Careless whispers

di Cassie chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Hermione Jane Granger non parlava.

Ossimoro.

Hermione Jane Granger era tutta voce. Scioglieva come zucchero in una camomilla ambrata, sé stessa dentro le parole che amava cullare nella gola, per poi farle fiorire sulle labbra, sfuggendo la barriera dei denti.

Hermione Jane Granger era nulla di più che una voce nei suoi ricordi, un ronzio che non sentiva mai davvero, come un aggeggio babbano che ha sentito chiamare radio. E lui manco si chiede come faccia quella voce a viaggiare lontana per lo spazio, fino a ferire le sue orecchie, come lo stridio di un’unghia su una lavagna.

Lo irrita, lo infastidisce e tanto basta. Tanto basta.

Tra l’altro, è una cosa babbana, quindi le domande non se la fa nemmeno. La guerra e la pace, come due patetici attori che si alternano sul proscenio della sua vita relegandolo a comparsa, hanno imposto che lui non pensi più gli insulti, ma da qui a mettersi a fare anche domande, ne passa di acqua sotto i ponti.

Crede, poi, di non aver nemmeno il diritto di fare domande. Non glielo hanno dato, lui non l’ha chiesto e tanto basta. Tanto basta.

E poi, quella cosa, quella radio, un giorno, smette di brusire.

E il silenzio continua a ronzare. Eco, ricordo, fischio? Non ha diritto di fare domande.

Hermione Jane Granger non parlava, ma guardava.

Uno sguardo di agata dura, screziato di schegge. Le ciglia lunghe, nere, un po’ umide a causa del sudore di quella calda mattina di settembre, restavano arcuate attorno al bianco degli occhi fissi davanti a sé. Non si era mossa di un millimetro, era rimasta seduta sul letto sfatto dell’infermeria abbracciandosi le ginocchia, come quando lui era entrato. Se si fosse messa a spingersi con la schiena, Draco l’avrebbe scambiata per una di quelle ridicole bambole, relegate per sempre su una sedia a dondolo ad imitare divertimenti finti e fasulli.

Invece, lei aveva appoggiato il mento su un ginocchio, piegato la testa di lato, mentre i capelli le scivolavano su una sola spalla. Crespi, spettinati, opachi, erano malamente legati da un nastro beige.

Hermione Jane Granger non parlava, ma guardava. Era lui che guardava.

Lo esaminava con goffa attenzione e negletta diligenza, senza nemmeno sbattere le palpebre, come se le si fossero pietrificati i bulbi oculari. Solo un raggio di sole fendé come un giavellotto la quiete ambrata dei suoi occhi, costringendoli a chiudersi di scatto, infastiditi. Perse quasi l’equilibrio, si aggrappò con una mano al lenzuolo, stringendolo forte tra le dita. Il maglione traforato le coprì le mani, sembrava ballarci dentro.

Quando riaprì gli occhi, Draco era uscito dall’infermeria, sistemandosi meglio le bende attorno alla fronte.

 

 

Il corpo è una magia.

Draco sapeva perfettamente che i tagli sull’avambraccio sarebbero guariti in qualche giorno; la pelle si tendeva prima, pulsava e sanguinava, poi avrebbe vomitato una crosta ruvida come carta vetrata che avrebbe difeso l’epidermide neonata che andava formandosi. Un’epidermide neonata, ma decrepita, che portava già il colore necrotico del stillicidio suicida che si stava autoimponendo. Si mise a giocherellare nel buio con le sue ferite, sperando come un bambino sciocco che la pelle, sotto la crosta, fosse liscia, pura, intonsa. Nella semioscurità dei sotterranei di Serpeverde, gli parve che il braccio venisse quasi inghiottito da quel buco nero come un pozzo, dalle fogge di un teschio che vomitava un serpente.

Draco sapeva che i tagli sull’avambraccio sarebbero guariti in qualche giorno. Era quasi un contrappasso: quello che lui faceva per sé stesso, non lasciava mai alcuna traccia. Allo stesso modo sapeva che i lividi invece sembravano non assorbirsi mai. Diventano violacei prima, poi quasi neri, ed infine scoloriscono, macchie di un giallastro malato.

E spariscono, ma non scompaiono. Spesso Draco, urtando qualcosa, sentiva ancora male. Al ginocchio, sulla spalla, sullo sterno. Una costellazione di segni neri, sul suo corpo bianco, cielo al contrario.

Il corpo è una magia.

La bestia braccata imparava ritmi ed orari e li convertiva in respiro, in strette alla bocca dello stomaco, in capogiri e nausee. Come la lepre odorava l’erba e sentiva la volpe, Draco sapeva che l’orario giusto per uscire dalla sua camera ed andarsene in giro era tra le venti e le ventuno.

L’orario della cena nella gremita Sala Grande.

Poteva passeggiare da solo per i corridoi vuoti, raggiungere i cortili interni bagnati dalla luce della luna, sostare nelle aule deserte senza incontrare nessuno; dopo, un elfo compiacente gli avrebbe fatto trovare degli avanzi nella sua camera. Li avrebbe divorati, senza fame, solo per sopravvivenza, e sarebbe andato a letto.

Quella sera, uscì dalla sua stanza nei sotterranei, il passo lieve come una nebbia di vento; nessuna pietra o asse scricchiolava al suo passaggio. Ad ogni eco di voce che veniva catturato e rifratto dalle pareti, Draco si acquattava contro il muro, le scapole magre che ansimavano al contatto con la pietra fredda, nonostante portasse una camicia ed un maglione. Riconoscendo primini, altri Serpeverde, qualche Tassorosso, una decina di Corvonero e nessun Grifondoro, Draco respirava di sollievo e continuava a camminare; passato cautamente davanti alla Sala Grande, proseguiva per l’androne interno, ritrovandosi finalmente all’esterno.

Si sedeva per terra sotto il porticato di colonne, ed osservava le foglie morte che turbinavano nel vento, creando invisibili rivoli di polvere tra i lastroni di cemento. Non pensava, difficilmente lo faceva.

Era diventato istinto, puro, semplice, primordiale. E bastava una voce a farlo appiattire contro una colonna, la bacchetta inutile in pugno. Bastava una voce.

Ma di lei, ovviamente, non si accorse fino a quando non si era già seduto al suo solito posto. L’impressione di non essere solo, quello scomodo fastidio che non andasse tutto come sempre, lo aveva spinto a guardarsi attorno ed oltre la colonna accanto a lui, una chioma cespugliosa era mollemente appoggiata allo stipite di pietra bianca. Non guardava come lui il cortile, la Granger. Guardava fisso davanti a lei, persino di spalle Draco distingueva il mento sollevato e i capelli che ricadevano flosci sulla schiena, sollevandosi ad ogni ritmo del suo respiro. Affrettato, sembrava respirare a fatica.

Il primo pensiero che lo colpì, subdolo come un calcio sotto la cintura, fu che l’Ottavo anno di Hogwarts era popolato da derelitti. Era così disabituato a pensare da sbuffare con un pasticciato sospiro di fastidio che riecheggiò nell’atrio deserto, amplificandosi infinite volte. La Granger contrasse le spalle, ma non si mosse.

L’Ottavo anno di Hogwarts era l’anno dei diciottenni che avevano saltato l’ultimo anno a causa della guerra.

Erano pochi, ovviamente, e non perché quell’anno tutti fossero stati diligenti ed impeccabili frequentatori della scuola. Erano pochi perché ovviamente quasi nessuno era tornato.

Potter e Weasley avevano ottenuto di entrare nel corso per Auror, per quanto ne poteva sapere, che ovviamente era poco. Pansy non era più voluta tornare dalla morte di sua madre, Blaise si era trasferito a Durmstrang, Theodore si era messo ad aiutare il padre, Goyle stava ad Azkaban, Tiger era morto.

Tiger è morto.

 I diciottenni parevano una razza strana, amorfa ed acefala in quella scuola, come se portassero sulla fronte un segno luminoso che li distingueva ad occhio nudo. Sembravano più alti, tendenzialmente più cupi… ed erano dei derelitti. Ecco, come lui e la Granger. Me e la Granger.

O meglio, si disse onestamente Draco, riassestandosi e mettendosi dritto, nessuno dei diciottenni vinceva il titolo di derelitto meglio della Granger. La guardò di sottecchi, non aveva mosso un muscolo da quando era arrivato. Restava immobile, dandogli le spalle, a malapena respirava. Solo la nuca era scivolata indietro, appoggiandosi alla colonna, mentre lei alzava lo sguardo verso l’alto.

Questi movimenti, Draco non li aveva nemmeno sentiti. Per quello, sopportava la sua presenza. La Granger, oramai, era una pianta ornamentale, di pessimo gusto, ma sempre tale. Alla fine uno si abitua ad averla davanti agli occhi, o meglio uno alla fine ci passa davanti e nemmeno se ne accorge.

Hermione Granger aveva ormai moltissimo in comune con una pianta ornamentale.

Un simbolo muto.

Era un simbolo che richiamasse coraggio e speranza, era stata fotografata davanti all’Espresso di Hogwarts il 1° settembre, un sorriso cancellato ed una crocchia severa ad imprigionarle i capelli crespi. Anche lei era tornata a scuola, e se poteva farlo lei, eroina e martire, potevano farlo tutti. Tutti potevano ostentare lo slogan del mese, dell’anno e dell’intera storia umana: normalità. Un pessimo cerone con cui ci si truccava il viso di fronte all’ennesima lacrima, all’ennesima assenza, all’ennesima cosa fuori posto.

Ma Hermione Granger versione derelitto non aveva nulla di normale, e Draco aveva aborrito l’idea di usarla per quello scopo. Anzi, più che aborrito, l’aveva trovata un’idea idiota.

Hermione Granger era monito della guerra ed anatema della pace. La sua foto sulla Gazzetta del Profeta era uno scomodo imbarazzo, da nascondere con borghese puritanesimo sotto un letto di buone intenzioni, per nulla adatta ad infondere la nozione del nuovo inizio aperto per tutti. Certo, Hogwarts aveva riaperto il 1° settembre come sempre, ma il treno rosso era parso un insulto. E per la prima volta, non soltanto agli occhi blasfemi di un Serpeverde, o di un ex Mangiamorte, o di un cinico esteta annoiato.

Agli occhi di tutti.

Il corpo è una magia, però, e gli occhi comandarono alle labbra di restare sigillate in asettici e normali sorrisi.

C’era poca gente al binario 9 e ¾ , ingombranti vuoti nella folla, assordanti silenzi in vagoni deserti. Nel timore di fare qualcosa che non suonasse come normale, gli stessi ragazzi sembravano camminare in punta di piedi, salutandosi quietamente e sorridendo parcamente. Draco si era scelto un vagone, beandosi della silenziosa compagnia di quattro primini che ancora non lo conoscevano.

Ancora.

Fu il primo anno che Serpeverde non ebbe alcun studente nuovo. La preside McGranitt aveva cercato di ovviare a quell’impaccio, abolendo le quattro lunghe tavolate della Sala Grande e creandone una sola che girava attorno alla sala, segmentandosi in un quadrato. Pessima scelta.

Draco aveva capito dalla prima cena post Smistamento che era meglio non sedersi a tavola.

La pianta Granger, invece, doveva averlo capito di recente. Aveva sempre sentito quell’incredibile e fastidioso vociare, quando lei arrivava in Sala Grande, sostenuta dalla Piattola Weasley. Sapeva perfettamente Draco dal suo nascondiglio che, appena varcava la soglia, il vociare cessava per cinque secondi, poi riprendeva all’improvviso, sommergendo la ragazza di domande e di richieste mielose.

Perché era popolare la Granger come pianta ornamentale.

E tutti avevano una domanda per lei, a cui ovviamente non avrebbe risposto.

Tutti, tranne lui, ovviamente. Non sa fare domande, non vuole farne e non ne ha nemmeno diritto.

Hermione Granger improvvisamente si alzò in piedi di scatto, repentinamente, come se avesse preso la scossa. Ruppe la quiete della notte, calata a grandi stelle su di loro, con pochi gesti e qualche passo, tutti estremamente rumorosi. Draco li sentì ripetersi circa duecento volte nel suo cervello.

Non si voltò naturalmente, quando la sentì camminare alle sue spalle e nemmeno quando la sentì fermarsi. Poteva ignorare tranquillamente i suoi passi poco aggraziati, senza timore alcuno di avere rimostranze. Non gliene poteva fare, pure se le fosse saltato in mente di farle. In mente, appunto, non alle labbra.

Gli venne quasi da ridere in modo sardonicamente divertito.

Lei, però, restava alle sue spalle e continuava a guardare, la sua nuca, la sua schiena, i capelli. La sentiva curiosare dappertutto. Gli ribollì il sangue dal nervoso, come la mattina in infermeria.

Si voltò innervosito, la Granger se ne stava in piedi, la bocca dischiusa, in attesa. Lo sguardo era di nuovo pietra dorata, fisso, incastonato su di lui. Draco respirò a fondo, prima di erompere: “Che diamine vuoi?!”.

Hermione sbatté le palpebre, riscuotendosi, la solita patina indifferente le calò sul viso. I suoi occhi, però, ritornarono su di lui, concentrandosi foschi sulla manica del suo maglione. Draco, irato, seguì il suo sguardo, restringendo le pupille alla vista del sangue che, superato il cotone della benda e quello della camicia, aveva impiastricciato la grana del maglione verde che indossava. Draco tornò a guardarla, raggiungendo con una mano la bacchetta, pronto a scagliarle qualsiasi maledizione se quel suo viso avesse mostrato un qualsiasi sentimento: fosse stato divertimento, ilarità o persino comprensione, pianta o non pianta, l’avrebbe uccisa.

Lei restò indifferente, immobile, cera scolpita.

Chiuse gli occhi e sospirò.

“Saint Suliac…”.

Draco sussultò, certo di aver solo sentito il vento, e continuò ad interrogare memoria ed udito, fino a quando lei sparì, lasciandolo solo. L’aria tintinnava di un ricordo netto e preciso, infrantosi nel presente silenzioso.

Silenzioso, fino a quel momento.

Perché Hermione Granger, vittima di una guerra che sembrava averle cancellato la voce, aveva appena parlato di nuovo. E a Draco Malfoy.

 

La voce di Hermione Granger era evaporata come rugiada sotto il violento soffio rovente della guerra. Esattamente alla fine della battaglia di Hogwarts.

Contando i morti, curando i feriti, enumerando i dispersi, ad Hermione Granger fu superficialmente chiesto da una Medimaga annoiata, che si guardava le unghie scrostate di rosso, se stesse bene. Era una domanda di circostanza, Hermione era una di quelle che stavano bene. Tagli superficiali, una ferita al ventre, escoriazioni.

Ed invece Hermione a quella domanda non rispose. A nessuna domanda, Hermione rispose.

Semplicemente, guardava chi la interrogava e, al massimo, scrollava le spalle. Spesso le sue stesse palpebre sembravano pesarle sugli occhi come veli di cemento e, alle domande ossessive di amici, conoscenti, sconosciuti ed estranei, rispondeva chiudendo gli occhi. Sparivano annegate nel bianco le iridi castane, morendo nel buio.

Mistero buffo, la storia di Hermione Granger aveva riempito i giornali di tutta l’estate di festeggiamenti dell’epoca post Voldemort; perché Hermione non aveva danni neurologici, ogni esame babbano e magico era stato negativo. Nessuna fattura, nessun incantesimo, nessuna pozione.

Ma non parlava più, restava silenziosa testimone di tempi immemori.

Draco aveva letto la notizia quando era ancora  a casa sua, agli arresti domiciliari, ed era dovuto scappare in camera per scoppiare a ridere impunemente, senza che gli Auror potessero accorgersene e prendere provvedimenti. L’aveva vista come una manifestazione assolutamente tardiva della legge del karma, finalmente qualcosa era tornato indietro anche ai cosiddetti eroi. Il suo sorriso era lievemente scomparso quando il loro avvocato aveva informato lui e i suoi che, per ovvi motivi, Hermione Granger non poteva testimoniare in suo favore con Potter e Weasley al processo per la morte di Tiger.

Il karma gli si era ritorto contro.

Era una novità? Ovvio che no, per lui la ruota mica girava mai.

Hermione Granger, comunque, aveva stilato con precisione una dettagliata deposizione, dove lo scagionava completamente dall’accusa di aver ucciso Tiger. Non lo aveva fatto per lui, ovviamente, ma solo per il suo senso del dovere che le impediva di mandare in carcere un innocente, fosse anche uno che si era macchiato di altri crimini, anche se, per fortuna, non di omicidio. Ovviamente tutto questo lo aveva abbondantemente scritto.

Quindi è solo muta, non anche deficiente… aveva pensato Draco con fastidio, digrignando i denti.

Che però Hermione Granger non fosse diventata deficiente, era chiaro a tutti molto più di quanto Draco potesse ammettere. Era tornata ad Hogwarts per dirne una, e continuava ad eccellere nei test, la sola differenza è che ormai ad ogni domanda dei professori, non c’era più una mano affusolata a scattare imperiosa in aria, formulando risposte, ma un silenzio imbarazzato ed un paio di occhi nocciola ostinatamente rivolti fuori dalla finestra. Si era concluso che Hermione avesse subito qualche tipo di trauma psicologico, nell’ignoranza di risposte inesistenti si decretò con sufficienza che forse si sarebbe risolto tutto da solo. Potter e Weasley andarono al corso per Auror, parcheggiandola ad Hogwarts come un pacco postale dal contenuto incerto e probabilmente pericoloso; la Weasley si era erta a sua assolutamente inopportuna ventriloqua, mentre la scortava per le aule e per il castello, e i brusii piano si erano zittiti, considerando ormai Hermione Granger al pari di un fantasma.

Ti incuriosisce la prima volta, gli fai domande la seconda, la terza e la quarta volta, e alla quinta ti accorgi a malapena che ci sia.

Ma Hermione Granger non solo non era deficiente, ma non era neanche muta.

Ma questo lo sapeva solo Draco Lucius Malfoy.

Tutti potevano immaginarlo, certo, ma lui solo ne aveva la prova. Mai come in quel momento, Draco sentì la mancanza del professor Piton, se lui fosse stato ancora vivo ed ancora in quella scuola, ne avrebbe parlato con lui. Ogni altra persona, al pensiero che Hermione Granger stesse solo fingendo di non avere più la voce, lo avrebbe messo sotto torchio, facendogli raccontare tutto l’episodio e probabilmente imponendogli di fare in modo che la ragazza parlasse ancora. A quanto ne poteva sapere Draco, il mutismo di Hermione era stato assoluto fino al momento in cui gli aveva rivolto quelle due parole. Piton invece l’avrebbe smascherata ed avrebbe rivelato il sordido tentativo della Granger di essere sempre al centro dell’attenzione, senza coinvolgere Draco.

Ma Piton non c’era. Piton è morto. Piton è morto, accanto a Potter. E io, Piton, non lo vedevo da settimane.

I suoi genitori erano esclusi, ovviamente; la lettera li sarebbe arrivata solo dopo tre settimane in America, dove adesso vivevano, e ce ne avrebbe messe altrettante per la risposta, ammesso che gli rispondessero subito. Lo avrebbero fatto, certo, ma probabilmente ignorando la Granger. Spesso, Draco aveva l’impressione dalle loro lettere transoceaniche che Narcissa e Lucius stessero semplicemente cercando di non ripensare alla vecchia vita.

Lui era il solo legame rimasto.

E se non la rinnegavano, inghiottendo bocconi acri di risentimento, era solo per lui.

E Draco non li deludeva, come sempre. Scriveva poco, parlava del tempo atmosferico in Inghilterra, si inventata aneddoti divertenti con amici che non erano mai tornati ad Hogwarts, si scusava del poco tempo libero per scrivere, mentre cercava invece ossessivamente qualcosa da fare.

Non erano finiti ad Azkaban né lui, né i suoi, avevano goduto di uno stato simile a quello dei pentiti, considerando la bugia di Narcissa al Signore Oscuro sulla morte di Potter.

Ma, in fondo, li avevano puniti lo stesso e ben più duramente. Separandoli.

Draco, con il segreto della voce della Granger dentro, assaporò con maggiore disgustosa nettezza quanto in realtà fosse solo. Non era una solitudine aurea da isola al centro di un mare placido e indifferente, lui non affondava le radici nel nucleo della terra. Lui annaspava come una barchetta, una vela strappata come motore ed una stella nascosta dalla nebbia come guida.

Non si inferse un solo e singolo taglio in quei giorni. Aveva tratto piacere da quella malsana pratica non appena era stata pronunciata l’assoluzione a suo carico per la morte di Tiger. Era successo per caso, un giorno, mentre tagliava della carne. Il coltello era sfuggito, aveva incontrato la pelle del dorso della mano, aveva grattato via un po’ di sangue. Puro, intonso, macchiato da generazioni senza nome di Malfoy immacolati. Il lieve pizzicore era stato come acqua santa sul capo del catecumeno, come se aveva dato al suo sangue ogni compito e missione di purificarlo da sé stesso. E da lì, aveva sempre avuto un coltello in tasca e del sangue coagulato sotto le unghie delle dita.

Poi, basta.

Hermione Granger parlava, non aveva mai smesso, diceva cose che non erano nemmeno parole ma solo suoni inarticolati di infante pigra, e non si era tagliato più, liberando pinte di pensiero liquido nella sua testa. E il segreto di Hermione Granger, senza nulla a fargli ostacolo nella sua mente vuota, continuò ad echeggiare per giorni. Rimbalzava come le onde sonore dei pipistrelli, non aveva schermo né argine alcuno. Non ricordava, Draco, le parole che lei gli avesse detto, ma solo la voce. La solita voce di Hermione Granger.

Nulla era cambiato, lei non era cambiata. Era la solita voce pastosa, vagamente argentina, tonda sulle parole ad accarezzarle e a cullarle. Non sembrava nemmeno arrugginita per scarso utilizzo. Forse parlava da sola come una pazza, aveva solo smesso di farlo con qualsiasi persona vivente. Tranne che con lui.

L’aria si era raffreddata in quei giorni, il cielo era scolorito come una tela bagnata di acquaragia ed ottobre era entrato prepotentemente nel calendario, artigliandosi sui giorni sempre uguali. Nel vento che penetrava nelle crepe del sotterraneo dei Serpeverde, gelando il sangue aggrumato, Draco sentiva la voce della Granger come l’eco delle conchiglie. Una nota flebile, lieve, leggera, come un respiro. Per quanto, però, fingesse di sforzarsi, non c’era traccia delle parole che le aveva sentito pronunciare. Doveva esserselo sognato. E quel respiro che penetrava come un spiffero dalle crepe era solo il vento.

La sua vita attuale gli aveva insegnato una cosa importante: categorizza i pensieri, chiudili in scatole e conserva quelli importanti. Quelli vitali. Quelli che ti faranno sopravvivere. Il resto non serve. Tutto non serve.

L’aveva fatto la mente, il corpo no. La magia di un corpo che scopriva reazioni irrichieste.

Niente più cortile interno durante la cena in Sala Grande, ma una poltrona in Sala Comune con la sempre asettica scusa che non aveva voglia di mangiare. Niente più ultimo banco durante le lezioni con i Grifondoro, così da controllare ogni movimento ed essere sempre all’erta, ma il primo, così da non inquadrare nessuno e non incrociare nessun sguardo.

Passi veloci nei corridoi, come sempre. Passi febbrili, quando vedeva una chioma cespugliosa tra l’altra gente.

Minimo le salta di nuovo in testa di parlare con me e qualcuno se ne accorge…

Durante una di quelle manovre diversive che non avrebbe mai ammesso e che chiamava “l’aria di questo castello è asfissiante, esco fuori, vado a fare una passeggiata, tanto chi vuoi che incontri…”, soprappensiero raggiunse il campo da Quidditch. Non sapeva chi si stesse allenando, non era in squadra da una vita. Il cielo si era fatto plumbeo come una coperta stesa a forza sulla terra, qualche goccia d’acqua cadde a terra, precisa come un proiettile. Draco riparò sotto le gradinate degli spalti, piegandosi qualche secondo sulle ginocchia per pulire le scarpe sporche d’erba. Era passato il tempo dei vestiti messi una volta e poi gettati. Questi, se tutto va bene, dovevano durargli fino all’anno prossimo, quando avrebbe avuto il permesso di vedere i suoi.

Non vide il primo colpo, come sempre lo colpì sul fianco destro, facendolo gemere e ricadere bocconi sull’erba. Il livido già presente prese a pulsare, ma Draco lo ignorò, schivando il secondo colpo.

Perché c’era sempre il secondo colpo, ma lì la mente era già tornata reattiva, immettendo adrenalina nel sangue e dando scariche elettriche ai muscoli. E il secondo colpo lui lo evitava sempre, come lo evitò anche quel giorno, rotolando di lato.

Poi ci sarebbe stato il terzo, il quarto, il quinto, e Draco sapeva che poteva solo evitarli, non darsi da fare per colpire. Quello mai. Li avrebbe indispettiti di più con una sua reazione. Lo aveva imparato, e non come una lezioncina recitata da un professore annoiato e ricopiata con negligenza su un quadernetto.

L’aveva imparato a sangue e lividi, ad insulti e gemiti.

Il coraggio del serpente, di fronte alla grandezza del grifone, è solo appiattirsi nelle viscere della terra, masticando le litanie contro il suo sangue puro, che adesso insudicia la pelle sotto il suo maglione strappato.

Dal numero di colpi che riceve, tra quelli che non riesce ad evitare e quelli che invece schiva, capisce a tratti, come fiotti di luce da un faro, che deve essere capitato proprio durante l’allenamento dei Grifondoro.

Sembrano troppi, troppe risate, troppo scherno, troppa ingordigia a non lasciare nemmeno un pezzo del suo corpo intonso. Si maledice per la sua disattenzione, mentre si copre il volto con le braccia, prima che con un calcio, lo pieghino, facendolo cadere riverso per terra. Non perderà i sensi, questo lo sa, era successo una sola volta e poi si erano dati tutti da fare per non essere mai più così misericordiosi. O così codardi, chissà: i Grifondoro non colpirebbero mai chi è incosciente e non può difendersi o sentire i loro insulti colmi di lutto represso.

Vogliono che lui senta, vogliono che capisca, vorrebbero persino che lui rispondesse.

Ma Draco tace, ha sempre taciuto, ha soltanto afferrato il coltello che aveva in tasca e ha proseguito il loro lavoro sulla mano, stringendo forte la lama. Perché loro sono degli idioti, e non lo puniranno mai quanto lui potrebbe punire sé stesso: quindi fa da solo, così che possa strappare loro l’aura sacra dei castigatori di peccatori, godendo del sangue che versa senza che loro se ne accorgano e senza che possano preconizzare quanto dolore potrebbe ancora provare, senza perdere i sensi.

Sta aspettando l’ultimo colpo, stringendo quella lama che un altro Serpeverde avrebbe già scagliato a cercare sangue meno puro del suo. Mastica la polvere, inspira la calma, digrigna il livore.

Ma non successe nulla. Tutto si fermò come il rantolo malato di una bestia ferita: si arrischiò a sollevare gli occhi, uno non riuscì ad aprirlo, era pesto, questo non era riuscito ad impedirlo.

Non c’era più nessuno, non sentiva più nulla, nessuna voce. Nessun insulto calibrato alla sua famiglia, alla sua razza, al suo onore, alla sua persona, al suo sangue, alla sua esistenza stessa. Nulla.

Si sollevò, sputò del sangue, si voltò su sé stesso, meditando di sgattaiolare in infermeria all’ora di cena per rubare delle garze e della pozione medicatrice, così da non mendicare attenzioni da Madama Chips, incespicandosi in annoiate scuse marce.

Trasalì, barcollò, come se a scoppio ritardato qualcuno lo avesse colpito in testa. E, ricordiamolo, la sua testa era sacra: non doveva mai perdere i sensi.

I sensi, adesso, invece gli stava perdendo tutti assieme. Odore di pioggia e sangue, ticchettio mesto d’acqua smunta, tocco asfittico di polvere lercia, trappola masticata di pietrisco sotto il labbro. Sparì tutto.

Solo la vista resistette come un vessillo di resa su un castello abbandonato.

La schiena di Hermione Granger che si allontanava sotto la pioggia, coperta lievemente dal rosso accecante di una camicia zuppa. La pelle tra le scapole creava un fosso nel tessuto, come un buco dove il cacciatore aveva l’ingresso privilegiato nel cuore. I capelli pendevano come fronde d’albero secco, dimentichi di cura femminile, sciolti, crespi, sterpaglie bruciate e poi annegate per dare l’illusione di qualcosa di ancora vivo. I passi erano lenti, rumorosi, insicuri. Ad ogni movimento, sembrava concentrarsi per non cadere.

“Che cosa diamine volevi l’altra volta, Granger?! Hai imparato a vaneggiare adesso?! Che vuol dire, Saint Suliac?!”. Una freccia, dalla punta avvelenata, dritta nel buco tra le scapole. La vide persino tremare, prima di fermarsi. Distinse la pelle d’oca sotto la camicia bagnata, come se adesso scoprisse freddo, acqua, tenebra.

Draco sentì la sua voce estranea a sé stesso, era acuta, stridula, incomparabilmente irritata. La vista della sua schiena gli aveva fatto sovvenire il ricordo delle sue parole, quel tono fresco di voce non usata. Aveva persino ricordato le parole precise, che non erano un gorgheggio, ma un nome preciso, francese. Aveva persino ripetuto l’accento di lei sull’ultima sillaba, la troncatura delle finali, la piega leziosa sul dittongo.

Ed aveva ignorato, come lei voleva, la bacchetta che le pendeva dalla mano destra e che aveva fermato i suoi assalitori. Molle, piegata, quasi le scivolava dalle dita: un Incantesimo muto e l’ultimo colpo che Draco aveva aspettato, non era arrivato. L’aveva ignorata la sua bacchetta, ed aveva mollato un po’ la stretta sul coltello stretto ancora nella mano. Lei non voleva che se ne accorgesse. Lui non voleva che la ringraziasse.

E, per la prima e non ultima volta, si incontrarono nella penombra confortevole del desiderio altrui. 

Accettato, consumato, ma mai esplicitato.

Quando lei si voltò troppo velocemente su sé stessa, si tradì come Giuda all’ultima cena. Aveva gli occhi troppo vivi, troppo accesi. Troppo rossore sulle guance, troppa foga nelle labbra serrate, troppa impazienza nel respiro.

La pelle del collo si tese sotto le sue vene, che pompavano il sangue alla sua testa così da consentirle di consumare avida il tradimento del silenzio. E le sopracciglia aggrottate, le ciglia frementi, lo sbuffo delle labbra annoiate furono una conferma non richiesta. Non se ne accorse, se non pochi secondi dopo.

Non si accorse che si era incarnata in sé stessa, di nuovo, se non pochi secondi dopo.

Una sé stessa autentica, non una pianta ornamentale: quella che odorava di carta di riso, quella che rispondeva a voce alta, quella che scriveva con foga, quella che adorava il grattare della penna sulla pergamena, quella che era viva e che non voleva essere null’altro che viva. E quella che, di fronte alle domande spicce, avrebbe sempre risposto irritata, come se la stupidità umana fosse un personale torto a sé stessa.

Hermione Granger spalancò gli occhi, pochi secondi dopo, mentre ancora finiva la frase con tono sarcastico. E lo sapeva ancora usare benissimo quel tono troppo da persona viva, al punto che Draco Malfoy se ne sentì quasi offeso. Quasi, però.

Perché mentre metabolizzava quel suo: “Ma ci vai qualche volta in biblioteca o pensi che sia una sala decorativa?!”, già aveva intuito che sarebbe corsa via tre secondi dopo, punendosi con un passo affannato che non sollevasse nemmeno uno schizzo d’acqua e che non producesse nemmeno l’ombra di un suono qualunque.

E già sapeva che il coltello nella sua mano, ormai vicino a cadere fuori dalla sua presa, avrebbe affondato nella carne, punendo nel sangue quell’ascolto non richiesto.

 

 

In biblioteca ci era andato perché si annoiava.

Era uno di quei pomeriggi da cartolina mediocre, con il cielo fermo, il lago immobile, l’aria stagnante e tutti gli studenti riversati nel Parco. Ottobre aveva ancora la fragranza dorata di un Settembre ritardato che non ne voleva sapere di girare i tacchi ed andarsene dal calendario. I professori si erano messi d’accordo per dare pochi compiti agli studenti, o perlomeno così sembrava a Draco Malfoy: forse, dal loro punto di vista, avevano ripiegato sulla magnanimità così da lasciare ai superstiti della guerra l’occasione di godersi un pomeriggio di sole inaspettato. Peccato che i veri superstiti della guerra, invece, scegliessero l’esilio in quelle occasioni luminose: e lui, sollevato, aveva trovato la biblioteca vuota e si era rintanato in un angolo buio, gli occhi fissi davanti ad un libro chiuso.

Poi quella vecchia megera della bibliotecaria si era avvicinata, fingendo di mettere a posto rumorosamente dei tomi polverosi e dandosi da fare per tossicchiare in modo quanto più molesto possibile, così che lui capisse che non poteva stare lì senza far nulla. Con un profondo sospiro, Draco aveva quindi aperto con nervoso il libro, mormorando lamentele a mezza bocca.

La pagina recava in bella vista un atlante della Francia.

Hermione Granger era una dannata mosca molesta che si attaccava al suo cervello: un messaggio subliminale, che a malapena raggiungeva la sua coscienza, e poi esplodeva come un petardo nei gesti più comuni. Gli occhi, sebbene la mente ancora ordinasse di stare fermi e di fingere la concentrazione prettamente necessaria a non essere disturbato dalla bibliotecaria, corsero rapidi a cercare Saint Suliac. E rapido, implacabile, lesse la dicitura della piccola cittadina sul mare della Bretagna. Uno dei borghi più belli della Francia, centro marittimo, meno di 1000 abitanti, case di pietra scura, vele bianche pompose, babbani che ci andavano in vacanza d’estate.

E un’Accademia Magica, nascosta da un Incantesimo protettivo tra i più potenti.

Draco si portò una mano stanca ed incredula tra i capelli biondi, che strinse con la stessa foga con cui tormentava la sua pelle con la punta fredda del coltellino che adesso non si portava più dietro. Lesse con rabbia sempre maggiore la descrizione che l’autore faceva dell’Accademia di Saint Suliac.

L’Accademia delle Scienze Alchemiche di Saint Suliac è la più vecchia istituzione scolastica della Francia, probabilmente più antica persino di Beauxbatons. Nota per essere il luogo dove vengono ideate le più grandi innovazioni pozionistiche della Storia della Magia, è tuttavia poco conosciuta a causa della grande selettività a cui vengono sottoposti gli aspiranti frequentatori dell’Accademia stessa. Dopo un ciclo di studi ordinari, difatti, possono essere ammessi all’Accademia tutti coloro che riportino la media dell’Eccellente in tutte le materie curriculari e che superino il delicato test inziale. Esso consiste nel  proporre alla Commissione esaminatrice una Pozione medica inedita entro il 30 maggio di ogni anno. Il corso di studi dura cinque anni, al termine del quale i diplomati più meritevoli vengono ammessi nell’area sperimentale dell’Accademia stessa, dove continuano con le ricerche. Per coloro che concentrano i loro sforzi accademici nell’area biomedica, giungendo a pregevoli risultati, è prevista la grazia da ogni reato commesso precedentemente per sé e per la propria famiglia; in ogni caso, coloro che studiano in tale Accademia godono di una elevatissima reputazione in seno al Mondo della Magia.

Benzina sul fuoco: ogni parola di quella raffinata spiegazione cartacea fu benzina sul fuoco. Draco si trovò in mano dei capelli strappati senza che nemmeno avesse provato un po’ di dolore. Il sangue era fluito tutto al viso, alle gote arrossate, agli occhi accecati di furia, poco prima che poi si dirigesse venefico alle gambe, comandandolo di scattare in piedi e di correre fuori. Nei corridoi deserti, non prestò attenzione a nulla, a nessuno, ad una qualsivoglia cosa a cui avrebbe dovuto prestare attenzione: persino la paura di incontrare qualcuno che lo picchiasse come al solito diventò una stupida preoccupazione vana che cedeva il passo ad un’impellenza maggiore. Repressione. Soffocamento. Annegamento. Ci sguazzava in quel clima di vittima perenne, ci godeva enormemente ad appiattirsi nel senso di colpevolezza fosco e nell’ingorda lacerazione dell’impotenza. Non aveva bisogno di speranza, di una risorsa, della possibilità che tutto andasse bene. Non aveva bisogno di una fede malriposta: soprattutto non aveva bisogno della fiducia assolutamente malriposta di Hermione Granger.

I Grifoni hanno le ali per andare dappertutto: dovunque è il luogo fisico che naturalmente li si addice. I Serpenti, dalla loro, hanno solo l’istinto per trovare comodi nascondigli e hanno solo il veleno nei denti per difenderli come se fossero lussuose dimore cercate con sollecitudine, e non sopportate con sussiego.

E lui era sempre stato un Serpente, non ne voleva nemmeno sapere di chiedersi come fosse il mondo fuori dalla crepa ospitale che era la sua vita.

Dalla fine della guerra, gli era sempre bastata quella feritoia scavata nel tempo rubato.

La rabbia di Draco Malfoy era tale che, quando finalmente trovò Hermione Granger, per un attimo nemmeno la vide. Superò l’incavo nella roccia tra un’armatura ed una colonna, senza accorgersi di lei. Il Grifone e la crepa, che curioso controsenso. Poi bastò un respiro forte, estremamente rumoroso, tanto da riecheggiare nel corridoio deserto e si voltò su sé stesso.

Passava nelle vite degli altri come un pulviscolo di vento, senza nemmeno osare respirare. E poi urlava sempre nella sua di vita.

Era seduta, per terra, le ginocchia al petto, come una bambina spaventata da un temporale. Draco non vide il suo viso, era nascosto tra le braccia, i cui gomiti erano poggiati sulle ginocchia. Distingueva solo la sua fronte. La pelle era bianca, livida, sudata: solo a quel punto, respirando a fatica, notò le mani premute contro le orecchie, forte, al punto che il dorso delle mani stesse si era fatto trasparente. Distingueva la trama delle vene e il tragitto del suo sangue - sporco -  che fluiva verso i polsi sottili, assecondando il movimento convulso del collo che continuava a muoversi a destra e a sinistra. La  testa era come un ammasso di stracci sporchi, i capelli una sterpaglia confusa che le copriva in modo misericordioso il volto: negava febbrilmente qualcosa, come se qualcuno le stesse raccontando una storia terribile alle orecchie e lei cercasse di tenerla fuori dalla sua testa. La divisa era impolverata, strappata sull’orlo, e sporca di un fango che non sapeva dove aveva trovato in quella giornata piena di sole. Respirava a malapena, rantolava come un malato terminale e continuava a negare come una povera bambina pazza.

Le urlò di tutto: insulti vecchi e nuovi, litanie inventate al momento, balzane imputazioni di colpe non sue, retaggi medioevali del sangue ed esagerazioni di difetti che nemmeno sapeva che lei avesse. Nel corridoio deserto non passò nessuno, mentre lui urlava, mentre le pietre rifrangevano le sue parole, mentre il respiro di lei nemmeno accelerava e restava stasi mobile di un tormento segreto. Non si mosse nemmeno per un momento, nemmeno diede segno di averlo sentito: non franarono le spalle, non piansero le guance, non sollevò il viso.

Continuò a negare e basta, come prima che parlasse, come se lo condannasse al mutismo per le sue orecchie, quello che lei aveva elargito a tutti gli altri. Tranne che a lui, a cui però adesso donava lo stesso respiro affannoso che avrebbe dedicato ad ogni individuo al mondo.

Smise di urlarle contro Draco, quando capì che lei non avrebbe risposto, non avrebbe parlato, non avrebbe rotto di nuovo l’Incantesimo apposta per lui. Se ne andò, le ginocchia che gli tremavano, voltandole le spalle.

Due ore dopo, dopo che ebbe mangiato, dopo che ebbe dormito, dopo che ebbe fatto i compiti di Trasfigurazione, dopo che ebbe guardato dodici volte la clessidra, dopo che ebbe seguito la traiettoria del sole che si tuffava nella culla rocciosa delle montagne… lei sarebbe stata ancora lì. Nella stessa posizione di prima, con le ginocchia strette al torace, il respiro come se avesse corso per chilometri, i capelli spettinati, la testa impegnata nella sua opera di negazione. Di lei era cambiato solo il colore, prima la luce del pomeriggio la ritagliava di stelle moleste nei riflessi lucidi dei capelli, adesso il buio se l’inghiottiva pronta a masticarla.

Draco si chinò alla sua altezza, sedendosi a gambe incrociate davanti a lei. Le prese i polsi tra le mani, facendola fermare. La pelle dei suoi polsi era così calda che Draco pensò che avesse la febbre: ma aveva il viso livido, emaciato. Due profonde occhiaie viola le macchiavano lo sguardo, che sollevò indolente verso di lui. Aveva le pupille così piccole da sembrare due capocchie di spillo: lo guardava con disprezzo, il mondo filtrava nelle sue orecchie e sembrava non riuscire nemmeno a sopportarlo. Le tremarono le spalle, le tremò il labbro, gli occhi stessi tremarono come fondamenta di una casa sotto ad un sisma.

Draco lasciò i suoi polsi, ebbe l’impressione quasi di scottarsi ed Hermione lo guardò tra la gratitudine e lo sconforto, mentre come un elastico rilasciato, le mani tornarono a cercare i suoi capelli, pronta a riprendere il movimento febbrile di poco prima.

“Granger… mi puoi aiutare?”.

Hermione si fermò, lo guardò sorpresa, spalancando gli occhi castani. Le labbra si dischiusero come se stesse trattenendo il fiato e le mani le scivolarono in grembo, chiudendosi su sé stesse. Aggrottò le sopracciglia guardandolo, le pupille che tornavano normali, il respiro che si scioglieva. Inclinò la testa di lato, studiandolo curiosamente, come se fosse la prima volta che lo vedesse. Draco seguiva la vena del suo collo che pulsava sotto la pelle bianca, non riusciva a sollevare il viso e non poteva nemmeno pensare di tornare a guardarla negli occhi.

Lei non parlò ancora. Non disse nulla, chiuse le labbra in un moto di difesa, irrigidendo la postura.

Draco sentì l’aria cambiare, distinse il calore allo stomaco, prima ancora di spiare il viso di lei.

Di percepire la piega ilare degli occhi, la pelle adesso rosea delle guance, le spalle distese.

Prima di vedere il collo che ancora si piegava nella risposta che la sua gola, adesso, non riusciva a dare.

Il mondo lo lasciava ancora fuori, Hermione Granger: le mani fremevano dalla voglia di negare ancora.

Ma Draco Malfoy, lei, lo lasciava entrare nella sua crepa: dicendo un sì muto, che valeva mille parole.

 

 

L’uragano ha il sapore del cedro e l’odore della vaniglia.

Anni dopo, Draco Malfoy, padre di famiglia, si sarebbe seduto in poltrona davanti ad un caminetto spento in una calda giornata d’estate: un libro sulle ginocchia, un cane accoccolato ai suoi piedi, la finestra aperta sul mare.

Ed una figlia, bellissima, intelligente, curiosa, che sarebbe scesa dalla soffitta con un baule pieno di vestiti vecchi, chiedendogli se poteva farne qualcosa di consono ai giochi di una decenne annoiata.

Avrebbe sorriso ed avrebbe annuito, e lei si sarebbe drappeggiata addosso un tessuto che, ostaggio di anni passati, avrebbe rilasciato nel suo singulto nostalgico di dimenticanza da quarantenne, il profumo penetrante del suo Ottavo anno ad Hogwarts: cedro e vaniglia. Il sapore e l’odore dell’uragano.

Aveva vissuto nell’occhio del ciclone per nove mesi: attorniato dal vento che ronzava, si era solo beato di restare in vita. Il naufrago non si chiede da dove spunti l’isoletta salvatrice dove riposerà le membra, il minatore non si chiede da dove provenga la luce benefica che lo porterà in superficie, il terremotato non si chiede di chi sia la mano che lo tira fuori dalle macerie: la afferra e basta.

Lui, Draco Malfoy, il Purosangue, il Nobile, il Re di Serpeverde, aveva afferrato la mano piccola e tremante di Hermione Granger, la Mezzosangue, la stracciona, la Principessa di Grifondoro.

Era stata sopravvivenza, si sarebbe detto per settimane, iniziando questo ritornello la sera stessa in cui, in un corridoio deserto, lei gli aveva sorriso con gli occhi dopo che si era trovato a chiederle aiuto. Sopravvivenza, ecco, che fa l’uomo ladro e il Purosangue traditore di sé stesso: aveva una sola occasione di poter vivere una vita decente ed era Saint Suliac, inutile negarlo. Si sarebbe trasferito in Francia, lontano dalle voci continue sulla sua famiglia, avrebbe studiato Pozionistica in un ambiente ovattato e protetto, probabilmente ci sarebbe rimasto tutta la vita, avrebbe avuto il perdono giudiziale da ogni peccato, i suoi genitori avrebbe concluso l’esilio e magari sarebbero venuti a vivere in Francia anche loro. La strada era così evidentemente tracciata nel buio di tutto il resto che non seguirla sarebbe stato da idioti e da pazzi suicidi.

E la sua unica occasione era Hermione Granger. Non lo preoccupava l’Eccellente in tutte le materie, la sua media era notevolmente salita da quando non aveva alcuna distrazione da sé stesso se non studiare.

Ma lo preoccupava la pozione medica, sicuramente la Granger sapeva meglio di lui che cosa poteva fare buona impressione sulla commissione e sicuramente sapeva molte più cose di lui su quell’Accademia. Sapeva della sua esistenza, Hermione Granger, quando lui invece nemmeno sapeva che esistesse.

Quindi, pregno del suo egoismo, si era affidato a quella piccola povera pazza che chissà come e chissà perché, adesso, si dava pena di volerlo aiutare: non si era fatto domande Draco, non era un tipo riflessivo e non era nemmeno un tipo da scrupoli morali. Guardava Hermione Granger come si guardano i poveri derelitti dalla mente devastata, e non si era fatto alcuna domanda di alcun tipo nell’accettare, anzi nel chiederle aiuto.

L’orgoglio era una zavorra della gente che aveva la vita ricca e piena: lui, dal basso della sua mancanza assoluta di tutto, bè… ci poteva benissimo fare a meno. L’uragano berciava fuori di lui, pronto a spazzarlo via, e lui aveva solo scelto l’oasi che gli dava la maggiore calma e stabilità al momento.

Dopo mesi, non seppe nemmeno lui quanti, riconobbe a sé stesso che non aveva accettato l’aiuto di una persona qualunque, ma di Hermione Granger: non era stato che, con l’acqua alla gola, si era affidato alla prima mano vagamente meno ostile delle altre per trarne forza. No, aveva scelto Hermione Granger perché era Hermione Granger. Poteva chiedere aiuto ad un professore, poteva parlarne con i suoi, poteva scrivere ad un vecchio amico.

Non era così solo come amava definirsi e comunque ne aveva di voci diverse nell’esistenza da quella morta della Granger. Ma aveva scelto lei, perché di lei ci si fidava anche da nemici. Lei non tradiva, ingannava, mentiva mai.

Era una specie di ricovero dall’uragano, il più sicuro e il più adatto: lei si era fidata che lui entrasse a Saint Suliac al punto di suggerirgli quella soluzione e lui si era fidato che lei lo aiutasse, come se negli anni, negli scontri, nella guerra e nella pace, ogni schermaglia ed ogni silenzio fosse stato solo il sedimento per arrivare a quella fiducia strana e goffa tra due ruderi che, per tenersi in piedi, avevano solo che da reggersi alle macerie dell’altro.

Andava bene chiunque, poi andava bene Hermione Granger: ma Draco si chiese troppo tardi, nel freddo silenzio del suo egoismo ormai dissolto, perché andasse bene a lei.

Perché lei parlasse con lui, e solo con lui, perché lo aiutasse, perché persino si illuminasse insegnandogli.

Draco Malfoy era l’espiazione di Hermione Granger, ed era al contempo la cura per tornare sé stessa.

Draco lo avrebbe capito tardi, troppo: ed avrebbe capito che l’uragano non era la vita fuori, il terrore, la paura, il futuro rombante di promesse cupe ed incertezze annunciate.

L’uragano era lei, Hermione Granger, cedro e vaniglia da non dimenticarsi mai più.

 

 

Hermione Granger si annunciava prima con il suo odore: cedro e vaniglia. Prima arrivava una nota di testa aspra e pungente, come se richiamasse intimamente l’attenzione su sé stessa, poi arrivava la nota di cuore, fonda come un sospiro, dove lei sembrava chiedere scusa per aver troppo disturbato con la sua presenza.

Difficilmente, poi, a ciò seguiva un suono qualunque. Draco aveva imparato a sobbalzi e a sussulti quanto lei fosse diventata silenziosa: non faceva nemmeno rumore nel muoversi, persino i passi sembravano non sollevare polvere, scivolava come una pattinatrice sul ghiaccio e respirava di quiete come un fiore.

Non smetteva mai di muoversi, però: appena si sedeva nella stanza che aveva preparato per lei e per Draco, continuava ad attorcigliare un dito attorno ad una ciocca di capelli, o a muovere il piede con fretta sotto il tavolo, o a girare nervosamente le pagine alla ricerca di qualcosa.

Draco, spesso, la rimproverava borbottandole che non riusciva a concentrarsi: era come un rito, lei entrava, si sedeva ed iniziava ad agitarsi come una tarantolata. Lui sentiva il nervosismo crescergli nel fondo dello stomaco mentre leggeva e perdeva la concentrazione, che si disperdeva nel silenzio dell’aula deserta ed abbandonata.

Senza esitazione alcuna, sollevava lo sguardo, la guardava severamente ed ingiungeva: “La smetti, Granger?! Hai la compostezza di una bambina di cinque anni…”: questo se era di ottimo umore. Altrimenti paragonava il suo contegno a quello delle più immonde bestie sulla faccia della Terra che potevano venirgli in mente.

Hermione, nella maggior parte dei casi, inarcava un sopracciglio, metteva un broncio dispettoso e faceva ancora più chiasso, costringendolo a massaggiarsi nervosamente le tempie mentre malediceva il suo spirito martire e masochista. Notandolo, allora, Hermione si stringeva colpevolmente le spalle, metteva su un sorrisetto timido e si acquietava: voleva dire che era di buon umore. Se era poi di ottimo umore, e questo coincideva con le giornate di pioggia o di cattivo tempo, diceva anche qualche parola. Monosillabi, perlopiù, frasi mozzicate che sussurrava con voce greve. Uno scusami soffuso, un perdonami soffice, un mi dispiace quasi tenero.

Se era quasi felice, e se lui non l’aveva definita in modo diverso da bambina, lei motteggiava persino un Quante storie!  in tono ironicamente scherzoso: erano i giorni in cui, invece che indicargli sommariamente con l’indice i punti del libro di Pozioni che gli consigliava di memorizzare, si azzardava a dirglielo a voce. Faceva uno sforzo continuo per parlare, Draco se ne rendeva presto conto, anche se di solito prestava poca attenzione agli altri.

Ma con lei era difficile non accorgersi di qualcosa, figuriamoci: per questo vedeva le parole affollarle la gola, le vedeva premere come punte di lancia sotto la sua pelle, le vedeva mescolarsi al sangue e smaniare per uscire. Ma lei rimaneva parca rispetto ad esse, sembrava contarle in bocca e limitarle al minimo, le reprimeva dentro e le faceva uscire solo se andava bene effettivamente dire qualcosa, o lo trovava necessario ed utile.

Quando, poi, finiva di parlare, tendenzialmente faceva un sospiro profondo, come se si fosse stancata, come se ciò l’avesse lasciata esausta. A cena, poi, Draco l’avrebbe vista guardare il contenuto del piatto senza particolare attenzione, l’avrebbe vista fissare gli altri senza interesse, gli occhi spenti e l’espressione persa.

Nei giorni meno buoni, Hermione Granger non parlava affatto, non rispondeva, non faceva il benché minimo rumore e non si muoveva per nulla: accadeva spesso quando c’era il sole, o se faceva caldo, e soprattutto all’approssimarsi della notte. Diventava una statua di sale, la mano sotto il mento e lo sguardo congelato. Tentava spesso anche di ripetere il siparietto della negazione febbrile con la testa, ma Draco la fermava sempre, specie da quando aveva scoperto che, in quei momenti, tendeva anche a farsi male con le unghie della mano, graffiandosi il viso. Sangue come cura ed espiazione. Le separava i polsi, glieli tratteneva tra le mani e la rimproverava duramente.

“Smettila Granger… lo sappiamo tutti e due che non sei pazza… quindi non credere di darmela a bere che non attacca…”. Se lei continuava, spesso si alzava e se ne andava. Le prime volte, lei era rimasta lì, seduta sulla sedia, le mani nei capelli. Dopo, nelle settimane successive, aveva preso a rincorrerlo nel corridoio.

“Scusami…” sussurrava mesta, guardandosi le mani che si torceva “Mi dispiace, per favore, non te ne andare…”.

La prima volta in cui lei lo aveva seguito, l’aveva lasciata lì adirato ed offeso dal suo comportamento sconsiderato, come se ancora si ostinasse a difendere il sangue che nelle sue vene rimbrottava di una purezza che era diventata, oggi, solo peccato e colpa. La seconda volta, l’aveva sorpassata nervosamente, tornando nella aula del quinto piano dove si incontravano ormai un pomeriggio sì ed uno no. La terza volta, l’aveva guardata di sfuggita negli occhi bassi, si era beato del rossore vergognoso sulle guance e si era sentito potente, in grado di costringerla a chiedergli scusa. E la quarta volta, invece, una finestra dispettosa si aprì, riversando la luce del sole morente sulla pelle del viso di lei: Hermione strizzò gli occhi, gli stropicciò piano come se si fosse appena svegliata e non riuscì a nascondere quel tremulo accenno di pianto che sapeva sempre reprimere nel fondo dei suoi occhi, nei giorni di sole.

Fu come la luce di un riflettore, che la ritagliò dallo spazio bianco dove Draco l’aveva sempre relegata.

Ebbe colore, foggia, peso: fu di nuovo Hermione Granger, non la pazza ragazzina che stava solo sfruttando in mancanza di alternative. Fu una rivelazione da perderci il capo e il senno: improvvisamente, come se tutto adesso fosse diventato incommensurabilmente pesante, la vide davvero e di nuovo.

L’amica di Potter, la fidanzata di Weasley, quella che entrava in Sala Grande scortata dalla Piattola che la teneva sempre un braccio, come se fosse invalida e non riuscisse a camminare. Quella che si sedeva a tavola con quelli che regolarmente lo braccavano, quelli che oramai non lo picchiavano più perché lei sapeva, ma comunque gli rendevano la vita un inferno non toccandolo neppure. L’eroina del Mondo Magico, la strega più brillante della sua generazione, la Mezzosangue zannuta. La Granger. Hermione Granger.

Si stropicciava gli occhi Hermione, ed un braccialetto d’argento tintinnò al suo polso. Draco lo fissò spaesato, come se fosse la cosa più importante del mondo, una vertigine che gli annebbiava i sensi.

Una catenina sottile, a maglie larghe, un ciondolo smaltato di rosso. Un cuore, due lettere. H… R.

Due immagini si sovrapposero su di lei: quella del nome e quella del viso. Il nome che lei continuava ad avere, il destino che continuava ad avere, le parole che continuava ad indossare, parole altrui d’accordo, ma parole che non potevano nemmeno avere traccia impercettibile nel suo vocabolario. E poi l’immagine del viso.

Gli occhi sgranati, spaventati, dolcissimi, marroni come i pomeriggi d’autunno. I capelli scarmigliati, annodati, legati, ma mai quando stava con lui, perché aveva bisogno di qualcosa su cui distrarsi mentre li tormentava con le dita. Le spalle magre, ossute, spesso piegate, e che in quel momento tremavano. Il corpo esile, leggero, come quello di una farfalla dalla vita giornaliera. Le mani intrecciate, sporche di inchiostro. La bocca rotonda, con le labbra serrate ed un sospiro sfuggito sempre per caso.

La vide per la prima volta, la rivide finalmente, o forse tutto assieme: ebbe coscienza, di nuovo, di chi era, comprendendo finalmente che non la conosceva affatto. Si era affidato a lei, perché era lei, non perché fosse una tra le tante. Ne ebbe terrore, enorme, smisurato, al punto di voler fuggire e non tornare mai più indietro.

Ed invece fece solo un passo, o così gli parve, ed invece forse ne fece due, perché lei era più vicina, o forse ne fece troppi, perché lei improvvisamente era davanti a lui, piccola, sottile, pronta a spezzarsi in mille pezzi.

Ad un respiro da lui, Hermione si mordicchiò il pollice, i denti affondavano nella carne cercando di aprire un varco per il sangue. Draco chiuse la sua mano tra le sue, la strinse forte. Hermione, tremante, poggiò la fronte sulle loro mani intrecciate, chiuse gli occhi, respirò come se le mancasse l’aria.

“Perché sono qui, adesso?” chiese Draco sgomento, guardando la massa informe dei suoi capelli “Perché mi aiuti? E perché fingi con tutti di non poter più parlare… mentre invece lo fai ancora?”.

Attese forse ore, forse minuti, forse secoli ed anni. La luce si spense, il sole tramontò e la luna ricomparve nel cielo, ammantando di diamante le pietre bianche del corridoio.

Senza nemmeno muoversi, senza mai lasciare le sue mani, Hermione sussurrò a fatica: “Tutti sono sempre pieni di domande. Mi fanno ammattire. Vogliono risposte, vogliono che io parli, vogliono che io mi spieghi… ed io non voglio”.  La voce della Granger era un rantolo confuso, le sue mani tremavano in quelle di Draco come se la scuotesse il vento e lei non fosse null’altro che un ramoscello secco.

“Non parli più… solo perché non vuoi rispondere alle domande?” chiese Draco scettico, guardandola dall’alto in basso, il calore delle mani di lei che ancora gli dava l’impressione di scottarsi. Strizzò gli occhi per metterla a fuoco in quel corridoio buio e deserto, non c’erano luci di nessun tipo, né fiaccole. Avevano scelto quell’aula per quel motivo, era un’ala del castello abbandonata dalla guerra, c’erano stati dei crolli e non ci si era dati ancora da fare per la ricostruzione. Nessuno li avrebbe cercati lì. Adesso, Draco quasi voleva che li cercassero, quasi voleva che lo strappassero da lì, quasi voleva che ci fossero migliaia di voci a nascondere quella di lei.

Dal basso, risuonò un suono gutturale, sordo, animalesco: lei che soffocava una risata triste.

“Deve essere più complicato di così, no?” disse lei argentina, eppure così maledettamente triste che Draco poteva contare ogni lacrima repressa nella sua voce. Finalmente lei sollevò lo sguardo, lasciando le sue mani. Nel buio, Draco non la vedeva più, non ne distingueva il minimo tratto, era come sparita. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, la punta delle dita che bruciava ancora era la sola cosa che gli faceva credere che lei c’era stata e forse c’era ancora, lì, davanti a lui.

Hermione respirò a lungo, come se fosse appena riemersa dall’acqua, prima di aggiungere incolore: “Tu non mi hai mai chiesto nulla… per questo parlo con te… non ti interessa farmi domande e non sei convinto di potermi aggiustare… non te ne frega nulla di me, non mi vuoi bene, non mi apprezzi, né mi stimi. E io non ho bisogno di altra gente che mi ami e mi voglia bene: ho bisogno solo di non pensare a nulla. E tu mi consenti di farlo…”. Prese ancora fiato, prima di concludere con un filo di voce: “Sei una distrazione. Punto. Non sono altruista, forse non lo sono mai stata, sono egoista come te: a te non interessa chi ti aiuti, fosse anche che sia io? Bene, per me è lo stesso. A me basta non pensare a me stessa. Nessuno me lo lascia fare perché sono convinti che sia io ad avere bisogno di aiuto… a te non interessa aiutarmi, interessa solo che io aiuti te. E ciò mi fa sentire… uguale a prima.”.

Non la volle vedere per giorni, dopo quella confessione. Negli occhi annebbiati, che pure non l’avevano vista in volto nel buio di quel corridoio, era rimasta indelebile come se fosse scavata l’immagine di Hermione Granger.

Uguale a prima: Draco non si ricordava come era prima.

Certo, ne aveva ricordo, ma era un ricordo sbiadito, annacquato, sporco, che era convinto che non fosse reale. Pochi particolari gli ridavano la dimensione di quella che lei era davvero prima, particolari minuscoli che ritagliava a forza dall’immagine sbagliata che preservava di lei.

Si ricordava il sorriso acceso che aveva quando qualcuno le chiedeva spiegazioni, si ricordava come arricciava il naso quando qualcuno sbagliava una risposta, si ricordava che una volta aveva detto che voleva fare l’insegnante.

Sezionava quei particolari con la perizia di uno che fa un’autopsia su un cadavere, gettava pezzi morti di lei altrove così da capire che cosa davvero lei cercasse di sé stessa, stando con lui.

Non cercava la presunzione spiccia di chi è sempre dalla parte giusta, non cercava l’orgoglio smisurato che le dava la sua Casa, non cercava il coraggio spavaldo di chi si crede padrone del mondo, non cercava nemmeno l’idealismo sfrontato dell’eroina di guerra. Cercava altro, cercava la sua stessa più piccola, più misera, più nascosta. Quella che aiutava, senza pretendere nulla in cambio, e quella che sapeva insegnare, e che magari cercava così di costruire il suo futuro. Cercava il solo filo rosso intonso che l’avrebbe legata alla sua sé stessa futura, all’unica che adesso volesse essere: quella che, con la guerra, non c’entrava niente, quella che, con la magia, non c’entrava niente.

Quella che forse c’era sempre stata, ma che adesso voleva disperatamente tornare ad essere.

Quel prima di cui lei parlava, Draco, lo capì subito. Non era prima della guerra, prima della morte, prima della voce cancellata. Era un prima ancora più ancestrale, ancora più vecchio, ancora più antico.

Si riferiva a prima di sé stessa, si riferiva a prima di Hogwarts stessa, si riferiva a prima della magia stessa.

Quando era solo una babbana, ignara di tutto.

Draco capì improvvisamente molte cose, tutte assieme, come una nebbia confusa che adesso si diradava.

Stavano cercando la stessa cosa, la stessa identica cosa: l’assoluzione. Che passava dallo smettere di essere sé stessi. Lui sarebbe andato in un posto dove nessuno lo conosceva e dove avrebbe potuto ricominciare. Lei cercava di dimenticare ogni traccia che quegli anni le avevano lasciato, inseguendo e ricordando il sogno che aveva da bambina, prima della magia, prima di tutto: fare l’insegnante.

Se lo consentivano a vicenda, l’uno implorava l’altra di dimenticarsi chi erano prima. E funzionava.

Incomprensibilmente, funzionava.

Per questo, lei con lui parlava, nonostante fosse Draco Malfoy.

Per questo, lui si faceva aiutare, nonostante fosse Hermione Granger.

Perché, quando erano assieme, non avevano più alcun nome.

Solo tempo, respiro ed innocenza di persone innominate.

 

 

La chiarezza sarebbe arrivata dopo, senza di lei, così come la comprensione e la certezza. Avrebbe avuto il profumo di un’estate fresca, dal sapore acerbo e sconosciuto, gravida di promesse e estranea alle minacce. Avrebbe avuto il colore dei suoi diciannove anni, un’età in cui tutto ancora era concesso e perdonato, anche a lui, ma avrebbe avuto ancora dentro di sé lo strazio della perdita, il rimpianto della mancanza e la dissoluzione sfilacciata della speranza: ma tutto quello era mitigato dal miscuglio dolceamaro di pienezza nel sapere di aver fatto la cosa giusta. Non sarebbe stata una sensazione immediatamente comprensibile, visto che Draco non credeva mai di fare la cosa giusta, quanto piuttosto quella sbagliata, o quella obbligata, o quella facile, o tutte e tre le cose assieme. Presto, però, ne avrebbe assaporato il sollievo friabile, che, anche quando ti sbrana il cuore che non sapevi di avere, almeno ti dà la consolazione di ergerti ad eroe immacolato e pulito.

Allora, Draco avrebbe riguardato indietro a quel suo ultimo anno ad Hogwarts ed avrebbe visto ogni giorno che si lasciava alle spalle: e solo allora, lontano dalla sua scuola e lontano persino da una parte di sé, sepolta a viva forza dentro il castello, avrebbe capito la dimensione di quello che era accaduto.

Perché, tutto in quell’ultimo anno, mentre lo aveva vissuto, gli era parso solamente un sogno. Aveva la stessa consistenza lanosa e stopposa, la stessa sensazione immobilizzante di sabbia mobile, la stessa inconsistenza eterea così che lui credesse che niente fosse reale. E solo allora, avrebbe trovato le etichette e le parole per descrivere quanto era avvenuto: solo quando fosse stato lontano da Hermione Granger, che aveva ammantato la sua stessa mente della mancanza di qualsiasi segno intellegibile. Aveva privato sé stessa delle parole ed allo stesso modo, aveva fatto con lui, costringendoli a nutrirsi solo di respiri, di sguardi, di tocchi, di sorrisi, ma mai di parole.

Tutto poteva essere, e niente poteva essere allo stesso tempo, e questo dava modo di considerare sopportabile starsi accanto se non avevano bisogno di mettere in chiaro niente, di definire niente, di trovare parole per niente.

Solo, quindi, mesi dopo, Draco avrebbe preso ogni giorno di quei mesi, trasformandolo in una parola.

All’inizio era stata la sopravvivenza, più o meno da ottobre a fine novembre: lui voleva entrare a Saint Suliac, lei sembrava disposta ad aiutarlo e Draco non aveva badato a nulla di diverso da questo. Era come un bambino che mangia: bastava trovare la pappa pronta e lui non avrebbe fiatato. La Granger aveva trovato un’aula disabitata al quinto piano, aveva sistemato un lungo tavolo di frassino, aveva portato due sedie, aveva iniziato ad ammonticchiare ad un lato del tavolo libri su libri, aveva scritto su una pergamena i punti che lui avrebbe dovuto memorizzare a menadito. Si ricordava con difficoltà il volto di lei, era come una meteora scintillante, prodiga di attenzioni a cui lui non badava; di quel mese e mezzo ricordava solo l’odore della carta e dell’inchiostro, la frustrazione di un concetto incomprensibile, il trionfo di un’improvvisa risoluzione, la speranza che cresceva.

Avrebbe detto che Hermione Granger era lì solo per il suo profumo, cedro e vaniglia; per il fatto che si muoveva troppo, se era di buonumore; per il fatto che era silenziosa come una morta, se era di pessimo umore; per il fatto che prendeva ad avere crisi di negazione, se stava male. Solo in quel caso, e solo perché lo disturbava, badava davvero a lei: la rimproverava, se ne andava, lei lo seguiva nel corridoio e diceva qualche parola.

Ma tutto, tutto, era così misero nella sua testa egoisticamente ingolfata da lasciare tracce di polvere lieve.

Poi era arrivata la fine di novembre, il raggio di sole dalla finestra e lei che torna ad essere Hermione Granger, e che al contempo gli appare così diversa da non sembrargli simile ad alcun volto visto sulla terra da quando era nato.

Lì, aveva ricordato che c’era. O lo aveva notato, o lo aveva finalmente appreso.

Lì, si era chiesto che cosa ci guadagnasse lei, che cosa volesse lei, che cosa cercasse lei.

Lì, per la prima volta, le aveva dato il fulgore dell’esistenza nella sua mente, solo questo.

Lei che voleva diventare insegnante e, stando con lui, se lo ricordava; lei che parlava con lui perché era il solo che non le faceva domande; lei che stava con lui perché non le voleva bene e non tentava di aggiustarla…

… tutto quello sarebbe venuto dopo, nell’estate dei suoi diciannove anni senza di lei.

In quel momento, capì solo che Hermione Granger esisteva e, per qualche strano caso, esisteva accanto a lui.

Già solamente quello, per Draco Malfoy, fu l’inizio del mulinello di vento che sarebbe diventato uragano.

Già solamente quello, solo la scoperta di quello, lo separò da lei fino quasi alla fine di dicembre.

 

 

Le feste di Natale furono veramente bastarde.

Che pochi sarebbero tornati a casa, era un’ovvietà. Tra quelli che avevano metà famiglia al cimitero e quelli che avevano metà famiglia ad Azkaban, già si potevano riempire due quarti della Sala Grande. Se poi ci si aggiungeva chi semmai non voleva tornare a casa perché aveva dei parenti vivi e presenti con il corpo, ma lontanissimi con la mente, oppure chi a casa comunque non ci tornava mai, o chi non aveva casa a cui tornare… bè, non fu ovviamente una sorpresa che a prendere il treno del ritorno furono solo pochi primini e una ventina di ragazzi più grandi. Tutti, intimamente, volevano scordarsi che era Natale, era una festa da lente d’ingrandimento perché ingigantiva ogni macchiolina miserrima che poteva esistere in un’anima, in una casa, in una famiglia. Ma, naturalmente, ai professori, alla neo-preside McGranitt, persino a Gazza, sembrava assurdo non festeggiare.

Gli adulti, i grandi, i saggi, avevano raggiunto la composta gratitudine di essere ancora vivi; i ragazzi, contrariamente a loro, conoscevano ancora la rabbia del lutto impotente e la tristezza esasperante del voler lasciare tutto immoto ed intonso. Perciò, ad ogni decorazione appesa, ad ogni canto intonato, ad ogni luccichio sospeso, ad ogni albero addobbato, gli adolescenti rispondevano con sbuffi di fastidio, se non addirittura con distruzioni gratuite. La Preside fu costretta persino a porre sugli addobbi degli Incantesimi Auto-riparanti.

La tristezza era come un miasma gelatinoso che annegava tutti, confondendosi nei piatti opulenti, nei dipinti lucidi, nelle luci sfavillanti, nel soffitto nevoso, nel cielo terso: non la si poteva ignorare e basta.

Draco Malfoy si accorse immediatamente della tensione che saliva nel castello: non era un buon segno. Tendenzialmente se la tristezza, il rammarico o il ricordo crescevano d’intensità, avrebbero trovato uno sfogo fin troppo semplice ed immediato. Lui. Saint Suliac sembrava sempre di più l’oasi nel deserto, dove inseguire finalmente la pace tanto agognata. Cercava solo di pensare a studiare, non guardava nessuno nei corridoi, a lezione si sedeva sempre in fondo, cercava sempre di andare in giro accompagnato almeno da qualcuno.

Aveva però enormi buchi di concentrazione, fittissimi; improvvisamente la sua mente diventava nera e lui non riusciva a pensare a nulla, lambiccandosi per ore sui particolari più cretini. Aveva appreso più o meno a memoria tutte le pozioni mediche più conosciute, si stava avventurando con quelle più complesse, ma sapeva che doveva elaborare quanto prima quello che aveva appreso per creare qualcosa di completamente originale.

E non sapeva se ne era in grado, da anni passavano l’esame quelli che creavano pozioni per squilibri mentali oppure per patologie cardiache, e sicuramente si trattava delle pozioni dai maggiori effetti collaterali e dalla più alta instabilità nella preparazione. E lui non ci aveva ancora minimamente messo mano in quelle già esistenti, figuriamoci se poteva crearne una propria. Trascorreva ormai le ore nell’aula deserta al quinto piano, una mano tra i capelli e tomi sparsi aperti davanti a lui, di cui non riusciva a ricostruire nemmeno un ordine logico da cui iniziare. Doveva passare dalla teoria alla pratica, adesso. E non aveva la minima idea di come fare.

I giorni passavano leziosi e pigri, senza che lui riuscisse a fare nulla. Incapace di trovare una soluzione qualunque, era vittima degli scatti più improvvisi e delle volizioni più immediate ed incomprensibili. Era seduto in classe e, repentinamente, aveva voglia di giocare a Quidditch ed aveva l’impressione che se non avesse immediatamente preso una scopa, sarebbe morto. Poi la voglia passava, e sprofondava ancora nell’apatia.

Si ritrovava a camminare per il parco o per Hogsmeade alle ore più disparate, i passi strascicati e lenti, e poi improvvisamente veloci, sfreccianti, incalzanti se veniva colto dalla voglia di tornare al chiuso.

Fu per quello che si ritrovò al binario della stazione di Hogsmeade la sera del 15 dicembre, nel momento in cui coloro che decidevano di tornare a casa per le vacanze prendevano il treno. L’aria era fredda e stagnante, lui si era dimenticato la sciarpa e il cappello, eppure non ne voleva sapere di tornarsene indietro. Si era lasciato cadere su una panchina vicino al binario, malamente illuminata da una luce tremula. Guardava un cespuglio davanti a lui dalle foglie rade e secche, con l’improvvisa tentazione di appiccargli fuoco. Ogni tanto, senza premeditarlo, la sua testa si sollevava e guardava distrattamente la folla di ragazzi che partivano, seguendo abbracci e spiando carichi di bagagli. Sbuffava nel guardarli, poi tornava al suo cespuglio, il respiro affannato.

“Ed allora mi consentirai di dirti che te l’avevo detto!” una voce argentina, acuta, insopportabile, gli ferì le orecchie, costringendolo ad una piccola e buffa capriola per restare seduto. Si appiattì maggiormente sulla panchina, tentato dal pensiero di alzarsi e di allontanarsi, l’aria della notte che si chiudeva attorno a lui. Ma invece riuscì solamente a ruotare di poco il viso, guardando le ultime due figure che avanzavano sotto la pensilina del binario, muovendosi velocemente. La prima catturò tutta la luce del lampione mezzo fulminato, rilucendo come una fiamma d’autunno, mentre camminava a passo sostenuto e si trascinava un grosso baule.

Draco non la guardò neppure per un secondo, voltò quasi il viso infastidito.

Poi, ancora, tornò indietro con gli occhi, osservando con lentezza la seconda figura che avanzava piano, non facendo il benché minimo rumore, come se nemmeno respirasse. Se non fosse stata per la nuvola di vapore acqueo che sfuggiva dalle labbra rosse e screpolate, l’avrebbe detta un fantasma senza riposo.

Un cappello dalla buffa forma di fagiolo calato sul capo, in lana cotta color prugna, i capelli seminascosti ed arricciati in onde disordinate sul panno del cappotto nero, l’andatura annoiata e stanca, il corpo dimagrito.

E gli occhi nascosti dai capelli, mentre si portava le mani alla bocca, soffiandoci sopra per riscaldarsi.

Draco si tirò bruscamente su a sedere, come se fosse stato punto da una vespa. Gli occhi annotarono senza precisa intenzione che Hermione Granger non aveva alcuna valigia accanto a sé, nessun baule. Niente di niente.

Non aveva l’aria affannata e contenta di chi sta tornando a casa dal proprio amichetto del cuore e dal suo fidanzatino straccione: aveva un’espressione rassegnata, sollevata quasi, le occhiaie che le circondavano gli occhi.

E si è dimenticata i guanti, adesso avrà le mani fredde. O forse lei le ha sempre calde, caldissime, come se avesse la febbre?

La Weasley, arrivata davanti al treno e spinto dentro il baule, l’abbracciò di slancio circondandola con le braccia. Hermione fece un sorriso strano, storto, sghembo che soffocò dentro i capelli della sua amica, limitandosi a poggiarle fraternamente una mano sulla spalla. Draco fu sicuro di aver visto dentro i suoi occhi un luccichio quasi di impazienza, come se volesse solo correre via.

“Sei sicura che non vuoi venire, allora? Che ci farai qui tutta sola…” commentò la Weasley con tono fioco, come se avesse ripetuto la cosa mille volte. Per un attimo lo sguardo della rossa si eclissò, cercò qualcosa nel volto della Granger come se fosse alla ricerca di un pezzo stonato, di una macchia, di una ruga rivelatrice.

Hermione sospirò e basta, non fece altro, e Draco stupidamente si chiese se non fosse arrabbiata, se non avesse semplicemente litigato con la Weasley e non le parlasse più. Poi, come un fulmine, ricordò.

Se la rivide di nuovo davanti, dorata, illuminata dal sole, che si stropicciava gli occhi. Il calore di quel ricordo d’autunno gli penetrò nelle ossa, facendolo sentire accaldato nel mezzo della notte più gelida dell’inverno inglese.

Tu non mi hai mai chiesto nulla… per questo parlo con te…                                                                                                                             

Con la Weasley non parlava, con nessuno parlava. Se ne era dimenticato, abituato com’era e come negava di essere a sentire la sua voce nel cervello quindici volte al giorno. E come aveva scoperto solo in quell’istante, solo quando la Weasley partì abbracciandola ancora, solo quando la Granger si accorse di lui e lo guardò per un attimo, immobile, gli occhi spalancati, le mani chiuse a pugno e il volto livido, come se gli avesse appena tirato uno schiaffo. Draco le restituì uno sguardo stanco, incomparabilmente colmo di tristezza pigra, di acredine dissimulata, di confusione sconvolta, di malinconia stantia.

Si preparò a sentirla parlare, si preparò a vedere le parole premere contro la sua gola, si preparò a che lei lo facesse sentire speciale ed unico al mondo, pure nel suo inutile, pazzo e goffo modo.

Si preparò inutilmente.

Quando ebbe il coraggio di riaprire gli occhi ed alzare lo sguardo, Hermione Granger era già andata via.

 

 

Se lo sarebbe dovuto aspettare, ma invece non l’aveva fatto.

Quando aveva varcato il portone d’ingresso, avrebbe dovuto rendersi conto che non c’era nessuno nell’androne, che Gazza era disperso e che le porte scricchiolavano come in un pessimo film dell’orrore. Avrebbe dovuto notare l’aria infinitamente più gelida che all’esterno, avrebbe dovuto collegare la partenza dei pochi fortunati per le vacanze all’aumentare dell’angoscia per chi restava, avrebbe dovuto capire che lui sarebbe stato il perfetto sfogo rapido e potenzialmente indolore. Ma Draco Malfoy, invece, non si accorse di nulla, entrò nel castello a testa bassa, occhi sulle mattonelle grigie e nere. Nelle crepe del pavimento, baluginavano continui ed intermittenti riflessi oro di pomeriggio d’autunno e nelle orecchie avvertiva l’eco malsano di parole che non riusciva ad intendere. Non si accorse nemmeno del dolore, di primo acchito si rese solo conto che le mattonelle erano sporche. Rosso. Rosso sangue. Rosse del suo sangue.

Avvertì solo allora la prepotenza lacerante del colpo subito: alla testa, alla nuca, alle spalle, come non si addiceva ai suoi nobili aggressori. Ergo, non erano Grifondoro. Ergo, non erano Tassorosso o Corvonero.

La vista che veniva meno, una mano stupida a constatare l’entità del danno, il sangue che schiumava tra le sue dita, capì che quel giorno la tristezza era trasversale. Colpiva anche chi, di solito, era lontano miglia di presunzione da essa. Ed anche un Serpeverde poteva odiarlo come lo odiavano tutti gli altri.

Perché i suoi genitori erano in esilio, e non morti, catturati, torturati, imprigionati.

Perché erano sempre stati una mattonella grigia, in un mondo dalla pavimentazione bianca e nera.

Una cortina scura calò sulle sue iridi, mentre sentiva altri colpi ferirlo alle gambe, alle braccia, al busto, sulla schiena. Rinunciò preventivamente alla difesa, sapendo che sarebbe durata poco.

Ad un Serpeverde non sarebbe interessato nulla di preservarlo presente a sé stesso.

Finalmente, almeno per una volta, avrebbe perso i sensi.

 

 

Da quando aveva smesso di farsi male da solo, le ferite altrui facevano infinitamente più male. Gli sembrava di essere avvolto da un unico e potente rogo, che lo stava ardendo come il frammento di una corteccia di un albero. Non riusciva a localizzare il dolore, a capire da dove provenisse, sembrava nascere dall’interno di sé stesso e trovare sfogo su ogni centimetro quadrato della sua pelle. Si sarebbe staccato gli arti a morsi, pur di farlo smettere: ogni refolo d’aria, ogni soffio di vento bruciava il sangue come sale sulle ferite. Sotto la sua schiena martoriata il pavimento era duro come la lapide di una tomba vergine, cercava di muoversi ma non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi. Sentì delle voci, ovviamente, ma passavano oltre, lontane, non curandosi di lui. Gemeva, implorava, ma probabilmente lo avevano lasciato in un posto dove nessuno lo avrebbe trovato. Invocò l’incoscienza che non arrivava, maledisse la tempra del corpo che lo manteneva vigile al dolore, imprecò contro sé stesso, il suo sangue ed il suo nome. E non l’aveva mai fatto.

Vite dopo, anni dopo, secoli dopo, avvertì improvvisamente un respiro fresco accanto a lui. Trafelato, affannato, persino singhiozzante. Pensò che stava finalmente per perdere coscienza e che, in regalo, stesse avendo uno scatto d’immaginazione, una visione dolce come un Caronte onirico improvvisato che gli rendesse tutto quasi leggero.

Sentì il calore di una mano sottile sul viso, era una mano tiepida che però lo rinfrescava come acqua sorgiva, poi ancora udì l’eco spezzato di un singhiozzo ed un accenno di pianto. Una sola parola.

“Draco…”. Il suo nome: aveva una voce lieve, da passero, da donna, da principessa delle fiabe; una voce, però, incommensurabilmente triste, da vecchia, da morta, da vittima murata viva.

Sentì il tocco di una bacchetta sulla fronte, la sensazione quieta del dolore che si calmava, quella mano sempre sul suo viso come l’ancora di salvezza mentre annegava nell’oblio.

La nozione di sé stesso sparì un attimo prima di respirare a pieni polmoni l’odore del suo salvatore.

Cedro e vaniglia.

 

 

Troppo rosso: fu la prima sensazione che provò al risveglio. E a lui il rosso faceva venire l’emicrania. Specie quel rosso. Il rosso dei Grifondoro, il rosso dei Weasley, il rosso del sangue maledetto che sgorgava dalle ferite.

Draco credette subito di essere diventato daltonico, a causa di un trauma cranico subito. Il baldacchino del suo letto sembrò infatti rosso, da verde quale era sempre stato. Non se ne preoccupò, richiuse gli occhi grigi stanchi e cercò di riprendere sonno. Ma i sensi si erano risvegliati, tutti, uno dopo l’altro. E se la vista la poteva ingannare, gli altri non erano dello stesso avviso.

Il sapore del sangue, in bocca, riecheggiava come l’eco sordo di un passato non troppo lontano. Sapeva di ferro, di metallo, dell’ennesima umiliazione subita e non ancora, non mai, lavata via. Ad esso, si accompagnava un senso generale di spossatezza, ma nessun dolore, solo fastidio.

Il tocco di cotone sulla pelle, nei punti dove aveva sentito più male: attorno alla testa, al ginocchio, sulla schiena. Fresco come un vento di primavera, gli dava la sensazione di pulito, di casa, di cura sollecita e materna che non sapeva nemmeno riconoscere. Sotto le sue mani, stese pigramente, sentiva la superficie morbida di un copriletto caldo, di lana, soffice, che gli dava ancora una sensazione di calma e di pace.

Il gusto e il tatto furono ospiti graditi e poco molesti: poi venne l’udito ed infine l’olfatto, e quelli se ne fregavano di lui e di quello che poteva sopportare.

L’udito… sentì improvvisamente un respiro, quieto, dolce, spezzato. Una persona addormentata. Accanto a lui.

L’olfatto fu come un colpo sordo di cannone dentro il petto. Cedro e vaniglia.

Riaprì gli occhi quel tanto che bastava per trovare Hermione Granger vicina, troppo vicina, più vicina di quanto non fosse mai stata in tutta la sua esistenza. Voltando il viso verso sinistra, la vide distesa, la testa poggiata su un cuscino accanto al suo. La sensazione di calore al cervello fu così devastante ed immediata da fargli venire le vertigini, nonostante fosse disteso: era nella sua stanza, nella stanza della Granger, sul letto dove lei dormiva ogni notte. Il profumo di cedro e vaniglia gli apparve così intenso da soffocarlo.

Era distesa lì, addormentata, ad un respiro da lui. Non avrebbe potuto arrivare a distendere il braccio senza toccarla, erano solo una quarantina di centimetri. In posizione fetale, non portava il pigiama ma un maglione rosso ed un paio di jeans; era rannicchiata in sé stessa, un braccio piegato sotto il capo, un libro aperto accanto a lei. Il viso era sereno, quieto, tranquillo, i capelli ne coprivano una buona metà.

Draco avvertiva improvvisamente il dolore delle mille ferite che gli martoriavano il corpo. Bruciavano come se ci fossero conficcati degli spilli, che gli impedivano di muoversi e lo tenevano ancorato a quel letto come un insetto infilzato e posto in esposizione. Lei lo aveva trovato, lei lo aveva curato, lei si era addormentata accanto a lui.

Gli occhi saettarono in ogni direzione, terrorizzati, cercando di evitarne la vista, e si saturarono dei particolari della vita nascosta di Hermione Granger. Una quantità abnorme di libri, sparsi dappertutto ai piedi del letto. Una sciarpa azzurra, poggiata su una sedia. Fotografie incorniciate sul comodino, con Weasley maschio e femmina, e con Potter. Stava per vomitare, se ne doveva andare immediatamente.

Fece forza sulle braccia per tirarsi faticosamente a sedere, riuscendoci con sforzo. Lei non si mosse. Poggiò i piedi per terra, si alzò in piedi e calcolò quanta distanza lo separava dalla porta e quanto potesse muoversi senza fare rumore e senza svegliarla. I cardini della porta erano vecchi, avrebbero cigolato, ma magari lei comunque non si sarebbe svegliata, magari era stanca. Doveva esserlo per forza, chissà come lo aveva portato fin lì.

Fece un passo lento, silenzioso, assorbito dalle pietre delle pareti, sospirò di sollievo nonostante il dolore sordo agli arti inferiori, ma poteva arrivare alla porta, poteva tornare ai sotterranei, poteva lasciare la stanza senza badare alle bende, alla bacinella con la pozione Guaritrice sul comodino, alle occhiaie violacee sul viso di Hermione, alla sua voce lieve che nella sua testa continuava a dire il suo nome come quando lo aveva trovato.

Aveva la mano sulla maniglia, aveva il cuore già al sicuro nel suo scantinato confortevole, aveva già il respiro sciolto di uno che era al sicuro. E poi lei fece un singolo, solitario, minuscolo verso. Di gola, profondo, gutturale, come se stesse annaspando, a cui seguì un singhiozzo, forse qualche lacrima.

Draco smise di respirare quando si accorse che, in una botta di annebbiamento, era tornato indietro. Veloce, rapido, come se nemmeno avesse bisogno di dare impulso alle gambe e di accorgersi di qualcosa.

Ed era di nuovo steso accanto a lei, vicino a lei, sul cuscino accanto a suo, nell’alone di cedro e vaniglia che lei si lasciava alle spalle. Avrebbe detto che era stanco e voleva riposare ancora un po’, ma non era riuscito a mentire.

Non aveva potuto.

Perché anche la sua mano destra era scattata da sola e se ne era accorto solo per il dolore sordo, lancinante, che aveva provato al fianco sinistro, mentre si voltava verso di lei e faceva leva su un livido bluastro.

La mano destra era scattata come un elastico rilasciato, senza il benché minimo controllo, ed era corsa al viso della Granger. Draco, terrorizzato, si era visto accarezzarle piano i capelli con il pollice, mentre la mano restava ferma sulla sua nuca. Non poteva farne a meno, non poteva nemmeno pensare di non stare lì a calmarla, a vedere il respiro di lei che piano tornava normale, a poggiarsi su quel fianco maciullato che lo faceva gemere ad ogni fiato. Le dita continuavano piano ad accarezzarla, Hermione dormiva ancora e lui si ricordava di quanto, da bambino, i suoi amici lo sfidavano a “tocca il babbano” e perdeva sempre.

Adesso lo dovevano sfidare a “non toccare la babbana” per farlo perdere.

Hermione, piano, aprì gli occhi e lo trovò lì, di fianco a lei, gli occhi grigi sgranati e la mano intenta in quella carezza lenta, calda, dolcissima. Lesse il suo imbarazzo, lesse l’impaccio, lesse quello che lui voleva dirle e lesse quello che non avrebbe mai detto. Una spina sorda la colpì al petto, costringendola a chiudere gli occhi.

“Puoi andartene quando vuoi…” sussurrò Hermione con un gemito sordo, non sentiva la sua voce da quando gli aveva parlato l’ultima volta e stranamente non la riconosceva “Non devi stare qui, per forza…”.

La mano di Draco si fermò, si staccò da lei e riposò fredda lungo il fianco.

Un attimo dopo, lui era nei sotterranei, nel suo letto verde, nell’asettico odore di silenzio, nell’asfittica sensazione di vuoto e di spento. Aveva solo un compagno, un solo pensiero, un solo singolo movimento dei ragionamenti sotto le palpebre chiuse. Hermione Granger è un derelitto, una pianta ornamentale, un’isterica Mezzosangue pazza.

E mi salva sempre.

Dalla prigione, dalla disperazione di non avere un futuro, dai pestaggi. Persino da me stesso, se improvvisamente mi accorgo di lei al punto tale da non riuscire a fingere di ignorarla.

Hermione Granger lo salvava sempre.

E non aveva ancora finito.

 

 

Il giorno di Natale ad Hogwarts erano due le storie che si ripetevano di bocca in bocca.

Ben più dei regali ricevuti, degli auguri mancati, dei baci scambiati.

Una, la prima, sconcertava solo per il numero.

La Preside McGranitt aveva sospeso ben cinquanta studenti, senza che emergesse un ben preciso disegno nella punizione. Erano Grifondoro e Serpeverde, studenti all’ultimo anno come al secondo, terzo, quarto e così via.

Un treno apposito li riportò a casa, livorosi, incattiviti, increduli.

Nessuno seppe il perché e nessuno lo chiese loro, ma ognuno di quelle facce recava il segno della consapevolezza di cosa li portava a quelle vacanze forzate.

L’altra, la seconda, sconcertava e basta.

Hermione Granger, la muta, la pianta ornamentale, il derelitto per eccellenza, aveva parlato.

Si sapeva solo che aveva parlato con la McGranitt, non si sapeva di che cosa avesse parlato, non si sapeva altro. Arrivarono lettere su lettere a lei dei suoi amici, la gente nei corridoi la interrogava selvaggiamente, i professori facevano a gara per fermare il placcaggio sulla ragazza, mentre tutti concludevano che il voto del silenzio era imposto, non era collegato a nulla di fisico.

I due canti di Natale di Hogwarts rimbalzarono come biglie impazzite nelle orecchie di tutti fino a Capodanno.

Solo Draco Malfoy, vedendo chi era che partiva dopo essere stato sospeso, aggrappandosi ad una colonna della stazione, comprese il collegamento tra le due storie.

Aveva appena ricevuto il suo regalo di Natale da parte di Hermione Granger.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Per giorni non seppe se punirla o ringraziarla.

Provava nelle viscere un formicolio diffuso, come se fosse immerso nelle sabbie mobili, ma con la coscienza incommensurabilmente lieta che niente lo trascinasse verso il basso e che nulla lo tirasse fuori. Restava immerso in quella poltiglia fangosa accompagnandosi al pallido incubo che, se si fosse mosso, sarebbe franato.

Senza volerlo, senza premeditarlo, senza nemmeno averlo annotato, imparò di nuovo a respirare: camminava nei corridoi con il vuoto attorno, con la gente che lo scansava, con i ragazzi che lo additavano.

Ma nessuno lo toccava, l’aria era tersa del nitore della sua sola presenza. E non avrebbe mai concepito che questo adesso fosse possibile, non avrebbe mai concepito di non sentirsi impregnato della nausea di sentirsi continuamente accerchiato. Si sentiva più simile al sé stesso di un tempo, nobile e magniloquentemente distante da tutti; era semplicissimo trasformare nella testa il distacco di tutto il mondo da una condizione imposta ad una ricercata modalità di vita.

Che poi, effettivamente, tutto poi era diverso , quella era un’altra questione, tutta da spartirsi con la piega incerta del suo respiro, che poi qualificò come un vero e proprio formicolio d’ansia.

Ansia al pensiero che doveva fare qualcosa per Hermione Granger.

Punirla, per aver fatto la spia e per essersi impicciata in fatti che non erano i suoi.

Ringraziarla, per aver fatto la spia e per essersi impicciata in fatti che non erano i suoi.

Per una settimana più o meno, godette solo del piacere ferino di poter girare nel castello senza che nessuno lo toccasse: solo, riscopriva il rumore dei suoi passi, la quiete bagnata del sole del primo pomeriggio, il tenue fiato del vento nel Parco, l’oceano cangiante di smeraldo del campo da Quidditch. Si spingeva in posti dove gli era ormai proibito andare, camminava con la consapevolezza spavalda della sicurezza, chiudeva gli occhi con l’abbandono estatico della tranquillità, attorno gli sguardi seri e sfuggenti che erano meraviglioso corollario di tutta quella pace.

Poi il formicolio crebbe, divenne tremore, scossa di terremoto, improvviso scuotimento, apparentemente in concomitanza con la fine del calendario. Man mano che i giorni passavano, decretando l’agonia di quell’orribile anno, la sua ansia cresceva come il borbottio di un temporale lontano.

La fine dell’anno, forse, è anche peggio di Natale: getta ombre lunghe sui tuoi giorni, ti pone di fronte alla resa dei conti, ti costringe inevitabilmente a fare promesse da cambiamenti epocali e fioretti da penitenti.

Poi non cambia niente lo stesso, ma intanto per una notte ti dibatti nell’ansia che tutto sia a posto, che ogni cosa stonata sia sistemata, che ogni fardello sia chiuso e depositato nella pelle vecchia dell’anno passato.

Come una bastardata, la notte di San Silvestro arrivò prima del previsto, la gente radunata in Sala Grande a contare i minuti e a guardare il cielo, probabilmente chiedendosi se l’anno nuovo avrebbe davvero portato l’amnistia dal dolore e dalla rabbia mai del tutto sopite. E Draco che in mezzo alla gente non voleva stare ed adesso poteva concedersi il miracolo della solitudine, guardava le luci di Hogsmeade dalla Torre d’Astronomia, la brezza fredda che soffiava sulle ferite asciutte e richiuse. La terra pareva essa stessa sospesa, in stasi, come una donna dalle labbra dischiuse che aspetta la tenerezza improvvisa di un bacio. Seduto sul davanzale di una finestra, gli occhi acclimatati al buio, avvertiva solo il movimento spasmodico del piede in perenne movimento, preda dell’inquietudine che lo attanagliava.

Il piede si gelò solo quando la porta dell’Aula si aprì di scatto, sbattendo contro il muro ed echeggiando nel silenzio sordo della notte appesa. Si voltò su sé stesso ed annegò nel buio misericordioso della notte senza luna il sorriso sbieco che gli era saltato fuori all’improvviso nel vederla. Affannata, trafelata, con il fiatone, chiamata da un biglietto tra il minaccioso e l’implorante che aveva scribacchiato con nervosismo qualche secondo prima.

Il vento gli sbuffò in faccia l’odore della vaniglia e del cedro, mentre Hermione Granger gli veniva incontro piano, le sopracciglia aggrottate, le braccia conserte e gli occhi vigili. Aveva un maglione bianco ed una gonna scozzese, le gote erano rosse come se avesse corso come un’ossessa ed aveva le mani strette a pugno lungo i fianchi. Ancora, Draco dovette reprimere quel sorriso storto.

Poi, improvvisamente, al protrarsi del silenzio, quello stesso sorriso si sedò sul suo volto, mentre assumeva un cipiglio severo. Digrignò i denti come un animale in gabbia, Hermione Granger se ne stava lì, immobile, ferma, a respirare a fatica, a guardarlo senza capire, a ritagliarlo nella tenebra pur di vederlo. Ma non parlava, se ne stava con le parole in gola e la curiosità stretta a sé come un ostaggio molesto.

Repentinamente, fuoco liquido negli arti, seppe che fare.

Doveva punirla, altro che ringraziarla, altro che tutto il resto.

Fu un attimo, in cui ebbe la meglio l’annebbiamento foriero di ragione che lo coglieva spesso, quando si trattava di lei. Prese la bacchetta, pronunciò un banale incantesimo di appello e richiamò dal campo di Quidditch poco distante una scopa che aveva visto abbandonata ma funzionante, qualche ora prima.

Hermione la vide arrivare fluttuando ad occhi sbarrati, senza capire, senza fare domande, senza muoversi ancora. Guardò la sua schiena con le labbra serrate, eppure non si mosse, eppure nulla di lei si spostò da quella posizione. Non emise un fiato nemmeno quando Draco la prese per un polso, trascinandola vicina a lui, sobbalzò e basta. I piedi, però, volarono verso di lui, non opponendo la benché minima resistenza, fu come se lei stessa spiccasse il volo poggiandosi sulle punte. Draco non si accorse, però, di questo, nemmeno del suono metallico del braccialetto di Hermione Granger con le iniziali di Weasley che si sganciava e cadeva al suolo. Con rabbia, la caricò senza sforzo davanti a lui sulla scopa che partì sfrecciando, attraversando la finestra.

Il contraccolpo con l’aria fredda dell’esterno fu tale che Draco stesso rabbrividì, ma Hermione invece non tremava per il freddo. Era terrorizzata, livida, spaventata, mentre la scopa prendeva quota ed il mondo diventava piccolissimo sotto di loro. Eppure rimaneva in silenzio, sgomenta, paralizzata, facendosi indietro con la schiena fino ad incontrare il torace di Draco. La notte era fredda, ghiacciata, ma serena, quieta, incomparabilmente pulita: il cielo tinteggiava di nero ed argento la valle ed il castello, rendendo gemme fulgide le luci dei paesini montani e trasformando in manto lucido la superficie piatta del lago. Draco, collerico, innervosito, assolutamente furente, prese ancora velocità, puntando verso l’alto la punta della scopa che reagì quasi impennandosi: Hermione chiuse gli occhi, strinse le mani bianche attorno al manico, piegò il collo e voltò il capo, poggiando la guancia bagnata di piccole lacrime di paura sulla clavicola del ragazzo.

Draco si fermò all’improvviso, suscitando in lei un ulteriore sobbalzo. Nel buio, nel freddo del vento, Hermione sollevò il viso verso di lui, trovando ad attenderla gli occhi grigi della luna assente del ragazzo. Nascosta nel suo collo, i piedi che galleggiavano, il mondo polverizzatosi in basso, si aggrappò alla calamita del suo sguardo come se fosse la sola gravità in grado di ancorarla ancora. Impercettibilmente, piano, gli occhi sempre in quelli di lei, le mani di Draco, senza che lo avesse minimamente preventivato, si mossero sul manico della scopa rinsaldando la presa. Le sue braccia si chiusero maggiormente attorno ai fianchi di Hermione, che sospirò, chiuse gli occhi e poggiò la guancia di nuovo sul suo petto, tremando.

“Urla…” le ingiunse Draco, la voce dura e stentorea come quella di un generale. Hermione aprì di scatto gli occhi, lo guardò più terrorizzata di quando era partito bruscamente facendole rivoltare lo stomaco.

“Hai paura…” le sussurrò ancora, lo sguardo fisso sulle sue labbra ancora chiuse “Sei terrorizzata… e io non sono tuo amico, Granger, potrei lasciarti cadere da un momento all’altro… e quindi grida, urla, strepita, agitati… urla, dannazione…”. Hermione tremò nelle spalle, gli occhi inghiottiti nel bianco, negò con il capo, si ingobbì e strinse più forte la presa sulla scopa. Qualcosa nel candore terso del suo viso suggeriva a Draco che, nonostante il terrore atavico del volo, lei non aveva davvero paura. Era di lui che non aveva paura: era convinta che non l’avrebbe mai lasciata cadere, non le avrebbe mai fatto del male.

Gli andò di nuovo il sangue al cervello: rapido, come quando anni prima intravedeva da lontano un boccino, puntò la punta della scopa verso il basso. Iniziò a scendere in picchiata a grandissima velocità, come se stessero precipitando; il vento ronzava nelle orecchie facendoli sbandare, mentre il suolo, le luci, il castello, il mondo, la vita e la morte stessa si avvicinavano a grandi passi. Hermione gemette, chiuse ancora gli occhi, prese a singhiozzare sommessamente, mentre Draco continuava ad urlarle tra i capelli: “Io non ho paura, Granger… ma tu sì, urla, maledizione! O ti giuro che questo sarà l’ultimo Capodanno che vedi…!”.

Hermione toccava già le cime degli alberi con la punta della scarpa quando, finalmente, la voce graffiata, il pianto in gola, prese ad urlare più forte di quanto avesse mai fatto nella vita. Si confuse quell’urlo inarticolato con il rumore sordo dei primi fuochi d’artificio che scoppiavano nel cielo, rendendolo porpora, oro, verde, azzurro.

Hermione urlava e piangeva e gridava e gemeva, anche quando Draco, piano, fece riacquistare alla scopa la sua velocità normale, inchiodando e risalendo lentamente, fino a che furono di nuovo alti nel cielo, sospesi tra i fiori di fuoco. Smise di urlare come se si fosse spenta, solo quando lui con dolcezza se la strinse contro il petto, facendo scivolare di nuovo le mani lungo il manico della scopa, stavolta in modo più deciso e rapido, così che la schiena di lei usasse il suo torace come sostegno. Hermione, respirando a fatica, piangendo, il labbro che le tremava, reclinò la testa all’indietro, poggiando la nuca sulla sua spalla, restando ad occhi chiusi, le labbra socchiuse.

Draco, nel fragore dei fuochi pirotecnici, spiava i riflessi di arcobaleno che le si tingevano sulla pelle terrea, preoccupato, incerto, teso, improvvisamente convinto che forse aveva voluto davvero ucciderla e si era pentito solo un attimo prima di portare al termine l’impresa che agognava da secoli.

Ma quando lei riaprì gli occhi ed aveva una luce accesa dentro che non vedeva forse da anni, o forse da secoli, o magari non era mai esistita, capì solo che aveva voluto ringraziarla a suo modo. E lei, clamorosamente, come sempre aveva capito. Le sorrise, incerto, imbarazzato, ed abbassò lo sguardo, pregando le mani sudate di non lasciare adesso la presa della scopa. Il peso della sua testa sulla sua spalla e il rumore del suo respiro che si scioglieva furono le sole cose che lo lasciarono cosciente di sé stesso, mentre la luce dei fuochi si spegneva e il mondo salutava il nuovo anno.

“Potremmo tornare giù, per favore?” gli sorrise lei, dolcemente, piano, una piega impervia negli occhi che battevano del ritmo del cuore. L’assecondò subito, scendendo con delicatezza e ritornando all’aula di Astronomia. Quando scese dalla scopa, Draco si accorse che forse aveva le gambe più molli di quelle di Hermione, che era franata al suolo, fingendo di sedersi sotto la finestra. La imitò e subito lasciò che lei si accoccolasse contro il suo fianco, gli occhi chiusi, la testa poggiata in grembo, il respiro finalmente calmo e la mano chiusa su quella che lui le teneva poggiata sul ventre.

Fu la prima notte che passarono assieme, tutta, aspettando il sole che sorgeva. E fu anche l’ultima volta che dovette implorare Hermione Granger di parlare con lui.

Il voto del silenzio, per mesi, lei non lo avrebbe mai sciolto con gli altri.

Ma con lui, da quel giorno, Hermione Granger non avrebbe mai più smesso di parlare.  

 

 

“Vai prima tu, ok?”.

L’anno nuovo aveva portato come regalo ad Hermione Granger una voce appena nata, modellata ad uso e costume della frequentazione con Draco Malfoy. L’urlo della notte di Capodanno aveva rotto un guscio stantio dove si nascondeva imberbe un folto bosco di suoni e parole che lei non aveva mai usato, ingentilito da un tono melodioso che Draco non aveva mai sentito in lei. La ricordava la voce che aveva anni prima: ronzante, quasi nasale, pedante, cantilenante, da emicrania. Quando era scomparsa, aveva goduto della mancanza della fonte primaria dell’inquinamento acustico mondiale.  

Poi, da quella notte folle dove ancora non capiva che cosa aveva voluto e cercato da lei, era sbocciata quella voce sottile, lieve, cinguettante e morbida come il fruscio delle foglie al soffio del vento. La usava con dimestichezza navigata ormai, come se quella voce fosse sempre esistita in lei e non l’avesse creata apposta per parlare con lui.

Perché così doveva essere, pensava Draco: non era mai esistita quella voce prima che Hermione parlasse con lui. Non parlava così con Weasley, non parlava così con Potter, non parlava così con nessuno: anzi, lei non parlava proprio. Perché, ancora, lei non parlava con nessun altro. Solo con lui.

L’aula del quinto piano era come contornata da altissime mura insormontabili, era come una fortezza inespugnabile: fuori, lei indossava l’armatura del silenzio. Dentro, con lui, tornava sé stessa.

Senza vergogna, senza remore, senza esitazione.

Bastava varcare la soglia e lei faceva un respiro profondo, greve, intenso, come se finalmente potesse concedersi di aspirare ossigeno, dopo essere stata in apnea. E affastellava parole su parole, frasi su frasi, discorsi su discorsi, su tutto, mentre lo aiutava a studiare.

Era inutile, Draco lo poteva pure negare, ma con lei si studiava meglio, si studiava di più, si capiva tutto. E in poco tempo, recuperò tutto quello che non aveva studiato, capì quello che non aveva capito, iniziò ad elaborare pozioni che non credeva nemmeno che esistessero.

Con lei, che non smetteva un secondo di parlare. Ed invece che mandarlo ai pazzi, distrarlo, farlo ammattire… gli accendeva una fiammella tremula nel ventre. Alla quale reagiva sempre con stizza, biascicando: “Granger, cinque secondi di silenzio potresti anche concedermeli?!”. E solo allora lei se ne stava in silenzio, zitta, muta, facendogli battere il cuore d’angoscia.

Ed allora Draco, riluttante, alzava lo sguardo, tremava, ne spiava il viso. E lei sorrideva con quell’aria beata di chi gli avrebbe negato per sempre quel privilegio, che elargiva a piene mani fuori da quella stanza.

E, per quanto cercasse di trattenersi, Draco Malfoy, quando tornava a leggere, infantilmente metteva su un sorriso piccolo e sottile, che gli durava tutto il pomeriggio.  

Quello stesso sorriso moriva putrefatto, quando, iniziato a tramontare il sole, Hermione iniziava a riporre le sue cose come se avesse un maledetto orologio mentale. Qualche minuto ed avrebbe detto stoica: “Vai prima tu, ok?”. Draco tornava a guardarla e lei aveva il labbro inferiore che le tremava, gli occhi che tentava di mantenere puliti, la pelle del collo tesa di una che sta per tornare sott’acqua.

E la voce smetteva il tono cantato, per indossarne uno dimesso, cupo, improvvisamente triste.

Le prime volte, innervosito, le voleva urlare addosso che, se stava così male al pensiero di tapparsi la bocca fuori da lì, poteva anche smetterla con questa recita della pianta ornamentale.

Poteva anche donare quella voce a chiunque altro, non solo a lui.

E finirla lì.

Stringeva i pugni, se ne andava senza salutarla e sbatteva la porta dietro di sé, immaginandosela dietro quella porta che si rimetteva a fatica sul viso quella maschera falsa di vittima sacrificale.

Finiva per odiarla in quel momento, mentre restava fuori da quella stanza a fissare quella porta chiusa. Poi si ricordava che lui la odiava sempre e se ne andava, quasi soddisfatto di sé stesso, ghiaccio sul fondo di sé.

Il gennaio più freddo degli ultimi anni finì in una giornata, invece, di sole luccicante sul lago, dove tutti gli studenti ciondolarono pigri e dove Draco ed Hermione si chiusero nella loro ovatta di studio. Non si erano visti per qualche giorno, a causa di una mole spropositata di compiti, Hermione aveva avuto il raffreddore, aveva ancora il naso arrossato e gli occhi lucidi. Lo accolse nell’aula con un sorriso strabordante ed una sciarpa rossa attorno al collo, un fazzoletto di carta in mano e l’aria malaticcia.

Lo irritò come non mai il modo smodato con cui nemmeno gli fece chiudere la porta che iniziò a ciarlare come un’ossessa, in crisi d’astinenza. Era diventato la valvola di sfogo alla psicosi cretina di una muta per finta. Non la ascoltava mentre parlava, gli dava così fastidio improvvisamente che quando lei disse: “Vai prima tu ok?” non la sentì nemmeno. Solo alzando lo sguardo, si rese conto che le torce si erano accese ed oramai era buio.

Il fatto di non capire per quale motivo fosse così disgustosamente innervosito, era come appiccare un incendio ad una sterpaglia. In questo, vedere di nuovo quella sua espressione dimessa mentre si preparava di nuovo a chiudersi la bocca, lo fece capitolare.

“Vai prima tu, invece, stavolta, Granger…” le ingiunse velenoso, voglioso di restare da solo.

Lei silenziosamente gli obbedì, si alzò, raccolse le sue cose e si richiuse la porta alle spalle.

Trascorso qualche minuto, durante il quale Draco era rimasto con il viso sul libro a rileggere la stessa parola quattordicimila volte, quando giudicò di essersi calmato abbastanza, si alzò dalla sedia, spense meccanicamente le luci e si diresse verso la porta. A testa bassa, ad un passo dalla soglia, distinse nel buio la punta di un paio di scarpe nere. Sollevò il viso imbambolato, Hermione era ancora lì, la schiena contro la porta, il naso rosso, gli occhi incupiti ed accesi di una determinazione da fargli girare la testa. Era buio, non la vedeva bene, spariva nel fondo di quella serata fredda e non la sentiva quasi respirare. Eppure, era lei, era sempre cedro e vaniglia, era sempre silenzio soffuso, era sempre la guerriera di terracotta che sembrava comunque non piegarsi mai.

“Non te ne vai ancora?” biascicò velocemente, burbero, voltando il viso dall’altra parte “Fammi passare…”.

“Stasera no…” sussurrò decisa, dura, categorica, per poi bisbigliare più piano: “Stasera non posso sopportarlo di uscire da qui e non parlarti più…”. Gli esplose tutto in faccia, addosso, dentro, fuori.

Non sopportava ogni sera di non parlargli più fino al giorno dopo, non di non poter parlare con gli altri.

Il solito annebbiamento sparì e lo fece tornare lucido, solo quando sentì la fronte di lei sotto il suo mento, mentre la chiudeva tra sé e la porta. A tratti, foschi come nebbia, tornava e veniva in sé stesso.

Seppe solo di essere pienamente in sé, senza poter chiamare in causa alcuna distrazione, quando, il viso di lei tra le mani, le sussurrò qualche parola lieve, prima che lei sorridesse, annuisse, nascondesse il volto nella sua camicia. Nessun errore, nessun inganno, nessun annebbiamento, nessuna possibilità di scampo.

Quando le aveva detto: “E allora non andartene stanotte…”, lo aveva desiderato con ogni fibra del suo corpo.

 

 

La notte è una mamma amorevole, dalla pelle di stelle e dal sorriso di luna: perdona gli errori, cancella le marachelle, ha il manto liscio e misericordioso che nasconde ogni azione.

Il giorno è un padre padrone, dallo sguardo di fuoco e dalle mani roventi: picchia in testa, urla e scalcia, illumina tutto ciò che hai fatto, come se fossi su un palcoscenico.

Fin quando era notte, Draco Malfoy poteva ragionevolmente illudersi che la ragazza di cui sentiva solo la voce, non fosse Hermione Granger, la Mezzosangue, la Grifondoro, la fidanzata di Weasley, l’amica di Potter. Era solo una piccola voce sottile, sparsa nel buio, che proveniva da un punto imprecisato accanto a lui: come stare in chiesa ed essere circondati dalle note dell’organo e non capire da dove il suono provenga, ed essere comunque lieti, felici, in pace, improvvisamente vicini a Dio e a tutto quello che ci sta attorno. L’organo magari è suonato dal diavolo in persona, ma fin quando non lo vedi, non lo sai che ti sta per fracassare al suolo, facendoti aprire il cranio in due.

Per tutta la notte, Draco Malfoy aveva gli occhi fissi all’unica fonte di luce della stanza: la lama di luna che filtrava dalla finestra accostata, ma era un riflesso condizionato. Gli occhi, quelli veri, quelli che non avevano pupille e ciglia, erano nelle parole che faceva fiorire la ragazza accanto a lui.

Che poteva anche avere la stessa inflessione cantata di Hermione Granger, poteva anche avere la stessa pronuncia marcata sulle lettere gutturali, poteva anche avere la sua stessa risata impressa in ogni sillaba… ma poteva anche non essere lei, tanto il buio gliela nascondeva, ed allora che importava se aveva la testa sulla sua spalla, che importava se teneva le dita strette nella sua, che importava se gli sfiorava il collo ad ogni respiro.  

Del resto, quella ragazza parlò per una notte intera, ma parlava senza nomi, senza persone, senza luoghi, senza tempi, senza niente che la facesse identificare come qualcosa di diverso da una voce di fata avulsa alla vita e sospesa nell’eterno. Parlava di sé, ma raccontava cose che erano accadute prima di Hogwarts, e non usava nulla, niente, che inchiodasse un ricordo o un aneddoto a qualcosa che li separasse, ma a tutto che li unisse. Se raccontava di un parco giochi dove il sole rendeva le foglie al tramonto rosse ed oro, e lei da bambina si convinceva che fosse il sangue di chi non c’era più, non usava nomi di persone che avesse perso, non diceva il nome del parco o non usava locazioni temporali e spaziali, così che lui davvero pensasse alla possibilità che chi morisse, nell’eterno, sanguinasse ancora, piuttosto che ricordarsi quanto di lei gli fosse estraneo e potenzialmente nemico.

Nel nero, nell’oscuro, nel nascosto, rise con lei e di lei: delle sue mille nevrosi, dei suoi ricordi assurdi, delle bambinate e delle marachelle che l’avevano svezzata intelligente e curiosa. La guancia sui suoi capelli, ne sentiva la morbidezza scarmigliata e ne aspirava l’odore tranquillo di chi passa inosservata alla vita stessa.

E poi iniziò lei a fare domande, a chiedere, ad interrogarlo, e le rispose copiosamente, perché tanto forse lei era spirito e non era carne, e la mano nella sua era miraggio antipatico di chi si sentiva solo.

Le rispose, finché ebbe domande. Poi lei non parlò più e rimasero così, seduti per terra, la schiena contro un vecchio divano stinto. Quando la sentì piegare il collo su di un lato, come un fiore caduco, la scosse leggermente e la invitò a stendersi. Annuì, fece un verso buffo, sbadigliò e si distese dietro di lui.

Era ancora così vicina che gli respirava sulla nuca, un soffio caldo di scirocco nel centro esatto dell’inverno. Lo faceva tremare, poi addormentare, poi svegliare di soprassalto e poi spingere ad una commozione simile al pianto, che però del pianto non aveva nulla, perché il cuore quando piangi, si restringe di volume, diventa una noce rugosa e cattiva, invece lui adesso se lo sentiva mancare quel muscolo vitale perché era diventato così sconfinato e lontano da dargli la percezione che non riuscisse nemmeno a sentirselo più dentro.

Fu una notte da appisolarsi e mai da dormire, da concedersi la tregua degli occhi chiusi e da trasalire non appena la stanchezza minacciava di portarlo via da lì. Se dietro le palpebre, la luce accennava ad aumentare, Draco si svegliava come punto da un insetto. Il respiro di Hermione lo addormentava daccapo.

Ma il sole, alla fine, lo sorprese ugualmente: assopito a braccia conserte, guardia silente di una principessa addormentata che niente aveva di regale e niente mai avrebbe avuto di nobile ai suoi occhi, si svegliò di soprassalto, un sentimento confuso di lacerazione dentro. La luce dorata, fragrante, testarda, tastò la stanza, si mangiò i mobili e tinse di sgradevole banalità le mura, dove ancora riposavano addormentati i segreti di quella notte di parentesi dal mondo tutto.

Si voltò piano, spaventato, la voce che lo aveva accompagnato quella notte ormai era un corpo, aveva una contingenza fisica, aveva un nome, possedeva una vita, si incespicava in un passato e si avventurava in un futuro, e niente, nulla, lo legava a lei. Delle ripetizioni di Pozioni, che poteva dargli chiunque altro? Il segreto di una voce, che prima o poi qualcuno avrebbe scoperto? Il velluto di una notte, da riempire parlando di cose da lasciare senza pronomi ed aggettivi che li unissero davvero? Non era niente, nella luce tornavano ad essere Draco Malfoy ed Hermione Granger, due derelitti che non avevano di meglio da fare che starsi accanto a comparare quanto l’altro fosse più rudere di sé stesso.

Lei, come sempre, aveva capito tutto prima di lui, era sempre stato così e così sarebbe stato sempre.

Quando Draco si voltò, infatti, Hermione gli dava le spalle, raggomitolata su sé stessa, le ginocchia al petto, la testa china e gli occhi fissi come quelli di una statua di sale sullo schienale del divano.

Increduli entrambi, non parlarono per un’ora buona, finché il vento spalancò la finestra e la luce beffarda entrò come un assassino, bruciando le loro pupille ancora ebbre della notte ed aperte le une verso le altre.

“Domani torno a Londra… devo sistemare delle cose. Tornerò tra un paio di giorni…”.

Non seppe mai Draco, se non anni dopo, perché in quel momento avvertì la stessa sensazione di soffocamento che prova un condannato a morte, quando si preparano a fucilarlo. Sentiva la canna di una pistola che fredda gli si puntava alla schiena, e sapeva perfettamente che stava rischiando di crepare, e sarebbe bastata una sola domanda, una sola singola domanda, e il suo ultimo desiderio lo avrebbe salvato.

Bastava chiederle perché andava a Londra, e lei gli avrebbe risposto.

E, rispondendogli, avrebbe perso senso quella partenza.

E la poteva chiudere davvero in quella stanza al buio, senza farla uscire mai più.

Ma era giorno, adesso, e il giorno è nemico delle domande.

Disse solo con un filo di voce alla sua schiena: “Vedi di tornare presto… che di quelle pozioni autorigeneranti non ci capisco niente…”. Hermione incassò, chiuse gli occhi e finse che il tremore tra le scapole fosse una risata. “Figuriamoci… sei la solita capra, Malfoy…”.

Non aveva nessun tono ilare la sua voce, era solo buttata fuori, sputata, maltrattata e violentata.

Draco si voltò di nuovo su sé stesso, di nuovo perso nell’intreccio di puntini che la retina descriveva ai suoi occhi per la troppa luce di quella domenica malaticcia di febbraio; dentro una poltiglia nauseante che gli bloccava il respiro e a cui si rispondeva solo, indulgenti, che lei tornava tra due giorni.

Ma Hermione non tornò tra due giorni.

Ne passarono quindici.

 

L’abitudine è una meretrice sdentata, che si mastica il tuo tempo e ti sputa addosso venefica la nostalgia, scambiandola per amore. Se qualcuno diventa abitudine, c’è chi urla alla fine del mondo e all’inizio della parabola discendente verso il ghiaccio della passione e la tomba del sentimento.

Draco Malfoy, che di persone da elevare ad abitudini aveva avuto solo i suoi genitori, scopriva invece che non c’è niente di peggio che incastrare qualcuno in te, al punto da diventare un rito quotidiano: quando manca, con tutti i suoi colori, odori, rumori, manchi pure tu e manca tutto il tempo che diventa perso, scomodo, ingestibile, sgusciante come una biscia di fiume infida e maleodorante.

Hermione Granger era diventata un’abitudine: un orario, un appuntamento, un’attesa di qualche minuto, un rumore di passi in un corridoio, un saluto affrettato, una sequenza di scuse sommesse, una risposta motteggiata in fretta, uno sguardo da bambina arrabbiata, un rimprovero da maestrina saccente.

Le dita di Draco Malfoy avevano preso la scomoda tendenza a formicolare toccando qualsiasi cosa. Una piuma, la superficie di un libro, un banco, un pezzo di pane. Ad ogni tocco con ogni cosa tangibile, la pelle si ricordava che lei mancava, ed allora si accartocciava sconfitta, rigettando ogni altro contatto.

Stessa cosa facevano gli occhi, la bocca, le orecchie: ed il cervello, già, pure la sua testa, che, se doveva assorbire un concetto da un libro, martellava e martellava, chiedendo solo perché non ci fosse lei a spiegarlo, a srotolarlo semplice ed innocuo.

Il corpo era in rivolta, e Draco malediceva prima lui stesso, e poi Hermione Granger, la sobillatrice di tutto.

Scoprì facilmente che il solo modo per stare tranquillo e non impazzire, era sedere per terra nell’aula del quinto piano, poggiare la schiena contro il divano e chiudere gli occhi.

Quando il sole andava via, quando la luce diventava solo una lama dentro gli scuri accostati, giungeva la pace. Aveva l’odore del cedro e della vaniglia che aveva impregnato il tessuto del divano, ed aveva l’illusione di un respiro caldo sulla nuca. Allora, e solo allora, per qualche attimo, poteva studiare qualcosa.

Ma Hermione non tornava, mancava e non tornava, non tornava e mancava da più di due giorni, ormai.

E scoprire dentro che si pentiva di non avere niente che la legasse a sé, rendeva Draco più pazzo di quanto già non si sentisse. Non aveva un indirizzo dove scriverle ed ordinarle di tornare, non aveva un nome da poter interrogare con ira repressa, non aveva un ricordo a cui appellarsi per capire che diamine stesse facendo, non aveva un’abitudine diversa da lei che lo distraesse e gli facesse dire con convinzione che se ne fregava di lei e che poteva anche non tornare mai più.

La gioia malcelata di Ginny Weasley, nei corridoi, rifiorita come una rosellina all’approssimarsi  dell’estate, lo faceva innervosire ancora di più: quella piattola sapeva, sapeva dov’era, sapeva perché non tornava e ne era felice. All’inizio, era convinto che fosse perché ce l’aveva sullo stomaco la Granger, era stanca di farle da nutrice e da badante e che quindi si godeva il riposo. Rise persino mentalmente, quella sciocca manco gli amici si sa scegliere, deve ringraziare che io mi degno di stare dove sta lei, si disse compito e convinto.

Poi la Granger non tornava, e la Weasley rideva, ed una volta la sentì dire: “Scommetto che lei e Ron stanno recuperando il tempo perduto… in fondo non c’è bisogno di parlare in quelle pratiche, no?”.

La trovò così rivoltante quella sottospecie di femmina, da desiderare di ucciderla davvero.

Si ricordò, come se non l’avesse mai saputo, che la Granger stava con Weasley, che per starci assieme forse doveva baciarlo, e che per baciarlo forse ne doveva essere innamorata: Weasley era un’abitudine per la Granger come lei lo era diventata per lui. E sentirsi degradato al livello di quello straccione lo faceva diventare ancora più matto di quanto già non si sentisse.

Ogni minuto in cui lei non c’era, era un minuto da farle pagare con astio, al punto che quando captò per caso dalla voce improvvisamente sconfitta e sfilacciata di malinconia di Ginny Weasley, che stava tornando, avvertii solo l’acido del risentimento corrodergli la gola.

Andò comunque alla stazione, i passi pesanti, gli occhi risentiti, le spalle curve, pronto a nascondersi ad ogni cenno di vita di qualcun altro e pronto a urlarle contro, non appena l’avesse vista.

Nessuno, però, andò a prenderla: Hermione scese dal treno sola, camminando a testa bassa su un binario deserto, un borsone pesante sulla spalla destra.

Il risentimento di Draco, mentre la vedeva camminare da lontano ingobbita e piccola, miserevole e miserabile, persa e perduta, divenne la puntura di uno spillo nel petto, fastidiosa quanto la si voleva, ma minuscola ed infinitesimale al punto che, a darci peso, sarebbe sembrato in vena di lagne infantili.

Nella nebbia di quella sera di fine inverno, Hermione non guardava nulla davanti a sé, camminava con gli occhi ipnotizzati dalle crepe del pavimento, i suoi passi erano sospiri inudibili. Sebbene facesse già più caldo, portava un voluminoso cappotto bianco con un cappello dello stesso colore, i capelli erano legati in una treccia sfatta e, ad ogni passo, ad ogni respiro, dava l’impressione di cadere a pezzi.

Gli arrivò davanti, e nemmeno se ne accorse, lo evitò senza accorgersi di lui, scansandolo in modo meccanico.

Non avvertì Draco l’offesa e l’urto all’orgoglio mentre lei lo ignorava: avvertì la cecità di uno sguardo perso altrove, di una voce soffocata di nuovo nel petto, di una crepa aperta dentro e che non smetteva di farle male.

La chiamò piano, la richiamò indietro, ed aveva una voce dolce, lieve, gentile, soffice, da fratello, da padre, da amico, da chi si era scavato quella ragazza dentro come un’abitudine dannosa, ma a cui ormai non poteva rinunciare più. Per mesi non lo ricordò, non ci badò, non lo considerò, ma la chiamò per nome per la prima volta, in quel preciso momento. Non dopo, non prima. Disse: “Hermione…” come avrebbe chiamato casa la sua abitazione, con la stessa naturalezza, con la stessa improvvisa consapevolezza che lei era lei e lui era lui, e niente poteva cambiare tutto questo, ed anzi non voleva cambiare nulla di tutto questo.

Poi l’avrebbe rinnegato, ovvio, per poi ripensarci mesi dopo e capire che era stato allora la fine e l’inizio, e maledirsi e al contempo ringraziarsi.

Perché Hermione finalmente si era voltata su sé stessa, gli occhi lucidi, persi, le guance rosse, il cuore che le sembrava battere sotto il tessuto e rendersi evidente.

Le era scivolato dal braccio il borsone, era caduto a terra con un tonfo secco, la nebbia era diventata meno pesante e più simile ad una nuvola passeggera.

Gli era volata tra le braccia prima ancora che se ne rendesse conto, se le era stretta addosso prima ancora di rendersene conto, l’aveva cullata come una bambina prima ancora di rendersene conto.

Non gli disse che le era accaduto, si fece stringere e basta per ore.

Mesi dopo, Draco avrebbe scoperto che, per certe pratiche, effettivamente non c’era bisogno di parlare, specie quando non si è avuto per mesi nulla da dire.

Hermione aveva appena lasciato Ron Weasley.

 

 

Quando, nella mite mattina del 1° aprile di dieci anni dopo, nacque sua figlia Haylee, Draco per un attimo pensò che era uno scherzo di cattivo gusto che non faceva ridere nessuno.

Il termine dei nove mesi scadeva il 20 marzo, ma la bambina si era presa ben undici giorni per nascere, sembrava che prendesse tempo come se, effettivamente, avesse deciso di venire al mondo proprio in quella giornata. Era arrabbiato, furibondo con sua figlia per questo, prima ancora di vederla.

Ovviamente durò ben poco: non appena se la vide in braccio così piccola, così bionda, così meravigliosamente perfetta, le perdonò tutto come avrebbe sempre fatto da lì a quel momento.

La vita ha la straordinaria dote di cucire con paziente solerzia le piaghe che essa stessa provoca: il primo aprile era sempre stato per Draco Malfoy, un giorno dai contorni incerti, foschi, cupi, da vertigine.

Non gli metteva tristezza, né malinconia, né ansia: ma nemmeno lo rendeva felice, allegro, gioioso.

Era uno di quei giorni, che quando lo vedi approssimarsi nel calendario, speri solo che passi quanto prima possibile, perché porta con sé un tale carico confuso di sensazioni da volere solo che passino. Non tutte negative, non tutte positive, perché comunque erano nella maggior parte sensazioni riflesse, non nascevano da lui in prima persona, ma erano state così intense e destabilizzanti che, ad ogni 1°aprile, dovunque egli fosse, qualsiasi cosa accadesse, per dieci anni Draco non aveva fatto altro che ridurre al minimo il suo contatto con la vita stessa. Era come un anniversario da scandire con religiosa devozione, dedicandosi con spasmodica attenzione al digiuno da ogni forma eccessiva di sentimento umano.

Quella parentesi di avversione durò dieci anni giusti; prima del suo Ottavo anno ad Hogwarts, il 1° aprile era solo una data da stupidi scherzi. Dieci anni dopo, divenne il giorno del compleanno di sua figlia Haylee.

Il 1° aprile del suo Ottavo Anno ad Hogwarts, in una Torre di Hogwarts, nel tramonto mesto di una giornata dolente e cupa, Draco Malfoy morì bambino e nacque uomo.

Accaddero tre cose in rapida successione, consequenziali, legate a doppio filo l’una all’altra.

Seppe perché Hermione Granger si era troncata volontariamente la voce in gola.

Seppe immediatamente quale tipo di Pozione realizzare per cercare di entrare a Saint Suliac.

E seppe anche una cosa che era impossibile da concepire anni prima, quando il 1° aprile era solo il giorno da dedicare a folleggi infantili, e che era impossibile da ignorare anni dopo, quando il 1° aprile divenne per sempre un giorno da ricordare ed evitare assieme.

Si era innamorato di Hermione Granger. 

 

Marzo aveva molto in comune con Hermione Granger.

Bonariamente si poteva dire che facevano i capricci tutti e due, ma Draco Malfoy con maggiore pragmatismo, avrebbe detto che erano pazzi e basta, senza alcun volo dialettico di giustificazione.

All’approssimarsi del terzo mese dell’anno, quella che, non senza eccessive smorfie mentali, oramai apostrofava come “una specie di conoscenza amichevole” e che chiamava per nome con sforzi sempre minori, iniziò una specie di mutazione, un’involuzione innaturale. Quando tutte le altre bestie si svegliavano dal letargo, Hermione Granger invece decideva in modo arbitrario di farsi un bel bozzolo e di barricarsi dentro.

In poche manciate di giorni, divenne una creatura fredda ed inaccessibile, chiusa e scostante, scorbutica ed acida: questo, se si poteva definire una giornata buona. Perché tutto sommato Draco, con una Hermione che scocciava e lo rimproverava anche se spostava la sedia, poteva convivere.

Una rispostaccia, un’alzata di sopracciglio, un insulto soffocato tra i denti, e tendenzialmente lei la smetteva. E se anche continuava, in fondo non è che ci perdesse il sonno se ci bisticciava e poi se ne andava sbattendo la porta. Poteva persino dire che gli piacesse. Non che gli piacesse lei, intendeva dirsi mentalmente che era comunque sopportabile litigarci e trovarsela lì, il giorno dopo, seduta composta sulla sedia che spiava ogni suo movimento stizzito con il fiato sospeso. Gli avrebbe chiesto scusa con voce ovvia, quasi facendolo sentire scemo, e lui avrebbe detto che figuriamoci se stava ancora a pensare a lei e alle sue idiozie.

E quando l’avrebbe guardata con le labbra rosse arricciate in una smorfia nervosa, vogliosa di rispondergli di nuovo male ma trattenuta dal desiderio di fare pace, avrebbe trattenuto una risata con tutta la forza che aveva in corpo. Ed avrebbe trattenuto anche il corpo che, chissà per quale istinto imbecille, aveva preso l’imbarazzante ed ormai consolidata abitudine a reagire davanti a lei.

Era successo in modo imprevisto, uno stramaledetto pomeriggio, che alla Granger era saltato in testa di ripetere tutte le Pozioni mediche fatte fino a quel momento, con una specie di mini esame. Era particolarmente allegra quel giorno, era ancora febbraio, non era ancora iniziato il marzo del bipolarismo.

Draco aveva borbottato per due ore e mezzo, mentre faceva il compito che, ad onor del vero, gli era venuto fuori perfetto al punto da meravigliarla sul serio. Quando lo aveva corretto, era arrossita in modo inspiegabile, fiera di sé stessa. Solo due mesi prima, lui non sapeva nulla di tutto quel marasma di pozioni.

Aveva sorriso in un modo così aperto e sincero che improvvisamente Draco se l’era immaginata come una maestra in un modo così nitido e preciso che aveva tutto della premonizione.

Rapida, veloce, fulminea, come mai era accaduto di giorno ma solo di notte, quando gli occhi si sfuggivano e le loro stesse essenze si mescevano nel buio, Hermione aveva stretto le braccia attorno alle sue spalle, lo aveva abbracciato forte ed aveva chiuso gli occhi, senza una parola. Non aveva replicato all’abbraccio, aveva solo guardato ad occhi sbarrati la parete vuota davanti a sé, qualcosa che si muoveva dentro di lui. Era stata più vicina di quella volta, molto più vicina, eppure quella volta aveva fatto effetto: un effetto devastante.

Da gettarsi sotto una doccia fredda.

Per giorni, più niente: poi ancora, era bastata una smorfia sulle labbra per farlo vergognare di sé stesso. Poi la curva della schiena, mentre si alzava in piedi. Un ricciolo che le sfiorava la pelle del collo. Un’unghia mordicchiata. Le pieghe della camicia bianca. Le gambe incrociate sul divano.

Non sapeva qualificare quella sensazione, il corpo era un pezzo avanti a lui, la mente si vergognava e basta, il cuore se ne stava zitto. Quindi, adesso, cercava di evitarne quanto più possibile la vista e il contatto.

Se l’era stretta addosso decine di volte, sempre vittima di un annebbiamento che lo manipolava, eppure adesso era convinto di non poterla toccare più, non così, non di nuovo, non da quella sera in stazione dove lei, chissà perché, aveva cambiato sguardo, aveva cambiato occhi. Erano più sinceri, più innocenti, meno colpevoli. E scavavano dentro i suoi come trivelle alla ricerca dell’acqua.

Fino a marzo, appunto: perché dopo Draco non ebbe tante occasioni di tenersi a freno.

La compagna di studi che lo rimbrottava, era ancora una tentazione a cui purtroppo la pubertà adolescenziale scoperta in ritardo, ancora rispondeva: ma ella era una compagnia ben poco presente.

Hermione, piano, lentamente, dismise l’acidità dopo la prima decade di marzo, indossando le fogge meste di un uccellino strappato dal nido.

Iniziò con l’abbigliamento: sempre più disordinato, sempre meno attento. I capelli tornarono la massa incolta dell’inizio dell’anno scolastico, li legava sempre in una crocchia severa sul capo, assunsero un colorito spento e triste come se si fossero scuriti. Non portò più fermagli, cerchietti, elastici come le era tipico negli ultimi mesi. La divisa era lisa, a volte persino sporca, e se lui glielo faceva notare, Hermione borbottava mortificata, ma perdeva subito contatto con sé stessa, richiudendosi nel suo guscio ostile. Con il passare dei giorni, iniziò a modificarsi la sua postura: meno eretta, piegata, curva, gravata da un peso netto al centro esatto della schiena che sembrava volerla schiacciare come una formica imprudente. Poi venne l’insonnia e l’inappetenza: niente più spuntini consumati di fretta nel pomeriggio, prima sostituì i biscotti con gli acini d’uva, poi improvvisamente niente più. A cena, al suo tavolo da Grifone, erano più le volte che non c’era. E se c’era, era come con lui: assonnata, stanca, segnata da profonde occhiaie sotto gli occhi.  Attorno al 18 di marzo, Draco notò che stava dimagrendo, ma non disse nulla, non ancora. La spiò di sottecchi e basta, mentre si appisolava sul palmo della mano. Aveva le unghie della mano completamente masticate, alcune grondavano sangue. Respirava a fatica, ansimava spesso, sudava come una vittima braccata.

Il 25 marzo, nel mezzo di una spiegazione, si fermò a disagio, confusa, disorientata, come se avesse perso il filo del mondo stesso: iniziò a piangere da sola, sforzandosi di parlare ancora, mentre lui la guardava ancora, sconvolto, incerto, assolutamente terrorizzato da quello che le stava accadendo.

Hermione scappò via, prima che glielo potesse impedire.

Il 27 marzo mimò con le mani che  era senza voce: niente faringite o altro. Niente. Di nuovo. La voce se ne era andata. Ma stavolta anche con lui. Tornò assente, fredda, scostante, lontana: di nuovo una pianta ornamentale. I primi pomeriggi veniva comunque, si sedeva accanto a lui, non muovendo nemmeno l’aria.

Poi il 30 marzo, non ci venne più. Senza avvisare, senza dire nulla, senza fare altro. Come se in quell’aula del quinto piano lei non ci fosse mai venuta, non fosse mai esistita, non fosse mai comparsa, avara di straziargli la vita e di sconvolgergli i sensi.

E il corpo di Draco reagì, ancora, a lei: ma stavolta in un modo inedito, che non conosceva ancora, che avrebbe imparato da quel momento, che si chiamava con un nome pesante e leggero assieme e che accomunava migliaia di persone al mondo che in parte si definivano fortunate ed in parte si definivano sciagurate. E, proprio perché era così comune e così raro assieme, si estrometteva dalla visione di Draco Malfoy come un miraggio nel buio. Quella reazione non è che tanto lui non se la immaginasse per Hermione Granger: lui non se l’immaginava proprio per nessuna al mondo. Nemmeno per sua madre.

Era cresciuto così egocentrico ed egoista, che spostare l’asse da sé avrebbe significato probabilmente fargli perdere l’orbita e l’equilibrio. E difatti quello significò in quel pomeriggio del 1° aprile, quando Hermione Granger ancora non si presentò al loro silente appuntamento e lui provò una sensazione simile ad un attacco di panico. Soffocamento, ansia, torace compresso, respiro accelerato, sudore freddo, fantasie macabre e preoccupazioni spicce, dolenti previsioni e ricordi agrodolci, rimorsi stantii e rimpianti acerbi.

Era tutto semplicemente troppo: troppo nel suo cuore piccolo, striminzito, schiacciato dalla considerazione di sé e dall’accecamento di tutti gli altri. Era troppo.

Corse fuori da quella stanza, senza sapere dove andare, correva e basta, feroce come una fiera a cui hanno portato via il piccolo, ed erra pazza, folle, eppure lucida, eppure non ancora straziata dal dolore, eppure ancora caparbiamente convinta di poter ancora salvare il proprio sangue. E poco importava che Hermione Granger, con lui, non condividesse nulla, nemmeno una goccia di quel sangue e che anzi lo profanasse con la sua stessa esistenza. Il sangue, ormai, era un liquido chiuso nel corpo, sigillato. Quando usciva, quando fiottava, quando d’improvviso palesava la sua esistenza becera, era solo per fare male. Che gli importava di difenderlo? Non aveva più senso difendere quella che quel male lo aveva messo a tacere, nascondendolo, sedandolo, chiudendo le ferite e resuscitando il calore? Non aveva più senso?

Ovvio che non ce l’aveva, ovvio che sua madre gli avrebbe detto che non ce l’aveva, ovvio che suo padre gli avrebbe detto che non ce l’aveva, ovvio che tutti, lui compreso, avrebbero detto che non aveva senso, e non aveva nemmeno ragione, ed aveva solo schifo e vergogna nell’esistere: ma, improvvisamente, o forse da mesi prima, il senso era così forte che, se lo negava, era solo per consuetudine introversa di non lasciarsi del tutto alle spalle, geloso com’ era sempre stato di sé stesso e di quello che era.

E poi, d’improvviso, si era reso conto che comunque lui ormai non esisteva più, non almeno nel modo in cui aveva sempre creduto, così totalizzante e completo.

Viveva solo nei buchi e nelle crepe che Hermione Granger si degnava di lasciargli per esistere.

Non aveva disegno in mente, mentre correva nei corridoi di Hogwarts: non c’era nessuno in giro, a quanto pare c’era una specie di commemorazione in Sala Grande in onore di qualcuno morto che magari valeva qualcosa. Attutite dalle porte chiuse, giungevano voci di ricordi e canti di strazio.

Il sole stava annegando nel lago argenteo quando si rese conto che si era fermato davanti al quadro della Signora Grassa, davanti alla Torre di Grifondoro. Ansimava, respirava con fatica, eppure mormorò velocemente la parola d’ordine: il quadro, sgomento, osservando i colori della sua divisa, fu costretto però ad aprirsi rivelando l’ingresso. Draco rise beffardo alla dama dipinta, la Granger ogni settimana gli dava la parola d’ordine, lo faceva per abitudine nel caso in cui non si fossero potuti trovare nell’aula del Quinto piano oppure avessero delle comunicazioni urgenti. Non aveva mai approfittato di quella dimostrazione, l’ennesima, di fiducia, ma adesso ovviamente risultò più che provvidenziale.

Draco, superando l’ingresso, non aveva pensato alla possibilità di incontrare qualcuno, ma a quanto pare tutti erano alla commemorazione ufficiale, come i Grifoni erano tipici fare; restare fedeli alle loro tradizioni e ai sorrisi incartapecoriti da esibire in pubblico così che tutti li lodassero e stimassero, come sempre e da sempre era avvenuto. Eppure Draco era certo, convinto, sicuro che Hermione non fosse lì.

Incantò le scale del dormitorio femminile, trovò la camera che ancora occupava singolarmente, sebbene non avesse più alcuna carica né da Prefetto né da Caposcuola. La aprì con livore ansioso, ma la stanza era perfettamente in ordine, pulita, non consumata, vuota. Morta.

Si sedette sul letto, le mani nei capelli, chiedendosi dove potesse essere ancora: ogni respiro in cui non la sapeva se non vicina a lui, almeno tranquilla, lo portava lentamente all’agonia. Lo sentiva, dentro, fuori, ovunque, che non era normale non trovarla, che era meno normale del solito, che quel logoramento fisico che stava avendo poteva ucciderla, che nessuno davvero se ne sarebbe accorto, che lui solo avrebbe scorto la differenza. Lui solo, lui soltanto, lui solamente, lui per sempre, la poteva salvare.

E se non se l’era detto fino ad allora, era solo perché uno non si dice nella testa che l’acqua è bagnata.

Era scontato.

Non appena ammise quello, non appena capì quello, non appena intuì quello, udì qualcosa di stonato. Uno scroscio, continuo, d’acqua. Dalla stanza accanto. Dal bagno.

Senza pensare a nulla, senza capire nulla, spalancò la porta con un tonfo.

Era lì, immersa nella vasca da bagno, completamente vestita, completamente zuppa, la nuca reclinata indietro, i capelli bagnati, le labbra viola, gli occhi spalancati al cielo come una supplice defunta. Le braccia erano aperte all’indietro, come se fosse in croce, sanguinava dai polsi. Unghiate le macchiavano anche la pelle del collo, la gola: come se avesse cercato di strapparsi via qualcosa. Non qualcosa: la voce.

Immaginò che fosse morta, pensò che se ne fosse andata, fantasticò della vita senza di lei.

E fu come morire assieme a lei: gelido, pallido, svuotato di ogni cosa dentro come se lo avessero aperto con il coltello. Rapido il petto sussurrò il nome delle reazioni a lei e a tutto quello che faceva lei.

Rapido, singhiozzando dentro e restando immoto fuori, si disse che l’amava come non aveva amato mai niente e nessuno nella vita. Con quel nome, con quei capelli, con quella buffa piega del volto, con quel sorriso scemo, con quella voce da pettirosso, con quei motteggi da bambina e quei silenzi da donna.

L’amava persino in quella posa, l’amava di più persino adesso che se n’era andata e lo aveva lasciato indietro.

Si avvicinò cauto, mordendosi la pelle del palmo: improvvisamente i passi di mesi lo riportavano al punto di partenza. A sanguinare, a punirsi, a smettere di sperare, ad illudersi di voler morire e a non trovare il coraggio per farlo. Quel coraggio che lei aveva avuto, pensò, accarezzandole il viso freddo.

Hermione voltò gli occhi pigramente, guardandolo, non reagendo, non facendo altro, solo guardandolo. Una lacrima singola le rigò la guancia, morì sulle ferite nel collo, bruciò di sale e si spense di dolore sordo.

Tornò tutto: speranza, rabbia, terrore, ansia, angoscia, preoccupazione, rimorso, rimpianto, ricordo. E venne assieme con prepotenza, con astio, con conflitto, con rassegnazione, l’ospite inatteso ormai accettato.

Venne l’amore.

Era viva, stava bene: la poteva salvare ancora.

Controllò approssimativamente l’entità delle ferite: nulla di grave, solo escoriazioni superficiali. La prese in braccio, la sollevò dalla vasca da bagno, la portò in camera da letto. Lei non oppose resistenza, era come un corpo morto. La distese sul letto, lei rimase come una bambola, le labbra socchiuse e gli occhi spalancati, guardando il soffitto. Grondava acqua sul copriletto. Puntò la bacchetta contro i suoi vestiti, li asciugò velocemente. Con delicatezza, prese un asciugamano e le frizionò piano i capelli.

E chi l’avrebbe mai detto che sapeva fare tutte quelle cose.

La sentì starnutire, le mise una coperta sulle spalle. Si stese sul letto accanto a lei, restando nel suo campo visivo cieco, dopo che l’aveva voltata su un fianco. Non fece nulla per ore.

Poi, vennero le lacrime, lente prima, silenziose, quasi impercettibili. Nemmeno cambiava espressione.

Dopo singhiozzò, e le lacrime divennero più forti, implacabili, da rigare il viso. Restava immobile a guardarla, senza toccarla ancora. Nel cuore della notte, il pianto divenne un urlo continuo, un ululato di bestia, una voce spezzata, un rantolo da moribonda. Draco si alzò per spegnere le luci, sperando che dormisse, ma appena fece per muoversi, lei lo fermò trattenendolo dalla manica della camicia, stringendo forte, gemendo, singhiozzando. E la voce tornò tutt’un tratto.

“Draco, l’ho ammazzato io… è colpa mia se è morto…”.

Gli cadde addosso, si chiuse sul suo torace, prese a pugni il suo petto, urlando senza ritegno.

Trattenne il suo impeto, la strinse tra le braccia, non disse nulla, ebbe per tutta la notte un solo pensiero.

Non poteva perderla ancora, non poteva perderla mai.

La pozione per Saint Suliac sarebbe stata una pozione per cancellarle la memoria.

 

Era l’alba quando iniziò a parlare, il sole rendeva cristalli aggrumati i suoi occhi, scoprendone scintille agata. All’inizio, nel rantolio che era diventato il suo respiro, non distinse le sue parole, pensava fosse un mormorio confuso ed annegato nel suo petto. Poi capì che stava parlando, sentì la voce di una che parla adesso ma che tacerà per sempre, dopo. Non avrebbe mai più parlato di quello che le era accaduto, mai più, ma a Draco sarebbe bastato per pensare di spezzare il mondo, per provare a sentirsi giusto, per rinnegare carne e sangue.

Sarebbe bastato persino ad illuderlo che Hermione Granger, nel segreto che gli rivelava, la guancia contro il suo petto, ci mettesse persino amore. Non l’amore che lui aveva per lei, ma quello che aveva per ogni cosa, ma che, in un punto qualsiasi del suo tempo, aveva deciso di dare anche a lui.

Un amore stupido e qualsiasi, che se dato a lui, diventava unico al mondo.

Una corrispondenza d’amore fu quella mattina, l’avrebbe chiamata così, anni dopo.

Lei che si svuotava il cuore dal suo segreto e lui che già immaginava di cancellarglielo dal tempo quel segreto.

 

Qualche giorno prima della battaglia ad Hogwarts, avevo scritto a Ginny.

È stupido, odioso e assolutamente imbecille se ci ripenso, ma le avevo scritto per parlarle delle cose idiote di cui parlavamo quando tutto era normale, tranquillo, sereno. Le cose di cui parlano le ragazze, quelle che non devono affrontare la guerra, quelle che non se ne vanno in giro a distruggere gli Horcrux, quelle che non devono preoccuparsi di morire ogni giorno, o di vedere morire chi amano e poi di morire esse stesse. Era stato un impulso assurdo, da ragazzina viziata e frivola, ma spesso era così forte il desiderio di fare cose… scontate… naturali… mentre il mondo ci marciva in mano, mentre non avevano nessuna certezza che… non cerco giustificazioni, ma non so… ora… adesso…  pensare che non mi lasciavo mai andare a cose così, e poi improvvisamente allora… non so, forse avevo iniziato ad impazzire allora e nemmeno lo sapevo.

Ero a Villa Conchiglia, dopo la fuga da casa tua, e continuavo a pensare che dovevo risolvere la cosa con Ron, che dovevo confessargli che ero innamorata di lui, che il tempo sembrava così sfuggente e ci mancava così tanto dalle mani da farmi temere che sarei morta prima di dirgli la verità, prima di fargli sapere che lo amavo. Eppure, volevo un consiglio da Ginny. Volevo sentirla, parlarle, chiederle aiuto come fanno tutte le diciassettenni della mia età, fu un annebbiamento, ecco.

Scrissi la lettera come un’ossessa, chiedendole consiglio, fregandomene persino che ci potessero rintracciare, avevo negli occhi la felicità da cartolina strappata di Bill e Fleur, avrei dato di tutto per essere felice anche io, così, anche se per pochi giorni, anche se tutto il mondo sarebbe franato nell’inferno per colpa di Voldemort. Mi sarebbero bastati pochi giorni. Era appena morto Dobby, la sua fine mi aveva sconvolto come non so nemmeno io che cosa. Mi sentivo accerchiata dalla morte. Scrissi la lettera in tre minuti, la spedii senza pensare, quando mi ripresi dal lutto nemmeno me ne ricordai, sperai solo per giorni che non l’avessero rintracciata dei Mangiamorte, che potessero capire la nostra posizione.

La lettera giunse a destinazione, miracolo, ma nella mia follia, nella mia pazzia da insensata, avevo mandato la lettera alla Tana, non ad Hogwarts, dove c’era Ginny. E lei non la lesse mai.

La lesse Fred, suo fratello.

Poteva anche lasciarla su un tavolo, non rispondere, aspettare che Ginny tornasse, mandarla a lei.

Ed invece lui mi rispose, dicendomi che per caso aveva letto la lettera, che sembravo distrutta, che forse, anche se lui non era Ginny, poteva darmi aiuto, che ero una sua amica, che non voleva che stessi male, che dovevo stare lucida in quel momento per affrontare quello che stavamo affrontando.

Aveva un tono serio che non gli apparteneva in quelle parole scribacchiate in fretta.

Mi disse che mi avrebbe dato un consiglio non richiesto, che probabilmente non avrei accettato. Ma me l’avrebbe dato comunque.

Scrisse: Hermione, non incaponirti su questa idea di te e lui assieme. L’amore è un’altra cosa.

Scrisse proprio così, Draco, scrisse così, e io non capivo che volesse dire, rilessi quelle parole dieci volte, e non capivo, anche se lui dopo si spiegava, anche se cercava di farmi capire, anche se argomentava, si scusava quasi. Ma restava fedele a quello che diceva, ed io leggevo e non capivo. Diceva che ovviamente, come tutti, mi avrebbe voluto in famiglia, diceva che ovviamente credeva ed era convinto che tra me e Ron c’era un grande affetto ed un forte sentimento, ma diceva anche che non dovevo iniziare una storia con lui solo per paura di perderlo, che il terrore non è mai la base di niente, anche e soprattutto di una storia d’amore. Mi diceva di prendermi tempo, anche se mi sembrava di non averne, perché solo con il tempo avrei capito che non ci amavamo affatto, che era solo affetto, che era solo la gente che ci aveva convinto di questo, che eravamo fratelli e, che per quanto ci sforzassimo, passavamo la vita a volerci cambiare.

L’amore è un’altra cosa, ripeteva.

E poi mi scrisse solo: esci da questa guerra, libera la mente dalla paura, vivi davvero assaporando ogni giorno. E solo allora chiediti se è Ron quello che vuoi, non far soffrire mio fratello. Io lo vedo negli occhi, nei tuoi, che è paura quella che ti lega a lui ed abitudine dell’immagine che hai di voi. Ancora, l’amore è un’altra cosa.

E io mi arrabbiai come  non mai, leggendo quella lettera. La strappai in mille pezzi. Che diamine gli saltava in mente di rispondermi, di dirmi, alla vigilia della battaglia finale? E che ne sapeva lui, che ne capiva lui, che ne poteva sapere lui, egocentrico com’era, non si era innamorato mai, la vita era tutto uno scherzo per lui. Ma non lo era per me, ed io ero sicura di me, sicura di Ron, sicura di tutto, staremmo stati assieme per sempre, se fossimo rimasti in vita e sconfitto Voldemort, la vita sarebbe andata bene e me ne fregavo di Fred Weasley, che mi diceva che l’amore è un’altra cosa e che mi diceva che, in tema di “fare la cosa giusta in tempo” lui voleva dirmi questo da tanto ed adesso ce l’aveva fatta, prima che magari gli accadesse qualcosa. Un calcio negli stinchi gli sarebbe capitato, non appena l’avessi visto, quello pensavo, aveva aperto la mia posta… una sgridata da Ginny, e dalla signora Weasley, e da tutti e da Ron stesso. Quello gli sarebbe successo.

Ed invece, Draco, aveva ragione su tutto, su tutto, e chissà magari uno che è vicino a morire, è già un po’ più lontano e sa le cose che gli altri non sanno, e vede quello che gli altri non vedono, e sente quello che gli altri non sentono. Ha avuto ragione su tutto, su tutto, che era l’ultima volta che poteva parlarmi e che io… e poi… ed io strappai quella lettera, adesso la vorrei rileggere ancora, e forse scoprirei altro… perché non l’ho mai conosciuto bene, perché era una cosa sola con George, perché creavano disastri e mi mettevano in imbarazzo, e creavano disordine e cosa pagherei adesso per quel disordine, Draco, è tutto in ordine nella mia vita, tutto così liscio e lineare che mi viene da vomitare, tutto così piano e perfetto alla Tana che volevo spaccare qualcosa, ed invece manco riesco a parlare, manco riesco a consolare Ron, manco riesco a fare niente, da quella maledetta notte della battaglia di Hogwarts.

Il momento dello scontro finale ci piombò tra capo e collo, prima ancora che ce ne rendessimo conto, fu come trovarsi immersi nell’oceano e non sapere quando si è naufragati, quando la nave è affondata, quando si è persa la scialuppa. Ho sprazzi di quella notte, sprazzi continui. E…ci sei anche tu. La stanza delle Necessità, l’Ardemonio, Tiger che muore, le scope, il diadema di Corvonero, quel liquido nero che vi si addensava. Ci sei anche tu, che sparisci, riappari e che ti salviamo, e al contempo non sei tu, al contempo sei diverso… e sembra quasi un’altra vita, un’altra me, un altro te, un altro mondo. Perché, dentro, in fondo ero pure felice. Ci credi? Poi uno non dice che dovevo essere già impazzita… avevo baciato Ron, forse stavamo assieme, forse fuori da quell’inferno, c’era tutta la vita che mi ero aspettata di volere e forse Fred aveva torto, e forse ce la potevamo fare. E sebbene fossi circondata dalla morte, dall’odio, galleggiavo, Draco, galleggiavo.

Forse per quello capii tutto così poco, così tardi.

Accadde in un attimo, pochi secondi, il tempo si fermò, eravamo fuori dalla Stanza delle Necessità. Tu eri fuggito, c’erano degli scontri, Fred e Percy combattevano. E io li guardavo, ed improvvisamente il mondo tutto galleggiava, fluttuavo, ed ero felice, non avevo controllo dei miei arti e delle mie parole, ma andava bene, ero tutto così caldo, dolce, tiepido, soffice. Tutto era fermo, non si muoveva affatto, il mio respiro durava secoli interi. Avevo sentito una puntura di spillo alla schiena, un contraccolpo nel petto, la perdita quasi di coscienza. Eppure, io che tutti mi chiamano la strega più brillante della mia generazione, pensai solo ad una botta di stanchezza, ad un momento di distrazione mentale, alla felicità assaporata che ormai di Horcrux ne mancava solo uno.

Ed invece era solo un Imperius, dritto nella schiena.

Augustus Rookwood.

Lo avevo visto una volta al Ministero, mi aveva guardato in modo strano, non ci avevo fatto caso. Riconobbi la sua voce nella mia testa, mi apostrofava nella peggiore delle maniere, parlava di una donna, diceva che era morta per colpa nostra, diceva che l’Oscuro signore l’avrebbe vendicata. Non capii nulla. Sentivo solo il suo tono, freddo come una lama ghiacciata.

Capii solo una cosa, la domanda.

La domanda.

La stramaledetta domanda, e la mia voce doveva morire allora, dovevo essere davvero muta,  non parlare mai più, vincere l’Imperius, strapparmi la laringe.

Il mondo fluttuava, fuori erano passati solo tre secondi e Augustus Rookwood mi chiese di salvarne solo uno.

Mi disse, di salvarne uno.

Tra Percy e Fred.

Li avrebbe uccisi entrambi se non avessi risposto, mi disse salvane uno, quello che alla madre mancherebbe di più, riprese a parlare di una donna, Christinine. A lei tutti i figli le hanno tolto. Io ti lascio sceglierne uno. Scegline uno, puttana mezzosangue.

Il mondo galleggiava, io pensavo di sognare e la mia voce disse il nome di Percy, in silenzio.

Dissi il suo nome, Draco, dissi il suo nome, perché credevo che era la mia mente, credevo che la voce fosse solo fumo nelle orecchie, credevo di sognare, e non capivo, ed ero così stanca, così a pezzi, ed era piacevole non pensare, starmene lì in quella gelatina a galleggiare, a non sentire il mio cervello macinare.

Un secondo dopo, intuii tutto. Un secondo dopo. Solo un maledetto secondo troppo tardi.

Ruppi l’Imperius.

Ma l’urlo inutile che mi uscii dalla gola coincise con l’esplosione che ammazzò Fred.

Nessuno mi sentì. Nessuno. Nessuno, Draco.

Il sussurro, Rookwood, l’aveva sentito. L’urlo, Fred, non l’aveva sentito.

Piansi, mi disperai, come tutti: mi convinsi disperatamente che non era stato nulla, forse una premonizione mentale, forse un effetto della stanchezza, forse uno scherzo della mia mente che era stata lucida fin troppo.

 Non avevo visto chi aveva lanciato l’esplosione. Doveva essere un sogno. Rookwood manco c’era, in battaglia.

Voldemort fu sconfitto, la guerra finì, Harry vinse, contammo i morti e vivi, curammo i feriti.

Mi feci curare a mia volta, mi disinfettavano le ferite, mentre piangevo ancora per Fred, ancora sentivo le parole della sua lettera nella testa. Ci vedevo solo l’affetto, adesso, nulla di quel rimprovero presuntuoso che ci avevo visto in un primo momento.

Poi gettai uno sguardo alla parte di tenda occupata dai Mangiamorte catturati.

E nella tenda del pronto soccorso, Rookwood c’era. Rideva, sguaiato, guardandomi.

Mi disse: “Come si vive sapendo che hai scelto? Come si vive sapendo che hai la voce sporca di sangue?”.

Lo presero per pazzo, tutti, mi raccontarono che era diventato Mangiamorte il giorno in cui sua moglie Christinine si era uccisa, dopo che i loro figli erano morti ad Azkaban.

Lo presero per pazzo.

Volli pensare anche io che fosse pazzo, ma non lo era.

Quando capii esattamente che io avevo ucciso Fred, io con la mia voce, io con la mia scelta da innamorata saccente, io che ce l’avevo con lui, io che non mi ero opposta all’Imperius, io che avevo pronunciato quel nome…

…quando capii questo…

Io non fui più in grado di aprire bocca.

 

Fino a quando non sei arrivato tu, a farmi sentire miserabile assieme a te, con te.

E a convincermi che tu, tu solo al mondo, in tutto il mondo, tu il codardo, l’assassino mancato, il reietto…

 

Tu solo fossi in grado di perdonarmi.

 

Fu inutile tutto, a quel punto.

Inutile fu lui, inutile fu lei, inutile fu parlare, inutile fu offendersi, inutile fu dispiacersi, inutile fu piangere, inutile fu consolarla, inutile fu tutto. Inutile.

Dopo quelle parole, oneste, dure, taglienti, Hermione come svuotatasi, cadde in un sonno profondo e febbricitante. Respirava a fatica, la guancia sulla sua clavicola, la fronte bollente. Biascicava lamentandosi, piangeva sommessamente. Se la teneva stretta addosso, asciugandole le lacrime meccanicamente con il dorso della mano. Per ore, finché il sole non salì alto nel cielo, concentrò tutta la sua mente sulla possibilità di cancellarle quel ricordo, non voleva e non poteva pensare ad altro.

Ripeteva le formule delle pozioni nella testa, ricordava quanto l’Oblivion in faccende come queste fosse inaffidabile, perché i ricordi potevano tornare, o non cancellarsi del tutto, o poteva restare un residuo del trauma che si ripercuotesse in gesti, azioni, intenzioni, desideri. E ripetere troppo a lungo l’Oblivion avrebbe comportato seri danni cerebrali. Pensa solo a questo, Draco. Ci voleva una Pozione, potente ma selettiva, che eliminasse completamente quel ricordo, la connessione con la voce, il senso di colpa, ogni memoria connessa. Ha la febbre e piange ancora, brucia la mia pelle come se fosse fuoco. E se ce l’avesse fatta, avrebbe avuto Saint Suliac ad un passo, premiavano quelle pozioni e sapeva che non esisteva nulla ancora del genere, ce l’avrebbe fatta. La perdo, si ammazza, se fallisco, non sopravvivrà a lungo con questo segreto dentro. Calendula, doveva essere la base, e poi che altro? Assenzio o loto? Ambra grigia, forse? La perdo, sì, la prossima volta la trovo morta, la prossima volta non si salva, la prossima volta se ne va all’altro mondo e si perdona le sue colpe. Forse doveva sobbollire per un ciclo lunare… o magari catalizzare la luce del sole, chissà quale delle due fonti è più potente, a lei non poteva chiederlo, non poteva saperlo che sarebbe stata la sua cavia. Se non ci riesco mi muore tra le braccia la prossima volta. O magari basta solo la luce dell’alba, non vuole che rischi di rovinarle la mente. Non voglio che rischi più nulla, mai più nella vita. Non vuole che rischi più nulla nella vita.

E d’improvviso, strinse i pugni, esplose la rabbia, la tenne sotto controllo il peso di lei tra le braccia.

Voleva uccidere Rookwood, voleva ammazzare Potter e Weasley che non si erano accorti di nulla, voleva assassinare quel suo sé stesso che le diede le spalle ed andò via.

Per rimandare indietro quel solo istante, avrebbe volentieri sacrificato tutto, compreso sé stesso; avrebbe ucciso lui Fred Weasley per liberare lei da quel peso crudele.

Lo sconvolse che, per la prima volta, davvero, era convinto che avesse perso la guerra quella che era la parte che avrebbe dovuto perderla: prima di lei, se ne fregava.

Prima di lei, non ricordava chi era alla battaglia di Hogwarts, ricordava paura e sudore, Tiger che muore e sua madre che lo stringe. Si ricordava spavaldo come una tigre e sfuggente come un serpente, non debole come il gattino che aveva dipinto lei nei suoi ricordi, sincera, fiera, non preoccupata di toccarlo e ferirlo. Ed adesso era chiaro perché stava con lui: si sentiva sporcata, lercia, indegna. Solo uno come lei, poteva accettarla.

Per quello parlava con lui, per quello stava con lui, per quello aveva detto tutto a lui.

Ed andava bene, lui era egoista, andava bene averla anche in quel modo… ma non l’avrebbe avuta ancora per molto, ne era certo. Sicuro, convinto, impagabilmente consapevole.

Lei non era come lui, anche se fingeva di esserlo: ne sarebbe morta.

E se la sua memoria era l’arma, la pistola puntata alla sua gola… Draco gliela avrebbe cancellata pezzo per pezzo. Le mani che la stringevano, tremarono, chiudendosi sulla sua vita.

A costo di cancellare anche me stesso dalla sua memoria.

 

 

La Granger, dopo il 1° aprile, la data del compleanno di Fred Weasley, per cui c’era stata una commemorazione solenne in Sala Grande, ebbe una lunghissima influenza che durò ben tre settimane.

La febbre non accennava mai a scendere, restava sempre sopra i 38 gradi, nonostante tutte le cure del caso e l’assunzione delle più varie delle Pozioni: molti Medimaghi, ormai, se sentivano parlare di quella ragazzina o venivano ad essere convocati e consultati, provavano l’amaro calice della frustrazione dato che Hermione Granger sembrava immune a qualsiasi genere di rimedio scientifico e medico.

La cosa era iniziata con la voce, ed adesso proseguiva con qualsiasi genere di disturbo potesse accusare.

Ad Hogwarts vennero anche i suoi genitori, vogliosi di ricoverarla in ospedale, ma fu sconsigliato di spostarla da lì per evitare che la febbre salisse ancora: nonostante tutto, Hermione restava comunque vigile, attenta, gli occhi sgranati e lucidi, chiedendo di essere aggiornata sui compiti ed ammettendo frequenti visite alla sua stanza. Ginny Weasley fu la prima ad accorgersi che Hermione, quando veniva aperta la porta della sua stanza, sobbalzava, si voltava bruscamente, cercava con affanno qualcuno e puntualmente si afflosciava come un ramo appassito, quando constatava di chi si trattava. Dopo qualche secondo di smarrimento, ovviamente, riassumeva un cipiglio normale, ostentando un sorriso che non le arrivava agli occhi e ringraziando il visitatore con occhi dolci e tristi.

Ginny, il 25 di aprile, stava per chiederle nervosamente chi diamine aspettasse, augurandosi che lei mimasse il nome di suo fratello Ron: reggendo una scatola di cupcakes, entrò nella stanza pronta a formulare la domanda che non aveva voluto farle fino ad allora, dato l’impermeabilità che lei aveva sviluppato ad ogni tipo di quesito. Hermione, però, quel giorno, la accolse con un sorriso diverso, aperto, chiaro, quasi simile a quello che aveva una vita fa. Gli occhi erano più vivi del solito, il colorito era meno terreo e le labbra erano rosse di salute. Deglutendo pesantemente, sforzandosi, chiudendo gli occhi, biascicò anche un incerto: “Ciao Ginny”.

Erano le prime parole che le rivolgeva dalla fine della guerra. Ginny pianse, lasciò cadere a terra la scatola dei cupcakes e corse ad abbracciarla, constatando nell’abbraccio che lei le restituì un calore che non aveva nulla a che fare con la febbre. Hermione non disse altro per l’intera mattina, ma a Ginny quel saluto goffo parve già il sole nel cuore per mille anni.

La felicità rende ciechi, sordi, muti e stupidi.

Ginny Weasley non si chiese e non chiese che cosa fosse cambiato quella mattina, che cosa era accaduto ad Hermione se la sera prima era invece la solita parodia della morte incarnata, non chiese che cosa le era successo. Probabilmente comunque non avrebbe avuto risposta, ma non ci pensò neanche a chiederlo.

Draco Malfoy era successo.  

La notte prima, dopo ventiquattro giorni in cui non si era fatto vedere, era sgattaiolato di nascosto nella sua camera, trovandola sveglia come se lo stesse aspettando. Draco era impallidito nel vederla, sebbene la stanza fosse al buio ad eccezione della piccola luce sul comodino: era così magra, la sua pelle ormai era trasparente e respirava a fatica. I suoi capelli erano opachi e le sue palpebre erano violacee. Ma comunque, nonostante tutto, Hermione gli aveva sorriso, si era tirata bruscamente su a sedere ed aveva allungato le braccia come una bambina che voleva essere presa in braccio. La forza, tutta quella che sembrava evaporata dal suo viso, le era tornata mentre gli era quasi saltata addosso, stringendolo tra le braccia. La voce, quella che nessuno conosceva più, aveva asserito convinta: “Pensavo di non vederti mai più…”.

Draco aveva chiuso gli occhi, restando con le mani poggiate sui suoi fianchi senza approfondire l’abbraccio, senza concentrarsi sul profumo smorto che la febbre sembrava portarle via, senza badare al peso piuma che era diventata e senza focalizzarsi sul suo tono di voce, meno argentino del solito. Con sicurezza, aveva biascicato severamente: “E meno male che ti avevo detto che non potevo venire che avevo molto da studiare…”. Hermione non se la prese, rise invece, si staccò da lui studiando il suo viso come una madre che esamina il figlio, dopo una lunga separazione: negli occhi attenti di lei, Draco vide subito che si sarebbe accorta di tutto, avrebbe visto perché effettivamente le era stato lontano per tanto tempo, avrebbe letto nelle occhiaie profonde le nottate passate ad elaborare la pozione, avrebbe visto nella trama ramificata delle vene la soddisfazione acre del successo, avrebbe colto nelle rughe dell’espressione il dolore lacerante di capire che la pozione avrebbe cancellato ogni ricordo che lei aveva di lui, avrebbe scorto nel tremore delle palpebre l’impossibilità di trovare un’altra strada dato che la loro frequentazione si collegava direttamente alla perdita della voce, a sua volta legata a doppio filo alla morte di Fred Weasley e al ruolo di lei nella vicenda.

Quello che, però, Draco temeva più di tutto è che lei leggesse nella pelle pulsante del collo il battere convulso del cuore: non aveva bisogno di ulteriori motivi per esitare, non aveva bisogno che si accorgesse di quanto fosse diventata scevra dall’essergli indifferente, non aveva necessità che lei capisse che, sebbene tutto nel corpo andasse contro quella decisione, aveva già deciso di sfidare la memoria che Hermione aveva di lui.

Mi conosci e ricordi come codardo, vile, egoista, doppiogiochista, assassino mancato?

Mi sei stata vicina per mesi solo per questo, godendo del mio essere bieco e giocando a trasformarmi come una fatina delle fiabe?

Ebbene Hermione Granger, ti dimostrerò che non sono questo, dannata mocciosa saccente: ti darò quella pozione, ti cancellerò la memoria e rinuncerò a te come il più imbecille dei Weasley e il più nobile dei Potter.

Tu non lo saprai… ma io sì. E farà tutta la differenza del mondo, la prossima volta che mi guarderai e finalmente, senza che nulla tremi in te, o scricchioli, o ti faccia sentire sporca, ti sentirò insultarmi o dire agli altri di ignorarmi.

Sarà la tua voce, di nuovo, pulita, senza ombra di colpa: parlerai come ami farlo, senza che niente da dentro ti punisca per essere viva o per aver scelto, costretta.

Sarai di nuovo tu, quella che mi odia convinta e non mi amerà mai consapevole.

Ora non sei tu, questa non sei tu: questa creatura dolcissima che esita, che mi abbraccia, che mi parla, che ha le ossa di vetro, il cuore di carta, il respiro di nuvola e la voce di passero. Questa non sei tu. Non sei mai stata tu.  E se tra me e te c’è un assassino, quella non sei tu… sono io, che ammazzerò questa donna che mi fa perdere il sonno, facendo tornare quella che me lo toglierà solo con la somiglianza con quella che amo. E finirà tutto, questo dolore dentro, questa rabbia dentro, questa vergogna dentro, questo rimorso dentro, e questo amore dentro.

Perché tu non sarai più questa che mi scruta negli occhi e che vado a trovare di notte, temendo di abbracciare per il terrore di non poterla lasciare più. Ed io non sarò più quello che aspetti sveglia, dicendo che temevi di non vedere più.

Non siamo mai stati noi…

Questi non siamo noi: siamo solo due miseri relitti che ci diamo alle dicerie negligenti di quello che siamo davvero.

Abbiamo solo trenta giorni, per vivere vestiti di questi panni non nostri: trenta giorni, e la pozione sarà pronta.

Trenta giorni di vita strappata, al tempo vero ed autentico.

Trenta giorni di esistenza senza nome, per poi voltarci indietro e non saperci più riconoscere.

Trenta giorni per arrivare tra trent’anni a salutarci con un cenno del capo, un sorriso nervoso e nessuna altra parola.

Trenta giorni per dimenticarci entrambi chi siamo adesso.

Tu dimenticherai con una pozione.

Io dimenticherò circondandomi di voci che parlano in francese, a Saint Suliac, e che mai mi ricorderanno te.

Mai nessuno al mondo mi ricorderà te.

 

 

In tre mesi, l’effetto della pozione poteva sparire: nei suoi studi, a soli cinque giorni, dal completamento della pozione, Draco notò con sgomento che in tre mesi, i ricordi potevano tornare.

Un ruggito di egoismo sconquassò il suo ventre, ma nella sua testa e nel suo cuore Draco trovò facilmente la soluzione. L’opale, la pietra magica più potente tra tutte, racchiude il potere di tutti gli elementi e le loro rispettive caratteristiche: l’energia e la forza del Fuoco; la prosperità, la pace e il benessere della Terra; l’intuizione, le emozioni e la sensibilità dell’Acqua; la comunicazione e la creatività dell’Aria.

Era spesso usata come sigillo di incantesimi e pozioni dagli effetti durevoli.

Bastava imporre alla Granger di indossarlo per un paio di mesi, così che l’effetto fosse permanente: fece arrivare da casa sua un anello con un opale latteo rotondo che sua madre indossava quando era ragazza e che per fortuna non era stato confiscato dal Ministero. Lo incantò, affinché non si sfilasse per un tempo corrispondente a cento giorni, e pianificò di collegare la pozione alla falsa memoria che Hermione avesse ricevuto quell’anello come regalo da qualcuno, che le aveva pregato di tenerlo come portafortuna.

Nelle settimane, Hermione si era ripresa, la febbre era finalmente passata ed aveva ripreso a mangiare e a dormire regolarmente: all’inizio di maggio tornò a lezione e riprese a studiare come un’ossessa in vista degli esami. Ovviamente anche da pseudo-muta, Hermione doveva pretendere da tutti il massimo dell’impegno possibile nello studio, anche se era meno efficace non parlando; questo la portava invariabilmente a sfogare tutte le sue tensioni da maestrina repressa su Draco Malfoy, visto anche che doveva prendere il massimo dei voti per essere ammesso a Saint Suliac. Lui bofonchiava molto più del solito, studiando pigramente e senza volontà, aveva già una media alta, l’ammissione era scontata.

Hermione notò che era diventato ancora più chiuso, taciturno e tendente alla risposta acida, ma ovviamente credeva che fosse la preoccupazione per Saint Suliac, considerando anche che inopportunamente aveva scoperto orgoglio e presunzione nei giorni passati, sostenendo che aveva già creato la pozione per l’ammissione, che non c’era bisogno che la vedesse, che era quasi pronta e funzionava perfettamente.

E se Hermione si azzardava a chiedere: “E che cosa cura?”,  lui roteava gli occhi e blaterava che era seccante.

Draco aveva deciso di vivere quei giorni con leggerezza, distacco e rassegnazione: ma non era possibile. Scopriva troppo di lei e troppo poco ancora sapeva. C’era sempre una sfumatura nuova degli occhi, un sorriso associato ad un particolare sentimento e che adesso riconosceva, un ricordo inedito che lei condivideva, un’abitudine assurda alimentare che gli faceva storcere il naso, un sogno nuovo che le fioriva in viso, un tremore appena accennato che lei inventava adesso: ed al contempo c’era sempre il silenzio autoimposto al di fuori di quella stanza, le spalle incassate quando in classe si parlava della guerra, le lacrime sbocciate in un momento qualunque per una qualunque associazione d’idee, le urla quando provava a convincerla che non era stata colpa sua la morte di Fred, gli episodi comunque frequenti di graffi autoinflitti e di ferite autoinferte, i momenti in cui si svuotava di forze ed energie ed assomigliava ad un cadavere.

E in quei momenti Draco lottava con tutte le sue forze contro la voglia di trattenerla accanto a sé, e ricordava quando l’aveva trovata in quella vasca da bagno: un altro episodio, più forte, e sarebbe morta, ne era certo.

La battaglia dentro di lui, si esaurì il giorno prima dell’inizio degli esami: il 25 di maggio, la pozione fu pronta, l’opale era stato incantato ed Hermione Granger qualche ora prima aveva ripreso a negare febbrilmente come qualche mese prima, la testa tra le braccia, proprio qualche istante dopo che Draco avesse seriamente vacillato nella sua convinzione, decidendo di parlare con la Mc Granitt per chiedere consiglio.

E se era arrivato a quel punto, vuol dire che era seriamente disperato: però poi l’aveva incontrata, l’aveva vista in quello stato, la paura di perderla gli aveva di nuovo soffocato il cervello ed aveva deciso infine di terminare quello che aveva iniziato.

Aveva staccato le mani dai capelli di Hermione, l’aveva stretta per i polsi e le aveva sussurrato: “Ci vieni stasera in un posto assieme a me?”. Il volto sudato, i capelli attaccati al collo, Hermione sospirò un sì.

Sarebbe stata l’ultima sera in cui avrebbe ricordato Draco Malfoy.

 

Venne all’appuntamento vestita di bianco, come una sposa.

Gli mancò il fiato guardandola, mentre camminava piano nella sua direzione, improvvisamente donna, improvvisamente bellissima, improvvisamente somma di tutto quello che aveva sempre desiderato e mai avuto. Non aveva organizzato nulla di speciale, le aveva solo detto di venire alla Torre d’Astronomia, avrebbero volato un po’ e poi si sarebbero fermati da qualche parte, dove le avrebbe dato in qualche modo la pozione. Non era preparato a quello, si era vestito normalmente, senza particolare cura: una camicia azzurra che gli stava anche un po’ stretta, ed un paio di jeans. Aveva i capelli biondi persino un po’ bagnati dalla doccia che gli davano l’aria di un pulcino sperso: non era assolutamente predisposto per quello.

Sebbene avesse ammesso a sé stesso di essere innamorato di quella ragazza, non aveva contemplato le fasi normali di un corteggiamento e di una relazione ordinaria con una coetanea: era stato tutto curva, galleria, dosso in una strada sterrata e senza direzione precostituita. Quindi, nessun appuntamento, nessun complimento, nessun tentativo imbranato di prenderla per mano… niente. E poi del resto manco stavano assieme, e manco forse una parte di lui ci voleva stare davvero: il bello di quella situazione, di quella sera da condanna a morte, era che tutto sarebbe annegato nel mare del “poteva essere e non fu”. Non avrebbe dovuto dirle nulla, aspettarsi una risposta, seppellire l’orgoglio ed affrontare un rifiuto, o affrontare anche un sì, che forse sarebbe stato peggio. Non era lui quello per lei. Non era lei quello per lui.

Però Hermione Granger, quella sera, ruppe ogni regola non scritta tra lei e lui: chissà a che ha pensato, si chiedeva Draco vedendola camminare al rallentatore nella sua testa, la salivazione annientata e il cuore in gola. Chissà cosa ci aveva visto in quella serata, in quell’invito: magari solo una delle ultime occasioni per stare con un amico imprevisto, cosa che doveva essere festeggiata. In fondo, mancava poco al diploma, lui sarebbe andato a Saint Suliac e lei altrove, probabilmente non si sarebbero rivisti mai più.

Magari era questo… o magari, e Draco lo capiva ad ogni passo, Hermione Granger era una perfida strega ammaliatrice, che oggi gli donava sé stessa, ammonendolo che non la poteva avere.

Perché d’improvviso, Draco ne scopriva malizia ed accortezza femminile da maldestra ammaliatrice. Il vestito ne fasciava il corpo nei punti giusti, stringendo sotto il seno ed allargandosi sui fianchi, e lui ne immaginava ogni ombra e luce con una chiarezza mai raggiunta prima: perché sì, ok, se ne era innamorato, ma se ne era innamorato in quella maniera quasi asessuata dei bambini. La adorava, adorava tutto di lei, come si adora una giornata di sole d’inverno, in modo fideistico ed asettico: e d’accordo, aveva quelle pulsioni fisiche vedendole, ma erano diventate rare, scomode, evitabili, considerando che la vedeva sempre come una bambola di velluto da non pensare nemmeno di immaginare di toccare.

Adesso scopriva il sangue di quell’amore marcio: ed era un sangue di fiamma, di tormento, di possesso, di fantasia incomparabilmente guasta di pensarla con un altro domani, oggi, ieri. Sudava freddo, e lei camminava ancora, leggiadra come una piuma, come mai era stata: ed immaginava in rapida successione lui che le toglieva quel vestito, un altro che le toglieva quel vestito, e poi ancora lui, e di nuovo un altro senza nome, e poi Weasley, e poi ancora lui. Ed aveva bisogno di saperla sua, di saperla per sempre sua, di averla almeno quella notte per sé, tutta per sé, perché era la sera dell’addio e lei a suo modo lo sapeva, perché si era anche truccata e il marrone sulle palpebre esaltava l’oro delle iridi, perché aveva steso un rossetto rosa sulle labbra e le dischiudeva appena salutandolo, perché le tremava la voce e si stringeva nelle spalle, perché il cedro e la vaniglia erano aria e vento e lui ci respirava dentro, e ci respirava in mezzo, e non poteva fare altro.

Tanto domani tu non ti ricorderai niente di tutto questo. Io sì, io per sempre… ma quello sarà un problema solo mio, e sarà un problema solo domani. Non stasera, non adesso, non ora.

La prese per mano con l’improvvisa consapevolezza che poteva essere l’ultima volta, e ne saggiò sotto i polpastrelli ogni insenatura, ogni incastro, ogni piega che rendeva la sua mano in quel modo piuttosto che in un altro. Hermione si accorse subito della differenza, tremò e rabbrividì piano, intrecciò le dita con le sue.

Lei salì sulla scopa, mettendosi davanti a lui, mentre Draco con un movimento sicuro sfrecciò in volo nella notte che profumava di magnolia e di gelsomino. Abbandonata, nel chiarore della luna nascente, Hermione poggiò la testa contro il suo petto: nel vento che li avvolgeva freschi entrambi Draco poggiò il mento sulla sua spalla, lasciando che Hermione sorridesse e se ne stesse con la guancia premuta sulla sua. Il silenzio, che era sempre stato un ospite scomodo da evitare ad ogni costo e da riempire dal pensiero che tra loro fosse diverso, divenne una coperta morbida e calda sulle spalle: dentro quel tacere c’erano centinaia di parole soffuse e sussurrate, che nessuno dei due poteva dire. Le luci a grappolo dei paesi di montagna li salutavano divertiti, mentre il castello si allontanava e le stelle si avvicinavano: Hermione si ritrovò prima di accorgersene ad allungare la mano, quasi come illusa che fossero vicine sul serio, poi scosse la testa imbarazzata e sussurrò: “Che stupida…”.

“Sei tante cose Hermione Granger… tantissime… ma non sei stupida…”.

Sorrise lei felice e sussurrò solo: “Grazie…”, restando però immobile, ferma, improvvisamente vigile. Se avesse voltato la testa anche solo di un centimetro, avrebbe urtato contro il viso di Draco, lo sguardo perso e sconvolto fisso sul suo volto. In ogni sillaba di quel ringraziamento, lei ci aveva messo tutto quello che pensava e sentiva, Draco se ne era accorto, le guance le erano diventate rosse e calde, era arrossita.

Rimase rossa in viso mentre sussurrava: “Se vieni ammesso a Saint Suliac… e credimi, lo spero con tutta me stessa… tornerai mai in Inghilterra?”. La sorpresa di Draco fu tale che la scopa gli vibrò tra le mani, Hermione sobbalzò e si spaventò leggermente finché non tornò dritta. La gola di Draco si chiuse dandogli la sensazione di annaspare, mentre pensava seriamente a che cosa rispondere a quella domanda. Poteva mentire, certo, tanto chi se ne fregava, lei avrebbe scordato tutto il giorno dopo. O poteva essere sincero, rispondere a quella che adesso gli stava tra le braccia e che aveva le ore contate, ma che adesso era ancora lì.

Essere al contempo onesto e bugiardo comportò solo che confuse nel vento sibilante un frettoloso e sussurrato: “Non lo so…”. Hermione si staccò dalla sua guancia, lo guardò confusa, improvvisamente distante. Negli occhi, nebbiosi e vitrei, Draco distinse subito la vera domanda che aveva in serbo. Torneresti per me?

Ed era a quella che Draco non sapeva che rispondere: onestamente l’Inghilterra da madre ed amica, era diventata matrigna e megera. Non aveva alcun legame che lo tenesse lì e quei pochi che ancora esistevano, si sarebbero allentati alla partenza per Saint Suliac, qualora tutto fosse andato bene. E se poi tutto fosse andato male, avrebbe probabilmente chiesto al Ministero di andarsene in America dai suoi. O da qualche altra parte.

Hermione era il solo legame: la sola, l’unica ancora che lo tenesse attraccato a quel paese.

Ma era un legame di farina e nebbia, comunque la si vedesse: ammesso che non ci fosse la risoluzione di cemento di cancellarle la memoria ed ammesso anche che non le fosse accaduto quello che le era successo e che attentava costantemente alla sua esistenza, ammesso anche che lei accettasse di restargli amica… come sarebbe continuata? Non sarebbe continuata, ecco. Vallo a spiegare al resto del mondo che erano amici, non ti azzardare nemmeno a raccontare che te ne sei innamorato, vai ad immaginare il sabato sera con Potter e Weasley che lo guardano inaciditi, vai poi a chiederti davvero se sta ancora con Ronald e perché non lo nomina mai, ma sicuramente non è fuori dalla sua vita. Mettiamo anche che non esista la questione della voce e tutto il resto, immaginala senza alcun trauma, senza alcun problema, felice e libera, ma amica sua.

Cosa sarebbe diventato tutto quello? Un paio di chiamate all’anno, una lettera dove annunciava che aveva trovato lavoro, un invito scritto di fretta per quando si sarebbe sposata, un tavolo in fondo alla sala con cugine che non conosceva, un saluto al binario nove e tre quarti mentre due mocciosi con i capelli rossi e i suoi occhi la chiamano mamma. E Draco, in quell’estasi capovolta di innamorarsi altruista, voleva persino tutto quello per lei, tutto, tranne forse i figli con i capelli rossi… ma solo, non voleva starci lì a subirsi e sorbirsi tutto quello, pure nel fango melenso di volerla semplicemente vedere. Diamine, non è che fosse diventato un rincoglionito mentale: se la sarebbe scordata in qualche modo, non avrebbe vissuto lo stillicidio di vederla e non averla, parlarle e non sentirla, sfiorarla e non toccarla.

E poi… ancora… il problema non si poneva: tra poche ore, Hermione Granger non avrebbe nemmeno saputo che aveva desiderato che tornasse per lei. Quindi, essere sincero ed essere bugiardo era dire solo: “Non lo so”.

Hermione, a quella risposta, però, si irrigidì, divenne una statua di sale, iniziò a guardare con ansia crescente il suolo, i piedi che smaniavano per correre via: restava seduta come una principessa a cavallo, con la schiena dritta, le braccia rigide, gli occhi fissi davanti a sé. Ammantò il suo respiro di silenzio per una mezz’ora buona, prima di borbottare sconfitta: “Puoi scendere a terra adesso?”.

L’orologio di quella fiaba aveva iniziato a rintoccare prima di quanto si aspettasse: Draco scese di quota sospirando ed atterrò sul tetto quadrangolare di un edificio abbandonato alla periferia di Hogsmeade. Era una vecchia serra, ormai non più utilizzata, i rovi coprivano gran parte della facciata. Tra le spine, inossidabili, spuntavano minuscoli fiori color glicine dalla corolla aperta. Avevano un profumo struggente da estate appena iniziata.

Hermione scese dalla scopa con un balzo, fece qualche passo dandogli le spalle e restò immobile contro l’orizzonte a guardare il cielo che, d’improvviso, si era addensato di nubi pesanti e fitte. Lontano, risuonò l’eco sordo di un tuono che la fece rabbrividire, mentre si strofinava le mani sulle braccia per riscaldarsi. Draco lasciò cadere la scopa sulle tegole rosse della serra e, stanchissimo, si sedette a gambe incrociate, le braccia distese dietro di sé e l’espressione scavata come se avesse dodicimila anni. Il temporale si avvicinò rapido, le nuvole iniziarono a rombare sorde e la pioggia iniziò a cadere a scrosci pesanti.

Nessuno dei due diede segno di essersene accorto: era la notte dell’addio, in un modo netto ormai lo sapeva anche lei. Si tirava indietro i capelli con la mano, zuppi le aderivano sulla schiena e sul collo, piangeva in silenzio senza farsene accorgere e non faceva un passo per paura di rompere qualcosa che per miracolo stava ancora in piedi. Draco si ritrovò a guardare la sua schiena tremare e a pensare che se, d’improvviso, faceva così male stare dentro quell’istante, se faceva così male anche a lei… magari doveva lasciar perdere. Magari doveva lasciar cadere la boccetta di quella pozione che aveva in mano e lasciare che il destino si compisse da solo. Magari doveva avere fede in lei, fiducia in sé, magari doveva solo stringerla e basta, baciarla e basta, amarla e basta… si alzò in piedi, i pugni chiusi, affranto, distrutto, sconquassato. L’acqua scivolava lungo il suo collo e non sapeva se aveva freddo per quello, o per il contrasto con il calore sordo che gli esplodeva a fiotti regolari dentro lo stomaco. La boccetta della pozione si reggeva alla sua mano bagnata e sudata con un istinto di conservazione che era l’ultimo vessillo della decisione di incantarla e che Draco preservava nel suo cuore: un vessillo di un esercito sconfitto, perché era troppo bella lei, era troppo vicina lei, era troppo già lontana lei, ed era troppo anche solo immaginare che nell’oceano del male che provava, il distacco da lui fosse solo anche solo una goccia di rugiada. Fece un passo, deciso, sicuro, pronto a gettare via la pozione.

E poi lei, sempre terrorizzata dal silenzio, desiderosa solo di romperlo, stanca di rifugiarsi in esso, aprì la bocca con un sorriso, dandogli le spalle. E disse la cosa sbagliata.

“Almeno quando te ne andrai, nessuno mi rimprovererà più perché parlo troppo…”.

Gelò come se affogasse, si aggrappò alla sola cosa tangibile: la boccetta della pozione. Hermione l’aveva detto con una risata in gola, ma una risata amara e cieca, di quelle ineluttabili di chi accetta un copione già scritto.

Se ne sarebbe andato lui… e lei non avrebbe parlato più. Sarebbe rimasta per sempre nel miasma del silenzio, non aveva intenzione di fare nulla, assolutamente niente, per cambiare tutto questo. Ed anche se lui fosse rimasto, anche se fosse restato, anche se non se ne fosse andato… si sarebbe accontentata di parlare con lui e basta. Ed allora, pensò Draco stringendo i pugni e la pozione, chi se ne frega se mi ama o meno, chi se ne frega se la ho una notte o meno, chi se ne frega se resta solo mia amica o meno, chi se ne frega di tutto, se sarà per sempre questa ombra pronta a scomparire da un momento all’altro? Chi se ne frega di tutto, se non vuole lottare mai più? Chi se ne frega di questa pavida bambina sterile, che vivrà per sempre nei suoi fantasmi?

La rabbia crebbe come un fuoco d’artificio, rombò nel cielo e scoppiò tutt’attorno, mentre Draco Malfoy si accorgeva con un livore inedito da selvaggio, che la voleva uccidere questa Hermione Granger.

Voleva indietro la vecchia Hermione Granger, quella con la voce da falco, lo spirito da guerriera e la battuta pronta: e sebbene la odiasse, sebbene avesse sempre detto di odiare quella ed amare questa… improvvisamente capiva che erano la stessa faccia della stessa persona. E le amava ed odiava entrambe.

La vecchia Granger, ogni tanto, era filtrata e l’aveva scorta e vista: nelle risposte ironiche, nei motteggi silenziosi, nella saccenza presuntuosa, nella curiosità attenta… ma ben presto lei l’avrebbe lasciata morire.

Ed allora chi se ne fregava averla accanto, se la vera sé stessa se ne era andata all’altro mondo? Era questa sé stessa che doveva crepare, adesso… e chi se ne fregava se l’altra non l’avrebbe voluto mai, chi se ne fregava.

Bastava che tornasse. Bastava solo che tornasse.

Rapido, incollerito, furioso come il cielo che continuava a rovesciare pioggia su di loro, calcolò mentalmente che la pozione era venuta su così potente, che sarebbero bastate poche gocce. E trovò il modo perfetto per dargliela, così da assecondare anche sé stesso, per una volta, in quella stramaledetta storia.

Se ne bagnò le labbra, si avvicinò e la costrinse a voltarsi, afferrandola per una spalla. Hermione si ribellò leggermente ma restò immobile quando Draco, tenendola per la nuca, la obbligò a baciarlo. Sebbene la rabbia e il livore, non poté fare a meno di concentrarsi sul calore morbido della sua bocca, sul sapore dolce che aveva, solo leggermente contaminato dall’acre della pozione che le stava scivolando in gola. La mano la teneva stretta possessivamente, giocando con i riccioli dei suoi capelli, mentre premeva e basta sulla sua bocca, non concedendo né a sé stesso, né a lei, una qualsivoglia tipologia di reazione, come se la volesse soffocare. Hermione era vinta dalla violenza dolcissima di quel bacio, restava ferma, immobile, un braccio sollevato ed incerto, sospeso tra il desiderio di attirarlo più vicino  e la voglia di scacciarlo lontano.

La pioggia cadeva forte su di loro, la notte era diventata pesante come un macigno: quando negli occhi aperti di lei, spalancati come quelli di un cucciolo, Draco distinse un’ombreggiatura color argento, sintomo che la pozione le era entrata nel corpo, si staccò da lei bruscamente e la guardò incattivito, gli occhi grigi due lame appuntite, mentre la tratteneva per le braccia. Hermione, rossa in viso, aprì bocca per travolgerlo con un fiume di parole, ma non riuscì a proseguire.

Draco la interruppe e con astio, le rivolse quelle che voleva che fossero le sue ultime parole: Hermione le ascoltò sgomenta, atterrita, terrorizzata e spaventata assieme, poi grata, riconoscente, dimentica del resto, infine emozionata, sconfitta e vinta. Draco avrebbe voluto che le restassero dentro per sempre, anche se sapeva che non era possibile, anche se sapeva che la pozione avrebbe cancellato anche quegli ultimi tre minuti. Bastarono solo tre minuti: ed Hermione Granger gli cadde tra le braccia, addormentata, un sospiro doloroso negli occhi ed un opale incastrato al dito.

Quella notte, nel suo letto, avrebbe sognato una voce che le parlava arrabbiata, ma che le sembrava dolce come miele in quella rabbia: avrebbe sognato delle parole nette e precise, che al risveglio non avrebbe ricordato. Avrebbe sognato Draco Malfoy, ma non l’avrebbe ricordato.

 

 

Tra tre minuti, tra tre stramaledettissimi minuti, tu non ti ricorderai più niente di tutto questo, Hermione Granger.

Non ti ricorderai di me, di quest’anno malato, di Fred Weasley e della punizione che hai inflitto alla tua voce per averlo condannato. Non ti ricorderai più di niente di tutto questo. E cerca anche di vomitare, di rimettere, di fare quello che vuoi, se lo vuoi, ma sai meglio di me che era la sola strada, la sola via, il solo modo per farti tornare te stessa. Che cosa diamine dovevo fare io, Granger? Aspettare di trovarti morta? Aspettare che non parlassi più? Aspettare che parlassi per sempre e solo con me, ed aspettare il giorno in cui nemmeno un germe di quella che eri potesse emergere? No, dimmelo tu che cosa dovrei fare, adesso, dimmelo tu, maledetta strega, dimmelo, perché sei tu l’eroina, sei tu la buona, sei tu la dea, la vittima, l’agnello sacrificale, e io sono il serpente, il male, il codardo, l’assassino. Dimmelo, dai, dimmelo adesso che cosa dovevo fare.

Io, quella Granger che eri, la odio: sempre presuntuosa, sempre sul tetto del mondo, sempre convinta di avere ragione, sempre ad una spanna da me e dal mondo tutto. Ma è quella che sei davvero. È la tua anima e tutto quello che ci sta attorno. E sai cosa, forse in quest’anno, ho persino capito che non la odio davvero: della te stessa instabile e fragile che sei diventata ho adorato che la potessi proteggere, che io solo la potessi salvare, che mi concedesse respiro ed asilo, che mi stesse accanto, che fosse dolce come un frutto che non mi è mai stato dato di cogliere… ma quella non sei tu, o almeno non sei solo tu. Tu sei anche l’altra, quella che odio… ma che forse non ho odiato mai, che forse aspettavo solo di avere accanto agli occhi per innamorarmene come mi sono innamorato di te. Ed è inutile che fai quella faccia, ed è inutile persino che pensi a come reagire, è inutile persino che provi a dissimulare quello che senti davvero… non mi interessa Granger, mettitelo in testa. Se ti amo, è un problema mio, e non tuo. Se ti amo tutta, se amo pure quella dannata rompipalle che sei… anche quello è un problema mio. Se ho scoperto, oggi, adesso, in quest’istante, che la tua te stessa che è un derelitto mi ha permesso di avvicinarmi a te senza sconti e pregiudizi, ma che è l’altra che amo davvero, che amo di più , che amo odiare e che odio amare… questo è un problema mio. Tu non ricorderai nulla domani.

Ma io sì, io domani me lo ricorderò tutto questo momento. Ed adesso in questa mia follia da essere altruista, concedimi ancora due minuti per essere egoista e sputartelo in faccia quello che penso di te.

Weasley non è morto per colpa tua, sarebbe morto comunque, perché io i Mangiamorte li conosco Granger e non hanno alcun genere di morale confusa che avete voi, i buoni, i santi. Se Rookwood voleva uccidere qualcuno, lo avrebbe fatto, indipendentemente da che cosa rispondessi tu, dannata stupida. Se non avessi risposto, avrebbe ucciso te e tu magari, idiota come sei, te lo saresti anche augurato, no? E certamente te ne saresti fregata che non sarebbe cambiato nulla, avresti ammazzato ugualmente di dolore i tuoi babbei di amici, i tuoi genitori e tutto il resto. Qualsiasi risposta avessi dato, avresti ucciso qualcuno. E tu non hai scelto Granger: scegliere impone volontà. E l’Imperius non è volontà, credimi lo so. Potevi scegliere l’altro Weasley perché aveva un colore addosso che ti feriva gli occhi, e sarebbe stato lo stesso. Non è volontà quella, è solo istinto dello stomaco che non potevi tenere a freno, nessuno poteva, nemmeno tu, pure se sei così convinta di essere il non plus ultra della razza umana. Non potevi fare altro. Ed anche se ne soffri, anche se ti uccide dentro, renditi conto che la vita non è tutta scelta, non è tutta volontà, non è tutta arbitrio: è anche destino, caso, variabile imperfetta di una fragilità che siamo noi stessi incarnati. Io non ho scelto di essere quello che sono, ho scelto poco nella mia vita e mi sono abbandonato più di te al destino e al fato, ed è sbagliato, ma è sbagliato anche credere di avere il potere di fare tutto, Granger. Non se ne esce se si pensa così. Accetta con serenità ciò che puoi cambiare ed accetta con eguale serenità ciò che non puoi cambiare, è la vita, Granger, siamo pulci e giganti e siamo sospesi esattamente nel mezzo tra avere il potere di cambiare il mondo ed avere solo l’obbligo di subirlo.

Ma mettiamo che tu abbia ragione, mettiamo che sia vero quello che dici, che è morto perché tu hai scelto… se non parlassi più, tornerebbe qui? Se muori tu, resuscita lui? Credimi non va così, Granger: per mesi che io desiderassi barattare me stesso per Silente, non è mai accaduto, Granger. La sola cosa che abbiamo è andare avanti, con la coscienza che siamo vivi e che qualcuno ci ha voluto vivi: e con la coscienza che ad assolverti, basterà sempre che quell’Incantesimo non l’hai pronunciato tu, che l’assassina non sei tu, che il sangue non scorre sulle tue di mani. E credimi, in questo mondo dove il bianco e il nero sono solo becere illusioni bigotte da borghesi annoiati e dove tutto in realtà è solo un infinito spettro di grigi, fa tutta la differenza del mondo. E se mantiene me in vita questo pensiero, non vedo perché non dovrebbe andare bene anche per te, anche se ti credi migliore al punto da dover morire o da dover vivere mutilata per espiare le tue finte colpe.

Io non mi fido di te al punto tale da lasciarti andare via stanotte, affidandoti ad un Dio lontano perché tu decida di reagire.

E non mi fido di me al punto tale da restare qui stanotte, promettendoti la mia spalla affinché così ti regga in piedi.

E rivoglio troppo indietro quella che sei, per non farti questo: quello che tu irrazionalmente faresti, ma che intimamente non accetteresti mai perché, ancora, ti toglierebbe la scelta.

E sono egoista al punto tale da rivolerti indietro, anche se ti imporrò tutto questo e non ti farò decidere nulla. Io non sono il buono, non sono il puro, il principe: e quindi domani dimenticherai tutto, sarai di nuovo tu, avrai un ricordo fantasma di un anello di opale da non togliere mai, avrai la percezione di non aver parlato solo perché anatomicamente non ci riuscivi, ed adesso invece ci riesci.

Io voglio che tu abbia una vita urlata, gridata: che se sussurri, o biascichi, o mormori, sia solo perché parli ad un bambino, o fai l’amore con un uomo, o confidi un segreto. Non voglio in te la vergogna, la paura, il rimorso e il dolore che ti segano la voce in petto. Voglio che tu abbia un termine giusto per ogni cosa, da usare con precisione certosina: che quando il sole è alto nel cielo, tu sappia descrivere quella luce, che quando inizia a tramontare tu abbia un’altra parola, che quando sparisca tu ne sappia usare un’altra. Voglio che tu abbia una vita piena di parole da inventare e da gridare, di parole per accarezzare i cani, di parole per mangiare un gelato, di parole per baciare un uomo… anche se quell’uomo non sarò io.

E voglio che tu insegni quelle parole ad un bambino tuo, anzi ad una bambina tua, che tu sei nata per avere una figlia, così da perpetuare nel mondo l’esistenza di quella che sei e rendere felice un altro uomo, che potrà innamorarsi di un altro tuo riflesso.

E fosse anche una bambina con i capelli rossi… va bene così, Granger, basta che le parli, basta che tu le urli contro se corre.

Voglio che se tu abbia paura, o abbia bisogno di aiuto, chiami.

E voglio che la tua voce sia la prima cosa di te che si annunci in una stanza, mentre saluti la vita stessa.

Non sarò qui, a rendermi conto che questo accada davvero.

Non ci sarò, perché sono egoista e non voglio stare qui se non ti posso avere.

Ma vivi una vita urlata, Granger: non sei nata per il silenzio, sei una parola incarnata con dentro centinaia di milioni di altre parole. Ne conosco solo una manciata e già mi hanno fatto perdere la testa per te, come un idiota.

Questo, almeno, se puoi, non te lo dimenticare mai… Hermione.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


“Weasley se magari ti degnassi di spostare quel tuo testone rosso, potrei vedere anche io i voti finali…”.

“Come se non lo sapessi, Malfoy, che cosa hai avuto… ti sarai comprato tutti gli Eccellente…!”.

E con quali soldi, razza di idiota: mi hanno confiscato i beni.

Certo che i Weasley sono la famiglia peggiore di Maghi.

E dicessero ora che sono razzista… questo è semplice spirito di osservazione.

Spostatasi finalmente quella piattola della Weasley, Draco si avvicinò al pannello che esponeva i voti dei M.a.g.o. fino a che non trovò il suo nome: sospirò di sollievo nel constatare che la sua riga recava una lunga fila di E, la sua media era rimasta alta come sperava. Saint Suliac ormai era raggiunta, aveva spedito la pozione una settimana prima e gli avevano già fatto sapere che funzionava perfettamente e che era stata già testata su diversi soggetti problematici, che avevano risposto bene al trattamento. C’era solo da risolvere la questione dell’opale obbligatoriamente indossato, ma era una quisquilia.

Contiamo che a settembre lei possa proseguire con le ricerche in modo da ovviare a questo problema, signor Malfoy.

Era già un’ammissione ufficiosa, servivano solo i voti dei M.a.g.o. ed, una volta resi noti, avrebbero spedito la lettera formale. I suoi genitori erano stati avvisati qualche giorno prima e gli avevano risposto in un modo entusiasta che lo aveva sorpreso.

Sorpreso sì, perché i suoi, ormai, avevano una vita loro in America. Difficile da dire e difficile da negare, ma Draco si era scoperto contento, anzi felice di questo. Avevano comprato una casa bianca di legno sulla spiaggia a Martha’s Vineyard ed avevano fatto amicizia con una coppia di giovani maghi che vivevano lì vicino e che li aiutavano ad ambientarsi. Ma non era quella la notizia.

La vera novità era che sua madre, Narcissa, era rimasta incinta.

A gennaio sarebbe nata sua sorella, per cui già avevano scelto il nome Maia, una stella della costellazione del Toro: quella novità lo riempì di un senso di tenerezza e pienezza che non aveva a che vedere ormai più nulla con l’egocentrismo smodato dell’unigenito che era stato. Lucius e Narcissa, nelle loro lettere, sembravano riconciliati con la vita e Maia ne sarebbe stata il segno; e lui Draco, ormai non più bambino, provava la sensazione che si prova alla fine dell’estate, quando le foglie cadono e l’aria diventa fredda, e tu rimpiangi il sole rovente ma al contempo pregusti le mattine meno invadenti di luce. Lasci il posto ad altro, sapendo che non sarebbe stato migliore, ma solo diverso. Aveva ottenuto il permesso di passare quell’estate con i suoi, l’ultima da figlio unico. L’estate prossima, ci sarebbe stata Maia e Draco già se l’immaginava: bionda come lui, magari con gli occhi azzurri di sua madre, che gorgheggiava alle onde del mare con un accento diverso dal suo. Se l’immaginava portata naturalmente a fidarsi, dopo essere cresciuta in un bene meno nevrotico del suo. La vedeva attaccata ai suoi genitori ma più libera e più vogliosa di esplorare, perché i vecchi errori non si ripetono e Maia non avrebbe avuto dentro la zavorra di un cordone ombelicale, che lui aveva rescisso solo da poco. E Draco già l’adorava, in un modo ancestrale che si poteva chiamare solo sangue, quella sorellina, che avrebbe avuto sempre diciotto anni meno di lui. Era già tangibile, visibile, reale, stagliata nel suo orizzonte con la compiutezza del riscatto.

Mentre guardava ancora il pannello dei voti finali, Draco pensò che Maia non sarebbe mai venuta ad Hogwarts: sarebbe sicuramente andata alla St. Elizabeth, l’accademia magica americana. Non avrebbe mai conosciuto quella Sala, quel parco… e non avrebbe nemmeno mai conosciuto i colori delle Case.

In America i liberali le avevano abolite da un pezzo.

Non avrebbe conosciuto niente di tutto quello, forse neanche di Voldemort e della parte che aveva avuto la sua famiglia in quella storia. E Maia, quindi, non avrebbe mai capito la storia di Hermione Granger, quando avrebbe provato a raccontargliela, per spiegarle perché ha tante amiche da portarsi a letto, ma mai nessuna fidanzata. Ma d’altronde, pensava Draco, chissà se avrò mai la voglia di raccontarla davvero questa storia a qualcuno si voltò sospirando, inseguendo una voce alle sue spalle. Lo scuoteva come un terremoto, ma presto non l’avrebbe udita più, quindi andava bene anche sprofondare ed annegare e crollare e morire sconfitti, se sarebbe durata poco.

Hermione era seduta al suo tavolo da Grifone, circondata da una massa informe di persone che Draco non vedeva davvero. Aveva i capelli legati in una coda alta sul capo, gli occhi sereni e puliti, l’aspetto sano di una persona che aveva ripreso a mangiare e dormire regolarmente, le sopracciglia aggrottate di quando sentiva una sciocchezza ed essa era arrivata in quell’occasione da Dean Thomas, stravaccato accanto a lei.

Faceva sempre impressione a tutti, figuriamoci a lui, vederla aprire con normalità la bocca e parlare come se nulla fosse accaduto: la sua voce era tornata quella di sempre, limpida, cristallina, mai incerta, dai toni rotondi e fieri. Nessuno aveva capito come mai le fosse sparita e tornata all’improvviso, e nemmeno lei aveva spiegazioni, ma alla fine nessuno le aveva chieste. Era tornata e tanto bastava.

Rideva Hermione, gesticolando in modo acceso, mentre la Weasley le parlava sopra e lei, per nulla intimorita, continuava la sua filippica con un tono che non ammetteva repliche. Si mise nervosamente i capelli dietro le orecchie e Draco sospirò con tranquillità, l’opale era al suo posto, doveva essersi bevuta il ricordo che le aveva indotto e che le suggeriva di non toglierselo.

Anche quella visione, per Draco, ebbe il sapore della riconciliazione, ma contrariamente a quanto era avvenuto per la notizia di Maia, era un sapore arcigno ed aspro: certo, aveva fatto la cosa giusta, lo sapeva, ma era difficile comunicare a tutte le parti di sé quella idea e quel pensiero. Il cervello lo aveva capito, il cuore lo aveva accettato chiudendosi in sé e il sangue continuava a ribollire, vedendola ormai libera di volarsene tra le braccia di un altro. Seguì da lontano la linea delle labbra che continuavano ad aprirsi, soffiando fuori le parole che le fiorivano in gola: il ricordo del loro sapore bagnato lo spinse a voltare la testa dall’altra parte, allontanandosi finalmente dal pannello dei voti.

Tra qualche ora, l’espresso per Londra sarebbe partito, portandosi via per sempre il ricordo di quell’anno di bronzo acceso dagli occhi di Hermione Granger: l’avrebbe vista abbracciare alla stazione Harry Potter ed esitare un po’ alla vista di Ron Weasley. Poi l’avrebbe ugualmente abbracciato e l’avrebbe spiata mentre chiudeva gli occhi, una piccola lacrima spersa sul viso. Avrebbe accettato l’aiuto di Weasley padre per portare il suo baule, avrebbe messo un braccio attorno alle spalle di Ginny Weasley ed avrebbe continuato a ciarlare per ore su che cosa doveva fare quell’estate.

Draco, armeggiando con le sue cose in un binario privo di persone che lo aspettavano, l’avrebbe vista superarlo e l’avrebbe sentita dire accorata, con la sua voce ovvia: “Ma certo che devo studiare, ci mancherebbe anche che mi dimentico tutto quello che so!”. Potter e Weasley avrebbero risposto in modo ironico, mentre lei sbuffava, e tutti sarebbero scoppiati a ridere nell’ansia grata di riaverla lì.

Quando sarebbe stato certo che lei era lontana, Draco si sarebbe girato spiando la sua schiena per l’ultima volta, salutando una parte di sé che ancora non sapeva di che dimensioni fosse, ma che se ne andava via per sempre. Vivitela tutta, Hermione Granger, questa vita urlata. Fa che ne sia valsa la pena di tutto questo.

Addio... Hermione.

Avrebbe indugiato ancora un po’ sulla schiena di lei che era scossa dalle risate, sulla treccia che le ballava armonicamente alle spalle, sui passi adesso distesi ed ampi, sul suono della sua voce che echeggiava come campanelle: e poi con un sospiro, si sarebbe smaterializzato alla Passaporta internazionale, mentre la risata di Hermione Granger si attenuava nelle sue orecchie.

Nel binario nove e tre quarti, ormai deserto, Hermione Granger aspettava il suo turno per attraversare il passaggio del muro: quando rimase sola, si voltò su sé stessa con un sorriso, salutando una parte di sé che se ne andava via per sempre e che non sapeva ancora di che dimensioni fosse. Iniziava una nuova vita, non peggiore, non migliore, solo diversa: sarebbe stato il riscatto e la riconciliazione per la guerra.

Sorrise ancora, aperta, fiduciosa e grata, ancora una nebbia di lacrime commosse negli occhi. Se le asciugò con il dorso della mano, l’opale alla luce del sole le rimandò un riflesso iridescente negli occhi castani. Lo guardò con attenzione studiandolo, ricordandosi di averlo avuto in guerra da una strega che le aveva detto che le avrebbe portato fortuna e di non toglierlo mai. E lei, che scaramantica non lo era mai stata, ci aveva creduto: lo portava quando avevano vinto la guerra, doveva essere anche merito suo se era andato tutto bene.

Anche se… Hermione con un brivido ricordò le parole della strega: alcune, ossia le prime in cui le parlava dell’anello, erano chiare e nette; le ultime erano confuse e strane, sembrava persino che avesse cambiato voce.

Le aveva detto: Vivi una vita urlata, Granger: non sei nata per il silenzio, sei una parola incarnata con dentro centinaia di milioni di altre parole. Poi non ricordava che cosa altro avesse detto, fino al suo saluto, disperato, accorato…  questo, almeno, se puoi, non te lo dimenticare mai… Hermione.

Non se le era dimenticato: sognava quella voce ogni notte.

Quella voce le diceva parole che non ricordava e che tentava sempre di afferrare, ma che sfuggivano come acqua tra le dita. Ogni notte intuiva che quella voce non poteva essere quella della strega, ma ogni mattina il ritorno alla coscienza la convinceva che doveva essere per forza così.

Ogni notte, ogni singola notte, Hermione Granger ricordava quella voce, pur senza sentire le parole che diceva. Ed ogni notte, ogni singola notte, quella voce si faceva più distinta.

Una mattina qualunque, il risveglio le portò una convinzione ormai non più sradicabile.

Quella non era la voce della strega.

Era un’altra voce, da ragazzo, che gli sembrava di conoscere ma non che ricordava dove l’avesse udita.

Ricordava solo che lei, di quella voce, si era perdutamente innamorata.

 

 

Sai cosa, Ginny, non è che io possa dire di stare male… sono felice, contenta, rinata. Ho voglia di fare un sacco di cose, sento come se mi fossi addormentata e mi fossi svegliata solamente adesso. Come se la mia vita abbia iniziato ad appartenermi soltanto da questo momento… quando non riuscivo a parlare… io ricordo di essermi persa, di non essere esistita. E adesso io esisto davvero, esisto sul serio, mi riconosco nei passi, nei gesti, nelle parole, anzi soprattutto nelle parole… perché io stessa sono una parola incarnata con dentro centinaia di milioni di altre parole.

Ma Ginny, dentro, in fondo a me, nascosto, quasi invisibile, c’è un buco.

Un vuoto che risucchia tutto il resto.

È una mancanza continua, di qualcosa che non riesco nemmeno a capire che cosa sia.

Ci sono momenti, momenti qualunque dove succede la cosa più stupida e io scoppierei a piangere di nostalgia.

I fuochi d’artificio… mi fanno piangere. Mi danno la sensazione di un vuoto d’aria nello stomaco e poi il sollievo come quando ti metti ad urlare… e poi l’odore della carta, Ginny, l’odore della carta è uno strazio continuo, che tipo vado a pezzi ogni secondo, e mi volto in giro e non so nemmeno io che sto cercando, ma ogni cosa che faccio, ogni cosa che leggo, mi punge dentro di questa mancanza. E la pozione guaritrice, mi mette ansia, terrore, tutt’ad un tratto… e in guerra io non l’ho mai usata…  perché ne ho paura, adesso, come se mi ricordasse che stavo per perdere qualcuno? E poi ci sono dei fiori… piccoli con la corolla rotonda, violacei… e se li vedo, mi si stringe qualcosa dentro. Proprio stringere, strizzare, come se mi dovessero sputare fuori. E la pioggia, Ginny, la pioggia… mi fa arrossire. Mi incendia come una foglia secca. Ci credi, Ginny? Ci credi?  La pioggia, che fa fresco… a me la pioggia fa sentire caldo, e mi bagno, e ad ogni goccia che filtra sul collo, è come… non so come spiegarlo… è come essere baciata. Già baciata, ecco, Dio… è come essere baciata dalla persona che ami di più al mondo, e che te la vuoi tenere vicina per sempre, e che se si allontana tu improvvisamente cessi di esistere, e non sai nemmeno come fare a tornare indietro.

Il buco dentro si risucchia quella che sono, e sputa fuori tutto questo.

Tu dici che è normale, che forse è una reazione alla guerra, alla mancanza della voce, alla separazione da Ron… e magari è così, magari hai ragione. Forse sono diventata ipersensibile e voglio solo ricominciare disperatamente a vivere.

Però Ginny, spiegami… perché se è vero tutto questo, perché se in fondo è una cosa bella, perché se è una cosa normale, sana, meravigliosa, perché se voglio solo continuare a vivere, perché se in realtà non mi manca niente, perché se è tutto questo, Ginny… … perché allora non smette un secondo di fare male?

 

 

Draco Malfoy, nell’estate dei suoi diciannove anni, si concesse il lusso di possedere qualcosa di babbano.

Sembrava ormai anacronistico mostrarsi disgustati verso qualsiasi cosa non fosse approvato da generazioni di maghi, e sarebbe bastato semplicemente inarcare un sopracciglio scettici per non essere scambiati per improvvisi babbanofili convinti. Del resto, era la vita stessa ad andare in quella direzione.

A Martha’s Vineyard, di babbani c’erano a grappoli: ricchi, biondi, alti, con occhi azzurro-grigi e lineamenti affilati, inaspettatamente più simili ai suoi genitori di quanto fossero stati i purosangue inglesi. E i vicini di casa con cui Narcissa e Lucius avevano stretto amicizia erano mezzosangue. Anch’essi ricchi, biondi, ma indiscutibilmente mezzosangue. C’erano ancora momenti in cui, in particolari discorsi, si scontravano aspramente, ma i Malfoy avevano imparato nei mesi dell’esilio una maggiore tolleranza e predisposizione all’accettazione. Intimamente, erano convinti ancora della differenza tra le razze dei maghi, ma il mondo era andato talmente a scatafascio con Voldemort, minando alla serenità della loro famiglia, che ormai erano solo idee stantie e vecchie, che abbandonarle era impossibile, ma rigettarle era almeno auspicabile.

Se si voleva che tutto restasse com’era, tutto doveva cambiare: e per guadagnarsi la loro nicchia di agi, i Malfoy pragmaticamente avevano intuito che, in America, l’aria era diversa. Nessuno nemmeno proponeva una distinzione tra maghi, addirittura molti babbani erano informati del mondo della Magia.

Per sopravvivere, quindi, avevano dovuto adattarsi in fretta, avendo peraltro in questo un’eccellente insegnante: Andromeda Black, la sorella di Narcissa, riaccolta e perdonata dopo le sciagure presenti, soprattutto dopo la morte di Bellatrix Lestrange ed assurta ai ranghi di più idonea insegnante del mondo nuovo, che era appena nato. Andromeda era a Martha’s Vineyard una settimana sì e l’altra no, divisa dalla gestante sorellina solo dai suoi doveri di nonna dello scapestrato ed orfano nipotino, Teddy, affidato a Molly Weasley nei periodi in cui la nonna non c’era. Era stata Andromeda ad insegnare a sorella e cognato come muoversi in quel mondo estraneo e potenzialmente nemico, a trarne nei mesi persino piacere, ad inserirsi con cautela, finché le sue visite si erano fatte solo di cortesia, quando Narcissa aveva scoperto di aspettare Maia.

Ad inizio luglio, quando andò ad accogliere il nipote Draco alla Passaporta, Andromeda sospirava per il caldo e la fatica che gli sarebbe spettata con il giovane Malfoy: ricordava un ragazzetto razzista, pavido, pallido come un morto, dai capelli biondi slavati e dallo sguardo viziato e presuntuoso. Voleva sinceramente bene a sua sorella, era contenta che finalmente le cose stessero andando meglio, ma temeva fortemente che non sarebbe riuscita a sradicare dalla testa di Draco tutti i pregiudizi che diciannove anni di vita gli avevano inculcato, rinvigoriti dall’avere sempre avuto vita facile e capricci esauditi.

Ma alla Passaporta, arrivò un giovane uomo alto, bello, dalla postura eretta e dal passo sicuro. Aveva un colorito ben più roseo del solito, capelli rilucenti al sole e un fisico solo più magro, sotto la polo azzurra. Gli occhi di Draco ad Andromeda parvero subito spenti, tristi, cupi, piegati da un velo che il nipote egocentrico che aveva conosciuto in modo casuale, non aveva mai avuto. Per tutti i tre mesi in America, non perse mai quello sguardo, ed esso diventava fondo come l’inferno quando Andromeda si ritrovava a parlare di Teddy e delle sue avventure alla Tana. Lì, Draco le pareva attento, curioso, seduto quasi sull’orlo delle sedie, in tensione: interrogato, però, negava, diceva solo che voleva conoscere il figlio di sua cugina. Un giorno, però, per caso, accadde che Andromeda nominasse “quella graziosa ragazza nata babbana che è tanto amica di Harry Potter e che credo che sia la fidanzata di Ronald”: Draco si alzò bruscamente dalla sedia, che ricadde indietro con un tonfo sordo, e disse che aveva bisogno di farsi una doccia, lasciando la stanza.

Ad Andromeda questo comportamento parve persino più strano di quando lo aveva visto armeggiare confuso con un cellulare, chiedendo numi alla zia: non lo usava mai in sua presenza, eppure si era fatto erudire su ogni aspetto del suo funzionamento, dalle chiamate internazionali a quelle anonime, a come interrompere bruscamente una telefonata, alla possibilità che si capisse da dove la telefonata giungesse.

Interrogata Cissy, Andromeda non ebbe delucidazioni: la sorella, preoccupata, disse solo che doveva aver trascorso un anno difficile e solitario ad Hogwarts e che, sebbene nelle lettere non ne avesse volutamente fatto parola, questo l’aveva cambiato profondamente. Tutti erano cambiati profondamente, pensò Andromeda con un filo di comprensione frammista alla sofferenza per il ricordo della sua bambina persa in guerra: era contenta che questo fosse avvenuto anche a Draco. In fondo, era decisamente diventato una persona migliore. Se ne chiedeva solo il prezzo, ma, non avendone spiegazioni, ben presto abbandonò l’osservazione maniacale del ragazzo, curandosi solo di essere presente nei momenti in cui Draco voleva la sua compagnia.

Che non erano molti: Draco adorava passare le giornate in spiaggia, da solo, in una caletta dove veniva pochissima gente. Si alzava all’alba, correva lungo il bagnasciuga per un paio di ore e poi nuotava fino a mezzogiorno. Stava con la sua famiglia solo il pomeriggio, intervallando spesso tale frequentazione con lo studio per Saint Suliac. Di sera usciva e nessuno sapeva dove andasse, lasciando Lucius, Narcissa ed Andromeda ad interrogarsi senza però il coraggio di porre domande a quel nuovo ragazzo chiuso, eppure gentile e maturo, che era arrivato dall’Inghilterra e che dopo i primi abbracci e saluti, sembrava vivere in un mondo suo, da cui non voleva essere distolto e disturbato. Non era facile per i suoi genitori avere a che fare con questo nuovo Draco, ma non ne erano eccessivamente impensieriti: sembrava semplicemente cresciuto, anche se a prezzo di sofferenza e dolore ben scavati negli occhi grigi. Ogni genitore sarebbe stato fiero di un figlio che cresce e che trova la sua strada, vista l’ammissione a Saint Suliac: ben presto Maia, con ancora un’età da verdeggiare davanti, avrebbe coperto le crepe di affetto e di calore che Draco, non più bambino, rifiutava con decisione educata e dolce. Narcissa e Lucius, osservandolo uscire dalla terrazza della loro casa di legno bianco, si auguravano solo che andasse da altri ragazzi, da un’amica, da un amore speciale che colmasse le sue ferite. Ma, dopo un sospiro ed uno sbadiglio, come ogni genitore, affidavano il figlio ad un mondo friabile e che può fare del male, con la fiducia che bisogna sempre dare al sangue del tuo sangue.

Ma non potevano concretamente sapere che cosa Draco facesse e che cosa si agitasse nel suo animo.

Draco Malfoy, semplicemente, tornava alla caletta seminascosta ogni notte.

Protetta da una scogliera, il golfo era frequentato solo da amanti smaniosi di pace, che comunque rifuggivano il ragazzo biondo seduto sulla sabbia che passava il tempo a scrutare il mare argenteo di luna.  Solo qualche volta, vi si spingevano piccoli capannelli di ragazzi che accendevano un fuoco, passando il tempo suonando la chitarra. Ma neanche loro degnavano eccessivamente di attenzione Draco, che era sempre lì, ogni notte indipendentemente da come stesse o da come si sentisse. Cambiavano solo le sue abitudini.

Se era triste, e Draco era avvezzo da anni alla tristezza, se ne stava semplicemente immobile a guardare la luna muoversi nel cielo: la conosceva bene la tristezza, era una fidanzata petulante e gelosa che reclamava attenzioni piagnucolando. Ed allora la dovevi convincere che eri il suo solo pensiero. Guai a provare a distrarti, guai ad ignorarla, guai a fare finta che non esistesse. Trovava una strada peggiore per farti male.

Ma se la giornata non era stata cattiva come le altre, Draco alla sera era un’anima in pena. Raggiungeva la spiaggia quasi correndo, si gettava sulla sabbia come se avesse perso l’equilibrio, restava disteso a guardare il cielo con l’ansia che gli formicolava nelle ossa. Bastava poco per renderlo anche solo sereno, la felicità era qualcosa che ormai considerava rinviata a data da destinarsi: ma se aveva notato la curva della pancia di sua madre crescere sotto un vestito a fiori, se aveva visto suo padre ridere dopo anni in cui non lo faceva, se aveva sentito sua zia parlare di sua figlia senza piangere, se aveva notato che il mare aveva lo stesso odore di quello inglese, se un passante lo aveva ringraziato per strada, se una ragazza gli aveva sorriso, se un cane gli era corso incontro scambiandolo per il suo padrone, se da Saint Suliac gli scrivevano appunti su cosa portare ad ottobre… bè, la sensazione di sollievo e benessere durava solo poche ore. La serenità era una moglie attenta, mai invadente, che ti lascia libero di andare, anche se teme che tu la tradisca; e magari tu lo fai, ma poi torni da lei, sempre, il petto pieno di spilli di vergognosa colpa. Ecco, come si sentiva. In colpa.

Quando la malinconia tentava di scolorire e sparire, Draco si ricordava perché era malinconico, triste, arrabbiato, sconvolto, chiuso. Era il solo segno rimasto a dimostrargli che Hermione Granger era esistita, c’era stata, aveva avuto le braccia attorno alle sue spalle, le labbra sulle sue, il respiro accanto a lui. Ed allora correva alla caletta, prendeva il cellulare tra le mani e componeva senza nemmeno pensare un numero di telefono, la cui sequenza lo avrebbe portato dall’altra parte del mare e del cielo, nel pomeriggio dolce di luce della campagna londinese. Mentre sentiva lo squillo familiare, sapeva già che probabilmente lei non avrebbe risposto, aveva solo il numero della Tana, era quello che chiamava. Se anche ci fosse stata, le probabilità che rispondesse lei erano basse, in quella casa piena di gente zotica. Ma la speranza mai moriva, mai cessava. Bastava sperare che rispondesse, sperare che ci fosse, sperare che parlasse vicino al ricevitore, facendo rotolare una parola fino alle sue orecchie, così da ricordargli che era esistita e da rassicurarlo che stesse bene.

La voce, in fondo, era il segnale che la pozione continuava a funzionare.

Diceva di farlo solo per controllare che la pozione funzionasse.

Hermione, però, non rispondeva mai a quel telefono, non parlava nelle vicinanze del telefono e a Draco spettava sorbirsi la voce annoiata e scocciata di Ginny Weasley, o della madre, o del padre, cosa che suonava ulteriormente come una beffa. A volte sentiva il pianto di Teddy Lupin, ma nulla più di questo.

A quel punto, rassegnato, annegava nella sua apatia, si chiudeva nella fiducia smorta per la sua pozione e ritornava a guardare il mare. In ognuna di quelle onde, si nascondeva una piega di Hermione Granger, lontana, vicina, d’argento e d’acqua, resa un po’ più reale dal ricordo che era esistita.

Stava meglio, la serenità era scomparsa, sostituita da un’annacquata sensazione di giustizia dolorosa. Giustizia sì, verso quel sentimento mai morto che non aveva ancora bisogno di stingere e a cui si aggrappava come se fosse il solo appiglio rimasto nel mondo… e giustizia anche intrinseca, di sapere sempre e comunque, nonostante il dolore e nonostante tutto, che aveva fatto la cosa giusta. A quel punto, intimamente, ringraziava che lei non avesse risposto perché non aveva bisogno di ricordare la sua voce, sapendola rivolta ormai a tutti, e non più solo a lui. Più calmo, si chiudeva di nuovo nel suo silenzio quieto.

L’estate passò più velocemente di quanto si aspettasse: ben presto, la terra si tinse di ruggine ed oro e fu tempo di partire per la Francia. Abbracciò sua madre con la coscienza che, quando l’avrebbe rivista, non avrebbe avuto più quella pancia a dividersi da lui, ma ci sarebbe stata Maia tra le sue braccia; salutò suo padre con il sollievo di averlo visto libero dai suoi fantasmi ed ormai pacificato con la vita stessa; si congedò da sua zia Andromeda, affidando al suo corpo esile la rivoluzione copernicana della famiglia Malfoy/Black.

Lo studio lo travolse quasi subito, non appena iniziò a frequentare le lezioni e a trascorrere le ore nei laboratori sotterranei a mescere pozioni: sebbene fu indirizzato da subito al perfezionamento della pozione che aveva usato su Hermione, Draco riusciva a convivere pacificamente con il suo ricordo, stremato dalla stanchezza e dal lavoro. Nei momenti liberi, annegava nello sconforto, ma essi erano davvero pochi fortunatamente: Saint Suliac sembrava un’oasi in mezzo ad un deserto. L’accademia sorgeva in una piana, seminascosta dalle montagne e da un villaggio di case colorate: aveva un parco grande di betulle ed aceri, il clima era mite ma spesso uggioso, gli abitanti erano severi e distanti.

Sembrava di essere tornati alla caletta a Martha’s Vineyard, con la consolazione di avere molto di più da fare.

E sebbene Draco sentisse che l’animo e il cuore, pian piano, si anestetizzavano e sotto imputridivano, condannandolo ad un futuro di sempre maggiore solitudine e distacco, al momento non se ne preoccupava.

Poteva illudersi di stare andando avanti, quando invece aveva solo scavato una fossa, gettandosi dentro.

Sarebbe rimasto sepolto vivo, marcendo e decomponendosi piano, senza nemmeno rendersene conto, convincendosi che era sereno ed illudendosi di essere vivo per il fatto che mangiava, dormiva e respirava. E se anni dopo, da vecchio, avrebbe concluso che invece era morto da secoli e non se n’era accorto, sarebbe stato tardi per dolersene troppo. Avrebbe detto misantropo, guardando l’altra gente, che non era nato per essere padre, avere figli, amare una donna ed essere riamato: era nato per la pozionistica e tanto bastava.

Hermione Granger sarebbe stata cedro e vaniglia soffusi, soffocati in un tessuto estivo.

Tutto sarebbe andato così, senza sforzo.

Se non fosse stato per quel 18 ottobre, piombatogli tra capo e collo prima ancora di morire del tutto.

 

 

L’alba del diciotto ottobre iniziò nella maniera più consueta per Draco Malfoy. Era una domenica, cosa che significava nessuna lezione e aule e laboratori deserti. C’era anche una festa in un paese vicino, con giostre e bancarelle, e molti studenti si erano alzati di buon mattino per fare una gita. Brigitte, la compagna di progetto di Draco, lo aveva invitato ad unirsi a lei, ma lui aveva declinato gentilmente l’invito.

Era una di quelle giornate che adorava: il vento era freddo, spirava tra le montagne e portava la promessa della neve lontana. Il sole, però, era comunque incastonato nel cielo, aveva una luce bianca ed accecante, rinvigorito dal vento che aveva spazzato tutte le nubi. Aveva piovuto per cinque giorni consecutivi ed adesso il parco respirava di rugiada, brina e calore sottile e lieve.

Draco, dopo colazione, si affacciò ad una finestra e respirò l’aria buona del parco, colma di resina e pioggia che evaporava piano. Chiudendo gli occhi, decise impulsivamente che avrebbe studiato all’aperto le statistiche degli ultimi esperimenti sul biancospino in grani: di solito, evitava la luce e il parco peggio di un vampiro, costringendo Brigitte a lavorare al chiuso. La ragazza sbuffava e lo rimproverava spesso, ma più gente c’era, più era improbabile che Draco si convincesse. Ma con quella gita inattesa e quella domenica calma, nessuno si era avventurato nel parco, quindi Draco con un sospiro si concesse di sedersi sotto una quercia, vicino ad un laghetto coperto di ninfee, la schiena appoggiata al tronco di un albero, le gambe piegate e le carte sparse malamente davanti a lui ed incantate per non volare via. Il tempo trascorse velocemente senza che Draco se ne rendesse conto, finché, il sole già alto nel cielo, si appisolò con la nuca poggiata alla corteccia, gli occhi socchiusi, vinto dalle mille differenze dei fiori di biancospino da quelli di bucaneve. Sotto le palpebre chiuse, scivolarono impressioni e frammenti di sensazioni lontane, che si avvitavano tutte attorno ad un profumo ormai dimenticato: cedro e vaniglia. Era tutto impalpabile, lieve, soffuso, al punto che non riviveva davvero nulla. Non riusciva nemmeno ad avere quel sollievo agrodolce, la sua mente aveva ormai talmente censurato quei ricordi, da concedergli solo il vezzo della sterile rivisitazione senza contorni precisi. In ogni caso, erano ormai settimane che Draco non sognava più Hermione, l’ultima volta era accaduta la sera prima di partire da Martha’s Vineyard. Non ci era decisamente più abituato e la cosa lo fece risvegliare di soprassalto, madido di sudore, ansimante.

Il parco era ancora il quadro ad acquarelli di poco prima, eppure Draco, asciugandosi la fronte con una mano, sentiva, percepiva, avvertiva che era tutto diverso adesso. Il sogno era stato così reale che ancora adesso gli pareva di sentire l’odore di Hermione. Persino i colori parevano distorti, più vividi, intensi, da bruciare la retina. Forse era stanco ed aveva bisogno di dormire, si disse Draco ansiosamente, alzandosi in piedi e preparandosi a tornare all’interno dell’accademia così da riposarsi un po’. Il progetto si stava succhiando via tutte le sue energie e la sua referente, la professoressa Haylee Mandrake, pretendeva sempre il massimo.

Questo, evidentemente, lo stava portando all’esaurimento. Scuotendo il capo, ancora scosso, Draco raccolse le sue cose, si tolse dei fili d’erba dai pantaloni e ruotò su sé stesso.

“Malfoy?”.

Una voce, una sola singola voce lo fece fermare, congelato.

Non era possibile, doveva essere ancora l’effetto di quel maledetto sogno. Voce da bambola, voce da usignolo, voce scomparsa e rinata, lieve come un petalo di seta eppure forte, stoica, decisa, come roccia e lava fusa. Proveniva da un punto imprecisato alle sue spalle, un punto troppo vicino, ormai prossimo, come se fosse dietro di lui. Ma non era possibile, adesso il vento si sarebbe catturato giocondo quel refolo rassomigliante alla voce di Hermione Granger, il cuore si sarebbe acquietato sconfitto nel petto e si sarebbe maledetto ancora e per sempre di essersi innamorato di quella donna, di averla lasciata andare, di non averla lasciare andare prima, di amarla ancora, sempre, domani e ieri, oggi e comunque. Si voltò di scatto, terreo, spaventato, convinto di doversi piegare ad una crudele fantasia.

Ed invece Hermione Granger era lì sul serio, ad un passo da lui: la sorpresa fu tale che non riuscì a dissimulare tutto quello che gli esplose sul viso repentinamente ed arrossì in modo furioso.

Non poteva essere lei, non così, non adesso, non in quel modo: era diversa, enormemente, dalla ragazzina che aveva lasciato ad Hogwarts e dalla fanciulla spaurita che aveva tenuto tra le braccia così tante volte. Era come se fossero passati mille anni e mille secoli, era bellissima sempre e comunque, ma di più, perché sembrava felice, serena, rilassata, come si era sempre augurato per lei. Aveva i capelli più lunghi e più chiari, colmi di riflessi color oro brunito, ma erano lisci, ordinati, lucidi. Un ciuffo le copriva lateralmente parte del viso… e già aveva voglia di spostarglielo con la mano, di sentire sotto le dita la grana morbida della pelle, di scoprire gli occhi che intravedeva solamente, perché non bastava, dovevano essere nei suoi, caldi, marroni, liquidi. Era abbronzata, sembrava appena tornata da una lunga vacanza, ed era vestita con un semplice paio di jeans ed una maglietta rossa. Il corpo aveva recuperato forme e fogge di un tempo, più sane, più floride. Lo sguardo sembrava pulito e sereno, normale, solo le sopracciglia erano aggrottate dalla sorpresa di trovarlo lì.

Draco, il cuore in gola, il respiro assente, la voce annullata, ebbe solo la forza di guardarle la mano sinistra, dove ancora splendeva la luce iridescente dell’opale. Si sgonfiò tutt’un tratto, ricacciando desiderio ed amore, angoscia e speranza, felicità e sconfitta, nel fondo dello stomaco. Era un caso, amaro e maledetto, che fosse lì: non si ricordava di lui, non aveva memoria di niente. Ed andava bene così, ovviamente.

Va bene così… che ti amo, è sempre stato un problema mio.

Che ti cancellerei quel broncio sulle labbra baciandoti con tutta la forza che ci so mettere, è un problema mio.

Che ti rovescerei su quest’erba e ti spoglierei lentamente, lasciandoti tutto il tempo di dirmi di no ma pregandoti, implorandoti di non farlo, è un problema mio.

 Che se non ti avessi vista adesso, avrei pensato che tu non fossi mai stata così bella come il giorno che ti ho baciato ed invece lo sei diecimila volte di più adesso, è un problema mio.

Che adesso so e credo e temo e mi auguro che non ti dimenticherò mai e ti amerò sempre, è un problema mio.

Che mi sei mancata più di quanto sia umanamente possibile sentire la mancanza di qualcuno, è un problema mio.

Che dopo questo mi mancherai ancora di più, è un problema mio.

… è tutto, sempre, solo un problema mio.

Parla adesso, sogno stupido della mia mente idiota.

Dimmi che sei tu, dimmi che sei sempre tu, dimmi che sei rimasta tu… ed ancora, a costo di sangue e lacrime, andrà bene così.

Basta che resti sempre un problema mio… e mai tuo.

“Granger… che diamine ci fai qui?” commentò Draco asciutto, recuperando l’autocontrollo, ancora poco convinto che lei non fosse uno scherzo della sua mente. Ma Hermione ebbe una reazione troppo naturale per pensare che il suo cervello si fosse fatto così accurato e Draco dovette concludere che era reale, chiedendo silenziosamente al Dio che mancava sempre nelle sue preghiere, di quale colpa arcana si fosse macchiato per incorrere anche in questo, specie se, per la prima volta nella vita, aveva fatto qualcosa da buono, e non da bastardo codardo doppiogiochista quale era sempre stato.

Hermione fece una smorfia buffa, mostrando quanto fosse incredula che lui fosse lì, e bofonchiò: “Sto facendo una ricerca… devo incontrare una professoressa di qui… ma tu, invece… studi qui?”. Il suo tono scettico gli fece più male che farlo arrabbiare, era lì grazie a lei. Trattenne il tonfo sordo nel petto, socchiudendo gli occhi, Hermione lo guardò curiosamente, piegando la testa di lato.

“Già… che tu ci creda o no, qui gli insegnanti non hanno i loro paladini da preferire a discapito di quelli realmente capaci…” la sua voce stridette nelle sue orecchie così tanto da dargli la nausea, al punto che dovette sedersi per combattere l’istinto di vomitare. Mettere su quella maschera, quelle vestigia di passato ormai consunto era troppo… ma quello era il solo Draco Malfoy che Hermione Granger conosceva, era il solo che si aspettasse. Non poteva fare altro, non poteva fare null’altro. Sperava solo che se ne andasse via quanto prima, gli mancava il fiato ed aveva una paralisi alla mascella a furia di mantenere quell’espressione. Ma, ancora, quel Dio dell’alto dei cieli che si dice buono, ma con lui giocava al gatto e al topo, non era di quell’avviso. Hermione, infatti, sorrise cautamente e si sedette accanto a lui, abbracciandosi le ginocchia prima di commentare piatta, senza partecipazione: “Ma guarda un po’… la vita è sempre piena di sorprese…”, lo guardò con aria compita prima di sussurrare, sforzandosi di essere gentile: “Complimenti allora, so che questa è un’accademia molto prestigiosa…”.

“Così si dice…” biascicò Draco in risposta, stringendo tra le mani un ciuffo d’erba e trattenendosi dall’estirparlo con rabbia e sconfitta dolente. Hermione seguì il suo movimento in silenzio, trattenendo con una mano i capelli smossi dal vento, poi sorridendo un pochino di più, mormorò: “Ti direi che sono contenta per te, ma tu probabilmente non ci crederesti, vero?”.

Draco sospirò, era come essere intrappolati in un pessimo film, costretti a recitare una parte dalle battute scadenti e dai cliché gratuiti: “Penserei che hai preso una botta in testa, sì…”.

“Ed allora non ti dico niente…” sorrise ancora lei, abbracciandosi le ginocchia e poggiando il mento su di esse. Lo guardava in modo attento, curioso, gli occhi screziati pieni di lucciole. Lo faceva sentire a disagio quello sguardo,  certo, lei nei mesi lo aveva abituato ad essere guardato così, ma questa ragazza che piombava in una mattina qualunque nella sua vita, aveva solo il suo aspetto, non le sue memorie. Era una sconosciuta in fondo. In lei, era evidente l’interesse accademico consueto che la contraddistingueva, la voglia di fargli domande, il desiderio di capire. Era sempre stato il suo punto debole, lo sapeva. E adesso, infatti, ne era scossa dall’interno: quello sguardo acceso, quelle guance rosse, quelle labbra morse per trattenersi dal parlare erano solo per quello. Ma, ovviamente, a lui non andava di parlare con lei, di inseguire negli occhi una lei che non esisteva più. Stava già per alzarsi ed andare via, quando Hermione ruppe gli indugi e gli chiese, la voce affrettata ed un po’ imbarazzata: “Stai facendo delle ricerche in particolare?”.

Avvertiva dentro un vuoto d’aria, la sensazione scomoda che gli succhiassero il respiro dai polmoni. Non ce la faceva più, davvero. Blaterò sconfitto, con voce acida: “Come mai tutto questo impeto di conversazione civile, Granger?”. Hermione, per un attimo, gli parve spaurita, persa, abbandonata a sé stessa, infinitamente piccola e fragile. Si chiuse nelle spalle ed accusò il colpo. Poi, ovviamente, si riprese, lo guardò fissa e mormorò: “La professoressa è in ritardo e mi annoio… e poi andiamo, che siamo rimasti ai tempi della scuola? Non penso nemmeno che tu creda ancora alle chiacchiere dei Mezzosangue che ti appestano se ci parli…”.

Ti appestano se parlano solo con te per nove mesi, se li baci, se li sogni, se ti fai contaminare l’anima da loro al punto che adesso vorresti essere morto, pur di stare ancora qui, a parlare con un miraggio di paradiso di una donna che non c’è più.

So che stai bene, so che sei felice, so tutto: non potresti adesso lasciarmi in pace? Non puoi farlo? Ancora, avida, mi vuoi per te?

Ti sei già presa tutto, dannata strega: questo, già, non sono più io.

Ti ho restituito a te stessa e in cambio, ho perso me stesso.

Un me stesso inutile, sciocco, becero, codardo…  ma ero sempre io.

Adesso sono nebbia e brace di un sogno estinto. Per favore, lasciami in pace.

Dovette sforzarsi Draco di rispondere in modo tranquillo, facendo anche ironia: “Tecnicamente ti appestano se li tocchi, non se ci parli…”, poi si rese conto ancora che questa Granger era solo un’ombra, non era la sua. Questa era quella che non era mai stata nemmeno per un secondo sua. Doveva solo far finta di niente. Prima lo faceva, prima sarebbe finita: “… comunque sì, sto lavorando su una pozione sulla memoria…”.

“Una cosa complicata… ma interessante se ti riesce!” biascicò lei sinceramente colpita, e per un attimo Draco fu anche contento di averla lì. Come se fosse fiera di lui. Hermione socchiuse gli occhi, guardandolo di sbieco, prima di concludere: “Non pensavo che fossi a questo livello avanzato…!”.

“Dicono che la vita è piena di sorprese…” sorrise lui, amaro.

“L’ho sentito dire anche io…” sorrise Hermione di rimando, un fulmine le passò negli occhi ma si spense subito, mentre lo incalzava: “Dai racconta, Malfoy! Recupero della memoria, quindi?”.

“No… perdita di ricordi… d-di ricordi traumatici…” mormorò lui, sembrava uno scherzo dirlo proprio a lei, ma se la vita si era presa questa giornata storta, tanto valeva assecondarla. Anzi doveva assecondarla, non è che ci fossero alternative. Proseguì disteso: “Prendi un soggetto che ha avuto una brutta esperienza e fai sì che gli si cancelli la memoria in modo settoriale, solo in riferimento all’esperienza negativa. Così si può procedere ad una piena riabilitazione…”.

“Ed ovvi agli effetti collaterali dell’Oblivion, certo…” commentò meditabonda lei, grattandosi una guancia in modo pensoso “E funziona?”. Ancora, un fulmine negli occhi, veloce, rapido, dalla vita corta. Stavolta Draco se ne accorse, sospirò, doveva pensare che stesse esagerando volutamente le sue doti.

Ribatté stanco, fingendo un risentimento lontano anni luce: “Certo che funziona, Granger…  non mi farebbero stare qui, altrimenti…”.

“L’ho capito… non ti volevo offendere…”.

“Mi volevi offendere, ma non è una novità…”.

Siamo davvero alla pessima commedia, adesso.

“Non volevo offenderti, o almeno non adesso…” concesse lei alla fine, e gli parve anche lei stanca, sfibrata, demotivata tutt’un tratto “Dico solo che un pozionista mediocre non riuscirebbe davvero a cancellare compiutamente la memoria di una persona, c’è troppo in ballo… insomma, fino a quando si parla di fatti o di eventi, è un conto… ma le sensazioni sono ben altra cosa, si radicano dentro ed è difficile estirparle, no?”.

Ce l’aveva davanti l’esempio che tutto si cancella, tutto, e niente viene risparmiato. Si trattenne dall’urlarle conto e disse annoiato: “Mah… le sensazioni sono sempre legate ai fatti, cancella i secondi e cancelli anche le prime…”. Quanto era idiota, stupido, inutile stare bloccati in quella conversazione sterile, a fingere che? Di essere amici, di conoscersi, di essersi stimati? Tutto questo, per lei, non era mai esistito… e per lui comunque tutto faceva schifo ugualmente. Non era questo che c’era stato.

Improvvisamente a Draco parve che lo capisse anche lei: si alzò in piedi, velocemente, come punta da un insetto, e gli diede le spalle, guardando verso l’accademia. Aveva le spalle piegate, il respiro accelerato e parlava con voce sottile ed acuta: “No, non è così, Malfoy… pensaci…”. Ancora, voleva ribatterle urlando, ma lei lo precedette proseguendo: “Immagina un ricordo legato, che ne so… alla pioggia, ecco”. Draco sussultò, guardando la sua schiena, di tanti esempi che stavano proprio quello doveva prendere? Ma aveva già concluso che era una giornata da vendetta divina, quindi non si preoccupò, ascoltava le sue parole con disinteresse. Il tono, però, di Hermione, rapido, gli scivolò nel sangue: era accorato, colpito, coinvolto. Lentamente più vivido, più scolpito, più tremante. Ad ogni parola, d’improvviso, gli tremava il cuore.

Hermione, non guardandolo ancora, proseguì, cercando di mantenere un tono piatto: “Un ricordo che ti viene portato via, che ti viene cancellato, che ti viene estirpato, che ti viene estorto perché magari è collegato ad un altro, infelice, amaro, triste. E quel ricordo, però, ti ha reso felice, completo… quella sensazione si attaccherà per sempre al suono della pioggia, al suo odore. E non ricorderai il perché, ma sarai sempre felice nei giorni di pioggia…”, la ragazza fece una pausa e sussurrò quasi a sé stessa: “Come se fossi amata”.

Draco si alzò in piedi velocemente, il viso in fiamme, la mente narcotizzata, mentre lei proseguiva con voce più flebile, quasi disperata: “E non è una bella sensazione, Malfoy, camminare per strada con il vuoto dentro, scavato, con una mancanza così letale di una cosa che non sai e che ti fa impazzire, e che si nutre di frammenti di sensazioni. Ti senti condannato a vivere a metà, per sempre in un limbo dove non sei mai triste e mai felice”. Draco strinse i pugni, mentre Hermione si voltò, e già sembrava un’altra, già era diversa, già gli occhi erano più dolci, tristi, meno liquidi, già adesso tutto sembrava una farsa, una finta, già adesso notava meglio i movimenti delle dita che tremavano, già adesso distingueva il luccichio sinistro degli occhi, già adesso distingueva quanto la voce gli sembrasse acuta perché era tesa come una corda a fingere anche lei.

Si asciugò in silenzio, quasi con rabbia, una lacrima che le aveva velato il viso, prima di aggiungere incolore: “Credimi, un pozionista in gamba non dovrebbe mai tralasciare le sensazioni”.  

Draco seguì la linea tracciata da quella lacrima, ne seguì il tragitto sulle labbra, trattenne il sollievo e fece rinascere la paura. Un sospiro di fiato, e mormorò, stringendo i pugni: “Tu… tu ti ricordi tutto, non è così?”.

La sua voce gli sembrò quella di un bambino, che vede qualcosa che ha sentito raccontare nelle fiabe diventare tangibile davanti ai suoi occhi, eppure non ci crede lo stesso. Fu uno e trino, in un istante.

C’era, da una parte, lo scienziato, il pozionista, il saggio: presuntuoso, sicuro, non ingannabile, imbottito di cifre e calcoli. Quello che aveva studiato quella pozione per mesi e che ne sapeva ogni effetto collaterale, e che sapeva che non lasciava scampo alcuno. Il paziente non ritornava mai alla memoria, mai, specie con l’opale indosso. E la Granger lo indossava ancora, era ben visibile sulle mani livide e chiuse a pugno.

Dall’altra parte, c’era l’amante, l’altruista, l’innamorato: sconfitto, vinto, votato al sacrificio e prostrato dal fallimento. Quello che, pur lottando contro tutto sé stesso, le aveva dato quella pozione, convinto di donarle una vita migliore, e che ora doveva bere il calice di constatare che non ci era riuscito, che i ricordi erano tornati, che lei probabilmente adesso stava peggio di prima e solo per colpa sua.

E poi c’era Draco, creatura ritagliata nello spazio lasciato dalle altre: che si sentiva felice perché quella donna, adesso, ricordava tutto; che riscopriva l’egoismo di amarla perché tanto la vita stessa gli si era ritorta contro, perché non era colpa sua se lei adesso ricordava tutto, perché forse era destino non lasciarla andare. Ma, al contempo, Draco era terrorizzato: perché la donna che era tornata, non sapeva ancora chi fosse.

Una e trina anche lei.

Non era la ragazzina fragile di cui si era innamorato dapprima, quella che non avrebbe avuto quella forza da uragano negli occhi, non avrebbe stretto così forte i pugni, non avrebbe usato la voce con tanta facilità, non avrebbe avuto la forza sufficiente a mostrarsi come appariva: furibonda, furiosa, furente. Specie non con lui.

Ma non era nemmeno quella che negli anni con lui si sarebbe arrabbiata spesso, se solo lo avesse voluto, ma che non l’aveva mai voluto, relegandolo a fumo e vapore. Quella Granger, salvatrice del mondo, dea della giustizia, eroina magica e strega brillante, Grifondoro fino al midollo. Quella che era convinto di aver fatto tornare, quella che amava allo stesso modo dell’altra, ma quella che non avrebbe mai perso tempo con lui, non avrebbe mai avuto uno scatto emotivo tale da arrabbiarsi con lui.

E se anche lo avesse voluto, sarebbe stata furia e basta, come quella volta in cui lo aveva schiaffeggiato.

Questa Granger nuova, forte, bellissima… era un’altra… che, della prima, preservava la dolcezza umida degli occhi, il tremore delle labbra, le spalle piegate, la piega inconsulta e gentile dell’espressione… ma che dalla seconda, aveva ereditato la durezza dello sguardo, la posa militaresca, l’orgoglio del viso, l’ironia nella voce.

Era un ibrido tra le due… un miracolo, a guardarla bene.

Perché Draco Malfoy, in lei, guardandola, dissolveva dissidio e mistero.

Amava pure questa Granger, anche questa: anzi, era la somma di tutto quello che amava delle prime due. E non sapeva come si fosse meritato di avere la sua esistenza. Forse, commentò mentalmente, non era una giornata da vendetta divina… ma da giustizia divina.

Perché questa Hermione… chissà come e chissà perché… vinceva scienziato ed amante, ed inventava Draco.

Questa Hermione si ricordava tutto.

Sprezzante, gli occhi accesi di furia, Hermione rispose alla sua domanda, spostandosi nervosamente un ciuffo di capelli ribelle: “Ah bé… se intendi se mi ricordo che l’opale è una pietra di sigillo di molti incantesimi e pozioni… sì, quello me lo ricordo…”. Con un sorriso sadico quasi, si sfilò l’anello dal dito e, con un solo scatto nervoso della mano, lo lanciò lontano, respirando a fatica, rossa in viso. Draco seguì sconvolto l’ellisse descritta dal cerchio di metallo, che atterrò dritto nel laghetto alle loro spalle, alzando uno schizzo d’acqua palustre. Tornò a lei, mentre diceva sarcastica: “Scusami, valeva parecchio? Non avevo pianificato di gettarlo via… in fondo ci tenevi così tanto che lo indossassi, al punto da incantarlo… ma quando mi ci metto, sono veramente teatrale…”.

Ma chi diamine era questa? Draco la guardò, aggrottando le sopracciglia, mentre Hermione se ne stava di fronte con le braccia conserte, lo sguardo di sfida acceso. Un’ondata di rabbia lieve gli bruciò lo stomaco, facendogli desiderare Hermione più di qualsiasi altro momento della sua vita. Gli venne persino da sorridere, la mente gliela dipinse moglie e madre che rimproverava un marito che sbuffava, ed era naturale e bellissimo immaginarla così adesso che del derelitto non aveva più nulla. Poi si ricordò che questa Hermione sembrava bramare decisamente la sua testa su un piatto, quindi incrociò le braccia nervosamente e biascicò severo: “Quando hai recuperato la memoria? Ti ho lasciato che…”.

“Che non ricordavo nulla, certo,  la pozione ha funzionato…” questa Granger smaniava pure dalla voglia di parlare, lo interruppe nervosamente non facendolo continuare. Ad ogni pausa del discorso, la furia sembrava crescerle in petto: “Tutto è evaporato come se non fosse mai esistito. Mesi e mesi della mia vita che tu ti sei permesso di cancellarmi dalla testa, come se niente fosse… ma va bene, in fondo ho dimenticato davvero tutto, e stavo bene, ero felice, ho fatto tante cose, sono andata a mare, a cavallo, in montagna. Ho studiato, conosciuto gente. Ho scelto di frequentare una scuola per imparare ad insegnare e mi sono ripresa in mano tutto, tutto. Ed indovina un po’?”. Hermione glielo chiese davvero, con quell’aria sempre più stravolta, i capelli spettinati, come se non avesse parlato e basta, ma avesse corso, lottato, incespicato.

Draco rimase a braccia conserte, mentre Hermione, tirando su con il naso, sussurrava: “Facevo una cosa… ed avevo sempre la scomoda sensazione di volerla mostrare a qualcuno. Mi accadeva qualcosa, e non mi rendeva felice raccontarla ad Harry, a Ron, a Ginny. Le cose più stupide mi facevano piangere, sentire persa, sentire a disagio… ed al contempo sentirmi felice, senza motivo. Sentivo sempre un buco dentro, come quando fori la ruota di una bicicletta, e magari continui a camminare pure, ma senti quell’insopportabile fruscio che ti distrae dalla visione del tramonto, del mare, della campagna o di che diamine vuoi… ed allora sei costretto a fermarti, a guardare, a capire da dove venga quel rumore, che magari alla prossima curva sbandi e finisci fuori strada…”. Alle sue parole, le braccia di Draco si erano sciolte, cadendo lungo i fianchi. Il cuore gli batteva forte in petto, Hermione non lo guardava, sembrava rapita dal laghetto alle loro spalle. La sua voce aveva deposto livore ed acredine, ed adesso appariva solo triste: “La notte del 31 luglio, il giorno del compleanno di Harry, quel buco si è fatto più forte, è diventata una voragine pronta ad inglobarmi. È successa una cosa scema, stupida, idiota. Eravamo brilli, George ha corretto il punch alla frutta di nascosto da sua madre, eravamo sul tetto a guardare le stelle… e loro hanno insistito per volare con le scope, fino ad un paese vicino, c’era un belvedere con vista sul mare o sulle montagne, non mi ricordo… e io non ci volevo andare, dicevo che eravamo quasi ubriachi, e tutti mi prendevano in giro dicendo che io invece ho solo paura di volare. Sbuffando, offesa, mi sono seduta a cavalcioni su una scopa, già tremando, già temendo, già preparandomi a dissimulare… ed invece non avevo paura. Affatto. Per nulla. Di niente. Mi sono gettata a velocità stratosferica, sfiorando le cime degli alberi, mentre mi urlavano dietro, chiamandomi. E lì è successo. Ginny mi ha solo detto: “Puoi scendere a terra, adesso?”. E io ho sentito la mia stessa voce nella testa dirlo una vita fa, a qualcuno. È stato un ricordo più netto, meno stupido di quelle sensazioni confuse… e non lo potevo ignorare. Sono scesa a terra, sono corsa via, ancora sconvolta. Ho capito che era successo qualcosa quando mi sono ricordata della funzione dell’opale, ho pensato che quella strega che mi hai fatto fintamente ricordare, mi avesse incantato… e ne ho avuto la conferma quando l’anello non si sfilava. Distrutta, in preda alla rabbia… ho fatto la sola cosa che mi è saltata in mente”. Draco l’ascoltò in silenzio, guardandola. Hermione rimise addosso quello sguardo di sfida silente, tornando ai suoi occhi grigi, prima di bofonchiare ovvia: “Mi sono tagliata via il dito”.

“C-che cos-sa?” Draco divenne bianco, osservando Hermione che, con tutta la calma del mondo, gli mostrava la cicatrice che girava tutt’attorno all’anulare destro. Si era tagliata via il dito… il 31 luglio… un mese prima che l’effetto della pozione diventasse permanente. Ecco che era successo. Ecco come ricordava tutto.

“I ricordi sono tornati tutti assieme…” proseguì piatta Hermione, spostando il peso da una gamba all’altra, esitante mentre aggiungeva: “Fred, Rookwood, la sua morte, la troncatura della mia voce… e tu che mi dai la pozione… stavo rischiando di diventare pazza. Sul serio. Peggio di tutte le altre volte. Se avessi indossato daccapo l’opale, probabilmente la pozione avrebbe ripreso effetto, ci ho pensato su non più di cinque secondi. Il dolore mi stava uccidendo… eppure non ho avuto dubbi…”.

“Su cosa?” ancora Draco l’osservò atterrito, questa Hermione sapeva anche parlare di Fred Weasley, ricordarlo, senza perdere la testa. Se non era la pozione… che cosa le era successo in questi mesi?

“Ho indossato l’opale di nuovo questa mattina, quando ero certa che la pozione non avrebbe più avuto effetto…” la voce di Hermione era una lama stoica, dura, aveva il volto scavato nel ghiaccio “Tu hai fatto tutto da solo, senza badare a me, senza fidarti di me, senza rispettare me al punto da lasciarmi decidere. Hai giocato con la mia mente, con i miei ricordi… chi diamine te ne ha dato il diritto, eh, dimmelo, Malfoy?!. Gli si accapponò la pelle a sentirla parlare così, non aveva bisogno di urlare o di alzare la voce, se ne stava con i pugni chiusi, a fissarlo sconvolta, tradita e delusa. E Draco sentiva la propria testa rovesciarsi come se si fossero messi a scuoterla. Non aveva mai dubitato di aver fatto la cosa giusta, mai, nemmeno per un istante. Anzi era stato quello a tenerlo in piedi, a farlo andare avanti. Adesso aveva la beffa di aver fallito, ma anche che lei vistosamente lo odiasse. Quegli occhi… Draco non se li sarebbe scordati mai più.

Improvvisamente fu tutto chiaro ed evidente come se avessero acceso la luce.

Non era stato altruista come aveva creduto, come si era gloriato di essere. L’egoismo era, invece, stato decidere al posto suo. Toglierle il diritto di decidere, non permetterle di scegliere che cosa fare e come essere. In un certo senso, si era liberato di lei come se fosse una zavorra, come se fosse un peso, come se fosse diventata troppo da sopportare. E adesso sì, che l’aveva persa sul serio. Draco raggelò a quel pensiero, fu improvvisamente inverno e notte, sebbene fuori ancora splendesse il sole e lei fosse ancora davanti a lui, che mormorava, piangendo: “Questo, io non credo che te lo perdonerò mai, non dovevi farlo… non a me… ”. Draco si lasciò cadere al suolo, le ginocchia piegate. Si mise una mano tra i capelli, improvvisamente disperato. Il putrido cadavere che stava diventando, aveva ragione. Lui non era fatto per amare, era come un re Mida al contrario: tutto quello che toccava, marciva. E se lo amava, peggio.

Abbattuto, biascicò solo, con un filo di voce: “Volevo solo… che tu… tornassi quella che sei…”.

Continuò a guardare in basso l’erba resa danzante dal vento, mentre sentiva Hermione sospirare, fare qualche passo e poi sedersi accanto a lui. Ne spiò il viso, di nascosto, lei guardava ancora lontano, gli occhi tremavano lucidi, ma non piangeva più. Aveva un respiro più calmo, adesso, il volto più roseo e la voce meno stridula mentre aggiungeva: “C’era un’altra strada. C’è sempre un’altra strada… che è più difficile, ma proprio perché lo è, vuol dire che è quella giusta. Tu avevi ragione, Draco, nel tuo goffo modo da bambino viziato. Io ho permesso a me stessa di lasciarmi andare, di incamminarmi a grandi passi verso la morte, di non reagire, di bloccarmi nel sollievo di non dover cambiare… e questo non è da me. E’ stato da te, ad un certo punto… per questo, assieme, è stato così, siamo riusciti a sorreggerci per tanti mesi… ma non è da me. E adesso non è nemmeno da te… sei andato avanti anche tu, a tuo modo. Sei venuto qui, stai studiando, hai scelto un’altra strada. E la cosa più brutta, in tutto questo, è stata questa… Draco… sapere che avevi deciso di lasciarmi indietro, di liberarti di me come se fossi un problema, di mettermi sgraziatamente a posto così da non avermi sulla coscienza…”. Draco, sconvolto, la vide piangere di nuovo, asciugarsi le lacrime e rifiutare la mano che lui aveva già fatto correre nella sua direzione, per stringere la sua. Non era questo, dannazione, non era stato questo… stava andando tutto a puttane con una velocità tale che il piano inclinato era una bazzecola.

Hermione tornò velocemente a guardarlo negli occhi, decisa, determinata, sebbene piangesse ancora, mormorando: “Non è facile, per me, parlare, aprire bocca, usare la mia voce, andare avanti ugualmente, lo stesso, affastellando sogni e speranze e rimuovendo dolore e rabbia… ma ce la sto facendo, piano piano. Ci ho messo due mesi, ma adesso riesco a parlare con tutti. Quasi… non mi capita più di farmi del male. E gli incubi… li controllo, quasi ce la faccio. E non è facile, non lo è ancora adesso… ho ancora tanto da fare su me stessa per perdonarmi, per accettarmi, per volermi bene di nuovo…  non sono qui, per caso. La professoressa del tuo progetto, Haylee… è lei che mi sta aiutando da quando ho rotto l’effetto della pozione, faccio terapia con lei due volte alla settimana… mi avrebbe preparato la pozione in due secondi se avessi voluto, stavolta nemmeno l’opale avrei avuto… ma le ho detto che non la voglio, che il prezzo è troppo alto…  quella pozione mi rende felice, ma non mi rende vera, autentica. E mi apre dentro, peggio di una mela…”, quelle sue parole, dette con quegli occhi, lo fecero ammattire, gli fecero risorgere amore e desiderio, assopiti nella colpa di averla incantata. La sentì con una parte remota della sua mente continuare a dire: “Grazie a lei sono riuscita a fare grandi progressi, di Fred adesso sanno tutto Harry e Ginny. Chissà se un giorno lo riuscirò a dire anche a Ron… e poi un giorno, molto probabilmente, se…”.

“Quale è il prezzo che è troppo alto, Granger?” le chiese, interrompendola, senza preamboli, stringendola per un polso. Hermione si voltò verso di lui con aria incredula, meravigliata, incomparabilmente stupita.

Lo disse come se stesse parlando con un bambino. Lo disse come se stesse spiegando perché il giorno cede il passo alla notte. Lo disse come se non fosse stato scontato dal primo momento, che aveva iniziato a parlare.

Lo disse con un sorriso piccolo, minuscolo, come se stesse valutando la possibilità di perdonarlo davvero.

Lo disse con il sole che le feriva le iridi, come quel giorno in infermeria, a settembre dell’anno prima.

Lo disse, deridendolo come uno sciocco e ferendolo come un idiota… ma improvvisamente rendendolo completo, per la prima volta nella sua vita.

“Il prezzo che non posso permettermi di pagare, sei tu… sei sempre stato tu… posso accettare persino di ricordare che ho causato la morte di Fred… ma non posso accettare di dimenticare anche una sola cosa che riguardi te…”.

E Draco, che era sempre stato egoista, capriccioso, violento persino, si comportò per l’ultima volta male con lei, con Hermione Granger, con la donna di cui era innamorato. Le mise una mano dietro la nuca, al contatto con i suoi capelli serici e lunghi. Hermione strinse le spalle, quasi si impuntò sui piedi, ma quando Draco l’attrasse più vicina, scontrandosi quasi con il suo viso in un impeto dolce, abbandonò ogni resistenza, accogliendo la sua bocca sulla sua. Accettò Hermione quel bacio non chiesto, imposto, comandato, sapendo che era l’ultima volta e perdonandolo nelle lacrime che versarono assieme, l’uno sul viso dell’altra. Draco la baciava con ansia febbrile, piangendo, singhiozzando, figlio che chiede perdono e uomo che lo ottiene, saggiava la sua bocca con morbida esperienza, scoprendone ogni particolare che adesso strappava al passato di chiunque l’avesse toccata e baciata, per sigillarselo nel futuro. Giocava con la sua lingua senza fretta, e d’improvviso tutto si riconciliava, saldandosi di fuoco dentro di lui: ogni cosa andava a posto, ogni cosa trovava il suo posto e tutto, tutto, sembrava essere nato per baciarsi così. Hermione chiuse le sue spalle con le braccia, piangeva e mormorava il suo nome, e lo confondeva alle promesse d’amore, e giurava l’amore ricambiato, e scivolava al suolo sotto di lui, e intrecciava le dita con le sue, e lasciava che l’erba catturasse i capelli, e concedeva a Draco il profilo di un seno da seguire con le labbra, e gli si apriva dolce, e non conosceva vergogna e pudore, e gemeva piano sudata, respirando sulla sua spalla, chiamando il suo nome, spalancando gli occhi alla luce del sole, e poi chiudendoli di scatto, nel bacio che lui le dava nell’estasi del corpo e nel riposo della mente. Se la strinse addosso per ore, in quel parco deserto, coprendola con il suo mantello e baciandole la fronte. Hermione non faceva nulla se non restare ad occhi chiusi, sorridere ogni tanto ed appisolarsi, per poi disegnare cerchi sulla pelle del braccio scoperto di lui. L’alba gli sorprese assieme, rendendo il cielo una collezione di nastri multicolore, nessuno li aveva cercati e loro nessuno avevano cercato, ebbri della presenza l’uno dell’altra.

Mentre un raggio di sole le colorava il viso, Hermione fece una smorfia infastidita da bambina, Draco le baciò la punta del naso e lei parve quasi ricordarsi una cosa importante, alzando la testa verso di lui e guardandolo fisso negli occhi. Sussurrò, una lacrima dispettosa negli occhi cervoni: “Se non l’avessi capito… ti ho perdonato… ma non farmi mai più una cosa del genere, per favore… in tutto questo… caos… di una sola cosa sono sicura: te. Sono maledettamente e stupidamente innamorata di te…”.

Le sorrise, baciandola ancora, senza parlare, senza dirle nient’altro. Un germe di lei, incerto come una primavera confusa, era sempre esistito ed adesso si preparava a fruttificare e a mettere foglie nuove.

Non c’era bisogno che lo dicesse, che gli dicesse di amarlo.

Stava tornando logorroica e verbosa come sempre era stata, come sempre aveva adorato che fosse. Ma, tra loro, non ce ne era bisogno. Non ce n’era mai stato.

Gli aveva confessato di amarlo, gridando il suo nome, soffocandolo sulla sua spalla, mentre facevano l’amore.

Le aveva augurato una vita urlata…

… senza sapere che sarebbe stato con lui che l’avrebbe vissuta.

 

 

La vita, quando è vera e non artefatta, non è mai semplice.

Per dieci anni Hermione Granger dovette lottare contro i fantasmi nella sua mente: nonostante la terapia due volte alla settimana a Saint Suliac, continuò ad avere ricadute, passava giornate di malinconia estrema, piangeva in modo febbrile e non era mai compiutamente a posto con sé stessa.

Per dieci anni, evitò il primo aprile, chiudendosi in una stanza al buio, senza vedere nessuno eccetto Draco.

Ma, come quando si impara a camminare, Hermione Granger a piccoli passi si riprese sé stessa: divenne un insegnante, raccontò tutta la verità ai suoi amici e a Ron, si impose ogni giorno di combattere e vivere.

Per l’uomo che aveva accanto, Draco Malfoy, che, nonostante sapeva che con una pozione, ogni sua ombra sarebbe scomparsa, non ci pensò mai più. Amava di lei luce ed ombra, sole e luna, stelle e nebbia.

E di ogni suo sforzo ed impegno, ci vedeva amore per lui e riconoscenza per Dio.

Dovette ad un certo punto dividere quell’amore, e fu come se esso raddoppiasse, ed alla fine ne avesse la stessa parte di prima: lo dovette dividere con una bimba bionda, dagli occhi castani, che si chiamava come la dottoressa di Hermione e la professoressa del suo progetto.

Haylee Serena Malfoy.

Fu sua figlia Haylee a guarire Hermione davvero: perché se la vita ti dona una figlia nel giorno del compleanno della persona che hai condannato innocente, allora forse sei stata perdonata.

Ed allora sei tu stessa a perdonarti.

 

 

Anni dopo, Draco Malfoy, padre di famiglia, si sarebbe seduto in poltrona davanti ad un caminetto spento in una calda giornata d’estate: un libro sulle ginocchia, un cane accoccolato ai suoi piedi, la finestra aperta sul mare.

Ed una figlia, bellissima, intelligente, curiosa, che sarebbe scesa dalla soffitta con un baule pieno di vestiti vecchi, chiedendogli se poteva farne qualcosa di consono ai giochi di una decenne annoiata.

Avrebbe sorriso ed avrebbe annuito, e lei si sarebbe drappeggiata addosso un tessuto che, ostaggio di anni passati, avrebbe rilasciato nel suo singulto nostalgico di dimenticanza da quarantenne, il profumo penetrante del suo Ottavo anno ad Hogwarts: cedro e vaniglia. Il sapore e l’odore dell’uragano.

 

Haylee avrebbe spiato l’espressione di suo padre ed avrebbe chiesto spensierata: “Perché sorridi, papà?”.

Prima ancora di rispondere, Hermione sarebbe spuntata dalla cucina, una pila di compiti da correggere e un paio di occhiali calati sul naso a darle l’aria di un gufo buffo, appena svegliatosi. Avrebbe guardato quella camicia, la stessa che indossava tanti anni prima, ed avrebbe sorriso anche lei. Haylee non avrebbe capito il motivo di quei sorrisi, avrebbe sbuffato annoiata, reclamando attenzione.

“Niente, tesoro… a papà ricorda l’unico periodo della sua vita in cui la mamma non si dava pena di rispondergli male, se la faceva arrabbiare… da quel momento in poi, non ha avuto più quell’onore…”.

Haylee avrebbe guardato i suoi genitori, senza capire, riprendendo a giocare con il suo cagnolino.

Un giorno, lontano, avrebbe capito che, se si scherza sul dolore, il male viene sconfitto.

Sua madre finalmente era libera, sorrideva alla fronte aggrottata del marito, che la guardava storto.

Concedendole di non risponderle piccato per una volta.

Da domani, come sempre, non avrebbe più avuto quell’onore.

 

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