascoltava, gli porgeva domande, lo faceva riflettere senza pretendere niente in cambio.
“Te l’ho detto, ultimamente non mi sento per niente bene.”, gli ripetè la ragazza, come aveva già fatto altre volte.
“Ma ci sarà un motivo per questo!”, esclamò Georg.
Poi un pensiero gli passò per la testa. E se avesse avuto una malattia di cui non voleva parlare?
“Non lo so che cos’è che ho… i dottori dicono che sto bene, che tutto sembra essere a posto. Ma non è così.”, disse Mondenkind, con aria rassegnata.
“Ti sei fatta fare degli esami? Degli accertamenti?”
“Sì… ho fatto tutto. Ma niente, non sono serviti a niente.”, disse Mondenkind.
“Per favore, siediti.”, le fece Georg, avvicinandoli e sostenendola finchè lei non si fu accomodata sulla vecchia poltrona.
“Forse uscire fuori da qui ti farà stare meglio.”, le propose, del tutto insicuro.
“No, non credo.”, disse Mondenkind, appoggiando la fronte sulla mano, “Qual è l’altra cosa di cui volevi parlarmi?”
Georg sospirò, cercando di organizzare la valanga di pensieri che era franata dentro la sua mente.
“Di un mucchio di cose… e forse di nessuna di queste.”, disse, sorridendo con amarezza.
“Cosa intendi?”, disse Mondenkind, con aria perplessa. Poi, con un cenno della testa, gli indicò un punto non precisato alle sue spalle, che si rivelò essere uno sgabello, abbandonato contro uno scaffale. Georg lo prese e si sedette davanti a lei.
“Beh… ho avuto una chiacchierata, ieri sera, con una mia amica…”, iniziò a dire Georg.
“Amica?”, lo interruppe Mondenkind, con sorriso lievemente malizioso.
“Sì, insomma…”, disse il ragazzo, abbassando lo sguardo con un certo imbarazzo, “Ed ho capito un paio di cose.”
“Quali?”
“Forse tutti i torti non ce li hai, Mondenkind.”, disse Georg, sorridendole.
La ragazza annuì concentrata con la testa, come per dirgli che poteva andare avanti.
“Vedi… forse ho ancora una qualche possibilità di tirarmi fuori dal Nulla in cui sono caduto. O meglio, siamo caduti.”, cercò di spiegarsi meglio Georg.
“Non ti seguo.”, disse Mondenkind, ma dall’angolino destro della sua bocca, voltato lievemente all’insù, Georg comprese che lo stava seguendo perfettamente.
“Mi dicesti che avrei potuto trovare una soluzione ai miei problemi tra queste pagine… Questo libro non è esattamente il manuale della felicità, ma sicuramente mi sta insegnando che, anche se la vita fa schifo, c’è sempre qualcosa che deve farci andare avanti.”
“E quale sarebbe questa cosa?”, chiese Mondenkind, sul cui viso non si celava più alcun segno di soddisfazione.
“I miei sogni.”, disse Georg, “Le mie fantasie. Finchè ho creduto nel mio sogno, cioè diventare un musicista per tutta la vita, niente è andato storto… ma quando ho smesso di crederci, o meglio, abbiamo smesso di crederci… tutto è finito in mille pezzi. Sembra una stupida frase fatta, una sciocchezza per qualunquisti, una dichiarazione moralistica. Ma è la verità.”
Mondenkind non proseguì con una domanda, o una semplice affermazione. Voleva che lui continuasse a parlare.
“Ma se ci metteremo insieme con l’idea di poter tornare a credere in quel sogno… E’ questa la soluzione che dicevi tu? Non è vero?”
Fu allora che Mondenkind reagì. Discostò la sua schiena dalla poltrona, si avvicinò sorridendo a Georg e gli posò delicatamente una mano sopra le sua, unite tra loro. Il contatto, inizialmente freddo e senza consistenza, si rivelò caldo e corposo. Georg sentì il calore dilatarsi a macchia d’olio dalle sue mani, diffondersi per tutto il suo braccio e disperdersi ovunque sul suo corpo, come se fosse stata una marea di acqua, che saliva vorticosamente seguendo l’influsso lunare.
“Forse lo è.”, disse Mondenkind, con voce pacata e serena, “Devi fare ciò che vuoi. E’ anche questo quello che il libro ti insegna.”
Georg rimase interdetto.
Pensava di aver dato la risposta giusta.
“Non lo hai letto fino alla fine, vero?”, disse Mondenkind.
“No…”, disse Georg, imbarazzato.
“Tranquillo, non ti metterò sul patibolo per questo… Adesso ti spiego: quando l’Imperatrice Bambina porta Bastian a Fantàsia per far rinascere tutto a nuovo splendore, grazie ai suoi desideri, gli consegna Auryn. E dietro di esso Bastian trova scritto: Fa’ ciò che vuoi.”
“Non sono ancora arrivato a quel punto…”, ammise Georg, “E comunque pensavo che il grande insegnamento di quel libro fosse stato credere nei propri sogni e nelle proprie speranze.”
“Si, lo è.”, ripetè Mondenkind, “Ma non bastano solo i desideri. Serve anche questo.”
Con la punta del suo dito indice, Mondenkind toccò la fronte di Georg.
Fa’ ciò che vuoi non significa fare letteralmente sempre quello che si vuole.”, riprese a spiegarsi Mondenkind, “Vuol dire che devi compiere la tua volontà. Seguire ciò che ti viene da dentro. Se vuoi che il tuo gruppo torni ad esistere, allora esisterà. Ma se non lo vuoi veramente…", disse lei, lasciando che la sospensione della sua voce fungesse da risposta, "E la risposta sta dentro di te.”
Georg riflettè su ciò che aveva appena sentito.
“Non lo so quale sia la mia volontà.”, rispose Georg, con amarezza, “E’ che… da una parte non voglio che tutto il lavoro che abbiamo fatto in questi anni venga sprecato così… ma dall’altra non posso dimenticare determinate cose. Determinate parole.”
“Ed infatti io non ti ho mai chiesto di darmi una risposta.”, disse Mondenkind, tornando ad appoggiare la schiena contro la poltrona.
“Già… anche questo è vero.”
“Dovresti pensarci molto bene, Georg.”
“Sicuramente lo farò.”
“Non c’è solamente la tua volontà in gioco.”
Era vero.
I Tokio Hotel non erano composti solo da Georg Listing.
C’erano bensì altre tre persone.
E non sarebbe stato facile.


Ecco, adesso cominciano le vere seghe mentali della Silvia sottoscritta. La storia inizia ad arrivare alla sua conclusione (che frase complicata....) e molte cose si stanno facendo intricate e assurde, molto difficili da spiegare per me, sapendo che molte di voi si fermano solo alla conoscenza del film. Sto provando a spaccare il capello in quattro per rendervi tutto più facile e per me, che devo ammettere devo ancora comprendere il significato di molte parti del libro, non è così semplice. 
Ma visto che ormai siamo in ballo, e che ballo, devo fare una buona esibizione, non vi pare?
Ieri sera, nella rilettura, ho cercato di spiegare al meglio ogni cosa, soprattutto la parte in cui viene citato, in corsivo, parte del discorso tra Mork ed Atreiu...0 Spero che tutte voi abbiate capito il nesso che c'è stato nella mente di Georg tra il libro e il personaggio di Helen, altrimenti sono ben felice si spiegarlo in un modo nuovo e migliore.

Attenzione ai particolari, ragazze mie belle
Questa frase avrei dovuto dirvela moooolto tempo fa, diciamo già dal primo capitolo... Attenzione alle parole, alle frasi, ai discorsi...
In questo capitolo sembra che non sia successo molto... ma invece...

Per questo capitolo salto i ringraziamenti ad hoc, stamattina ho un sonno che non me lo levo di dosso. Ma sappiate comunque che ogni vostra recensione mi fa molto piacere. Un grazie anche a tutte quelle che non hanno recensito ma che hanno semplicemente letto!

Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

 

 

Era il caso di parlarne e di trovare una soluzione. Parlare faccia a faccia, senza pressioni esterne.
Parlare senza altri interlocutori che non fossero stati loro quattro.
Fu per questo motivo che Georg chiamò insistentemente Tom, Gustav e Bill per tre giorni consecutivi, nell’attesa che loro rispondessero.
La maggior parte delle chiamate andava a vuoto, senza risposta.
La rimanenza si perdeva nella voce gentile ed ipocrita dell’operatrice telefonica, la quale lo informava che il numero chiamato non era raggiungibile perchè spento, oppure occupato in un’altra conversazione.
Ma non doveva demordere.
Una volta per ogni ora, prendeva il suo cellulare e ricomponeva i soliti tre numeri.
Di nuovo ed ancora un’altra volta.
Gustav fu il primo a rispondere dei tre, il quarto giorno, verso le sette di sera.
Ti ho risposto solo perchè così la smetti di chiamarmi ancora.”, disse, appena la linea fu stabilita.
“Ehm… Gustav, come va?”, esordì Georg, indeciso su come dovesse affrontare la questione.
Come se ti interessasse veramente… cosa vuoi?
Meglio rimanere calmi e pacifici.
“Vengo subito al punto… vorrei parlare con tutti voi. Seriamente.”
Seriamente esclude in automatico di dare del figlio di puttana in faccia alle persone.”, tuonò Gustav.
"Sì…”, fece Georg, incassando il colpo successivo, “Ma qua a casa mia, senza nessun altro che noi.”
Gli altri due?”, chiese Gustav.
“Non hanno ancora risposto.”
E non lo faranno.
“Prima o poi si decideranno ad accettare le mie chiamate, a meno che non vogliano stare a sentire il loro telefono squillare ininterrottamente.”, disse Georg.
L’altro rimase qualche istante in silenzio.
Perchè lo stai facendo Georg? Perchè ti stiamo tanto a cuore, quando invece ti sei rivolto a noi offendendoci in quel modo?”, gli domandò Gustav.
“Perchè mi voglio scusare… e voglio parlare con voi.”, fece Georg, che non riusciva più a trattenersi, istigato dall’atteggiamento rissoso dell’altro, “Quindi, se ti va bene, domani sera a casa mia, verso le sei.”
Ok, ok… .”, disse Gustav, e chiuse la chiamata.

 

***

 

Decise di presentarsi alla porta di casa loro. O faceva in quel modo, oppure non avrebbe mai più sentito la loro voce.
“Cosa ti fa credere che voglia aprirti…”, sentì sibilare la voce di Bill, al di là del grande portone blindato che chiudeva l’accesso all’attico dove lui e suo fratello vivevano. Non aveva aperto all’ormai ex amico, ma lo stava sicuramente osservando dal piccolo schermo di sorveglianza: la sua immagine veniva costantemente catturata dallo spioncino-telecamera che stava affisso sulla porta.
“Perchè posso accamparmi qua fuori anche tutta la notte. E perchè prima o poi voi dovrete uscire fuori di casa.”, rispose Georg, prontamente.
“E se chiamassi la polizia?”, azzardò Bill.
“Non lo faresti.”
“Come fai ad esserne tanto sicuro?”
“Perchè ancora nessuno di noi si è pronunciato sul nostro scioglimento. E nessuno di noi sembra intenzionato a farlo. Quindi perchè renderlo ufficiale facendomi arrestare mentre tampino la vostra porta di casa, nel vano tentativo di riconciliazione che mi sto sforzando di mettere in piedi?”, disse Georg, sicuro che la sua risposta sarebbe stata di chiaro effetto.
L’altro, infatti, se ne rimase silenzioso.
“Se vi interessa provare a riallacciare i nostri rapporti,”, gli fece, “venite a casa mia. Domani sera, verso le sei.”
“Abbiamo da fare.”, disse Bill, seccamente.
“E quando è che sarete liberi? Mai?”, fece Georg, toccandosi stancamente le tempie.
“Sì.”
“Come non detto. Domani sera vi aspetterò. Se non verrete, significa che non ve ne frega un cazzo di quasi dieci anni passati a suonare insieme, in giro per il mondo.”
Dette quelle semplici parole, Georg tornò verso l’ascensore, e lasciò che tutti prendessero le proprie decisioni.

 

***

 

Seduto sul divano.
Gambe distese, piedi incrociati.
Mani congiunte sul ventre.
Un leggero ticchettio del ginocchio sinistro.
Attendeva che qualcuno si presentasse alla sua porta. Impaziente.
Erano le sei e mezza ed ancora nessuno si era fatto vedere. Ma il ritardo era tipico di tutti loro, quindi non doveva farci caso.
Scacciò via un lieve prurito sul suo naso, ricordandosi che non era sicuramente di buon auspicio.
Qualcuno avrebbe suonato il suo campanello, bussato alla sua porta?
Anche uno solo di loro. Uno su tre.
Non doveva desistere, no, doveva sperare fino in fondo che tutto sarebbe andato per il meglio.
Se ne convinse.
Deciso, si alzò, incrociò le braccia e prese a passeggiare nervosamente per il suo soggiorno.
Ininterrotto, continuò a farlo per diversi minuti, finchè il suono metallico del suo campanello lo risvegliò dal torpore agitato.
Andò alla porta.
Aveva sperato in uno solo di essi. Magari Gustav. I due Kaulitz non si sarebbero mossi l’uno senza l’altro.
Ed invece erano lì, tutti e tre, davanti alla porta di casa sua.
“Entrate, prego.”, fece Georg, discostandosi per farli passare.
In fila indiana, silenziosi, sospettosi, andarono a sedersi sul suo divano.
“Volete qualcosa da bere?”, chiese Georg, ancora in piedi.
Gli altri scossero la testa e Georg si accomodò.
Avrebbe voluto iniziare subito il discorso, ma notò dalle loro facce che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa in più al resto.
Bill se ne stava a testa bassa, con le braccia conserte sul petto.
Tom, accanto a lui, preferiva spostare lo sguardo altrove, piuttosto che sugli altri.
Gustav, a gambe incrociate, era l’unico che attendeva un segnale, una parola, un gesto da Georg, guardandolo dritto negli occhi.
“Allora…”, si fece coraggio Georg, “Vorrei prima di tutto iniziare con…”
Gustav si mosse, sembrava volersi accomodare meglio, ma invece non fece altro che sbottonare la giacca che indossava, infilare una mano dentro di essa e tirarne fuori qualcosa, che finì ben presto sul vetro del tavolino davanti a lui.
“Cos’è?”, fece Georg, prendendo quel giornale.
Guardò la copertina.
Non appena i suoi occhi caddero su una parola a lui conosciutissima, il suo nome, stampato a caratteri quasi cubitali a fondo pagina, si sentì mancare il fiato.
In esclusiva: Georg Listing! Cade il silenzio sui Tokio. E cadono anche i Tokio.’
Sgranò il occhi.
Freneticamente, sfogliò tutto il giornale, sotto l’occhio vigile degli altri.
Ma fu inutile leggere, già sapeva che cosa avrebbe trovato scritto.
E soprattutto, sapeva chi l’aveva scritto. Helen, quella era la rivista di moda per cui lavorava.
Prese il giornale e lo scaraventò a terra.
“Mi aveva promesso che non avrebbe detto una parola. Non una parola!”, esclamò Georg, iniziando ad animarsi.
I due Kauliz, dal loro canto, non risposero in alcun modo.
Gustav, invece, raccolse la rivista e, ad alta voce, lesse qualche passo.
Fonti vicine alla nostra rivista e totalmente attendibili, continuavano a riportarci da almeno un paio di mesi che il gruppo non era più unito come una volta. Litigi, invide e gelosie si sono infiltrate infidamente nel loro rapporto, minandolo dalle fondamenta…’
“Basta, per favore…”, disse Georg.
“Aspetta! Ancora il passo meglio deve arrivare:”, riprese a leggere Gustav, “Per quello che mi riguarda, i Tokio Hotel non esistono più. Sono queste le prime parole che sono uscite dalla bocca di Georg, quando gli è stato chiesto del destino del suo gruppo.
“Non l’ho mai detto!”, si difese Georg, “Io non le ho mai dette queste cose!”
“Georg…”, fece Bill, guardandolo di sbieco, “Almeno ti hanno pagato bene per questa intervista?”
“Cosa?”, esclamò il ragazzo, “Non ho mai concesso nessuna intervista su di noi! E’ stata Helen, mi ha raggirato e mi ha sfruttato per pubblicare un’esclusiva!”
“Certo che sei proprio un’idiota!”, esclamò Tom, “Lo sapevi che lavorava per un giornale! Cosa ti costava non parlarle del nostro lavoro!”
“Lei mi ha sempre promesso che non avrebbe mai fatto parola di quello che le dicevo! E io mi sono fidato!”, gli rispose Georg, che si sentiva il sangue ribollire nelle vene.
“Ma cosa ti passava nel cervello Georg!”, fece Gustav, “Da quando in qua i giornalisti sono delle pie anime che tengono i segreti che vengono confidati loro?”
“Proprio non conosci la prudenza, Georg.”, disse Bill, scuotendo la testa.
“Credete che lo abbia fatto apposta vero?”, disse l’accusato, alzandosi in piedi, “Credete che non abbia mai pensato che Helen stesse insieme a me per trarne un profitto? Sì, l’ho pensato, anche più di una volta. Ma mi fidavo di lei. E mi dispiace essermi sbagliato sul suo conto!”
Riprese fiato, cercò di non esplodere in un attacco d’ira e tornò a parlare.
“Ho taciuto le cose più importanti. Non sono nato ieri! E sono convinto che tutto quello che avete letto, dalla prima all’ultima parola, sia stato completamente inventato… Non le parlavo dei nostri litigi, anche se sapeva che accadevano. Non le ho mai detto che ci siamo divisi, perchè nessuno si è mai pronunciato su questo fronte.”
“Georg, per favore!”, disse Tom, alzandosi, “Smettila con queste cazzate! Io l’ho sempre saputo che lei stava con te per convenienza, per trovare uno scoop su di noi… ma non te ne ho mai parlato perchè sei sempre stato mio amico, e non era mio compito intromettermi nella vostra relazione…”
“Perchè non lo hai fatto!”, si animò Georg.
“Perchè pensavo avessi il buon senso di mandarla a fanculo in poco tempo. Ma a quanto leggo Helen era una specie di confessionale per te!”
“Te lo ripeto! Quello che c’è scritto in quelle due pagine sono solo stronzate! Lei sapeva pochissimo di quello che succedeva tra di noi!”, gli ripetè Georg.
“Fatto sta che oggi siamo in prima pagina su questa rivista… e si sta scatenando l’inferno nelle altre redazioni, su internet e in televisione.”, disse Gustav, sventolando il giornale, prima di gettarlo a terra.
“Perchè allora non facciamo una conferenza stampa!”, propose Georg, “Smentirò tutto quello che c’è scritto sulla rivista, farò una denuncia e la cosa si sistema!”
Gli altri tre si guardarono.
Tom sospirò.
Bill scosse la testa.
“Vogliamo buttare nel cesso tutto quello che abbiamo fatto insieme?”, disse Georg, che aveva trovato il momento giusto per iniziare con il discorso che si era studiato a fondo, prima che loro arrivassero.
“Non vogliamo provare a rimettere insieme i pezzi?”, fece, cercando il loro sguardo, che invece sfuggiva via.
“Era il nostro sogno. Diventare famosi e suonare insieme per sempre. Per sempre… o almeno finchè saremmo stati in grado di mantenere le nostre dentiere attaccate in bocca.”, disse, facendosi scappare un lieve sorriso, che poi subito scomparve, “E’ per questa nostra promessa che dovremmo continuare a stare insieme, uniti come un gruppo. Uniti come i Tokio Hotel. Dobbiamo dimenticare le difficoltà, gli ostacoli che ci hanno fatto cadere. Dobbiamo alzarci di nuovo, lottare per riprendere il posto che ci spetta…”
“Ma quante belle parole... Perché non ti butti in politica?”, sibilò Tom.
“Non siamo finiti, ragazzi.”, riprese Georg, ignorandolo, “Non saremo finiti finchè siamo noi a non volerlo essere. Lo so che ci siamo detti cose troppo grandi da dimenticare… ma dobbiamo farlo. IO sono disposto a farlo perchè ancora credo nel nostro sogno, nella nostra promessa. E voi?”
Ecco, aveva finito, aveva terminato.
Il respiro si era fatto pesante.
Attendeva una risposta.
“Io non ci riesco.”, disse Bill, alzandosi ed andando verso la porta, seguito da Tom.
“E a me non interessa farlo.”, disse Gustav, “E’ stato bello finchè è durato. Non siamo più i soliti, Georg, siamo cresciuti. Il successo ci ha cambiato ed i Tokio Hotel non sono stati altro che un fenomeno passeggero, per ragazzine. Adesso è il momento di voltare pagina e di farsene una ragione. Io ho già trovato un nuovo scopo… o un nuovo sogno da seguire, come vuoi chiamarlo tu.”
E se ne andò.
Fine.
Era la fine.
Lui ci aveva provato, fino in fondo.
Ma aveva fallito, totalmente.

 

***

 

Prese la vecchia maniglia scolorita, lievemente arrugginita, e la spinse in basso.
La porta non si aprì, era chiusa. Per la prima volta, la vecchia libreria del  signor Metternich e della nipote Mondenkind era chiusa.
Avvicinò gli occhi al vetro opaco, cercando di vedere se qualcuno fosse al suo interno. Gli parve di intravedere qualcosa muoversi, nella penombra, e unì le mani intorno agli occhi, per vedere meglio.
C’era qualcuno, ma non sentiva nessun rumore provenire dall’interno. Bussò alla porta ed iniziò a chiamare il nome della sua amica Mondenkind. Vide la figura muoversi ancora nel buio.
“Mondenkind! Sei tu? Ti devo parlare!”, disse, continuando a bussare sul legno della porta.
L’ombra sembrò avvicinarsi alla porta.
Sentì il clack stanco della serratura.
Georg afferrò di nuovo la maniglia ed aprì la porta, entrando timoroso dentro alla libreria, totalmente buia.
“Mondenkind…”, disse Georg.
Le luci basse si accesero, facendolo sobbalzare.
“Cosa vuoi, giovanotto screanzato! Siamo chiusi!”, sbottò improvvisamente il signor Metternich, alle sue spalle.
Georg si voltò non appena il cuore ebbe preso a calmarsi.
“Mi dispiace, signore ma… c’è per caso Mondenkind?”, chiese al vecchietto.
Piccolo e grassoccio, chiuso nel suo cappotto consunto, sembrava impaziente di liberarsi del suo scocciatore.
“No! Non c’è! E lasciala in pace!”, disse.
A passi veloci ritornò verso la porta del suo negozio e lo esortò, facendogli gesti poco amichevoli, ad andarsene.
“Volevo solo parlare con lei…”, si spiegò Georg.
“Non c’è! Ed io devo andarmene!”
“E dove posso trovarla?”, chiese Georg, “Devo parlarle… è urgente…”
“Anche io ho urgenza!”, urlò il vecchietto, con voce stridula e pungente, “E comunque non è in condizione di vederti!”
Georg si preoccupò nel sentire quelle parole. Mondenkind ultimamente non si era sentita affatto bene… e se il suo stato di salute si fosse aggravato? Se fosse peggiorato improvvisamente?
“Mondenkind sta bene?”, domandò a suo nonno, che era sempre più ansioso di scacciarlo via, “E’ di sopra? Posso fare qualcosa per voi?”
“Puoi lasciarci in pace?”, sbraitò il vecchietto, gesticolando vistosamente, “Se mi fai ritardare ancora di un minuto, mancherò il numero tre! E devo ancora acquistare il biglietto!”
Numero tre, biglietto… L’autobus numero tre era quello che portava all’ospedale.
“E’ all’ospedale!”, esclamò Georg, “Che cosa le è successo?”
“Giovanotto!”, esclamò il signor Metternich, “Mi sta facendo perdere l’ultimo briciolo della mia pazienza!”
“Ce la porto io all’ospedale, signore. In meno di cinque minuti saremo lì e lei non dovrà pagare nessun biglietto.”, gli fece, aspettandosi una reazione tutt’altro che positiva.
Inaspettatamente, il nonnetto sbuffò ed accettò, non senza una vistosa espressione riluttante sulla sua faccia.
Durante il tragitto, lo rimproverò di premere troppo sull’accelleratore, di non guardare mai negli specchietti, di non dare mai la precedenza ai pedoni e così via, finchè non scese, ricordandogli di quanto era stato spiacevole il suo modo di guidare.
Dopo che, all’accettazione, venne detto loro in quale camera si trovasse Mondenkind, scoppiò l’ennesimo battibecco.
“Brutto ignorante!”, esclamò Metternich, mentre raggiungevano l’ascensore, “E’ mia nipote! Vattene!”
“Ed è anche mia amica e sono preoccupato per lei!”, rispose Georg.
“Solo i parenti possono visitare gli ammalati!”, contrattaccò il vecchietto, deciso a non demordere.
“Signori! Vi prego! Questo è un ospedale, non un talk show!”, si ribellò un infermiere che passava di lì.
I duellanti riposero momentaneamente le armi, guardandosi con segno di sfida. L’ascensore arrivò e li caricò, per portarli al settimo piano.
Quasi come in una gara, i due si fronteggiavano lungo il corridoio, finchè un dottore parò loro la strada, chiedendo quale paziente stessero cercando.
“Mondenkind, mia nipote.”, disse prontamente Metternich, prima che Georg potesse parlare.
“E lui chi è?”, fece il dottore, indicando con la penna Georg.
“Sono suo cugino.”, disse il ragazzo, bruciando sul tempo il vecchietto, che prese ad animarsi, incolpandolo di essere un bugiardo.
“Per cortesia!”, irruppe il dottore, “Seguitemi oppure vi faccio buttare fuori dall’ospedale.”
La coppia litigiosa, in silenzio, camminava appresso al dottore che, dopo una ventina di metri, si fermò davanti ad una porta bianca, del tutto uguale a quelle a cui erano passati davanti in precedenza.
“Ecco, questa è la sua camera. Avete un’ora per stare con lei.”, disse il dottore, mentre apriva la porta. “Vado prima io!”, esclamò Metternich, sgattaiolando dentro alla stanza e chiudendosi dentro.
Georg strinse un pugno, ribollendo di rabbia. Quel vecchietto era veramente insopportabile, non avrebbe voluto mai incontrato. Quando si accorse che il suo atteggiamento era del tutto fuori luogo agli occhi del dottore, si calmò, abbozzando un sorriso per scusarsi.
“E’ veramente cugino della ragazza?”, gli chiese l’uomo in camice bianco, che odorava di candeggina e disinfettante, così come tutti gli ospedali della terra.
“Sì, lo sono davvero… è che nostro nonno è arteriosclerorico… sa, non c’è più tanto con la testa…”, disse Georg, mentendo spudoratamente.
Il dottore lo squadrò per l’ennesima volta da capo a piedi, tolse da sotto il suo braccio la cartellina metallica, vi annotò sopra qualcosa. Poi tornò a fissarlo, con le mani giunte, come se stesse attendendo qualcosa da lui.
“Come sta Mondenkind?”, gli chiese Georg comprendendo che, da buon parente, anche se finto, era la prima domanda che avrebbe dovuto fare ad un dottore come lui.
“Sta… letteralmente, sta bene. Non ha niente. O almeno, non ha niente che noi sappiamo riconoscere.”, disse il dottore, con faccia quasi imbarazzata per quell’ammissione di ignoranza.
“Che cosa intende dire?”, fece Georg, che non comprendeva.
“Non è facile da spiegare…”, disse il medico, grattandosi la testa, “Le abbiamo fatto qualsiasi tipo di analisi, dalla più superficiale a quella più approfondita. Tutto nella norma. Niente, sua cugina sta bene.”
“E allora perchè è qua in ospedale?”, venne spontaneamente da domandare a Georg.
“E’ in uno stato comatoso. Non risponde agli stimoli… eppure pare che non ci sia una causa per questo. Respira autonomamente, tutte le sue funzioni vitali sono a posto. Abbiamo provato anche a…”
Il discorso del dottore fu interrotto da un bip-bip, segno che il suo cerca persone era stato attivato da una chiamata in arrivo. L’uomo gli dette un’occhiata e si scusò, aveva ricevuto un’emergenza e doveva scappare.

 

 

Passarono cinque, poi dieci, ed infine quindici minuti, prima che il vecchietto uscisse dalla stanza della nipote, per permettergli di visitarla. Stava quasi pensando che volesse farglielo apposta: rimanere lì dentro dalla nipote fino alla scadenza dell’orario delle visite solo per non fargliela vedere.
Poi ne uscì, con la faccia triste e pensierosa, mentre tastava il suo cappotto nero sbiadito lungo tutte le tasche, in cerca di qualcosa. Non lanciò nemmeno uno dei suoi sguardi corrucciati a Georg: un passo dopo l’altro, immerso nelle sue elucubrazioni mentali, il vecchietto percorse tutto il corridoio in silenzio.
Facendo spallucce, Georg entrò dentro la camera di Mondenkind.
Lei se ne stava pacifica, distesa sul letto, coperta fino al petto, con le mani che innaturalmente ferme stavano distese lungo i suoi fianchi. Dai suoi polsi partivano dei lunghi tubicini per le flebo, una pinzetta stava fissa sul suo indice sinistro.
L’aveva sempre vista con i capelli ammansiti in una treccia lunga, appoggiata sulla sua spalla destra. In quel momento, però, stavano liberi sul cuscino. Il bianco della federa impallidiva davanti al nero lucido dei capelli di Mondenkind.
Gli occhi chiusi, il respiro regolare ed impercettibile.
L’espressione assente.
La testa piegata lievemente di lato.
Una sedia anonima stava accostata al muro, vicino al letto. La prese e vi si sedette a cavalcioni, incrociando le braccia ed appoggiandole sullo schienale.
No, no e no!
Non poteva stare male senza un perchè. Doveva esserci qualcosa per curarla, per farla tornare a sorridere, per farla tornare alla sua libreria! Com’era che i dottori non avevano trovato una causa a questo suo male? Perchè la medicina non sapeva spiegare che cosa avesse Mondenkind? Era impossibile, tutte le malattie del mondo erano state scoperte, anche se alcune di queste non avessero ancora una cura. Perchè Mondenkind doveva starsene su quel letto senza un perchè?
Era terribilmente ingiusto. Trovava un’amica, una persona che lo comprendeva, che sapeva metterlo per la giusta via quando stava sbagliando… e la perdeva.
Beh, Mondenkind era sempre lì, davanti ai suoi occhi. Ma era come priva di vita.
Pallida ed inerme, immobile.
“Mondenkind… mi senti?”, le fece, in cerca di una risposta.
Ma lei non fece nemmeno un piccolo cenno con la testa.
“Ovviamente non mi sentirai… ma ti parlerò lo stesso.”, disse Georg, con amarezza.
Si immaginò che lei si sedesse sul bordo del letto, con la sua camicia da notte biancastra, e gli chiedesse se stava bene e cosa aveva da raccontarle di bello.
“Se sto bene?”, sbuffò Georg, “Benissimo! Così bene che salto dalla gioia.”
Rise a denti stretti.
“Sto da schifo…”, disse poi, “Non è servito niente…”

‘Cosa intendi?’, gli domandò l’immaginaria Mondenkind.
“Ieri mi sono incontrato con gli altri… ho scoperto che la mia ex ragazza mi sfruttava per pubblicare un articolo esclusivo su di noi. Loro non l’hanno presa bene.”

‘Cosa ti hanno detto?’
“Mi hanno accusato di essere stato uno stupido, un ingenuo… e non mi hanno ascoltato. Anzi, mi hanno ascoltato. E comunque ognuno ha preso la sua decisione. E’ definitiva, non esistiamo più come gruppo. I Tokio Hotel si sono sciolti.”, disse Georg, appoggiando la testa sulle sue braccia incorciate, sopra la spalliera della sedia.
‘Mi dispiace…’
“Anche a me dispiace tanto… E’ stata una delle delusioni più grandi che abbia mai vissuto. Pensavo che tutto sarebbe tornato come prima…  e adesso….”
‘Niente torna ad essere come lo ricordavamo prima della sua fine.’, disse saggiamente la Mondenkind invisibile con cui lui stava conversando, ‘Questo dovevi saperlo bene, Georg.’
“Non mi hanno nemmeno dato il tempo di… di provare a fare qualcosa!”, disse il ragazzo, sfogandosi, “Se ne sono andati, felici di avermi fatto sentire in colpa per una cosa che è successa indipendentemente dalla mia volontà. Ho giudicato male Helen, non mi sono accorto che aveva un doppio fine! E me ne pento amaramente! Ma a loro non interessa… ed è tutto finito.”

‘Sì, così è davvero tutto finito.’, gli disse l’eterea Mondenkind, con faccia triste.
“Non era destino che stessimo insieme per sempre.”, disse Georg, toccandosi la fronte con espressione stanca ed abbattuta.

‘Ma tu credi nel destino, Georg?’
Per essere una Mondenkind immaginaria, poneva delle domande veramente intelligenti, pensò Georg. Ma era solo il suo io interiore a fargliele, purtroppo.
Riflettè bene sulla risposta che stava per darsi.
“No, non ci credo. Credo che ognuno di noi crei la propria vita con le scelte che prendiamo.”, disse, guardando dentro ad un pozzo di saggezza.

‘E allora perchè dici così?’
“Mi correggo: si vede che le loro scelte non combaciavano con le mie.”
‘Ecco…’, fece Mondenkind, sorridendogli.
Georg sospirò e si passò  una mano tra i capelli.
“E’ come lasciare la fidanzata storica, quella con cui sei stato insieme per vent’anni. Ti chiedi cosa farai, quando tornerai ad amare qualcun’altra…”, disse, buttandosi in una metafora.

La Mondenkind della sua mente gli sorrise, mettendosi una mano davanti alla bocca per rispetto.
“Mi sento esattamente in quel modo. Vuoto, smarrito, incompleto.”, disse Georg.

‘Non dovresti.’
“E perché? Non dovrei crogiolarmi nella mie depressione?”, disse Georg, sorridendo.
‘Perchè è più facile creare qualcosa dal niente che dall’esistente.’
Non avrebbe mai pensato che il suo Georg interiore fosse stato così saggio. Decisamente di più di quello esteriore.
“Ma basta parlare dei miei problemi…”, disse poi, scuotendo annoiato la testa, “Ti ho portato una cosa.”
Aprì il giubbino di pelle che indossava, infilò una mano nella tasca interna e tirò fuori il libro. La Mondenkind della sua immaginazione, seduta sul letto, era scomparsa. Era rimasta quella vera, malata, pallida.
Dette una rapida occhiata alla stanza. C’erano diversi macchinari ma tra quelli riconosceva solo quello che contava il battito cardiaco, gli altri non sapeva nemmeno a cosa servissero. Erano di troppo alla sua vista, non di buon auspicio… Tutta la camera era bianca, asettica, pulita, lustra. C’era una piccola televisione appesa al  muro, spenta. Una finestra chiusa, con delle tendine che oscuravano lievemente il debole sole.
Guardò l’orologio,  aveva ancora una mezz’ora per stare con lei. Ovviamente non aveva altri impegni fuori, avrebbe potuto starci tutta la giornata se non fosse stato per le rigide regole ospedaliere.
“Come la spendiamo quest’ultima mezz’ora?”, chiese a Mondenkind, “Ti leggo qualcosa?”
Si girò il libro tra le mani.
Lui non leggeva quasi mai.
Non gli piacevano i libri.
Preferiva guardarsi le televisione. I film.
Eppure, mai dire mai.
Non aveva comunque pensato che i libri fossero solo sollazzi per gente annoiata…
Soprattutto, forse peccando con un po’ troppa superbia, non aveva mai immaginato che un libro, quel libro, avesse potuto insegnagli così tanto.
Prese a sfogliarlo, dalla prima pagina, con gli occhi che venivano catturati dalle parole qua e là.
Tra le migliaia che vide, solo una lo rapì.

Cairone.
Cairone era il centauro che aveva affidato ad Atreiu il talismano Auryn, affidandogli la missione.
Cairone era anche il più grande medico di tutta Fantàsia.
Carione non era riuscito, come tutti gli altri medici di Fantàsia, a trovare una cura per la misteriosa malattia dell’Imperatrice, che la faceva stare così male e…
“Sai Mondenkind…”, disse Georg, chiudendo il libro e posandolo stancamente sul comodino, accanto al letto, “Questo libro a volte pare quasi una profezia! E’ strano, ma alcune cose che mi sono successe… somigliano spesso a fatti di questo libro.”
Riflettè, cercando di trovare le analogie tra la sua vita e la finzione.
“Innanzitutto, il modo in cui sono precipitato nella libreria di tuo nonno! Quasi identico a quello che è successo a Bastian… e, visto che ci sono, devo dirti anche che questo libro inizialmente l’ho rubato, e non c’entrava niente l’arteriosclerosi di tuo nonno!”, le rivelò, sorridendo, “E comunque ti spiegherò un giorno per bene com’è andata, quella mattina… poi, tu… questa strana malattia che hai e che ancora i dottori non hanno capito quale sia…”
Appoggiò la fronte sulle braccia, conserte sopra la spalliera della sedia.
“Facciamo questo gioco!”, esclamò Georg, alzando di nuovo la testa, “Facciamo finta che io sia Bastian, e tu sia l’Imperatrice Bambina!”
Si sentiva totalmente stupido, ma proseguì con il gioco. Stare lì, in quella camera d’ospedale, lo faceva deprimere…
“A dire il vero io mi sono sempre immaginato, modestamente, come Atreiu, mentre leggevo… ma questa è un’altra storia.”, fece, ridendo, “Allora, dato che io sono Bastian, devo trovarti un nome nuovo, così ti riprenderai e tutto finirà.”
Sarebbe stato bellissimo.
Avrebbe dato via l’anima perchè accadesse qualcosa del genere.
Ma quella era la realtà e non bastava un semplice nome nuovo per guarire una persona malata.
“Un momento che devo pensare al nome che voglio darti…”, disse Georg, toccandosi pensieroso il mento.
Ci voleva un nome d’effetto, che si ricordasse per sempre…
Liane?
Theresa?
Libeth?
Susanne?
No… erano nomi troppo comuni.
Ma non ne aveva molti altri in mente.
Si sforzò nel pensarci, ma la sua mente non produceva niente.
Se non una canzone.

Ce l’aveva dalla mattina in testa e non riusciva a liberarsene.
L’aveva sentita prima di addormentarsi e si era svegliato con quella.

 

Mitternacht, es ist Mitternacht
und sie weint, allein
und alle Träume sterben
Mitternacht, es ist Mitternacht
und sie weint allein
und alle Engel schreien heut Nacht

 

Maledetta LaFee e la sua bellissima ‘Mitternacht’, pensava Georg.
Gli veniva quasi da canticchiarla, ma così sarebbe passato da pazzoide.
Mitternacht…

Mitternacht.
“Mitternacht!”, esclamò, “Potrebbe essere un bel nome! Strano… ma è un bel nome, non è da tutti i giorni essere chiamati come un’ora del giorno! Ti piace, eh, Mitternacht?”
Nessun segno di approvazione.
Georg appoggiò il mento sulle braccia conserte.
“Mondenkind… Mitternacht… dove andremo a finire con questi nomi…”, disse.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Dream a dream and what you see will be ***


CAPITOLO 9

Dream a dream, and what you see will be

 

 

Aprì gli occhi.
La luce glieli fece pizzicare pesantemente, si mise a stropicciarli.
Doveva essersi appisolato.
….
Intorno a lui sentì una sensazione strana, di torpore, non sapeva spiegarla bene, ma comprese che si stava trovando in un sogno.
Sì,  gli capitava spesso di sognare e di esserne perfettamente consapevole.
Era questo il bello dei sogni.
Ed anche l’amaro.
Perchè viveva la sua fantasia, sapendo però che era destinata a finire, da un momento all’altro, con uno schiocco delle dita.
Si guardò intorno.
Tutto era bianco.
Indefinito.
Era dentro ad una stanza vuota e bianca, di cui non vedeva né le pareti, né il soffitto sopra di sé.
C’era solo quel grande bianco che lo avvolgeva tenuemente.
“Georg…”, lo chiamò una voce dietro a lui.
La riconobbe, non ci fu bisogno che si voltasse per sapere che apparteneva a Mondenkind.
Solo allora il posto in cui si trovava prese forma.
Apparvero le pareti: stondate, come se la stanza fosse stata circolare, continuavano intorno a loro curvilinee, per unirsi poi qualche metro sopra le loro teste. Decorazioni su di esse, linee sinuose che partivano dalla base del pavimento ed arrivavano fino in cima.
Camminava su una grandissima lastra di marmo bianco: quel pavimento che vedeva sotto i suoi piedi non aveva un’imperfezione, una macchia.
Un grande letto, o forse un divano. Anch’esso bianco, tondo, ripieno di cuscini e di coperte bianche che scendevano morbide e toccavano terra. 
Su di essi lo aspettava Mondenkind.
“Ciao…”, le disse Georg, “Che piacere vederti sveglia...”
Lei sorrise, con le dita che andarono a coprire una parte di quella smorfia gioiosa. Abbassò impercettibilmente la testa, come imbarazzata da quel gesto di poco rispetto. Dileguò gli occhi felici altrove, prima di ripristinare la sua serietà.
“Mondenkind…”, le fece, ma lei lo interruppe con un cenno di mano.
“Non più.”, disse lei, scuotento lievemente la testa.
Georg ammutolì ma poi, in un lampo di ricordi, comprese.
“Sì... è vero!”, disse Georg, “Nel gioco che abbiamo fatto ti ho dato il nome di Mitternacht. Ti piace?”, le domandò. 
L'assurdità dei sogni: essere in una fantasia e tenersi sempre attaccati alla realtà.
“A te piace?”, domandò lei a sua volta, senza rispondere.
“Beh... è il titolo di una canzone ed è tanto strano quanto Mondenkind. Quindi è perfetto!”, scherzò Georg.
Mondenkind, o meglio, Mitternacht non rispose. Né sorrise. Non parlò nemmeno: stava semplicemente seduta sul suo letto, con le gambe piegate di lato sulla comoda rivestitura e coperte dalla lunga veste bianca. Un alone impercettibile contornava la sua figura, rendendola quasi evanescente, simbolica. 
Si stupì di come la sua immaginazione potesse averla trasformata da bibliotecaria bruttina a regale figura a lui sconosciuta. 
Sì, la Mitternacht del suo sogno sembrava veramente una regina. E quella doveva essere la sua camera privata. Chissà per quale assurdo motivo si stava trovando in quel sogno. Chissà a quale immagine nascosta nel suo inconscio aveva attinto la sua mente...
Poi, per uno strano processo mentale che non era riuscito a controllare, avanzò un'ipotesi.
“E quindi, in questo mio sogno,”, disse Georg, rendendosi conto della situazione in cui si stava trovando, “tu saresti l’Imperatrice Bambina… e io magari sono Atreiu. E adesso sono qui da te perchè ho trovato il Bastian di turno che sta per salvarti!”
Gli venne da ridere e lo fece molto volentieri. Ripensandoci, non stava poi tanto male con la divisa di quel personaggio...
Mitternacht scosse la testa.
“Tu sei Georg.”, disse lei, sorridendo, “E questo non è un sogno.”
Ah sì certamente, sbottò dentro di sè Georg. 
Sarebbe stato come chiedere ad un pazzo se pensasse di esserlo veramente. Era ovvio che quello rispondeva di no, che non era matto.

“E allora che cos’è?”, fece Georg, continuando nell'ilarità del momento.
Mitternacht poggiò i piedi sul pavimento freddo, si alzò e gli venne incontro. La sua veste, lunga fino a terra, era così bianca che pareva splendere di luce propria. Era larga e la copriva interamente, fermata con una fascia intorno alla sua esile vita. Un passo dopo l’altro, le punta delle piccole dita spuntavano dall'ampia gonna. I lunghi capelli neri, conosciuti sempre in una treccia, stavano liberi, lievemente mossi lungo la schiena. Un paio di ciocche invece le ammorbidivano le spalle fino al petto, mentre un fine nastro bianco le contornava la fronte.
Gli occhi, chiari come non mai, sembravano di vetro.
“Grazie per avermi dato un nuovo nome, prima che fosse stato troppo tardi.”, disse Mitternacht.
La sua voce suonava limpida e cristallina, non c’era l’ombra della timidezza che l’aveva contraddistinta quando l’aveva conosciuta.
Gli tornò a mente quando aveva immaginato suo nonno rincorrerlo con il giornale arrotolato e gli venne da sorridere ancora. Ma nessuna smorfia divertente trasparì sul suo volto: era totalmente frastornato dall'aura potente di Mitternacht. Poco più bassa di lui, lo sovrastava con la potenza che la sua esile figura sembrava emanare.
In quel momento, si sentì proprio come l'Atreiu che aveva citato con ilarità pochi attimi prima: sconfitto dinanzi a lei, non era riuscito a portarle il Figlio d'Uomo che doveva darle un nuovo nome, aveva fallito la Grande Ricerca. Si sentiva... inutile. E provava un terribile senso di sconforto.
Che sogno… 
“Beh… prego...”, disse Georg, ammutolendo.
“Per la prima volta ho davvero pensato che sarebbe svanito... Tutto..”, disse Mitternacht.
La sua voce riflettè una profonda tristezza che colpì molto Georg.
Da una parte, sapeva di essersi addormentato sulla sedia vicino al letto di Mondenkind.
Dall'altra gli pareva quasi che quell'immaginazione fosse troppo vivida per essere, appunto, un'immaginazione. L'empatia non era una caratteristica del suo carattere, anzi... ma era come se una sottile linea collegasse invisibilmente il suo cuore a quello di Mondenkind. Ed adesso che lei era triste, anche lui lo era.

“Perchè dici così?”, domandò, impaurito nel sapere la risposta.
In fondo, la conosceva bene.
“Le altre volte bastava che qualcuno leggesse il libro. Ed al momento giusto, tutti avevano saputo darmi un nome.”, disse Mitternacht, con la delusione dipinta sul suo volto.
Da pallido e senza vita, era di nuovo roseo. Di porcellana. Gli occhi così cristallini sembravano quasi finti, come quelli di una bambola.
“Come ho fatto io in ospedale?”, si azzardò a dire Georg, con ironia.
Meglio mantenere il contatto con la realtà.
Lei gli sorrise.
“Sì, proprio come hai fatto tu, Georg… Ma non mi sono mai dovuta esporre così tanto per attirare la tua attenzione.”
Attenzione? 
“La mia attenzione?!?”, sbottò il ragazzo, con aria perplessa.
Mitternacht annuì mestamente.
“Sì… è stato difficile... Tu non volevi starmi a sentire.”
Georg la guardò stupito.
“Beh… io….”, borbottò, sforzandosi di comprenderla.
“Rubasti il libro, come doveva succedere.", disse Mitternacht, "Iniziasti a leggerlo, ti appassionasti… ma poi lo riportasti nella libreria…", si preoccupò, "Fortunatamente tornasti a riprenderlo, ma comunque non capivi…”
Aveva ripercorso in un istante gli avvenimenti strani che lo avevano coinvolto.
“Non è stato facile lasciare il mio posto per stare vicino a te. Stavolta la Grande Ricerca del Figlio dell'Uomo che doveva darmi un nome nuovo non è stata compiuta da Atreiu. Stavolta Atreiu ha veramente fallito il suo compito... ed ho dovuto portarlo avanti io stessa, lasciando Fantàsia.”, disse poi.
Posto? Quale suo posto?

“Un momento!”, esclamò Georg, mettendo le mani in avanti, come per fermarla sul serio, “Se ho capito bene… e questo sogno non può essere più assurdo di così… tu, Mitternacht... sei... l'Imperatrice di Fantàsia?", era pazzesco, "E hai lasciato il tuo posto per stare accanto a me?!?", sbuffò divertito, "Dio mio… devo smetterla di mangiarmi la pancetta a colazione! Fanno male ai miei pisolini!”
Rise con forza. 
Di sogni strani ne aveva fatti… ma quello li batteva tutti!
Lei lo guardò.
Seria, risentita. Offesa.
Ma poco di tutto questo trasparì sulla sua faccia.
La sua figura, benché all’apparenza fosse piccola e fragile, trasmetteva un fortissimo senso di autorità e di importanza, ma soprattutto di regalità. Georg poteva vederlo, poteva sentire tutto questo. Lo notava nei suoi sguardi, nelle sue parole, nei suoi gesti e nel suo muoversi.
Quel sogno era terribilmente reale.
Era un viaggio mentale veramente sopraffino.
“Ho dovuto farlo. Tu non mi volevi ascoltare ed io avevo bisogno del tuo aiuto.”, disse Mitternacht, con voce profondamente solenne.
Non voleva darle spago. Avrebbe sentito solo assurdità fin troppo insopportabili anche per un sogno. 
Ma era mosso da una curiosità irrefrenabile.
Era sempre diviso tra due Georg: uno estremamente realista, consapevole del momento di sonno che stava vivendo. L'altro, invece, si attaccava alle parole di Mitternacht e pendeva dalle sue labbra. Voleva saperne di più a tutti i costi. 
Una sintesi portò Georg a continuare quella conversazione onirica, cercando però di rimanere il più distaccato possibile.
“Va bene… e perchè proprio del mio aiuto?”, disse, arrendendosi.
“Perchè tu eri l’unico che avrebbe potuto farlo. Avevi bisogno di me così come io di te.", gli disse, sorridendogli, "Ti ho osservato per tanto tempo, Georg. Ti ho visto perdere la speranza. Ti ho visto commettere errori, sono sempre stata con te.”
“Con me? Ma se io non ti ho mai visto!”, protestò lui, che adesso voleva davvero liberarsi di questo incubo.
Basta, era troppo.
“Ero con te quando hai preso il libro. Ero con te quando hai iniziato a leggerlo. Ero con te quando ti arrabbiavi. Sono stata con te sempre.”, disse Mitternacht, “Tu sai perchè sono dovuta venire in questo mondo. Tu lo sai.”
Georg si toccò la testa, come se quel gesto potesse aiutarlo a capire.
E perchè doveva saperlo?
“Dovrei saperlo davvero?”, fece.
“Sì… lo hai letto tu stesso nel libro…”, disse Mitternacht, abbozzando un sorriso, “Ogni minuto che passava, per colpa del fiume di menzogne che usciva da Fantàsia e si riversava sul mondo degli uomini, i nostri mondi si allontanavano sempre di più… e con questo anche la possibilità che tu mi aiutassi. Ho contravvenuto a delle regole immemorabili per venire qua, non volevo che i nostri due universi venissero distrutti per sempre. E mi sono sottoposta a rischi inimmaginabili. Ma alla fine ne è valsa la pena.”
Era inutile dire quanto tutto quello era suonato incredibile alle orecchie di Georg.
“Perché… perchè avresti scelto proprio me… non leggo, non mi piacciono le cose fantastiche!”, disse il ragazzo.
“Ho scelto te perchè sei speciale, Georg. Perchè tu hai la fiducia.”, gli rispose Mitternacht, “Forse pensi di averla persa, ma è ancora dentro di te.”
“Fiducia in cosa?”, fece lui, “Mitternacht, spiegati meglio!”
“Hai fiducia in ciò che sei. In ciò che vuoi essere e in quello che sarai. Ma stavi vivendo in un mondo mangiato dal Nulla. Qua, dove vivo io, le mie terre stavano scomparendo. Da voi, nel mondo umano, stavano mancando i sentimenti, le emozioni, rimpiazzate da bugie e da menzogne. Eppure tu, così come tantissime altre persone, in fondo al tuo cuore non demordevi, hai sempre sperato in qualcosa di meglio per te... E per il tuo gruppo...", disse Mitternacht, intensificando voce e sguardo, "Ed io avevo bisogno di qualcuno come te.”
No... non lui...
“Perchè non gli altri? Magari un bambino come Bastian!”, fece Georg, “Con qualcuno così sarebbe stato più facile!”
“Ma sei stato tu a volere entrare nella libreria…”, disse Mitternacht, sorridendo con semplicità.
Georg guardò intorno a sé, cercando un appiglio a cui aggrapparsi. Una folla di domande, di punti interrogativi, aveva saturato la sua mente. Non sapeva più quale di queste porre in un senso minimamente logico. Tirò fuori la prima esclamazione che gli salì in bocca.
“Tu... Tu sei una persona reale! Mi  hai toccato, ho sentito il calore della tua mano! Sei vera! E tuo nonno! Anche lui è vero,  è vivo!”
“Mio nonno? Il signor Metternich?”, fece Mitternacht.
“Sì, proprio lui!”, confermò Georg, con sicurezza.
“Io non ho genitori.", disse Mitternacht, "E questo tu, in fondo, lo sai... Tu sai che io esistevo anche prima di Fantàsia stessa. Lo hai letto nel libro... E se non ho genitori, non ho nemmeno dei nonni.”
Georg rimase allibito.
“Non è vero, l’ho visto con i miei occhi! Tu e lui siete di carne ed ossa, non siete immaginari!”, dichiarò Georg, parlando così velocemente da confondersi per un pazzo, "Nella realtà tu sei Mondenkind e sei in un lettino d’ospedale, in attesa che ti curino… e ti ho dato un nuovo nome solo per scherzo, perché avevo la canzone di LaFee in testa!"
La faccia di Mitternacht si fece lievemente dubbiosa. Ma era come se fosse aspettata da sempre quella reazione di totale incredulità.
Non si scompose e tornò a parlare.
“Quando entrasti nella libreria… e vedesti la poltrona voltata…", disse lei, "Pensasti subito ad un vecchietto, grassoccio, con la pipa ed anche un po’ antipatico. Non è vero? Poi la poltrona si voltò... Ed ecco il signor Metternich. Tu volevi che il signor Metternich avesse quell’aspetto", e si preparò con un sospiro, "E tu hai creato la libreria… un pezzo alla volta…”
Georg non capiva, non comprendeva niente di tutto quello che Mitternacht diceva. Gli ci vollero diversi secondi prima di potersi raccapezzare di nuovo. Era totalmente frastornato.
“Un momento…", realizzò poi, "Come fai a sapere che io ho veramente immaginato un libraio del genere prima di vedermelo apparire davanti… tu non puoi leggermi nella mente!"
Mondenkind gli sorrise.
“Il mondo di Fantàsia si costruisce di sogni, desideri e di volontà. Tu volevi un libraio fatto in quel mondo e lo hai avuto. Io te l’ho dato. Sogna un sogno, e quello che vedrai diventerà realtà. Per venire qua ho dovuto creare un varco, un pezzo di Fantàsia in cui poter stare. E, come ti ho appena detto, Fantàsia vive delle voste fantasie. La libreria era un piccolo frammento del mio mondo dentro al vostro e tu, grazie alla tua immaginazione, lo hai formato, gli hai dato vita. Non posso entrare nella vostra vita umana se non siete voi a volerlo. Questa è la legge fondamentale che regola i nostri rapporti.”
“Ma tutto questo non ha senso!”, sbottò Georg, portandosi le mani tra i capelli.
“La libreria… il libraio… sono fatti come vuoi tu , Georg. Li hai inventati tu. Noi siamo del mondo di Fantàsia e prendiamo la forma che voi umani volete farci avere.”, gli ripetè nuovamente Mitternacht.
“Ma la libreria è vera! Esiste veramente!”, protestò Georg, con forza.
Mitternacht scosse la testa.
“Se vuoi che esista, essa esisterà. Tu volevi un riparo per fuggire da quelle ragazze che ti stavano inseguendo. E io volevo che qualcuno come te venisse ad aiutarmi, ma non potevo farlo da sola, avevo bisogno che tu lo volessi. Io ho fatto la libreria, tu ci sei voluto entrare dentro per salvarti…. E così hai salvato anche me. La mia volontà non si concretizza finchè essa non coincide con la vostra.”
Mio dio, quel sogno stava sfidando le leggi dei Freud.
Sentì il cuore impazzirgli nel petto. Lo sentiva rimbombare nelle orecchie, nel cervello. Le vene gli pulsavano nelle mani, diventate improvvisamente calde.
“Mitternacht…”, disse Georg, “Devo essere sincero… io voglio svegliarmi.”
“Lo vuoi veramente?”, fece lei.
La risposta tardò ad arrivare. 
Georg non sapeva cosa fare, né cosa dire. Aveva ancora tantissime domande che sbattevano nella sua mente.
Cercò di appellarsi al poco di razionalità che sapeva di avere ancora in sè.
“Se voi di Fantàsia siete fatti come noi vogliamo…”, disse poi, “Allora anche tu sei come io voglio che tu sia… Io ti vedo come ti voglio vedere. Il tuo aspetto, quello vero, è del tutto diverso… ”
Mitternacht scosse la testa.
“Questa sono io.”, disse.
“Ma nel libro i capelli dell’Infanta Imperatrice sono talmente biondi da sembrare bianchi… e poi è una bambina… e tu sei una ragazza.”, le fece notare Georg.
“In passato mi hanno descritto come un drago. Come un mostro. Una sirena, un falco, una stella. Persino come una dea. Ma io ho sempre avuto questo aspetto. Io esisto così.”, disse Mitternacht.
“In passato?”, chiese Georg, sempre più in difficoltà.
 “Il libro è soltanto uno dei mille modi per entrare in contatto con voi.”, gli spiegò Mitternacht, “Prima di quello ce ne sono stati altri, centinaia di altre storie come quella. E tutte avevano la stessa funzione. Catturarvi per aiutarci. Le parole sono il mezzo che abbiamo per stregarvi, se così si può dire. Scritte o parlate, sono magiche. Una parola, presa da sola, non ha tutto questo potere. Ma un insieme continuo ed ordinato di lettere, parole, frasi, capoversi e capitoli può fare questo. E molto altro.”
Georg ascoltava tutto quello che usciva delicatamente dalla bocca di Mitternacht.
E comprese.
Lei, con quelle parole, lo stava stregando.
Gli stava facendo credere che ora, come in passato, Fantàsia era stata salvata più volte da persone come lui, che le avevano dato un nome nuovo.
Gli stava facendo credere che la libreria non era mai esistita prima del momento in cui lui, inconsciamente, aveva voluto che comparisse davanti ai suoi occhi, per entrarci dentro e sfuggire dalle fans che lo inseguivano, e che era stato lui a particolareggiarla, con la sua fantasia.
Gli stava facendo credere che il signor Metternich, suo nonno, era come lo vedeva perché lui, prima di veder voltare la poltrona, se lo era immaginato in quel modo. Vecchio, piccolo e burbero.
Gli stava facendo credere che lei, Mitternacht, prima conosciuta come Mondenkind, era l’Imperatrice Bambina ed era venuta nel suo mondo reale per riuscire ad avvicinarlo e fargli dire il nuovo nome che l’avrebbe salvata, perché altrimenti lui non ci sarebbe riuscito.
Gli stava facendo credere che lui, Georg Moritz Hagen Listing, era stato da lei stessa scelto perché aveva la fiducia, come lei l’aveva chiamata, perché aveva la speranza…
Doveva svegliarsi…
“Ma che bella storia!”, esclamò Georg, “Veramente! Non ho mai fatto un sogno così reale e ben dettagliato. Se mi svegliassi e mi ricordassi di tutto questo, potrei dedicarmi alla scrittura invece che alla musica!”
Mitternacht tornò ad offendersi per le sue parole e si incupì.
“Scusami… no volevo farti arrabbiare…”, disse Georg, vedendola corrucciarsi.
Ma ci si poteva sentire in colpa per aver offeso qualcuno in un sogno?
“Adesso vuoi ancora andartene?”, gli chiese Mitternacht.
Ancora Georg esitò nel darle una risposta.
Mitternacht, vedendolo indeciso, gli si avvicinò ancora di più.
Gli prese le mani.
Georg sentì ancora il calore pervaderlo, dalle mani fino al cuore.
Era un caldo profondo, indescrivibile, vero, come quello che aveva percepito quando lei l’aveva toccato, qualche giorno prima, nella libreria.
Era un caldo che riempiva tutti i vuoti.
Era un caldo cosciente di esserlo.
Un caldo che… stregava.
“Hai dato un nuovo barlume di speranza ai nostri due mondi.”, disse Mitternacht, “Te ne sarò infinitamente grata.”
Gli sorrise ancora, come aveva fatto tantissime altre volte, in quell’immaginazione. Poi alzò gli occhi, verso la cupola di quello strano posto e la indicò, con la punta del suo dito.
Georg seguì titubante la direzione del suo sguardo e vide come un piccolo buco aprirsi sulla sommità del soffitto. Le pareti, silenziose come non mai, si mossero. L’apertura prese ad allargarsi e le mura intorno a loro si abbassarono, come i petali di un fiore che stava sbocciando, in primavera.
Il bianco candore che aveva illuminato la sua vista lasciò lo spazio alla notte. Non vide altro che stelle sopra la sua testa, grandi, incredibilmente luminose, ed un plenilunio lucente. Poi abbassò lo sguardo e intorno a loro apparvero, nella penombra lunare, montagne innevate, deserti roventi, pianure desolate e colline ondeggianti.
“Wow…”, fu l’unica parola che uscì dalla sua bocca.
“E’ tempo per te di svegliarti, adesso.”, disse Mitternacht.
“Ma dove siamo…”, fece Georg, estasiato dalla vista di tutti quei punti luccicanti nel cielo, tanti finissimi diamanti gialli.
“Secondo te?”, chiese retoricamente Mitternacht.
La Torre D’Avorio per caso?”, cercò di indovinare, ma non ricevette alcuna risposta, né di assenso, né di diniego.
“Ricordati Georg.”, disse poi Mitternacht, “Fa ciò che vuoi.”
“Ok…”, disse lui, sorridendo vagamente.
I contorni di Mitternacht diventarono sempre più labili e inconsistenti, finchè sparì completamente dalla sua vista. Così accadde anche al posto in cui si trovava e anche a…

 
“Signore… signore si svegli!”, disse qualcuno, che nel frattempo lo stava scuotendo per le spalle.
Georg alzò il viso e, con qualche difficoltà, aprì gli occhi impastati.
“Signore, l’orario delle visite è terminato, deve lasciare la stanza.”, lo informò di nuovo l’infermiera.
“Ah…”, disse lui, quando ebbe recuperato le sue facoltà mentali.
Realizzò di essere nella camera di Mitternacht… di Mondenkind.
Era ancora distesa sul letto, davanti ai suoi occhi. Sempre nella medesima posizione. Controllò il suo respiro, si accertò che stesse bene. Le toccò la fronte, come se volesse sapere se aveva la febbre. Almeno quello sarebbe stato il segno che dentro di lei quella strana e sconosciuta malattia si stava agitando, invece di rimanersene nascosta.
E si ricordò del sogno appena fatto…
Un insieme di circostanze fortuite avevano portato a farlo vivere quel viaggio onirico senza precendenti. Mondenkind che stava male, il libro sul comodino… tutte quelle analogie e così via.
Nel mentre che concretizzava il suo stato, l’infermiera lo esortò ancora a lasciare la stanza e Georg, con educazione, salutò Mondenkind con un gesto di mano ed un sorriso. Con il libro tra le mani, si riavviò verso casa.
 

***

Concluse la lettura in pochissime ore.
Appena tornato a casa, prese il libro e lo bevve, letteralmente. Una lettera dietro l’altra, una parola dietro l’altra, una pagina dopo l’altra. Arrivò alla conclusione.
Ma il libro non sembrò dissetarlo, affatto.
Bastian, con al collo Auryn, ridette vita a Fantàsia attraverso i suoi desideri ma, paradossalmente, si perse dentro di essa, insieme ai frammenti della sua memoria. Quello che lui creava, attraverso la propria volontà, diventava vero, nel presente e nel passato di Fantàsia… In altre parole, quando lui desiderava una cosa, essa esisteva e sarebbe sempre esistita, anche nel passato stesso della cosa.
Concetto difficile da capire per Georg, ma non potè fare a meno di collegare questo difficile concetto con quello che gli aveva detto Mondenkind nel sogno… Lui aveva voluto un posto in cui nascondersi per liberarsi dalle fans che lo inseguivano? Ed esso era esistito.
Era spuntata fuori la libreria.
‘Sogna un sogno e questo diventerà realtà…’, aveva detto Mondekind.
Un’altra cosa lo aveva colpito abbastanza…
Negli ultimi paragrafi del libro, quando Bastian ritornava dal signor Koreander, scopriva che anche il vecchio libraio aveva conosciuto, a suo tempo, l’Imperatrice Bambina e le aveva dato nuovo nome. E Koreander gli spiegò anche, come aveva fatto Mondenkind, che c’erano tantissimi altri libri che avevano il potere di portare il lettore nel mondo di Fantàsia… Dipendeva solo da chi li leggeva, perchè non in tutte le mani essi diventavano magici.
L’ultima importante riflessione. Forse la più fondamentale.
In un prologo immaginario, Georg si ricordò alcune cose che aveva studiato alle scuole superiori per la materia psicologia. I sogni spesso andavano a scavare nei meandri dei ricordi e quindi tutto quello che ci si immaginava, durante la notte, era qualcosa che era rimasto impresso nella mente, ma accantonato. Quindi, per essere coerenti, quello strano sogno/incubo doveva aver fatto riferimento a dei ricordi dimenticati, a dei concetti che doveva aver trovato nel libro ma di cui non rammentava.
Eppure, Georg si era fermato a metà lettura. E tutto quello che era uscito dalla bocca di Mondenkind era impresso nelle pagine da lui ancora inesplorate prima di quel sogno... e che solo ora aveva letto.
Non aveva potuto quindi sapere quelle cose.
Il sogno era il suo, lo aveva partorito la sua mente. Se non aveva letto quei capitoli, e sapendo anche che non aveva tutta la fantasia per inventarsi cose del genere, come poteva Mondenkind, o Mitternacht, avergliele raccontate per filo e per segno?
Era tutto così complicato ed indecifrabile, tanto da farlo pentire di non essere diventato psicologo come avrebbe voluto da piccolo…
Ma era stato solo un sogno.
E tale doveva rimanere, per quanto razionalmente assurdo.
Il cellulare squillò, riportandolo alla realtà. Era David.
Senti Georg…”, gli fece, dopo che ebbe risposto, “Ho bisogno che domani veniate in studio… tanto per metterlo in chiaro.”
Già.
Metterlo in chiaro.
Scrivere nero su bianco che erano finiti.
Arrivederci e grazie.
“Va bene.”, disse, sospirando le parole, “A che ora?”
Le undici?”, suggerì l’altro.
“Perfetto.”
E riattaccò.

***

“Hey, Georg…”, lo prese alla sprovvista David, “Sei malato di Parkinson?”
Era arrivato con circa una mezzora di anticipo all’appuntamento stabilito e stava aspettando che tutti gli altri arrivassero.
Seduto in sala relax, rimuginava su tantissime cose… e su nessuna di queste.
Basta pensare, basta riflettere, si era detto un attimo prima che David lo interrompesse, esaudendo il suo desiderio.
“No…”, disse lui, interrompendo il tic alla gamba, “Sono solo un po’… nervoso.”
“Sì… lo siamo tutti.”, disse David, sedendosi di fronte a lui con aria stanca, a braccia conserte.
 “Mi dispiace per quell’intervista…”, disse Georg, sentendosi totalmente mortificato.
Se c’era stata una possibilità di salvezza per il gruppo, era stata totalmente infranta dalla sua ingenuità.
“Scusa la finezza ma… Helen te lo ha messo mezzo metro nel culo!”, sbottò David, in uno sprazzo di triste ironia.
“Sì… hai proprio ragione, David… ma almeno tu mi credi, gli altri tre non ne vogliono saperne.”, fece Georg, affondando nella comodità del sofà.
David annuì mestamente.
“Non ci rimane altro che aspettarli.”, disse poi.
L’attesa durò solo una decina di minuti. Gustav e di Kaulitz arrivarono quasi contemporaneamente.
Le bocche totalmente inespressive dei gemelli, con gli occhi tappati dai loro occhiali da sole, sommate alla completa piattezza della faccia di Gustav, fecero temere a Georg il peggio. Cioè una nuova litigata.
Erano lì per guardarsi negli occhi e dire: È finita?
Perché girarci intorno facendo le facce incazzate?
Lunghi momenti muti seguirono l’entrata dei tre e continuarono per tutto il tempo in cui si sedettero di fronte oppure accanto a lui.
Georg si rischiarì la voce con l’intenzione di parlare, di scusarsi ancora, ma poi ritrasse le sue intenzioni. Meglio lasciar parlare loro, anche se non sembravano intenzionati a farlo.
“Ragazzi, ho convocato una conferenza stampa per l’una, nella sala conferenze dell’Hilton.”, disse David, esortando l’inizio di una conversazione.
“Mh, bene.”, disse Bill, stuzzicando l’occhio destro sotto il suo occhiale.
“Comunque… insomma, prima di arrivare là… formalizziamo la cosa tra di noi.”, disse David.
Georg non volle ammetterlo, ma David aveva la voce lievissimamente rotta. Solo una lieve increspatura, quando aveva detto ‘la cosa tra di noi’.
“Sì, mi sembra giusto.”, disse Gustav, con aria apparentemente rilassata.
“E’ finita?”, chiese retoricamente Tom.
Cinque paia di occhi che si muovevano, in cerca del fatidico segno di approvazione sulle facce altrui.
Ma né un sì orale né uno scritto sulle espressioni del viso risuonò tra quelle quattro mura.
Bill si alzò e, incrociando le braccia, uscì dalla sala relax.
Georg si toccò stancamente le tempie. Aveva un mal di testa pazzesco.
Tom sospirò e dopo un frettoloso ‘scusateci’, raggiunse il fratello.
“Ehm… allora ci vediamo all’Hilton all’una?”, domandò Georg.
Dopo aver ricevuto un cenno di testa positivo da David, lasciò lo studio.  

 

Scansò l’accettazione, sapeva dove si trovava Mondenkind, non se lo era certo dimenticato in una notte. Incrociò il dottore che aveva conosciuto il giorno precedente e lo salutò con un salve e con un sorriso, ricambiato gentilmente dall’uomo. Era l’ora delle visite, i corridoi erano solcati non solo dai passi dei dipendenti della struttura sanitaria, ma anche da quelli dei parenti, con i loro fiori, i loro pupazzetti ed i cioccolatini a portata di mano.
Eccola, la stanza di Mondenkind era quella di fronte a lui.
Bussò, attese che qualcuno rispondesse, poi ne aprì uno spiraglio. Intravide il letto.
Vuoto.
Vuoto
Aveva sbagliato camera.
Si guardò intorno. Era sicuro che la camera fosse la dodici ed infatti sulla porta troneggiava quel numero.
Magari Mondenkind era stata trasferita... forse le sue condizioni si erano aggravate…
Fermò il primo infermiere che si trovò sotto tiro.
“Mi scusi?”, gli domandò, “La ragazza che stava in questa stanza… dove si trova adesso?”
L’infermiere riflettè un attimo.
“Chiedo al dottore.”, disse e si congedò con un sorriso.
L’ansia stava salendo dentro Georg.
E se fosse peggiorata?
E se la stessero operando?
E se fosse… fosse…
“E’ proprio sicuro che cercasse il paziente della dodici?”, gli fece uno dei dottori del reparto, avvicinatosi a lui dopo la segnalazione dell’infermiere.
“Beh… sì, a meno che non abbia sbagliato stanza. La paziente comunque si chiama Mondenkind…”
“Cognome?”
Cercò di ricordarselo, ma non ci riuscì.
Io non ho genitori… rimbombò quel frammento di sogno nelle sue orecchie, scacciato immediatamente.
“Non me lo ricordo.”, disse Georg rammaricato.
“Beh… che io sappia nessuna Mondekind senza cognome è stata in questo reparto. Nemmeno per una notte sola.”, disse il dottore, facendo spallucce.
“Ma come?!”, esclamò Georg, “E’ stata ricoverata qui proprio ieri, era in coma, non si sapeva che cosa aveva di preciso…”
“Guardi che questo è il reparto geriatrico.”, disse il dottore, “Non la rianimazione. Provi a vedere se la trova lì, è al decimo piano.”
“No, dottore, sono sicuro che si trovasse in questo piano, alla stanza dodici.”, ripetè Georg, con fermezza.
“Senta, non so cosa dirle. Vada giù in accettazione e chieda a loro. Sicuramente le banconiste lo sanno meglio di me.”, disse l’uomo, lasciandolo ai suoi dubbi per tornare a camminare lungo il reparto.
Come un razzo, Georg  si precipitò al bancone.
“Proviamo a cercare questa Mondenkind…”, disse la ragazza svogliata all’accettazione, mettendosi la penna in bocca. Digitò il nome, attese qualche attimo il caricamento della pagina, “Niente. Nessuna Mondenkind è mai stata curata in questo ospedale.”
“Riprovi! Non può essere!”, tentò ancora Georg.
La ragazza lo fissò asetticamente, poi premette di nuovo un pulsante nella sua tastiera.
“Com’è che Georg Listing desidera tanto vedere questa Mondenkind?”, chiese poi lei, appoggiando i gomiti sul legno della sua scrivania, con fare ammiccante.
“E’ una mia amica…”, la seccò lui.
La ragazza lanciò una nuova occhiata allo schermo.
“Niente.”, disse poi, “Ancora nessuna tipa dal nome strano in questa clinica.”
Lasciò la banconista prima ancora che potesse finire il suo discorso.
Pazzia.
Quella era tutta una pazzia.
O Mondenkind gli aveva dato un nome falso… E perchè mai avrebbe dovuto farlo?
Era stata trasferita in un altro ospedale? Ma allora perchè non risultava nei registri dell’accettazione?
Perchè una ragazza in coma era sparita nel nulla, volatilizzata?
Si era lamentato dell’incomprensibilità del sogno che aveva fatto, ma quello che stava vivendo era addirittura surreale. Fino al giorno precedente Mondenkind era stesa su quel lettino, ora non c’era più e nessuno pareva si fosse accorto del suo passaggio. Poteva una persona passare inosservata in quel modo?
In quel momento l’unica spiegazione plausibile era che Mondenkind non era il vero nome di quella ragazza. Ma perchè? Perchè aveva dovuto mentirgli? Per quale motivo?
Salì frettolosamente in macchina, doveva andare alla libreria.
Infranse diversi limiti di velocità, un paio di volte passò con il semaforo che da giallo era appena diventato rosso.
Parcheggiò in divieto di sosta. Correndo come un matto, ripercorse i vicoli conosciuti finchè si ritrovò in quello giusto, in quello della libreria.
Prese un profondo respiro e fece un passo dopo l’altro.
Si avvicinava sempre di più alla metà del vicolo.
Ma ad ogni movimento, la constatazione di quello che pulsava nella sua testa lo rendeva incredulo. Era impossibile.
Toccò il muro nel preciso punto in cui, fino al giorno prima, c’era stata la porta della libreria.
Adesso, invece, c’erano solo mattoni, impilati sfalzatamente uno sopra l’altro, e circondati di collante calcestruzzo.
Un muro.
Nient’altro.
Non c’era nulla.
Doveva aver sbagliato vicolo. Era ovvio.
Tornò indietro, verso la macchina, sicuramente nella corsa aveva confuso le strade fitte. Con tremolante calma, ripercorse il labirinto.
Di nuovo, il muro.
Solo rossi mattoni e alcune finestre ai piani superiori.
Pazzo. 

Era totalmente pazzo.


Faccio il salto nel buio sperando che nelle vostre menti ci siano pochissimi dubbi sul viaggio all'LSD di Georg...

Beh, ad ogni modo vi ripeto la solita cosa: se non capite, chiedete, sarò felice di rispondere!

Questo è il penultimo capitolo, il prossimo porterà quiandi la dicitura FINE. Lascio i ringraziamenti alla prossima volta, sperando che nessuno dei vostri cervelli si stia accartocciando nell'incomprensione!

Alla prossima,
RubyChubb

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 - The answer is written on the pages of a Never-Ending Story ***


CAPITOLO 10
The answer is written on the pages of a Never-Ending Story

 

 

Fissava la parete.
Cercava un segno, un qualcosa, un nulla che gli dicesse: ‘Andiamo Moritz! Non sei pazzo!’.
Ma non trovava niente.
In mezzo al vicolo, non lasciò mai che i suoi occhi divagassero oltre quei mattoni, finchè il rumore di un paio di tacchi lo distrassero, ricollegandolo alla realtà.
Una signora, infiocchettata nel suo cappotto rosso, portava a spasso un delizioso ma irritante barboncino bianco.
“Ehm… mi scusi…”, la richiamò Georg.
La donna si fermò quasi spaventata, guardandolo come se fosse stato un maniaco in cerca di una facile preda.
Georg preferì non avvicinarsi a lei, che gli era lontano almeno una decina di metri e sembrava avere intenzione di correre via.
“Sa dirmi se qui c’è mai stata un libreria?”, le chiese, “Oppure in qualche vicolo vicino a questo.”
Sì, non poteva essere altrimenti, doveva aver sbagliato di nuovo strada.
La donna parve calmarsi di poco. Il barboncino, nel frattempo, si era nascosto tra le sue gambe.
“Beh…”, disse, titubante, “Che io sappia non ci sono librerie da queste parti…”
“Nemmeno una vecchia? Tutta polverosa, con un libraio anziano e scorbutico…”, ritentò Georg.
Ci doveva essere.
Ci doveva essere a tutti i costi.
“No… ne sono sicura.”, ripetè la donna, prima di tornare sui suoi passi ed abbandonarlo di nuovo.
Non si risvegliò dalla trance in cui era caduto finchè il rumore di tacchi si disperse in lontananza.
Si mise le mani nei capelli.
No, non poteva essere successo.
No.
Era tutto un errore.
Come un vero pazzo, camminò per i vicoli del centro storico. Spese un’ora del suo tempo in quella dannata ricerca.
Del tutto inutile, doveva ammetterlo.
Così come Mondenkind, anche la libreria si era volatilizzata.
E lui stava diventando totalmente scemo. 

 
Doveva andare a casa, doveva chiamare un dottore, uno psicanalista, uno strizzacervelli che gli dicesse: ‘Caro il mio bel Georg, soffri di schizofrenia, ti rinchiudiamo così non ammazzi nessuno.
Nel mentre stava per entrare nel parcheggio sotterraneo del suo blocco di appartamenti, il suo telefono squillò.
“Dove cazzo sei imbecille!”, tuonò Gustav, “La conferenza sta per cominciare!”
La conferenza…
La conferenza!
“Oh merda!”, esclamò Georg, “Arrivo subito!”
Cazzo, doveva correre all’Hilton.
Guardò l’ora sullo schermo del telefono: era mezzogiorno e cinquantacinque. Non ci sarebbe arrivato prima di venti minuti buoni. Di nuovo, guidò come un pazzo verso l’hotel, ci mancò poco che si schiantasse da qualche parte, ma ce la fece.
“Ma dove cazzo sei stato! Che cazzo hai fatto!”, gli gridò contro Bill, appena lo vide spuntare nella stanza sul retro della sala conferenze, dove lo stavano aspettando.
“Niente… sono stato a trovare una mia amica all’ospedale!”, si difese all’istante Georg, ancora del tutto scosso dall’incubo che aveva appena finito di vivere.
“Ma vai a raccontarla a tua madre!”, gli rispose Tom.
“Prima ci vendi alla stampa… e ora che fai?”, rincarò Gustav, “Hai paura?”
David, intuendo dalla faccia irata di Georg una possibile controversia corporea tra i due, si mise nel mezzo.
“Andiamo, calmatevi!”, li interruppe, “E’ ora della conferenza stampa.”
Tra di loro cadde un’ipocrita calma. Uno per volta salirono sul palco della sala conferenze e si sedettero dietro ai microfoni, con facce serie. Una salva di flash accolse il loro arrivo e, dopo che David ebbe come sempre stabilito le regole, la conferenza iniziò.
Immerso nei suoi pensieri, Georg non stette nemmeno ad ascoltare le domande che vennero loro rivolte. Era ovviamente Bill a parlare in nome di tutti.
Non sentì una sola parola.
Fu come se due invisibili tappi si fossero posizionati dentro le sue orecchie, isolandolo acusticamente dal resto del mondo.
Doveva realizzare quell’incubo chiamato ‘La Storia Infinita’…
Un semplice ed innocuo libro come tutti gli altri. All’apparenza.
Che cosa aveva vissuto lui da quasi un mese a quella parte?
Una schizofrenia allucinante. Un abominio psichico chiamato Mondenkind.
Non c’era una razionalità in quella ragazza. Non c’era.
Ma soprattutto non c’era più letteralmente.
E tutto quello era inimmaginabile, ma lo stava vivendo.
Non voleva pensare che quello che Mondenkind… o meglio, Mitternacht, gli aveva detto in sogno fosse vero. Perchè non era scientificamente possibile.
Fantàsia non esisteva se non nel libro di Ende.
Lui non aveva salvato niente e nessuno dal Nulla, pronunciando semplicemente un nome.
La libreria del signor Metternich non era mai esistita. Non c’era mai entrato dentro, non aveva mai rubato alcun libro, non aveva mai incontrato nessuna Mondenkind. Non aveva mai fatto amicizia con lei, non era mai stato a trovarla in ospedale.
E soprattutto, non aveva mai fatto quel sogno in cui scopriva la sua vera identità… in cui lei gli spiegava che, per farsi salvare da lui, il mondo di Fantàsia si era aperto un piccolo squarcio nella vita reale. Non era mai accaduto che, contemporaneamente, le loro volontà comuni –una di salvarsi dalle fans impazzite, l’altra di essere salvata da lui- li avessero fatti incontrare nella libreria del signor Metternich. Non era successo, quindi, che questa fosse apparsa dal niente. Non era possibile far comparire una libreria in un muro di mattoni liscio, da un momento all’altro. Non era infine accaduto, come gli aveva detto Mondenkind nel sogno, che fosse stato lui stesso a ‘crearla dal niente’, perchè aveva avuto bisogno di un posto in cui rifugiarsi per scappare dalle sue fans. 
No, tutto quello non c’era stato.
Tutto quello era frutto dello stato confusionale in cui si trovava. Si era immaginato tutto per colpa dello stress. Bastava solo farsi ricoverare per qualche mese, sotto sedativi e antidepressivi, poi sarebbe tornato come nuovo. Un bravo psicanalista avrebbe sicuramente detto che si era rifugiato in quella ‘fantasia reale’ perchè la vita vera non lo soddisfaceva. Aveva avuto quindi bisogno di un pretesto immaginario per continuare ad andare avanti. Si fosse trovato, per esempio, a leggere ‘Il giro del mondo in ottanta giorni’, avrebbe sicuramente pensato di essere su una mongolfiera in viaggio per la Terra…
Sì, era l’ora di svegliarsi veramente.
Era l’ora delle cure mediche.
Era l’ora di…
Una gomitata di  Gustav, seduto accanto a lui, lo risvegliò, facendolo tornare con la mente per terra.
Un giornalista gli aveva appena fatto una domanda, ma lui non gli aveva dato la minima attenzione.
“I suoi compagni hanno appena chiarito la loro posizione riguardo alla situazione del gruppo. Lei cosa ne pensa?”, ripetè un uomo in occhiali tondi alla John Lennon.
Se li avesse ascoltati…
Scena muta, non gli uscivano parole dalla bocca.
“Georg… rispondi!”, gli sussurrò minacciosamente Gustav.
“Beh… io…”, balbettò.
Poi chiuse gli occhi.

 *

La testa era una sfera di piombo, l’udito era l’unico senso che funzionava in quel momento. Poco, ma funzionava.
“Si sta riprendendo…”
“Mamma mia…”
“Portiamolo in ospedale, è meglio.”
“A casa…”, borbottò Georg, con un filo di voce, “Per favore…”
“Sì, ti ci portiamo subito.”
“Magari poi chiamiamo un dottore che venga a visitarlo.”
“Ma è meglio portarlo in ospedale!”
“Lo dividiamo in due? Così ti facciamo contento e scarrozzi la tua metà dove ti pare!”

 

*

 

Si svegliò nel suo letto. Non potette accertarsene subito, ma riconobbe la consistenza del suo cuscino. Non appena il corpo rispose ai segnali nervosi, riuscì ad aprire gli occhi ed a mettersi seduto.
“Come stai?”, gli venne chiesto da qualcuno, seduto da qualche parte nella penombra della stanza.
“Bene, Tom… sto bene.”, rispose, con un filo di voce.
“Sei... svenuto durante la conferenza stampa.”, gli disse.
“Sì… lo so.”, continuò Georg, portandosi una mano alla testa per fermare l’ennesimo giramento.
“Gli altri sono di là, nel tuo salotto…”, disse Tom, alzandosi ed avvicinandosi alla porta, “Non era saggio lasciarti solo. Ma adesso che stai meglio ce ne andiamo.”
“Mh… ok.”, fece Georg.
Tom esitò un attimo, poi annuì con la testa, mise le mani in tasca ed uscì, chiudendo la porta dietro di sé.
La testa di Georg, oltre ad essere dolorante, era totalmente vuota. Non un pensiero disturbava la calma che vi regnava dentro.
Se ne andò in bagno, aveva bisogno di una doccia per riprendersi.
Era svenuto come un demente e non aveva ascoltato un verbo di tutta la conferenza stampa. Chissà che cosa era stato detto, ma non ci voleva un genio per saperlo...
Guardò le profonde occhiaie che disturbavano il suo viso riflesse sullo specchio. Pareva che si fosse divertito a farle con l’eye liner di Bill. Si legò i capelli ed aprì il rubinetto del lavandino. Prese una manciata d’acqua e vi affondò la faccia, sentendo il freddo benefico del liquido bagnargli la pelle. Tastò alla sua destra in cerca di un asciugamano e si tamponò.
Di nuovo, il viso stanco apparve sul vetro.
No, niente doccia. Ci voleva un bel bagno caldo. Si avvicinò alla vasca e, dopo aver chiuso lo scarico, lasciò che si riempisse di acqua bollente. Non era da lui, ma sentiva il bisogno di farlo. Nel mentre il rumore del flusso dell’acqua riempiva il bagno, sentì come un paio di occhi puntarsi sulla nuca.
Si voltò, ma non c’era nessuno. Gli altri se ne erano già andati, era totalmente solo in casa.
Tornò verso il lavandino.
Se non si ricordava male, Gustav una volta gli aveva regalato una scatola di sali da bagno. Anzi, era stato un regalo che gli aveva riciclato perchè non se ne faceva di niente. Dovevano essere da qualche parte, nel mobiletto del lavandino, e si accucciò per cercarli.
Toc toc toc
Drizzò le orecchie al lieve rumore che aveva sentito.
“Chi è?”, chiese, presupponendo che qualcuno avesse bussato alla sua porta. Ma non gli arrivò nessuna risposta.
Alzò le spalle e tornò nella ricerca.
Toc toc toc toc
Si alzò ed aprì la porta del bagno. Nessuno. Richiuse.
Toc toc toc toc toc
Quel piccolo bussare veniva da dentro il suo bagno...
Guardò alla finestra, magari un uccellino stava col becco a picchiettare sul vetro. Infatti, appena l'aprì uno sfarfallio di ali si allontanò dalla soglia. Serrò la finestra e tornò a cercare i suoi sali da bagno, ma non li trovò. Si rassegnò, avrebbe fatto senza, non erano poi così necessari.
Fece per spostarsi verso la vasca, ma un paio di occhi chiarissimi, riflessi sul suo specchio, lo distrassero. 
Non aveva parole. Gli si sbarrarono gli occhi, sentì il cuore fermarsi di colpo. Tum tum tum... e poi più niente. Il sangue fluì velocemente via dal suo corpo, sparendo invisibile. Gli mancò il respiro, o forse ne fece a meno per i lunghi secondi seguenti in cui rimase a fissare quell'immagine.
Un bianco surreale contornava il viso candido di Mondenkind.
Mitternacht
Quel nome rimbombò nella sua testa, echeggiando.
Era come l’aveva vista nel sogno. Esattamente uguale.
Non se la sarebbe più dimenticata...
No… non poteva abbandonarsi di nuovo alla follia, doveva chiamare gli altri, doveva raccontare loro quello che gli era successo, doveva far vedere loro che…
Mitternacht alzò una mano, prima nascosta dal limite dello specchio, e si portò l’indice sulle labbra, schiudendole lievemente.
'Sshh...', frusciò nelle sue orecchie.
“Ma tu… io…”, prese a balbettare Georg, sentendosi sfinito dallo squilibro mentale.
‘Non devi dirlo a nessuno. Devo rimanere un segreto.’
Sentì la sua voce, senza che lei aprisse le labbra carnose e rosee. Non parlava con la bocca, ma con gli occhi. La sua voce suonava dolce e quasi infantile dentro la testa, senza che ci fosse il bisogno per lei di rompere quel tenero sorriso che aveva.
“Io non voglio avere questi segreti! E non voglio diventare pazzo!”, protestò Georg.
Doveva mettere in atto un'opera di autoconvincimento per far sparire Mitternacht dal suo specchio. Gli stava prendendo una irrefrenabile voglia di sfondarlo con un pugno, piuttosto che continuare nella consapevolezza che il suo cervello stava collassando su se stesso.
‘Tu non sei pazzo. Mi hai salvato. Conserverai questo semplice segreto per sempre?’, gli chiese Mitternacht. 
Detta da lei, quella richiesta sembrava semplice come... come bere un bicchiere d'acqua! Semplice come guardare fuori dalla finestra, come respirare, come mangiare.
Ma come poteva essere così facile?

“Io…”, disse Georg, disperato.
Lo so che è difficile.
“Tu sei… sei così reale… com’è possibile?”, fece Georg, avvicinandosi allo specchio.
Sembrava che fosse diventato una finestra e lei stesse lì a guardarlo, così come la guardava lui. La sua veste si confondeva quasi con il bianco che la contornava, dandole un aspetto etero, di fantasma. Il fine nastro che le abbelliva la fronte sembrava quasi una corona.
‘Io sono reale… Questo lo sai anche tu.’, disse lei.
“Sei una mia immaginazione.”, disse Georg, risoluto.
Doveva chiarirlo, doveva dirglielo. Lei era solo un parto della sua mente malata.
E basta.
Ma la testa di Mitternacht non fu d’accordo con la sua affermazione e si scosse in un cenno negativo.
Se ti fa felice pensarmi come un’immaginazione, fallo pure.’, disse.
Sui suoi occhi si posò un velo di tristezza ed il sorriso scomparve, lasciando posto ad un’espressione di sconforto. Percepiva tutti i sentimenti dipinti sulla sua tenera faccia come se fosse stato lui stesso a provarli. Georg si sentì riempire di malinconia.
“No, ti prego, non volevo…”, la implorò, sentendosi colpevole per quello che aveva appena detto.
‘Non è facile per te accettare quello che hai vissuto, me ne rendo perfettamente conto… I nostri due mondi sono così profondamente diversi che spesso è impossibile capire quanto siano legati.
Vide una lacrima cadere fugace lungo una sua guancia. 
Il pianto di Mitternacht non era di disperazione: era silenzioso, quasi impercettibile se non per via di quella piccola goccia d’acqua che si era infranta sul suo vestito. E per Georg era dolorosissimo. 
Avrebbe preferito, piuttosto, prendere un pugno direttamente in faccia. Fare piangere Mitternacht era l'ultima cosa che voleva a quel mondo. Lei non doveva essere triste, soprattutto per causa sua. Voleva che ridesse, perchè gli piaceva quando sorrideva, gli scaldava il cuore.
 
Sentì l'anima infrangersi.

“Non piangere…”, le disse.
E, anche se la sua parte puramente razionale si rifiutava di credere, non riusciva a pensare che tutto quello fosse solo causato dalla sua mente. Doveva essere vero…
Voleva che lo fosse. Lo desiderava con tutto il cuore.
Improvvisamente, il viso di Mitternacht tornò ad essere luminoso e il piccolo rivolo che lo imbruttiva si prosciugò all'istante.
‘Grazie Georg per averlo pensato… Sai quanto i tuoi desideri siano importanti per noi.’, gli disse ed alzò di nuovo la mano.
La appoggiò contro il vetro trasparente che li divideva e Georg potette solo farlo altrettanto.
Si lasciò investire di nuovo dal fiume di calore di Mitternacht, che lo svuotò di tutte le incertezze. Realtà o immaginazione, non aveva più importanza.  Lei era lì, vera, candida, di un altro mondo. Ed anche lui era lì, vero, il Georg di sempre, ma con un segreto in più.
Per un attimo odiò quel vetro invisibile che li separava.
Avrebbe voluto che non ci fosse. Desiderava vederlo scomparire.
Mitternacht rise con delicatezza, portandosi con nobiltà la mano davanti alla bocca impertinente. Ed esaudì il suo nuovo desiderio.
Il vetro si dissolse e le loro mani si toccarono. L’intenso calore di quel tocco era impossibile da sopportare, ma a Georg non faceva alcun effetto, se non quello di sentirsi completamente nuovo, rinato. Incrociò le proprie dita con le sue.
Poi, come se la sua mano fosse stata del tutto indipendente dal resto del corpo, Georg la sentì tirarsi indietro, verso di sè, stringendo con ancora più forza quella di Mitternacht. Come se niente fosse ad ostacolarla, Mitternacht uscì da quello specchio, passando oltre tutto ciò che di umano c'era tra i loro corpi. Il resto intorno a loro si annullò, scomparve.
La abbracciò. Un grazie detto senza parole. Affondò le dita tra i suoi capelli neri.
Era vera.

“So che non ti vedrò più.”, le disse, “Quindi ti dico addio.”
 "Ricordati Georg. Fa’ ciò che vuoi.", disse Mitternacht, "Addio."
Chiuse gli occhi stringendole a sè più che poteva. Non voleva che Mitternacht sparisse, ma sapeva che lei non poteva esaudire questo suo ultimo desiderio. Lei sciolse quell'abbraccio e, tenendolo ancora per mano, tornò al di là dello specchio.
“Addio.”, le disse, con una fatica ed un dolore che non pensava di aver mai provato prima.
Chiuse di nuovo gli occhi.
Percepì il contatto freddo della sua mano contro lo specchio.
Era finito.
Tutto finito.
Un fortissimo senso di delusione e malinconia presero posto nel suo cuore, come quando un bellissimo sogno veniva interrotto nel suo punto più bello. 
In quell'istante, si rese conto di amarla.
Ma quello che provava per lei non era l'amore fisico, nè sentimentale che avrebbe potuto provare per qualsiasi altra donna. Era qualcosa che non sapeva che si potesse sentire per qualsiasi persona comune, era un sentimento totalmente sconosciuto, profondo e diverso. Era come l'amore per un bambino, per un fiore o per il cielo sgombro dalle nuvole. Era un amore semplice,
un sentimento che quietava l'animo. E che non avrebbe provato mai per nessun altro al mondo. Chiunque avesse avuto modo di incontrarla, o anche solo di vederla per un istante, non poteva non provare lo stesso. 
Non sapeva spiegarlo a parole. 
Non si sentì infelice nel pensare che non l'avrebbe mai pià rivista. Anzi, era proprio questo sentimento speciale che provava per lei ad annullare la malinconia che provava nel sapere che Mitternacht non sarebbe mai più comparsa dinanzi a lui. 
Forse era l'unico, in tutto il mondo, ad averla vista. Chissà chi altro, prima di lui, le aveva dato il nome con cui l'aveva conosciuta, Mondenkind. Forse lo stesso Michael Ende, che le aveva poi dedicato uno tra i tanti libri magici che esistevano sulla terra. La Storia Infinita, appunto. Chissà chi, dopo di lui, le avrebbe dato un nuovo nome. Avrebbe voluto che vivesse come Mitternacht per sempre, ma sapeva che prima o poi si sarebbe di nuovo ammalata... Forse sarebbe accaduto tra cento anni, mille anni, non poteva saperlo. Chiunque l'avesse incontrata di nuovo, sarebbe stata la persona più fortunata di tutto l'universo.
Suo magrado, però, era il momento di tornare alla realtà.
Era il momento di tornare nella realtà..... qualcosa di caldo bagnò il suo piede. Gli venne da voltarsi verso la...
“Cazzo!”, gridò, vedendo l’acqua traboccare al di fuori della vasca.
Si precipitò a chiudere il rubinetto e, come un fulmine, sventrò l’armadietto degli asciugamani per frenare l’avanzata dell’acqua verso la porta del bagno.
“Georg!”, sentì esclamare, dalla camera.
Era Bill.
Non se ne erano ancora andati…
“Stai bene? E’ tutto a posto?”, gli chiese con insistenza.
Vide la luce, che filtrava nella fessura tra il pavimento e il legno della porta, rompersi a più riprese.  Sentì poi il rumore di altri passi nervosi.
“Ho solo… fatto traboccare la vasca!”, spiegò Georg, mentre con una mano si preoccupava di fermare l’acqua e con l’altra apriva l’uscio del bagno.
“Cavolo!”, esclamò Bill, precipitandosi a dargli una mano, tamponando il pavimento bagnato.
Anche Tom e Gustav andarono in suo soccorso. Non appena Tom svuotò la vasca, Gustav la riempì con gli asciugamani inzuppati. In pochi secondi, tutta l'acqua fu raccolta. Rimaneva solo quella che inzuppava i loro vestiti.
“Ma cosa avevi in testa!”, sbuffò Bill, con i pantaloni bagnati fino al ginocchio, ridendo.
La situazione, infatti, era abbastanza comica. Un tripudio di colori spuntava fuori dal bianco latteo della vasca, mentre loro cercavano di asciugarsi nella stoffa dei loro vestiti mollici. 
Ma a Georg non andava affatto di ridere, come invece facevano gli altri. Si sedette sul pavimento ed appoggiò stancamente la schiena al muro di piastrelle azzurrognole dietro di sé.
“Hey…”, gli fece Tom, sul bordo della vasca, “E’ tutto a posto?”
Lo vedevano strano, fuori dalla realtà.
Triste.
“Se volete potete andare, non vi preoccupate, sistemo da solo.”, disse Georg.
“Andiamo…”, lo esortò Gustav a parlare.
Georg sospirò, toccandosi la testa.
“E’ come chiedere al malato terminale che cosa pensa del proprio domani.”, riprese poi, “Niente può essere a posto….”
“Mi dispiace…”, disse Bill.
Non sapeva che farsene del suo dispiacere.
Avrebbe tanto voluto che ognuno di loro si potesse rendere conto di che cosa avevano combinato… e ricominciare da capo.
Era quello il suo desiderio finale. 
Se Mitternacht fosse stata tra loro, forse lo avrebbe esaudito. Ma ormai non c'era più, se n'era andata. Tornata in Fantàsia, a prendere il posto di Imperatrice, come da sempre.

“Lascia stare.”, disse Georg, prendendo l’ultimo asciugamano bagnato e gettandolo nel mucchio della vasca, “Non sempre la volontà di uno coincide con quella degli altri.”
Bill gli porse una mano e lo aiutò alzarsi.
“Allora anche questo è un addio…”, fece Georg, retoricamente.
“Perchè dici anche?”, gli domandò Gustav, sempre attento a tutte le parole.
Loro non potevano saperlo.
Non dovevano, era un segreto.
“Mi correggo. Allora questo è un addio.”, ripetè Georg.
“Diciamo… un arrivederci.”, disse Tom, alzando le spalle.
Georg lo guardò. Quel suo essere criptico nei momenti più inopportuni lo aveva sempre infastidito un po’.
“Arrivederci a quando?”, gli chiese.
“A tra un po’.”, fece Bill, incrociando le braccia, con un piccolo sorriso sulle labbra, “Cioè a quando saremo in grado di chiederci scusa.”

 

*****

Si buttò sul divano, esausto, a pancia in giù.
Totalmente senza forze.
Vi cadde sopra a peso morto, come senza vita.
Borbottò qualcosa contro il suo cellulare che, dentro alla tasca dei pantaloni, gli si stava incarnando nella gamba.
Era andata.
E pure bene.
Non lo avrebbe detto.
Cinque minuti prima di iniziare aveva pensato: ‘Sei sicuro di quello che stai facendo? Perché sei sempre in tempo a scappare a gambe levate.’
Eppure aveva varcato la soglia e si era buttato nel vuoto.
Davanti ad un pubblico esiguo, fatto di circa duecento persone, aveva imbracciato di nuovo il suo basso e si era esibito.
Gustav alle sue spalle.
Bill alla sua destra e Tom al di là di lui.
Come era sempre stato da quando si erano conosciuti.
Lo avevano fatto in un piccolo locale, una ‘bettola’ di periferia di legno e tende rosse che chiudevano il retro del palco. L’atmosfera era tenue, quasi spenta, illuminata da piccole luci e candele basse sui tavoli. C’era un odore di vaniglia che faceva venire fame.
Lì dentro, un locale per jazzisti e trombe del blues, avevano suonato ancora insieme.
Ma non lo avevano fatto lì perché gli stadi e le arene non li volevano più.
Quel locale era suo. Era di Georg Mortiz Hagen Listing.
Non si ricordava nemmeno di preciso come ne era diventato proprietario. Fatto stava che una sera era andato lì dentro a prendere una birra con Fabian e, quello seguente, aveva tirato i soldi fuori per comprarlo. Se ne era innamorato così tanto che un pensiero veloce gli aveva sfiorato la testa: abbandonare tutto per buttarsi in quel locale. Ma poi si era dato dello scemo. Lui senza il suo basso non era niente e nulla, nemmeno imparare a servire Bloody Mary e birra alla spina, poteva sostituirlo.
Sì, quel locale era una ‘bettola’, per come lo aveva definito Tom quando lo aveva visto la prima volta. Ma era una ‘bettola speciale’.
I musicisti che, ogni sera, riempivano il palco su cui si erano appena esibiti non erano di certo così sconosciuti. Beh, per Tom lo erano, dato che lui di musica jazz non ne capiva una mazza. Ma lui, che quella maledetta sera con Fabian ne era rimasto travolto, in poco se l’era fatta propria. Ne era diventato un estimatore e conoscitore profondo. Ed amico anche di tutti i gruppi che avevano suonato per lui.
Prima che la gente venisse a sapere che lui aveva comprato quel posto, ne era passata di acqua sotto i ponti. Sì, perché in un locale come quello tutti erano anonimi e lui non aveva mai pubblicizzato il suo acquisto. Anzi, passava come tutti gli altri il tempo ad ascoltare i ritmi sincopati della musica, bevendo un sorso di birra alla volta. Con la vendita,
mantenendo il loro posto di lavoro aveva anche acquisito la stima dei dipendenti  e l’aveva cementata con il tempo, entrando in relazione con loro. 
"Ha il cervello come una spugna, cazzo!”, avrebbe detto Ferdinand, il barista, il mago dei cocktail, “In meno di una settimana, cazzo, ha imparato a gestire questo posto… Mica cazzi!”
Non era un tipo molto fine, pensava sempre Georg, ma ci sapeva fare. Soprattutto, sapeva vendere i suoi drink.


Era passato un anno da quella conferenza stampa.
In dodici mesi erano cambiate molte cose.
Molte priorità.
E loro quattro avevano imparato una bella lezione.
Durante quella conferenza non avevano detto che si sarebbero sciolti, ma solo che avrebbero preso il loro tempo.
Tempo per pensare.
Tempo per cambiare.
Avevano fatto dei grossi sbagli ed era il momento di fermarsi per comprendere come risolverli.
Si erano detti arrivederci, alla prossima.
E la prossima era venuta.
Ognuno aveva abbassato la testa, si era morso la lingua, aveva inghiottito l’orgoglio ed chiesto scusa all’altro.
Ma ci erano voluti ben trecentosessantacinque giorni, o giù di lì, perché ciò accadesse.
Durante quell’arco di tempo si erano calmati, fatti ragione della crisi che li aveva investiti e detti: ‘Perché non torniamo fuori a spaccare qualche culo?’
Ed avevano davvero spaccato qualche culo.
Prima di tutto, dovevano tagliare completamente con la loro vecchia immagine.
Questo non aveva voluto dire trovarsi davanti Bill senza trucco o Tom senza i rasta. Ovvio che chiedere loro questo sarebbe stato come chiedere a Dio di inventare un altro tipo di donna.
Era il momento di abbandonare tutte le cazzate da adolescenti.
Prima di tutto, erano saltate le teste dei merchandiser, che avevano venduto le loro facce anche ai produttori di detergenti intimi.
Poi, visto che ne avevano abbastanza di esperienza per vivere in quel mondo, avevano preso in mano il loro destino.
Via tutti quelle cazzate come interviste a raffica, televisioni e radio, servizi fotografici e promozioni varie, che li assillavano senza dare loro tregua. Sarebbero stati loro a decidere quando e come rilasciare interviste. Sempre affiancati da David e dall’usuale staff manageriale, pretendevano più indipendenza, più coscienza di sé.
Suonavano la loro musica, non la musica che piaceva alla casa discografica. Quindi si erano creati una loro etichetta ed avrebbero prodotto autonomamente i loro dischi senza pressioni di sorta. Avevano abbastanza soldi per poterselo permettere.
Ma soprattutto, avevano voglia di farlo.
E a chi aveva detto loro: Ma così taglierete tutti i ponti con i vostri fans, passerete per degli sbruffoni, perderete di immagine!, loro avevano risposto: E allora?
Avrebbero corso il rischio di passare per dei grossi stronzi, senza un briciolo di lealtà verso i loro fans, né di modestia. Insomma, dei bastardi targati Tokio Hotel.
Però, la lezione che avevano dovuto imparare era stata chiara.
Mangia la vita prima che sia lei a mangiarti.
Loro erano stati appena vomitati dalla vita, che li aveva inghiottiti in un sol boccone, e le erano andati un pochino indigesti, dopo le ultime brusche virate… Se non volevano essere presi di nuovo a calci, dovevano essere loro a dettare le regole… e a calciare.
Così, anche dopo la manifestata scetticità di David, avevano deciso di fare a modo loro: vendere i duecento posti del locale di Georg per presentare in unplugged l’album che avevano preparato.
Fu una botta mediatica.
Erano corse voci su un possibile loro nuovo album, soprattutto dopo l’annuncio della separazione dalla Universal per fondare una casa discografica a parte. Ma poi si erano spente, perse nell’assenza di comunicati stampa e voci fondate in campo.
Erano stati furbi. Erano usciti quando il mondo sembrava si fosse dimenticato di loro. Quasi un anno dopo l’esibizione unplugged in televisione, dove erano stati pesantemente fischiati dal pubblico, ne avevano proposto un’altra.
Di tutt’altro stile e categoria.
Il loro nuovo album non aveva niente in comune con quelli precedenti. Tranne il nome del gruppo e dei suoi componenti. Essenzialmente rock, con una venatura heavy metal e molto punk. Alternativo, melodie poco orecchiabili, testi graffianti.
Ci si erano impegnati abbastanza per ottenerlo. A modo loro.
Per prepararsi a quella esibizione,avevano anche riarrangiato i vecchi pezzi, per renderli più sulla scia del loro nuovo stile.
Basta con i vecchi Tokio Hotel, basta con le ragazzine piangenti.
Adesso volevano conquistare un pubblico più grande, adulto, totalmente diverso. Non sapevano se ce l’avrebbero fatta, ma tanto valeva riprovare.
Non avevano nulla da perdere, tranne l’essere definiti ancora una boyband.
Avevano optato per l’unplugged per mandare un preciso messaggio.
Un’esibizione del genere, aveva segnato la loro fine. Che questa nuova occasione fosse il nuovo inizio?
Beh, la risposta poteva venire solo nei prossimi tempi.
E poi Georg non voleva pensarci più di tanto, era esausto.
Sbuffò, voltandosi supino e scacciando con un soffio i capelli che gli erano entrati in bocca.
Era stanco, ma aveva ancora la forza per fare una cosa.
Si alzò e, stropicciandosi gli occhi, andò verso camera sua.
Barcollando, aprì il cassetto del suo comodino.
Prese il libro che stava al suo interno e sfogliò le pagine.
Ritrovò con estrema felicità Piornakzac, un Mordipietra, un gigante altissimo fatto di sasso, che viaggiava sulla sua bicicletta di pietra verso la Torre D’Avorio.
Gustav…
E come si era potuto dimenticare di Wuswusul, l’Incubino? Era un tipetto alto e secco come un chiodo, con una capigliatura folta e vaporosa che, a cavallo del suo pipistrello assonnato, si trovava anch’egli sulla strada della Torre D’Avorio.
Bill…
E ultimo ma non meno importante, il Minuscolino Ukuk, in sella alla sua lumaca da corsa, si teneva stretto il suo cappello colorato in testa, per paura che volasse via lungo il lungo e veloce tragitto.
Tom…
Rileggeva con gusto la descrizione fisica di Atreiu. Aveva la pelle ‘di un verde scuro che dava un po' sul marrone, come le olive’, per citare direttamente le parole di Ende. Capelli neri, bluastri, cavalcava le onde del Mare Erboso in cerca del Bufalo Purpureo, con cui sfamare la sua gente.
Falsamente modesto, Georg sorrise con soddisfazione.
Se stesso…
Scorse rapidamente le pagine.
Aveva l'aspetto di una bimba di dieci anni, con una veste di seta bianca.
Del medesimo colore anche i suoi capelli, lisci lungo tutta la schiena
Gli occhi coloro dell'oro.
Anche le sue vesti di seta erano bianche.
Eein unbeschreiblich schönes kleines Mädchen.
Una bambina di indescrivibile bellezza.
Se la ricordava molto bene. Forse non era riuscito a memorizzare un volto tanto quanto il suo. Se avesse saputo disegnare, lo avrebbe fatto con tale precisione che ne sarebbe uscita fuori una fotografia. Ed infatti era quello che aveva fatto. Il suo ritratto, disegnato da un artista di strada con un carboncino, stava appeso in casa sua.
Alla domanda: chi è quella ragazza?, lui aveva sempre risposto: Una che è venuta a trovarmi in sogno…
Lei era il mistero più impenetrabile del mondo di Fantàsia e che chi lo capiva del tutto avrebbe spento con ciò la propria esistenza, per parafrasare le parole del libro.
Ed infatti, lui non aveva capito tante cose.
Ma non avrebbe avuto senso comprenderle, erano un mistero e così doveva rimanere per sempre.
Sarebbe stato geloso per tutta la vita di questo segreto che avevano in comune.
L’aveva conosciuta in quella libreria così piccola e vecchia. 
Forse era per quello che si era innamorato della ‘bettola speciale’.
E quando l'aveva comprata, le aveva dato il suo nome.
Mitternacht.

Perchè la Storia Infinita sta dentro la Storia Infinita

FINE

 



Non ci posso credere... sono arrivata alla fine!!!! Oh mio Dio... e pensare che quando sono partita mi facevo più lavori di masturbazione mentale che pensavo di diventare cieca. Anzi, a vedere dagli occhiali sul naso e la prossima visita oculistica già lo sono... ma se la mia miopia peggiorerà sarà tutta colpa di questa storia!
Ingarbugliata all'infinito, so che qualcuna di voi non ci ha capito niente e me ne dispiace abbastanza, pensavo di aver fatto un buon lavoro, cercando di spezzare il capello in quattro, ma si vede che non ci sono riuscita molto bene. Sarebbe stato più facile se tutte voi aveste almeno visto il film, ma non posso di certo pretendere una cosa del genere! Figuriamoci!
Spero che il finale non abbia deluso nessuna di voi, avrei quasi voluto non farli tornare insieme, ma purtroppo sono buona e non volevo portare sfiga al gruppo!

Mi sono dimenticata che sia per il capitolo precedente che per questo, al sottotitolo, ho utilizzato strofe della canzone 'Never-Ending Story' di Limhal, cioè della celeberrima soundtrack del film. No per scopo di lucro.


Per quanto riguarda i ringraziamenti finali, faccio un riassunto generale di tutti i baci e abbracci che mando a tutte voi che avete letto, recensito e messo la storia nei preferiti, anche a quelle che mi seguono di nascosto! Non so più cosa scrivervi, ogni volta mi avete sommerso di complimenti e di elogi, non saprò mai ringraziarvi abbastanza! Non ho più parole, tranne una sola:

GRAZIE!!!

anna9223
Arumi_chan
Bell_Lua
Cirbiricoccola
CowgirlSara
dark_irina
drusilla87
Kit2007
Kheth_el
Kltz
LaTuM
Lidiuz93
natalia
picchia
Pikkola Tokietta
revege
sole a mezzanotte
sososisu
starfi
SweetPissy
_Princess_

Che vi devo dire, se non una richiesta -per favore- continuerete a leggermi anche se non scriverò proprio sui Tokio? Ehehe, sto preparando una fic su un gruppo, alcune di voi lo conosceranno, altre non ne avranno mai sentito parlare e, per quello che ne so, sarei la prima a presentare una fanfiction su di loro! Comunque, tanto per farvi capire chi sono, si chiamano McFly e questo è il loro sito http://www.mcflyofficial.com/home/
Tranquille, ho già in preparazione altre storie sui TH, ma per il momento le ho accantonate, torneranno in cantiere prossimamente!
Vi saluto, un abbraccio e un bacio!

-RubyChubb-

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=198089