Another Neverending Story di RubyChubb (/viewuser.php?uid=11150)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Dream a dream and what you see will be ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - The answer is written on the pages of a Never-Ending Story ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
DISCLAIMER: i personaggi qua sotto citati, esclusi quelli di mia
invenzione, non sono stati utilizzati per scopo di lucro. Né intendo dare con
questa storia rappresentazione veritiera delle loro vite. Anche il libro citato
non è stato utilizzato per scopo di lucro.
Another
Neverending Story
CAPITOLO
1
Spinse con forza la porta di vecchio legno scuro e
vetro. Una serie che pareva infinita di scricchiolii e mugolii accompagnò quel
breve momento e, non appena anche l’ultimo centimetro del suo corpo fu
all’interno, la richiuse. Uno tintinnio sottolineò la sua presenza: attaccati
sulla porta, piccoli e di bronzo, delle piccole campanelle avevano suonato fin
dal primo istante in cui la sua mano si era appoggiata sulla nera maniglia
esterna.
Ansimando, sudato e bagnato della fredda pioggia, attese
che ogni singolo rumore da lui provocato si chetasse, restituendo al luogo la
serenità e la calma che lo contraddistingueva ancora da prima che lui vi
irrompesse dentro.
Appena sentì l’avvicinarsi delle voci, ovattato
dalla porta, che lo stavano seguendo, trattenne il fiato, preso di nuovo dal
terrore. Ma si sentiva comunque salvo, lì dentro, in quel posto sconosciuto e
mai visto prima. Si voltò, guardò attraverso il vetro opaco e le vide correre,
andare dall’altro lato della strada, chiedersi dove fosse finito, e poi
riprendere di nuovo a correre, come dei poliziotti in cerca del ladro di turno.
Solo che lui non lo era.
Non appena ebbero svoltato
l’angolo, tirò un sospiro di sollievo, si voltò ed appoggiò la schiena alla
porta. Che giornata di m…
Ma dove si trovava? Cos’era quel
posto?
Si guardò intorno, ma gli ci volle qualche attimo per
rendersi conto di essere dentro ad una vecchia libreria. Le luci erano così
soffuse che i suoi occhi dovettero adeguarsi alla calda penombra. Le lampade,
attaccate al muro e volte verso il basso, non sembravano avere molta voglia di
illuminare quel posto.
Davanti a lui un piccolo corridoio,
delimitato sulla destra da un muro e sulla sinistra dalle costole degli scaffali
di legno, impolverati e stracolmi di libri. Un passo dietro l’altro, intimidito
ed incuriosito, andò verso la grande poltrona di cuoio e legno che, dondolando
impercettibilmente, dava le spalle ai benvenuti. Sul tavolo dietro alla
poltrona, numerose ed alte pile di libri, illuminate da una piccola
abat-jour.
Ogni tanto, un anello di fumo guizzava sopra la testa
della seggiola, segno che qualcuno, un vecchio signore pelato e con piccoli
occhialini sul naso, come se lo era immaginato, si stava riposando, seduto
comodamente a fumarsi la sua pipa.
Ad un suo passo, il parquet
scuro sotto ai suoi piedi cigolò. Si fermò, mordendosi il labbro, come farebbe
un ladro che si faceva scoprire dai suoi rumori.
Il dondolio della
poltrona cessò e, muovendosi su se stessa, rivelò il vecchio signore pelato con
piccoli occhialini sul naso che aveva pensato vi si sedesse sopra. La sua
giacca, di un grigio squallido, stava a malapena abbottonata sulla sua pancia.
Sulle sue gambe, un libro chiuso, dalla copertina di cuoio, che sicuramente
stava leggendo, a vedere dal dito che il signore vi teneva in mezzo. La pipa,
che stava ancora tra le labbra, venne tolta, insieme agli occhialini
rettangolari da lettura.
Quello che il vecchio signore vide fu un
alto ragazzo, con cappellino da baseball e giacchetta di pelle, pantaloni di
jeans strappati e scarpe da ginnastica. Notò gocce di acqua scendere rapidamente
sulla sua giacca, fuori doveva essersi messo a piovere.
“Oh, buon
dio.”, disse. Con un colpo d’occhio, aveva visto il codino scendere fuori
dall’apertura posteriore del cappellino ed un paio di occhiali da sole retti
dalla mano destra del ragazzo.
“Stammi bene a sentire, io non
soffro i tipi come te, con i capelli lunghi e tanti stupidi pensieri in testa.
Questo non è un posto per te, vattene.”, gli disse, con molta gentilezza, e
tornò a dargli le spalle con la sua poltrona.
Il ragazzo rimase
sbalordito, da quando in qua i clienti si trattavano in quel modo? Beh, il
signore non aveva tutti i torti, lui non era proprio un cliente… giusto uno che
aveva sfruttato il suo negozio appartato per sfuggire da…
“Ancora
qui?”, sbottò l’omino, voltando di nuovo la sua poltrona, “Cosa devo fare per
liberarmi di te? Cos’hai da dire?”
“Beh… a dire il vero niente.”,
disse il ragazzo, sentendosi improvvisamente come il bambino intimidito dal
professore burbero.
“I ragazzi della vostra età non hanno nemmeno
un briciolo di educazione!”, sibilò il vecchietto panzuto.
“Non
penso di essere così maleducato…”, provò a contraddirlo il
ragazzo.
“Ah sì? E allora perchè non ti
presenti?”
“Ehm…”, fece il ragazzo, come indeciso, “Mi chiamo
Moritz.”
Il vecchietto lo guardò, socchiudendo gli occhi con fare
indagatore.
“Moritz? Non sembravi tanto sicuro. E’ il tuo vero
nome?”, borbottò, infilandosi la pipa in bocca e sbuffando un anello di fumo che
pareva quasi perfettamente circolare.
“Beh… a dire il vero mi
chiamo Georg… e poi Moritz.”
“Oh bene Georg. Io sono il signor
Metternich.”, disse il vecchio, sorridendogli.
Ma l’uomo, da
gentile che era diventato, si rabbuiò di nuovo.
“Cosa ci fai qua?
Sei un ladro? Hai rubato qualcosa?”, borbottò stizzito.
“No no!”,
si affrettò a dire il ragazzo.
“I tipi con i capelli lunghi, i
calzoni strappati e le giacche di cuoio sono tutti ladri. Ora va’ via da questo
negozio, prima che chiami la polizia!”
“Non sono un ladro! Mi
creda, sono una persona per bene!”, cercò di convincerlo il ragazzo, “Stavo solo
scappando da…”
“Dalla polizia, lo so, te lo leggo in faccia che
hai svaligiato la cassa di un negozio.”
Brutto, vecchio e pure
rimbambito!, pensò il ragazzo.
“Stavo scappando da… da alcune
ragazze!”, disse, sentendosi infinitamente idiota, ma era la verità e quel
signore sembrava avere il sesto senso per smascherare le bugie.
“Ah sì? Dalle ragazze! Ma quelli come te non scappano dalle
ragazze, se le prendono a braccetto!”, disse, sghignazzando.
“Eh…
fosse così facile…”, disse Georg, togliendosi il cappello e grattandosi la
testa.
“Ma perchè fuggivi da loro?”, chiese il signore, ormai così
interessato alla sorte di quel ragazzo che chiuse definitivamente il libro che
stava leggendo e lo ripose sulla scrivania, coprendolo in parte con un
giornale.
“Perchè… avevo dei… conti in sospeso con loro.”, disse
il ragazzo. Era l’unica cosa che gli pareva sensata in quel momento. Non poteva
mica dirgli che suonava in una band famosa in tutta Europa e
quelle ragazze lo stavano inseguendo perchè erano sue fans! Lui manco l’aveva
riconosciuto.
“Sicuramente i tipi come te non si fanno scrupoli ad
andare dietro a più di una ragazza contemporaneamente, non è vero?”, disse il
signore, con sguardo ammiccante.
“Beh… diciamo di sì.”, rispose
l’altro, quasi arrossendo. Gli pareva di stare a parlare con suo
nonno…
“E i tuoi genitori cosa ne pensano?”, gli chiese l’uomo,
congiungendo le mani ed appoggiandole sulla sua pancia
sporgente.
“Mah… a loro va bene così.”, rispose,
insicuro.
Il vecchio, prima di poter contrattaccare, fu attirato
dal suono del telefono, che proveniva da uno studiolo. Vi si accedeva da una
piccola porta, accanto al bordo sinistro della scrivania. Gli occhi del ragazzo
seguirono il grassoccio signore finché non scomparve nella stanzina, chiudendosi
la porta dietro di sé, poi si spostarono sull’ambiente
circostante.
Tanta polvere, poca luce, libri vecchi: un posto per
collezionisti ed appassionati, di sicuro, che non poteva competere con le mega
librerie dei centri commerciali.
Incuriosito, passò in rassegna i
volumi che stavano al primo posto sulle pile sopra la scrivania. Vi leggeva i
nomi di alcuni dei più grandi classici dell’avventura, da ‘Robinson Crusoe’ a
‘Viaggio al centro della terra’, tutti in edizione centenaria, con copertine di
cuoio e titoli in argento o oro.
Poi, la sua vista cadde sul
libro, coperto per metà da un giornale ingiallito, che prima aveva visto sulle
gambe del vecchio bibliotecario. Con la punta del dito, toccò il piccolo pezzo
di metallo ricurvo che spuntava fuori dal suo nascondiglio. Poi, con un gesto
rapido e veloce, scostò del tutto il giornale.
Esso rivelò un
ovale, composto da due serpenti che si mordevano la coda, uno chiaro ed uno
scuro, che contornavano il titolo: ‘La Storia Infinita’. Ah sì! Lo aveva
visto tante di quelle volte da piccolo, il film! E gli era piaciuto anche
parecchio, benché in quel momento non se lo ricordasse tanto bene.
Lui non era un gran lettore, non lo era mai stato, e non sapeva
che il film fosse stato tratto dal libro. Quello davanti a lui aveva una
copertina di cuoio di un rosso così scuro che pareva quasi
sangue.
All’improvviso, come se una folle molla fosse scattata in
lui, afferrò il libro con le mani e se lo mise sotto la
giacca…
Andò verso la porta e, per evitare che anche il più
piccolo rumore attirasse l’attenzione dello strano libraio, aprì la porta così
piano e così poco che a fatica riuscì ad uscire. Poi, preso da un’infinita
paura, iniziò a correre.
Perchè lo stava facendo? Lo aveva rubato!
Era un ladro!
Si fermò, pensando che avrebbe fatto meglio a
restituirlo seduta stante, scusarsi infinitamente e dimenticare tutta la storia.
Non voleva venire denunciato dal vecchio scorbutico…
Eppure non lo
fece. Spinto da qualcosa di sconosciuto che gli nasceva dentro, riprese a
scappare.
Corse, corse e corse di nuovo, scusandosi con ogni
persona che urtava lungo il suo tragitto. Gli ci volle un po’ prima di rendersi
conto dove si trovasse: per seminare quelle idiote si era infrattato nei
peggiori vicoli. Una volta ritrovata la strada principale, concluse la sua
corsa, lontanissimo dal vecchio negozio. Riprese fiato e tornò al suo passo
normale.
Sotto la giacca di cuoio quel
libro.
Individuò la porta del palazzo e, affrettando solo
leggermente il passo, vi entrò dentro, salutò velocemente con un gesto della
testa i due portieri ed andò verso l’ascensore. Premette il pulsante del decimo
piano.
Sentiva l’impulso irresistibile di prendere il libro ma
doveva provare con gli altri. Comunque, se non fosse stato il
primo ad arrivare, sarebbe stato il secondo, dopo Gustav, e le prove non
sarebbero iniziate prima di una mezz’ora buona… forse avrebbe avuto il tempo per
leggersi almeno un paio di capitoli. Tra meno di un mese sarebbe iniziato il
tour europeo, dovevano mettersi sotto così tanto con le prove che avevano
ridotto al minimo ogni loro comparsata al di fuori della sala prove. Tutti
giorni provavano dalle quattro alle sei ore, quasi
ininterrottamente…
Una volta fuori dall’ascensore, andò verso la
grande porta di legno ed acciaio, suonò il campanello ed entrò dentro. Salutò
velocemente tutti coloro che lavoravano per loro, per il gruppo, per i Tokio
Hotel, e si chiuse dentro alla sala relax.
Non c’era ancora
nessuno.
Guardò l’orologio.
Cazzo! Era di ben un’ora
di anticipo!
Non se lo spiegò bene come poteva essere arrivato lì
con tutto questo scarto temporale, ma se ne fregò altamente, aveva il suo libro
da leggere…
Lo osservò di nuovo, lasciando che la punta del suo
dito indice vi scorresse sopra. Il cuoio della copertina era liscio come il
vetro, ma caldo, sia nel colore che al tatto. I caratteri del titolo erano
stampati in rilevo, di un oro un po’ sbiadito e i due serpenti che lo
contornavano erano decorati con dei piccoli taglietti che si incrociavano, per
dare il senso delle squame della pelle di questi rettili.
Aprì il
libro e l’odore della vecchia carta subito lo investì. Lui, che si era già detto
non essere mai stato un gran lettore, si stupì nel pensare a quanto fosse buono
quel profumo, tanto che prese una manciata di fogli e li fece scorrere
velocemente tra le dita, per farsi pervadere.
Era il momento di
leggere.
Sfogliò via la prima pagina, dove c’era riproposto il
titolo del libro ed il nome del suo autore Michael Ende. Il prologo si apriva
con una scritta al contrario, che dovette sforzarsi a leggere, che diceva:
‘Antiquariato’, e continuava con la storia del bambino che entrava dentro a quel
negozio perchè inseguito dai bulli della sua scuola.
Alzò gli
occhi, lontani dalle parole scritte. Che analogia! Anche lui si era trovato a
fuggire via, ma non dai bulli, dalle sue fans! Bizzarro, pensò, ridendo tra sé e
sé.
Riprese la sua lettura e si stupì ancora di più… il dialogo
tra il bambino, un certo Bastian, ed il burbero libraio gli ricordò quello che
lui stesso aveva avuto con il vecchietto scorbutico. Il ragazzetto, poi, rubò il
libro così come lui aveva fatto.
“Cazzo…”, borbottò Georg, “Questo
si che si chiama plagio!”
Sorrise, leggendo il titolo del primo
capitolo: ‘Fantàsia è in pericolo’. Sotto di esso, una grande A, immersa
in arabeschi e fiorellini.
E così si addentrò nel mondo di
Fantàsia.
Quattro furono i primi personaggi di cui si parlava, in
quel capitolo. Un Fuoco Fatuo, una piccola palla luminosa contenente all’interno
un messaggero, un piccolo omino, di nome Blubb. Un Mordipietra, cioè una gigante
fatto di pietra, che pietra mangiava e pietra usava per costruirsi ogni oggetto,
di nome Piornakzac, in sella ad una bicicletta, fatta appunto di pietra. Un
Minuscolino, di mone Ukuk, un ometto finissimo, con in testa un grande cappello
rosso ed a cavallo di una lumaca da corsa; infine un Incubino, un grosso bruco
con una folta pelliccia, nera come la pece, ritto in piedi e con manine piccole,
accompagnato dal suo pipistrello.
Ognuno di questi personaggi…
come poteva non avere una faccia a lui conosciuta? Sorrise nel pensare a Gustav
come al Mordipietra, entrambi amanti della bicicletta; a Tom come al
Minuscolino, con i loro cappelli ed Bill come all’Incubino, con le loro
‘pellicce’ nere. Sembravano fatti apposta!
Seppe che ognuno di
loro era in viaggio, erano dei messaggeri, e che dovevano recarsi alla Torre
d’Avorio. Sì, se la ricordava com’era nel film, una lunga torre altissima, tutta
color panna, con in cima una grande terrazza, al cui centro vi stava il bocciolo
di magnolia, la casa dell’Imperatrice Bambina, o Infanta Imperatrice, come si
leggeva nel libro.
Ognuno di loro doveva dirle che piccoli e
grandi pezzi delle loro terre erano scomparsi, volatilizzati nel nulla. Già, il
Nulla, quel male misterioso che stava colpendo tutti i paesi di Fantàsia, da
quello più sconfinato a quello più vicino, e che inghiottiva lentamente ogni
cosa.
Lesse anche di come, nel secondo capitolo, intitolato ‘La
chiamata di Atreiu’, questi quattro messaggeri seppero della strana malattia
che aveva colpito l’Imperatrice Bambina e di come nessun medico, nemmeno il più
saggio di tutta Fantàsia, il centauro Cairone, seppe dire quale fosse, tranne
che aveva un nesso misterioso con quel Nulla che stava annientando il loro
mondo. Sì, più o meno anche il film narrava la storia in quel modo, se lo
ricordava.
Lanciò un’occhiata veloce all’orologio, era già passata
un’ora. Almeno Gustav doveva già essere arrivato. Sugli altri due non ci contava
molto: erano sempre, perennemente, instancabilmente, definitivamente in ritardo.
Tornò sul suo libro e alle vicende di Cairone che, munito
dell’amuleto, affidatogli dalla stessa Infanta Imperatrice, Auryn, che
altro non era il simbolo metallico fisso sulla copertina, partì alla ricerca di
un certo Atreiu. Era stato lei stessa a rivelargli quel nome: gli aveva chiesto
di trovarlo, di dargli Auryn e di spiegargli qual era il suo compito: vagare per
Fantàsia, senza meta e senza armi, munito solo dell’amuleto, per scoprire quale
era la cura per la sua malattia, dato che nessuno pareva
saperlo.
“Questa me la devo segnare!”, sentì esclamare, nelle sue
vicinanze.
Gustav, in piedi, a bocca aperta ed occhi stupiti, lo
stava guardando leggere.
“Che c’è? Cosa ho fatto?”, fece Georg,
perplesso.
“Stai leggendo… non te l’ho praticamente mai visto
fare, a meno che non si trattasse di un giornale o di un manuale di istruzioni
d’uso.”
“E piantala! C’è sempre un buon momento per iniziare!”,
esclamò Georg, lievemente infastidito.
Gustav, percepito la sua
stizza, si zittì, sedendosi nel divano di fronte a Georg, che intanto aveva
ripreso a leggere. Afferrò la bottiglia di coca cola che stava appoggiata,
ancora inviolata, sul tavolino accanto al bracciolo del suo divano e, dopo
averne versata un po’ in un bicchiere, la bevve, leggendo il titolo del libro
che tanto stava interessando il suo amico bassista.
“La storia… ma
dai! Stai leggendo ‘La storia infinita’! E’ un libro per bambini!”,
sbottò, meravigliato dal tipo di lettura poco consona alla venticinquenne età
dell’altro.
“E allora?”, disse Georg, senza distogliere gli
occhi.
“Mah… almeno è interessante?”
“Sì, finchè non
sei arrivato tu a rompermi i coglioni!”, proruppe Georg, “Mi vuoi lasciare in
pace?”
“Ok! Ok!... non ti scaldare.”, disse Gustav. Si poteva
vedere uno che si incazzava per uno stupido commento su di un libro?
Innervosito, uscì dalla sala relax, chiudendosi nella sala prove per iniziare a
riscaldare le mani.
Poco pentito della sua reazione, Georg lasciò
perdere il suo amico, concentrandosi di nuovo nella
lettura.
Cairone era arrivato nella terra del Mare Erboso, così
lontana dalla Torre d’Avorio che aveva dovuto correre per dieci giorni e dieci
notti, quasi ininterrottamente. In quella terra vivevano cacciatori bravissimi,
dai capelli nero bluastri e dalla pelle scura, del colore delle olive. Sia Georg
che lo stesso Cairone, si aspettarono di trovarsi davanti ad un imponente uomo,
valoroso e potente, ma invece Atreiu non era altro che un
bambino.
“Un bambino?!?”, esclamò, così come Cairone.
Mpf! Così diventava un po’ troppo inverosimile… ma se non
ricordava male anche nel film Atreiu era un bambino, un ragazzino. Eppure,
nonostante la sua giovane età, Atreiu accettò e…
“Vaffanculo!”,
sentì gridare. Proveniva dal corridoio, appena fuori la porta della sala
relax.
“No vaffanculo un cazzo!”, fu la
risposta.
“Sei un cretino, un deficiente e un pezzo di
merda!”
“No! Sei tu un cretino, un deficiente e un pezzo di
merda!”
La porta della sala relax fu spalancata di botto ed entrò
un Bill a dir poco imbufalito, rosso in faccia e con le vene del collo pulsanti.
A ruota, Tom, ancora più imbestialito.
“Sei un coglione!”, gli
disse Bill, “Un imbecille! Vengo mai a frugare nelle tue
cose?”
“Sì che ci vieni!”, ribatté Tom.
“No che non
ci vengo perchè rispetto la tua privacy! E tu devi imparare a rispettare la
mia!”, gli gridò in faccia, puntandogli un dito sul naso.
Georg,
impossibilitato nel continuare la lettura, chiuse il libro, toccandosi
stancamente le tempie. Avrebbe voluto prendere un cartello e scriverci sopra
‘Levatevi dal cazzo’, ma intorno a lui non c’era niente per poter
realizzare quell’attacco d’arte.
“Non ti azzardare mai, e dico,
mai più a mettere le tue manacce unte tra le mie cose, chiaro?”, ripeté Bill al
fratello, che evidentemente si doveva essere macchiato del reato di violazione
della proprietà privata di Bill.
“Hai rotto i coglioni Bill! Non
puoi stare sempre a fare il dittatore!”, esplose Tom.
Georg iniziò
a contare i proverbiali dieci secondi prima di parlare. Prese un profondo
respiro e poi cercò di attirare l’attenzione dei due fratelli coltelli con un
colpo di tosse.
“Ah… ciao Georg.”, disse Bill, notando
distrattamente la sua presenza sul divano.
“Disturbiamo per
caso?”, chiese Tom, con educazione.
“Mah…”, rispose Georg, facendo
spallucce.
“E QUINDI VAFFANCULO TOM!”, gridò Bill, con tutto il
fiato che aveva in gola, dopo aver interpretato il ‘mah’ di Georg come un
no. Uscì a grandi passi dalla sala relax, lasciando il fratello
nell’impossibilità di contrattaccare efficacemente. Tom, dopo aver stretto i
pugni tanto da farsi sbiancare le nocche, si buttò sul divano, a braccia
incrociate e viso imbronciato.
Silenzio di
tomba.
Georg rilassò la schiena, contento della fine dell’animata
discussione. La pelle del divano, sotto al suo peso,
scricchiolò.
“Fatti i cazzi tuoi Georg!”, sbottò
Tom.
“Ma io non ho detto nie….”
“FATTI I CAZZI
TUOI!”, urlò Tom, alzandosi di scatto e precipitandosi fuori dalla stanza,
sbattendo la porta lasciata aperta dal tornado Bill.
Il quadretto
appeso sul legno dell’uscio, che recitava la scritta ‘Sala relax’, cadde.
Georg sentì il vetro rompersi, fare ‘crack’ ed andare in mille
pezzi.
Quale reale metafora poteva esprimere al meglio la sorte
dei Tokio Hotel, se non quella?
C’era poco da spiegare, a parte il
fatto che da un mese a quella parte non tirava aria buona tra di loro. La
stanchezza, lo stress, il nervosismo avevano preso il sopravvento, lasciandoli
quasi senza fiato. C’era chi reagiva bene, come lui o come Gustav, che cercavano
sempre di mantenere il controllo finchè potevano. C’era che reagiva male, come i
due Kaulitz, che esplodevano per un nonnulla.
E poi c’erano tutte
le pressioni della casa discografica, l’album che non stava vendendo bene come
gli altri, il tour in preparazione, le voci di una possibile crisi che
prendevano sempre più piede, la stampa che ricamava pizzi e merletti sulle loro
vicende private.
Una vacanza?
Ne avevano
bisogno.
Progetto fattibile?
Mmh… certo che no.
Lavoro, lavoro, lavoro.
Stress, stress,
stress.
Incazzamenti, incazzamenti, incazzamenti.
Si
alzò dal divano per andare a raccogliere i vetri del quadretto e per
riappenderlo alla porta. Il libro, benché molto più allettante delle prove,
doveva essere abbandonato per un po’.
Le prove si conclusero nel giro di un’ora perchè Tom,
che ancora aveva da smaltire l’incazzatura, se l’era presa a morte con Gustav,
accusandolo di aver sbagliato tempo in un paio di canzoni. Dopo un battibecco
durato all’incirca trenta secondi, in cui ebbe la meglio Gustav, i ragazzi
decisero di interrompere definitivamente le prove, non era proprio
giornata.
Uno alla volta, i duellanti uscirono dalla sala prove,
facendo a gara a chi sbatteva di più la porta. Bill, seduto sul suo sgabello,
era intento ad ignorare il mondo circostante e correggeva alcuni spartiti con
una matita. Memore dello scricchiolio del divano, che aveva causato l’esplosione
dell’ennesima bomba atomica, Georg cercò di riposare il suo basso senza fare il
benché minimo rumore.
“Dove vai?”, gli chiese Bill, senza però
abbandonare i suoi fogli.
“Beh…”, balbettò Georg. Ogni risposta
poteva scatenare un’altra guerra mondiale, “Pensavo di tornarmene in sala
relax.”
“Ah…”, fece l’altro, mettendosi la matita in bocca e
concentrandosi sugli spartiti.
“Hai bisogno di una mano per
qualcosa?”, gli chiese.
“No, grazie.”, disse Bill, storpiando le
parole per via della matita.
“Va bene.”, fece Georg, avvicinandosi
alla porta.
“Se vedi Tom mandalo a fanculo da parte mia.”, gli
disse, poco prima che uscisse.
“Ok, riferirò… messaggi per
Gustav?”
“E’ un coglione, aveva ragione Tom, ha sbagliato il tempo
in due canzoni.”, disse Bill, riponendo i fogli sul leggio.
“No,
non ha sbagliato, perchè anche io seguivo il suo stesso tempo, che è quello che
avevano deciso insieme.”, ripeté Georg, usando più o meno le stesse parole
utilizzate appena qualche secondo prima da Gustav.
“Alla fine
avevamo stabilito di farla più lenta, non veloce in quel modo! Sembra un pezzo
da sala da ballo, non da Tokio Hotel!”, esclamò Bill, prendendo la parte di suo
fratello.
“Sì, ma poi avevamo provato con il nuovo tempo e
sembrava troppo smielata!”, ribatté Georg.
“Io quello non me lo
ricordo!”, si giustificò Bill, ormai alterato ed in cerca di un nuovo
scontro.
“Io sì, quindi la prossima volta prendetevi un po’ di
fosforo, tu e tuo fratello!”, disse Georg, rimanendo comunque calmo ed uscendo
dalla sala prove.
Che palle, disse tra sé e
sé.
Tornò nella sala relax a riprendersi il libro. Voleva solo
tornarsene a casa e passare tutto il pomeriggio da solo, in compagnia di un
qualche videogioco. Non voleva nemmeno pensare alla brutta giornata che stava
vivendo, solo sfinirsi le dita sul joystick… e magari leggere ancora, ma tanta
era la rabbia che aveva dentro che non ne aveva più voglia.
Non
avvertì nemmeno gli altri, scese al piano terra e chiese ai due portieri di
chiamargli un taxi. Dopo mezz’ora, era seduto sul tappeto, davanti al
maxischermo, a giocare a Tomb Raider.
Arieccoce qua, a pubblicare la nuova storiella!
Eheheh, ci ritroviamo dopo poco meno di un mese, con un nuovo protagonista,
Georg. Dopo aver dedicato un'intera trilogia a Tom ed anche un'altra storia
singola, credo che sia sufficiente!
Eeeeehhhh Giorgino *me sospira*
Ma
passiamo a spiegare alcune cose: innanzitutto questa fanfiction sarà un po'
strana, intendo nella trama. Sarà concentrata totalmente su di Georg, il punto
di vista sarà esclusivamente il suo, ho escluso tutti i pensieri degli altri
dalla narrazione. Protagonista assoluto quindi, tutti i fatti saranno sottoposti
al suo unico giudizio... ma non è questa la cosa 'strana' di questa fanfiction, ed è qui che
arriva il bello...
Ho il grande timore che troverete la storia del tutto
assurda e senza fondamento. Non posso spiegarvi esattamente in quale senso,
perchè altrimenti vi rivelerei come si evolve, ma ho continuamente questa paura.
Indi per cui vi chiedo, ora come mai ho fatto prima, di essere del
tutto obiettive nelle vostre recensioni, dirmi dove pecco, dove sbaglio e
dove la storia non vi piace, dove vi sembra assurda e totalmente irreale. Non mi
offenderò assolutamente of course XD anzi, mi serviranno per capire dove
sbaglio!
In due occasioni ho
riportato dei frammenti microscopici di libro, specificatamente nel prossimo
capitolo e anche più avanti. Se andassi contro le regole del sito, ditemelo così
vedo di arrangiarmi. L'ho fatto senza scopo di lucro, nè con l'intenzione di
violare alcun copyright.
Ovviamente ringrazio tutte quelle che
hanno recensito l'ultimo capitolo di 'Time and
Destiny'... sniff sniff... tiro su la lacrimuccia e lascio i miei
figlioli camminare lungo il viale del tramonto tenendosi mano nella mano...
Vi lascio, per adesso, in attesa del prossimo capitolo e spero vivamente
che questo inizio abbia stuzzicato la vostra fantasia.
....Perchè la Storia Infinita sta dentro la Storia
Infinita....
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
CAPITOLO
2
Dopo essersi divorato letteralmente una pizza formato
gigante con doppia mozzarella e doppia salsiccia, si sdraiò sul letto,
sentendosi pieno come l’arca di Noè. Aveva passato tutto il pomeriggio a giocare
ininterrottamente e ora, con la testa e gli occhi stanchi, avrebbe voluto solo
dormire, ma soprattutto, dimenticare la giornataccia appena passata, senza
pensare che la successiva sarebbe stata addirittura peggio.
Se David avesse
saputo cosa era successo, cioè che non avevano fatto altro che litigare, si
sarebbe incazzato a sua volta…
Sentì il cellulare squillare
prepotentemente dal salotto e, con riluttanza, andò a rispondere.
"Oh
cavolo!", esclamò, quando vide da chi proveniva la chiamata… Helen, la
sua ragazza, o meglio, quella con cui si frequentava da tre mesi, o giù di lì.
Titubante, rispose.
“Pronto?”
“Lo sapevo che te
ne saresti dimenticato, lo sapevo!”, esclamò lei, appena l’ultima lettera
venne pronunciata.
“Scusami Helen, ma oggi è stata una giornata
tremenda!”, provò a giustificarsi Georg.
“Non me ne frega
niente! Ti dimentichi tutto!”, continuò lei, che ormai era partita per la
tangente.
“Dai, Helen, capiscimi… lo sai che non è un periodo
facile, che siamo sempre stressati e sotto pressione…”
“Non sai
lasciarti il lavoro alle spalle? Non sai chiudere i tuoi problemi fuori dalla
nostra vita?”
“Mi cambio e vengo.”, le disse, cercando di
farla contenta.
“No, guarda, puoi rimanere a casa!”,
ribatté lei, chiudendo la chiamata.
Buttò stancamente il telefono
sul divano e se ne tornò in camera, trascinandosi i piedi dietro. Ecco, poteva
la sua giornata non concludersi con un’ultima discussione con Helen?
Apparentemente no. Quella sera avevano programmato di passare la serata al
cinema, a vedersi l’ultimo film di Spielberg. A parte il fatto che se n’era
veramente dimenticato, non ne aveva nemmeno molta voglia.
Giornata
di merda, trasformatasi in giornata del cazzo. Poteva solo starsene a letto,
almeno in quel modo non avrebbe litigato con nessuno. Anche se erano le nove,
spostò le coperte e, dopo aver sistemato i cuscini per rendere la sua seduta più
comoda, si mise a guardare cosa proponeva la pay tv…. Dopo cinque minuti di
zapping selvaggio, lo schermo diventò nero. Abbandonò il telecomando e, dopo
aver avvicinato le gambe al petto, si mise a guardare il
soffitto.
Niente sonno, niente in tv, niente di
niente.
A meno che…
Uscì dalla camera e se ne tornò
in salotto. Appoggiato sopra il divano, il libro.
Si
rinfilò sotto le coperte e riprese la lettura.
Capitolo 3, ‘La
vecchissima Morla’.
Ritrovò Atreiu, sul suo cavallo Artax, che
correva senza direzione, senza meta, ma con uno scopo ben preciso. Trovare una
cura per l’imperatrice. Si ricordava della scena che stava per leggere. La
palude della tristezza… se non pensava male, il cavallo Artax stava per morire,
inghiottito dalla melma della palude, che divorava chiunque si facesse prendere
da tristi pensieri.
Ed infatti, dopo poco accadde. Poi lesse di
come Atreiu parlò con Morla, la millenaria e scorbutica tartaruga, l’unica che
sapeva quale fosse la cura per la regina. Lo aveva scoperto in sogno, glielo
aveva detto il Bufalo Purpureo, l’animale che aveva sempre cacciato per sfamare
il villaggio.
‘Tu hai la
vita breve, piccolo, noi abbiamo la vita lunga. Troppo lunga. Ma viviamo nel
tempo. Tu per poco, noi per molto. L’infanta Imperatrice no. Lei c’era già prima
di noi. Ma non è vecchia. Lei è sempre giovane. Già, guarda un po’. Lei non vive
nel tempo, ma nei nomi. Ogni tanto ha bisogno di un nume nuovo. Sicuro, ha
sempre bisogno di nomi nuovi.’, lesse
dalle pagine del libro.
Un nome nuovo?
‘Aspetta’, gridò Atreiu,
‘da dove prende i nomi nuovi? Chi le può dare un nome? Dove posso trovare un
nome?’.
‘Nessuno di noi’, udì il gorgoglio di Morla, ‘ nessuna
creatura di Fantàsia può darle un nome nuovo. Perciò è tutto
inutile.’
Se era uno
degli abitanti di Fantàsia a poterle dare un nome, non si sarebbe chiamata
‘La storia infinita’…
Cercò di tornare con la mente al film, per
cercare di capire quale sarebbe stata la soluzione di quel racconto, ma non si
ricordava chi poi, alla fine, avrebbe dato un nome nuovo
all’imperatrice.
Sbadigliò.
‘Ma chi allora?’, gridò Atreiu fuori di sé, ‘Chi allora
può darle un nome e salvare tutti noi?’
Ecco, quella era una domanda
sensata.
‘Non fare tanto
baccano!’, fece Morla, ‘Lasciaci in pace e vai via. Neanche noi sappiamo chi può
farlo.’
Eh, ma che
palle!
‘Dimmi chi lo sa, e
ti lascio in pace per tutta l’eternità.’
‘Ma che importa, tanto fa
lo stesso.’, rispose, ‘Forse Uyulala dell’Oracolo
Meridionale.’
Che stronza
quella tartaruga gigante… se lo sapeva, perchè non glielo diceva e
basta!
Sbadigliò ancora, i suoi occhi lacrimarono
pesantemente.
‘Non ci puoi
arrivare in nessun caso, piccolo. Non in diecimila giorni di viaggio. La tua
vita à troppo breve per questo.’
Le sue mani persero forza e il libro cadde su di un
lato.
Si era addormentato…
Sentì un rumore strano.
Poi di
nuovo silenzio.
Poi ancora quel rumore.
Poi più
niente.
Un’altra volta. Che rumore era? Pareva un
animale.
Un nitrito?
Aprì gli occhi,
attirato.
A due centimetri dalla sua fronte le narici di un
cavallo. Si alzò di scatto a sedere e si guardò intorno, appena i suoi occhi
furono capaci di distinguere le forme ed i colori. Tanta erba, tantissimo verde.
Steli lunghi, alti, color smeraldo che si muovevano, ondeggiando come in una
danza orientale.
Si mise in piedi, chiedendosi dove si trovasse.
Intorno a lui colline, pendii e pianure di erba verde, come onde del mare… era
nel Mare Erboso.
Un colpo sulla sua spalla. Si
voltò.
Un maestoso cavallo bianco, senza sella, senza briglie. Era
così alto e così muscoloso che pareva il più grande cavallo che avesse mai visto
in vita sua… Artax?
Gli
venne da guardarsi addosso. Aveva solo un gilet di pelle scura e pantaloni dello
stesso colore, era scalzo. Un peso sulle sue spalle. Una faretra piena di frecce
ed un arco. Era diventato… Atreiu?
…..
Ma che
cazzo di sogno era?
Il cavallo nitrì di nuovo, si alzò sulle sue
forti gambe posteriori e ricadde pesantemente sul suolo, facendolo vibrare sotto
il suo peso. Pareva scosso ed agitato, si muoveva a piccoli passi a destra ed a
sinistra, scuotendo la coda. Era molto nervoso
Era tutto così
reale… l’odore dell’erba fresca, del cavallo, del cuoio dei suoi
vestiti…
Un grido lontano.
Pareva avvicinarsi sempre
di più a lui.
Guardò verso la direzione in cui pensava provenisse.
Non appena la sua vista si mise a fuoco, represse a malapena una risata. Poi
sentì la paura salire piano piano… piano piano… sempre di
più.
“Laaaaadddddrrrroooooo!”, sentiva l’eco della voce del
vecchio e bisbetico libraio.
Era lui che si stava avvicinando a
corsa, brandendo un giornale arrotolato, e sembrava volerlo raggiungere per
prenderlo a bastonate. Correva a grandi passi, sembrava quasi saltare, ed era
sempre più vicino.
“Ridammi il mio libro! Ridammi il mio libro!”,
prese ad urlargli, prima che Georg, con un’agilità che non si aspettava di
avere, balzasse sulla schiena nuda del cavallo e, aggrappatosi alla sua bianca
criniera, partì al galoppo…
Il tonfo del libro caduto a terra gli
fece accendere la mente, risvegliandolo dal sogno. Stette per qualche secondo
imbambolato, doveva trovare le forze per rendersi conto di nuovo dove si
trovasse.
Era in camera sua.
Riconosceva il soffitto
rosso scarlatto.
Tirò un sospiro di sollievo.
Si
stiracchiò le braccia allungandole sopra la testa e, dopo un paio di sbadigli,
si sporse dal letto e raccolse il libro.
Sogno del cazzo,
pensò.
Ma era meglio restituire ciò che aveva sottratto con
l’inganno.
O il libraio lo avrebbe preso a
giornalate.
***
Si
svegliò tardi, con la testa che pulsava e la schiena indolenzita. Non aveva
dormito per niente bene, era stato tormentato tutta la notte dal libraio
vendicatore, con il suo giornale arrotolato assassino.
Dio, che
palle! Doveva perdere il sonno la notte per un cazzo di libro vecchio e
ingiallito? Era meglio liberarsene, restituirlo al suo legittimo proprietario,
per scacciare via tutti i rimorsi e tutti i brutti pensieri. Non aveva mai
rubato, nemmeno una caramella. E non si era sentito tanto in colpa per quel
gesto fino a quel momento.
Sarebbe stata la prima cosa che avrebbe
fatto quel giorno. Non voleva mica distruggersi la vita per un libro maledetto,
e per di più stupido nella trama!
Questa Imperatrice Bambina che
aveva bisogno di un nome nuovo per guarire, questa assurda Fantàsia che non
riusciva ad immaginarsi perchè, appunto, troppo assurda!
Caro
Michael Ende, poteva scrivere qualcosa di meglio, invece di un libro cretino.
Poteva darsi all’ippica!
Doveva scusarsi con Gustav, prostrarsi
pentito ai suoi piedi, con la testa cosparsa di cenere ed i ceci sotto le
ginocchia… altro che libro per bambini! Gli stessi marmocchi avrebbero fatto una
sonora pernacchia in faccia all’autore, se non fosse morto da
anni.
Si preparò, salì in macchina, una due posti argentata, e
partì alla ricerca della libreria polverosa da cui lo aveva rubato. Gli venne il
dubbio di poterla rinvenire di nuovo… ora che ci pensava, l’aveva trovata per
caso, sfuggendo da un trio di stupide scimmie urlanti che non avevano voluto
saperne di accontentarsi di un autografo.
Si avvicinò al centro
vecchio della città, lasciò la macchina da una parte e si mise alla ricerca
della libreria. Aveva due ore di tempo per trovarla, poi doveva tornarsene alle
prove. Si avventurò tra le strade di pietra, strette tra vecchi edifici,
calandosi il cappellino sugli occhi e nascondendosi dietro ad una sciarpa nera e
ad un paio di occhiali da sole.
Dopo diverse svolte si sentì
perso, non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, aveva smarrito tutti i
punti di riferimento… merda! Tutto era deserto, erano le nove di mattina,
nessuno pareva intenzionato a mettersi sulla sua stessa strada.
Cazzo!
Girò a sinistra, poi a destra, poi ancora a
destra e per tre volte consecutive a sinistra. Gesù… si era totalmente perso nel
centro vecchio della città. E per di più, stava per mettersi a piovere!
Non sapeva proprio da che parte andare, oramai poteva solo
sperare di uscire fuori da quel dedalo di strade. Prese la prima a
destra.
Eccola lì.
La porta del negozio. Alla fine
ci era riuscito…
Mise il libro sotto alla giacca, non doveva
fargli prendere acqua. Affrettò il passo e ristudiò mentalmente tutto il
discorso che si era preparato per scusarsi con il vecchio libraio. Prese la
maniglia, recitò l’ultima preghiera e la spinse, sentendo il rumore dei
campanellini che avvisavano del suo arrivo.
Era
dentro.
Ormai nulla più poteva salvarlo dal giornale
arrotolato.
La poltrona stava ancora dove l’aveva lasciata,
voltata. Sicuramente c’era il signor Metternich seduto sopra… magari aveva già
fatto la denuncia appena si era accorto del furto, magari aveva già la polizia
alle calcagna, magari lui l’aveva veramente riconosciuto ieri ma non glielo
aveva detto, magari stanno già pubblicando su tutti i giornali la sua foto con
scritto sotto ‘ladro di libri per bambini’…
Ebbe
l’improvvisa voglia di fuggire via di nuovo ma, cazzo, era un uomo! Doveva
prendersi le sue responsabilità!
Si tolse il cappello e lo infilò
dentro la tasca del suo giubbino di pelle. Allentò la sciarpa e si mise gli
occhiali sulla testa. Dopo essersi schiarito la voce, iniziò a parlare alla
poltrona voltata.
“Signor Metternich… buongiorno, sono il ragazzo
di ieri… quello che lei pensava fosse un ladro eccetera eccetera…”, prese a
dire, poi il buio. Non si ricordava più niente del perfetto discorsino da bimbo
pentito che si era costruito mentalmente mentre si faceva la barba. Tolse il
libro da sotto il suo riparo.
“Insomma, sono venuto a riportarle
il libro. Lo so che ho fatto una cosa stupida, me ne pento veramente, ho fatto
una cavolata e… se il libro si fosse sciupato, se lo avessi danneggiato in
qualche modo me lo dica, me lo faccia sapere, potrei finanziare la sua
restaurazione… potrei trovargliene un altro, i soldi non sono per me un
problema. Mi basta solo sapere che lei non mi abbia denunciato, perchè
altrimenti sarei davvero nei guai, mi creda, sarei veramente con
la…”
Un colpo di tosse alle sue spalle lo distrasse completamente
dal suo flusso ininterrotto di pensieri e parole.
Si
voltò.
Un paio di occhi chiari, dietro a lenti cerchiate di lilla.
Una treccia nera che pendeva quasi inanimata dalla spalla destra. Un libro,
tenuto con entrambe le mani, sul petto.
“Posso far parte, almeno
io, del pubblico del suo monologo?”, gli chiese la ragazza.
Georg
la guardò perplessa.
“Beh… ehm…”, prese a
balbettare.
“Cercava il signor Metternich, per caso?”, domandò di
nuovo lei.
“Sì…”, disse Georg.
“Non c’è.”, rispose
lei.
“E… quando potrei… trovarlo?”, fece lui, comprendendo
dell’enorme figura del cavolo che aveva fatto. Avrebbe voluto sotterrarsi in
quell’istante, lì, sotto il parquet scricchiolante della
libreria.
“Non credo che torni più.”, rispose lei, secca e
decisa.
“Ah…”, fece Georg, spiazzato completamente dalla sua
risposta, “E… e… come mai?”
“Oggi c’è il suo funerale.”, disse la
ragazza, abbassando gli
occhi.
Cazzo.
Merda.
“Mi dispiace
tanto… io non lo sapevo che… fosse morto.”, prese a balbettare
Georg.
“Gli è preso un infarto quando ha scoperto che gli avevano
portato via il suo libro preferito.”, disse lei, con lo stesso tono di voce che
aveva sempre utilizzato, cioè perfettamente atono e senza
sfumature.
Cazzo!
Merda!
L’aveva
ammazzato lui!
Ed era venuto a tormentarlo da morto nel sonno per
vendicarsi!
Ora avrebbe vissuto per sempre con il terrore di
addormentarsi per non vederlo più agitare il suo giornale
arrotolato!
Oh cazzo…
Oh merda!
“Stavo
scherzando!”, esplose la ragazza, vedendo la faccia del cliente sbiancare di
colpo e diventare quasi trasparente, “E’ più vivo e vegeto di me, mio nonno
sopravvivrà ai suoi stessi
nipoti!”
Cazzo…
Merda…
Il nonno
libraio era sempre vivo.
Ma la nipote l’avrebbe uccisa Georg
Moritz Hagen Listing con le sue stesse mani!
“Cavolo… mi ha fatto
prendere un accidente!”, disse, mettendosi una mano al petto per evitare di
mettergliela intorno al collo. Provò anche ad accennare ad un sorriso, ma sapeva
che risultava più come una smorfia di odio.
“L’ho visto!”, disse
lei, continuando a prenderlo in giro, “Cioè, le ho detto una mezza verità, a mio
nonno è preso veramente un infarto quando ha visto che il suo libro non era più
al suo posto! Ma era perchè lo avevo preso dallo scaffale, senza dirglielo, e me
lo ero portato a casa!”
Ah…
Oltre al danno anche la
beffa, pensò Georg. Quando lei gli aveva detto del libro preferito
volatilizzato, aveva automaticamente pensato al suo furto…
Sentiva l’antipatia per quella ragazza aumentare fino alle
stelle.
“Piuttosto… di cosa stava parlando prima? Ero intenta a
rimettere a posto alcuni volumi, quindi non l’ho sentita molto bene.”, disse
lei, tornando seria.
“Io? Ehm…”, disse Georg. Gli era stata data
un’opportunità per redimersi… “Sono venuto a restituire questo libro. Lo avevo
preso in prestito ieri ma…”
E l’aveva totalmente sprecata
inventandosi una bugia…
“Ah… ma questa non è una biblioteca… è un
negozio.”, disse la ragazza, prendendo il libro dalle mani di Georg ed
esaminandolo.
“Beh sì ma… vede, mi ero messo d’accordo con suo
nonno per prenderlo in prestito… e se mi fosse piaciuto lo avrei comprato.”,
cercò di rimediare Georg.
“Capisco… ”, disse lei, che per tutto il
tempo che lo aveva avuto in mano lo aveva controllato in ogni particolare,
girandoselo sotto gli occhi.
Inquadrandola bene, quella ragazza
poteva essere la rappresentante nazionale della categoria ‘bibliotecarie
brutte’. Chiusa nel suo golf giallino, abbottonato fino al collo e in un
paio di pantaloni di jeans un po’ larghi, non era per niente una bella
ragazza.
“Ok… adesso avrei da andare… sono un po’ in ritardo.”,
disse, ricambiando il sorriso ed andando verso la porta.
“Sì bene…
che nome devo dire di lei a mio nonno?”, chiese la ragazza.
Georg
ci pensò bene…
Cioè, non ci pensò affatto, perchè quella domanda
significava che lei proprio non l’aveva riconosciuto! Il nonno era vecchio, era
giustificato… ma lei! Era giovane, doveva avere più o meno la sua solita età,
doveva pure averlo riconosciuto!
Però, nel penombra di quel
negozio ammuffito, sicuramente nemmeno uno dei sui omonimi più celebri di lui,
Gorge Clooney, poteva venire identificato con facilità.
“Gli dica
di Moritz. Arrivederci!”, esclamò mentre apriva la
porta.
L’arrivederci di lei fu sovrastato dalle campanelline di
bronzo attaccate al legno. Uscendo fuori dal negozio, gli tornò in mente da che
parte andare e, dopo dieci minuti, era già a bordo della sua macchina, diretto
verso la sala prove.
Era così bello essersi lavato di dosso ogni
colpa!
Secondo capitolo pronto!
Le parti scritte in corsivo
sono prese direttamente dal libro, ovviamente senza scopo di lucro.
Voglio precisare una cosa:
se ci fosse tra voi lettrici qualche appassionata del libro, più che del film,
sicuramente noterà delle imprecisioni, dei particolari ispirati più alla
versione cinematografica. Sono 'errori' voluti, per semplificare.
Do ancora il mio indirizzo
msn, per chi non lo avesse e fosse interessato a scambiare quattro chiacchiere
con me: sil.stellina@hotmail.it
Passiamo ai
ringraziamenti!
CowgirlSara: eheheh, mitico Giorgino! La carne
del gruppo! XD anche Gugu però fa la sua parte 'carnosa' nel gruppo XD non so
quanto altro posso aver rivelato con questo capitolo, ma un po' per volta
capirai dove voglio arrivare... sicuramente comprenderai tutto prima della fine
come sempre!
Picchia: certo che mi hanno contagiato! In
fondo tutte noi siamo un po' bimbominkia!!!! Grazie per i complimenti che mi hai
fatto in recensione e anche per quelli che mi fai su msn! Io spero sempre che
l'alternanza tra reale e fantastico non sia un salto nel vuoto, ma risulti
credibile... ancora però è troppo presto per dirlo! Ci sentiamo!!!
_Princess_: 20 anni? Io ne ho 22! XD E siamo
qua a scrivere sui Tokio Hotel! Sarà l'età che avanza e gli ormoni che
galoppano, io già sto pensando di costruire un recinto elettrificato! Giorgino è
il mio preferito tra i quattro, non c'è che dire, di lui mi piace la sostanza ed
il carattere. E' inutile dire che anche per me La Storia Infinita sia un film
bellissimo, direi anche poetico. Se non hai letto il libro, ti consiglio
volentieri di farlo, si rivelerà una sorpresa! Ti ho anche accontentato, pure
senza volerlo, descrivendo Georg come Atreiu! Scusa se non mi sono soffermata
molto sui particolari, ma non volevo trovarmi col cervelletto in tilt! Grazie
mille per i complimenti, spero che non ti deluderò con l'evoluzione della
storia. Se così invece accadesse, dimmelo subito. Sul serio XD Grazie
ancora!
LaTuM: Ti ringrazio tantissimo per tutti i
complimenti che mi hai fatto, sia per recensione, che per email ed anche per
msn! Veramente, li sento con il cuore! XD non ho molto altro da dirti, se non
grazie ancora, già ti ho detto tutto per msn! Spero di trovarti in linea di
nuovo! Ciaociao!
Sososisu: ma ciaoooooo!!! guarda che se non
pubblichi, per rappresaglia, non pubblico più nemmeno io! XDD no scherzo, non
cedere ai miei ricattini stupidi! Grazie per i complimenti, sono tornata e sono
felice di ritrovare le mie lettrici fidate, con qualche nuova e graditissima
aggiunta! Consiglio anche a te la lettura del libro, che è sicuramente mille
volte meglio del film. Anche se devo dire che il film è totalmente
indimenticabile! Quante volte avrei voluto essere Atreiu!... e dopo questo
capitolo, quanto vorrei essere insieme ad Georgtreiu! XDDD ora basta, ormoni
zitti!
Dark_Irina: ma ciao conterranea! Non hai mai
visto il film! Gravissimo! XD no, scherzo, tranquilla! Spero che non troverai
alcuni passi della fiction oscuri e incomrpensibili, perchè ho dato per scontato
che la maggior parte dei lettori avesse visto almeno il film. Ma non penso che
succederà, in questo caso magari chiedimi spiegazioni, sarò felice di
dartela!
_Pucia_: ah, grazie per questa dichiarazione
d'amore, mi ha fatto molto piacere! XD certo che esiste il libro, l'ho scoperto
quasi per caso due o tre anni, fa e mi diverto ancora a leggerlo! Non si è
capito? XDDD
Lidiuz93: eccola! Mi sei mancata! Davvero non
hai potuto leggere l'altra storia? Peccato! Magari se la leggi fammi sapere
(gustino ha messo lo zampino tra mac e tom per diversi capitoli.... così ti
stimolo alla lettura)
Alanadepp: ecco la regina delle recensioni
senza senso! XDDD beh, che devo dirti! Grazie mille anche a te, mi fa piacere
averti ritrovato, anche su msn! Era tanto che non ci si sentiva! XDD alla
prossima!!!
Come ho detto anche a
Dark_Irina, se ci fossero dei punti in cui la storia risulta oscura, soprattutto
quando cerco di riassumere in poche parole la trama del libro, ditemelo, così vi
spiego meglio!
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
CAPITOLO
3
Quella volta fu lui ad arrivare in ritardo. Era lui che
stavano tutti aspettando in sala relax, seduti, stranamente
tranquilli.
“Ti è successo qualcosa?”, si precipitò a dirgli
Tom.
“Oh no, tranquilli, avevo solo da fare una commissione che mi
ha portato via più tempo del previsto.”, disse Georg, togliendosi sciarpa,
cappello e giacca.
“E cosa dovevi fare?”, continuò a domandargli
Bill, mentre si arrotolava una ciocca di capelli tra le
dita.
Riconsegnare un libro.”, disse Georg, sedendosi pesantemente
sul divano.
“Il solito libro di ieri?”, gli fece Gustav,
abbozzando un mezzo sorriso.
“Sì… quello. E scusami se ti ho
aggredito perchè mi stavi disturbando mentre leggevo.”, gli disse, “Scusami
davvero.”
“Oh no, tranquillo, figurati.”, rispose Gustav, con la
sua solita calma, “Lo sapevo che non eri in te quel momento!”
“Sì,
davvero, non so come ho fatto a perdermi per una cosa del genere!”, esclamò
Georg ridendo.
“Perchè? Che libro era?”, domandò Tom con
interesse.
“Era ‘La storia infinta.’, avete mai visto il
film?”, disse Georg, ingenuamente.
Gli altri tre si guardarono,
poi abbassarono la testa ed i loro occhi si fecero sfuggenti.
“Non
vi ho chiesto se avete visto i vostri genitori fare sesso!”, sbottò lui, stupito
dalla reticenza dei suoi amici.
“Beh… forse un paio di volte.”,
disse Tom.
“Mi associo.”, rivelò Bill.
Gli occhi si
spostarono su Gustav, l’unico che ancora non aveva parlato.
“Va
bene… l’ho visto anche io.”, disse, sentendosi indagato dai loro
sguardi.
“Lo hai restituito in biblioteca?”, gli fece
Bill.
“Sì… una cosa del genere.”, circumnavigò
Georg.
“Una cosa del genere?”, ribattè Tom.
I suoi amici sembravano essere diventati improvvisamente
curiosi.
“Cos’è tutto questo interesse verso quel libro?”, sbottò
Georg, lievemente infastidito.
“Beh… non leggi mai, dici sempre
che non ti piace farlo… parli appunto di doverne riconsegnare uno e a noi pare
strano. Tutto qui.”, spiegò con calma Bill.
“Almeno ti è piaciuto
per quello che hai letto, Georg?”, disse Tom, alzandosi e
stiracchiandosi.
“Sì… era carino, mi aveva anche preso, lì per
lì…”, confidò loro Georg, sentendosi un po’ stupido per quello che
diceva.
“Ah bene, stasera lo danno anche in tv se non sbaglio.
Guarda un po’ il caso.”, disse Bill, sghignazzando, “Sono sicuro che ti metterai
apposta a guardarlo perchè vuoi vedere se è uguale al libro!”
“Sì,
prendetemi pure in giro…”, fece Georg, ridendo.
“Prenderti in
giro?!? Noi?!?! Mai!”, esclamò Gustav, mettendosi una mano sul
petto.
“E sicuramente la settimana prossima ci sarà pure il
seguito in tv… La storia infinita due!”, disse Tom, sbuffando una
risata.
“Ti sei dimenticato del tre, Tom!”, continuò Bill nello
sfottimento generale di Georg.
“Che stronzi che siete.”, fece il
ragazzo, mandando indietro la testa sullo schienale del
divano.
“Sei tu che ti diverti con le robe per bambini!”, fece
Tom, “Non pensi di essere un po’ cresciutello?”
Non ci furono battibecchi, musi lunghi e
liti furibonde. Non c’era Bill che se la prendeva con Tom. Non c’era Tom che se
la prendeva con Bill. Non c’era Bill che se la prendeva con Gustav. Non c’era
Tom che se la prendeva con Gustav…
Insomma, non c’era nessuno che
se la prendeva con qualcuno.
La quiete prima della
tempesta?
Forse sì, forse no.
Tutti sembravano
essersi svegliati di buon umore. Tutti, tranne Georg. A parte la sua personale
condizione, tutto sembrava filare liscio. Non si sentiva in forma, per niente.
Gli facevano male la testa, il collo e le spalle. Pure il fondoschiena, seduto
su quello sgabello scomodo.
Gli pareva di essere un
catorcio.
Non aveva quasi chiuso occhio e, se aveva dormito, aveva sognato
il signor Metternich che lo inseguiva con il suo giornale arrotolato.
Aveva
incontrato la sua nipote antipaticamente crudele.
Gli altri tre lo avevano
preso magnificamente per il culo e, a quando stava intuendo dalle note suonate
da Tom, continuavano a farlo tutt’ora. Bill, sulla melodia del fratello, aveva
preso a cantare la celeberrima colonna sonora del film.
Gustav
sghignazzava alle loro spalle. Anzi, si stava quasi buttando in terra dalle
risate.
E lui, che quando si svegliava male era una belva, sentiva
che qualcosa laggiù iniziava a vorticare
paurosamente.
“Continuiamo per piacere?”, disse, cercando di
ignorarli.
“Ok… va bene…”, fece Bill, prima di scoppiare di nuovo
a ridere, trascinando dietro a sé anche gli altri due.
"Andate a
fanculo, va’!”, esclamò Georg, abbandonando il suo basso e uscendo dalla sala
prove.
Va bene, aveva preso a leggere un libro per bambini… e con
ciò? C’era qualcosa di male? Era punibile secondo codice penale?
No!
E per questo non voleva nemmeno essere preso continuamente per
il culo da quei tre deficienti che, forse, non leggevano quei libri ma, a
vederli, sembravano più che bambini. Se la stava prendendo per una cazzata, ma
siccome gli giravano le palle da quando si era alzato, era più che giustificato.
Andò in sala relax e si buttò sul divano, con le mani dietro la
testa. Tre secondi ed anche gli altri sarebbero arrivati, ricominciando a
sfotterlo perchè aveva fatto il permaloso.
Uno...
Due...
“E
dai, Georg! Stavamo scherzando!”, fece Gustav, affacciandosi nella
stanza.
Ecco il primo.
“Andiamo! Non fare il
bambino!”, disse Bill.
Ecco il secondo. Ora mancava solo la
conclusione perfetta.
“Vuoi che ti vada noleggiare il film così lo
vediamo tutti insieme appassionatamente?”, esclamò Tom, infiocchettando un bel
pacchetto regalo che conteneva un sonoro…
“Vaffanculo!”, gridò
Georg, “Possibile che non sappiate mai capire quando è il momento di finirla con
le cazzate?”
“Piantala Georg! Sei tu quello che non sa stare allo
scherzo!”, fece Bill, incrociando le braccia.
“No, ti sbagli, allo
scherzo ci sono stato finché non è diventato pesante!”, proseguì Georg, che
intanto aveva iniziato a prendere le sue cose, “Siete voi che non riuscite a
contenervi mai.”
Indossò in fretta il giubbotto e la sciarpa e,
sotto gli occhi increduli dei suoi amici, se ne andò.
“Che sia
rimbambito?”, fece Tom, infilandosi le mani in tasca.
“Mah…”,
borbottò Gustav, “Secondo me… è diventato scemo.”
Guidò fino a casa, imprecando contro tutti quelli che si
impegnavano diligentemente a rispettare i limiti di velocità. Lasciò la macchina
nel parcheggio sotterraneo, insieme a tutte quelle dei proprietari degli altri
appartamenti.
Sopra la sua testa, in superficie, stavano tre
blocchi di appartamenti extra lusso. Vi si accedeva tramite un grande cancello,
con una carta magnetica, oppure facendosi identificare dal vigilante, dentro al
suo casottino, accanto al'entrata.
Nei pressi del centro della
città, di recente costruzione, ogni blocco era composto da pochi appartamenti.
Quello dove viveva lui, il terzo, era il più grande: aveva cinque piani, e
quindi cinque appartamenti di minimo centocinquanta metri quadri. L’aspetto
esterno era piuttosto lindo: muri lisci e bianchi, terrazzine, lunghe finestre,
balaustre con colonne.
L’ascensore lo portò direttamente davanti
alla porta di casa sua. Infilò le chiavi ed entrò, lasciandole poi abbandonate a
se stesse su una piccola mensola, affissa al muro, vicino alla porta.
A passi mesti andò verso camera sua e, una volta vicino al letto,
aprì le braccia e vi si buttò sopra, a faccia in giù.
Nei te
chilometri di strade aggrovigliate che aveva percorso, si era pentito di essersi
comportato irragionevolmente, irrazionalmente e deficientemente come aveva
fatto. Gli altri volevano solo scherzare, mica offenderlo! Ma lui niente, pareva
essere diventato ancora più permaloso di Bill.
E tutto per uno
stupido, cretino, idiota, imbecille libro.
E di nuovo, libro per
B-A-M-B-I-N-I.
Quando aveva smesso di essere un bambino? Forse
verso di dodici, tredici anni e in quel momento, che ne aveva venticinque
suonati, era un po’ troppo tardi per attaccarsi a ‘La storia
infinita’.
Sì, era meglio chiamare tutti gli altri e
scusarsi.
Ma lo avrebbe fatto forse più tardi…
In
quel momento aveva sonno, tanto sonno…
Con la mente impastata, non seppe
riconoscere se il trillo che sentiva era il telefono oppure la sveglia… o anche
il citofono. Ma visto che la sveglia sul comodino non dava segni di vita ed il
suo cellulare aveva come suoneria ‘Fear of the
Dark’ degli Iron Maiden, il drin-drin che sentiva era senz'altro il
campanello.
Andò lentamente verso la porta, stropicciandosi gli
occhi e tirandosi le palpebre, per svegliarsi meglio. Guardò dallo spioncino ed
una testolina bionda, dai lineamenti fini, stava ad aspettare che le venisse
aperta la porta. Era Helen.
Con la mano pesante, afferrò la
maniglia e la spinse in basso. Lei, silenziosamente entrò dentro
l’appartamento.
“Ma… hai dormito vestito per caso?”, gli domandò,
squadrandolo per cinque perenni secondi.
“No, è che… sì, diciamo
di sì.”, fece Georg. Era troppo difficile articolare i
pensieri.
“Ah bene…”, disse lei. Poi, dall’impercettibile
movimento delle sue narici, Georg comprese che era meglio andare a darsi una
lavata.
“Accomodati.”, le disse, “Vado a darmi una
sistemata.”
“Ok.”, fece lei, sorridendogli.
Non era
la prima volta che veniva a casa sua, forse poteva essere la quarta o la quinta,
ma sembrava già sentirsi a suo agio. Velocemente, si sedette sul divano, prese
il telecomando ed accese la tv mentre lui non riusciva nemmeno a coordinare i
piedi nel modo corretto.
Ma dopo doccia e vestiti puliti, anche
lui ragionava meglio. Dette uno sguardo veloce all’orologio appeso in bagno…
erano le sei e mezza?!? Aveva dormito ininterrottamente da mezzogiorno, ora in
cui aveva messo piede in casa, fino alle sei e mezza…
E dato che
ci pensava, gli era venuta anche una fame da lupi. Tornò da Helen con l’idea di
portarla a mangiare fuori e gliela propose, ma lei negò con la
testa.
“No, non ne ho voglia.”, fece, con una smorfia, “Ci
facciamo portare qualcosa dal cinese e lo mangiamo qua?”
“Mmhh….
Beh, può andare.”, disse lui. Non gli piaceva molto la cucina cinese, ma poteva
accontentarsi per una sera.
Lei, rapida come sempre, prese il suo
telefono e cercò il giusto nome in rubrica, ordinando ciò che pensava fosse
adatto per entrambi.
L’aveva conosciuta tramite amici di Gustav,
qualche mese fa e, prima lentamente, poi sempre più di frequente, avevano
iniziato ad uscire insieme. Non che si potessero dire fidanzati, tutt’altro, ma
erano semplicemente due che si frequentavano e che stavano bene insieme. Helen
era carina, anzi molto carina, dolce e simpatica. Anche intelligente, lavorava
come assistente del direttore di un noto giornale di moda tedesco e, per avere
solo ventitre anni, era una che ci sapeva fare con gli altri. In pratica,
otteneva sempre quello che voleva.
Dopo aver riposato il telefono,
prese il suo ragazzo per la maglietta ed iniziò a baciarselo di gusto, lasciando
che la televisione continuasse a riportare le notizie del
giorno….
Era una che aveva sempre iniziativa, che non si faceva
trascinare da nessuno. E queste era un particolare che a Georg non andava molto
a genio.
In certe cose, a lui sarebbe piaciuto, diciamo,
‘attaccare il discorso’… Ma, come era successo in quel momento, o era lei
ad iniziarlo, oppure sfoderava la classica e indelebile scusa del ‘scusami ma
ho un po’ di mal di testa’.
Non c’era solo quel particolare
che lo infastidiva un po’, ma anche il fatto che Helen era una persona un po’
troppo diretta. Era una che le cose non le mandava a dire dietro, le diceva
direttamente in faccia, senza preoccuparsi di cosa poteva scatenare nell’altro.
Poteva essere un pregio, a volte, ma spesso nelle sue mani diventava un’arma per
mettere in ridicolo gli altri.
Una volta lo aveva fatto con Tom e
lui, se non fosse stata una bella ragazza, le avrebbe quasi risposto con un bel
‘vaffanculo nana’, data la sua bassa statura. Ma siccome era carina aveva
chiuso un occhio ed era passato sopra al suo ‘il look hip-hop trasandato
andava moda negli anni ottanta, aggiornati’.
Non erano anime
gemelle, anzi, tutt’altro: solo due persone che si trovavano bene insieme, senza
volersi impegnare né obbligarsi in qualcosa di più. Fine della
questione.
Un drin-drin interruppe la loro attività
promiscua.
“Merda!”, esclamò Helen, prendendo a
rivestirsi.
“Dai… vado io.”, disse Georg.
“No,
faccio io.”, fece lei, dandogli un bacio schioccante.
Il fattorino
la attendeva alla porta con le sue buste colme di cibo e, dopo averle
ripassate nel microonde, si servirono la cena sul divano.
“Scusami
ancora per ieri sera ma è stata una giornataccia. Anzi, è stata pessima.”, le
disse Georg, mentre si mangiava i suoi spaghetti alla
non-sapeva-che-cosa.
“Non ti preoccupare, ne ho fatto un dramma
per niente.”, fece Helen, arricciando il suo nasino, “Cosa è
successo?”
“Sembravano tutti incazzati, o meglio, lo erano
davvero. Alla fine ce ne siamo dovuti tornare a casa per fatti nostri dopo
nemmeno mezz’ora di prove.”
“Mi dispiace.”, disse lei, “Di chi era
la colpa?”
“Di tutti e di nessuno. Ognuno aveva i suoi motivi per
essere arrabbiato.”
“E il tuo qual era?”, gli
chiese.
Georg preferì tacere sulla questione, inventandosi che si
era alzato male.
“E oggi? E’ andata meglio?”
Tacque
anche su quello, dicendole solo una parziale verità, cioè che si era un’altra
volta levato con la luna di traverso.
“Come mai? Dormi poco la
notte?”
E di nuovo sviò la risposta.
“Mi dispiace
che in questi ultimi tempi siate un pochino in crisi.”, fece lei, “Ma vedrai che
tutto si risolverà, è solo una cosa passeggera.”
“Sì, lo spero
anche io. Ovviamente sai cosa devi fare.”, disse Georg, guardandola
seriamente.
Lei si passò due dita sulla bocca. Se l’era
immaginariamente cucita.
Finirono di mangiare in silenzio, guardando
distrattamente la tv.
“Non c’è nient’altro in tv?”, fece Helen,
afferrando il telecomando ed iniziando a fare zapping alla ricerca di qualcosa
di interessante.
Ogni canale veniva rimpiazzato da un altro nel
giro di pochissimi secondi e, tra un’immagine sospesa ed
un’altra…
“Ferma! Torna indietro…”, esclamò
Georg.
“Visto qualcosa di interessante?”, disse l’altra, facendo
zapping al contrario.
“Ecco… ferma qui.”, fece
lui.
Trasmettevano l'immagine di un ragazzino che, in quella che
pareva una vecchia soffitta, stava spostando un materasso e, dopo averci
appoggiato sopra il suo zaino, vi si sedette a gambe incrociate, con un libro
aperto tra le mani.
“Che film è?”, fece Helen,
spazientita.
“Sembra… curioso.”, balbettò Georg, cercando di
sembrare il più disinteressato possibile.
Il bambino iniziò a
leggere e….
“Ah! Sì, ho capito… è quella storia infinita… due
palle!”, esclamò Helen, cambiando inaspettatamente canale.
“E
dai!”, protestò Georg, cercando di riprenderle il telecomando di mano “Rimettilo
lì.”
“No, io non lo voglio vedere.”, fece lei, sfuggendogli, “Non
l’ho mai sopportato.”
“Perchè?”, le chiese.
“Perchè
è uno di quei classici film dove ti dicono sempre di credere ai tuoi sogni ed
alle tue speranze… mpf! Ma fatemi il piacere! Rifilare queste sciocchezze ai
bambini può far loro solo del male!”, sbottò lei, “E poi siamo troppo grandi per
vederlo.”
Era inutile obiettare. O faceva come voleva lei, oppure
c’era da litigare. E visto che lo aveva già fatto una volta quella mattina,
poteva anche piegarsi alla sua volontà.
Comunque aveva ancora una domanda da
farle.
“E tu cosa sognavi, da bambina?”, le chiese, quasi con aria
di sfida.
“Di diventare una fotomodella.”, rispose lei, con una
smorfia sulla faccia.
“E perchè non hai seguito il tuo
sogno?”
“Perchè sono troppo bassa. La realtà dei fatti ha
costretto il mo sogno a frantumarsi. Ecco perchè i bambini dovrebbero crescere
con il vero senso delle cose. Così quando diventano grandi e capiscono come gira
veramente il mondo non ne rimangono delusi.”, disse lei, amaramente, “E il tuo?
Qual era il tuo sogno?”
“Beh… diventare un musicista, ci ho
creduto e lo sono diventato.”, le rispose.
Lei rimase un attimo in
silenzio, poi spostò i suoi occhi sullo schermo e riprese a fare
zapping.
“Questione di culo. Ti sei trovato con le persone giuste,
nel momento giusto e nel luogo giusto.”, sibilò lei, quasi pareva
invidiosa.
Se veramente non avesse già perso il controllo quella
mattina con i ragazzi, l’avrebbe sbattuta fuori di casa in quell’istante,
dicendole che non la voleva più vedere.
Ma era stata fortunata.
E lui era comunque sempre troppo buono con
lei.
“Guarda, questo sì che è un bel film.”, disse Helen, che non
si era accorta dello stato fumogeno in cui riversava Georg, “Ti
dispiace?”
“Che cosa è…”, fece lui,
sconsolato.
“Guardia del corpo… quello con Whitney Houston…”,
disse lei, contenta.
Gesù… era il film che odiava più di tutti in
assoluto.
“Vai… inizia pure a guardarlo, io devo fare una cosa nel
frattempo.”, le disse, alzandosi dal divano.
“E cosa?”, fece lei,
guardandolo interrogativamente, quasi scocciata.
“Una… cosa… di
là.”, balbettò, chiudendosi in camera.
Non aveva da fare un cazzo,
ma si mise a girellare per la sua stanza a raccogliere i vestiti sparsi a terra
ed a riassettare il letto ancora disfatto. E poi doveva farsi passare la rabbia
che gli era fermentata dentro, altrimenti sarebbe scoppiato in un eccesso d’ira
poco appropriato. Non gli piaceva dare di matto, lo odiava, e preferiva sempre
ritrovare la calma, piuttosto che urlare in faccia alla
gente.
Dopo qualche minuto Helen bussò alla sua porta,
chiedendogli se c’era qualcosa che non andava.
“No, tranquilla, è
tutto a posto.”, le disse. Stava mettendo nel sacco bianco di cotone tutti gli
abiti da lavare, così quando la mattina successiva sarebbe venuta la domestica
li avrebbe sistemati lei.
“Credo che tu te la sia presa per
quello che ti ho detto. Non è così?”, fece lei, appoggiandosi allo stipite della
porta.
Georg sospirò e contò fino a dieci.
“No, ti
ho detto che va tutto bene. Adesso fammi finire qua, poi torno da
te.”
“Ma hai una domestica, falle fare a lei queste cose.”,
ribatté Helen, continuando a provocarlo.
“Ci metto solo altri
cinque minuti.”, disse Georg, sperando di essere più che
convincente.
“Guarda che possiamo vedere un altro film, se vuoi.”,
disse Helen, indicando la televisione alle sue spalle.
“Ti ho
detto che arrivo subito!”, le gridò contro Georg, “Perchè devi sempre ribattere?
Perchè non capisci mai quando è il momento di… chiudere quella maledetta
bocca!”
Ecco.
Lo aveva fatto.
Era
esploso di nuovo.
Lei, da prima sorpresa, poi straniata ed infine
incazzata, si voltò sui tacchi, prese la sua roba e, senza dire una parola, uscì
dall’appartamento.
Georg buttò a terra gli abiti raccolti, dando
loro un calcio e facendoli volare per aria.
Si sedette sul letto
sospirando.
Che cosa gli stava succedendo?
Perchè
era diventato così irascibile?
Non lo era mai stato.
Mai.
Sempre tranquillo, calmo e
pacifico.
Make love not
war
Eppure ultimamente
non aveva fatto altro che perdere il controllo per niente. A dire il vero, Helen
gli aveva dato un buon motivo per incazzarsi: in pratica gli aveva detto che
aveva avuto successo solo per culo!
Ma il resto delle volte?
Non aveva senso, per niente.
Ultimamente, tutto
sembrava andare storto.
I discografici avevano affilato i denti
per stritolarli ben bene.
Il loro sesto album non stava
raggiungendo il tetto delle vendite dei precedenti: era in vetta alla classifica
da quando era uscito, cioè da ben quattro settimane, ma al terzo posto, mai al
primo. I singoli si erano fermati massimo al quarto. La critica era stata come
una ghigliottina: aveva mozzato le loro quattro teste, definendo le loro nuove
canzoni come ‘una maionese impazzita dei vecchi
successi’.
Alcune date erano saltate perchè l’organizzazione
del tour aveva combinato dei casini tremendi. Su venti concerti, nemmeno uno era
andato in sold out. Il resto aveva venduto solo poco più della metà dei
biglietti.
I giornalisti stavano ricamando rose e fiori su di loro
ed il titolo più quotato sulle riviste era: Tokio Hotel, bolla di
sapone?. Cavolo, erano quasi dieci anni che erano diventati famosi ed ancora
stavano lì a discutere sul fatto che fossero stati solo una meteora di inizio
millennio o un gruppo destinato a durare!
Ma il problema più
grosso era che il gruppo non era più unito come una volta. La pressione dei
media, della casa discografica, le critiche pesanti, la sfiga che dilagava…
insomma, era inutile stare a psicoanalizzare ogni singola causa del loro
apparente declino. Quello che stava succedendo a loro era capitato a milioni di
altri gruppi famosi e si poteva immaginare benissimo senza stare troppo a
dilungarsi.
Ma siccome era una persona ottimista, era uno che
stringeva i denti ed andava avanti, non si era mai fatto prendere dallo
sconforto. Sperava semplicemente in un tempo migliore, in un
riscatto per lui e per gli altri. Prima o poi sarebbe arrivato. E se non
succedeva, allora fanculo a tutto. Si sarebbe speso tutti i soldi in droga e poi
lo avrebbero ritrovato morto in una camera d’albergo, abbandonato a se
stesso.
Sì, certo, Georg avrebbe fatto quella fine? Sbuffò,
scazzava anche nei pensieri.
Si tolse dalla camera e tornò a guardarsi la
tv. Dopo qualche minuto di zapping, la tv venne fermata su un canale preciso e,
visto che non c’era nessuno a prenderlo per il culo, si guardò pacificamente
quel film così tanto criticato dai suoi amici e dalla sua
ragazza.
“Ma questa è un’altra storia…”, fu la frase
pronunciata dalla voce fuoricampo che concluse il film.
Beh, la
tecnologia e gli effetti speciali utilizzati non erano molto di qualità, o
meglio, al momento in cui fu girato erano state utilizzate sicuramente le
migliori avanguardie cinematografiche ma ora si vedeva lontano un miglio che
tutte le creature fantastiche erano degli manichini animati.
Tutto
sommato non era stato poi un filmaccio, come lo avevano dipinto. Aveva una
morale un po’ classica, cioè credere nei sogni e nelle speranze perchè
altrimenti la vita si sarebbe ridotta ad una sorta di automazione robotica. Il
Nulla era quindi il male cagionato dal mondo reale su quello fantastico: la
perdita della speranza e dell’immaginazione dell’uomo si ripercuotevano su
Fantàsia, facendola inghiottire dal Nulla.
Non aveva potuto
seguire il film dall’inizio, lo aveva preso dal momento in cui Atreiu perse il
Fortunadrago Falkor in una tempesta causata dal Nulla. Lui non aveva letto
niente del genere nel libro, si era arrestato molto prima e gli venne la
curiosità di sapere quanto la sceneggiatura cinematografica si fosse accostata
alla storia descritta dall’autore. Sicuramente, quel Michael Ende aveva avuto
un’immaginazione fervidissima per scrivere qualcosa del genere. Lui non ne aveva
mai avuta molta, non si era mai perso in visioni di mondi come Fantàsia…
Se fosse vissuto nella Storia Infinita, poteva sentirsi in parte
responsabile del dilagare nel Nulla!
Sorrise a quel pensiero,
prima di mettersi sotto le coperte ed addormentarsi.
Ta-dah!
Eccomi ancora con il nuovo capitolo!
Qualcuna di voi
ha commentato dicendomi che i capitoli sono più corti del mio solito... sì, è
vero, mea culpa! Mi metterò sui ceci, in ginocchio, in compagnia di
Georg...
Per adesso siamo solo all'inizio, siamo ancora in
fase di transizione, diciamo che ogni capitolo mi serve per introdurre qualche
elemento nuovo oppure specificare una situazione già precedentemente
rappresentata...
Dopo questa specificazione, passo ai
ringraziamenti!
CowgirlSara: lo so che nella tua menticella già si sta
formando il possibile risvolto della trama! Lo so! Lo so! Ti conosco, tu e i
tuoi filmini! XD Sono sicura che già stai fermentando.... a proposito! E con
Georg, l'altra sera? eheheh!
_Pucia_: sisi, l'autore Michael Ende è tedesco,
precisamente di Garmish. Ci hai proprio indovinato, ho solo tenuto nascosto
questo particolare perchè non lo ritenevo importante. Dopo aver letto che Georg
veramente non legge libri, ho pensato: magari manco lo sa che è suo
connazionale! XD Supposizione mia, personale, magari poi è stato suo vicino di
casa... chi lo sa? XDDD Brava! Complimenti!
Dark_Irina: se ti sei informata da sola, benissimo! XD se ti
sei anche vista il film, nel frattempo, meglio ancora! Grazie per la
recensione!
LaTuM: eheheh, che i libri siano pericolosi è cosa
risaputa! Pericolosissimi, e Georg ne imparerà a sue spese... via! Ho detto
troppo! XD bene, hai parlato della bibliotecaria bruttina... mmm, personaggio
che si rivelerà molto interessante (insieme al nonno psicotico!)... Il tuo amico
Mulo ti ha fornito il film? Benebene! Guardatelo attentamente! Ma sappi che gli
accenni che faccio sono sul libro, che è per molto versi totalmente differente
dal film... era tanto per dirtelo, se non ce la fai a leggerlo tranquilla! Su
wikipedia c'è il suo riassunto (fatto male, ma c'è). Ci sentiamo su msn!
Ciaooo!
Picchia: i tuoi maledetti amichetti ora sono recintati,
ho usato il filo elettrificato, così se tentano la fuga se prendono la scossa!
Eccheppalle! Sto Georgtreiu mi sta facendo andare il cervello in pappa... grazie
per aver notato il sarcasmo nascosto nelle mie descrizioni! Come ho detto prima
di iniziare i ringraziamenti, questi primi capitoli servono ad introdurvi nella
mia mente malata... già dal prossimo si aprirà la storia vera e propria! Quindi
hai ragione tu: la calma prima della tempesta...
Kltz: ho letto il tuo nome spesso tra l'elenco dei
preferiti delle mie storie! Ma che piacere trovare una tua recensione! Grazie
mille, davvero! Spero che tornerai di nuovo a lasciare un 'pensierino', come li
chiamo io! E grazie per i complimenti, su questo sito spesso è il nome ad
attirare i lettoni, non tanto le storie!
_Princess_: allora siamo in due, perfetta reincarnazione dei
nostri sogni notturni! eheheh! Lui si sogna di essere Atreiu e noi sognamo lui!
Hai colto perfettamente nel centro!
Sososisu: eeeeehhhh non sei l'unica con il cervello in
folle per il nostro amato Giorgino! Secondo me sta iniziando a riscuotere un
certo successo in questa sezione... coalizziamoci! Portiamo il suo nome oltre i
confini di Fantàsia... ok, basta con lo sclero, cerchiamo semplicemente di
aumentare la sua popolarità, visto che di storielline su tom e bill ce ne sono
già anche troppe! Occupiamoci anche del tenero Gugu... poverino, si sente solo
e poco considerato...
Lidiuz93: scusa se non ho risposto alla tua mail, ho
preferito ringraziarti per i complimenti sull'altra storia qui, adesso! Grazie
quindi per la recensione adesso e per la mail, sono felice che ti siano piaciute
entrambe le storie!
Alanadepp: nono, tranquilla, non farò alla My Fair Lady! O
forse sì... o forse no? Ecco, vedi! Anche io per ringraziare te parto con la
disconnessione mentale! ehehehe! .... credevi diventasse il cavallo? Non sarebbe
stato niente male... un bello stallone.... aspetta, mi asciugo la bavetta... ok,
basta, sennò poi mi disconnetto veramente! eheheh!
Ciribiricoccola: non sai quanto ci metto per scrivere il tuo nick,
ogni tre secondi sbaglio... tra ciribiricoccola e chichibio mi si sono attrigate
le dita! Eccoti il terzo capitolo! Spero che la tua ansia sia diminuita,
altrimenti c'è lo xanax, funziona! ehehehe! Ci sentiamo bella!
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
CAPITOLO
4
Davanti alla porta di vecchio legno tarlato e vetro
opaco, stette almeno tre minuti a pensare se avesse fatto bene ad entrare oppure
no. Non sapeva il motivo di tutta quella indecisione, fatto stava che la sua
mano era appoggiata al pomello senza avere intenzione di spingerlo in
avanti.
Alla fine prese un profondo respiro e lo fece. Di nuovo,
lo scampanellio si diffuse per tutta l’angusta libreria e, tra due file di
scaffali, comparvero gli occhiali color lilla.
“Buongiorno!”,
esclamò la ragazza e poi, dopo qualche secondo, “Tu sei il ragazzo di
ieri.”
“Sì, sono io.”, fece Georg, togliendosi gli occhiali da
sole.
Lei gli sorrise e gli fece cenno che poteva dirle cosa
desiderava.
“Ehm… il libro… quello che ho riconsegnato.”, prese a
balbettare.
“Sì?”, fece lei, disse lei,
avvicinandosi.
“Ce lo ha ancora?”, chiese.
“No. Lo
abbiamo venduto.”, disse la ragazza, aggiustandosi gli occhiali sul
naso.
Georg rimase qualche secondo in silenzio, aspettandosi che
lei gli dicesse che stava scherzando.
“No, non sto scherzando. Lo
abbiamo venduto sul serio.”, disse poi ridendo, come se gli avesse letto la
mente.
“Ah…”, fece Georg, mascherando la sua
delusione.
“Per un attimo ci siamo anche spaventati, quando non lo
abbiamo trovato in negozio, l’altro ieri.”, proseguì lei, tornando tra gli
scaffali per riprendere il suo lavoro, “Avevamo in programma questa vendita da
diverso tempo ormai…”
Mentre parlava, prendeva i libri, se li
rigirava tra le mani, li esaminava attentamente, li catalogava su un grosso
quaderno appoggiato su uno sgabello e poi li riponeva tra gli
scaffali.
“Mi dispiace aver causato tutti questi danni, io non mi
ero neanche lontanamente immaginato che…”, prese a dire Georg, accortosi della
gravità della sua azione, ma poi lei lo interruppe.
“Oh no! Si
figuri! E’ stata tutta colpa di mio nonno. Sa, è un po’ arteriosclerotico e,
quando lo ha prestato a lei, non si è ricordato che lo stavamo per vendere. Poi,
ovviamente, si è anche completamente dimenticato di lei. Quando mi ha
riconsegnato il libro, glielo dico sinceramente, mi ha fatto resuscitare!”, gli
rivelò lei.
“Ah!”, esclamò Georg, ridendo.
“Ancora
non riusciamo a fargli capire che non ha più l’età per lavorare… io sono qua
dentro da un anno, per aiutarlo, e a volte penso di impazzire! Sposta i libri,
dimentica tutto, mi fa perdere la pazienza!”, disse lei, ridendo, mentre
annotava sul suo quaderno, “Comunque, a parte questo… desidera
qualcos’altro?”
“Beh… mi sarebbe molto piaciuto continuare la
lettura di quel libro.”
La ragazza posò la sua penna e lo guardò
un po’ straniata.
“Dice sul serio?”, gli
chiese.
“Sì… a parte tutto, si è rivelato essere un bel libro.”,
fece, sentendosi piccino come una mosca per l’imbarazzo.
“Beh, mi
dispiace, come le ho detto non è più in nostro possesso e quella era l’unica
copia che avevamo. Ma se vuole abbiamo altri capolavori della narrativa
fantastica da leggere.”, disse lei.
“Ho capito… va bene, come non
detto.”
“Mi dispiace… Quella era una particolare edizione, per
appassionati di collezionismo. Valeva anche molto.”, gli spiegò lei, “Ho la
possibilità di farle avere un’altra copia, ma sicuramente nel giro di mezz’ora,
se va in un’altra libreria, lo troverà anche in edizione
economica.”
“Va bene… allora arrivederci.”, le
disse.
“E’ stato un piacere rivederla.”, disse la ragazza,
porgendogli la mano e sorridendogli.
Nessun segno di
riconoscimento sulla sua faccia. Proprio non aveva capito chi era. Meglio così,
gliene importava il giusto. Dette una sistemata al suo codino, inforcò di nuovo
gli occhiali da sole ed andò verso l’uscita.
L’altra volta gli era
rimasta più antipatica, ora era stata più professionale e gentile con lui.
Sempre nel suo maglioncino giallo a bottoni e in una gonna grigia che le
arrivava al ginocchio, continuava a personificare il prototipo della
bibliotecaria brutta.
“Non è poi così male.”, sentì dire dalla
ragazza.
Con la mano appoggiata alla maniglia, si voltò e le
chiese cosa avesse detto. Lei, in mezzo al corridoio, se ne stava con le mani
congiunte.
“Intendevo… il vostro nuovo album. Non fa tanto schifo,
a me piace molto. Forse, come dicono le recensioni, non è molto originale
rispetto agli altri, ma è sempre bello.”, disse, aggiustandogli nervosamente gli
occhiali da vista.
“Ah… pensavo che non mi avessi riconosciuto.”,
disse Georg, sorpreso.
“Beh… sono cieca come una talpa, ma quando
voglio ci vedo più che bene!”, fece lei, ridendo, “Mi dispiace che la stampa vi
dia tanto contro.”
“Cosa ci vuoi fare, ce la dobbiamo sorbire e
basta.”, le rispose.
Lei gli sorrise di nuovo, gli fece cenno con
la mano e se ne tornò tra gli scaffali.
“Quando potrò tornare per
il libro?”, le chiese.
Fu lei quella volta a chiedere di poter
ripetere, affacciandosi di nuovo nel corridoio.
“Il libro… torno
la prossima settimana?”, si specificò meglio.
“Anche dopo
domani!”, fece lei, ridendo.
Quando entrò dentro la sala relax, trovò David seduto
sul divano, che si massaggiava le tempie. Brutto
segno.
“Buongiorno…”, gli domandò, “Cosa c’è?”
“No,
niente, solo un problema da risolvere.”, rispose lui.
“Che genere
di problema? Grave o no?”
“Dai, Georg, è tutto a posto,
tranquillo.”, cercò di rassicurarlo David, ma non fu
efficace.
“Sembra che tu non abbia dormito da un mese. Cosa c’è?”,
gli fece, risoluto.
David sospirò ed appoggiò la schiena contro il
divano.
“Due date in Spagna su quattro sono saltate. Non abbiamo
venduto abbastanza biglietti.”, gli rivelò.
Ecco qual era la
questione…
“Avevamo stabilito una soglia al di sotto della quale
il concerto non si sarebbe tenuto e… è risultata essere un po’ troppo alta.”,
specificò David.
“E… e adesso?”, fece Georg, mentre si toglieva
annoiato la giacca e la sciarpa. Quella notizia proprio non ci
voleva.
“Che cosa adesso? Quale soglia?”, esclamò Gustav, entrando
sorridente nella sala relax.
“Alcune date spagnole sono saltate
perchè non abbiamo venduto i biglietti che ci aspettavamo.”, gli spiegò Georg,
facendo decadere il sorriso che aveva sulla sua faccia.
“Davvero?
Ma siete sicuri?”, chiese Gustav, grattandosi la testa, con il giubbotto tra le
mani, “Ma… abbiamo sempre fatto il sold out in
Spagna.”
“Evidentemente adesso non più.”, disse
Georg.
“Non capisco cosa abbiamo fatto di sbagliato questa
volta.”, fece Gustav, “Non mi sembra che l’album faccia così schifo! Per me era
ottimo come tutti gli altri!”
“Forse siamo passati di moda,
Gustav.”, disse Georg, “Forse non abbiamo tenuto conto che un cambio di stile
poteva farci più che bene…”
“Appena lo sapranno gli altri due… non
voglio nemmeno immaginarmelo…”, disse Gustav amaramente.
Ed
infatti, quando Bill e Tom arrivarono e lo seppero, non la presero tanto bene.
Tom se la rifece inaspettatamente col fratello, accusandolo di essere il
problema fondamentale del gruppo.
“Le tue canzoni fanno schifo
Bill, sono sempre tutte uguali!”, gli diceva.
“Guarda che le
scriviamo tutti assieme!”, gli rispondeva l’altro, giustamente perchè la sua
affermazione era più che veritiera.
“Sì, ma mentre noi altri
eravamo più propensi a buttarci verso melodie più rock… tu sei voluto rimanere
nelle solite canzoncine!”, contrattaccò Tom.
“Non è vero, non sono
stato io, è stata una decisione presa da tutti! Quindi è colpa di tutti noi se
questo album fa schifo e non vende! Non prendertela con me solo perchè abbiamo
già litigato una volta stamani!”, lo zittì Bill.
“Tom, tuo
fratello ha ragione.”, provò a dire Gustav, “E’ il gruppo che compone le
canzoni… non lui e basta. E’ colpa di tutti noi se stiamo andando
male.”
“Sì, Tom, è così…”, annuì Georg.
Era quella
la verità.
“Abbiamo perso un pochino il nostro smalto. Vorrà dire
che ci impegneremo di più la prossima volta.”, fece Gustav, anche lui
naturalmente ottimista.
“Se ci sarà una prossima volta!”, esclamò
Tom, “Se l’album va così male, la casa discografica ci straccia il contratto in
mano e ci troveremo col culo per terra!”
“Guarda che non abbiamo
mica venduto tre copie, adesso siamo al terzo posto qua in Germania! Vorrà dire
qualcosa!”, disse Bill, “E anche nelle altre nazioni… non dico che siamo al
primo, ma quasi!”
“Io non sono così ottimista come voi. Anzi, la
vedo piuttosto brutta. Se in Spagna abbiamo dovuto cancellare tre date su
quattro, secondo me si scatenerà una specie di effetto a catena… e non saranno
le uniche date a saltare.”, fece Tom, esponendo chiaramente il suo pessimistico
punto di vista.
“Vedremo col tempo, adesso non possiamo pensarci.
Dobbiamo provare.”, disse Georg, guardando il suo orologio.
Mentre
suonavano, pensava a cosa sarebbe potuto davvero succedere… Tom poteva averci
visto bene: se si fosse veramente avviato il domino, era probabile che anche
nelle altre nazioni sarebbero state cancellate alcune date. Per non parlare di
quello che stava per raccontare la stampa, appena lo avesse saputo! Sicuramente
nei prossimi periodici già si sarebbe parlato della disfatta totale dei Tokio
Hotel!
C’era da impegnarsi, da buttare fuori il sudore. Potevano
fare poco, tranne che rimboccarsi le maniche, studiare per bene le canzoni e
puntare tutto sui concerti. L’album non era abbastanza rock? Allora lo sarebbero
stati on stage, sul palco. La pubblicità non era stata efficace a fare vendere
il loro prodotto? Ci avrebbero pensato loro dal vivo.
Di solito,
succedeva sempre che dopo il tour c’era un lieve incremento delle vendite.
Secondo lui quella era la strategia giusta per rimettersi in carreggiata. E
dovevano finirla di litigare, di prendersi a brutte parole e di accusarsi a
vicenda. Quel difficile momento li stava mettendo alla prova e loro non dovevano
fallire, assolutamente.
Mentre stavano provando ‘Wir sterben
niemals aus’, David entrò dentro alla sala prove,
interrompendoli.
“Brutte notizie?”, fece Bill, posando il
microfono sulle gambe.
“No, fortunatamente ne ho una buona. Sono
riuscito a contrattare con la redazione di Viva per farvi fare un’esibizione
unplugged… tanto per vedere se riusciamo a tirare su un po’ l’audience
dell’album… L’abbiamo fissata per la prossima settimana, esattamente per
venerdì.”, disse David, sperando di far loro cosa
gradita.
“Beh… oggi è mercoledì… c’è un po’ troppo
poco tempo… non ce la faremo mai a prepararci.”, fece Tom, dopo un rapido
calcolo mentale.
“Vorrà dire che ci chiuderemo qui dentro e ci
faremo un culo così.”, disse Gustav, contento dell’opportunità che era stata
loro data.
“Sì, ma io ho una vita privata al di fuori di qua!”,
sbottò Tom, poco gentilmente.
“Però sei il primo a sparare a zero
su di noi, ad accusarci di essere la rovina del gruppo!”, lo riprese Bill,
esasperato al massimo dall’atteggiamento inconcludente ma critico del
fratello.
“Ragazzi! Ragazzi!”, esclamò Georg, prendendo le redini
della situazione, “Basta litigare. Ora lavorare. Cerchiamo di non strozzarci con
le nostre stesse mani.”
Deciso e sicuro, riuscì a ristabilire la
calma e ben presto finirono le canzoni da provare. Nel pomeriggio, si
ritrovarono di nuovo chiusi nello studio, così come il giorno successivo. Non
mancarono momenti di tensione, provare per tre ore consecutive la mattina e per
quattro nel pomeriggio avrebbe sfiancato anche il più stacanovista dei
musicisti. Ma era bene non farsi scappare quell’occasione, quell’esibizione live
in unplugged poteva segnare, anche se durava solo 45 minuti, l’inizio della
fine… oppure la fine della sfiga.
***
Si
rigirava il cellulare in mano, cercando di capire se era una buona idea
richiamare Helen oppure no. Non la sentiva da quando avevano litigato, anzi, da
quando l’aveva aggredita verbalmente, due giorni prima.
Lei non
aveva chiamato, forse ancora era arrabbiata. O forse lo aveva mandato
letteralmente a quel paese. Era meglio accertarsene.
“Mi fanno
male le mani…”, si lamentò Gustav, mentre se le scaldava aprendo e chiudendole
continuamente.
“Dai, non fare il bambino.”, gli fece Tom, “Anche
noi siamo stanchi.”
“Voglio andare a casa… sono disfatto.”,
riprese Bill, “Che ne dite se stasera stendiamo qui e riprendiamo domani…
Abbiamo gia fatto due ore di prove, può anche bastare.”
“No,
dobbiamo fare di più. Faccio questa chiamata e poi ripartiamo.”, fece Georg,
prima di mettersi il telefono all’orecchio ed allontanarsi un po’ dai
tre.
Attese per qualche secondo, poi Helen
rispose.
“Ehm… ciao…”, le fece, non sapendo come
esordire.
“Ciao… che vuoi.”, rispose lei,
secca.
“Volevo solo… insomma, mi volevo
scusare.”
“Mh… e poi?”
“Beh… scusami, ho
fatto una cazzata. Non ti dovevo aggredire in quel modo, ero solo molto nervoso
e… ho perso il controllo, scusami ancora.”
“Senti, adesso ho da
fare… ti chiamo io più tardi. Ciao.”, fece lei, chiudendo ermeticamente la
chiamata.
In quel momento prese una decisione: se lo richiamava,
va bene, tutto a posto. Se non lo richiamava, tante grazie. Ad essere sincero
non era poi così tanto pentito di averla trattata in quel modo… ma con lei, in
fin dei conti, ci stava bene.
Chiuse il telefono e richiamò gli
altri al lavoro.
Si
rallegrò nel vedere un piccolo fascio di flebile luce oltrepassare il vetro
opaco della porta della libreria. Erano le sei, le prove erano finite circa una
mezz’ora prima e la punta delle dita della mano destra gli facevano un male
cane. Entrò dentro, rallegrandosi del caldo che trasmetteva quell’atmosfera un
po’ cupa e legnosa del locale.
La poltrona si girò si se stessa
ed il vecchietto, con un libro sulle gambe, prese a scrutarlo da capo a piedi.
Georg si bloccò, come se fosse stato pietrificato dallo sguardo della medusa.
L’ometto, reggendosi la pipa, che emetteva sbuffi di fumo, per un attimo sembrò
non ricordarsi di lui…
“Tu sei quello che entrò l’altro giorno…
quando pioveva.”, fece, alternando parole a fumo.
“Sì… sono io.”,
disse Georg piano, avendo quasi paura.
“Mh…”, fece l’altro, “E
cosa sei venuto a fare?”
“A comprare un libro.”, fece, come un
sussurro.
“Cosa?”, esclamò il vecchietto, evidentemente un po’
sordo.
“A comprare un libro, signore.”, disse Georg, aumentando il
volume della voce.
“Pensavo fossi tornato a rubare!”, disse
l’ometto, rimettendosi in bocca la pipa e rivoltando la
poltrona.
Cazzo… altro che vecchio rimbambito come diceva la
nipote.
“Nonno! C’è qualcuno?”, sentì dire proprio dalla ragazza,
che doveva essere da qualche parte nello studio.
“No, non c’è
proprio nessuno, parlavo da solo!”, rispose lui, indignato ma con sarcasmo, “Non
sono così pazzo come credete voi!”
Un rumore di passi in
avvicinamento. Sua nipote sbucò fuori dalla porta vicino alla scrivania dove
stava leggendo l’arzillo nonnetto.
“Bentornato!”, disse, porgendo
la mano al ragazzo.
“Adesso ho capito tutto!”, sbottò il vecchio,
dopo averli osservati per qualche istante, “Tu sei venuto a corteggiare mia
nipote, non è vero? Io li conosco i tipi come te! Siete tutti
uguali!”
“Nonno, per carità…”, fece la ragazza, avvicinandosi a
lui, “Non importunare i clienti.”
“Clienti un corno! Lo sai cosa
stava facendo l'altro giorno prima di entrare qua dentro? Lo
sai?!?”
“Sì, nonno, lo so cosa stava facendo.”, disse lei
accondiscendente, mentre cercava di farlo calmare.
“Era inseguito
da delle ragazze che volevano arrabbiarsi con lui! E’ un donnaiolo! Ascolta tuo
nonno, una volta ogni tanto, noi vecchi siamo la voce della saggezza!”, continuò
a sbraitare l’ometto, mentre la nipote non sapeva più che pesci
prendere.
“Nonno, per favore. Questo ragazzo è un cliente. Se
continuerai così lo farai scappare.”
“Mpf! Cliente! Si chiamano
così oggi i fidanzati! Ma fammi andare nel mio studio… e controlla che non rubi
niente!”, fece lui, scendendo dalla sua poltrona ed avvicinandosi a piccoli
passi alla porta dello studio. Si voltò, dette ancora una rapida occhiataccia al
ragazzo, fece sbuffare la pipa e poi chiuse l’uscio.
Georg non
sapeva se scoppiare a ridere o se scappare via.
“Lo perdoni ma… ma
oggi ci sta meno del solito con la testa.”, disse la ragazza,
imbarazzatissima.
“Ti ho sentito!”, gridò il vecchietto da dentro
la sua stanzetta.
La ragazza roteò annoiata gli
occhi.
“A volte è insopportabile, altre non dà problemi.”, disse
lei, abbassando il tono per non farsi sentire.
“Ma è simpatico.”,
disse Georg.
“Oh sì, provi a starci insieme una giornata intera!”,
fece lei, ridendo, “Comunque il suo libro è arrivato, è sulla
scrivania.”
“Ah, bene!”, fece Georg, “Però, per cortesia, me lo
daresti del tu?”
“Beh… come vuoi!”, fece lei, sorridendo ancora,
mentre glielo porgeva “Ecco. Sono riuscita a trovare una prima edizione, ben
rilegata, con ancora la copertina intatta. C’è solo un piccolo orecchio a pagina
centosettatacinque.”
“Va più che bene, hai fatto anche troppo in
un solo giorno!”
“Beh, non è così difficile trovare certi libri.
Se mi avessi chiesto, che so, ‘I racconti di Canterbury’ nella prima
edizione stampata, avresti dovuto aspettare degli anni!”
“Oh no,
per adesso mi accontento di questo…”, fece Georg, che poco era interessato ad
altri libri che quello.
“Fai bene, non è che qua ci siano molti
bei libri come quello. Sono tutti vecchi tomi per appassionati di
antichità.”
“Piace anche a te?”, le domandò.
“Sì,
l’avrò letto un milione di volte.”, fece, sorridendo, “E il film? Lo hanno dato
l’altra sera e, secondo te, me lo sono perso?”
“L’ho visto anche
io, ma solo alla fine purtroppo.”, disse Georg, “Adesso voglio controllare se
corrisponde al libro.”
“Ne rimarrai deluso come sempre.”, disse
l’altra, ridendo.
“Piuttosto, quanto costa?”
“Lascia
fare.”, disse lei, “Niente.”
Georg rimase interdetto. Non esisteva
né in cielo né in terra che lei glielo regalasse.
“Assolutamente,
voglio sapere quanto costa o non lo prendo.”, ripetè.
“Allora puoi
lasciarlo qua.”, rispose lei, tranquilla.
“Non lo farai mica
perchè sono io?”, azzardò a domandarle. Se lei rispondeva di sì, lo avrebbe
davvero lasciato sulla scrivania..
"No, ma semplicemente perchè
l’ho avuto da un signore che ci doveva un favore. Non l’ho pagato niente, quindi
non vedo perchè dovrei vendertelo. Te lo regalo come lui lo ha regalato a
noi.”
“Beh… allora non posso fare altro che ringraziarti di cuore.
E non so nemmeno il tuo nome.”
“Mi chiamo Mondenkind.”,
disse lei.
Mondenkind… che nome bizzarro, si disse
Georg.
“Allora grazie Mondenkind. Potrei offrirti un caffè uno di
questi giorni, se ti va.”, le fece.
Visto che era stata così gentile con
lui, era il minimo che poteva fare.
“Grazie ma….”, fece lei,
insicura, “Mi piacerebbe molto… però…”
“Come vuoi.”, disse
Georg.
“Ok…”, disse lei, a testa bassa.
“Ok sì o ok
no?”
“Ok… no.”
“Va bene, mi dispiace perchè non so
come sdebitarmi con te.”, le disse, un po’ interdetto.
“Mi basta
che tu legga il libro… magari torna a farmi una bella recensione. Va
bene?”
“Perfetto. Ci vediamo!”, disse lui, stringendole la mano ed
uscendo dalla libreria.
Certo che lì dentro erano tutti strani:
lasciando fare il nonno rimbambito, la nipote non era mica poi tanto regolare.
Facendosi prendere da un po’ di presunzione… cavolo! Era Georg Listing dei Tokio
Hotel! Non gli si rifiutava un caffè!
Poi abbandonò il suo ego
pompato e tornò ad essere normale.
Ad ogni modo, quella
Mondenkind era strana.
Mondenkind…
Già il suo nome era tutto un
programma!
Seduto a gambe incrociate sul suo divano, con in
sottofondo un canale qualsiasi tenuto a volume più basso del ‘muto’.
Aveva ritrovato con piacere Atreiu che, con una certa punta di
immodestia, se lo era immaginato con la sua faccia e con il suo bel fisico
prestante, dopo aver lasciato la vecchia tartaruga millenaria Morla per trovarsi
tra le grinfie di Ygramul, un gigantesco mostro formato da milioni di insetti.
Da Ygramul conobbe Fucur, un drago della fortuna.
“Ma non si
chiamava Falkor nel film?”, si domandò.
Vabeh, adattamento
cinematografico scadente.
Fattosi pungere da Ygramul, il quale gli
aveva rivelato il suo più grande segreto, cioè che il suo veleno dava la
capacità a chi era stato morso di farsi apparire in posti anche lontanissimi,
insieme a Fucur si ritrovò da Enghivuc e Ungula, due nanetti chiamati Bisolitari
che vivevano vicino all’Oracolo Meridionale, l’unico a sapere chi era in grado
di poter dare un nuovo nome all’Imperatrice e farla guarire. Enghivuc era un
grande studioso dell’Oracolo e parlò ad Atreiu di tutte le sfide che avrebbe
dovuto affrontare prima di raggiungerlo.
Mentre Atreiu si trovava
di fronte alla prima delle tre porte che conduceva all’oracolo, composta da due
altissime sfingi dorate… il suo telefono prese a squillare. Lo prese,
chiedendosi chi fosse, poi in un attimo gli tornò a mente
Helen.
Ma non era lei, era bensì Tom.
“Pronto?”,
rispose, con tono annoiato.
“Primo o secondo blocco di
appartamenti?”, gli domandò diretto.
“Terzo.”, gli rispose,
chiudendo la chiamata.
Non se lo ricordava mai, erano sei mesi
che viveva in quell’appartamento e lui, puntualmente, ogni volta che passava a
trovarlo, gli telefonava sempre per chiedergli in quale blocco
vivesse.
Non ci fu tempo per Atreiu di arrivare alla seconda porta
perchè Tom lo precedette, presentandosi a quella di Georg. Stettero un attimo a
fissarsi, prima che il padrone di casa si spostasse dall’entrata per
consentirgli di passare.
“Tieni.”, fece lui, porgendogli una
scatola di pizza.
“Oh grazie.”, fece Georg, e la aprì, “Ma c’è uno
spicchio solo!”
“Ho avuto un certo languorino mentre guidavo.”, si
giustificò Tom, passandosi una mano sulla pancia.
“Beh… grazie
comunque.”, disse Georg, lievemente disgustato. La appoggiò sul tavolino di
fronte al divano e si sedette insieme al suo amico, preoccupandosi che
Tom non lo facesse sopra il suo libro, dato che non pareva
essersi accorto. Lo tolse un attimo prima che le natiche dell'amico vi si
posassero sopra.
“Cos’hai in mano?”, gli domandò Tom, vedendolo
nascondere qualcosa dietro la schiena.
“Oh no, niente.”, disse
Georg, facendo il finto tonto.
“Va beh…”, fece l’altro, poco
convinto.
“Cosa ci fai qua?”, gli chiese Georg.
“Ero
nelle zone e… sono passato a trovarti, tutto qua.”, disse Tom, mettendosi le
mani dietro la testa ed allungando le gambe.
“Eri nelle zone?”,
sbottò Georg, “Abiti all’angolo…”
Sì, lui e suo fratello avevano
comprato un appartamento, un attico, a circa un chilometro da lì. Era la
migliore zona di tutta la città. Gustav viveva invece fuori dal centro abitato,
più vicino alla campagna, dove poteva scorrazzare felice in sella alla sua amata
bicicletta.
“Allora non posso nemmeno più venire a trovarti quando
voglio?”, fece l’altro, scocciato.
“No , tranquillo, era solo per
dire!”, disse Georg.
“Ok…”, fece l’altro, mettendosi a
picchiettare nervosamente il piede contro la gamba del tavolino di
vetro.
Georg stette un pochino a fissarlo, chiedendosi cosa
potesse essergli successo.
“Bill ti ha buttato fuori di casa.”,
disse poi, usando il suo infallibile sesto senso.
“Sì…”, fece
l’altro, sgonfiandosi ed accasciandosi sul divano.
“Che è
successo?”, gli chiese Georg, sospirando.
“Non ne voglio parlare
adesso.”, fece Tom, mugolando.
“Ok.”
Era già
successo altre volte che Tom si trovasse col culo fuori casa per la notte, di
solito succedeva dopo pesanti litigate con Bill. Lui prendeva e se ne andava da
Georg, se la rifaceva con lui per ciò che gli aveva detto Bill, poi si
addormentava ed il giorno dopo se ne ritornava a casa.
“Ehm… che
so, vuoi uscire?”, gli propose Georg, “Così magari ti distrai un
po’.”
Vide di sfuggita l’ora al suo polso, erano le undici, la
notte era ancora giovane e, benché fosse un pochino stanco per via delle
estenuanti prove, non gli dispiaceva uscire un po’. Era pure venerdì, quindi
c’era un motivo in più per andarsene da qualche parte.
“No…”,
rispose l’altro, che se ne stava ancora sfiancato sul
divano.
“Allora… guardiamo un po’ di
tv?”
“No…”
“Vuoi qualcosa da
bere?”
“No…”
“Da
mangiare?”
“No…”
Ecco, poste le rituali domande, lui
il suo dovere di padrone di casa lo aveva assolto.
“Senti, visto
che non vuoi uscire, non vuoi vedere la tv, non vuoi bere e non vuoi mangiare,
io me ne andrei anche a letto, dato che sono stanco e che domattina ci sono le
prove. Che dici?”, gli fece, attendendosi una sua reazione del tutto scoglionata
come le altre.
“Ma è presto per andare a letto.”, disse Tom,
alzando la testa.
“Non ti capisco, Tom, vuoi fare qualcosa o no?”,
gli domandò di nuovo Georg.
“Non lo so…”
“Allora
mentre ci pensi, io vado a prepararmi per andare a letto.”, disse l’altro,
alzandosi ed andando verso la cucina, per prendersi un bicchiere d’acqua. La sua
mossa ingenua ma alquanto incauta rivelò a Tom l’oggetto che l’amico si era
prontamente nascosto dietro la schiena.
Era un libro. Lo prese e
lo voltò per leggerne il titolo.
“Ma dai!”, esclamò ridendo,
“Ancora con questa storia!”
Georg spuntò dalla cucina con il suo
bicchiere, chiedendosi cosa avesse da borbottare quell’altro da solo. Ma
comprese subito, vedendogli il libro in mano.
“Non avevi detto di
averlo riconsegnato alla biblioteca?”, gli domandò Tom.
“Sì…”,
fece Georg, stizzito.
“E poi te lo sei anche ripreso!”, proseguì
l’altro, iniziando a sfogliarlo.
“Adesso ridammelo.”, disse Georg,
togliendoglielo di mano e mettendoselo sotto il
braccio.
“Un’ultima letturina per conciliarsi il sonno vero?”,
sghignazzò Tom sotto i baffi.
“Guarda che se continui ti sbatto
fuori anche da casa mia!”, lo intimidì Georg con un
un’occhiataccia.
“Sei diventato strano Georg… ”, esclamò Tom,
sedendosi normalmente. Pareva aver ritrovato il buonumore, “Tu, che sei sempre
stato una pasta d’uomo, te la vai a prendere per una
scemenza.”
Georg, accortosi del suo perseverare nell’errore,
sospirò. Era vero, aveva colto precisamente nel punto.
Il ritorno di Georgtreiu,
per la felicità delle sue fans, tra cui io, ovviamente! C'era da dirlo
XD
Passiamo ai
ringraziamenti:
CowgirlSara: oooohhh! Vi siete piastrati i
capelli insieme??? That's ammmmore!!!! XDDD Grazie per i complimenti, te l'avrò
ripetuto cinquantamila volte qual è la mia incertezza su questa storia... sti
ragazzetti che stanno iniziando a passare di moda! Spero di continuare ad
affrontare questa situazione nel modo più realistico e verosimile possibile,
sfortunatamente non ho un bagaglio di esperienze di vita in questo campo! La
tipa stronza è uscita di scena, contenta? Ma tornerà? mmmhhh chi lo
sa?
LaTuM: beh, spero che anche questo capitolo ti
abbia preso come tutti gli altri! XD Grazie per i complimenti, anche qua lascio
col fiato sospeso? Per me no, poi sai, io conosco come si evolve la storia, per
me la suspence è sotto i piedi XD Ci sentiamo su msn! Ciaooo!
Picchia: viaggi surreali? mmmm, non credo di
averne fatti, tranne di mentali, miei personali, che non compaiono su internet
XD aspetto una recensione più lunga per questo capitolo eh! Non mi
deludere!!!
Alanadepp: la signora delle due recensioni per
capitolo! XD Sconclusionate come sempre! XDD L'idea tua era quella delal
bibliotecaria che poi diventava la strafiga di turno? Mah... Decisamente NO XDDD
Ma sarà comunque un personaggio molto presente fino alla fine della
storia...
Sososisu: weeee Polly! E Giorgino vulcano, che
scoppia ogni trenta secondi, non si sa controllare... ci vorrebbe qualcosa
(qualcuno) che lo faccia sfogare ben bene... anche più di qualcosa (qualcuno)
XDDD Io mi propongo, ti accodi al gruppo? XD ci sentiamo su msn!
Ciaooo!!
Dark_Irina: sis, hai colto in pieno i miei
richiami al libro anche con la storia di Mac. Diciamo che sono stati un po'
involontari, soprattutto la storia del suo tatuaggio, perchè al tempo non avrei
mai pensato di scrivere poi qualcosa sulla storia infinita. E poi quel tatuaggio
vorrei farmelo tanto anche io, chissà se prima o poi mi marchierò a fuoco come
il mio personaggio XD ma il finale di time and destiny, il 'ma questa è un'altra
storia', è preso direttamente dal film, ma anche dal libro, perchè questa frase
ricorre più volte anche all'interno dei capitoli centrali... vabbè, solo una
spiegazione fatta al volo! Spero che anche questo capitolo ti piaccia!
ciao!!!
Kit2007: Sinceramente non ho mai pensato di
farlo per professione, nono, è solo un diletto che impiega il mio tempo libero
dallo studio XD lascio agli altri scrivere bei romanzi, io mi limito a queste
fanfic! Grazie per tutti i complimenti, ci sentiamo su msn! ciaooo!
Lidiuz93: Non sei l'unica che ha Helen in quel
posto! eheheh! Grazie per la recensione e per tutto il resto! Ciaoo!
_Princess_: Helen, per il momento, è uscita di
scena, quindi i tuoi dubbi amletici possono considerarsi terminati XD di
incazzature tra di loro ce ne saranno diverse, più o meno pesanti. Spero di
renderli realistici, o quantomeno, verosimili. Se non fosse così dimmelo,
rimedierò in futuro. Ciao! E complimenti per la tua storia, mi piace davvero
tantissimo! Bravissima!
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
CAPITOLO
5
Si
sedette accanto all’amico, con il libro appoggiato sulle gambe, lasciando che la
testa si riposasse sulla spalliera del divano.
“C’è qualcosa che non va
Georg?”, gli fece Tom.
“Bah…”, sbuffò l’altro, facendo spallucce, “L’album
non vende, il gruppo sta andando a rotoli, la mia ragazza mi ha praticamente
lasciato…”
“Dai, non metterti a fare l’emo, per cortesia, già basta mio
fratello!”, sbottò Tom.
Non aveva voglia di parlare di quanto fossero nella
merda le loro vite in quel momento, già glielo aveva sbattuto in faccia Bill
poco prima di farlo anche con la porta, quindi non era intenzionato a starsene
ad ascoltare il lungo piagnisteo di Georg
“No, tranquillo, non mi taglierò le
vene… almeno non stasera!”, disse Georg, ridendo.
“Ah meno male… avevo messo
i vestiti nuovi e non volevo sporcarli subito.”, proseguì Tom nell’ilarità,
seppur breve, del momento.
“E’ un periodo decisamente sfigato…”, disse
Georg.
“Sì… lo è.”
“Abbiamo buttato la spugna.”
“Già.”
“E perso la
speranza.”
“Eh sì.”
“Mi sto rifugiando in un libro per scappare un po’
dalla realtà.”
“Non lo avevo capito!”
“Sei un psicoanalista di
merda.”
“Concordo pienamente.”
“Hai finito di annuire a tutto ciò che
dico? Hai intenzione di ascoltarmi?”, fece Georg, sapendo che la conversazione
non sarebbe stata più seria di così.
“Avrei un po’ di sonno Georg.”, disse
Tom, facendo una piccola smorfia con le labbra.
No, proprio no, non aveva
voglia di ascoltarlo.
“Ti ricordi dov’è la camera degli ospiti oppure mi
chiami per sapere dov’è?”, gli chiese poco ironicamente Georg.
“Stavolta non
fallirò.”, fece l’altro, alzandosi ed andando verso la porta giusta.
“Bravo,
è quella. Notte Tom!”, gli disse, con un cenno della mano.
“Notte anche a
te.”, rispose l’altro, chiudendosi la porta alle spalle.
Georg sbuffò
annoiato.
In condizioni normali, Tom sarebbe stato ad ascoltarlo. A
guardarlo, pareva uno sbarbatello senza un minimo di intelligenza… ed invece si
rivelava avere due belle orecchie pronte ad ascoltare chiunque avesse bisogno di
sfogarsi. Tra i quattro era quello con cui aveva legato di più, avevano
caratteri molto simili.
Ma tante cose erano cambiate, non solo dentro Georg,
che si era fatto più scontroso ed irascibile. Tom pareva quasi sordo, le sue
orecchie erano diventate piccole piccole e sembravano essere capaci di stare a
sentire solo se stesso e non gli altri. Era diventato scostante e spesso anche
irritante…E non erano gli unici ad aver subito questo cambiamento: anche Bill,
pure Gustav, parevano diventati altre persone.
Quasi quattro estranei, poteva
dire, che ormai avevano in comune solo il fatto di far parte dei Tokio Hotel.
Per il resto quasi più niente. Beh, riflettendoci bene, ma proprio bene, non
erano proprio messi così male. Erano sempre amici, ma…
Nemmeno con una catena
sensata e razionale di pensieri sapeva come dare una spiegazione a quello che
stava succedendo loro, ai Tokio Hotel. Ma soprattutto, cosa stava succedendo a
Georg, Gustav, Bill e Tom.
Perchè erano loro i Tokio Hotel.
E se loro
stavano male, anche i Tokio Hotel stavano male.
Forse con l’aiuto di
un’analista poteva arrivare al capo della questione.
Da solo, purtroppo, non
poteva riuscirci e probabilmente era per questo che quel libro fantastico lo
attirava così tanto. Lasciare la realtà scorrere e perdersi in Fantàsia, nelle
avventure… era una cosa infantile, da bambini piccoli, lo sapeva e non gliene
fregava un bel niente.
Dato che fuori la vita faceva abbastanza schifo,
almeno dentro quelle parole poteva trovare un po’ di pace. Era una serenità
illusoria, che durava il tempo di aprire e chiudere il libro; ne
era perfettamente a conoscenza.
Ma anche di questo non gliene fregava nulla.
***
Oramai trovava quella porta ad occhi chiusi.
Avrebbe riconosciuto la crepa del legno che c’era in basso a sinistra tra mille
altre crepe di mille altre porte uguali a quella. Ed avrebbe anche potuto
distinguere il particolare tintinnio delle campanelline appese a quella; l’odore
particolare del legno vecchio, della carta ingiallita, della polvere…
Quella
libreria, così antica ed estranea alla modernità, aveva il suo fascino. Non
sapeva in cosa consisteva: nella poca luce delle lampade appese al muro ma forse
più semplicemente nell’essere proprio… vecchia. Lì dentro pareva non esserci
niente di nuovo, tutto era datato, tutto era ingiallito, tutto era fuori moda,
se così lo si poteva descrivere.
Tutto pareva di un’altra epoca, di un altro
secolo. Non sembrava di essere nel ventunesimo millennio, lì dentro. Pareva di
tornare indietro nel tempo, forse agli anni cinquanta o sessanta del novecento.
Un salto nel passato.
Un’atmosfera magica, si azzardò a pensare Georg, prima
di entrare.
Si tolse gli occhiali da sole, con la penombra gli rendevano
impossibile la vista, e allentò la stretta della sciarpa.
Il signor
Metternich spuntò guardingo dagli scaffali di legno: i suoi occhialini sulla
punta del naso lo rendevano ancora più minaccioso.
“Buongiorno.”, gli disse,
quasi timoroso.
“Ah sì, è lei, il giovanotto…”, fece il vecchietto,
soffermandosi con molto sarcasmo sulla parola giovanotto.
Si tolse la pipa
dalla bocca, non dopo aver fatto un altro anello di fumo.
“Mia nipote non
c’è.”, gli disse.
“Ok… e quando la posso trovare?”, gli domandò, colto alla
sprovvista da quell’informazione così diretta.
“Mi faccia capire bene.”, fece
il signor Metternich, avvicinandosi a lui con fare un po’ zoppicante, “A lei
piace tanto andare per ragazze…. Cosa ci trova in mia nipote?”
L’ultima
domanda suonò quasi come una minaccia.
“Beh… a dire il vero non è che io vada
con tante ragazze…”, cercò di spiegare.
“Sì, sì… guardi che io non sono nato
ieri!”, irruppe l’uomo, innervositosi.
“Senta, ho capito che pensa che io sia
il diavolo sceso in terra, “, provò a dire Georg, “ma, mi creda, non ho nessuna
brutta intenzione con sua nipote, non la sfiorerei nemmeno…”
“Forse vuol dire
che è tanto brutta che non la si può nemmeno guardare?”, sbuffò subito
l’ometto.
Oddio… questo era proprio un osso duro!
Stava per controbattere,
quando sentì un rumore provenire dallo studiolo.
“Nonno? C’è qualche
problema?”, sentì dire dalla voce della nipote, lontana ed ovattata dal muro che
la separava dai due.
“No, tutto a posto.”, rispose il vecchietto.
“Hai
bisogno di una mano?”, domandò lei, di nuovo.
“Sto risolvendo da solo!”,
sbottò lui, infastidito.
O interveniva, oppure avrebbe dovuto sorbirsi di
nuovo la predica del vecchietto.
“Ehm… Mondenkind?”, la chiamò. Il vecchietto
gli lanciò un’occhiata di sbieco che avrebbe incenerito chiunque.
Dopo
qualche secondo la ragazza apparve sulla porta dello studio.
“Hey! Ciao
Georg!”, lo salutò lei, andandogli incontro per stringergli la mano,
“Non aspettavo di vederti arrivare così presto! Sono solo due giorni che hai
quel libro, già lo hai finito?”
“No, ancora no, sono sempre a metà. Ieri sera
sono arrivato al punto in cui Atreiu arriva dall’Imperatrice ed avrei anche
continuato se non mi fossi addormentato con il libro in mano!”, disse Georg,
sorridendo.
“Non sarà mica un libro che ti fa addormentare?”, gli chiese
Mondenkin sorridendogli.
“Certo che no!”, sbuffò Georg, “Tutt’altro, ma ieri
sera ero molto stanco, ho avuto una giornata molto difficile.”
“A correre
dietro ad altre ragazze!”, piombò il vecchietto, che fino a quel momento era
stato messo in disparte e reclamava la sua parte nella conversazione.
“Nonno!
Per favore!”, lo rimproverò Mondenkind, “Così lo metti in
imbarazzo!”
L’ometto sbuffò, si rimise la pipa in bocca e, con il solito
passo zoppicante, si allontanò dai due per chiudersi stizzito dentro lo
studio.
“Scusalo, oggi è ancora più scorbutico del solito.”, disse
Mondenkind.
“Fa niente.”, le rispose, “Allora? Ci stai per questa recensione
dal vivo? Magari davanti ad un caffè? Conosco una caffetteria che il sabato
pomeriggio si inventa dei miscugli pazzeschi e sono pure buoni!”
Il sorriso
di Mondenkind parve diventare forzato appena lui le chiese quella cosa.
“Beh…
volentieri… solo che ho un po’ di lavoro arretrato, devo catalogare dei nuovi
arrivi….”, gli disse.
“Ok…”, le disse, “Ma in qualche modo dovrò pure
ricambiare il libro.”
“Ti ho già detto che non mi devi niente, quel libro
l’ho avuto senza tirare fuori un soldo.”, gli ripetè Mondenkind, come aveva
fatto qualche giorno prima.
Lei sembrava del tutto restia a ricevere quel
caffè. Proprio non ne voleva sapere e lui non capiva il motivo di tutto
ciò.
“Per caso hai un fidanzato? E’ per questo che continui a non
accettare?”, le chiese.
Lei parve reprimere un sorriso, abbassando la
testa.
“No, non è per quello.”, disse, “E’ solo che…”
Allora Georg
comprese che non era meglio insistere.
Sicuramente lei aveva il suo buon
motivo per non accettare e non era il caso continuare a chiederle perchè.
“Va
bene, capisco. Non ti preoccupare, Mondenkind.”, le disse,
sorridendole.
“Ok.”, fece lei, ridendo.
“Beh… visto che non posso
sdebitarmi come vorrei, non mi rimane altro che dirti grazie ancora.”, le
disse.
“Prego.”, rispose Mondenkind, con un sorriso un po’ troppo
stretto.
Era quasi indecifrabile: Georg non seppe dire se lo faceva solo per
cortesia oppure se era imbarazzata.
“Scusami, non vorrei che insistendo abbia
causato qualche problema.”, le fece, terribilmente mortificato con
lei.
“Tranquillo, Georg.”, disse
lei.
In quel momento accadde qualcosa che non si seppe spiegare. Fino a tre
secondi prima, era del tutto sicuro che Mondenkind fosse la bibliotecaria
bruttina, nipote del signor Mondenkind, con i capelli neri raccolti in una lunga
treccia, con gli occhialini lillà sulla faccia che nascondevano un paio di occhi
chiarissimi ed il golfino giallo. Eppure ci fu un momento, un attimo, un
istante, una frazione di secondo in cui ebbe come una visione fugace, un
fotogramma estraneo alla sua vista.
Mentre lei pronunciava il suo nome,
scandendo con serenità, gli parve quasi di avere tutt’altra persona davanti. Ma
non una persona normale, qualunque. Una persona che non era una persona… un
essere umano…
“Georg? Georg ci sei?”, gli fece Mondenkind, con occhi
preoccupati, scuotendolo con dei colpetti alla spalla.
“Oh sì… sì, certo.”,
disse, recuperandosi, “Ho avuto solo… un giramento di testa, ecco.”
“Stai
bene?”, gli chiese lei, facendosi immediatamente apprensiva.
“Sicuro, solo un
momento di smarrimento.”, cercò di tranquillizzarla, ma non parve sortire
l’effetto giusto.
“Vuoi sederti? Vuoi un bicchiere d’acqua?, gli domandò
lei.
“No, sto benissimo, ogni tanto ho momenti del genere… è come un reset!”,
le disse, sorridendo, mentre andava verso la porta, “Ci vendiamo Mondenkind.
Tornerò quando avrò finito il libro!”
“Va bene…”, disse lei, rimanendo con le
mani in mano.
Si
sedette in macchina ma, invece di premere il pulsante dell’accensione, rimase
qualche secondo a riflettere. Ancor prima di formulare qualsiasi pensiero, si
dette dello stupido per essere rimasto a fissare imbambolato Mondenkind. Lei se
ne era accorta, ma non sembrava esserne uscita imbarazzata, anzi, si era
preoccupata per il suo ‘mancamento’,
come lui lo aveva definito per scusarsi.
In quell’attimo fugace, forse un
raggio di sole era entrato, oltrepassando l’opacità del vetro, e lo aveva, in un
certo senso, accecato, facendogli percepire per un piccolo secondo tutta
un’altra realtà.
E qual era questa fantomatica realtà che gli era parso di
vedere?
Boh, non se la sapeva spiegare.
Non trovava le parole giuste per
farlo.
Ma in quell’istante era stato quasi come se avesse avuto la capacità
di vedere oltre agli occhialini lilla, alla treccia nera ed al golfino giallo di
Mondenkind, per trovarci un’altra persona del tutto diversa da quella che lei
sembrava essere.
Che tipo di persona? Anche lì, le parole che gli salivano
sulle labbra non sembravano essere adatte.
Non era razionale quello che stava
succedendo nella sua testa: aveva visto Mondenkind ma non era Mondenkind. Allora
chi era? Era sempre lei con altri vestiti? I vestiti erano gli stessi ma
cambiava lei? Lei era del tutto diversa? Aveva altri capelli, altri occhi, altro
viso?
No. Quella che aveva visto in quella frazione era sempre Mondenkind,
sempre lei. Ma non era lei… Era come se, intorno a lei, aleggiasse qualcosa di
vago, indefinito…
Ah! Mannaggia alle parole, pensò Georg, e al non trovare
quelle giuste!
……..
Erano pensieri sciocchi, stupidi, cretini. Lei non era
nessun’altro se non la nipote del signor Metternich, che lavorava in quella
libreria antiquaria e che era del tutto restia da prendere un caffè con
lui.
Mondenkind era Mondenkind.
E
su questo non c’era da discutere.
Mentre premeva il pulsante di accensione
del motore gli venne da fare uno sbadiglio, talmente grande che gli lacrimarono
gli occhi. Era stanco, avevano provato tutto il giorno, tutte le loro canzoni.
Tutte.
Avrebbe tanto voluto sdraiarsi sul divano e dormire e sicuramente lo
avrebbe fatto, ma avrebbe anche voluto uscire, svagarsi, divertirsi e non
pensare a nient’altro.
Poteva chiamare gli altri tre.
No, erano già stati
insieme per otto ore di fila, poteva anche bastare. Avevano litigato, anche
abbastanza pesantemente, per due volte. Una alla mattina ed una alla sera, poco
prima di salutarsi.
La questione aveva coinvolto, nel primo caso, lui con
Bill: gli aveva rimproverato di essere ben un’ora in ritardo, tanto che Tom era
arrivato per conto suo, e l’altro gli aveva risposto di farsi i cazzi suoi
eccetera eccetera.
Nel secondo caso, Tom se l’era presa con Gustav ma, dato
che lui era stato in bagno per parte della discussione, non aveva capito il
motivo per cui stessero litigando.
Voleva buttarsi alle spalle quella
settimana schifosa, voleva concluderla in bellezza, magari andando in un locale,
in un club, conoscere qualcuna e passarci qualche ora insieme, senza pretese ma
con tanto buon sesso. Ora che ci pensava, per via di tutti i suoi impegni, erano
diversi giorni che non… insomma, a parte quella ultima mezza volta con Helen,
prima che il fattorino li interrompesse. Ma anche prima di quella ce n’era stato
ben poco…
Sì, i suoi programmi per la serata erano stati stabiliti. Avrebbe
chiamato Fabian, il suo storico migliore amico, e si sarebbero chiusi in un
locale a divertirsi.
Con il suo drink in mano, l’altro braccio appoggiato sul
bancone, mentre alle sue spalle barman acrobatici stavano preparando cocktail
alla velocità della luce. Fabian si era già accomodato con una simpatica rossa,
lui ancora non aveva trovato nessuna di suo gradimento. Si guardava intorno,
scrutava qualche faccia, qualche sorriso, qualche paio di gambe… ma
niente.
Cazzo!
Era la serata del divertimento e si doveva
divertire!
Punto e basta.
Punto e a capo.
Eppure niente.
La musica
stava facendo schifo, la gente non era di meglio, intorno a lui solo gente
alticcia. Era nel giusto mood, stava bene, si sentiva rilassato ma… niente, non
c’era nulla da fare. Gli altri si davano alla pazza gioia e lui scompariva con
la tappezzeria
Quei due accanto pomiciavano che era una meraviglia.
Lui se
la faceva con il bicchiere di mojito.
Era meglio togliersi dai piedi,
mandare un messaggio a Fabian e dirgli che se n’era tornato a casa in taxi.
Erano venuti con la macchina di lui e, visto che decideva di togliere baracca e
burattini prima della fine della serata, doveva arrangiarsi. Lo fece presto e,
dopo aver riposto il cellulare in tasca, si avviò verso l’uscita.
Furono
tante le persone con cui si scontrò, volarono diversi ‘scusami’ ma anche
altrettanti ‘vaffanculo scemo guarda dove metti i piedi’. Non ricambiò
nessuna di quelle parole, le ignorò semplicemente.
Prima che riuscisse a
scavalcare l’ultimo gruppetto di persone, il suo braccio fu nuovamente urtato da
qualcuno. Con la coda dell’occhio, fu sicuro di vedere una lunga treccia
nera…
Si voltò e, come un’idiota, perse quasi l’equilibrio. Non c’era nessuna
treccia nera… nessuna Mondenkind.
O si sentiva inconsciamente in colpa con
lei per quel favore non ricambiato…
O si stava facendo sfottere il
cervello.
Qualsiasi fosse stata la risposta a questi due dubbi, era meglio
tornare a casa, farci una dormita sopra e dimenticare tutto.
Mondenkind
compresa.
***
Mercoledì era
arrivato.
Più velocemente di quanto avesse mai pensato.
I giorni,
uno dopo l’altro, si erano susseguiti freneticamente. Prove, interviste e
servizi fotografici per pubblicizzare l’evento. Non c’era stato un solo momento
per respirare, avevano lavorato fino a tardi, lasciando il giorno agli
appuntamento pubblici e la sera alle prove fino a tarda notte.
Inutile dire
quante volte si erano scontrati tra loro, la tensione e la stanchezza erano così
alti da far crepare un toro. Ma se quella esibizione fosse andata in porto,
tutto avrebbe preso un’altra svolta. Se avessero fatto un buon lavoro, in
diretta televisiva, la loro immagine si sarebbe sollevata e potevano buttarsi
qualche spauracchio alle spalle, per poi partire con il tour… Se si fossero
impegnati al massimo, avrebbero potuto anche prendere la loro sorte con più
ottimismo, invece di stare sempre a pensare al peggio…
Era il loro giorno del giudizio.
Paradiso
o inferno, erano loro a disegnare il loro prossimo futuro.
Gustav era
impegnato altrove, si stava concentrando con la sua musica e non voleva essere
disturbato. Bill si stava scaldando la voce nell’altro camerino, lo poteva
sentire anche da lì. Tom, sdraiato nel divano di fronte a lui, respirava
profondamente.
Mancavano una quarantina di minuti all’inizio dello
show.
Il nervosismo stava salendo, piano piano, lento, ma ad ogni minuto
diventava sempre più grande. Qualcuno bussò alla porta ed entrò senza attendere
che gli venisse dato il permesso per farlo.
Era David.
“Ragazzi, sono
tutti con voi i vostri strumenti?”, chiese loro, con aria preoccupata.
“I
miei due bassi sono qui.”, disse Georg, facendo spallucce.
“La mia chitarra è
sul palco, l’ho lasciata lì.”, rispose a sua volta Tom, con
tranquillità.
“Tom, ne sei sicuro?”, chiese un’altra volta
David.
“A meno che non abbia messo le gambe e non si sia incamminata per la
via di casa…”, ironizzò Tom.
“Perchè ce lo chiedi?”, fece Georg,
perplesso.
“Sul palco non c’è niente Tom… quante volte te l’ho detto che non
dovete lasciare gli strumenti sul palco!”, si animò David, perdendo del tutto le
staffe.
“Ma come? E dov’è?”, fece Tom, allarmandosi.
“Che cazzo ne so
dov’è la tua chitarra, Tom! L’hanno presa! L’hanno portata via!”, gli gridò
contro David, totalmente incazzato.
Come un fulmine, Tom sfrecciò via dalla
stanza. La sua chitarra era scomparsa, non si trovava, l’avevano presa,
l’avevano rubata, l’avevano nascosta… non si sapeva cosa era successo, fatto
stava che era sparita dal suo sostegno, sul palco.
Se non la trovavano erano
fottuti…
David seguì prontamente Tom,
mentre Georg affondò le dita nei capelli. C’era stata una possibilità, tutto
stava per andare per il verso giusto… poi era arrivato il cretino di turno che
si rubava la chitarra di Tom. Se lo avesse trovato, se avesse capito chi era
questo coglione, gli avrebbe aperto il culo seduta stante.
Più che cercarla
in lungo ed in largo, era meglio farsene dare un’altra dalla direzione dello
spettacolo… Ma cazzo! Tom si portava sempre tre o quattro chitarre dietro, ad
ogni cazzo di spettacolo… stavolta doveva venire solo con quella! E se la
direzione non avesse avuto nessun strumento di riserva? Come cazzo avrebbero
fatto? Non valeva la pena salire in una macchina e andare a prenderne un’altra
allo studio… erano distanti almeno tre ore di viaggio!
Guardò velocemente
l’orologio… mancava solo mezz’ora allo spettacolo.
“Merda!”, gridò ad alta
voce. Con un gesto rapido ed arrabbiato della mano, fece volare via il cuscino
che se ne stava pacifico sul divano.
Bill apparve alla porta del camerino,
con viso stravolto.
“Te l’ha detto David?”, gli chiese.
“Sì…”, sbuffò
Georg.
“Cosa lascia a fare in giro la sua chitarra!”, fece Bill, pronto a
sfogare la sua rabbia.
“Non lo ha fatto apposta.”, cercò di difenderlo
Georg.
Effettivamente, di tutte le volte che Tom, oppure lui stesso, avevano
lasciato gli strumenti in scena, quella era la prima in cui sparivano.
“Non
me ne frega un cazzo! Adesso per colpa sua lo spettacolo andrà a monte e ci
faranno un culo così!”, continuò a gridare Bill, in una crisi isterica che
sembrava appena iniziata.
“Bill, calmati, non serve a niente perdere la
pazienza adesso…”, disse Georg fermamente, ma non servì a nulla. Bill scomparve
dalla porta del suo camerino, furibondo, non avrebbe sentito altre ragioni
tranne le sue, era meglio non averci a che fare.
Si buttò a peso morto sul
divano, a braccia conserte sul petto. Un’occasione d’oro, l’unica disponibile
sul mercato, buttata nel cesso. Non per colpa loro… ma comunque dentro al cesso,
giù per il tubo, fino alle fogne, dentro al mare.
C’era solo da aspettare che
la situazione si risolvesse… era necessario annunciare che ci sarebbero stati
dei ritardi per colpa di disfunzioni tecniche.
Avrebbe voluto prendere tutto
a calci e a pugni, ma era la cosa più inutile e stupida che potesse fare in quel
momento. Se prima della scomparsa della chitarra di Tom era nervoso, adesso
poteva dirsi in preda di una crisi d’ira. Doveva trovare un modo per calmarsi…
Si accese una sigaretta ma, nel giro di pochi minuti, era già arrivato al filtro
e si sentiva più incazzato di prima.
Andò nel frigo e prese una birra, se la
scolò quasi in un secondo. Nessun effetto positivo. Anzi, si sentiva ancora come
la corda tirata dai partecipanti, a destra e a sinistra, che stava per
strapparsi in mezzo…
Camminava avanti ed indietro nel camerino, senza sosta,
mentre la rabbia ribolliva dentro di sé. Incautamente, inciampò sul laccio del
suo borsone, rovesciandolo a terra. Un asciugamano ed un maglietta di ricambio
pendevano dal bordo dentellato della zip, un libro aperto, spaginato, giaceva
invece sul pavimento freddo.
Lo raccolse e lo richiuse, sistemando le pagine
affinché non si spiegazzassero ulteriormente. Rilesse il titolo, ormai lo
conosceva a memoria.
La Storia Infinita.
Non si ricordava di averlo messo nel borsone. Anzi, gli
pareva di averlo abbandonato nel cassetto del suo comodino, di avercelo messo
quella sera di ritorno dalla discoteca… Mah, pensò, magari lo aveva buttato
nella borsa in un momento in cui non doveva essere stato molto sveglio o
attento.
Si sedette sul divano, una letterina fantastica poteva essere più
utile di alcol e fumo. Sfogliò le pagine finchè non trovò il punto esatto in cui
aveva lasciato la storia.
Ritrovò Atreiu in piedi davanti all’Infanta
Imperatrice.
Lei cercava di spiegargli che la sua Grande Ricerca del Figlio
dell’Uomo, l’unica persona in grado di poterle dare un nome e farla rinascere,
era terminata, anche se lui era sicuro di aver fallito perchè non era riuscito a
trovarlo in nessun luogo di Fantàsia. Ma mentre Atreiu sembrava
non capire, nel frattempo Bastian, che leggeva quelle parole, stava iniziando
lentamente a realizzare qual era il suo ruolo in quella storia. Ma ancora non
aveva la forza per pronunciare un nome…
Cosa ci voleva a dire un nome? Uno
stupidissimo nome! Gliene venivano a mente un milione: Julia, Lia, Jennifer,
Martha, Sarah… Ecco, lui l’avrebbe già salvata se fosse stato Bastian, ma
sfortunatamente era Georg Moritz Hagen Listing e, vivendo nella realtà, non
aveva questo ‘fantastico’
potere.
Costretta a ricorrere ad una via alternativa per chiamare Bastian in
Fantàsia, per salvarla, l’Infanta Imperatrice dovette recarsi dal Vecchio della
Montagna Vagante, l’unico che poteva darle un aiuto…
Gli tornò in mente il
film, dove i fatti non si erano svolti assolutamente in quel modo. Infatti
Bastian, pregato dall’Imperatrice in lacrime, si abbandonava ai suoi sogni e,
affacciatosi alla finestra della soffitta della scuola, tra la pioggia ed i
fulmini, gridava il nome di sua madre…
Tornò con la mente e gli occhi sul
libro.
Trovato il Vecchio della Montagna Vagante, l’Infanta Imperatrice
scoprì che era lui stesso a scrivere la medesima storia infinita che lui, lei,
Bastian e tutti gli altri abitanti del mondo terrestre e di Fantàsia stavano
vivendo.
Complicati!, esclamò Georg,
ridendo tra sé e sé.
L’unico modo per far rinascere Fantàsia, ormai
completamente inghiottita dal Nulla, era dare il suo destino nelle mani di
Bastian. Sarebbe stato lui, con i suoi desideri, a farla rinascere dall’ultimo
granello di polvere rimasto di essa.
Per chiamarlo a sé, il Vecchio della
Montagna Vagante fu costretto a leggere tutto ciò che aveva scritto fino a quel
momento.
...Perchè la Storia Infinita sta dentro la Storia
Infinita…
Georg lo lesse direttamente dalle parole stampate, ma
non riuscì a comprenderne a pieno il senso. Che cosa significava? Perché la
storia infinita stava dentro se stessa? Provò a rifletterci sopra, però non
riuscì comunque a capirci qualcosa… Forse non aveva colto il vero spirito di
quel libro.
Ad ogni modo, Bastian nelle parole che il Vecchio leggeva sul
libro, rivisse la sua giornata, dal momento in cui precipitò dentro alla
libreria del signor Koreander fino a quello in cui il Vecchio prese a leggere il
suo libro. E poi ancora, ed ancora… e ancora di nuovo. La storia iniziò a
ripetersi nelle parole del Vecchio per decine di volte finchè Bastian,
comprendendo che era l’unico in grado di poter fermare quel cerchio inesorabile,
gridò improvvisamente un nome…
...Mondenkind…
“Mondenkind?”, borbottò Georg.
Bastian aveva dato
all’Infanta Imperatrice il nome Mondenkind…
Mondenkind.
Come la ragazza della libreria. Che coincidenza,
pensò Georg, quando il caso ci si metteva di impegno…
“Georg! Che cazzo stai
facendo!”, urlò Gustav, fuori dalla porta, rimasta per tutto il tempo aperta,
interrompendo il suo sorriso a fior di labbra.
“Uhm?”, fece lui, distogliendo
lo sguardo e l’attenzione dal libro.
“Ti vuoi muovere imbecille!”, gridò
ancora l’altro, “Che cazzo ci fai ancora lì!”
“Beh…”, disse Georg, infilando
il libro dentro la borsa.
“E dove cazzo sono gli altri!”, riprese Gustav, che
quando perdeva la pazienza era un pericolo pubblico.
“A Tom hanno rubato la
chitarra, lo sapevi?”, lo informò Georg, intuendo che forse lui non sapeva
niente.
“Certo che lo so, mica sono deficiente! Siamo in ritardo di un quarto
d’ora e là fuori vogliono farci il culo!”
Georg guardò l’orologio.
Aveva
perso totalmente la cognizione del tempo. E anche della situazione reale che
stava vivendo.
“Hanno ritrovato la sua chitarra?”, chiese a Gustav, mentre
imbracciava il suo basso.
“Sì… quelli dello studio l’avevano messa al sicuro,
al riparo… l’hanno trovata cinque minuti fa.”
“Ah bene… allora
iniziamo?”
“Se non ti dispiace! Mancavi solo tu all’appello!”, gli fece
Gustav, che sembrava avere i carboni ardenti sotto ai
piedi.
L’unplugged dei Tokio Hotel, in diretta televisiva, per
i minuti in cui la chitarra di Tom risultava ancora introvabile perchè coloro
che se ne dovevano occupare sembravano essersi furbescamente volatilizzati
proprio prima dell’inizio dello spettacolo, era stato sostituito da una specie
di improvvisazione teatrale, fatta dal presentatore, un ragazzo buffo con un
pizzetto strano, e dalla sua spalla, un paio di gambe chilometriche che
sostenevano una ragazza bionda platinata.
Il pubblico, già in agitazione per
l’evento, quando seppe che per problemi tecnici il gruppo non si sarebbe subito
presentato sul palco, iniziò lentamente ad andare in escandescenza e, al momento
in cui i ragazzi entrarono in scena, il regista fu costretto a mandare a nero,
cioè a inserire uno stacco pubblicitario improvviso, per salvare gli spettatori
a casa dalle cannonate di fischi che vennero rivolti ai Tokio Hotel.
Georg
lesse la delusione sulla faccia di Bill.
La rabbia su quella di Tom.
La
sconfitta su quella di Gustav.
E sulla sua?
Un miscuglio di tutti questi
sentimenti.
Non era il caso di stare a rivangare tutto quello che
era uscito dalle loro bocche dopo l’unplugged.
Non era il caso di pensare al
fatto che l’esibizione aveva fatto schifo.
No, di più.
Aveva fatto
letteralmente cagare.
Di merda.
Lo schifo più assoluto.
Fuori tempo,
stonati, parevano un gruppo messo insieme all’ultimo momento. L’unica cosa che
riuscirono a rispettare fu la scaletta, almeno su quella non si
sbagliarono.
Il pubblico se n’era accorto all’istante e, anche se la
redazione era riuscita a calmarlo, si fece sentire diverse volte con i suoi
fischi.
Erano tornati in camerino imprecando e bestemmiando talmente tanto
che i santi del calendario erano fuggiti via. Si erano gridati contro cose
impossibili. Ognuno era salito nella macchina, guidata dal solito Saki, senza
rivolgere all’altro nemmeno una parola, un pensiero o uno sguardo. E nello
stesso modo erano stati accompagnati alle loro case.
EHEHEHEH
11 recensioni di cui almeno 10 si chiedevano: ma che minchia e minichia di nome
è Mondenkind? eheheeh! Che genitori fantasiosi che ha quella ragazza? (che
genitrice XDD).
Ho
scovato un giorno, girovagando per Wikipedia, che nella versione originale, cioè
tedesca, del libro perchè l'autore è tettesco, che Mondenkind è il nome che
Bastian da all'Imperatrice Bambina. In italiano è Fiordiluna (bleah).
Questo avrà qualche ripercussione sulla
trama? Tranquille, riponete i vostri cervellini andati in fiamme! Semplicemente
mi piaceva come nome e l'ho usato.
Coooooooooomunque,
ora che il "mistero" del nome è svelato, passiamo ai ringraziamenti!
Cowgirlsara: spero che ripeterai le solite
parole che dicevi nella rcensione, cioè che la crisi è sempre più realistica...
soprattutto da questi capitoli in poi, che saranno incentrati soprattutto su di
loro ed il libro verrà lasciato perdere per un po'.... daidai! La cucina? Mondo
convenienza oppure all'Ikea????
Dark_Irina: ecco il seguito delle mirabolanti
avventure del nostro (mio) beniamino preferito, Georgtreiu! XDDD spero che il
capitolo sia di gradimento almeno tanto quanto sono piacevoli le tue recensioni!
*me arrossice*
Sososisu: weeee, Pollicina! Il club della
piastra che non perdona è stato fondato, presidentesse onorarie me e te,
ovviamente. C'è da dire altro? Ah, sì! Piaciuto il capitolo? Spero proprio di
si! Ci sentiamo!
Princess: per rispondere ai tuoi tre punti 1)
Helen sta sul cavolo anche a me che l'ho creata. 2) se mi uccidi la
bilbiotecaria... XD la resuscito! XD 3) ti dispiace, quando ti accaparri
dell'uomosesso, lasciarmelo almeno per cinque minuti? Tanto più di quelli non
dura... XDD te lo ridò come nuovo, I promise! Ti rigrazio vivamente tutti i
complimenti che mi hai fatto, detti da te mi fanno molto piacere, soprattutto
perchè sei un'autrice che stimo tantissimo. La tua storia fa veramente venire i
lacrimoni per la sua dolcezza (appena posto vado subito a leggere
l'aggiornamento). Ah si? Anche tu hai scritto una caratterizzazione delle
litigate dei due K che è simile alla mia? XDD ormai li conosciamo più di loro
stessi (ma quanto siamo presuntuooooose!!! XDDD). Alla prossima!
Kltz: Fondiamo la lega per la soppressione
sistematica di tutte le helen di questo modo (che poverelle hanno in comune con
la mia solo il nome, ma fa lo stesso). Ah! Ho visto che hai pubblicato qualcosa
di tu! Molto bene, lo leggerò sicuramente e lascerò un commento, te lo devo!
Grazie di tutto!
Natalia: spero allora che anche questa storia
vada tra i tuoi preferiti! XDD purtroppo non si può dare un parere sul georg
migliore della sezione, secondo me, perchè forse a parte la mia e
pochiiiiiiiissime altre non ci sono storie che parlano di lui, come
protagonista, intendo! E la cosa mi dispiace parecchio perchè, oltre ad essere
un gran pezzo di sequoia, è anche un personaggio che stimolerebbe la fantasia
molto di più che dei Kaulitz, che sono sempre in primo piano. Prometto che mi
impegnerò su questo fronte! E che ne scriverò una anche su Gugu... è già in
cantiere!
LaTuM: il mulo deve avere una statua in ogni
piazza italiana, una via dedicata in ogni sobborgo urbano!!! ehehe! Ci becchiamo
su msn! E grazie di nuovo per la citazione sul tuo blog, non sai davvero quanto
piacere mi abbia fatto!
Picchia: ho pescato nel cappello del
cappellaio matto di alice nel paese delle meraviglie!!! Il riciclo di Helen ci
sarà... ma per una cosa mooooolto lontana dal libro... mooooolto reale...
mooooolto vedrai XD nessuno sfogo agli amichetti, ci ho già pensato con le shot
che ho scritto (ne ho terminata poi un'altra, te la passo se vuoi XD), la mia
mente tossica lavora lavora lavora per voi! come nella salerno reggio calabria,
solo che i lavori in corso vengono terminati XD
Ciribiricoccola: Tom rompicoglioni e anche un
po' stronzarello. Eh, insomma, c'è il tuo amico che ha bisogno di un conforto e
tu gli volti il culo? ma in che mondo vivi???? eheheh!
Kit2007: se il capitolo precedente ti è
sembrato cinico e pessimista, quando leggerai gli altri ti metterai l'anima in
pace... eheheh, tempi duri per i tokio!
Lidiuz93: eh, i twins sono dei grandissimi
stronzi, se ci si mettono. Anche nella realtà, secondo me! XDDD grazie e alla
prossima!
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
CAPITOLO
6
Profonde occhiaie stavano solcando i suoi occhi,
mascherate dagli occhiali neri e dal classico cappello da
baseball.
Gli angoli delle labbra sottili pendevano verso il
basso.
Velocemente, un passio dietro l’altro, era arrivato alla
porta di vecchio legno. La spinse, sentì i campanellini di bronzo suonare ed
entrò, ringraziando la penombra naturale della libreria, che dava sollievo ai
suoi occhi sensibili e stanchi.
“Ciao…”, disse Mondenkind, in
piedi, davanti alla scrivania del nonno.
Se ne stava con un libro tra le
mani, aperto, sembrava esaminarlo.
“Hey…”, fece Georg, “Spero di
non stare disturbando…”
Notò subito che la voce della ragazza, di
solito abbastanza dolce e melodiosa, era spenta, quasi senz’anima. Vide anche un
certo pallore sulla sua faccia, prima rosea.
“Ti senti bene?”, le
chiese, senza pensarci due volte.
“Beh… non molto ultimamente.”,
fece lei, chiudendo il libro e posandolo sulla scrivania, “Ma non ti
preoccupare.”
“Magari torno un altro giorno…”, disse Georg, che
non la vedeva affatto in salute. Per educazione, si tolse gli occhiali da sole
ed il cappellino, anche se non era nell’aspetto migliore che avrebbe potuto
avere.
“No… non sto mica per morire!”, sbottò lei ridendo, “Ma
vedo che anche tu non sei messo molto bene.”
“Potrebbe andare
meglio.”, disse Georg, lasciando in sospeso la frase.
“Mi dispiace
per la vostra esibizione.”, fece Mondenkind, rattristandosi.
Georg
fece spallucce.
“Lasciamo perdere.”, disse poi, con aria
stanca.
Quanti giorni erano che non dormiva?
Quanti
giorni erano che non accendeva la televisione, non comprava un giornale, non
ascoltava la radio?
Quanti giorni erano che non sentiva nessuno
degli altri…
Da mercoledì passato.
Cinque
giorni.
Era esattamente lunedì. Dopo cinque giorni passati
praticamente chiuso in casa, sprangato, aveva messo il naso fuori giusto per
trovare una persona con cui parlare. Di tutto e di niente. Dell’argomento più
stupido a quello più serio.
Aveva chiamato Fabian, ma non era
raggiungibile. Gli aveva lasciato un messaggio in segreteria, ma aveva risposto
che non riusciva a liberarsi per diversi giorni, per via del lavoro. Altri amici
non ne aveva. Sì, c’erano almeno una decina di persone più strette ma… non se la
sentiva di chiamarli, non erano così ‘amici’ da poter stare con loro a
deprimersi, a crogiolarsi nei suoi problemi.
E poi aveva voglia di
uscire, di prendersi una boccata di aria fresca.
Aveva voglia di
lavarsi via di dosso tutta la stanchezza che aveva accumulato, tutta la
pressione nervosa che covava dentro. E non trovava migliore soluzione di
lasciare casa e parlare.
Ma con chi?
Dopo qualche
giro a vuoto intorno alla città, sulla sua auto a due posti, aveva trovato chi
poteva starlo un po’ ad ascoltare.
Inoltre, c’era ancora in ballo
un caffè, se lei fosse stata d’accordo.
“Non l’ho vista in tv… ma
ho letto. E capisco che tu non ne voglia parlare.”, disse Mondenkind,
sorridendogli. Anche i suoi capelli neri, tenuti sempre docili in una treccia
lunga, appoggiata sulla sua spalla, parevano spenti. Come il suo viso infantile.
Anche il suo pullover bianco pareva ingrigito. La sua gonna, al ginocchio,
anch’essa chiara, non riusciva a darle luminosità.
“Beh… a dire il
vero…”, iniziò a balbettare Georg, ma non riusciva a parlare correttamente. Una
confusione di pensieri gli stava intasando la testa, stava
fondendo.
“Vuoi sederti? Mi sembri abbastanza… stanco.”, gli disse
lei, voltando la vecchia poltrona di suo nonno.
“Oh no,
tranquilla, sto bene… è solo che…”, disse Georg. Gli venne da toccarsi la testa,
come per controllare se fosse stata al suo posto. Era lì, ma era come se fosse
stata altrove.
“Ti va di andare a prendere quel caffè che dicevamo
e che non vuoi concedermi?”, le disse, tutto d’un fiato, come se fosse stata una
cosa proibita.
Lei tornò ad incupirsi, come aveva fatto
esattamente l’altra volta.
“Sì, scusami…”, disse Georg, “Lo so…
già mi hai detto di no un’altra volta. Perdonami, è che non sto per niente
bene.”
Mondenkind si chiuse nelle sue braccia
conserte.
“Se può farti stare meglio… perchè no.”, disse, quasi
sottovoce, timida.
Georg pensò di non aver capito
bene.
“Dici che acconsenti ad uscire dalla libreria per fare
quattro passi con un caffè in mano? O anche seduti, come preferisci.”, le fece,
titubante.
“Beh… sempre se ti può far stare meglio.”, ripetè lei,
chiudendosi sempre di più dentro alle sue braccia.
“Penso di sì… e
credo che farà bene un po’ anche a te.”, le disse, sorridendole.
Lei continuava a mostrarsi diffidente verso quel semplice caffè.
Forse era meglio spiegarsi.
“Ascoltami, Mondenkind. Non so quale
sia la tua opinione di me ma… Io non ho nessuna intenzione di farti del male, né
di usarti in qualche modo. Voglio solo prendere un caffè con te, da amici. Senza
nessuna pretesa, senza nessun imbroglio.”, le disse, “Ultimamente tutta la mia
vita sta andando a puttane, niente va per il verso giusto. I miei migliori amici
sono diventati i miei peggiori nemici… o quasi… e quelli con cui ho un buon
rapporto non hanno tempo per me…”
Lei se ne rimaneva immobile, a
fissarlo, con i suoi occhi chiari, quasi di ghiaccio.
“Lo so che
non ci conosciamo, che ci siamo visti solo tre o quattro volte, che l’unica cosa
che abbiamo in comune è un libro di fantasia… Ma visto che sembri essere l’unica
persona che… che possa riuscire a starmi a sentire… così come io potrei stare a
sentire te…”
Si rese conto che tutto quello che aveva detto non
aveva nessun senso, era tutto un discorso disconnesso, senza alcun filo
logico.
“Scusami ancora Mondenkind… forse ti ho davvero
disturbato.”, disse Georg, “Sarà meglio che vada… magari un po’ di sonno
riuscirà a farmi stare meglio.”
Fece qualche passo, poi lei lo
richiamò.
“Prendo qualcosa per non sentire freddo.”, gli fece, e
scomparve nello stanzino.
Dopo un paio di minuti, tornò fuori con una giacca
marrone.
“Andiamo.”, disse Mondenkind, avvicinandosi alla
porta.
Fuori, il sole del primo pomeriggio stava scaldando l’aria,
ancora un po’ fredda. Con educazione, le tenne la porta e la fece uscire. Pareva
aver paura a mettere piede fuori, lo fece quasi con timore, ma un passo dopo
l’altro, fu nel vicolo che portava alla libreria dove lavorava.
Le
venne da alzare il viso al sole e si coprì la mano con gli occhi, mentre lo
guardava.
“Hey! Così ti rovinerai gli occhi…”, le disse Georg,
avvicinatosi a lei, dopo aver richiuso la porta della libreria.
Lì
fuori, alla luce, vide quanto fosse pallida. Gli venne da preoccuparsi per lei,
per la sua salute. Doveva avere magari l’influenza per essere così bianca.
Glielo chiese.
“Non è che ti sei presa l’influenza… la tosse… il
raffreddore…”
Che idiota! Voce nasale non ne aveva, non l’aveva
nemmeno mai sentita tossire.
“No… è che… in questo periodo sono un
po’ giù di corda… fisicamente.”, disse lei, prendendo a
camminare.
A guardarla, pareva non avesse mai messo piede fuori da
quella libreria! Magari era una tipa molto timida ed insicura, una di quelle che
alle superiori venivano sempre prese in giro dai compagni di scuola perchè era
una secchiona, o perchè era bruttina… e si era chiusa dentro al suo lavoro
perchè il mondo fuori le era sempre stato ostile.
Sì, era
sicuramente una ragazza del genere.
Era un peccato, perchè
sicuramente era una persona vera, buona e gentile. E magari, sotto i suoi
occhialetti lilla e i suoi vestiti antiquati, poteva esserci anche una bella
ragazza.
“Dimmi, Mondenkind… quanti anni hai?”, le
domandò.
“Ne ho… ventitre.”, rispose lei.
Camminava
a testa bassa, con le mani di nuovo incrociate, sul grembo.
“E…
cosa fai oltre a lavorare nella libreria?”, le domandò, sperando di non sembrare
un impiccione.
“Beh… lavoro lì. E basta. Tramite una porta nello
studio arrivo all’appartamento mio e di mio nonno.”, spiegò lei, “Ho sempre
vissuto con lui. Tu, invece, cosa mi puoi raccontare di te
stesso?”
“Se avessi un ego grande quanto un palazzo di Manhattan,
potrei chiederti se ci sono delle cose di me che non sai!”, disse Georg,
cercando di essere spiritoso, “Ma visto che non mi sembra di essere così
presuntuoso, ti dico che per adesso sono un semplice bassista senza
lavoro.”
“Senza lavoro…”, ripetè
Mondenkind.
“Già…”
“Ti va di raccontarmi cosa è
successo?”, disse la ragazza.
“Sì… ma davanti un caffè riesco ad
esprimermi meglio.”
“Vieni, da questa parte.”, disse Georg, facendole gesto
di seguirla.
Dopo qualche passo, fuori dalla
libreria, aveva indossato di nuovo gli occhiali ed il cappellino e, con
tranquillità, avevano passeggiato per il centro della città, senza essere
disturbati da occhi indiscreti.
L’aveva portata in una
caffetteria, una di quelle speciali e molto rare, dove la gente andava per
starsene in pace a leggere il giornale, oppure un libro, ma anche per fare
quattro chiacchiere rispettosamente sottovoce. Nessuno alzava gli occhi quando
qualcuno entrava, nessuno scrutava l’altro, nessuno giudicava. Quelli che
stavano lì dentro parevano alieni, non esseri umani: tutti erano per i fatti
loro e, allo stesso modo, nessuno voleva essere disturbato dall’altro. Era
diviso in tre stanzette ed in ognuna di essere prevaleva un colore diverso dalle
altre: si prendeva il caffè seduti nei tavolini rotondi davanti al bancone,
all’entrata. Si leggeva in tranquillità nella stanza color lilla, come gli
occhialetti di lei. Si conversava indisturbati nella stanza rosa, davanti ad una
tazza fumante di bevande calde e di pasticcini inglesi. Non era un posto da
Georg, o meglio, non era un posto dove ci si poteva divertire con birra e rutto
libero, ma era tranquillo, riservato e lontano da occhi
curiosi.
Lo aveva sfruttato più di una volta per incontrarsi con
le ragazze… anche se quella volta lo scopo era diverso, era comunque il posto in
cui voleva andare.
Entrarono dentro e, di nuovo con galanteria, le
tenne la porta. Durante quella camminata di circa una decina di minuti, non
avevano chiacchierato molto. Lei sembrava restia a parlare di sé, era molto più
interessata a sapere cosa gli fosse successo, e lui non voleva parlarne in
pubblico.
La condusse nella saletta rosa, in quel momento vuota,
come quasi anche il resto del locale, le tenne la sedia per farla accomodare e
si sedette di fronte a lei. Il proprietario della caffetteria, ed
anche unico cameriere, venne prontamente a chiedere loro cosa
volessero.
“Un caffè… lungo per cortesia.”, disse Georg, appena si
fu tolto gli occhiali.
“Anche per me.”, disse Mondenkind, con un
filo di voce.
“Perfetto, posso portarvi anche qualche
stuzzichino?”, domandò l’uomo.
“Oh sì, grazie.”, rispose Georg,
dopo aver cercato un segno di approvazione negli occhi di Mondenkind, che invece
spaziavano intorno a sé, scrutando il locale in cui si
trovava.
Capiva che non si stava sentendo a suo
agio…
“Senti, Mondenkind… se ti senti a disagio, possiamo anche
andarcene, non ci sono problemi.”, le fece.
“Oh no, tranquillo.”,
disse lei, sorridendo. Si tolse la giacchetta marrone e la appese allo schienale
della sua sedia, “Allora… non c’è il caffè, ma comunque puoi iniziare a parlare,
se vuoi.”
“Beh… hai visto gli articoli sui giornali?”, le chiese,
retoricamente.
“Sì… me ne è capitato uno tra le mani, proprio
ieri.”, disse lei. Con le piccole mani unite, appoggiate al bordo del tavolo, se
ne stava rigidamente seduta davanti a lui. La treccia le cadde dal suo usuale
appiglio, la sua spalla destra, e si distese sulla
schiena.
“Andava tutto bene, tutto tremendamente bene. Avevamo
provato e gli strumenti erano a posto, noi eravamo prontissimi…”, disse Georg,
scuotendo la testa affranto.
“Non è stata colpa vostra.”, fece
Mondenkind, con un sorriso comprensivo, “Voi avete fatto del vostro meglio per
riuscire ad affrontare questa sfida. Lo so, lo capisco.”
“Sei
l’unica sulla faccia della terra, allora.”, disse Georg, incrociando le braccia
sul petto, “Sono quasi dieci anni che esistiamo, come gruppo famoso intendo…
ogni volta che succede un problema esterno, non voluto da noi… nessuno vuole
stare a sentire le nostre ragioni, tutti ascoltano solo quello che vogliono
sapere.”
“E cos’è che vogliono sapere?”, fece
lei.
“Vogliono sapere se i Tokio Hotel esistono ancora oppure
no.”, borbottò Georg, quasi mangiandosi le parole per paura di
dirle.
“Questo lo potete sapere solo voi.”, disse Mondenkind, con
una semplicità che pareva avere dell’incredibile.
“Sì… lo sappiamo
bene.”, disse Georg.
Il cameriere arrivò con le loro ordinazioni.
Due caffè lunghi e biscotti. Georg sospirò, bevve un sorso e riposò la sua
tazza.
Le esili dita di Mondenkind afferrarono un biscotto. Lo
guardò quasi con circospezione poi, con cautela, gli dette un piccolo morso.
Georg non potè fare a meno di nascondere la risatina che gli era affiorata sulle
labbra.
“E’ buono?”, le chiese.
Lei ne prese un
altro morso e, con delicatezza, tolse via la piccola briciola che era rimasta
attaccata al suo labbro.
“Sì sì… sono molto buoni.”, disse lei,
sorridendo con un lieve imbarazzo.
“Adesso ti senti un po’ più a
tuo agio?”, le fece, sorridendole.
“Sì, adesso sì.”, rispose
lei.
“Bene, sono contento.”, rispose Georg, riuscendo finalmente a
rilassarsi.
Se non fosse stato un pensiero idiota, avrebbe detto
di nuovo che non aveva mai davvero messo piede fuori da quella
libreria!
“Dicevi del tuo gruppo…”, gli ricordò spiacevolmente
Mondenkind, prendendo un altro biscotto.
“Beh…
sì…”
Le disse di come era scomparsa la chitarra di Georg, di come
era stata ritrovata, dei fischi che aveva avuto e, nel flashback, gli tornò in
mente ciò che aveva letto sul libro. Il nome che aveva letto. Magari poteva
essere un appiglio per approfondire la sua conoscenza…
Bloccò il
suo racconto e gli venne da sorridere, stupidamente.
“Sai una
cosa?”, le fece, notando la sua espressione perplessa, “Poco prima di entrare in
scena, ho continuato la lettura del libro…”
“E…”, disse lei,
dubbiosa.
“Ti chiami esattamente come l’Infanta Imperatrice.”, le
disse, sentendosi terribilmente idota, “Non credi che sia una coincidenza
spaventosa?”
Mondenkind sorrise, abbassò gli occhi e portò alle
labbra la sua tazza di caffè.
“Sì, lo so…”, disse, quando ebbe
bevuto.
“Già a leggerlo, è un nome strano…”, disse Georg, “Senza
offesa, ovviamente.”
“Si, tranquillo!”, disse Mondenkind,
sorridendo, “A mio… mio padre piaceva molto quel libro, così mi ha dato quel
nome.”
“Tuo padre?”
“Sì.. lui.”
“Beh…
è strano, ma è un bel nome. Non si sente tutti i giorni!”, disse Georg, bevendo
a sua volta.
“E poi cosa è successo? Intendo… dopo che avete
finito lo spettacolo.”, riprese Mondenkind.
Un’altra volta aveva
deviato la conversazione da se stessa a lui.
“Beh… spettacolo,
che parolone!”, esclamò Georg, rassegnandosi nel sapere qualcosa in più su di
lei, “Abbiamo strimpellato… nonostante le prove estenuanti, la
perfezione che avevamo raggiunto… niente, il pubblico e i suoi fischi ci hanno
totalmente spaventato… peggio di bambini dell’asilo, abbiamo fatto letteralmente
schifo.”
“Mi dispiace.”, disse Mondenkind.
“E dopo…
dietro le quinte….”, disse Georg, scuotendo la testa, “Non posso dirti
esattamente cosa ci siamo detti, perchè ti verrebbe da tapparti le
orecchie.”
Un altro sguardo comprensivo da parte di
lei.
“Sono diversi giorni che non sento nessuno di loro.”, le
rivelò Georg, “Non so se sia il caso di fare il primo passo o aspettare che si
facciano avanti loro. L’ultima frase che è uscita dalle nostre bocche è ‘Non
fatevi più vedere’. E finora sono sempre fedele a
quell’idea.”
“Perchè?”, gli chiese lei.
Georg
sospirò, prese il suo cappellino, appoggiato alla sedia, e se lo rigirò tra le
mani nervosamente.
“Perchè non ha più senso continuare a suonare
quando… quando non c’è più armonia, c’è disaccordo tra di noi. Litighiamo per un
nonnulla, non riusciamo a concentrarci sulla musica… il nostro ultimo album è
uguale a tutti gli altri, non abbiamo più idee, né creatività…”, disse Georg,
con sconforto.
“Vi manca la fantasia.”, disse
Mondenkind.
“Sì… diciamo di sì… Ce l’hai una soluzione per questo
problema?”, le fece, ridendo amaramente.
“Beh… forse sì.”, disse
Mondenkind. Prese un altro biscotto e iniziò a mangiucchiarlo.
“E
quale sarebbe?”, la esortò Georg.
“Forse la stessa storia infinita
potrà esserti di aiuto.”, disse lei.
“Come sei solenne!”, la prese
in giro Georg, “E’ un libro, una storia per bambini… cosa mi può
insegnare?”
“Beh… secondo me un mucchio di cose.”, disse
Mondenkind, sorridendogli.
“E quali?”, le chiese, quasi con aria
di sfida.
Lei non rispose, continuò a mangiucchiare il suo
biscotto.
“I miei problemi sono veri, Mondenkind, non ti
offendere.”, disse Georg, “Devo riuscire a risolverli, ma non credo che un libro
mi possa aiutare.”
“Un tentativo non può farti male.”, riprese
Mondenkind.
“Parlerei più volentieri di qualcos’altro.”, sentenziò
Georg, ormai stanco di trattare quell’argomento così doloroso.
“E
io dovrei tornare in libreria… l’ho lasciata già per troppo tempo.”, disse
Mondenkind.
Usciti fuori dal locale, Mondenkind preferì tornarsene
al lavoro da sola, lo pregò di non accompagnarla. Georg comprese che, forse, lei
si era offesa per la sua ostilità nei confronti del libro, nel quale suo padre
le aveva trovato il nome. Magari lei poteva esserci particolarmente
affezionata…
Ma non ci poteva fare
niente.
La storia
infinita era un libro per
bambini.
E non un manuale su come si rimetteva insieme un gruppo
sfasciato.
***
Era stato David a pregarlo, in tutte le lingue del
mondo, di tornare allo studio.
Alla sua prima chiamata non aveva
risposto.
La seconda l’aveva rifiutata.
Alla terza
aveva risposto con un ‘non mi rompere i coglioni’.
Alla
quarta era stato a sentire cosa aveva da dirgli.
Alla quinta si
era fatto supplicare di venire nello studio.
Adesso era lì, seduto
accanto a Gustav, e non gli aveva ancora rivolto la parola.
Dal
rumore dei passi lungo il corridoio, sentì che anche Bill e Tom erano arrivati.
Entrarono nella sala relax, dove li stavano aspettando, e si sedettero nel
divano di fronte a loro, senza dire una parola. David, da buon manager e
moderatore, prese una sedia e si mise tra loro.
Sguardi fissi per
terra, sulle mani, sulle punte delle scarpe. Braccia incrociate, gambe
incrociate. Nessun suono dalle loro bocche.
“Ragazzi…”, disse
David, leggendo nelle loro facce ancora tutta la rabbia ed il risentimento che
si erano portati dentro, “Dobbiamo risolvere questa
situazione.”
“Quale situazione…”, sbottò Tom.
Georg
sospirò, non sarebbe stato facile parlare con loro e c’erano il cento per cento
delle possibilità che nel giro di trenta secondi si sarebbe scatenata una lite
furiosa. Nessuno di loro aveva accantonato la rabbia, era chiaro, quindi sarebbe
stato meglio rimanere per fatti loro, incontrarsi al momento
giusto.
Si erano detti troppe cose, si erano offesi troppe volte,
si erano accusati troppo pesantemente per riuscire a tornare amici come prima in
così poco tempo. Si erano addossati la colpa l’uno con l’altro, senza riuscire a
comprendere che nessuno, effettivamente, quella sera aveva avuto colpe. Forse
Tom, con la sua sbadataggine, forse lui poteva aver causato tutto quello, ma non
era così, no, perchè anche lui avrebbe potuto commettere il suo stesso errore,
lasciando il basso sul palco… E anche se poi la chitarra era stata ritrovata,
era successo comunque troppo tardi.
Eppure, nella rabbia del
momento, si erano gridati in faccia tutto quello che passava loro per la testa,
dall’offesa più ignobile, al biasimo più assurdo. Bill, che per natura era molto
permaloso, non avrebbe perdonato facilmente quello che era entrato nelle sue
orecchie. Gustav, che era un tipo molto impulsivo e scaricava la sua rabbia
quasi istantaneamente, era stato il primo a scoppiare. Tom, che era il più teso
di tutti, si sentiva in parte colpevole per ciò che era successo e, per
difendersi, aveva contrattaccato come meglio poteva.
Lui, Georg,
incazzato per la situazione che aveva vissuto, si era comportato esattamente
come gli altri.
Di chiedere scusa non se ne parlava.
Sarebbe stata la migliore cosa, ma non voleva
farlo.
Almeno non ancora.
“Cerchiamo di rimanere
calmi ed affrontiamo la situazione.”, ripetè David, “Avete letto i giornali?
Guardato la televisione?”
Quattro teste dissero un no palesemente
annoiato.
“Meglio così.”, disse David, spremendosi l’attaccatura
del naso per la stanchezza.
“Cosa potranno mai dire se non che
siamo finiti!”, sbuffò Bill, con gli occhi coperti da un paio di occhiali quasi
più grossi della sua faccia esile.
“Non siete finiti!”, esclamò
David, cercando di sembrare sicuro nel tono della voce, “Non siete… finiti!
Insomma, è stato un incidente di percorso, ci risolleveremo anche da
questo!”
“I concerti in Spagna sono stati dimezzati, l’album sta
scendendo in classifica, puntavamo tutto su questa esibizione unplugged e ci
hanno fregato…”, disse Tom, che era sicuro che la sua chitarra non fosse stata
messa al sicuro, ma invece fosse stata nascosta di proposito da qualcuno che
voleva speculare su di loro.
“E’ colpa tua!”, gli disse Bill, come
aveva anche fatto l’altra sera, “Se tu non la lasciavi in bella vista, questi
qua non se ne sarebbero approfittati!”
“Bill, ti prego, non
continuare a dare la colpa a tuo fratello.”, disse Georg, con voce calma,
“Sarebbe potuto benissimo accadere con il mio basso.”
“Ma tu non
dimentichi le tue cose ovunque!”, gli fece Bill, che tornò poi a gridare contro
il fratello, “Non hai la capacità di renderti conto che c’è gente
che….”
“Hai rotto le palle Bill!”, esplose Tom, “E’ una settimana
che continui a gridarmi contro le solite cose! Mi hai rotto i
coglioni!”
“Se non la lasciavi sul palco non la portavano via! E
non ci fischiavano durante tutto il concerto!”, contrattaccò Bill, ancora più
arrabbiato di lui.
“Ci hanno fischiato perchè facevamo schifo!”,
si inserì Georg, violando la legge per la quale tra nei litigi tra i due gemelli
non si doveva intromettere nessuno.
“E facevamo schifo perchè se
Tom non avesse lasciato la…”
“BASTA!”, urlò David,
sovrastandoli.
I tre litiganti si chetarono e tornarono nel loro
silenzio.
La situazione non si poteva recuperare in quel momento,
era chiaro.
“Bill, Tom non ha colpe, mettitelo bene in testa!”,
gli fece David.
“Ma se…”, provò a dire l’altro, ma fu subito
bloccato dal suo manager.
“Bill, apri quelle cazzo di orecchie e
ascoltami! Non c’entra niente tuo fratello!”, gli disse, guardandolo dritto
negli occhi, arrabbiato, “Se proprio volete incolpare
qualcuno…”
Riprese fiato, se lo sentiva mancare, era così rosso in
viso che le vene gli pulsavano in superficie.
“Vi siete fatti
impaurire come bambinelli dell’asilo! Siete dei professionisti o no?”, riprese
David, “Un paio di fischi e hanno iniziato a tremarvi le gambe… Vi siete fatti
spaventare… e avete fatto schifo! Prendetevela con voi stessi… e non con
Tom.”
Si alzò e li lasciò da soli.
David aveva colto
proprio nel segno.
Rimasero in silenzio, ognuno a riflettere per
conto proprio.
“Ha ragione David.”, disse Georg, quando ebbe
trovato la forza per far uscire un qualche suono dalla sua bocca, “E’ colpa di
tutti noi. Non dovevamo farci atterrire dai loro fischi. Se avessimo suonato
come sempre non avrebbero continuato a….”
“Stai zitto Georg.”,
fece Bill, togliendosi gli occhiali dal viso.
Non potè non
accontentarlo, non si aspettava di sentire tutto l’astio che c’era nella sua
voce.
“Bill, fermati a ragionare.”, gli disse poi, non appena
l’altro ebbe distolto il suo sguardo furioso da lui, “Abbiamo avuto paura… e ci
siamo deconcentrati. Alle prove andavamo bene. Anzi, andavamo ottimamente. Non
c’era motivo di suonare come strimpellatori di campagna, ma lo abbiamo fatto. E
perchè? Perchè il pubblico ci si è rivoltato contro e…”
“Per colpa
di Tom!”, ribattè lui, che non aveva compreso nemmeno una parola di quello che
sia David che Georg cercavano di spiegarli.
“Ha ragione Bill… è
colpa tua, Tom.”, seguì sulla stessa linea Gustav.
Il ragazzo alzò
le mani al cielo, imprecò pesantemente ed uscì dalla sala relax, sbattendo
violentemente la porta.
“Perchè non volete starmi a sentire!”,
esclamò Georg, esausto dal comportamento infantile ed irragionevole dei suoi
amici.
“Perchè dici solo cazzate.”, sibilò Bill, alzandosi dal
divano, seguito da Gustav, e lasciando la sala.
Entrò in casa e la prima cosa che fece fu scaraventare a
terra il giubbotto e dargli un calcio, facendolo volare sguaiato sul
divano. A passi veloci, entrò in camera.
Girò un
paio di volte su se stesso, come se fosse in cerca di qualcosa che sfuggiva
repentino alla sua vista. In verità cercava solo un pretesto per sfogarsi,
prendere un oggetto e scagliarlo contro il muro, romperlo, farlo andare in mille
finissimi pezzi.
Era furioso.
Incazzato come non
mai.
Avrebbe voluto spaccare il mondo in
due.
Avrebbe voluto gridare.
Avrebbe voluto prendere
a pugni qualcuno.
Solo per sfogarsi.
Solo per far
scomparire la rabbia che aveva dentro.
Si sedette sul bordo del
letto, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e giunse le mani davanti a sé,
prendendo a sfregarle.
Doveva occupare la mente.
Ma
soprattutto, doveva occupare le mani.
Altrimenti avrebbero potuto
davvero posarsi su qualcosa per romperla.
Qualcosa come la testa
di Bill e di Gustav.
Avrebbe tanto voluto sapere cosa ci poteva
essere dentro i loro crani, controllare se tutto andava bene, oppure se c’era
qualcosa di marcio.
Ma avrebbe fatto meglio a fare lo stesso con
la sua, di testa, perché sua madre gli aveva insegnato che non bisognava mai
scagliare la pietra sul peccatore se non si era più innocenti di
lui.
E Georg Listing aveva commesso, in un primo tempo, il solito
errore che sia Bill sia Gustav stavano perpetuando. Il dare la colpa a Tom
invece che a loro stessi.
Era sempre più facile condannare gli
altri.
Ma il fatto era semplice, ognuno di loro aveva contribuito
alla mal riuscita dell’esibizione. Solo che due componenti su quattro parevano
non aver voglia di rendersene conto.
Erano imbarcati nella solita
slitta, in discesa, e al già enorme bagaglio di problemi irrisolti se ne era
aggiunto un altro. A velocità impazzita, si stavano dirigendo verso la lunga
striscia dell’arrivo.
Per quanto lo riguardava, l’avevano già
passata. Esattamente da quel pomeriggio.
Adesso, per lui, i Tokio
Hotel potevano anche andare a farsi benedire dal primo prete che
incontravano.
Lui non li avrebbe accompagnati.
Ringraziamenti!
CowgirlSara: Io non ti dico niente. Hai già detto tutto tu.
Stop.
LaTuM: Quando mi dicevi che quella ragazza
sapeva fare anche le critiche negative, cavolo, le sa fare da dio! XD ho letto
quello che ha scritto su between hate and pain... ma vabbè, mica si può pacere a
tutti! Ovvio che no! (anche se ha dato della mary sue ad erin... come se lo
avesse dato direttamente a me XDDDD pessimo carattere che ho! ora mi chiamerò
RubySueBaggins!). Grazie comunque per aver citato anche questa storia nel tuo
sito e grazie anche per i complimenti che mi hai fatto anche nel capitolo
precedente... grazie sempre! Ci sentiamo su msn!
Kit2007: poveri piccioli, andiamo a consolarli
tutti insieme! piangete sulle nostre spalle! ve le offriamo entrambe....
XDDD
Lidiuz93: ti mando un fazzolettino via fax,
così puoi asciugare le tue lacrime XD daidai, tirate su il morale!
Sososisu: Prima riunione delle Piastraz Angelz,
tirare fuori le piastre! Usate il Babyliss! E sfoderate il frisè! Facciamoci
sentire! Adesso basta con le cazzate. Grazie come sempre, ci sentiamo!
Dark_Irina: non ti preoccupare per la
recensione fatta al volo, tranquilla! Speriamo davvero che i ragazzi riprendano
il volo, ma chi lo sa?
Kltz: ho visto un migliaio di volte quel film,
Kiss Me, fino a qualche anno fa sbavavo dietro a quel maschione protagonista.
Poi ho scoperto che sta con Buffy e mi è cascato il mito... ma vabbè, capita
purtroppo! Davvero stai lavorando ad alcune storie? Ma bene! Voglio proprio
leggerle, mi è piaciuto molto quello che hai scritto nella shot... davvero! Per
i tuoi "dubbi"... non posso dirti niente, perchè comunque ti risponda, ti darei
un indizio per comprendere il prossimo sviluppo della storia XDD gia, proprio
così!
_Princess_: E ora che è uscita a prendere un
caffè con lei? Andiamo direttamente a fare gli attentati dinamitardi alla
libreria? Ah, per l'uomosesso posso dirti che per questo sabato sono libera, se
ti va bene me lo passi ok? Grazie per i complimenti, mi ha fatto molto piacere
conoscerti su msn! Ci sentiamo (vado a leggere la tua storia!!!)
Ciribiricoccola: questa libraria infida...
mmm... stiamo attente... si infilerà ovunque!
Picchia: se fai un altro fotomontaggio del
genere, ti prego, non me lo passare XD il nonno è da ospizio, ma è tanto
cariiiino! Ci sentiamo su msn!
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
CAPITOLO
7
Si
era aggiornato.
Internet, tv e stampa.
Entrambi i
tre grandi canali dell’informazione mediatica riportavano quasi all’unanimità il
seguente titolo: ‘Farewell Tokio Hotel, Welcome to the next boy band’,
per citare direttamente il ‘Daily Mirror’.
Eh
sì.
Era successo.
Nessuna smentita e nessuna
conferma.
Nessuna conferenza stampa.
Nessuna parola
al riguardo.
No comment.
Strettissimo riserbo da
parte di tutti i componenti della band e del loro staff.
Ma non ci
voleva una laurea in scienze della comunicazione per comprendere cosa stava
accadendo.
Cancellate le interviste
programmate.
Cancellate le apparizioni
televisive.
Cancellati i servizi.
Avvisaglie di
cancellazione delle prime date del tour, ormai imminente.
Per
essere sinceri, data la bassa prevendita di biglietti, una data italiana aveva
subito un cambio di location e ben due date in Europa dell’est erano state messe
in forse. Se si voleva essere davvero del tutto onesti, per la prima volta
pochissimi concerti aveva fatto sold out. Neppure una delle date
tedesche.
Era davvero passata la Tokio Hotel
mania.
Passata come il monsone, ad essere
ironici.
Erano arrivati, avevano portato un po’ di scompiglio, ma
già al sesto album erano stati riposti nello sgabuzzino dei ricordi.
Le ragazzine che impazzivano per loro erano cresciute, avevano
staccato tutti i poster, avevano cambiato modo di vestire, si erano iscritte
all’università e non facevano più caso a loro. Magari addirittura si
vergognavano di essere state loro fan.
Faceva un male cane
realizzare tutto questo.
Straziava l’anima
dentro.
Sapere che tutto quello per cui viveva era svanito lo
faceva sentire vuoto, senza altri scopi nella vita.
Era nato con i
Tokio Hotel, cresciuto con essi e, adesso che erano finiti a gambe all’aria…
fino a due mesi prima non sarebbe stato in grado di pensare ad una cosa del
genere.
Adesso la stava vivendo.
Sentì il cellulare
vibrare sul comodino.
La sua mente, intorpidita ma perfettamente
in grado di pensare, costrinse la sua mano ad uscire dal groviglio di coperte
per prenderlo e rispondere. Non riuscì a leggere il nome che compariva sullo
schermo, ma intuì perfettamente quale fosse e rifiutò la chiamata, restituendo
al cellulare la sua posizione naturale.
Tornò ai suoi pensieri,
alla sua depressione, alle sue coperte. Allungando l’orecchio, poteva sentire
che la donna delle pulizie stava dando l’aspirapolvere in giro per il salotto.
Aveva chiuso la porta della sua camera a chiave, da dentro, non sarebbe entrata
a disturbarlo.
Di nuovo il cellulare prese a
vibrare.
Aveva perso il numero delle volte che David lo aveva
chiamato. Cinquanta? Settanta? Novantanove?
Rifiutò di nuovo ma,
appena il cellulare ebbe toccato di nuovo il legno del comodino, tornò a
vibrare.
Era l’ora di farla finita.
“Che cazzo vuoi
David!”, gridò, rispondendo.
“Georg… sono io, Helen…”,
disse la voce femminile di lei.
Di tutte le persone che popolavano
il globo terrestre, lei era quella a cui non aveva mai pensato dal momento in
cui avevano rotto.
“Ah… ciao Helen…”, le disse, quasi annoiato, ma
allo stesso tempo molto sorpreso.
“Volevo… volevo sapere… ma se
disturbo…”, fece lei, titubante.
“Oh no… tranquilla, è che
non…”, disse Georg, ma gli si impastò la bocca.
“Stavi
dormendo, vero?"
“Beh… a dire il vero sì, ma non ti
preoccupare, è l’ora di alzarsi.”, disse Georg e, con riluttanza, scansò le
coperte e si mise a sedere sul bordo del letto, stropicciandosi la
faccia.
“Ho sentito, insomma, del gruppo e… volevo sapere come
stavi.”, disse lei, con una voce così flebile che quasi non la
sentì.
“Sto bene, sì… sto bene.”, disse Georg, poco
convinto.
“Sei sicuro?”
“Sì, abbastanza.”,
ripetè, con più sicurezza.
“Vuoi parlarne?”, gli chiese
Helen.
“Non mi farebbe male.”, disse,
sospirando.
“Davanti ad una tazza di caffè? Così magari ti
svegli…”, disse lei, ridendo sommessamente.
“Sì, non è una
cattiva idea.”, fece Georg.
Le disse che poteva passare nel tardo
pomeriggio, o comunque quando fosse stata libera, e lei
acconsentì.
Anche se avevano rotto in malo modo, quella chiamata
gli fece un po’ piacere.
Parte di lui voleva
parlare.
L’altra parte di lui…
Posò il telefono, si
alzò dal letto ed andò a farsi una doccia.
Tutto era tornato al suo posto. Non c’erano più la barba
incolta, i capelli spettinati, la camera in disordine ed il vago odore di scarpe
che aleggiava nella casa. Tutto era stato lustrato a fondo, pulito e profumato.
Quella casa non sembrava più il rifugio di un terremotato, né del
bassista di una band della quale non si sapeva più nemmeno se esitesse ancora
oppure no.
Dopo aver mangiato qualcosa, se ne stette per diverse
ore davanti allo schermo del suo portatile, in cerca di qualche notizia in più
che lo riguardasse. Solo voci, rumori, gossip, nessuna voce ufficiale. In ogni
forum, in ogni rivista on-line o sito qualsiasi che parlasse di loro, ognuno
aveva da dire la propria sul perchè i Tokio Hotel si erano sciolti.
Ma si erano davvero sciolti? Si chiese Georg.
Non
poteva sapere le intenzioni degli altri, ma sicuramente vertevano su una
risposta affermativa per quella domanda.
Più che ci rifletteva,
più che si diceva che basta stop, la
favola dei quattro di Magdeburg era giunta al termine.
Il
campanello suonò alla porta, era arrivata Helen, interrompendo la sua
divagazione mentale sull’argomento.
Si presentò sorridente e lui
la abbracciò volentieri. Era stato carino da parte sua porgergli una spalla su
cui aggrapparsi quando il resto del mondo sembrava sparito. Si era visto un paio
di volte con Fabian, ma solo per qualche ora, perchè purtroppo il suo lavoro lo
stava massacrando e, con grande rammarico, non aveva molto tempo da dedicargli…
almeno lui aveva qualcosa da fare, pensò Georg, invece di starsene tutto il
giorno a farsi seghe mentali, sdraiato sul letto... e non solo
mentali...
“Grandi brutte occhiaie.”, gli disse lei,
ridendo.
“Sì, purtroppo non dormo molto bene ultimamente.”, si
giustificò Georg, mentendo spudoratamente perchè il dormire occupava il novanta
percento della sua giornata, “Accomodati pure, vado a fare un po’ di
caffè.”
Sparì per qualche minuto nella cucina, per tornare poi con
un vassoio, su stavano cui due belle tazze di caffè fumante, zollette di
zucchero e cucchiaini.
“Oh, grazie mille.”, disse Helen, prendendo
la sua tazza.
“Non c’è di che… come va col lavoro?”, le chiese,
prima di bere il suo caffè.
“Abbiamo appena finito i servizi
speciali sulle settimane della moda di Londra e di Berlino… sono praticamente
esausta!”, disse lei, col suo classico tono gioviali di cui lui non si era
dimenticato.
“Come sarà la moda dei prossimi mesi? Dammi un
anticipo!”, le fece.
“Il colore prevalente sarà il turchese,
torneranno di moda i calzettoni al ginocchio e le scarpe basse… uno schifo, se
vuoi la mia opinione!”, esclamò lei, facendolo ridere.
“Beh, non
ho mai avuto un debole per il turchese…” disse Georg, “Penso che non comprerò
nuovi vestiti!”
“Fai bene… piuttosto… Vuoi parlarne?”, gli chiese,
con calma e serenità.
“Non c’è molto da dire.”, le fece,
sorseggiando del caffè.
“A quanto leggo in giro sembra proprio di
sì… ma perché non fate una conferenza stampa per smentire tutto?”, disse
Helen.
“Perché…”, iniziò Georg, ma poi si
bloccò.
“Stanno speculando in una maniera impensabile!”, riprese
Helen, animandosi, “Ormai la vostra siete diventati come una
telenovelas…”
A Georg scappò una risata a bassa
voce.
“Se devo dirtela tutta, non sento nessuno di loro da diversi
giorni. L’ultima volta che ci siamo visti è stato circa cinque o sei giorni dopo
la live performance… e poi più niente.”, le rivelò Georg.
“Allora
vi siete sciolti.”, ne dedusse Helen.
“Non lo so.”, rispose Georg,
facendo spallucce, “Te l’ho detto, non sento nessuno di loro. E comunque rifiuto
le loro chiamate.”
“Ah sì?”
“Sì… ho dei buoni motivi
per farlo.”, disse semplicemente Georg.
“Mi dispiace…”, fece
Helen, “Ma forse parlando con loro risolverete i vostri
problemi.”
“Non credo.”, disse Georg, “Se avessimo voluto
veramente risolvere in nostri problemi, lo avremmo già fatto… ma dato che siamo
a questi livelli, penso proprio che non sia il caso di tornare
indietro.”
“Ci avete almeno provato?”
“Io ho
tentato… ma non è facile scontrarsi con delle mura di gomma, rischi solo di
rimbalzarci e farti del male.”, disse Georg.
“Ma qual è il vero
motivo di tutto questo casino!", sbuffò
Helen, "Non vorrai mica dirmi che quattro
fischietti sono bastati per farvi mandate tutto a quel
paese!”
“No, tranquilla, ci sono anche tante altre cose in
sottofondo…”, disse Georg, grattandosi la fronte.
“E
quali?”
Le lanciò un’occhiata di traverso.
“Sto
iniziando a sospettare che tu voglia sapere queste cose per pubblicare poi un
articolo sul giornale per cui lavori.”, le disse, cercando però di non far
passare quella sua ipotesi come un’accusa.
“No, tranquillo!”,
esclamò Helen, ridendo, “Non ho né microfoni né microspie
addosso!”
“Lo sai che qualsiasi cosa detta da me non deve uscire
di nuovo dalla tua bocca.”, le ripetè, sempre con il solito tono scherzoso ma
comunque fermo e deciso.
“Sì, non me lo dimentico, puoi starne
certo.”
L’importante era mettere le mani avanti prima di sbattere
la testa, pensò Georg. Non che non si fidasse di Helen ma… Dato che certe
notizie facevano gola a tutti, doveva tacere, e già aveva detto troppo. Certo,
gli stava facendo bene sfogarsi con qualcuno. Ma data l’occupazione di Helen,
era meglio drizzare le antenne e stare alla larga dal rivelare determinati
dettagli.
“Mi dispiace per l’altra volta.”, disse poi lei,
abbassando lo sguardo sulle sue mani, che giocherellavano con uno dei suoi
anelli.
“Lascia stare, è stata colpa mia, non dovevo rivolgermi a
te in quel modo.”, si scusò Georg.
“E io avrei dovuto richiamarti…
ma ero troppo impegnata col lavoro e… poi ero ancora arrabbiata con te.”,
proseguì Helen, con un lieve sorriso imbarazzato sulle labbra.
“Io
ho fatto lo stesso.”, disse Georg, poi le porse la mano.
“Sì,
meglio così.”, disse Helen, comprendendo che quel gesto era una sorta di
riconciliazione da amici.
Quando entrambe le mani si lasciarono,
ci fu qualche secondo di silenzio, quasi imbarazzato, in cui nessuno dei due
trovava qualcosa di intelligente da dire.
Georg finì la sua tazza
di caffè e la posò sul vassoio.
“Quindi… va tutto bene con il
lavoro…”, disse, dato che la sua mente si era completamente svuotata in pochi
secondi.
A dire il vero c’era una cosa ben precisa che incombeva
nella sua mente, ma…
“Sì.”, rispose lei, con un sorriso
stretto.
I suoi capelli biondi stavano legati in una coda di
cavallo alta sulla nuca. Aveva un maglioncino a collo alto nero,
tinta unita, ed una giacca grigia con dei grossi bottoni neri ed una fascetta
per tenerla ferma in vita.
Il nasino a punta, le piccola bocca,
gli occhi verdi…
Le avvicinò una mano delicatamente al viso e la
baciò, senza riflettere. Lei si liberò subito, discostandosi e guardandolo con
occhi stupiti e quasi arrabbiati.
“Georg…”, disse poi,
risentita.
“Scusami… non volevo, perdonami.”, disse lui
immediatamente, pentitosi di quel piccolo gesto.
Al che fu lei a
prendere il suo viso tra le mani e a baciarlo.
Mentre Helen si stava facendo una doccia in bagno, Georg
ne approfittò per accendersi una sigaretta e fumarsela in pace.
Ne aveva proprio avuto bisogno.
Non della
sigaretta.
Di quello che era venuto prima.
Non
perché lo aveva appena fatto con Helen, ma semplicemente perché lo aveva fatto e
basta.
Fatto davvero, nessun surrogato. Nessun menage a
uno.
Completamente rilassato, con la spalla lievemente
indolenzita per via di quei tre o quattro morsi che Helen gli aveva dato, se ne
rimase a fissare il soffitto, in contemplazione della ragnatela che la donna
delle pulizie non aveva tolto.
Nessun pensiero gli sfiorava la
testa, a parte la possibilità di concedersi un bis, dato che lo scrosciare
dell’acqua nel bagno lo stava stimolando di nuovo.
La sigaretta
finì e venne spenta presto nel posacenere, sul comodino. Helen riapparve in
camera con l’asciugamano legato sul petto e gli si distese accanto, appoggiando
la testa sulla sua spalla. Gli dette un piccolo bacio sulla guancia e si mise,
come lui, a fissare il soffitto.
“Hai una caramella?”, gli chiese,
“Una di quelle gommose…”
“Non so.”, disse Georg, per il quale il
dopo era sempre determinato da un lungo periodo di silenzio.
“Ah…
accendo un po’ di tv.”, disse Helen e, guardandosi intorno, “Dov’è il
telecomando?”
“Dentro al cassetto del comodino… dalla tua parte.”,
le spiegò.
Nel mentre lei lo stava cercando, Georg ne approfittò
per rivestirsi, stava iniziando a sentire un po’ di freddo.
“Cos’è
questo?”, sentì dire ad Helen.
“Cosa?”, le chiese e, dopo aver
indossato una t-shirt qualunque, si voltò verso di lei.
“Questo
qui.”, disse Helen, porgendogli con sguardo divertito un
libro.
Ancora quel libro.
“Lo sai cos’è.”, le
rispose, tornando a sdraiarsi con noncuranza sul letto.
Lo aveva
richiuso nel cassetto del comodino, come aveva fatto qualche tempo fa, per poi
di ritrovarselo inaspettatamente dentro il borsone, pochi minuti prima
dell’esibizione in unplugged. E lì lo aveva riposto ancora, dopo il piccolo
'screzio' con Mondenkind, capendo che quel coso, da quando lo aveva avuto in
mano, non aveva fatto altro che mettergli strane idee in
testa.
“Lo stavi leggendo?”, disse Helen, sedendosi a gambe
incrociate sul letto ed iniziando a sfogliarlo.
“Un po’… me lo
hanno regalato.”, le disse, mentendole in parte perché non aveva voglia di
tornare sull’argomento.
L’ultima volta che quel libro, ma soprattutto il
film che ne era stato tratto, era entrato tra di loro, avevano rotto. Non che in
quel momento fossero tornati insieme, assolutamente no. Ma tenersi Helen come
una buona amica di letto non era una
cattiva idea.
“Il film faceva schifo… figuriamoci il libro!”,
sbottò Helen.
Poi si accomodò, appoggiando la schiena alla testata
del letto, ammorbinendola con un cuscino, e prese a leggere qualche passo, in
silenzio. Georg accese la tv con il telecomando che Helen si era dimenticata di
prendere, attratta dal libro.
Si sistemò accanto a lei ma tra di
loro c’era comunque una piccola distanza, quella classica che si aveva tra due
persone, quasi estranee, ma che condividevano una sola cosa. Il sesso. Per il
resto nient’altro.
“Non riesco a credere che la mia maestra delle
elementari potesse credere nella demenzialità di queste parole.”, disse Helen,
chiudendo il libro.
Georg, in un primo momento, non rispose, non
era stato a sentirla.
“Diceva che il più grande insegnamento di
questo libro era credere nei sogni, nella fantasia e nei desideri.”, proseguì
Helen.
“Ne abbiamo parlato anche l’ultima volta che ci siamo visti
e la serata non è andata a finire bene.”, le ricordò Georg, mentre saltava
ininterrottamente da un canale all’altro.
“Sì, lo so… solo che
quella volta ti sei arrabbiato. E stavolta no.”
“Perché dovrei
farlo ancora?”, sbottò Georg.
“Perché parevi credere molto in
quello che stavi leggendo.”, fece Helen, maneggiando il libro tra le sue mani,
“Mi facesti capire che credere nei propri sogni era tutto nella
vita.”
Georg fece spallucce e tornò al suo
zapping.
“Ma i sogni spesso si infrangono… non è vero Georg?”,
continuò Helen, alludendo evidentemente a quello che gli stava succedendo,
“Quindi perché crederci? Prima o poi tutto finisce… e ne rimaniamo
delusi.”
Come poterle dare torto, pensò Georg.
“Se
non ricordo male”, fece Helen, “in questo libro il mondo della fantasia veniva
mangiato ogni giorno dal cosiddetto Nulla. Non è così,
Georg?”
“Sì…”, disse il ragazzo, abbandonando la tv ed il
telecomando.
“E il Nulla… che cosa pensi che sia? E’ la realtà,
Georg, che vince sulle stupidaggini. Cosa sogniamo a fare se poi tutto va sempre
per il verso sbagliato? Bisogna prendere di petto la situazione ed andare
avanti…”, disse Helen.
“Sei in vena di lezioni di vita, oggi…”, le
fece Georg, che aveva visto scomparire tutte le possibilità di fare sesso per
una seconda volta.
“La realtà ti ha raggiunto, ti ha
mangiato…” continuò a dire Helen.
All’improvviso, Georg non potè
fare a meno di pensare alle parole di uno specifico personaggio della storia.
Quel personaggio, comparso anche nel film, si chiamava Mork. Nella trasposizione
televisiva era un grosso lupo; sulla carta era comunque un lupo, però mannaro.
In entrambe le versioni, era stato messo alle calcagna di Atreiu per catturarlo,
per non farlo continuare oltre nella sua Grande Ricerca.
I due si
erano incontrati nella città dei Fantasmi, detta anche Paese della Malagenia, ed
ebbero una discussione fondamentale, forse la più importante di tutto il libro.
Mork, il lupo mannaro, disse di avere la possibilità di poter passare da
Fantàsia al mondo umano con semplicità, ma di non appartenere né alla Terra,
dove Atreiu avrebbe dovuto cercare il salvatore dell’Imperatrice, e dove lui
aveva le sembianze di un essere umano, né al mondo di Fantàsia, dove invece era
il mostro che Atreiu aveva davanti agli occhi. Disse di essere un servo del
Potere, di quella forza oscura e maligna
che sfruttava il Nulla per inghiottire Fantàsia, proiettandola sul mondo umano
sotto forma di menzogne, paure, manie e disperazioni per
assoggettare così il mondo degli uomini al suo completo
controllo.
'Che cosa
siete dopotutto, voi abitanti di Fantàsia? Chimere, visioni fantastiche,
immagini di fantasia, invenzioni del regno della poesia, personaggi di una
storia senza fine! O forse che tu ti ritieni, in realtà figliolo?', disse
Mork, dopo che Atreiu lui gli ebbe chiesto che tipo di menzogna sarebbe
diventato se fosse caduto nel Nulla, che stava mangiando lentamente il posto in
cui si trovavano insieme, 'Beh, sì, certo, qui
nel suo mondo sei realtà. Ma una volta che sei passato attraverso il Nulla non
lo sei più. Allora diventi irriconoscibile. Allora sei in un mondo diverso.
Laggiù non avete più alcuna somiglianza con voi stessi. Voi portate nel mondo
degli uomini accecamento e illusione. Diventate manie, idee fisse nella mente
degli uomini, idee di disperazione là dove non c'è ragione di dipserarsi,
immagini di angoscia dove non c'è motivo di
angosciarsi...'
Quel libro era
degno della trama di alcuni dei migliori film sul futuro catastrofico umano,
pensò Georg.
‘Nel mondo degli uomini c’è una grande quantità di
schiocchi (che naturalmente si considerano molto intelligenti e credono di
servire la verità), zelantissimi nel convincere i bambini a non credere
all’esistenza di Fantàsia. Chissà, forse sarai utile proprio a loro’, lesse
Georg nelle parole di Mork.
Atreiu comprese allora che nessuno
degli uomini voleva più venire a Fantàsia perchè tanto più la distruzione
dilagava, tanto più grande diventava il fiume di menzogne che si riversava sul
mondo degli umani. Ogni minuto che passava, quindi, allontanava sempre di più la
possibilità che il figlio di Adamo, di cui lui era alla ricerca, venisse a
salvarli, accecato dalle bugie e dalle manie.
Gli uomini avevano
causato il Nulla, smettendo di sognare e di sperare.
Ed il Nulla
stava arrivando per annientarli definivamente.
Avevano dimenticato
i sogni.
Rinunciato alle
speranze.
Perso la
fantasia.
Ed Helen, in quel momento, con il suo sermone, pareva
uno di quegli schiocchi zelantissimi nominati da Mork.
“Troverò un altro scopo nella vita, se è questo che ti
interessa.”, disse Georg, stanco delle sue parole.
“Ecco, questo è
un buon inizio.”, disse Helen, soddisfatta nell’aver sentito quello che voleva
che uscisse dalla bocca di Georg.
Che palle, si disse
Georg.
Pensava di essere lui il maestro della sua
vita.
Di nuovo gli venne da fare un’altra analogia tra la sua vita
e quel libro.
Avevano perso la fantasia: il nuovo album era esattamente
uguale a tutti quelli precedenti. Non si erano rinnovati, non avevano dato
spazio alle influenze da altri generi e si erano semplicemente lasciati
trasportare dalla corrente, scrivendo pezzi che non avevano niente di diverso,
stilisticamente parlando, da quelli pubblicati negli anni
passati.
Avevano dimenticato i sogni: fare musica insieme, per sempre. Se lo
erano promesso, a quindici anni.
Perso la speranza: non stavano facendo niente per
rattoppare le loro vite, tornare a fare il sold out ai concerti ed avere
riconoscimenti in tutto il mondo.
Il Nulla che loro stessi avevano
generato, con i loro comportamenti sbagliati, adesso se li stava mangiando tra
due belle fette di pane, magari anche con qualche condimento extra.
Era il momento di portare le scuse a qualcuno di sua
conoscenza.
***
Quando vide Mondenkind rimase quasi spiazzato. Era
talmente pallida che poteva benissimo essere trasparente. Era in piedi, stava
catalogando dei libri mentre suo nonno fumava la sua pipa seduto sulla sua
poltrona, assorto in una lettura.
Sembrarono non sentire il suono
dei campanellini attaccati alla porta, quando lui entrò. Si voltarono verso di
lui solo quando attirò la loro attenzione con un buongiorno, sventolando
lievemente la mano destra, che teneva stretta il libro.
“Georg…”,
disse Mondenkind, con una voce quasi inesistente.
“Ah… è arrivato
il giovanotto!”, sbuffò subito suo nonno, mentre dalla sua pipa uscivano fuori
anelli di fumo che si rincorrevano nell’aria, sopra la sua
testa.
“Sì… sono proprio io…”, disse Georg, sorridendo a denti
stretti.
“Allora me ne vado nel mio studio… così vi lascio soli.”,
disse il simpatico vecchietto, alzandosi dalla sua amata poltrona e chiudendosi
nello studiolo, insieme alla sua pipa e al libro.
I due ragazzi
attesero che la porta si chiudesse per scambiarsi qualche
parola.
“Sono venuto per… scusarmi. Per l’altro giorno,
ovviamente.”, disse Georg, grattandosi la testa.
“Ti capisco
benissimo Georg… ti ho innervosito con il mio atteggiamento un po’, come dire,
da sapientona. Non volevo assolutamente passare per quella che dispensa lezioni
di vita a destra e a manca. Ognuno deve fare ciò che vuole.”, disse
Mondenkind, chiudendosi nella sua felpina rosa, come se avesse avuto
freddo.
Almeno lei aveva la maturità necessaria per capirlo, pensò
immediatamente Georg, dopo essere tornato con la mente al giorno precedente,
alla chiacchierata che aveva avuto con Helen.
“E comunque hai
ragione… cosa ci potrai mai trovare in un libro come quello?”, proseguì
Mondenkind, con una certa aria sconfitta.
“E’ proprio lì che
volevo scusarmi.”, disse Georg, “Magari tu a questo libro ci tieni veramente, ci
sei affezionata… tuo padre ti ha chiamato esattamente come l’Imperatrice! E io
l’ho trattato come se fosse carta straccia!”
“Allora visto che ci
tieni tanto… scuse accettate!”, disse Mondenkind,
sorridendo.
Georg le porse la mano e lei, titubante, gliela
strinse. Ma la tenuta di Mondenkind non aveva la benché minima forza, era
debole. La sua mano era del tutto fredda, sterile e senz’anima.
Si stupì del cambiamento strabiliante che aveva visto
nell’aspetto di quella ragazza. Dapprima era gioviale, la sua risata era
contagiosa, la sua faccia era luminosa.
Adesso era l’ombra di se
stessa.
Magari aveva solo bisogno di uscire un po’ di più all’aria
aperta, di svagarsi, di conoscere nuova gente… di cambiare vestiti… di togliersi
quegli occhialetti buffi… Di sicuro non le faceva bene passare tutto il suo
tempo dentro a quella libreria, nella penombra, a trafficare libri antichi e
vecchie edizioni. Se lei avesse accettato, le avrebbe fatto conoscere
un po’ dei suoi amici, così… tanto per toglierla di
lì.
“Dovrei anche parlarti di un’altra cosa..”, disse Georg,
sorridendole.
Lei ricambiò il suo sorriso con un espressione
simile, ma molto stanca.
“C’è qualcosa che non va, Mondenkind?”,
le chiese.
Non si sentì strano nel preoccuparsi per lei, dato che
fino a quel momento il contatto più reale che aveva avuto con un essere umano,
che non fosse stato se stesso, era avvenuto proprio con
Mondenkind.
Una totale sconosciuta, l’unica cosa che aveva in
comune con lei era quel libro, eppure quando si parlavano lei dimostrava sempre
di capirlo, di accettare i suoi punti di vista. Silenziosamente, Mondenkind lo
ascoltava, gli porgeva domande, lo faceva riflettere senza pretendere niente in
cambio.
“Te l’ho detto, ultimamente non mi sento per niente
bene.”, gli ripetè la ragazza, come aveva già fatto altre
volte.
“Ma ci sarà un motivo per questo!”, esclamò
Georg.
Poi un pensiero gli passò per la testa. E se avesse avuto
una malattia di cui non voleva parlare?
“Non lo so che cos’è che
ho… i dottori dicono che sto bene, che tutto sembra essere a posto. Ma non è
così.”, disse Mondenkind, con aria rassegnata.
“Ti sei fatta fare
degli esami? Degli accertamenti?”
“Sì… ho fatto tutto. Ma niente,
non sono serviti a niente.”, disse Mondenkind.
“Per favore,
siediti.”, le fece Georg, avvicinandoli e sostenendola finchè lei non si fu
accomodata sulla vecchia poltrona.
“Forse uscire fuori da qui ti
farà stare meglio.”, le propose, del tutto insicuro.
“No, non
credo.”, disse Mondenkind, appoggiando la fronte sulla mano, “Qual è l’altra
cosa di cui volevi parlarmi?”
Georg sospirò, cercando di
organizzare la valanga di pensieri che era franata dentro la sua
mente.
“Di un mucchio di cose… e forse di nessuna di queste.”,
disse, sorridendo con amarezza.
“Cosa intendi?”, disse Mondenkind,
con aria perplessa. Poi, con un cenno della testa, gli indicò un punto non
precisato alle sue spalle, che si rivelò essere uno sgabello, abbandonato contro
uno scaffale. Georg lo prese e si sedette davanti a lei.
“Beh… ho
avuto una chiacchierata, ieri sera, con una mia amica…”, iniziò a dire
Georg.
“Amica?”, lo interruppe Mondenkind, con sorriso lievemente
malizioso.
“Sì, insomma…”, disse il ragazzo, abbassando lo sguardo
con un certo imbarazzo, “Ed ho capito un paio di
cose.”
“Quali?”
“Forse tutti i torti non ce li hai,
Mondenkind.”, disse Georg, sorridendole.
La ragazza annuì
concentrata con la testa, come per dirgli che poteva andare
avanti.
“Vedi… forse ho ancora una qualche possibilità di tirarmi
fuori dal Nulla in cui sono caduto. O meglio, siamo caduti.”, cercò di spiegarsi
meglio Georg.
“Non ti seguo.”, disse Mondenkind, ma dall’angolino
destro della sua bocca, voltato lievemente all’insù, Georg comprese che lo stava
seguendo perfettamente.
“Mi dicesti che avrei potuto trovare una
soluzione ai miei problemi tra queste pagine… Questo libro non è esattamente il
manuale della felicità, ma sicuramente mi sta insegnando che, anche se la vita
fa schifo, c’è sempre qualcosa che deve farci andare avanti.”
“E
quale sarebbe questa cosa?”, chiese Mondenkind, sul cui viso non si celava più
alcun segno di soddisfazione.
“I miei sogni.”, disse Georg, “Le
mie fantasie. Finchè ho creduto nel mio sogno, cioè diventare un musicista per
tutta la vita, niente è andato storto… ma quando ho smesso di crederci, o
meglio, abbiamo smesso di crederci… tutto è finito in mille pezzi. Sembra una
stupida frase fatta, una sciocchezza per qualunquisti, una dichiarazione
moralistica. Ma è la verità.”
Mondenkind non proseguì con una
domanda, o una semplice affermazione. Voleva che lui continuasse a
parlare.
“Ma se ci metteremo insieme con l’idea di poter tornare a
credere in quel sogno… E’ questa la soluzione che dicevi tu? Non è
vero?”
Fu allora che Mondenkind reagì. Discostò la sua schiena
dalla poltrona, si avvicinò sorridendo a Georg e gli posò delicatamente una mano
sopra le sua, unite tra loro. Il contatto, inizialmente freddo e senza
consistenza, si rivelò caldo e corposo. Georg sentì il calore dilatarsi a
macchia d’olio dalle sue mani, diffondersi per tutto il suo braccio e
disperdersi ovunque sul suo corpo, come se fosse stata una marea di acqua, che
saliva vorticosamente seguendo l’influsso lunare.
“Forse lo è.”,
disse Mondenkind, con voce pacata e serena, “Devi fare ciò che vuoi. E’ anche
questo quello che il libro ti insegna.”
Georg rimase
interdetto.
Pensava di aver dato la risposta
giusta.
“Non lo hai letto fino alla fine, vero?”, disse
Mondenkind.
“No…”, disse Georg,
imbarazzato.
“Tranquillo, non ti metterò sul patibolo per questo…
Adesso ti spiego: quando l’Imperatrice Bambina porta Bastian a Fantàsia per far
rinascere tutto a nuovo splendore, grazie ai suoi desideri, gli consegna Auryn.
E dietro di esso Bastian trova scritto: Fa’ ciò che
vuoi.”
“Non sono ancora arrivato a quel punto…”, ammise Georg,
“E comunque pensavo che il grande insegnamento di quel libro fosse stato credere
nei propri sogni e nelle proprie speranze.”
“Si, lo è.”, ripetè
Mondenkind, “Ma non bastano solo i desideri. Serve anche
questo.”
Con la punta del suo dito indice, Mondenkind toccò la
fronte di Georg.
“Fa’ ciò che vuoi non significa fare
letteralmente sempre quello che si vuole.”, riprese a spiegarsi Mondenkind,
“Vuol dire che devi compiere la tua volontà. Seguire ciò che ti viene da dentro.
Se vuoi che il tuo gruppo torni ad esistere, allora esisterà. Ma se non lo vuoi
veramente…", disse lei, lasciando che la sospensione della sua voce fungesse da
risposta, "E la risposta sta dentro di te.”
Georg riflettè su ciò
che aveva appena sentito.
“Non lo so quale sia la mia volontà.”,
rispose Georg, con amarezza, “E’ che… da una parte non voglio che tutto il
lavoro che abbiamo fatto in questi anni venga sprecato così… ma dall’altra non
posso dimenticare determinate cose. Determinate parole.”
“Ed
infatti io non ti ho mai chiesto di darmi una risposta.”, disse Mondenkind,
tornando ad appoggiare la schiena contro la poltrona.
“Già… anche
questo è vero.”
“Dovresti pensarci molto bene,
Georg.”
“Sicuramente lo farò.”
“Non c’è solamente la
tua volontà in gioco.”
Era vero.
I Tokio Hotel non
erano composti solo da Georg Listing.
C’erano bensì altre tre
persone.
E non sarebbe stato facile.
Ecco, adesso cominciano le vere
seghe mentali della Silvia
sottoscritta. La storia inizia ad arrivare alla sua conclusione (che frase
complicata....) e molte cose si stanno facendo intricate e assurde, molto
difficili da spiegare per me, sapendo che molte di voi si fermano solo alla
conoscenza del film. Sto provando a spaccare il capello in quattro per rendervi
tutto più facile e per me, che devo ammettere devo ancora comprendere il
significato di molte parti del libro, non è così semplice.
Ma visto che
ormai siamo in ballo, e che ballo, devo fare una buona esibizione, non vi
pare?
Ieri sera, nella rilettura, ho cercato di spiegare al meglio ogni cosa,
soprattutto la parte in cui viene citato, in corsivo, parte del discorso tra
Mork ed Atreiu...0 Spero che tutte voi abbiate capito il nesso che c'è stato
nella mente di Georg tra il libro e il personaggio di Helen, altrimenti sono ben
felice si spiegarlo in un modo nuovo e migliore.
Attenzione ai particolari,
ragazze mie belle
Questa frase avrei dovuto dirvela moooolto tempo
fa, diciamo già dal primo capitolo... Attenzione alle parole, alle frasi, ai discorsi...
In questo capitolo sembra
che non sia successo molto... ma invece...
Per questo capitolo salto i
ringraziamenti ad hoc, stamattina ho un sonno che non me lo levo di dosso. Ma
sappiate comunque che ogni vostra recensione mi fa molto piacere. Un grazie
anche a tutte quelle che non hanno recensito ma che hanno semplicemente
letto!
Alla prossima!
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
CAPITOLO 8
Era il caso di parlarne e di trovare una soluzione.
Parlare faccia a faccia, senza pressioni esterne.
Parlare senza altri interlocutori che non fossero
stati loro quattro.
Fu per questo motivo che Georg chiamò insistentemente
Tom, Gustav e Bill per tre giorni consecutivi, nell’attesa che loro
rispondessero.
La maggior parte delle chiamate andava a vuoto,
senza risposta.
La rimanenza si perdeva nella voce gentile ed
ipocrita dell’operatrice telefonica, la quale lo informava che il numero
chiamato non era raggiungibile perchè spento, oppure occupato in un’altra
conversazione.
Ma non doveva demordere.
Una volta per ogni ora, prendeva il suo cellulare e
ricomponeva i soliti tre numeri.
Di nuovo ed ancora un’altra volta.
Gustav fu il primo a rispondere dei tre, il quarto
giorno, verso le sette di sera.
“Ti ho risposto solo perchè così la smetti di
chiamarmi ancora.”, disse, appena la linea fu stabilita.
“Ehm… Gustav, come va?”, esordì Georg, indeciso su
come dovesse affrontare la questione.
“Come se ti interessasse veramente… cosa vuoi?”
Meglio rimanere calmi e pacifici.
“Vengo subito al punto… vorrei parlare con tutti
voi. Seriamente.”
“Seriamente esclude in automatico di dare del
figlio di puttana in faccia alle persone.”, tuonò Gustav.
"Sì…”, fece Georg, incassando il colpo successivo,
“Ma qua a casa mia, senza nessun altro che noi.”
“Gli altri due?”, chiese Gustav.
“Non hanno ancora risposto.”
“E non lo faranno.”
“Prima o poi si decideranno ad accettare le mie
chiamate, a meno che non vogliano stare a sentire il loro telefono squillare ininterrottamente.”,
disse Georg.
L’altro rimase qualche istante in silenzio.
“Perchè lo stai facendo Georg? Perchè ti stiamo
tanto a cuore, quando invece ti sei rivolto a noi offendendoci in quel modo?”,
gli domandò Gustav.
“Perchè mi voglio scusare… e voglio parlare con
voi.”, fece Georg, che non riusciva più a trattenersi, istigato
dall’atteggiamento rissoso dell’altro, “Quindi, se ti va bene, domani sera a
casa mia, verso le sei.”
“Ok, ok… .”, disse Gustav, e chiuse la
chiamata.
***
Decise di presentarsi alla porta di casa loro. O
faceva in quel modo, oppure non avrebbe mai più sentito la loro voce.
“Cosa ti fa credere che voglia aprirti…”, sentì
sibilare la voce di Bill, al di là del grande portone blindato che chiudeva
l’accesso all’attico dove lui e suo fratello vivevano. Non aveva aperto
all’ormai ex amico, ma lo stava sicuramente osservando dal piccolo schermo di
sorveglianza: la sua immagine veniva costantemente catturata dallo
spioncino-telecamera che stava affisso sulla porta.
“Perchè posso accamparmi qua fuori anche tutta la
notte. E perchè prima o poi voi dovrete uscire fuori di casa.”, rispose Georg,
prontamente.
“E se chiamassi la polizia?”, azzardò Bill.
“Non lo faresti.”
“Come fai ad esserne tanto sicuro?”
“Perchè ancora nessuno di noi si è pronunciato sul
nostro scioglimento. E nessuno di noi sembra intenzionato a farlo. Quindi
perchè renderlo ufficiale facendomi arrestare mentre tampino la vostra porta di
casa, nel vano tentativo di riconciliazione che mi sto sforzando di mettere in
piedi?”, disse Georg, sicuro che la sua risposta sarebbe stata di chiaro
effetto.
L’altro, infatti, se ne rimase silenzioso.
“Se vi interessa provare a riallacciare i nostri
rapporti,”, gli fece, “venite a casa mia. Domani sera, verso le sei.”
“Abbiamo da fare.”, disse Bill, seccamente.
“E quando è che sarete liberi? Mai?”, fece Georg,
toccandosi stancamente le tempie.
“Sì.”
“Come non detto. Domani sera vi aspetterò. Se non
verrete, significa che non ve ne frega un cazzo di quasi dieci anni passati a
suonare insieme, in giro per il mondo.”
Dette quelle semplici parole, Georg tornò verso
l’ascensore, e lasciò che tutti prendessero le proprie decisioni.
***
Seduto sul divano.
Gambe distese, piedi incrociati.
Mani congiunte sul ventre.
Un leggero ticchettio del ginocchio sinistro.
Attendeva che qualcuno si presentasse alla sua
porta. Impaziente.
Erano le sei e mezza ed ancora nessuno si era fatto
vedere. Ma il ritardo era tipico di tutti loro, quindi non doveva farci caso.
Scacciò via un lieve prurito sul suo naso, ricordandosi
che non era sicuramente di buon auspicio.
Qualcuno avrebbe suonato il suo campanello, bussato
alla sua porta?
Anche uno solo di loro. Uno su tre.
Non doveva desistere, no, doveva sperare fino in
fondo che tutto sarebbe andato per il meglio.
Se ne convinse.
Deciso, si alzò, incrociò le braccia e prese a
passeggiare nervosamente per il suo soggiorno.
Ininterrotto, continuò a farlo per diversi minuti,
finchè il suono metallico del suo campanello lo risvegliò dal torpore agitato.
Andò alla porta.
Aveva sperato in uno solo di essi. Magari Gustav. I
due Kaulitz non si sarebbero mossi l’uno senza l’altro.
Ed invece erano lì, tutti e tre, davanti alla porta
di casa sua.
“Entrate, prego.”, fece Georg, discostandosi per
farli passare.
In fila indiana, silenziosi, sospettosi, andarono a
sedersi sul suo divano.
“Volete qualcosa da bere?”, chiese Georg, ancora in
piedi.
Gli altri scossero la testa e Georg si accomodò.
Avrebbe voluto iniziare subito il discorso, ma notò
dalle loro facce che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa in più al resto.
Bill se ne stava a testa bassa, con le braccia
conserte sul petto.
Tom, accanto a lui, preferiva spostare lo sguardo
altrove, piuttosto che sugli altri.
Gustav, a gambe incrociate, era l’unico che
attendeva un segnale, una parola, un gesto da Georg, guardandolo dritto negli
occhi.
“Allora…”, si fece coraggio Georg, “Vorrei prima di
tutto iniziare con…”
Gustav si mosse, sembrava volersi accomodare
meglio, ma invece non fece altro che sbottonare la giacca che indossava, infilare
una mano dentro di essa e tirarne fuori qualcosa, che finì ben presto sul vetro
del tavolino davanti a lui.
“Cos’è?”, fece Georg, prendendo quel giornale.
Guardò la copertina.
Non appena i suoi occhi caddero su una parola a lui
conosciutissima, il suo nome, stampato a caratteri quasi cubitali a fondo
pagina, si sentì mancare il fiato.
‘In esclusiva: Georg Listing! Cade il silenzio
sui Tokio. E cadono anche i Tokio.’
Sgranò il occhi.
Freneticamente, sfogliò tutto il giornale, sotto
l’occhio vigile degli altri.
Ma fu inutile leggere, già sapeva che cosa avrebbe
trovato scritto.
E soprattutto, sapeva chi l’aveva scritto. Helen,
quella era la rivista di moda per cui lavorava.
Prese il giornale e lo scaraventò a terra.
“Mi aveva promesso che non avrebbe detto una
parola. Non una parola!”, esclamò Georg, iniziando ad animarsi.
I due Kauliz, dal loro canto, non risposero in
alcun modo.
Gustav, invece, raccolse la rivista e, ad alta
voce, lesse qualche passo.
‘Fonti vicine alla nostra rivista e totalmente attendibili,
continuavano a riportarci da almeno un paio di mesi che il gruppo non era più
unito come una volta. Litigi, invide e gelosie si sono infiltrate infidamente
nel loro rapporto, minandolo dalle fondamenta…’
“Basta, per favore…”, disse Georg.
“Aspetta! Ancora il passo meglio deve arrivare:”,
riprese a leggere Gustav, “Per quello che mi riguarda, i Tokio Hotel non
esistono più. Sono queste le prime parole che sono uscite dalla bocca di Georg,
quando gli è stato chiesto del destino del suo gruppo.”
“Non l’ho mai detto!”, si difese Georg, “Io non le
ho mai dette queste cose!”
“Georg…”, fece Bill, guardandolo di sbieco, “Almeno
ti hanno pagato bene per questa intervista?”
“Cosa?”, esclamò il ragazzo, “Non ho mai concesso
nessuna intervista su di noi! E’ stata Helen, mi ha raggirato e mi ha sfruttato
per pubblicare un’esclusiva!”
“Certo che sei proprio un’idiota!”, esclamò Tom,
“Lo sapevi che lavorava per un giornale! Cosa ti costava non parlarle del
nostro lavoro!”
“Lei mi ha sempre promesso che non avrebbe mai
fatto parola di quello che le dicevo! E io mi sono fidato!”, gli rispose Georg,
che si sentiva il sangue ribollire nelle vene.
“Ma cosa ti passava nel cervello Georg!”, fece
Gustav, “Da quando in qua i giornalisti sono delle pie anime che tengono i segreti
che vengono confidati loro?”
“Proprio non conosci la prudenza, Georg.”, disse
Bill, scuotendo la testa.
“Credete che lo abbia fatto apposta vero?”, disse
l’accusato, alzandosi in piedi, “Credete che non abbia mai pensato che Helen
stesse insieme a me per trarne un profitto? Sì, l’ho pensato, anche più di una
volta. Ma mi fidavo di lei. E mi dispiace essermi sbagliato sul suo conto!”
Riprese fiato, cercò di non esplodere in un attacco
d’ira e tornò a parlare.
“Ho taciuto le cose più importanti. Non sono nato
ieri! E sono convinto che tutto quello che avete letto, dalla prima all’ultima
parola, sia stato completamente inventato… Non le parlavo dei nostri litigi, anche
se sapeva che accadevano. Non le ho mai detto che ci siamo divisi, perchè
nessuno si è mai pronunciato su questo fronte.”
“Georg, per favore!”, disse Tom, alzandosi,
“Smettila con queste cazzate! Io l’ho sempre saputo che lei stava con te per
convenienza, per trovare uno scoop su di noi… ma non te ne ho mai parlato
perchè sei sempre stato mio amico, e non era mio compito intromettermi nella
vostra relazione…”
“Perchè non lo hai fatto!”, si animò Georg.
“Perchè pensavo avessi il buon senso di mandarla a
fanculo in poco tempo. Ma a quanto leggo Helen era una specie di confessionale
per te!”
“Te lo ripeto! Quello che c’è scritto in quelle due
pagine sono solo stronzate! Lei sapeva pochissimo di quello che succedeva tra
di noi!”, gli ripetè Georg.
“Fatto sta che oggi siamo in prima pagina su questa
rivista… e si sta scatenando l’inferno nelle altre redazioni, su internet e in
televisione.”, disse Gustav, sventolando il giornale, prima di gettarlo a terra.
“Perchè allora non facciamo una conferenza
stampa!”, propose Georg, “Smentirò tutto quello che c’è scritto sulla rivista,
farò una denuncia e la cosa si sistema!”
Gli altri tre si guardarono.
Tom sospirò.
Bill scosse la testa.
“Vogliamo buttare nel cesso tutto quello che
abbiamo fatto insieme?”, disse Georg, che aveva trovato il momento giusto per
iniziare con il discorso che si era studiato a fondo, prima che loro
arrivassero.
“Non vogliamo provare a rimettere insieme i
pezzi?”, fece, cercando il loro sguardo, che invece sfuggiva via.
“Era il nostro sogno. Diventare famosi e suonare
insieme per sempre. Per sempre… o almeno finchè saremmo stati in grado di
mantenere le nostre dentiere attaccate in bocca.”, disse, facendosi scappare un
lieve sorriso, che poi subito scomparve, “E’ per questa nostra promessa che
dovremmo continuare a stare insieme, uniti come un gruppo. Uniti come i Tokio
Hotel. Dobbiamo dimenticare le difficoltà, gli ostacoli che ci hanno fatto
cadere. Dobbiamo alzarci di nuovo, lottare per riprendere il posto che ci
spetta…”
“Ma quante belle parole... Perché non ti butti in
politica?”, sibilò Tom.
“Non siamo finiti, ragazzi.”, riprese Georg,
ignorandolo, “Non saremo finiti finchè siamo noi a non volerlo essere. Lo so
che ci siamo detti cose troppo grandi da dimenticare… ma dobbiamo farlo. IO
sono disposto a farlo perchè ancora credo nel nostro sogno, nella nostra
promessa. E voi?”
Ecco, aveva finito, aveva terminato.
Il respiro si era fatto pesante.
Attendeva una risposta.
“Io non ci riesco.”, disse Bill, alzandosi ed
andando verso la porta, seguito da Tom.
“E a me non interessa farlo.”, disse Gustav, “E’
stato bello finchè è durato. Non siamo più i soliti, Georg, siamo cresciuti. Il
successo ci ha cambiato ed i Tokio Hotel non sono stati altro che un fenomeno
passeggero, per ragazzine. Adesso è il momento di voltare pagina e di farsene
una ragione. Io ho già trovato un nuovo scopo… o un nuovo sogno da seguire,
come vuoi chiamarlo tu.”
E se ne andò.
Fine.
Era la fine.
Lui ci aveva provato, fino in fondo.
Ma aveva fallito, totalmente.
***
Prese la vecchia maniglia scolorita, lievemente
arrugginita, e la spinse in basso.
La porta non si aprì, era chiusa. Per la prima
volta, la vecchia libreria del signor
Metternich e della nipote Mondenkind era chiusa.
Avvicinò gli occhi al vetro opaco, cercando di
vedere se qualcuno fosse al suo interno. Gli parve di intravedere qualcosa
muoversi, nella penombra, e unì le mani intorno agli occhi, per vedere meglio.
C’era qualcuno, ma non sentiva nessun rumore
provenire dall’interno. Bussò alla porta ed iniziò a chiamare il nome della sua
amica Mondenkind. Vide la figura muoversi ancora nel buio.
“Mondenkind! Sei tu? Ti devo parlare!”, disse,
continuando a bussare sul legno della porta.
L’ombra sembrò avvicinarsi alla porta.
Sentì il clack stanco della serratura.
Georg afferrò di nuovo la maniglia ed aprì la
porta, entrando timoroso dentro alla libreria, totalmente buia.
“Mondenkind…”, disse Georg.
Le luci basse si accesero, facendolo sobbalzare.
“Cosa vuoi, giovanotto screanzato! Siamo chiusi!”,
sbottò improvvisamente il signor Metternich, alle sue spalle.
Georg si voltò non appena il cuore ebbe preso a calmarsi.
“Mi dispiace, signore ma… c’è per caso
Mondenkind?”, chiese al vecchietto.
Piccolo e grassoccio, chiuso nel suo cappotto
consunto, sembrava impaziente di liberarsi del suo scocciatore.
“No! Non c’è! E lasciala in pace!”, disse.
A passi veloci ritornò verso la porta del suo
negozio e lo esortò, facendogli gesti poco amichevoli, ad andarsene.
“Volevo solo parlare con lei…”, si spiegò Georg.
“Non c’è! Ed io devo andarmene!”
“E dove posso trovarla?”, chiese Georg, “Devo
parlarle… è urgente…”
“Anche io ho urgenza!”, urlò il vecchietto, con
voce stridula e pungente, “E comunque non è in condizione di vederti!”
Georg si preoccupò nel sentire quelle parole.
Mondenkind ultimamente non si era sentita affatto bene… e se il suo stato di
salute si fosse aggravato? Se fosse peggiorato improvvisamente?
“Mondenkind sta bene?”, domandò a suo nonno, che
era sempre più ansioso di scacciarlo via, “E’ di sopra? Posso fare qualcosa per
voi?”
“Puoi lasciarci in pace?”, sbraitò il vecchietto,
gesticolando vistosamente, “Se mi fai ritardare ancora di un minuto, mancherò
il numero tre! E devo ancora acquistare il biglietto!”
Numero tre, biglietto… L’autobus numero tre era quello
che portava all’ospedale.
“E’ all’ospedale!”, esclamò Georg, “Che cosa le è
successo?”
“Giovanotto!”, esclamò il signor Metternich, “Mi
sta facendo perdere l’ultimo briciolo della mia pazienza!”
“Ce la porto io all’ospedale, signore. In meno di
cinque minuti saremo lì e lei non dovrà pagare nessun biglietto.”, gli fece,
aspettandosi una reazione tutt’altro che positiva.
Inaspettatamente, il nonnetto sbuffò ed accettò,
non senza una vistosa espressione riluttante sulla sua faccia.
Durante il tragitto, lo rimproverò di premere
troppo sull’accelleratore, di non guardare mai negli specchietti, di non dare mai
la precedenza ai pedoni e così via, finchè non scese, ricordandogli di quanto
era stato spiacevole il suo modo di guidare.
Dopo che, all’accettazione, venne detto loro in
quale camera si trovasse Mondenkind, scoppiò l’ennesimo battibecco.
“Brutto ignorante!”, esclamò Metternich, mentre
raggiungevano l’ascensore, “E’ mia nipote! Vattene!”
“Ed è anche mia amica e sono preoccupato per lei!”,
rispose Georg.
“Solo i parenti possono visitare gli ammalati!”,
contrattaccò il vecchietto, deciso a non demordere.
“Signori! Vi prego! Questo è un ospedale, non un
talk show!”, si ribellò un infermiere che passava di lì.
I duellanti riposero momentaneamente le armi,
guardandosi con segno di sfida. L’ascensore arrivò e li caricò, per portarli al
settimo piano.
Quasi come in una gara, i due si fronteggiavano
lungo il corridoio, finchè un dottore parò loro la strada, chiedendo quale
paziente stessero cercando.
“Mondenkind, mia nipote.”, disse prontamente
Metternich, prima che Georg potesse parlare.
“E lui chi è?”, fece il dottore, indicando con la
penna Georg.
“Sono suo cugino.”, disse il ragazzo, bruciando sul
tempo il vecchietto, che prese ad animarsi, incolpandolo di essere un bugiardo.
“Per cortesia!”, irruppe il dottore, “Seguitemi
oppure vi faccio buttare fuori dall’ospedale.”
La coppia litigiosa, in silenzio, camminava
appresso al dottore che, dopo una ventina di metri, si fermò davanti ad una
porta bianca, del tutto uguale a quelle a cui erano passati davanti in
precedenza.
“Ecco, questa è la sua camera. Avete un’ora per
stare con lei.”, disse il dottore, mentre apriva la porta. “Vado prima io!”, esclamò Metternich, sgattaiolando
dentro alla stanza e chiudendosi dentro.
Georg strinse un pugno, ribollendo di rabbia. Quel
vecchietto era veramente insopportabile, non avrebbe voluto mai incontrato. Quando
si accorse che il suo atteggiamento era del tutto fuori luogo agli occhi del
dottore, si calmò, abbozzando un sorriso per scusarsi.
“E’ veramente cugino della ragazza?”, gli chiese
l’uomo in camice bianco, che odorava di candeggina e disinfettante, così come
tutti gli ospedali della terra.
“Sì, lo sono davvero… è che nostro nonno è
arteriosclerorico… sa, non c’è più tanto con la testa…”, disse Georg, mentendo
spudoratamente.
Il dottore lo squadrò per l’ennesima volta da capo
a piedi, tolse da sotto il suo braccio la cartellina metallica, vi annotò sopra
qualcosa. Poi tornò a fissarlo, con le mani giunte, come se stesse attendendo
qualcosa da lui.
“Come sta Mondenkind?”, gli chiese Georg
comprendendo che, da buon parente, anche se finto, era la prima domanda che
avrebbe dovuto fare ad un dottore come lui.
“Sta… letteralmente, sta bene. Non ha niente. O
almeno, non ha niente che noi sappiamo riconoscere.”, disse il dottore, con
faccia quasi imbarazzata per quell’ammissione di ignoranza.
“Che cosa intende dire?”, fece Georg, che non
comprendeva.
“Non è facile da spiegare…”, disse il medico,
grattandosi la testa, “Le abbiamo fatto qualsiasi tipo di analisi, dalla più
superficiale a quella più approfondita. Tutto nella norma. Niente, sua cugina
sta bene.”
“E allora perchè è qua in ospedale?”, venne
spontaneamente da domandare a Georg.
“E’ in uno stato comatoso. Non risponde agli
stimoli… eppure pare che non ci sia una causa per questo. Respira
autonomamente, tutte le sue funzioni vitali sono a posto. Abbiamo provato anche
a…”
Il discorso del dottore fu interrotto da un bip-bip,
segno che il suo cerca persone era stato attivato da una chiamata in arrivo.
L’uomo gli dette un’occhiata e si scusò, aveva ricevuto un’emergenza e doveva scappare.
Passarono cinque, poi dieci, ed infine quindici
minuti, prima che il vecchietto uscisse dalla stanza della nipote, per
permettergli di visitarla. Stava quasi pensando che volesse farglielo apposta:
rimanere lì dentro dalla nipote fino alla scadenza dell’orario delle visite
solo per non fargliela vedere.
Poi ne uscì, con la faccia triste e pensierosa,
mentre tastava il suo cappotto nero sbiadito lungo tutte le tasche, in cerca di
qualcosa. Non lanciò nemmeno uno dei suoi sguardi corrucciati a Georg: un passo
dopo l’altro, immerso nelle sue elucubrazioni mentali, il vecchietto percorse
tutto il corridoio in silenzio.
Facendo spallucce, Georg entrò dentro la camera di
Mondenkind.
Lei se ne stava pacifica, distesa sul letto,
coperta fino al petto, con le mani che innaturalmente ferme stavano distese
lungo i suoi fianchi. Dai suoi polsi partivano dei lunghi tubicini per le
flebo, una pinzetta stava fissa sul suo indice sinistro.
L’aveva sempre vista con i capelli ammansiti in una
treccia lunga, appoggiata sulla sua spalla destra. In quel momento, però,
stavano liberi sul cuscino. Il bianco della federa impallidiva davanti al nero
lucido dei capelli di Mondenkind.
Gli occhi chiusi, il respiro regolare ed
impercettibile.
L’espressione assente.
La testa piegata lievemente di lato.
Una sedia anonima stava accostata al muro, vicino
al letto. La prese e vi si sedette a cavalcioni, incrociando le braccia ed
appoggiandole sullo schienale.
No, no e no!
Non poteva stare male senza un perchè. Doveva
esserci qualcosa per curarla, per farla tornare a sorridere, per farla tornare
alla sua libreria! Com’era che i dottori non avevano trovato una causa a questo
suo male? Perchè la medicina non sapeva spiegare che cosa avesse Mondenkind? Era
impossibile, tutte le malattie del mondo erano state scoperte, anche se alcune
di queste non avessero ancora una cura. Perchè Mondenkind doveva starsene su
quel letto senza un perchè?
Era terribilmente ingiusto. Trovava un’amica, una
persona che lo comprendeva, che sapeva metterlo per la giusta via quando stava
sbagliando… e la perdeva.
Beh, Mondenkind era sempre lì, davanti ai suoi
occhi. Ma era come priva di vita.
Pallida ed inerme, immobile.
“Mondenkind… mi senti?”, le fece, in cerca di una
risposta.
Ma lei non fece nemmeno un piccolo cenno con la
testa.
“Ovviamente non mi sentirai… ma ti parlerò lo
stesso.”, disse Georg, con amarezza.
Si immaginò che lei si sedesse sul bordo del letto,
con la sua camicia da notte biancastra, e gli chiedesse se stava bene e cosa aveva
da raccontarle di bello.
“Se sto bene?”, sbuffò Georg, “Benissimo! Così bene
che salto dalla gioia.”
Rise a denti stretti.
“Sto da schifo…”, disse poi, “Non è servito niente…”
‘Cosa
intendi?’, gli domandò l’immaginaria Mondenkind.
“Ieri mi sono incontrato con gli altri… ho scoperto
che la mia ex ragazza mi sfruttava per pubblicare un articolo esclusivo su di
noi. Loro non l’hanno presa bene.”
‘Cosa
ti hanno detto?’
“Mi hanno accusato di essere stato uno stupido, un
ingenuo… e non mi hanno ascoltato. Anzi, mi hanno ascoltato. E comunque ognuno
ha preso la sua decisione. E’ definitiva, non esistiamo più come gruppo. I
Tokio Hotel si sono sciolti.”, disse Georg, appoggiando la testa sulle sue
braccia incorciate, sopra la spalliera della sedia.
‘Mi
dispiace…’
“Anche a me dispiace tanto… E’ stata una delle
delusioni più grandi che abbia mai vissuto. Pensavo che tutto sarebbe tornato
come prima… e adesso….”
‘Niente
torna ad essere come lo ricordavamo prima della sua fine.’,
disse saggiamente la
Mondenkind invisibile con cui lui stava conversando, ‘Questo
dovevi saperlo bene, Georg.’
“Non mi hanno nemmeno dato il tempo di… di provare
a fare qualcosa!”, disse il ragazzo, sfogandosi, “Se ne sono andati, felici di
avermi fatto sentire in colpa per una cosa che è successa indipendentemente
dalla mia volontà. Ho giudicato male Helen, non mi sono accorto che aveva un
doppio fine! E me ne pento amaramente! Ma a loro non interessa… ed è tutto
finito.”
‘Sì,
così è davvero tutto finito.’, gli disse l’eterea
Mondenkind, con faccia triste.
“Non era destino che stessimo insieme per sempre.”,
disse Georg, toccandosi la fronte con espressione stanca ed abbattuta.
‘Ma
tu credi nel destino, Georg?’
Per essere una Mondenkind immaginaria, poneva delle
domande veramente intelligenti, pensò Georg. Ma era solo il suo io interiore a
fargliele, purtroppo.
Riflettè bene sulla risposta che stava per darsi.
“No, non ci credo. Credo che ognuno di noi crei la
propria vita con le scelte che prendiamo.”, disse, guardando dentro ad un pozzo
di saggezza.
‘E
allora perchè dici così?’
“Mi correggo: si vede che le loro scelte non
combaciavano con le mie.”
‘Ecco…’,
fece Mondenkind, sorridendogli.
Georg sospirò e si passò una mano tra i capelli.
“E’ come lasciare la fidanzata storica, quella con
cui sei stato insieme per vent’anni. Ti chiedi cosa farai, quando tornerai ad
amare qualcun’altra…”, disse, buttandosi in una metafora.
La
Mondenkind della sua mente gli sorrise, mettendosi
una mano davanti alla bocca per rispetto.
“Mi sento esattamente in quel modo. Vuoto, smarrito,
incompleto.”, disse Georg.
‘Non
dovresti.’
“E perché? Non dovrei crogiolarmi nella mie
depressione?”, disse Georg, sorridendo.
‘Perchè
è più facile creare qualcosa dal niente che dall’esistente.’
Non avrebbe mai pensato che il suo Georg interiore
fosse stato così saggio. Decisamente di più di quello esteriore.
“Ma basta parlare dei miei problemi…”, disse poi,
scuotendo annoiato la testa, “Ti ho portato una cosa.”
Aprì il giubbino di pelle che indossava, infilò una
mano nella tasca interna e tirò fuori il libro. La Mondenkind della sua
immaginazione, seduta sul letto, era scomparsa. Era rimasta quella vera,
malata, pallida.
Dette una rapida occhiata alla stanza. C’erano
diversi macchinari ma tra quelli riconosceva solo quello che contava il battito
cardiaco, gli altri non sapeva nemmeno a cosa servissero. Erano di troppo alla
sua vista, non di buon auspicio… Tutta la camera era bianca, asettica, pulita,
lustra. C’era una piccola televisione appesa al
muro, spenta. Una finestra chiusa, con delle tendine che oscuravano
lievemente il debole sole.
Guardò l’orologio, aveva ancora una mezz’ora per stare con lei.
Ovviamente non aveva altri impegni fuori, avrebbe potuto starci tutta la
giornata se non fosse stato per le rigide regole ospedaliere.
“Come la spendiamo quest’ultima mezz’ora?”, chiese
a Mondenkind, “Ti leggo qualcosa?”
Si girò il libro tra le mani.
Lui non leggeva quasi mai.
Non gli piacevano i libri.
Preferiva guardarsi le televisione. I film.
Eppure, mai dire mai.
Non aveva comunque pensato che i libri fossero solo
sollazzi per gente annoiata…
Soprattutto, forse peccando con un po’ troppa
superbia, non aveva mai immaginato che un libro, quel libro, avesse
potuto insegnagli così tanto.
Prese a sfogliarlo, dalla prima pagina, con gli
occhi che venivano catturati dalle parole qua e là.
Tra le migliaia che vide, solo una lo rapì.
Cairone.
Cairone era il centauro che aveva affidato ad
Atreiu il talismano Auryn, affidandogli la missione.
Cairone era anche il più grande medico di tutta
Fantàsia.
Carione non era riuscito, come tutti gli altri
medici di Fantàsia, a trovare una cura per la misteriosa malattia
dell’Imperatrice, che la faceva stare così male e…
“Sai Mondenkind…”, disse Georg, chiudendo il libro
e posandolo stancamente sul comodino, accanto al letto, “Questo libro a volte
pare quasi una profezia! E’ strano, ma alcune cose che mi sono successe…
somigliano spesso a fatti di questo libro.”
Riflettè, cercando di trovare le analogie tra la
sua vita e la finzione.
“Innanzitutto, il modo in cui sono precipitato
nella libreria di tuo nonno! Quasi identico a quello che è successo a Bastian…
e, visto che ci sono, devo dirti anche che questo libro inizialmente l’ho
rubato, e non c’entrava niente l’arteriosclerosi di tuo nonno!”, le rivelò,
sorridendo, “E comunque ti spiegherò un giorno per bene com’è andata, quella
mattina… poi, tu… questa strana malattia che hai e che ancora i dottori non
hanno capito quale sia…”
Appoggiò la fronte sulle braccia, conserte sopra la
spalliera della sedia.
“Facciamo questo gioco!”, esclamò Georg, alzando di
nuovo la testa, “Facciamo finta che io sia Bastian, e tu sia l’Imperatrice
Bambina!”
Si sentiva totalmente stupido, ma proseguì con il
gioco. Stare lì, in quella camera d’ospedale, lo faceva deprimere…
“A dire il vero io mi sono sempre immaginato,
modestamente, come Atreiu, mentre leggevo… ma questa è un’altra storia.”, fece,
ridendo, “Allora, dato che io sono Bastian, devo trovarti un nome nuovo, così
ti riprenderai e tutto finirà.”
Sarebbe stato bellissimo.
Avrebbe dato via l’anima perchè accadesse qualcosa
del genere.
Ma quella era la realtà e non bastava un semplice
nome nuovo per guarire una persona malata.
“Un momento che devo pensare al nome che voglio
darti…”, disse Georg, toccandosi pensieroso il mento.
Ci voleva un nome d’effetto, che si ricordasse per
sempre…
Liane?
Theresa?
Libeth?
Susanne?
No… erano nomi troppo comuni.
Ma non ne aveva molti altri in mente.
Si sforzò nel pensarci, ma la sua mente non
produceva niente.
Se non una canzone.
Ce l’aveva dalla mattina in testa e non riusciva a
liberarsene.
L’aveva sentita prima di addormentarsi e si era
svegliato con quella.
Mitternacht, es ist Mitternacht
und sie weint, allein
und alle Träume sterben
Mitternacht, es ist Mitternacht
und sie weint allein
und alle Engel schreien heut Nacht
Maledetta LaFee e la sua bellissima ‘Mitternacht’, pensava Georg.
Gli veniva quasi da canticchiarla, ma così sarebbe
passato da pazzoide.
Mitternacht…
Mitternacht.
“Mitternacht!”, esclamò, “Potrebbe essere un bel nome!
Strano… ma è un bel nome, non è da tutti i giorni essere chiamati come un’ora
del giorno! Ti piace, eh, Mitternacht?”
Nessun segno di approvazione.
Georg appoggiò il mento sulle braccia conserte.
“Mondenkind… Mitternacht… dove andremo a finire con
questi nomi…”, disse.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 - Dream a dream and what you see will be ***
CAPITOLO 9
Dream a dream, and what you see will be
Aprì gli occhi.
La luce glieli fece pizzicare pesantemente, si mise a stropicciarli.
Doveva essersi appisolato.
….
Intorno a lui sentì una sensazione strana, di torpore, non sapeva spiegarla
bene, ma comprese che si stava trovando in un sogno.
Sì, gli capitava spesso di sognare e di esserne perfettamente consapevole.
Era questo il bello dei sogni.
Ed anche l’amaro.
Perchè viveva la sua fantasia, sapendo però che era destinata a finire, da un
momento all’altro, con uno schiocco delle dita.
Si guardò intorno.
Tutto era bianco.
Indefinito.
Era dentro ad una stanza vuota e bianca, di cui non vedeva né le pareti, né il
soffitto sopra di sé.
C’era solo quel grande bianco che lo avvolgeva tenuemente.
“Georg…”, lo chiamò una voce dietro a lui.
La riconobbe, non ci fu bisogno che si voltasse per sapere che apparteneva a
Mondenkind.
Solo allora il posto in cui si trovava prese forma.
Apparvero le pareti: stondate, come se la stanza fosse stata circolare,
continuavano intorno a loro curvilinee, per unirsi poi qualche metro sopra le
loro teste. Decorazioni su di esse, linee sinuose che partivano dalla base del
pavimento ed arrivavano fino in cima.
Camminava su una grandissima lastra di marmo bianco: quel pavimento che vedeva
sotto i suoi piedi non aveva un’imperfezione, una macchia.
Un grande letto, o forse un divano. Anch’esso bianco, tondo, ripieno di cuscini
e di coperte bianche che scendevano morbide e toccavano terra.
Su di essi lo aspettava Mondenkind.
“Ciao…”, le disse Georg, “Che piacere vederti sveglia...”
Lei sorrise, con le dita che andarono a coprire una parte di quella smorfia
gioiosa. Abbassò impercettibilmente la testa, come imbarazzata da quel gesto di
poco rispetto. Dileguò gli occhi felici altrove, prima di ripristinare la sua
serietà.
“Mondenkind…”, le fece, ma lei lo interruppe con un cenno di mano.
“Non più.”, disse lei, scuotento lievemente la testa.
Georg ammutolì ma poi, in un lampo di ricordi, comprese.
“Sì... è vero!”, disse Georg, “Nel gioco che abbiamo fatto ti ho dato il nome
di Mitternacht. Ti piace?”, le domandò.
L'assurdità dei sogni: essere in una fantasia
e tenersi sempre attaccati alla realtà.
“A te piace?”, domandò lei a sua volta, senza rispondere.
“Beh... è il titolo di una canzone ed è tanto strano quanto Mondenkind. Quindi
è perfetto!”, scherzò Georg.
Mondenkind, o meglio, Mitternacht non rispose. Né sorrise. Non parlò nemmeno:
stava semplicemente seduta sul suo letto, con le gambe piegate di lato sulla
comoda rivestitura e coperte dalla lunga veste bianca. Un alone impercettibile
contornava la sua figura, rendendola quasi evanescente, simbolica.
Si stupì di come la sua immaginazione potesse averla trasformata da bibliotecaria
bruttina a regale figura a lui sconosciuta.
Sì, la Mitternacht
del suo sogno sembrava veramente una regina. E quella doveva essere la sua
camera privata. Chissà per quale assurdo motivo si stava trovando in quel
sogno. Chissà a quale immagine nascosta nel suo inconscio aveva attinto la sua
mente...
Poi, per uno strano processo mentale che non era riuscito a
controllare, avanzò un'ipotesi.
“E quindi, in questo mio sogno,”, disse Georg, rendendosi conto della
situazione in cui si stava trovando, “tu saresti l’Imperatrice Bambina… e io
magari sono Atreiu. E adesso sono qui da te perchè ho trovato il Bastian di
turno che sta per salvarti!”
Gli venne da ridere e lo fece molto volentieri. Ripensandoci, non stava
poi tanto male con la divisa di quel personaggio...
Mitternacht scosse la testa.
“Tu sei Georg.”, disse lei, sorridendo, “E questo non è un sogno.”
Ah sì certamente, sbottò dentro di sè Georg.
Sarebbe stato come chiedere ad un pazzo se pensasse di esserlo veramente. Era
ovvio che quello rispondeva di no, che non era matto.
“E allora che cos’è?”, fece Georg, continuando nell'ilarità del momento.
Mitternacht poggiò i piedi sul pavimento freddo, si alzò e gli venne incontro.
La sua veste, lunga fino a terra, era così bianca che pareva splendere di luce
propria. Era larga e la copriva interamente, fermata con una fascia intorno
alla sua esile vita. Un passo dopo l’altro, le punta delle piccole
dita spuntavano dall'ampia gonna. I lunghi capelli neri, conosciuti
sempre in una treccia, stavano liberi, lievemente mossi lungo la schiena. Un
paio di ciocche invece le ammorbidivano le spalle fino al petto, mentre un fine
nastro bianco le contornava la fronte.
Gli occhi, chiari come non mai, sembravano di vetro.
“Grazie per avermi dato un nuovo nome, prima che fosse stato troppo tardi.”, disse
Mitternacht.
La sua voce suonava limpida e cristallina, non c’era l’ombra della timidezza
che l’aveva contraddistinta quando l’aveva conosciuta.
Gli tornò a mente quando aveva immaginato suo nonno rincorrerlo con il giornale
arrotolato e gli venne da sorridere ancora. Ma nessuna smorfia divertente
trasparì sul suo volto: era totalmente frastornato dall'aura potente di
Mitternacht. Poco più bassa di lui, lo sovrastava con la potenza che la sua
esile figura sembrava emanare.
In quel momento, si sentì proprio come l'Atreiu che aveva citato con ilarità
pochi attimi prima: sconfitto dinanzi a lei, non era riuscito a portarle il
Figlio d'Uomo che doveva darle un nuovo nome, aveva fallito la Grande Ricerca. Si
sentiva... inutile. E provava un terribile senso di sconforto.
Che sogno…
“Beh… prego...”, disse Georg, ammutolendo.
“Per la prima volta ho davvero pensato che sarebbe svanito... Tutto..”,
disse Mitternacht.
La sua voce riflettè una profonda tristezza che colpì molto Georg.
Da una parte, sapeva di essersi addormentato sulla sedia vicino al letto di
Mondenkind.
Dall'altra gli pareva quasi che quell'immaginazione fosse troppo vivida per
essere, appunto, un'immaginazione. L'empatia non era una caratteristica del suo
carattere, anzi... ma era come se una sottile linea collegasse invisibilmente
il suo cuore a quello di Mondenkind. Ed adesso che lei era triste, anche lui lo
era.
“Perchè dici così?”, domandò, impaurito nel sapere la risposta.
In fondo, la conosceva bene.
“Le altre volte bastava che qualcuno leggesse il libro. Ed al
momento giusto, tutti avevano saputo darmi un nome.”, disse Mitternacht, con la
delusione dipinta sul suo volto.
Da pallido e senza vita, era di nuovo roseo. Di porcellana. Gli occhi così
cristallini sembravano quasi finti, come quelli di una bambola.
“Come ho fatto io in ospedale?”, si azzardò a dire Georg, con ironia.
Meglio mantenere il contatto con la realtà.
Lei gli sorrise.
“Sì, proprio come hai fatto tu, Georg… Ma non mi sono mai dovuta esporre così
tanto per attirare la tua attenzione.”
Attenzione?
“La mia attenzione?!?”, sbottò il ragazzo, con aria perplessa.
Mitternacht annuì mestamente.
“Sì… è stato difficile... Tu non volevi starmi a sentire.”
Georg la guardò stupito.
“Beh… io….”, borbottò, sforzandosi di comprenderla.
“Rubasti il libro, come doveva succedere.", disse Mitternacht,
"Iniziasti a leggerlo, ti appassionasti… ma poi lo riportasti nella
libreria…", si preoccupò, "Fortunatamente tornasti a riprenderlo, ma
comunque non capivi…”
Aveva ripercorso in un istante gli avvenimenti strani che lo avevano coinvolto.
“Non è stato facile lasciare il mio posto per stare vicino a te. Stavolta la Grande Ricerca del
Figlio dell'Uomo che doveva darmi un nome nuovo non è stata compiuta da Atreiu.
Stavolta Atreiu ha veramente fallito il suo compito... ed ho dovuto portarlo
avanti io stessa, lasciando Fantàsia.”, disse poi.
Posto? Quale suo posto?
“Un momento!”, esclamò Georg, mettendo le mani in avanti, come per fermarla sul
serio, “Se ho capito bene… e questo sogno non può essere più assurdo di così…
tu, Mitternacht... sei... l'Imperatrice di Fantàsia?", era pazzesco,
"E hai lasciato il tuo posto per stare accanto a me?!?", sbuffò
divertito, "Dio mio… devo smetterla di mangiarmi la pancetta a colazione!
Fanno male ai miei pisolini!”
Rise con forza.
Di sogni strani ne aveva fatti… ma quello li batteva tutti!
Lei lo guardò.
Seria, risentita. Offesa.
Ma poco di tutto questo trasparì sulla sua faccia.
La sua figura, benché all’apparenza fosse piccola e fragile, trasmetteva un
fortissimo senso di autorità e di importanza, ma soprattutto di regalità. Georg
poteva vederlo, poteva sentire tutto questo. Lo notava nei suoi sguardi, nelle
sue parole, nei suoi gesti e nel suo muoversi.
Quel sogno era terribilmente reale.
Era un viaggio mentale veramente sopraffino.
“Ho dovuto farlo. Tu non mi volevi ascoltare ed io avevo bisogno del tuo
aiuto.”, disse Mitternacht, con voce profondamente solenne.
Non voleva darle spago. Avrebbe sentito solo assurdità fin troppo
insopportabili anche per un sogno.
Ma era mosso da una curiosità irrefrenabile.
Era sempre diviso tra due Georg: uno estremamente realista, consapevole
del momento di sonno che stava vivendo. L'altro, invece, si attaccava alle
parole di Mitternacht e pendeva dalle sue labbra. Voleva saperne di più a tutti
i costi.
Una sintesi portò Georg a continuare quella conversazione onirica, cercando
però di rimanere il più distaccato possibile.
“Va bene… e perchè proprio del mio aiuto?”, disse, arrendendosi.
“Perchè tu eri l’unico che avrebbe potuto farlo. Avevi bisogno di me così come
io di te.", gli disse, sorridendogli, "Ti ho osservato per tanto
tempo, Georg. Ti ho visto perdere la speranza. Ti ho visto commettere errori,
sono sempre stata con te.”
“Con me? Ma se io non ti ho mai visto!”, protestò lui, che adesso voleva
davvero liberarsi di questo incubo.
Basta, era troppo.
“Ero con te quando hai preso il libro. Ero con te quando hai iniziato a
leggerlo. Ero con te quando ti arrabbiavi. Sono stata con te sempre.”, disse
Mitternacht, “Tu sai perchè sono dovuta venire in questo mondo. Tu lo sai.”
Georg si toccò la testa, come se quel gesto potesse aiutarlo a capire.
E perchè doveva saperlo?
“Dovrei saperlo davvero?”, fece.
“Sì… lo hai letto tu stesso nel libro…”, disse Mitternacht, abbozzando un
sorriso, “Ogni minuto che passava, per colpa del fiume di menzogne che usciva
da Fantàsia e si riversava sul mondo degli uomini, i nostri mondi si
allontanavano sempre di più… e con questo anche la possibilità che tu mi
aiutassi. Ho contravvenuto a delle regole immemorabili per venire qua, non
volevo che i nostri due universi venissero distrutti per sempre. E mi sono
sottoposta a rischi inimmaginabili. Ma alla fine ne è valsa la pena.”
Era inutile dire quanto tutto quello era suonato incredibile alle orecchie di
Georg.
“Perché… perchè avresti scelto proprio me… non leggo, non mi piacciono le cose
fantastiche!”, disse il ragazzo.
“Ho scelto te perchè sei speciale, Georg. Perchè tu hai la fiducia.”,
gli rispose Mitternacht, “Forse pensi di averla persa, ma è ancora dentro di
te.”
“Fiducia in cosa?”, fece lui, “Mitternacht, spiegati meglio!”
“Hai fiducia in ciò che sei. In ciò che vuoi essere e in quello che sarai. Ma
stavi vivendo in un mondo mangiato dal Nulla. Qua, dove vivo io, le mie terre
stavano scomparendo. Da voi, nel mondo umano, stavano mancando i sentimenti, le
emozioni, rimpiazzate da bugie e da menzogne. Eppure tu, così come tantissime
altre persone, in fondo al tuo cuore non demordevi, hai sempre sperato in
qualcosa di meglio per te... E per il tuo gruppo...", disse
Mitternacht, intensificando voce e sguardo, "Ed io avevo bisogno di
qualcuno come te.”
No... non lui...
“Perchè non gli altri? Magari un bambino come Bastian!”, fece Georg, “Con
qualcuno così sarebbe stato più facile!”
“Ma sei stato tu a volere entrare nella libreria…”, disse Mitternacht,
sorridendo con semplicità.
Georg guardò intorno a sé, cercando un appiglio a cui aggrapparsi. Una folla di
domande, di punti interrogativi, aveva saturato la sua mente. Non sapeva più
quale di queste porre in un senso minimamente logico. Tirò fuori la prima
esclamazione che gli salì in bocca.
“Tu... Tu sei una persona reale! Mi hai toccato, ho sentito il calore
della tua mano! Sei vera! E tuo nonno! Anche lui è vero, è vivo!”
“Mio nonno? Il signor Metternich?”, fece Mitternacht.
“Sì, proprio lui!”, confermò Georg, con sicurezza.
“Io non ho genitori.", disse Mitternacht, "E questo tu, in fondo, lo
sai... Tu sai che io esistevo anche prima di Fantàsia stessa. Lo hai letto
nel libro... E se non ho genitori, non ho nemmeno dei nonni.”
Georg rimase allibito.
“Non è vero, l’ho visto con i miei occhi! Tu e lui siete di carne ed ossa, non
siete immaginari!”, dichiarò Georg, parlando così velocemente da confondersi
per un pazzo, "Nella realtà tu sei Mondenkind e sei in un lettino
d’ospedale, in attesa che ti curino… e ti ho dato un nuovo nome solo per
scherzo, perché avevo la canzone di LaFee in testa!"
La faccia di Mitternacht si fece lievemente dubbiosa. Ma era come
se fosse aspettata da sempre quella reazione di totale incredulità.
Non si scompose e tornò a parlare.
“Quando entrasti nella libreria… e vedesti la poltrona voltata…", disse
lei, "Pensasti subito ad un vecchietto, grassoccio, con la pipa ed anche
un po’ antipatico. Non è vero? Poi la poltrona si voltò... Ed ecco il signor
Metternich. Tu volevi che il signor Metternich avesse quell’aspetto", e si
preparò con un sospiro, "E tu hai creato la libreria… un pezzo alla
volta…”
Georg non capiva, non comprendeva niente di tutto quello che Mitternacht
diceva. Gli ci vollero diversi secondi prima di potersi raccapezzare di nuovo.
Era totalmente frastornato.
“Un momento…", realizzò poi, "Come fai a sapere che io ho veramente
immaginato un libraio del genere prima di vedermelo apparire davanti… tu non
puoi leggermi nella mente!"
Mondenkind gli sorrise.
“Il mondo di Fantàsia si costruisce di sogni, desideri e di
volontà. Tu volevi un libraio fatto in quel mondo e lo hai avuto. Io te l’ho
dato. Sogna un sogno, e quello che vedrai diventerà realtà. Per venire
qua ho dovuto creare un varco, un pezzo di Fantàsia in cui poter stare. E, come
ti ho appena detto, Fantàsia vive delle voste fantasie. La libreria era un
piccolo frammento del mio mondo dentro al vostro e tu, grazie alla tua
immaginazione, lo hai formato, gli hai dato vita. Non posso entrare nella
vostra vita umana se non siete voi a volerlo. Questa è la legge fondamentale
che regola i nostri rapporti.”
“Ma tutto questo non ha senso!”, sbottò Georg, portandosi le mani tra i capelli.
“La libreria… il libraio… sono fatti come vuoi tu , Georg. Li hai inventati tu.
Noi siamo del mondo di Fantàsia e prendiamo la forma che voi umani volete farci
avere.”, gli ripetè nuovamente Mitternacht.
“Ma la libreria è vera! Esiste veramente!”, protestò Georg, con forza.
Mitternacht scosse la testa.
“Se vuoi che esista, essa esisterà. Tu volevi un riparo per fuggire da quelle
ragazze che ti stavano inseguendo. E io volevo che qualcuno come te venisse ad
aiutarmi, ma non potevo farlo da sola, avevo bisogno che tu lo volessi.
Io ho fatto la libreria, tu ci sei voluto entrare dentro per salvarti…. E così
hai salvato anche me. La mia volontà non si concretizza finchè essa non
coincide con la vostra.”
Mio dio, quel sogno stava sfidando le leggi dei Freud.
Sentì il cuore impazzirgli nel petto. Lo sentiva rimbombare
nelle orecchie, nel cervello. Le vene gli pulsavano nelle mani, diventate
improvvisamente calde.
“Mitternacht…”, disse Georg, “Devo essere sincero… io voglio svegliarmi.”
“Lo vuoi veramente?”, fece lei.
La risposta tardò ad arrivare.
Georg non sapeva cosa fare, né cosa dire. Aveva ancora tantissime domande che
sbattevano nella sua mente.
Cercò di appellarsi al poco di razionalità che sapeva di avere ancora in
sè.
“Se voi di Fantàsia siete fatti come noi vogliamo…”, disse poi, “Allora anche
tu sei come io voglio che tu sia… Io ti vedo come ti voglio vedere. Il tuo
aspetto, quello vero, è del tutto diverso… ”
Mitternacht scosse la testa.
“Questa sono io.”, disse.
“Ma nel libro i capelli dell’Infanta Imperatrice sono talmente biondi da
sembrare bianchi… e poi è una bambina… e tu sei una ragazza.”, le fece notare
Georg.
“In passato mi hanno descritto come un drago. Come un mostro. Una sirena, un
falco, una stella. Persino come una dea. Ma io ho sempre avuto questo aspetto.
Io esisto così.”, disse Mitternacht.
“In passato?”, chiese Georg, sempre più in difficoltà.
“Il libro è soltanto uno dei mille modi per entrare in contatto con
voi.”, gli spiegò Mitternacht, “Prima di quello ce ne sono stati altri,
centinaia di altre storie come quella. E tutte avevano la stessa funzione.
Catturarvi per aiutarci. Le parole sono il mezzo che abbiamo per stregarvi, se
così si può dire. Scritte o parlate, sono magiche. Una parola, presa da
sola, non ha tutto questo potere. Ma un insieme continuo ed ordinato di lettere,
parole, frasi, capoversi e capitoli può fare questo. E molto altro.”
Georg ascoltava tutto quello che usciva delicatamente dalla bocca di
Mitternacht.
E comprese.
Lei, con quelle parole, lo stava stregando.
Gli stava facendo credere che ora, come in passato, Fantàsia era stata salvata
più volte da persone come lui, che le avevano dato un nome nuovo.
Gli stava facendo credere che la libreria non era mai esistita prima del
momento in cui lui, inconsciamente, aveva voluto che comparisse davanti ai suoi
occhi, per entrarci dentro e sfuggire dalle fans che lo inseguivano, e che era
stato lui a particolareggiarla, con la sua fantasia.
Gli stava facendo credere che il signor Metternich, suo nonno, era come lo
vedeva perché lui, prima di veder voltare la poltrona, se lo era immaginato in
quel modo. Vecchio, piccolo e burbero.
Gli stava facendo credere che lei, Mitternacht, prima conosciuta come
Mondenkind, era l’Imperatrice Bambina ed era venuta nel suo mondo reale
per riuscire ad avvicinarlo e fargli dire il nuovo nome che l’avrebbe
salvata, perché altrimenti lui non ci sarebbe riuscito.
Gli stava facendo credere che lui, Georg Moritz Hagen Listing, era stato da lei
stessa scelto perché aveva la fiducia, come lei l’aveva chiamata, perché
aveva la speranza…
Doveva svegliarsi…
“Ma che bella storia!”, esclamò Georg, “Veramente! Non ho mai fatto un sogno
così reale e ben dettagliato. Se mi svegliassi e mi ricordassi di tutto questo,
potrei dedicarmi alla scrittura invece che alla musica!”
Mitternacht tornò ad offendersi per le sue parole e si incupì.
“Scusami… no volevo farti arrabbiare…”, disse Georg, vedendola corrucciarsi.
Ma ci si poteva sentire in colpa per aver offeso qualcuno in un sogno?
“Adesso vuoi ancora andartene?”, gli chiese Mitternacht.
Ancora Georg esitò nel darle una risposta.
Mitternacht, vedendolo indeciso, gli si avvicinò ancora di più.
Gli prese le mani.
Georg sentì ancora il calore pervaderlo, dalle mani fino al cuore.
Era un caldo profondo, indescrivibile, vero, come quello che aveva percepito
quando lei l’aveva toccato, qualche giorno prima, nella libreria.
Era un caldo che riempiva tutti i vuoti.
Era un caldo cosciente di esserlo.
Un caldo che… stregava.
“Hai dato un nuovo barlume di speranza ai nostri due mondi.”, disse
Mitternacht, “Te ne sarò infinitamente grata.”
Gli sorrise ancora, come aveva fatto tantissime altre volte, in
quell’immaginazione. Poi alzò gli occhi, verso la cupola di quello strano posto
e la indicò, con la punta del suo dito.
Georg seguì titubante la direzione del suo sguardo e vide come un piccolo buco
aprirsi sulla sommità del soffitto. Le pareti, silenziose come non mai, si
mossero. L’apertura prese ad allargarsi e le mura intorno a loro si
abbassarono, come i petali di un fiore che stava sbocciando, in primavera.
Il bianco candore che aveva illuminato la sua vista lasciò lo spazio alla
notte. Non vide altro che stelle sopra la sua testa, grandi, incredibilmente
luminose, ed un plenilunio lucente. Poi abbassò lo sguardo e intorno a loro
apparvero, nella penombra lunare, montagne innevate, deserti roventi, pianure
desolate e colline ondeggianti.
“Wow…”, fu l’unica parola che uscì dalla sua bocca.
“E’ tempo per te di svegliarti, adesso.”, disse Mitternacht.
“Ma dove siamo…”, fece Georg, estasiato dalla vista di tutti quei punti
luccicanti nel cielo, tanti finissimi diamanti gialli.
“Secondo te?”, chiese retoricamente Mitternacht.
“La Torre D’Avorio
per caso?”, cercò di indovinare, ma non ricevette alcuna risposta, né di
assenso, né di diniego.
“Ricordati Georg.”, disse poi Mitternacht, “Fa ciò che vuoi.”
“Ok…”, disse lui, sorridendo vagamente.
I contorni di Mitternacht diventarono sempre più labili e inconsistenti, finchè
sparì completamente dalla sua vista. Così accadde anche al posto in cui si
trovava e anche a…
“Signore… signore si svegli!”, disse qualcuno, che nel frattempo lo stava
scuotendo per le spalle.
Georg alzò il viso e, con qualche difficoltà, aprì gli occhi impastati.
“Signore, l’orario delle visite è terminato, deve lasciare la stanza.”, lo
informò di nuovo l’infermiera.
“Ah…”, disse lui, quando ebbe recuperato le sue facoltà mentali.
Realizzò di essere nella camera di Mitternacht… di Mondenkind.
Era ancora distesa sul letto, davanti ai suoi occhi. Sempre nella medesima
posizione. Controllò il suo respiro, si accertò che stesse bene. Le toccò la
fronte, come se volesse sapere se aveva la febbre. Almeno quello sarebbe stato
il segno che dentro di lei quella strana e sconosciuta malattia si stava
agitando, invece di rimanersene nascosta.
E si ricordò del sogno appena fatto…
Un insieme di circostanze fortuite avevano portato a farlo vivere quel viaggio
onirico senza precendenti. Mondenkind che stava male, il libro sul comodino…
tutte quelle analogie e così via.
Nel mentre che concretizzava il suo stato, l’infermiera lo esortò ancora a
lasciare la stanza e Georg, con educazione, salutò Mondenkind con un gesto di
mano ed un sorriso. Con il libro tra le mani, si riavviò verso casa.
***
Concluse la
lettura in pochissime ore.
Appena tornato a casa, prese il libro e lo bevve, letteralmente. Una lettera
dietro l’altra, una parola dietro l’altra, una pagina dopo l’altra. Arrivò alla
conclusione.
Ma il libro non sembrò dissetarlo, affatto.
Bastian, con al collo Auryn, ridette vita a Fantàsia attraverso i suoi desideri
ma, paradossalmente, si perse dentro di essa, insieme ai frammenti della sua
memoria. Quello che lui creava, attraverso la propria volontà, diventava vero,
nel presente e nel passato di Fantàsia… In altre parole, quando lui desiderava
una cosa, essa esisteva e sarebbe sempre esistita, anche nel passato stesso
della cosa.
Concetto difficile da capire per Georg, ma non potè fare a meno di collegare
questo difficile concetto con quello che gli aveva detto Mondenkind nel sogno…
Lui aveva voluto un posto in cui nascondersi per liberarsi dalle fans che lo
inseguivano? Ed esso era esistito.
Era spuntata fuori la libreria.
‘Sogna un sogno e questo diventerà realtà…’, aveva detto Mondekind.
Un’altra cosa lo aveva colpito abbastanza…
Negli ultimi paragrafi del libro, quando Bastian ritornava dal signor
Koreander, scopriva che anche il vecchio libraio aveva conosciuto, a suo tempo,
l’Imperatrice Bambina e le aveva dato nuovo nome. E Koreander gli spiegò anche,
come aveva fatto Mondenkind, che c’erano tantissimi altri libri che avevano il
potere di portare il lettore nel mondo di Fantàsia… Dipendeva solo da chi li
leggeva, perchè non in tutte le mani essi diventavano magici.
L’ultima importante riflessione. Forse la più fondamentale.
In un prologo immaginario, Georg si ricordò alcune cose che aveva studiato alle
scuole superiori per la materia psicologia. I sogni spesso andavano a scavare
nei meandri dei ricordi e quindi tutto quello che ci si immaginava, durante la
notte, era qualcosa che era rimasto impresso nella mente, ma
accantonato. Quindi, per essere coerenti, quello strano sogno/incubo
doveva aver fatto riferimento a dei ricordi dimenticati, a dei concetti
che doveva aver trovato nel libro ma di cui non rammentava.
Eppure, Georg si era fermato a metà lettura. E tutto quello che era uscito
dalla bocca di Mondenkind era impresso nelle pagine da lui ancora inesplorate
prima di quel sogno... e che solo ora aveva letto.
Non aveva potuto quindi sapere quelle cose.
Il sogno era il suo, lo aveva partorito la sua mente. Se non aveva letto quei
capitoli, e sapendo anche che non aveva tutta la fantasia per inventarsi cose
del genere, come poteva Mondenkind, o Mitternacht, avergliele raccontate per
filo e per segno?
Era tutto così complicato ed indecifrabile, tanto da farlo pentire di non
essere diventato psicologo come avrebbe voluto da piccolo…
Ma era stato solo un sogno.
E tale doveva rimanere, per quanto razionalmente assurdo.
Il cellulare squillò, riportandolo alla realtà. Era David.
“Senti Georg…”, gli fece, dopo che ebbe risposto, “Ho bisogno che domani
veniate in studio… tanto per metterlo in chiaro.”
Già.
Metterlo in chiaro.
Scrivere nero su bianco che erano finiti.
Arrivederci e grazie.
“Va bene.”, disse, sospirando le parole, “A che ora?”
“Le undici?”, suggerì l’altro.
“Perfetto.”
E riattaccò.
***
“Hey, Georg…”,
lo prese alla sprovvista David, “Sei malato di Parkinson?”
Era arrivato con circa una mezzora di anticipo all’appuntamento stabilito e
stava aspettando che tutti gli altri arrivassero.
Seduto in sala relax, rimuginava su tantissime cose… e su nessuna di queste.
Basta pensare, basta riflettere, si era detto un attimo prima che David
lo interrompesse, esaudendo il suo desiderio.
“No…”, disse lui, interrompendo il tic alla gamba, “Sono solo un po’… nervoso.”
“Sì… lo siamo tutti.”, disse David, sedendosi di fronte a lui con aria stanca,
a braccia conserte.
“Mi dispiace per quell’intervista…”, disse Georg, sentendosi totalmente
mortificato.
Se c’era stata una possibilità di salvezza per il gruppo, era stata totalmente infranta
dalla sua ingenuità.
“Scusa la finezza ma… Helen te lo ha messo mezzo metro nel culo!”, sbottò
David, in uno sprazzo di triste ironia.
“Sì… hai proprio ragione, David… ma almeno tu mi credi, gli altri tre non ne
vogliono saperne.”, fece Georg, affondando nella comodità del sofà.
David annuì mestamente.
“Non ci rimane altro che aspettarli.”, disse poi.
L’attesa durò solo una decina di minuti. Gustav e di Kaulitz arrivarono quasi
contemporaneamente.
Le bocche totalmente inespressive dei gemelli, con gli occhi tappati dai loro
occhiali da sole, sommate alla completa piattezza della faccia di Gustav,
fecero temere a Georg il peggio. Cioè una nuova litigata.
Erano lì per guardarsi negli occhi e dire: È finita?
Perché girarci intorno facendo le facce incazzate?
Lunghi momenti muti seguirono l’entrata dei tre e continuarono per tutto il
tempo in cui si sedettero di fronte oppure accanto a lui.
Georg si rischiarì la voce con l’intenzione di parlare, di scusarsi ancora, ma
poi ritrasse le sue intenzioni. Meglio lasciar parlare loro, anche se non
sembravano intenzionati a farlo.
“Ragazzi, ho convocato una conferenza stampa per l’una, nella sala conferenze
dell’Hilton.”, disse David, esortando l’inizio di una conversazione.
“Mh, bene.”, disse Bill, stuzzicando l’occhio destro sotto il suo occhiale.
“Comunque… insomma, prima di arrivare là… formalizziamo la cosa tra di noi.”,
disse David.
Georg non volle ammetterlo, ma David aveva la voce lievissimamente rotta. Solo
una lieve increspatura, quando aveva detto ‘la cosa tra di noi’.
“Sì, mi sembra giusto.”, disse Gustav, con aria apparentemente rilassata.
“E’ finita?”, chiese retoricamente Tom.
Cinque paia di occhi che si muovevano, in cerca del fatidico segno di
approvazione sulle facce altrui.
Ma né un sì orale né uno scritto sulle espressioni del viso risuonò tra quelle
quattro mura.
Bill si alzò e, incrociando le braccia, uscì dalla sala relax.
Georg si toccò stancamente le tempie. Aveva un mal di testa pazzesco.
Tom sospirò e dopo un frettoloso ‘scusateci’, raggiunse il fratello.
“Ehm… allora ci vediamo all’Hilton all’una?”, domandò Georg.
Dopo aver ricevuto un cenno di testa positivo da David, lasciò lo studio.
Scansò l’accettazione,
sapeva dove si trovava Mondenkind, non se lo era certo dimenticato in una
notte. Incrociò il dottore che aveva conosciuto il giorno precedente e lo
salutò con un salve e con un sorriso, ricambiato gentilmente dall’uomo.
Era l’ora delle visite, i corridoi erano solcati non solo dai passi dei
dipendenti della struttura sanitaria, ma anche da quelli dei parenti, con i
loro fiori, i loro pupazzetti ed i cioccolatini a portata di mano.
Eccola, la stanza di Mondenkind era quella di fronte a lui.
Bussò, attese che qualcuno rispondesse, poi ne aprì uno spiraglio. Intravide il
letto.
Vuoto.
Vuoto…
Aveva sbagliato camera.
Si guardò intorno. Era sicuro che la camera fosse la dodici ed infatti sulla
porta troneggiava quel numero.
Magari Mondenkind era stata trasferita... forse le sue condizioni si erano
aggravate…
Fermò il primo infermiere che si trovò sotto tiro.
“Mi scusi?”, gli domandò, “La ragazza che stava in questa stanza… dove si trova
adesso?”
L’infermiere riflettè un attimo.
“Chiedo al dottore.”, disse e si congedò con un sorriso.
L’ansia stava salendo dentro Georg.
E se fosse peggiorata?
E se la stessero operando?
E se fosse… fosse…
“E’ proprio sicuro che cercasse il paziente della dodici?”, gli fece uno dei
dottori del reparto, avvicinatosi a lui dopo la segnalazione dell’infermiere.
“Beh… sì, a meno che non abbia sbagliato stanza. La paziente comunque si chiama
Mondenkind…”
“Cognome?”
Cercò di ricordarselo, ma non ci riuscì.
Io non ho genitori… rimbombò quel frammento di sogno nelle sue orecchie,
scacciato immediatamente.
“Non me lo ricordo.”, disse Georg rammaricato.
“Beh… che io sappia nessuna Mondekind senza cognome è stata in questo reparto.
Nemmeno per una notte sola.”, disse il dottore, facendo spallucce.
“Ma come?!”, esclamò Georg, “E’ stata ricoverata qui proprio ieri, era in coma,
non si sapeva che cosa aveva di preciso…”
“Guardi che questo è il reparto geriatrico.”, disse il dottore, “Non la
rianimazione. Provi a vedere se la trova lì, è al decimo piano.”
“No, dottore, sono sicuro che si trovasse in questo piano, alla stanza
dodici.”, ripetè Georg, con fermezza.
“Senta, non so cosa dirle. Vada giù in accettazione e chieda a loro.
Sicuramente le banconiste lo sanno meglio di me.”, disse l’uomo, lasciandolo ai
suoi dubbi per tornare a camminare lungo il reparto.
Come un razzo, Georg si precipitò al bancone.
“Proviamo a cercare questa Mondenkind…”, disse la ragazza svogliata
all’accettazione, mettendosi la penna in bocca. Digitò il nome, attese qualche
attimo il caricamento della pagina, “Niente. Nessuna Mondenkind è mai stata curata
in questo ospedale.”
“Riprovi! Non può essere!”, tentò ancora Georg.
La ragazza lo fissò asetticamente, poi premette di nuovo un pulsante nella sua
tastiera.
“Com’è che Georg Listing desidera tanto vedere questa Mondenkind?”, chiese poi
lei, appoggiando i gomiti sul legno della sua scrivania, con fare ammiccante.
“E’ una mia amica…”, la seccò lui.
La ragazza lanciò una nuova occhiata allo schermo.
“Niente.”, disse poi, “Ancora nessuna tipa dal nome strano in questa clinica.”
Lasciò la banconista prima ancora che potesse finire il suo discorso.
Pazzia.
Quella era tutta una pazzia.
O Mondenkind gli aveva dato un nome falso… E perchè mai avrebbe dovuto farlo?
Era stata trasferita in un altro ospedale? Ma allora perchè non risultava nei
registri dell’accettazione?
Perchè una ragazza in coma era sparita nel nulla, volatilizzata?
Si era lamentato dell’incomprensibilità del sogno che aveva fatto, ma quello
che stava vivendo era addirittura surreale. Fino al giorno precedente
Mondenkind era stesa su quel lettino, ora non c’era più e nessuno pareva si
fosse accorto del suo passaggio. Poteva una persona passare inosservata in quel
modo?
In quel momento l’unica spiegazione plausibile era che Mondenkind non era il
vero nome di quella ragazza. Ma perchè? Perchè aveva dovuto mentirgli? Per
quale motivo?
Salì frettolosamente in macchina, doveva andare alla libreria.
Infranse diversi limiti di velocità, un paio di volte passò con il semaforo che
da giallo era appena diventato rosso.
Parcheggiò in divieto di sosta. Correndo come un matto, ripercorse i vicoli
conosciuti finchè si ritrovò in quello giusto, in quello della libreria.
Prese un profondo respiro e fece un passo dopo l’altro.
Si avvicinava sempre di più alla metà del vicolo.
Ma ad ogni movimento, la constatazione di quello che pulsava nella sua testa lo
rendeva incredulo. Era impossibile.
Toccò il muro nel preciso punto in cui, fino al giorno prima, c’era stata la
porta della libreria.
Adesso, invece, c’erano solo mattoni, impilati sfalzatamente uno sopra l’altro,
e circondati di collante calcestruzzo.
Un muro.
Nient’altro.
Non c’era nulla.
Doveva aver sbagliato vicolo. Era ovvio.
Tornò indietro, verso la macchina, sicuramente nella corsa aveva confuso le
strade fitte. Con tremolante calma, ripercorse il labirinto.
Di nuovo, il muro.
Solo rossi mattoni e alcune finestre ai piani superiori.
Pazzo.
Era totalmente pazzo.
Faccio il salto nel buio
sperando che nelle vostre menti ci siano pochissimi dubbi sul viaggio all'LSD
di Georg...
Beh, ad ogni modo vi ripeto
la solita cosa: se non capite, chiedete, sarò felice di rispondere!
Questo è il penultimo
capitolo, il prossimo porterà quiandi la dicitura FINE. Lascio i ringraziamenti
alla prossima volta, sperando che nessuno dei vostri cervelli si stia
accartocciando nell'incomprensione!
Alla prossima,
RubyChubb
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 - The answer is written on the pages of a Never-Ending Story ***
CAPITOLO 10
The answer is written on the pages of a Never-Ending Story
Fissava la parete.
Cercava un segno, un qualcosa, un nulla che gli dicesse: ‘Andiamo Moritz!
Non sei pazzo!’.
Ma non trovava niente.
In mezzo al vicolo, non lasciò mai che i suoi occhi divagassero oltre quei
mattoni, finchè il rumore di un paio di tacchi lo distrassero, ricollegandolo
alla realtà.
Una signora, infiocchettata nel suo cappotto rosso, portava a spasso un
delizioso ma irritante barboncino bianco.
“Ehm… mi scusi…”, la richiamò Georg.
La donna si fermò quasi spaventata, guardandolo come se fosse stato un maniaco
in cerca di una facile preda.
Georg preferì non avvicinarsi a lei, che gli era lontano almeno una decina di
metri e sembrava avere intenzione di correre via.
“Sa dirmi se qui c’è mai stata un libreria?”, le chiese, “Oppure in qualche
vicolo vicino a questo.”
Sì, non poteva essere altrimenti, doveva aver sbagliato di nuovo strada.
La donna parve calmarsi di poco. Il barboncino, nel frattempo, si era nascosto
tra le sue gambe.
“Beh…”, disse, titubante, “Che io sappia non ci sono librerie da queste parti…”
“Nemmeno una vecchia? Tutta polverosa, con un libraio anziano e scorbutico…”,
ritentò Georg.
Ci doveva essere.
Ci doveva essere a tutti i costi.
“No… ne sono sicura.”, ripetè la donna, prima di tornare sui suoi passi ed
abbandonarlo di nuovo.
Non si risvegliò dalla trance in cui era caduto finchè il rumore di tacchi si
disperse in lontananza.
Si mise le mani nei capelli.
No, non poteva essere successo.
No.
Era tutto un errore.
Come un vero pazzo, camminò per i vicoli del centro storico. Spese un’ora del
suo tempo in quella dannata ricerca.
Del tutto inutile, doveva ammetterlo.
Così come Mondenkind, anche la libreria si era volatilizzata.
E lui stava diventando totalmente scemo.
Doveva andare a casa, doveva chiamare un dottore, uno psicanalista, uno
strizzacervelli che gli dicesse: ‘Caro il mio bel Georg, soffri di
schizofrenia, ti rinchiudiamo così non ammazzi nessuno.’
Nel mentre stava per entrare nel parcheggio sotterraneo del suo blocco di
appartamenti, il suo telefono squillò.
“Dove cazzo sei imbecille!”, tuonò Gustav, “La conferenza sta per cominciare!”
La conferenza…
La conferenza!
“Oh merda!”, esclamò Georg, “Arrivo subito!”
Cazzo, doveva correre all’Hilton.
Guardò l’ora sullo schermo del telefono: era mezzogiorno e cinquantacinque. Non
ci sarebbe arrivato prima di venti minuti buoni. Di nuovo, guidò come un pazzo
verso l’hotel, ci mancò poco che si schiantasse da qualche parte, ma ce la fece.
“Ma dove cazzo sei stato! Che cazzo hai fatto!”, gli gridò contro Bill, appena
lo vide spuntare nella stanza sul retro della sala conferenze, dove lo stavano
aspettando.
“Niente… sono stato a trovare una mia amica all’ospedale!”, si difese
all’istante Georg, ancora del tutto scosso dall’incubo che aveva appena finito
di vivere.
“Ma vai a raccontarla a tua madre!”, gli rispose Tom.
“Prima ci vendi alla stampa… e ora che fai?”, rincarò Gustav, “Hai paura?”
David, intuendo dalla faccia irata di Georg una possibile controversia corporea
tra i due, si mise nel mezzo.
“Andiamo, calmatevi!”, li interruppe, “E’ ora della conferenza stampa.”
Tra di loro cadde un’ipocrita calma. Uno per volta salirono sul palco della
sala conferenze e si sedettero dietro ai microfoni, con facce serie. Una salva
di flash accolse il loro arrivo e, dopo che David ebbe come sempre stabilito le
regole, la conferenza iniziò.
Immerso nei suoi pensieri, Georg non stette nemmeno ad ascoltare le domande che
vennero loro rivolte. Era ovviamente Bill a parlare in nome di tutti.
Non sentì una sola parola.
Fu come se due invisibili tappi si fossero posizionati dentro le sue orecchie,
isolandolo acusticamente dal resto del mondo.
Doveva realizzare quell’incubo chiamato ‘La Storia Infinita’…
Un semplice ed innocuo libro come tutti gli altri. All’apparenza.
Che cosa aveva vissuto lui da quasi un mese a quella parte?
Una schizofrenia allucinante. Un abominio psichico chiamato Mondenkind.
Non c’era una razionalità in quella ragazza. Non c’era.
Ma soprattutto non c’era più letteralmente.
E tutto quello era inimmaginabile, ma lo stava vivendo.
Non voleva pensare che quello che Mondenkind… o meglio, Mitternacht, gli aveva
detto in sogno fosse vero. Perchè non era scientificamente possibile.
Fantàsia non esisteva se non nel libro di Ende.
Lui non aveva salvato niente e nessuno dal Nulla, pronunciando semplicemente un
nome.
La libreria del signor Metternich non era mai esistita. Non c’era mai entrato
dentro, non aveva mai rubato alcun libro, non aveva mai incontrato nessuna
Mondenkind. Non aveva mai fatto amicizia con lei, non era mai stato a trovarla
in ospedale.
E soprattutto, non aveva mai fatto quel sogno in cui scopriva la sua
vera
identità… in cui lei gli spiegava che, per farsi salvare
da lui, il mondo di
Fantàsia si era aperto un piccolo squarcio nella vita reale. Non
era mai
accaduto che, contemporaneamente, le loro volontà comuni
–una di salvarsi dalle
fans impazzite, l’altra di essere salvata da lui- li avessero
fatti incontrare
nella libreria del signor Metternich. Non era successo, quindi, che
questa fosse apparsa dal niente. Non era
possibile far comparire una libreria in un muro di mattoni liscio, da
un
momento all’altro. Non era infine accaduto, come gli aveva
detto Mondenkind nel sogno, che fosse stato lui stesso a ‘crearla
dal niente’, perchè aveva avuto bisogno di un posto in cui rifugiarsi per
scappare dalle sue fans.
No, tutto quello non c’era stato.
Tutto quello era frutto dello stato confusionale in cui si trovava. Si
era
immaginato tutto per colpa dello stress. Bastava solo farsi ricoverare
per qualche
mese, sotto sedativi e antidepressivi, poi sarebbe tornato come
nuovo. Un bravo psicanalista avrebbe sicuramente detto che si era
rifugiato in quella
‘fantasia reale’ perchè la vita vera non lo soddisfaceva. Aveva avuto
quindi bisogno di un pretesto immaginario per continuare ad andare avanti. Si
fosse trovato, per esempio, a leggere ‘Il giro del mondo in ottanta giorni’,
avrebbe sicuramente pensato di essere su una mongolfiera in viaggio per la
Terra…
Sì, era l’ora di svegliarsi veramente.
Era l’ora delle cure mediche.
Era l’ora di…
Una gomitata di Gustav, seduto accanto a lui, lo risvegliò, facendolo
tornare con la mente per terra.
Un giornalista gli aveva appena fatto una domanda, ma lui non gli aveva dato la
minima attenzione.
“I suoi compagni hanno appena chiarito la loro posizione riguardo alla
situazione del gruppo. Lei cosa ne pensa?”, ripetè un uomo in occhiali tondi
alla John Lennon.
Se li avesse ascoltati…
Scena muta, non gli uscivano parole dalla bocca.
“Georg… rispondi!”, gli sussurrò minacciosamente Gustav.
“Beh… io…”, balbettò.
Poi chiuse gli occhi.
*
La testa era
una sfera di piombo, l’udito era l’unico senso che funzionava in quel momento. Poco, ma funzionava.
“Si sta riprendendo…”
“Mamma mia…”
“Portiamolo in ospedale, è meglio.”
“A casa…”, borbottò Georg, con un filo di voce, “Per favore…”
“Sì, ti ci portiamo subito.”
“Magari poi chiamiamo un dottore che venga a visitarlo.”
“Ma è meglio portarlo in ospedale!”
“Lo dividiamo in due? Così ti facciamo contento e scarrozzi la tua metà dove ti pare!”
*
Si svegliò nel suo letto.
Non potette accertarsene subito, ma riconobbe la consistenza del suo cuscino.
Non appena il corpo rispose ai segnali nervosi, riuscì ad aprire
gli occhi ed a mettersi seduto.
“Come stai?”, gli venne chiesto da qualcuno, seduto da qualche parte nella
penombra della stanza.
“Bene, Tom… sto bene.”, rispose, con un filo di voce.
“Sei... svenuto durante la conferenza stampa.”, gli disse.
“Sì… lo so.”, continuò Georg, portandosi una mano alla testa per fermare
l’ennesimo giramento.
“Gli altri sono di là, nel tuo salotto…”, disse Tom, alzandosi ed avvicinandosi
alla porta, “Non era saggio lasciarti solo. Ma adesso che stai meglio ce ne andiamo.”
“Mh… ok.”, fece Georg.
Tom esitò un attimo, poi annuì con la testa, mise le mani in tasca ed uscì, chiudendo la porta
dietro di sé.
La testa di Georg, oltre ad essere dolorante, era totalmente vuota. Non un
pensiero disturbava la calma che vi regnava dentro.
Se ne andò in bagno, aveva bisogno di una doccia per riprendersi.
Era svenuto come un demente e non aveva ascoltato un verbo di tutta la
conferenza stampa. Chissà che cosa era stato detto, ma non ci
voleva un genio per saperlo...
Guardò le profonde occhiaie che disturbavano il suo viso
riflesse sullo
specchio. Pareva che si fosse divertito a farle con l’eye liner
di Bill. Si legò i capelli ed aprì il rubinetto del
lavandino. Prese una manciata
d’acqua e vi affondò la faccia, sentendo il freddo
benefico del liquido
bagnargli la pelle. Tastò alla sua destra in cerca di un
asciugamano e si tamponò.
Di nuovo, il viso stanco apparve sul vetro.
No, niente doccia. Ci voleva un bel bagno caldo. Si avvicinò alla vasca e, dopo
aver chiuso lo scarico, lasciò che si riempisse di acqua bollente. Non era da
lui, ma sentiva il bisogno di farlo. Nel mentre il rumore del flusso dell’acqua
riempiva il bagno, sentì come un paio di occhi puntarsi sulla nuca.
Si voltò, ma non c’era nessuno. Gli altri se ne erano già andati, era
totalmente solo in casa.
Tornò verso il lavandino.
Se non si ricordava male, Gustav una volta gli aveva regalato una scatola di
sali da bagno. Anzi, era stato un regalo che gli aveva riciclato perchè non se
ne faceva di niente. Dovevano essere da qualche parte, nel mobiletto del lavandino, e si accucciò per cercarli.
Toc toc toc
Drizzò le orecchie al lieve rumore che aveva sentito.
“Chi è?”, chiese, presupponendo che qualcuno avesse bussato alla sua porta. Ma
non gli arrivò nessuna risposta.
Alzò le spalle e tornò nella ricerca.
Toc toc toc toc
Si alzò ed aprì la porta del bagno. Nessuno. Richiuse.
Toc toc toc toc toc
Quel piccolo bussare veniva da dentro il suo bagno...
Guardò alla finestra,
magari un uccellino stava col becco a picchiettare sul vetro. Infatti,
appena
l'aprì uno sfarfallio di ali si allontanò dalla soglia.
Serrò la finestra e
tornò a cercare i suoi sali da bagno, ma non li trovò. Si
rassegnò, avrebbe fatto senza, non erano poi così
necessari.
Fece per spostarsi verso la vasca, ma un paio di occhi chiarissimi, riflessi
sul suo specchio, lo distrassero.
Non aveva parole. Gli si sbarrarono gli occhi, sentì il cuore fermarsi di
colpo. Tum tum tum... e poi più niente. Il sangue fluì velocemente via
dal suo corpo, sparendo invisibile. Gli mancò il respiro, o forse ne fece a
meno per i lunghi secondi seguenti in cui rimase a fissare quell'immagine.
Un bianco surreale contornava il viso candido di Mondenkind.
Mitternacht
Quel nome rimbombò nella sua testa, echeggiando.
Era come l’aveva vista nel sogno. Esattamente uguale.
Non se la sarebbe più dimenticata...
No… non poteva abbandonarsi di nuovo alla follia, doveva chiamare gli altri,
doveva raccontare loro quello che gli era successo, doveva far vedere loro che…
Mitternacht alzò una mano, prima nascosta dal limite dello specchio, e si portò
l’indice sulle labbra, schiudendole lievemente.
'Sshh...', frusciò nelle sue orecchie.
“Ma tu… io…”, prese a balbettare Georg, sentendosi sfinito dallo squilibro
mentale.
‘Non devi dirlo a nessuno. Devo rimanere un segreto.’
Sentì la sua voce, senza che lei aprisse le labbra carnose e rosee. Non parlava
con la bocca, ma con gli occhi. La sua voce suonava dolce e quasi infantile
dentro la testa, senza che ci fosse il bisogno per lei di rompere quel tenero
sorriso che aveva.
“Io non voglio avere questi segreti! E non voglio diventare
pazzo!”, protestò Georg.
Doveva mettere in atto un'opera di autoconvincimento per far sparire
Mitternacht dal suo specchio. Gli stava prendendo una irrefrenabile voglia di
sfondarlo con un pugno, piuttosto che continuare nella consapevolezza che il
suo cervello stava collassando su se stesso.
‘Tu non sei pazzo. Mi hai salvato. Conserverai questo semplice segreto per
sempre?’, gli chiese Mitternacht.
Detta da lei, quella richiesta sembrava semplice come... come bere un
bicchiere d'acqua! Semplice come guardare fuori dalla finestra, come respirare,
come mangiare.
Ma come poteva essere così facile?
“Io…”, disse Georg, disperato.
‘Lo so che è difficile.’
“Tu sei… sei così reale… com’è possibile?”, fece Georg, avvicinandosi allo
specchio.
Sembrava che fosse diventato una finestra e lei stesse lì a guardarlo, così
come la guardava lui. La sua veste si confondeva quasi con il bianco che la
contornava, dandole un aspetto etero, di fantasma. Il fine nastro che le
abbelliva la fronte sembrava quasi una corona.
‘Io sono reale… Questo lo sai anche tu.’, disse lei.
“Sei una mia immaginazione.”, disse Georg, risoluto.
Doveva chiarirlo, doveva dirglielo. Lei era solo un parto della sua mente
malata.
E basta.
Ma la testa di Mitternacht non fu d’accordo con la sua affermazione e si scosse
in un cenno negativo.
‘Se ti fa felice pensarmi come un’immaginazione, fallo pure.’, disse.
Sui suoi occhi si posò un velo di tristezza ed il sorriso scomparve, lasciando
posto ad un’espressione di sconforto. Percepiva tutti i sentimenti dipinti
sulla sua tenera faccia come se fosse stato lui stesso a provarli. Georg si sentì
riempire di malinconia.
“No, ti prego, non volevo…”, la implorò, sentendosi colpevole per quello
che aveva appena detto.
‘Non è facile per te accettare quello che hai vissuto, me ne rendo perfettamente
conto… I nostri due mondi sono così profondamente diversi che spesso è
impossibile capire quanto siano legati.’
Vide una lacrima cadere fugace lungo una sua guancia.
Il pianto di Mitternacht non era di disperazione: era silenzioso, quasi impercettibile
se non per via di quella piccola goccia d’acqua che si era infranta sul suo
vestito. E per Georg era dolorosissimo.
Avrebbe preferito, piuttosto, prendere un pugno direttamente in faccia. Fare
piangere Mitternacht era l'ultima cosa che voleva a quel mondo. Lei non doveva
essere triste, soprattutto per causa sua. Voleva che ridesse, perchè gli
piaceva quando sorrideva, gli scaldava il cuore.
Sentì l'anima infrangersi.
“Non piangere…”, le disse.
E, anche se la sua parte puramente razionale si rifiutava di credere, non
riusciva a pensare che tutto quello fosse solo causato dalla sua mente. Doveva essere vero…
Voleva che lo fosse. Lo desiderava con tutto il cuore.
Improvvisamente, il viso di Mitternacht tornò ad essere luminoso e il piccolo
rivolo che lo imbruttiva si prosciugò all'istante.
‘Grazie Georg per averlo pensato… Sai quanto i tuoi desideri siano
importanti per noi.’, gli disse ed alzò di nuovo la mano.
La appoggiò contro il vetro trasparente che li divideva e Georg potette solo
farlo altrettanto.
Si lasciò investire di nuovo dal fiume di calore di Mitternacht, che lo svuotò
di tutte le incertezze. Realtà o immaginazione, non aveva più importanza.
Lei era lì, vera, candida, di un altro mondo. Ed anche lui era lì, vero,
il Georg di sempre, ma con un segreto in più.
Per un attimo odiò quel vetro invisibile che li separava.
Avrebbe voluto che non ci fosse. Desiderava vederlo scomparire.
Mitternacht rise con delicatezza, portandosi con nobiltà la mano davanti alla
bocca impertinente. Ed esaudì il suo nuovo desiderio.
Il vetro si dissolse e le loro mani si toccarono. L’intenso calore di quel
tocco era impossibile da sopportare, ma a Georg non faceva alcun effetto, se
non quello di sentirsi completamente nuovo, rinato. Incrociò le proprie dita
con le sue.
Poi, come se la sua mano fosse stata del tutto indipendente dal
resto del corpo, Georg la sentì tirarsi indietro, verso di
sè, stringendo con ancora più forza quella di
Mitternacht. Come se niente fosse ad ostacolarla, Mitternacht
uscì da quello specchio, passando oltre tutto ciò che di
umano c'era tra i loro corpi. Il resto intorno a loro si
annullò, scomparve.
La abbracciò. Un grazie detto senza parole. Affondò le dita tra i suoi capelli neri.
Era vera.
“So che non ti vedrò più.”, le disse, “Quindi ti dico addio.”
"Ricordati Georg. Fa’ ciò che vuoi.", disse Mitternacht, "Addio."
Chiuse gli occhi stringendole a sè più che poteva. Non
voleva che Mitternacht sparisse, ma sapeva che lei non poteva
esaudire questo suo ultimo desiderio. Lei sciolse quell'abbraccio e,
tenendolo ancora per mano, tornò al di là dello specchio.
“Addio.”, le disse, con una fatica ed un dolore che non pensava di aver mai provato prima.
Chiuse di nuovo gli occhi.
Percepì il contatto freddo della sua mano contro lo specchio.
Era finito.
Tutto finito.
Un fortissimo senso di delusione e malinconia presero posto nel suo cuore, come
quando un bellissimo sogno veniva interrotto nel suo punto più bello.
In quell'istante, si rese conto di amarla.
Ma quello che provava per lei non era l'amore fisico, nè
sentimentale che avrebbe potuto provare per qualsiasi altra donna. Era
qualcosa che non sapeva che si potesse sentire per qualsiasi persona
comune, era un sentimento totalmente sconosciuto, profondo e diverso.
Era come l'amore per un bambino, per un fiore o per il cielo sgombro
dalle nuvole. Era un amore semplice, un sentimento che quietava l'animo. E che non avrebbe provato mai per nessun altro al mondo. Chiunque avesse avuto modo di incontrarla, o anche solo di vederla per un istante, non poteva non provare lo stesso.
Non sapeva spiegarlo a parole.
Non si sentì infelice nel pensare che non l'avrebbe mai
pià rivista. Anzi, era proprio questo sentimento speciale che
provava per lei ad annullare la malinconia che provava nel sapere che
Mitternacht non sarebbe mai più comparsa dinanzi a lui.
Forse era l'unico, in tutto il mondo, ad averla
vista. Chissà chi altro, prima di lui, le aveva dato il
nome con cui l'aveva conosciuta, Mondenkind. Forse lo stesso Michael
Ende, che le aveva poi dedicato uno tra i tanti libri magici che
esistevano sulla terra. La Storia Infinita,
appunto. Chissà chi, dopo di lui, le avrebbe dato un nuovo nome.
Avrebbe voluto che vivesse come Mitternacht per sempre, ma sapeva che
prima o poi si sarebbe di nuovo ammalata... Forse sarebbe accaduto tra
cento anni, mille anni, non poteva saperlo. Chiunque l'avesse
incontrata di nuovo, sarebbe stata la persona più fortunata di
tutto l'universo.
Suo magrado, però, era il momento di tornare alla realtà. Era il momento di tornare nella realtà..... qualcosa di caldo bagnò il suo piede. Gli venne da voltarsi verso la...
“Cazzo!”, gridò, vedendo l’acqua traboccare al di fuori della vasca.
Si precipitò a chiudere il rubinetto e, come un fulmine, sventrò l’armadietto
degli asciugamani per frenare l’avanzata dell’acqua verso la porta del bagno.
“Georg!”, sentì esclamare, dalla camera.
Era Bill.
Non se ne erano ancora andati…
“Stai bene? E’ tutto a posto?”, gli chiese con insistenza.
Vide la luce, che filtrava nella fessura tra il pavimento e il legno della
porta, rompersi a più riprese. Sentì poi il rumore di altri passi nervosi.
“Ho solo… fatto traboccare la vasca!”, spiegò Georg, mentre con una mano si
preoccupava di fermare l’acqua e con l’altra apriva l’uscio del bagno.
“Cavolo!”, esclamò Bill, precipitandosi a dargli una mano, tamponando il pavimento bagnato.
Anche Tom e Gustav andarono in suo soccorso. Non appena Tom
svuotò la vasca, Gustav la riempì con gli asciugamani
inzuppati. In pochi secondi, tutta l'acqua fu raccolta. Rimaneva solo
quella che inzuppava i loro vestiti.
“Ma cosa avevi in testa!”, sbuffò Bill, con i pantaloni bagnati fino al
ginocchio, ridendo.
La situazione, infatti, era abbastanza comica. Un tripudio di colori spuntava
fuori dal bianco latteo della vasca, mentre loro cercavano di asciugarsi nella
stoffa dei loro vestiti mollici.
Ma a Georg non andava affatto di ridere, come
invece facevano gli altri. Si sedette sul pavimento ed appoggiò stancamente la schiena al muro di
piastrelle azzurrognole dietro di sé.
“Hey…”, gli fece Tom, sul bordo della vasca, “E’ tutto a posto?”
Lo vedevano strano, fuori dalla realtà.
Triste.
“Se volete potete andare, non vi preoccupate, sistemo da solo.”, disse Georg.
“Andiamo…”, lo esortò Gustav a parlare.
Georg sospirò, toccandosi la testa.
“E’ come chiedere al malato terminale che cosa pensa del proprio domani.”,
riprese poi, “Niente può essere a posto….”
“Mi dispiace…”, disse Bill.
Non sapeva che farsene del suo dispiacere.
Avrebbe tanto voluto che ognuno di loro si potesse rendere conto di che cosa
avevano combinato… e ricominciare da capo.
Era quello il suo desiderio finale.
Se Mitternacht fosse stata tra loro, forse lo avrebbe esaudito. Ma ormai non
c'era più, se n'era andata. Tornata in Fantàsia, a prendere il posto di
Imperatrice, come da sempre.
“Lascia stare.”, disse Georg, prendendo l’ultimo asciugamano bagnato e
gettandolo nel mucchio della vasca, “Non sempre la volontà di uno coincide con
quella degli altri.”
Bill gli porse una mano e lo aiutò alzarsi.
“Allora anche questo è un addio…”, fece Georg, retoricamente.
“Perchè dici anche?”, gli domandò Gustav, sempre attento a tutte le parole.
Loro non potevano saperlo.
Non dovevano, era un segreto.
“Mi correggo. Allora questo è un addio.”, ripetè Georg.
“Diciamo… un arrivederci.”, disse Tom, alzando le spalle.
Georg lo guardò. Quel suo essere criptico nei momenti più inopportuni lo aveva sempre
infastidito un po’.
“Arrivederci a quando?”, gli chiese.
“A tra un po’.”, fece Bill, incrociando le braccia, con un piccolo sorriso
sulle labbra, “Cioè a quando saremo in grado di chiederci scusa.”
*****
Si buttò sul divano,
esausto, a pancia in giù.
Totalmente senza forze.
Vi cadde sopra a peso morto, come senza vita.
Borbottò qualcosa contro il suo cellulare che, dentro alla tasca dei pantaloni,
gli si stava incarnando nella gamba.
Era andata.
E pure bene.
Non lo avrebbe detto.
Cinque minuti prima di iniziare aveva pensato: ‘Sei sicuro di quello che
stai facendo? Perché sei sempre in tempo a scappare a gambe levate.’
Eppure aveva varcato la soglia e si era buttato nel vuoto.
Davanti ad un pubblico esiguo, fatto di circa duecento persone, aveva imbracciato
di nuovo il suo basso e si era esibito.
Gustav alle sue spalle.
Bill alla sua destra e Tom al di là di lui.
Come era sempre stato da quando si erano conosciuti.
Lo avevano fatto in un piccolo locale, una ‘bettola’ di periferia di
legno e tende rosse che chiudevano il retro del palco. L’atmosfera era tenue,
quasi spenta, illuminata da piccole luci e candele basse sui tavoli. C’era un
odore di vaniglia che faceva venire fame.
Lì dentro, un locale per jazzisti e trombe del blues, avevano suonato ancora insieme.
Ma non lo avevano fatto lì perché gli stadi e le arene non li volevano più.
Quel locale era suo. Era di Georg Mortiz Hagen Listing.
Non si ricordava nemmeno di preciso come ne era diventato proprietario. Fatto
stava che una sera era andato lì dentro a prendere una birra con Fabian e,
quello seguente, aveva tirato i soldi fuori per comprarlo. Se ne era innamorato
così tanto che un pensiero veloce gli aveva sfiorato la testa: abbandonare
tutto per buttarsi in quel locale. Ma poi si era dato dello scemo. Lui senza il
suo basso non era niente e nulla, nemmeno imparare a servire Bloody Mary e
birra alla spina, poteva sostituirlo.
Sì, quel locale era una ‘bettola’, per come lo aveva definito Tom quando
lo aveva visto la prima volta. Ma era una ‘bettola speciale’.
I musicisti che, ogni sera, riempivano il palco su cui si erano appena esibiti
non erano di certo così sconosciuti. Beh, per Tom lo erano, dato che lui di
musica jazz non ne capiva una mazza. Ma lui, che quella maledetta
sera con Fabian ne era rimasto travolto, in poco se l’era fatta propria. Ne era
diventato un estimatore e conoscitore profondo. Ed amico anche di tutti i
gruppi che avevano suonato per lui.
Prima che la gente venisse a sapere che lui aveva comprato quel posto, ne era
passata di acqua sotto i ponti. Sì, perché in un locale come quello tutti erano
anonimi e lui non aveva mai pubblicizzato il suo acquisto. Anzi, passava come tutti gli altri il tempo ad ascoltare i ritmi
sincopati della musica, bevendo un sorso di birra alla volta. Con la vendita, mantenendo il loro posto di lavoro
aveva anche acquisito la stima dei dipendenti
e l’aveva cementata con il tempo, entrando in relazione con loro.
"Ha il cervello come una spugna, cazzo!”, avrebbe detto Ferdinand,
il barista, il mago dei cocktail, “In meno di una settimana, cazzo, ha
imparato a gestire questo posto… Mica cazzi!”
Non era un tipo molto fine, pensava sempre Georg, ma ci sapeva fare.
Soprattutto, sapeva vendere i suoi drink.
Era passato un anno da quella conferenza stampa.
In dodici mesi erano cambiate molte cose.
Molte priorità.
E loro quattro avevano imparato una bella lezione.
Durante quella conferenza non avevano detto che si sarebbero sciolti, ma solo
che avrebbero preso il loro tempo.
Tempo per pensare.
Tempo per cambiare.
Avevano fatto dei grossi sbagli ed era il momento di fermarsi per comprendere
come risolverli.
Si erano detti arrivederci, alla prossima.
E la prossima era venuta.
Ognuno aveva abbassato la testa, si era morso la lingua, aveva inghiottito l’orgoglio
ed chiesto scusa all’altro.
Ma ci erano voluti ben trecentosessantacinque giorni, o giù di lì, perché ciò
accadesse.
Durante quell’arco di tempo si erano calmati, fatti ragione della crisi che li
aveva investiti e detti: ‘Perché non torniamo fuori a spaccare qualche culo?’
Ed avevano davvero spaccato qualche culo.
Prima di tutto, dovevano tagliare completamente con la loro vecchia immagine.
Questo non aveva voluto dire trovarsi davanti Bill senza trucco o Tom senza i
rasta. Ovvio che chiedere loro questo sarebbe stato come chiedere a Dio di
inventare un altro tipo di donna.
Era il momento di abbandonare tutte le cazzate da adolescenti.
Prima di tutto, erano saltate le teste dei merchandiser, che avevano venduto le
loro facce anche ai produttori di detergenti intimi.
Poi, visto che ne avevano abbastanza di esperienza per vivere in quel mondo,
avevano preso in mano il loro destino.
Via tutti quelle cazzate come interviste a raffica, televisioni e radio,
servizi fotografici e promozioni varie, che li assillavano senza dare loro
tregua. Sarebbero stati loro a decidere quando e come rilasciare interviste.
Sempre affiancati da David e dall’usuale staff manageriale, pretendevano più
indipendenza, più coscienza di sé.
Suonavano la loro musica, non la musica che piaceva alla casa
discografica. Quindi si erano creati una loro etichetta ed avrebbero prodotto
autonomamente i loro dischi senza pressioni di sorta. Avevano abbastanza soldi
per poterselo permettere.
Ma soprattutto, avevano voglia di farlo.
E a chi aveva detto loro: Ma così taglierete tutti i ponti con i vostri
fans, passerete per degli sbruffoni, perderete di immagine!, loro avevano
risposto: E allora?
Avrebbero corso il rischio di passare per dei grossi stronzi, senza un
briciolo di lealtà verso i loro fans, né di modestia.
Insomma, dei bastardi targati Tokio Hotel.
Però, la lezione che avevano dovuto imparare era stata chiara.
Mangia la vita prima che sia lei a mangiarti.
Loro erano stati appena vomitati dalla vita, che li aveva
inghiottiti in un sol boccone, e le erano andati un pochino indigesti, dopo le
ultime brusche virate… Se non volevano essere presi di nuovo a calci, dovevano essere loro a dettare
le regole… e a calciare.
Così, anche dopo la manifestata scetticità di David, avevano deciso di fare a
modo loro: vendere i duecento posti del locale di Georg per presentare in
unplugged l’album che avevano preparato.
Fu una botta mediatica.
Erano corse voci su un possibile loro nuovo album, soprattutto dopo l’annuncio
della separazione dalla Universal per fondare una casa discografica a parte. Ma
poi si erano spente, perse nell’assenza di comunicati stampa e voci fondate in
campo.
Erano stati furbi. Erano usciti quando il mondo sembrava si fosse dimenticato
di loro. Quasi un anno dopo l’esibizione unplugged in televisione, dove erano
stati pesantemente fischiati dal pubblico, ne avevano proposto un’altra.
Di tutt’altro stile e categoria.
Il loro nuovo album non aveva niente in comune con quelli precedenti. Tranne il
nome del gruppo e dei suoi componenti. Essenzialmente rock, con una venatura
heavy metal e molto punk. Alternativo, melodie poco orecchiabili, testi
graffianti.
Ci si erano impegnati abbastanza per ottenerlo. A modo loro.
Per prepararsi a quella esibizione,avevano anche riarrangiato i vecchi pezzi,
per renderli più sulla scia del loro nuovo stile.
Basta con i vecchi Tokio Hotel, basta con le ragazzine piangenti.
Adesso volevano conquistare un pubblico più grande, adulto, totalmente diverso.
Non sapevano se ce l’avrebbero fatta, ma tanto valeva riprovare.
Non avevano nulla da perdere, tranne l’essere definiti ancora una boyband.
Avevano optato per l’unplugged per mandare un preciso messaggio.
Un’esibizione del genere, aveva segnato la loro fine. Che questa nuova
occasione fosse il nuovo inizio?
Beh, la risposta poteva venire solo nei prossimi tempi.
E poi Georg non voleva pensarci più di tanto, era esausto.
Sbuffò, voltandosi supino e scacciando con un soffio i capelli che gli erano
entrati in bocca.
Era stanco, ma aveva ancora la forza per fare una cosa.
Si alzò e, stropicciandosi gli occhi, andò verso camera sua.
Barcollando, aprì il cassetto del suo comodino.
Prese il libro che stava al suo interno e sfogliò le pagine.
Ritrovò con estrema felicità Piornakzac, un Mordipietra, un gigante
altissimo fatto di sasso, che viaggiava sulla sua bicicletta di pietra verso la Torre D’Avorio.
Gustav…
E come si era potuto dimenticare di Wuswusul, l’Incubino?
Era un tipetto alto e secco come un chiodo, con una capigliatura folta e
vaporosa che, a cavallo del suo pipistrello assonnato, si trovava anch’egli
sulla strada della Torre D’Avorio.
Bill…
E ultimo ma non meno importante, il Minuscolino Ukuk, in
sella alla sua lumaca da corsa, si teneva stretto il suo cappello colorato in
testa, per paura che volasse via lungo il lungo e veloce tragitto.
Tom…
Rileggeva con gusto la descrizione fisica di Atreiu. Aveva
la pelle ‘di un verde scuro che dava un po' sul marrone, come le olive’,
per citare direttamente le parole di Ende. Capelli neri, bluastri, cavalcava le
onde del Mare Erboso in cerca del Bufalo Purpureo, con cui sfamare la sua gente.
Falsamente modesto, Georg sorrise con soddisfazione.
Se stesso…
Scorse rapidamente le pagine.
Aveva l'aspetto di una bimba di dieci anni, con una veste di seta bianca.
Del medesimo colore anche i suoi capelli, lisci lungo tutta la schiena
Gli occhi coloro dell'oro.
Anche le sue vesti di seta erano bianche.
Eein unbeschreiblich schönes kleines Mädchen.
Una bambina di indescrivibile bellezza.
Se la ricordava molto bene. Forse non era riuscito a memorizzare un volto tanto
quanto il suo. Se avesse saputo disegnare, lo avrebbe fatto con tale
precisione che ne sarebbe uscita fuori una fotografia. Ed infatti era quello
che aveva fatto. Il suo ritratto, disegnato da un artista di strada con un
carboncino, stava appeso in casa sua.
Alla domanda: chi è quella ragazza?, lui aveva sempre risposto: Una
che è venuta a trovarmi in sogno…
Lei era il mistero più impenetrabile del mondo di Fantàsia e che chi lo capiva
del tutto avrebbe spento con ciò la propria esistenza, per parafrasare le
parole del libro.
Ed infatti, lui non aveva capito tante cose.
Ma non avrebbe avuto senso comprenderle, erano un mistero e così doveva rimanere per
sempre.
Sarebbe stato geloso per tutta la vita di questo segreto che avevano in comune.
L’aveva conosciuta in quella libreria così piccola e vecchia.
Forse era per quello che si era innamorato della ‘bettola speciale’.
E quando l'aveva comprata, le aveva dato il suo nome.
Mitternacht.
Perchè la Storia Infinita sta dentro la Storia Infinita
FINE
Non ci posso credere... sono
arrivata alla fine!!!! Oh mio Dio... e pensare che quando sono partita
mi facevo più lavori di masturbazione mentale che pensavo di
diventare cieca. Anzi, a vedere dagli occhiali sul naso e la prossima
visita oculistica già lo sono... ma se la mia miopia
peggiorerà sarà tutta colpa di questa storia!
Ingarbugliata all'infinito, so che qualcuna di voi non ci ha capito
niente e me ne dispiace abbastanza, pensavo di aver fatto un buon
lavoro, cercando di spezzare il capello in quattro, ma si vede che non
ci sono riuscita molto bene. Sarebbe stato più facile se tutte
voi aveste almeno visto il film, ma non posso di certo pretendere una
cosa del genere! Figuriamoci!
Spero che il finale non abbia deluso nessuna di voi, avrei quasi voluto
non farli tornare insieme, ma purtroppo sono buona e non volevo portare
sfiga al gruppo!
Mi sono dimenticata che sia per il capitolo precedente che per questo,
al sottotitolo, ho utilizzato strofe della canzone 'Never-Ending Story'
di Limhal, cioè della celeberrima soundtrack del film. No per
scopo di lucro.
Per quanto riguarda i
ringraziamenti finali, faccio un riassunto generale di tutti i baci e
abbracci che mando a tutte voi che avete letto, recensito e messo la
storia nei preferiti, anche a quelle che mi seguono di nascosto! Non so
più cosa scrivervi, ogni volta mi avete sommerso di complimenti
e di elogi, non saprò mai ringraziarvi abbastanza! Non ho più parole, tranne una sola:
GRAZIE!!!
anna9223
Arumi_chan
Bell_Lua
Cirbiricoccola
CowgirlSara
dark_irina
drusilla87
Kit2007
Kheth_el
Kltz
LaTuM
Lidiuz93
natalia
picchia
Pikkola Tokietta
revege
sole a mezzanotte
sososisu
starfi
SweetPissy
_Princess_
Che vi devo dire, se non una richiesta
-per favore- continuerete a leggermi anche se non scriverò
proprio sui Tokio? Ehehe, sto preparando una fic su un gruppo, alcune
di voi lo conosceranno, altre non ne avranno mai sentito parlare e, per
quello che ne so, sarei la prima a presentare una fanfiction su di
loro! Comunque, tanto per farvi capire chi sono, si chiamano McFly e
questo è il loro sito http://www.mcflyofficial.com/home/
Tranquille, ho già in preparazione altre storie sui TH, ma per
il momento le ho accantonate, torneranno in cantiere prossimamente!
Vi saluto, un abbraccio e un bacio!
-RubyChubb-
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