Shame

di nightswimming
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***



Capitolo 1
*** I ***


Note dell’autrice: buongiorno fandom <3 Rieccomi con un’altra fatica (?!). Sopportatemi, l’estate è calda e noiosa e io ho bisogno di distrarmi XD
Questo delirio è nato da un project dell’inglisc fandom che si divertiva a reinventare opere d’arte, testi di canzoni e trame di libri in chiave sherlockiana (fate un giro su Tumblr con il tag “let’s draw sherlock” – troverete cose fantastiche XD). Dopo aver letto una versione assolutamente epica di “Orgoglio e pregiudizio” in cui John veste i panni di Lizzy Bennett ho sentito il bisogno insopprimibile di saltare anch’io sul carro dell’harmony gay in costume, e così eccomi qua.
Questa storia è un’omegaverse!AU ambientata nell’800 - ridete pure, io non faccio altro da quando mi sono messa a scriverla XD – ispirata alla “Marchesa di O” di Heinrich Von Kleist, che, poveretto, a quest’ora si starà vivacemente rivoltando nella tomba e col quale mi scuso tantissimo. ç_ç
Inutile dire che Sherlock fa la marchesa (scusa, Sher) (con quanta gente mi sto scusando XDDD ma d’altro canto è il minimo), mentre John è sempre John, cioè un capitano dell’esercito inglese BAMFissimo e col fascino aggiunto della divisa storica.
Due parole su come verranno trattati l’omegaverse e lo slash durante questo drammone.
Il matrimonio omosessuale è consentito dalla legge, perché la mia take sul XIX secolo è molto gaia open-minded e giusta e buona. Ciò detto, gli omega sono esseri considerati deboli, utili quasi solo a sfornare bambini (non il caso di questa storia) e socialmente inferiori, al punto da avere bisogno dell’autorizzazione di un alfa (famigliare o consorte) per fare praticamente qualunque cosa - dall’andare in giro al gestire i propri beni al rimanere soli con altre persone in una stanza. Ovviamente, nel caso un omega dovesse avere un rapporto pre-matrimoniale (o anche solo subirlo), il suo onore sarebbe spacciato e si ritroverebbe ad essere una sorta di paria, rigettato da tutti e condannato a fare una vita da cani per il resto dei suoi giorni; mentre per l’alfa non ci sarebbe nessun problema, obviously. Dove l’ho già sentita questa storia? *sighs*
Anyway - gli alfa riconoscono gli omega reclamati dall’odore, che captano anche a centinaia di metri di distanza, ma non sono in grado di sapere l’identità né dell’omega in questione né dell’alfa che l’ha reclamato: ciò significa che sanno che devono starci lontano ma non sanno nelle ire di chi incorrerebbero nel caso dovessero sgarrare.
Una volta formato, il Legame fra alfa e omega è eterno e indistruttibile, nonché estremamente intenso – al punto da provocare una sorta di malessere fisico se i due stanno lontani troppo a lungo.
Come la gran parte delle storie omegaverse, vi è la problematica del consenso ogni qualvolta gli omega entrano in calore e tutti sembrano andare fuori come citofoni. E’ anche il caso, in senso lato (poi capirete) di questa storia – per cui se l’argomento vi turba vi consiglio di astenervi dalla lettura.
Ma non fatevi spaventare da questa clausolina. La storia per la maggior parte gronda romanticismo, dichiarazioni d’ammmore e sviolinate (letterali e non). Anzi, colgo la palla al balzo per avvertirvi che forse Sherlock potrebbe risultare un filo OOC. Io ho tentato di non farmi prendere troppo la mano, ma il rischio potrebbe esserci.
Vi annuncio con magno gaudio che la fic è già terminata (?!!!), comprende circa una quindicina di (corti) capitoli e verrà aggiornata settimanalmente.
Che giorno è oggi? *checks* Giovedì, benissimo, quindi ci vediamo giovedì prossimo <3
Spero vi piaccia :*
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Shame is the shadow of love.
 
“Shame”, PJ Harvey
 
 
 
 
 
I
 
 
 
 
 
 
Sherlock Holmes era quello che si poteva considerare un ottimo partito.
Fra tutti gli omega spiccava per intelligenza e per un peculiare, esotico tipo di bellezza. Apparteneva inoltre a una famiglia nobile e danarosa che in futuro gli avrebbe garantito una rendita molto più che cospicua. Era in salute, colto e perfettamente educato; parlava diverse lingue senza sforzo; suonava il violino da virtuoso.
Eppure, all’età di trent’anni, non era ancora stato reclamato da nessuno.
Suo fratello Mycroft, con crudele ironia, dava spesso la colpa di questo increscioso stato di cose a una qualche malformazione, a uno scherzo del destino. Sherlock infatti possedeva un carattere che non  aveva niente della natura remissiva e accomodante degli omega: era autoritario, sprezzante, orgoglioso ed egocentrico. A colpo d’occhio, sarebbe sembrato un alfa come il maggiore degli Holmes, come il loro padre.
Ma non lo era. E questo, nonostante tutte le sue altre qualità, lo aveva sempre reso indesiderabile.
Non che la cosa lo ferisse. Al contrario: segretamente, lo rendeva fiero.
Sua madre e Mycroft non riuscivano a pensare a nessun alfa che potesse sopportare l’indole pungente di Sherlock; e Sherlock nemmeno concepiva l’idea della sottomissione a chicchessìa.
Per anni e anni era andato in calore odiandone ogni delizioso spasmo, ogni gemito forzato da un desiderio irresistibile che sentiva alieno, ogni raptus irrazionale che gli diceva di trovare un compagno e porre fino a quel vuoto doloroso che avvertiva dentro di sé. Inoltre conosceva bene i pochi diritti e i molti obblighi che spettavano agli omega reclamati e la prospettiva di limitare in qualsiasi modo la propria libertà non lo attirava affatto.
Non era fatto di quella pasta. Si sentiva nato per comandare, non per essere comandato.
La tragedia consisteva nel fatto che chi era come individuo strideva troppo con ciò che era per natura; ma, per quanto fosse frustrante far convivere queste due parti di sé, Sherlock non aveva mai ceduto.
I pochi pretendenti fattisi avanti erano stati respinti e lui si era ritirato nella solitudine del castello famigliare, circondato da servitori beta e omega che non rappresentassero un rischio, conducendo un’innaturale esistenza da celibe e dedicandosi esclusivamente ai suoi studi scientifici e al suo violino.
L’impasse non si era mai interrotta. Con buona pace di Mycroft e di sua madre, che lo avrebbero voluto sistemato – e felice – con un alfa adatto il più presto possibile; e gli anni erano trascorsi lenti e monotoni senza che nessuno venisse mai soddisfatto nei propri desideri.
 
*
 
Il susseguirsi di giorni sempre uguali venne interrotto dalla guerra.
Sherlock era talmente annoiato che al principio la considerò un piacevole diversivo, ma era destinato a ricredersi.
Il castello degli Holmes era abbastanza sfarzoso da attirare l’attenzione delle numerose truppe straniere in vena di razzie che avevano invaso il paese. Mycroft, che si trovava in Francia per affari, scrisse a Sherlock e a sua madre di abbandonare al più presto quel luogo ormai divenuto pericoloso e di recarsi nella loro tenuta di campagna, più modesta e meno appariscente.
La marchesa era un’omega già avanti con gli anni, cagionevole di salute e legata in maniera spasmodica alle comodità. Stropicciando con dita nervose la lettera di Mycroft, si lamentò della fatica e dei disagi che quel trasferimento avrebbe comportato, senza contare che il calore di Sherlock era ormai alle porte e sarebbe stato rischioso farlo viaggiare.
E poi, la guerra era quasi finita. Era solo questione di resistere per poco tempo ancora.
Sherlock era immerso nella lettura di un volume di botanica e ignorò del tutto quel tentativo di conversazione.
 
*
 
Gli assalitori erano russi. Sherlock ne riconobbe le uniformi, e distinse la loro lingua attraverso le urla.
La cittadella sulla quale svettava il loro castello era già stata costretta alla resa. Dopo aver occupato in meno di un giorno i magazzini, i campi e le case dei suoi abitanti, arrivando al punto di appiccare fuoco ai possedimenti di chi resisteva, l’esercito russo attese il calare della sera e sferrò un attacco notturno alle loro mura.
L’ala sinistra venne immediatamente distrutta, costringendo la signora Holmes e le sue cameriere ad abbandonarla fra strepiti e lacrime. Sherlock, debole e sudato a causa del calore, guidò il corteo delle donne fino ai sotterranei e gridò loro di rifugiarsi lì. Sopra le loro teste si udivano colpi di fucile, esplosioni, il fragore di porte sfondate e muri distrutti.
Una granata esplose dal nulla sulle scale che stavano scendendo e seminò lo scompiglio. Sherlock avvertì un dolore intenso alla testa e cadde a terra, tossendo per il fumo, squassato dagli spasmi liquidi che Madre Natura si ostinava ad infliggergli persino in momenti come quello.
Li scorse con la coda dell’occhio. Erano tutti e tre alfa, sghignazzanti e con il fucile in mano, e lo guardavano dalla cima delle scale con un luccichìo malevolo negli occhi.
Sherlock urlò per ricevere aiuto ma ormai aveva perso i suoi.
I tre lo trascinarono nella prima stanza a disposizione sputandogli addosso frasi oscene. Sherlock si divincolò, tirò calci e pugni alla cieca, persino morse, ma loro erano in maggioranza numerica e fu solo questione di minuti prima che si ritrovasse prono a terra con le mani costrette dietro la schiena.
Era furioso con sé stesso. L’odore di quei tre alfa obnubilava il suo cervello e rallentava i suoi movimenti, rendendoli languidi nonostante la rabbia e – si rese conto con orrore - invitanti. Si detestò come mai nella sua vita quando realizzò che sarebbe successo l’irreparabile e che il suo stesso istinto desiderava che questo irreparabile succedesse. Il suo corpo tremava di paura e di voglia, di disgusto e di aspettativa, di disperazione e di eccitazione.
Sherlock chiuse gli occhi quando avvertì una mano rude strappargli la camicia e pregò che finisse presto.
Si era definitivamente rassegnato a quell’umiliazione quando sentì la porta sbattere e si accorse che uno dei suoi assalitori, ferito gravemente, era caduto a terra. A fatica si voltò sulla schiena: davanti a lui era in corso un corpo a corpo selvaggio fra un soldato che portava l’uniforme dell’esercito britannico e i due russi superstiti.
L’uomo sconosciuto non era di grande statura ma si rivelò un esperto nell’arte del combattimento. Buttato il fucile a terra colpì con quella che sembrava una rabbia incandescente prima un uomo, poi l’altro, i suoi movimenti così fulminei che Sherlock a malapena riuscì a distinguerli.
Dopo averli uccisi sotto i suoi occhi trafiggendoli con la spada, alzò lo sguardo su di lui.
Sherlock trattenne il fiato. Era sporco di sangue, nero per il fumo e ansimante – ed emanava un odore delizioso. Era forse l’alfa più attraente su cui avesse mai posato lo sguardo.
“State bene?” chiese l’uomo inginocchiandosi al suo fianco, gli occhi che fino a un attimo prima erano stati spietati ora premurosi e quasi reverenti. Sherlock lo guardò con una gratitudine che si confondeva con il desiderio; l’uomo trattenne il respiro e imprecò.
“Voi-”
Aveva assunto un’espressione angosciata. Sherlock allungò una mano e lo sfiorò con meraviglia, il corpo e la mente ubriachi di bisogno, di sollievo, di quell’adorazione cieca che il calore provocava anche solo nei confronti della mera idea di un alfa degno e forte. E lui, lui era stato solo tutta la vita e ora ne aveva uno in carne e ossa a poca distanza.
Quando le dita di Sherlock gli carezzarono il collo l’uomo gemette. Le pupille gli erano diventate enormi; tutto il suo corpo tremava come un arco teso allo spasimo. Si morse un labbro e lo guardò con aria terrificata e allo stesso tempo predatoria.
Ormai al limite della resistenza, stava per avvicinare il proprio viso al suo quando l’uomo imprecò nuovamente e si alzò di scatto, allontanandosi da lui. Sherlock si sentì mancare il fiato: gli sembrò così ingiusto, così crudele.
“Vi aiuterò” disse l’uomo con voce strozzata, prima di aprirsi la giubba dell’uniforme, strappare un pezzo della propria camicia e premerselo su naso e bocca, “ma voi dovrete aiutare me e impedirmi di essere come loro.”
Diede un calcio a uno dei cadaveri che giacevano a terra. Sherlock seguì il movimento del suo piede con sguardo appannato. Accettò la mano che lui gli porgeva per alzarsi in piedi e si ritrovò premuto contro di lui.
D’istinto, schiacciò il naso contro il suo collo per inspirare a fondo il suo odore e gemette.
L’uomo emise un verso frustrato e gli afferrò un braccio con una mano tremante, tentando di tenerlo a distanza.
“Vi prego,” disse attraverso i denti digrignati, lo sguardo fisso a terra. “Vi prego, vi voglio portare via di qui sano e salvo.”
Sherlock lo sentiva a malapena. La minaccia cui era scampato stava pompando adrenalina nel suo sangue, acutizzando gli effetti del calore e privandolo di qualsiasi altro scopo se non quello di avere quell’alfa, diventare cera nelle sue mani e farsi prendere.
Perché lui facesse resistenza quando era ovvio che il desiderio era reciproco, la mente obnubilata di Sherlock non riusciva a capirlo.
L’uomo lo trascinò fuori dalla stanza e su per le scale, sostenendolo per un braccio, ma tenendo un passo sostenuto per evitare di stargli troppo vicino.
“La mia guarnigione ha sventato l’attacco, i russi sono quasi tutti fuggiti o morti” gli disse con lo sguardo fisso davanti a sé. La sua voce era soffocata dalla stoffa che teneva premuta sul viso con la mano libera. “Riavrete la vostra casa - seppure in queste misere condizioni. Mi rincresce.”
Notata una stanza che era stata risparmiata dal grosso della distruzione, l’uomo emise un urlo vittorioso e lo guidò all’interno.
Erano i suoi alloggi privati.
Sherlock si fece guidare confusamente verso il proprio letto, tentando di attirarlo a sé come poteva, ormai reso quasi pazzo dal bisogno. L’uomo resisteva sempre meno, gemendo in preda alla frustrazione, cercando di tenerlo a distanza ma guardandolo con occhi che bruciavano.
“Chiamo aiuto” disse, bloccandogli sopra la testa quelle mani che lo cercavano con insistenza animalesca, e facendolo stendere in modo che riposasse. “Lasciatemi chiamare aiuto per voi. Vi prego.”
L’ultima parola venne fuori quasi come un singhiozzo. I lineamenti dell’uomo erano contratti in un’espressione sofferente e combattuta.
Sherlock gli mise le braccia al collo e lo strinse più forte che potè.
“Non andatevene” disse in un sussurro disperato, baciandolo sulle labbra, sulla mascella, sulle palpebre. “Vi scongiuro, restate con me. Voglio-”
Poi divenne tutto nero.

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Capitolo 2
*** II ***


Note dell’autrice: scusate se aggiorno fuori tabella di marcia, ma non so se domani sera o giovedì sarò in grado di raggiungere un pc, per cui lo faccio ora. Grazie infinite dei bellissimi commenti <3
 
 
 
 
 
 
 
II
 
 
 
 
 
 
Riaprì gli occhi nella quiete serale della sua stanza, illuminata dalla luce delle candele.
Sua madre emise un singhiozzo sollevato e si sporse sul suo letto per baciargli la fronte.
“Sherlock, caro, finalmente sei sveglio. E’ tutto finito.” Gli accarezzò i ricci sudati, le lacrime agli occhi. “Siamo salvi.”
Sherlock battè le palpebre. L’aria era piena di pace ritrovata; non c’era più nessuna traccia di distruzione o di urla o di colpi di fucile.
“Per quanto ho dormito?” chiese con voce roca. Sua madre si affrettò a versargli un bicchiere d’acqua e glielo porse. Sherlock lo bevve tutto in tre lunghi sorsi.
“Eri stremato dalle forti emozioni e dal calore. Sei rimasto privo di sensi per così tanto tempo.” Si asciugò gli occhi con un fazzoletto. “Tre giorni interi. Io e il capitano Watson eravamo divorati dalla preoccupazione.”
Sherlock si mise seduto contro i cuscini. Qualcuno lo aveva spogliato, mettendogli la camicia da notte. I muscoli gli dolevano e si sentiva la testa come piena di spilli dolorosi.
“Il… Capitano Watson?” chiese confuso, massaggiandosi le tempie.
Sua madre sospirò mettendosi una mano sul petto.
“Il tuo salvatore. Il nostro – la sua guarnigione ha scacciato i russi, appena in tempo.” Sorrise con aria sognante. “E’ venuto più volte a informarsi delle tue condizioni. Un impeccabile gentiluomo.”
Sherlock congiunse le punte delle dita sotto il mento. Cercò di concentrarsi: le sue memorie di quel giorno erano vaghe e confuse.
Ricordò due occhi di un blu tempestoso, minacciosi e dolci a un tempo. Ricordò il gesto di premersi un pezzo di stoffa sul viso. Ricordò una mano che lo aiutava ad alzarsi.
Nient’altro.
“Ditemi, la sua guarnigione è ancora in città?” chiese.
“Sì, caro.”
Sherlock annuì, pensieroso.
“Desidero vederlo per esprimergli la mia gratitudine” disse infine.
Sua madre si alzò in piedi.
“Darò disposizioni perché venga domani. Ora torna a riposare.”
 
*
 
La mattina seguente, Sherlock, di nuovo in forze, si mise di buon’ora nel suo studio e si dedicò a riempire i suoi taccuini con i risultati di vecchi esperimenti.
Verso le undici qualcuno bussò alla porta.
“Sì?” disse, senza alzare lo sguardo dai fogli.
“Un capitano John Watson, signore, del Quinto Fucilieri di Northumberland.”
Sollevò la testa. Il suo maggiordomo lo guardava con espressione neutra, in attesa di una risposta.
Sherlock si alzò in piedi.
“Fatelo entrare, grazie.”
L’uomo annuì e richiuse nuovamente la porta dietro di sé.
Sherlock si sistemò il colletto della camicia, lisciò la piega dei pantaloni e controllò che i gemelli fossero allacciati con cura.
Poco dopo si sentì di nuovo bussare.
“Prego.”
Entrò un uomo in divisa militare, di statura modesta, biondo e dall’aria garbata. Sherlock ne riconobbe gli occhi: un azzurro cupo che dava l’aria di poter facilmente essere dolce come minaccioso.
John Watson gli sorrise.
“Marchese” disse, dopo essersi inchinato. Sherlock lo imitò. “Sono felice di sapere che vi siete ripreso.”
Aveva un’espressione sincera e aperta. Sherlock sollevò un angolo delle labbra.
“Se ho potuto riprendermi in primo luogo, è grazie a voi. E, vi prego, chiamatemi Holmes.”
Gli porse una mano. Dopo una breve esitazione, John Watson la strinse.
Sherlock sentì un brivido caldo scorrergli lungo il braccio e potè giurare di averlo avvertito anche nell’altro uomo. Per un attimo una strana armonia, un inspiegabile senso di completezza lo invase.
Sciolse in fretta la presa e tornò a sedersi, indicando al suo ospite di fare altrettanto.
“Prego, mettetevi a vostro agio, così potremo parlare più comodamente del modo in cui potrò sdebitarmi per quello che avete fatto.” Allargò il suo sorriso, che raggiunse gli occhi. John Watson si illuminò. “Anche se penso non vi sia un corrispettivo materiale per la dignità di un uomo, o per la sua vita.”
John Watson fece per parlare, ma poi si accorse che il maggiordomo degli Holmes li stava osservando impettito dalla porta e si interruppe.
Sherlock sospirò.
“Vi prego di scusarmi, ma sono un omega non reclamato e in molti casi non ho diritto alla discrezione.” Le sue parole grondavano disprezzo; il maggiordomo si mosse da un piede all’altro, a disagio. “Pare che non sia sicuro lasciarmi solo con un alfa.”
John Watson gli rivolse un’occhiata colma di dispiacere, ma non di pietà. Poi distolse in fretta lo sguardo e si mise a giocherellare con i guanti che teneva in mano.
“Credetevi quando vi dico che il solo pensiero di farvi danno mi addolora” disse piano.
Sherlock batté le palpebre, per un momento preso alla sprovvista da quella misteriosa affermazione. Poi torno in sé e si mise a riordinare meccanicamente i suoi taccuini sulla scrivania.
“Mi avete salvato la vita. Sono un uomo con abbondanza di mezzi. Chiedetemi quello che volete, e io ve lo darò” disse in tono pratico ma benevolo. “Qualsiasi cosa.”
John Watson allargò gli occhi per la sorpresa prima di scuotere la testa con decisione.
“No, no, no. Non sono venuto per ottenere qualcosa in cambio. Quel che ho fatto l’ho fatto per dovere e… Per voi.” L’onestà nel suo sguardo era quasi sconcertante. Sherlock ne fu colpito. “Solo per voi.”
Calò un breve silenzio, pieno da una parte di stupore, e dall’altra di nervosismo.
Sherlock si schiarì la voce tentando di scuoterli da quell’imbarazzo.
“Ma… Ci sarà pure qualcosa che volete. Che posso darvi,” tentò in tono ragionevole.
John Watson lo guardò intensamente.
“Mi basta sapere che pensate bene di me.”
Sherlock rise.
“Avete impedito il mio disonore, e con molta probabilità la mia morte. Come potrei non pensare bene di voi?” chiese sarcastico.
Di nuovo John Watson distolse lo sguardo. Vedendo un tenue rossore imporporargli il collo, Sherlock eruppe in una risata profonda.
“Non siate così modesto, capitano Watson. Ho sentito dire che siete un eroe di guerra. Dovreste essere abituato alle lodi.”
Fu il torno del soldato di ridere.
“Ho un temperamento peculiare.”
“Un tipo di peculiare non del tutto spiacevole, allora.”
Il rossore sulle guance di John Watson peggiorò, diventando più che evidente.
“Io… Ho mentito, signor Holmes” ammise, dopo aver deglutito con fatica. Quando sollevò lo sguardo Sherlock vide che era pieno di apprensione. “C’è qualcosa che vorrei.”
Sherlock sorrise.
“Ne ero certo. Non esitate a manifestare il vostro desiderio. Entro i limiti del possibile, farò di tutto per esaudirlo.”
John Watson si alzò in piedi e pose la mano sull’elsa della spada che portava al fianco. Sherlock intuì che il gesto lo tranquillizzava; dopotutto, era un soldato. Si chiese cosa potesse incutergli tanto timore – si chiese cosa potesse essere così estremo da fare paura persino a un coraggioso ufficiale dell’esercito britannico.
“Signor Holmes” cominciò, e i suoi occhi ardevano. “Ve lo chiedo con la più grande sincerità d’animo e vorrei, se possibile, che voi rispondeste animato da un uguale sentimento.”
Sherlock aggrottò le sopracciglia, ma annuì.
“Avete la mia parola, capitano.”
John Watson aggirò la scrivania posta in mezzo a loro e gli si avvicinò, la mascella tesa, lo sguardo nervoso.
“Vorrei che mi concedeste l’onore della vostra mano” disse, scandendo le parole con infinita cura.
Sherlock credette di non aver sentito bene. Con la coda dell’occhio vide che il suo maggiordomo era rimasto a bocca aperta.
“Io… Temo di non capire…” disse con qualche difficoltà, il cuore che gli batteva forte in petto per la sorpresa. Gli occhi di John Watson erano gentili e pieni di passione.
“Vorrei sposarvi al più presto. Rendervi mio.” Gli sfiorò con delicatezza una mano, chinandosi su di lui. “Se anche voi vorrete fare lo stesso con me.”
Sherlock alzò il capo. Erano molto vicini, eppure non sentì nessun famigliare sentimento di repulsione verso quell’uomo a un tempo timido e intraprendente che aveva appena dichiarato di volersi legare a lui. La sua gentilezza, la sua sensibilità e la sua empatia rendevano improbabile, quasi paradossale la sua natura di alfa; eppure Sherlock ancora ricordava il suo odore, quel profumo delizioso.
No, non c’era nessun errore. John Watson tradiva gli stereotipi della propria specie: era diverso, unico.
Come lui.
Sherlock si alzò bruscamente in piedi.
Cosa stava facendo? Doveva restare lucido. Ne andava del suo futuro, della sua libertà. Non poteva farsi abbagliare dalla gratitudine e da una prima buona impressione.
“Voi non mi conoscete” disse secco, misurando a lunghi passi la stanza. “Dite di avere un temperamento peculiare. E’ vero anche nel mio caso: ho trent’anni e non sono ancora stato reclamato.” Rialzò lo sguardo su di lui, diffidente. “Questo non vi insospettisce? Non vi spaventa il pensiero di un omega così contrario all’idea di un compagno?”
John Watson sorrise con dolcezza.
“Penso che non vogliate un padrone, non che non vogliate un compagno. E penso che se fossi un omega anch’io desidererei la stessa cosa.”
Sherlock si fermò in mezzo alla stanza. Lo guardò esterrefatto.
“Vi prendete gioco di me?” sibilò.
Il capitano tornò subito serio e scosse la testa.
“No- credetemi, no. Ho sentito molto parlare di voi. Le vostre ricerche scientifiche, il desiderio d’indipendenza, il rifiuto di ogni alfa abbastanza coraggioso da proporsi a uno spirito così libero. So che vi dipingono come arrogante e…” si interruppe e deglutì, a disagio, “e… pazzo… e vogliate scusare queste parole che non sono le mie. Credetemi quando vi dico che da quel poco che ho avuto modo di conoscervi, non mi sembrate né arrogante né pazzo. Penso che siate straordinario.” Si avvicinò a lui in due passi, gli occhi vivi e adoranti. “E che non intendo tarparvi le ali né costringervi a nulla che voi non vogliate. Desidero solo avere l’onore di essere il vostro alfa.”
Sherlock socchiuse gli occhi, un ghigno pericoloso sulle labbra.
“Voi non sapete quello che dite” sussurrò tagliente. “Ve ne pentireste. Oh, ve ne pentireste. Se voi ora mi state mentendo, prima o poi sareste costretto a rivelare la vostra vera natura. Mi verreste in odio. Di conseguenza, mi adopererei in ogni modo per rendere la vostra vita un inferno. E vi posso assicurare che ho una mente molto attiva e fantasiosa.” Il suo ghigno si allargò. “Avreste pace solo durante il mio calore… Ma, conoscendomi, forse neanche in quella circostanza.”
John Watson gli si avvicinò tanto che le loro fronti quasi si sfiorarono. Non sembrava sentirsi affatto minacciato né offeso da quelle parole così irrispettose - dette da un omega, per di più. Aveva scoperto i denti e i suoi occhi erano diventati scuri, ma a Sherlock sembrarono più sintomi di eccitazione che di rabbia.
“No” disse roco. “Voi, voi non sapete cosa dite, se pensate che me ne potrei pentire anche solo per un’ora.”
Poi sorrise. Provocatorio. Languido.
“Signore-” si intromise debolmente il maggiordomo, che sembrava sconvolto dalla situazione che si era venuta a creare.
Sherlock prese un grosso respiro, poi si raddrizzò, allontanando il viso da quello dell’alfa.
Era la prima volta in vita sua che veniva pervaso da una simile sensazione di frenesia, fatta eccezione per i giorni del calore.
Era intrigato. Voleva. Desiderava. E non si sentiva umiliato, né schiavo di una natura perfida e traditrice. Al contrario: si sentiva vivo. Energico. In controllo di una debolezza che non sembrava neanche più tale.
“Andate a chiamare la marchesa” ordinò.
Il maggiordomo emise una sorta di squittio.
“Ma, signore, sapete bene che-”
“Se al vostro ritorno il vostro padrone si dovesse lamentare di un qualche affronto subito, vi do il permesso di punirmi con la morte” disse John Watson guardandolo negli occhi. Sorrideva con aria maliziosa, ma complice.
Sherlock sorrise a sua volta.
“Avete sentito? Andate.”
Non appena il servitore fu uscito, i due si riavvicinarono come attratti da un magnete invisibile.
“Avevo tentato più volte di immaginare come foste fatto” sussurrò John Watson carezzandogli la guancia con il dorso di una mano. Sherlock gli afferrò il polso e ne baciò l’interno; l’altro si lasciò sfuggire un sospiro deliziato e sorrise. “Credevo che il vostro scarso successo in campo amoroso derivasse da un aspetto sfortunato, amplificato da un carattere difficile. Poi, tre giorni fa, vi ho visto. E…”
Sherlock rise. Si rese conto che una forza sconosciuta sembrava avergli sottratto peso, lasciandolo fluttuante nell’aria. Un’euforia misteriosa che lo galvanizzava.
“Vi siete ricreduto?” chiese cingendogli la vita con un braccio.
John Watson tacque e lo guardò con malcelato desiderio.
“Sì” sussurrò sulle sue labbra. “Dio, sì.”
Fu un bacio colmo di rispetto, piacere, gioia. Sherlock non era abituato a nessuno dei tre e dovette aggrapparsi alle sue spalle per tentare di riprendere possesso delle proprie gambe. Teneva gli occhi chiusi e si sentiva caldo, leggero, meravigliosamente confuso.
John Watson si separò da lui senza fiato.
“Sposatemi” disse con urgenza, prendendogli il viso in entrambe le mani. “Sposatemi domani. Ditemi di sì.”
Sherlock appoggiò la fronte alla sua e sospirò.
“Sì.”
 
*
 
Quando tornarono a bussare alla porta, si separarono, sorridenti.
“Prego” disse Sherlock, gli occhi ancora fissi in quelli dell’altro. John aveva quasi le lacrime agli occhi.
Sua madre entrò in un turbinio di gonne e ventaglio.
“Oh, Sherlock, è vero dunque?” esclamò al colmo della gioia, sfiorandogli una guancia con una carezza.
Suo figlio alzò gli occhi al cielo. John si schiarì la voce e, dopo essersi inchinato, avvicinò le labbra alla mano della donna.
“Marchesa” disse reprimendo a stento un sorriso. Aveva notato che Sherlock sembrava indispettito da tutto quel giubilo. “Lieto di rivedervi.”
La signora Holmes rise deliziata.
“Capitano” disse facendosi allegramente aria col ventaglio. “Voi siete un angelo. Avete compiuto il miracolo! Si era persa del tutto la speranza.”
John arrossì e raddrizzò la schiena, sistemandosi a disagio la spada sul fianco. Sherlock emise un verso seccato.
“Vi ringrazio per avermi presentato al meglio, madre” disse acido indicandole la propria sedia.
La marchesa prese posto come una regina sul trono.
“Caro, io ho sempre saputo della tua natura ostica, ma in fondo buona. Avevo però il terrore che nessun altro se ne accorgesse.”
John sorrise con fare educato ma non commentò, visto che non voleva offendere né lei, né Sherlock.
“Marchesa, l’ho già domandato a vostro figlio, ma ritengo indispensabile anche la vostra benedizione: vorrei avere l’onore della-”
“L’avete!” gridò la signora, le guance rosse per l’entusiasmo. “L’avete, capitano!”
John non potè fare a meno di sorridere per la gioia riconfermata, e Sherlock, seppure ancora infastidito, non potè fare a meno di unirsi a lui.
“Credete che la cerimonia possa essere celebrata in fretta?” chiese impaziente il capitano.
“Deve!” rispose subito la marchesa. Sherlock digrignò i denti: aveva paura che John ci ripensasse, e non faceva nulla per nasconderlo. “Al più presto.”
“Domani due giugno sarebbe una data adatta?”
La donna stava già per dire sì quando si interruppe di colpo. Sherlock la fulminò con un’occhiata.
“Temo che questo non sia possibile, capitano” mormorò la marchesa con aria afflitta. “Dalla morte del mio adorato marito, la custodia di Sherlock è passata all’unico alfa rimasto nella famiglia: suo fratello Mycroft.” Sospirò. “E il caro Mycroft al momento si trova in Francia. Senza il suo permesso, Sherlock non si può sposare.”
John impallidì per la delusione. Sherlock, furioso, battè un piede a terra.
“Ridicolo! Non sono una proprietà che si trasmetta da una persona all’altra. Non ho alcun bisogno del benestare di Mycroft!”
Sua madre emise un verso di dissenso.
“Sherlock, abbiamo già parlato di queste tue strane idee ribelli. Non essere sciocco. Certo che hai bisogno del suo benestare. E’ il tuo tutore; il suo compito è di proteggerti, di scegliere quel che è meglio per-”
“So io quel che è meglio per me!” gridò Sherlock, rosso in volto.
John gli sfiorò un braccio per calmarlo.
“Non è possibile ottenere il suo permesso via lettera?” chiese, pallido e nervoso.
La marchesa sembrò riflettervi su.
“Sì” disse infine con aria penserosa. “Penso che la legge lo consenta.” Guardò con aria speranzosa i due, che erano ancora vicini. “Gli scriveremo in modo che possiate unirvi al più presto.”

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Capitolo 3
*** III ***


III
 
 
 
 
Mio caro fratello,
 
apprendo con gioia la buona novella. E’ una vera benedizione sapere che, nonostante i tuoi scetticismi e la tua natura testarda, tu sia riuscito ad abbracciare la promessa di una felicità duratura.
Tuttavia, per quanto concerne la tua richiesta di un mio assenso scritto che vi consenta di stringere presto questo tanto auspicato vincolo, mi trovo costretto ad opporre un rifiuto. E’ mio desiderio conoscere di persona questo coraggioso capitano Watson prima di concedere il mio benestare.
Non lascerò che un membro della casata degli Holmes si unisca a chiunque non abbia incontrato la mia totale approvazione.
Sarò di ritorno sabato dieci giugno. Confido che saprai attendere.
Ti porgo ancora le mie congratulazioni,
 
                                                                               Mycroft
 
*
 
“Maledetto!” sbottò Sherlock furibondo, accartocciando la lettera e scagliandola via.
John strinse i pugni e tacque di fronte alla sua collera. Seduto su una poltrona dello studio di Sherlock, si tormentava un labbro con il pollice, pallido e cupo in volto.
“Se crede di poter fare quello che vuole di me-”
“Temo che possa farlo, signor Holmes” lo interruppe tristemente John. “E’ una legge disumana, la nostra.”
Si alzò in piedi e gli si fece vicino. Gli aveva a malapena sfiorato i capelli con una carezza rassicurante quando il maggiordomo, sempre ritto in piedi nella sua posizione di guardia davanti alla porta, si schiarì la voce con fare di disapprovazione.
Sherlock perse le staffe.
“Fuori!” gridò, gli occhi che mandavano lampi. “Fuori di qui! Non sono in calore, il capitano Watson è perfettamente capace di moderare i suoi slanci, e anche se non lo fosse saremo sposati fra dieci giorni a dir tanto! Cosa importa se succederà nella prossima ora o durante la prima notte di nozze?”
Il viso del maggiordomo divenne di fuoco.
“Ma, signore, cercate di capire-”
“Fuori, ho detto!”
“Signor Holmes…”
“Silenzio, capitano! E voi, mi avete sentito? Fuori!”
L’uomo balbettò impaurito, ma rimase al proprio posto, irremovibile.
John trattenne Sherlock, che si era già gettato in avanti, dall’usargli violenza e lo fece riaccomodare sulla sua sedia.
“Signor Holmes, il suo servitore obbedisce solo agli ordini” tentò di convincerlo in tono ragionevole. “Non è sua la scelta di stare qui. Anzi” lanciò uno sguardo di scuse al pover’uomo, “credo proprio che gradirebbe essere da tutt’altra parte.”
Sherlock digrignò i denti ma gli prese una mano fra le sue e la strinse forte.
“Non sopporto più questa prigione. E’ casa mia, e non posso fare niente di quello che vorrei davvero!” mormorò, la voce colma di frustrazione.
John sorrise con calore.
“Vi porterò via di qui. Presto. E potrete fare quello che vorrete, quando vorrete, tutte le volte che vorrete.” Gli baciò le nocche. “Ve lo prometto.”
Sherlock lo guardò negli occhi.
Quell’uomo gli stava offrendo la libertà, il vincolo coniugale, devozione e amore tutto in una volta. Com’era possibile? Era un alfa. Avrebbe dovuto dirgli con una risata sprezzante che dal giorno delle nozze in avanti, la sua vita sarebbe stata una mera appendice dei suoi desideri e delle sue voglie. Nulla di più.
Sposato, e reclamato, Sherlock avrebbe potuto finalmente andare ovunque volesse senza correre alcun rischio. Il suo odore sarebbe cambiato; il suo status pure. Esistevano punizioni gravissime per chi profanava il sacro legame fra un alfa e un omega uniti dal matrimonio e dalla natura. Nessuno avrebbe osato attaccarlo. Sarebbe stato libero, libero di condurre ricerche in giro per il mondo, libero di seguire la sua curiosità, libero di parlare con chi voleva senza irritanti maggiordomi di mezzo. Libero, e al sicuro.
Lui aveva tutto da guadagnare da quell’accomodamento. Ma John? Cosa poteva guadagnarci, lui?
Nei giorni trascorsi ad aspettare la risposta di Mycroft, seduti in giardino o intorno alla sua scrivania, avevano parlato per lunghe ore delle loro vite prima di incontrarsi. John aveva ricusato l’obbligo di prendere un compagno perché gli aveva preferito il combattimento, il dovere e il piacere di soldato; gli aveva detto di aver rifiutato molte proposte da omega persino più blasonati e ricchi di lui pur di seguire le sue inclinazioni.
Dunque non intendeva sposarlo per avere né un titolo, né la sicurezza economica. Era un combattente eccelso, un eroe di guerra, e aveva un carattere e un aspetto più che piacevoli. Non doveva mai aver avuto difficoltà a essere oggetto di desiderio.
Di cosa mai si poteva trattare? Sherlock voleva saperlo, aveva bisogno di saperlo.
“Capitano” cominciò, sciogliendo l’intreccio delle loro mani. L’altro gli rivolse un’espressione interrogativa. “Sarò sincero con voi, perché la sincerità è il minimo che vi devo.”
“Parlate” lo incalzò John, fattosi curioso.
Sherlock lo guardò a lungo negli occhi, cercandovi un qualunque indizio, una qualunque manifestazione evidente del motivo che stava cercando, prima di domandargli: “Perché io? Perché un omega che vi ordina di tacere e vi giura vendetta se mai lo deluderete? Non comprendo.” Scosse la testa. “Siete un alfa.”
John sorrise.
“E voi siete un omega. Dovreste essere nulla più che una culla umana per i miei figli. Eppure, guardatevi.” Lo indicò con un ampio gesto della mano con quella che sembrava ammirazione. “Sono certo che siete in grado di superare per carattere e intelligenza gran parte dei miei pari. Vi ho detto che per anni ho preferito la guerra ad un eventuale legame: non capite? Non desidero un inferiore, un mero sfogo per i miei istinti, e nemmeno qualcuno che mi tema e senta paura in mia presenza. Voglio qualcuno che si riveli una sfida, per me, che non mi faccia perdere lo spirito combattivo. Un compagno che mi rispetti, ma con cui si possa instaurare un rapporto di forze opposte. Un uomo da poter amare… da poter meritare.” Distolse lo sguardo. Ancora una volta, sembrava imbarazzato. “I racconti che ho udito su di voi vi definivano indomabile. La prima volta che vi ho sentito descritto in quei termini, ho pensato: se davvero esiste un omega che risponda alla mie aspettative, è lui.”
Sherlock, a quelle parole, si fece immobile e zitto. Lo guardò quasi con un reverenziale terrore, come se non avesse mai visto uno spettacolo simile: strano e meraviglioso a un tempo.
John si leccò le labbra e arrossì ancora di più.
“Perdonate se con questa dichiarazione vi ho messo a disagio. Abbiamo tempo per prendere confidenza l’uno con altro, e davvero io-”
Sherlock chiuse gli occhi gli baciò una mano, indugiando con le labbra sulla sua pelle per lungo tempo. John venne preso dalla commozione e gli baciò la fronte.
Entrambi ignorarono il tentativo disperato del maggiordomo di richiamarli alla decenza.
 
*
 
Il dieci giugno sembrava voler arrivare con molta più lentezza rispetto al normale scorrere del tempo.
Sebbene le giornate trascorressero in modo piacevole (Sherlock aveva mostrato al capitano i risultati e le osservazioni ottenuti grazie a anni e anni di ricerca scientifica: l’uomo ne era rimasto strabiliato, e si era espresso con parole molto più che lusinghiere, l’ammirazione e l’amore che gli illuminavano lo sguardo) i loro animi erano irrequieti. L’attesa li consumava; il miraggio della loro unione, così vicina e allo stesso tempo così lontana, li frustrava.
Il capitano Watson sembrava specialmente affetto da quello stillicidio. Diveniva più nervoso di giorno in giorno, e si rifiutava categoricamente di voler lasciare il castello, anche solo per un pretesto innocuo come una passeggiata a cavallo. Aveva richiesto a Sherlock il favore di trascorrere più tempo possibile solo con lui nei suoi alloggi - fatta eccezione per l’irrinunciabile maggiordomo - e di annullare le visite previste per quella settimana.
Sherlock ne era rimasto stupito, ma lusingato. Nessuno aveva mai voluto trascorrere tanto tempo in sua esclusiva compagnia.
Mycroft era solito ripetere sempre che, alla lunga, la sua lingua tagliente sarebbe risultata simile alla tortura cinese della goccia. Sgarbo dopo sgarbo, insinuazione dopo insinuazione, le povere vittime sarebbero uscite di senno senza possibilità di scampo. Sherlock aveva potuto riscontrare la verità di quelle sue parole acri nella vita di tutti i giorni.
Ma John Watson, in questa come in molte altre cose, si era rivelato diverso.
Pendeva dalle sue labbra; ma con una grande dignità, e nobilitato da un sentimento che agli occhi di Sherlock sembrava ardere come il sole. Si era dimostrato sinceramente interessato sia ai suoi studi, sia alla sua persona, intervallando lunghi minuti di silenzio passati ad ascoltare a commenti pacati e pertinenti.
Sherlock si beava di quella calma autorevolezza, di quel suo carattere così forte e accomodante a un tempo. I suoi sorrisi deliziati erano come un balsamo per il proprio orgoglio sempre rimasto arroccato in difesa. Ogni giorno che passava, sembrava covincersi sempre di più della bontà della sua scelta, e, per la prima volta nella sua vita, si sentì interamente appagato. Interamente felice.
Se solo avesse potuto condurre oltre le proprie esplorazioni della persona del capitano, e non solo del suo spirito, allora si sarebbe considerato vicino alla beatitudine.
Dopo quel primo - e finora unico - sconvolgente bacio, tutto ciò che la presenza irritante del maggiordomo aveva permesso erano stati sfioramenti di mani e carezze sui capelli. Tocchi fugaci che non l’avevano neanche lontanamente soddisfatto; e che, sospettava, non erano bastati in minima misura neanche al capitano.
Provava grande curiosità nei confronti dei bisogni che la sua carne sembrava avere. Era tutto nuovo per lui, e desiderava sapere quanto più possibile, nel minor tempo possibile. Questo desiderio intenso e avvolgente non era nulla rispetto alla brutalità del calore: un lume di candela, piacevole e intimo, paragonato a un incendio che appiccava fuoco a qualunque cosa incontrasse con cieca furia distruttrice.
Quella voglia era solo sua, pensava, non della natura. Il suo corpo gli obbediva, cantava; era pervaso da un’energia gioiosa; e la sua mente, per una volta, sembrava accodarsi di buon grado alla sua controparte più terrena, apparentemente incapace di evidenziare alcun lato negativo.
Il fatto che John Watson si dimostrasse all’apparenza irreprensibile non gli era però di alcun aiuto.
Aveva proposto più volte di eludere la sorveglianza, di scappare, di rifugiarsi anche solo per poco tempo in un luogo solitario: ma il capitano non aveva voluto sentire ragioni.
Dopotutto, non erano ancora sposati. Le consuetudini imponevano castità e astensione.
Ma come Sherlock ben sapeva, tutti prima o poi giungevano al punto di rottura. A volte bastava semplicemente crearlo con le proprie mani.
“Voi avete esperienza” aveva insistito una sera, mentre bevevano un bicchiere di vino nel fumoir.
Il capitano aveva lanciato un preventivo sguardo di scuse al maggiordomo e gli aveva sorriso, un rossore delizioso sul collo. “Non è di mio gradimento partire svantaggiato. Quando verrà il momento, desidero possedere almeno una basilare conoscenza del-”
“Signor Holmes, vi prego” aveva riso il capitano. Lo guardava con occhi sgranati, che non sapevano cosa fosse meglio: se fingere di essere sconvolto quando, oramai, la natura anticonformista dell’altro gli era ormai più che famigliare, o se spingerlo ad andare avanti e vedere dove il discorso sarebbe giunto. Sherlock sapeva che l’ultima possibilità era quella che lo attraeva di più. “Contenetevi. Siamo ascoltati.”
Sherlock soffiò un sbuffo impaziente dal naso.
“Non per mia volontà, perciò le conseguenze di quello che dirò non dipendono da me. Potete sempre andarvene,” disse poi rivolto al maggiordomo, ormai sempiternamente paonazzo in volto.
“Io-” tentò l’uomo, spiazzato, tormentandosi le mani.
Sherlock rivolse uno sguardo al bell’orologio a muro che troneggiava di fianco al camino. Segnava le undici e tre quarti.
“Vi chiedo fino alla mezzanotte. Uscite a prendere un po’ d’aria nel parco, e magari una rosa per l’aiuto-cuoca con i capelli rossi. ” Sorrise, ma siccome non potè fare a meno di esibire tutti i denti, impaziente com’era di restare solo con il capitano, risultò più minaccioso che rassicurante. “Portategliela. Sarà buona con voi. Credetemi.”
Riuscì ad addolcire la sua espressione semplicemente perché aveva colto con la coda dell’occhio un sorriso divertito di John.
“Mia madre non saprà nulla.”
“Poco danno può essere fatto in quindici minuti, signore” rincarò gentilmente la dose il capitano.
Il maggiordomo guardò prima l’uno, poi l’altro, indeciso e spaventato.
“Io-” ripeté.
“Avete la mia parola.”
“La nostra.”
Sherlock sorrise.
“Non finirete nei guai.”
L’uomo divenne d’improvviso rigido, dopodiché annuì svelto e grato e svicolò come un topo fuori dalla porta.
Sherlock non perse tempo. Dopo aver girato la chiave nella toppa, si voltò a fronteggiare l’altro con sguardo impaziente.
John si era alzato dalla sedia e aspettava immobile.
Qualcosa scattò nella mente di Sherlock nel vedere l’espressione aperta e onesta del suo viso, il desiderio puro e sincero nel suo sguardo.
In un attimo, eliminò ogni distanza fra loro e lo strinse per la vita, affondando il naso nei suoi capelli.
Sentire il suo odore avvolgerlo fu come essere incendiato.
Confuso ma pieno di determinazione, prese a far vagare le mani ovunque poteva, gemendo frustrato nell’incontrare nient’altro che vestiti. John sospirò e lo strinse forte, quasi impedendogli di muoversi nel suo abbraccio, impegnato a ricoprirgli il viso di baci.
“Dimmi come” gli sussurrò Sherlock all’orecchio sentendosi l’intero corpo in fiamme. “John-”
Fu allora che ogni dubbio riguardo alla natura dell’altro sparì dalla sua mente, perché il capitano manifestò con un ringhio basso e possessivo il suo temperamento di alfa.
Sherlock sentì le sue labbra prendere possesso delle proprie, calde, ruvide, prepotenti, ogni remora e delicatezza messe da parte. Una mano si insinuò nei suoi capelli e gli fece reclinare la nuca per fargli esporre il collo: Sherlock gemette con abbandono quando avvertì la sua lingua e i suoi denti assaggiare la pelle sensibile.
Fu allora che capì, finalmente, cosa significava la passione amorosa, e cosa invece era soltanto mero impulso fisico. Le sensazioni travalicavano il suo corpo: lo avvolgevano in qualcosa di più grande, indescrivibile, intenso al punto del dolore. Non aveva mai creduto che lui, Sherlock Holmes, potesse mai contenere dentro il proprio cuore tanto trasporto nei confronti di un’altra persona all’infuori di sé.
John si allontanò di colpo. Gli prese il viso fra le mani, il respiro corto, gli occhi grandi ed intensi. “Così bello” sussurrò roco sfiorandogli l’angolo delle labbra rosse di baci con il pollice. Gli sorrise incantato. “Non sei di questo mondo.”
Sherlock rabbrividì e tentò goffamente di raggiungere la sua cintura; impresa difficile dal momento che i baci erano ripresi.
“Lascia che-” provò a dire sulle sue labbra. John scosse la testa.
“No. Abbiamo poco tempo. Voglio che sia tutto per te.”
“Ma-”
“Devi sapere cosa si prova prima di poter ricreare quella sensazione” si impose John, gentile ma fermo.
Sherlock assunse un’espressione oltraggiata ma infine si convinse e annuì.
“Voglio toccarti” disse distogliendo lo sguardo, imbarazzato dal tono simile al capriccio con cui aveva pronunciato quelle parole. “Non so perché lo voglio così tanto. Perché lo antepongo al desiderio che tu tocchi me.”
John lo abbracciò e gli sussurrò all’orecchio, la voce fremente di gioia: “E’ colpa di quel sentimento che tanto detesti.”
Sherlock fece una smorfia.
“Che tanto detestavo” borbottò contrariato, come ogni volta che doveva ammettere di essersi ricreduto su qualcosa.
Avvertì l’altro sussultare e prendere un lungo sospiro tremante.
“Stringiti a me” disse poi John con voce spezzata. Sherlock obbedì.
Il tempo era poco, sentì mormorare John, il tempo era poco e lui gli chiedeva con angoscia sincera di perdonarlo se tutto gli fosse risultato troppo frenetico e brusco. Sherlock stava per ingiungergli di stare zitto quando sentì una sua mano farsi strada sotto la camicia, carezzargli la pelle, scendere oltre il suo ombelico.
La guancia premuta contro la spalla di John, trattenne il fiato; e quando avvertì le sue dita sfiorarlo e chiudersi attorno a lui con una riverenza tale da portarlo quasi alle lacrime, gemette.
John gli baciò una tempia. Il suo respiro era affannoso. Sembrava sull’orlo di qualcosa che Sherlock non conosceva.
Si impose di ricordarsi di ridefinire la parola “calore” nel proprio personale vocabolario, perché quando la mano di John si mosse, la sensazione fu di un piacere quasi bruciante. Si sentiva teso e costantemente al limite, e si disse che la sensazione sarebbe dovuta risultargli sgradevole, ma invece era tutto il contrario. Sembrava che John avesse trovato una fonte di piacere nel suo corpo che lui prima di quel momento non sapeva nemmeno di avere.
Pensò che quel momento così squisito non sarebbe potuto durare, ma invece proseguì per quelli che dovevano essere minuti interi; e quei fremiti deliziosi non fecero altro che aumentare, invadendolo da capo a piedi, accecandolo.
John sussurrò qualcosa di concitato e incomprensibile al suo orecchio. Il tono della sua voce era colmo di devozione. Sherlock lo strinse forte e venne preso alla sprovvista dalla fine- una contrazione meravigliosa, violenta, assordante, che chiuse il suo corpo in un cerchio continuo di piacere.
Quando riaprì gli occhi, si rese conto che aveva affondato i denti nella spalla di John, e che non era in grado di reggersi in piedi.
“Sedetevi.”
Obbedì senza forze. John lo cinse per la vita e lo fece accomodare su una poltrona.
Tremava e aveva il viso congestionato.
Sherlock lo guardò ancora ansimante.
“State bene?” chiese, meravigliandosi del sussurro rauco che era diventata la sua voce. Aveva urlato? Non riuscì a vergognarsene. “Vi ho turbato in qualche modo?”
John rise.
“Se mi-” Gli rivolse uno sguardo sofferente, eppure divertito. “Non vi potevate vedere. Non credo che ‘turbamento’ sia in grado di definire adeguatamente quello che avete provocato in me.”
L’orologio battè la mezzanotte.
Sherlock si risistemò gli abiti, immerso in un silenzio pensieroso. Erano tornati al voi; l’intimità dei nomi di battesimo era solo un ricordo. Il mondo al di là delle mani di John gli sembrò freddo e inaccogliente.
“Io… Vi vorrei ringraziare” disse rigido.
John, che si era voltato verso il camino e sedeva piegato su sé stesso su una scomoda sedia, come per nascondersi al suo sguardo, si girò nuovamente verso di lui.
Sherlock lo fissò con espressione decisa.
“Avvicinatevi” disse.
John obbedì.
Non sembrava a proprio agio col suo stesso corpo. Era come se qualcosa stesse rendendo difficoltosi i suoi movimenti, donandogli una goffaggine che non gli apparteneva.
Sherlock lo guardò con attenzione, nuovamente lucido.
Sembrava combattuto. Irrequieto. Quasi impaurito.
Raccolse il coraggio per superare l’umiliazione cui si stava per sottoporre e parlò.
“Ditemi cosa ho sbagliato.”
John gli rivolse un’occhiata allibita, dopodiché scosse la testa e sorrise debolmente. Si sporse in avanti per sfiorargli le labbra con un bacio colmo di tenerezza.
“Voi non potrete mai sbagliare nulla” gli disse a un soffio dal viso, la voce affranta. “Sono io che ho commesso un errore imperdonabile.”
Sherlock sorrise.
“Vi posso assicurare che questo non è vero.”
Doveva avere un’espressione particolarmente sfacciata in volto perché John rise e lo baciò di nuovo. Sherlock ricambiò con sollievo.
“Mi fate perdere il controllo” ammise infine John, le labbra sulla sua tempia. “Smarrire il senno. Inorridire di me stesso.” Sembrava sinceramente disgustato dalle proprie azioni.
Sherlock emise un verso di disapprovazione.
“Smettetela di fare penitenza. Ho chiesto io espressamente quello che è accaduto. E voi non avete nemmeno permesso che io ricambiassi.” Lo strinse con ostinazione. “Vi è proibito avvertire senso di colpa.”
John ricambiò l’abbraccio ma non lo guardò più in viso per il resto della sera.

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Capitolo 4
*** IV ***


IV


 
 
 
 
La mattina del dieci giugno doveva, nella sua testa, essere colma di gioia e sollievo, ma con sua grande perplessità si accorse che il capitano sembrava provare tutto il contrario.
Pallido in volto, passeggiava su e giù per il suo studio scosso dai nervi e da un’apparente forte preoccupazione. Era taciturno e irritabile – quasi irriconoscibile.
Sherlock imbracciò il violino. Sapeva quanto John amasse sentirlo suonare: sperava di riuscire a rilassarlo.
I suoi sforzi vennero ricompensati da un sorriso tirato.
“Suonate divinamente, come sempre” disse John sedendosi di malavoglia su una poltrona. Sembrava essersi un poco tranquillizzato. “Posso chiedervi che cos’è?”
Sherlock sorrise.
“‘La Trota’ di Schubert. Una delle mie favorite.”
“E’ splendida.”
Si sentì bussare.
“Sì?”
Una cameriera entrò nella stanza e si inchinò rispettosamente.
“Vostro fratello è arrivato, signore.”
Sherlock si illuminò.
“Non credevo che sarei mai stato felice di udire l’annuncio del ritorno di Mycroft in questa casa. A quanto pare, mi trovo costretto a ricredermi.” Concluse la sua esibizione con uno svolazzo dell’archetto, dopodiché ripose il violino. “Andiamo, capitano.”
“Mi rincresce deludervi, signore” lo interruppe timidamente la ragazza. “Ma il marchese ha richiesto un colloquio privato con il solo capitano Watson.” Esitò prima di continuare. “Dice che il suo ordine non è negoziabile.”
John allargò gli occhi per la sorpresa. Sherlock battè un piede a terra, furioso.
“Chi si crede di essere, l’Inquisizione Spagnola?” sbottò al colmo dell’indignazione.
La cameriera impallidì.
“Mi- mi rincresce, signore” ripeté.
“Non è colpa vostra” intervenne John, ragionevole. Poi, rivolto a Sherlock: “Soddisferò la richiesta di vostro fratello, ma posso chiedervi cosa mi posso aspettare da questo colloquio?”
Sherlock digrignò i denti.
“Vi passerà al setaccio per controllare che siate… adatto.” I suoi occhi mandavano lampi. “Adatto a me, e a questa famiglia.”
John rimase in silenzio per qualche secondo, guardandolo in apprensione, dopodiché annuì e si schiarì la voce.
“Fatemi strada” disse alla cameriera.
Sulla porta, si girò e sorrise esitante a Sherlock.
“Non abbiamo niente da temere.”
Sherlock, ancora stizzito, gli voltò le spalle e riprese a suonare.
 
*
 
Due ore dopo, Sherlock era al colmo della sopportazione. Aveva continuato a maltrattare il suo violino tentando di sfogarsi ma non aveva ottenuto il risultato sperato. Si sentiva impaziente e nervoso suo malgrado, e la cosa lo irritava.
Finalmente si udì bussare alla porta.
“Entrate!” urlò quasi.
La stessa cameriera di prima si fece avanti con un inchino e una busta.
Sherlock quasi gliela strappò di mano. Prese a leggere, febbrile:
 
 
 
La risposta di vostro fratello è sì.
Mi ha gentilmente chiesto di lasciarvi libero il resto della giornata, in modo che possiate condividere la vostra gioia con lui e con la marchesa.
Obbedisco con immenso piacere.
Non credevo fosse possibile amarvi più di quanto vi amavo stamattina prima di ricevere questa meravigliosa notizia, ma mi trovo costretto a ricredermi.
Con la speranza e la certezza che vi rivedrò al più presto,
 
                                                         Cap. John H. Watson
 
 
 
Sherlock sentì un moto di affetto totalmente sconosciuto verso il proprio fratello e rise.
 
*
 
Non ebbe modo di vedere Mycroft prima di cena.
Il loro rapporto era ostico per la maggior parte del tempo, per cui non si sorprese che suo fratello non fosse venuto a salutarlo, né che a lui non fosse venuto l’impulso di fare il reciproco. Nemmeno la felice circostanza attuale era stata in grado di avvicinarli.
Sherlock decise che era troppo eccitato per badarci quanto avrebbe dovuto.
Continuò a suonare motivetti allegri per tutto il pomeriggio, e quando il maggiordomo venne ad annunciargli che la marchesa e suo fratello erano già a tavola, scese le scale con passo leggero.
“Sembra che per una volta tu abbia fatto qualcosa di utile, Mycroft” annunciò con un ghigno mentre entrava nella sala da pranzo. Ignorò del tutto lo sguardo di disapprovazione della loro madre a quelle parole. “Mi hai sorpreso, devo ammetterlo.”
Suo fratello alzò lo sguardo dal piatto e sorrise con aria condiscendente.
“Mio caro Sherlock-”
Si interruppe di colpo nel vederlo. La sua espressione si tinse di puro orrore.
Sherlock alzò un sopracciglio, confuso.
Poi si corresse: Mycroft si era interrotto di colpo nell’annusarlo.
Prima che potesse fare ordine nei suoi pensieri, suo fratello si era alzato da tavola e l’aveva trascinato per un braccio fuori dalla stanza, sotto lo sguardo sbigottito della loro madre.
Sherlock tentò di divincolarsi.
“Mycroft, sei uscito di senno? Lasciami!” sibilò furioso.
“Vieni con me. Subito” ringhiò lui in risposta.
 
*
 
Dopo averlo condotto nella propria stanza, Mycroft chiuse a chiave la porta e si tirò vicino il fratello, premendo il naso contro il suo collo e annusando a fondo.
Sherlock, fuori di sé dalla rabbia, lo allontanò con violenza.
“Mycroft, levati di dosso! Immediata-”
“Sei stato reclamato” disse Mycroft con voce attonita.
Sherlock si fece immobile. Non credeva alle proprie orecchie. Si doveva trattare di uno scherzo – doveva essere uno scherzo – ma gli occhi pieni di sgomento di suo fratello gli dissero che quello non era il caso.
“Che cosa-” tentò, incredulo.
Mycroft strinse i pugni lungo i fianchi, le narici frementi.
“Sei solo uno sciocco. Uno sciocco ragazzo, incosciente e scriteriato. A cosa credevi ti avrebbe portato questo tuo atto di ribellione? Non posso credere che dopo aver trovato un uomo degno come il capitano Watson tu abbia deciso di sprecare la tua fortuna in questo modo ridicolo!” urlò.
Sherlock battè le palpebre, impietrito. Suo fratello non aveva mai urlato in sua presenza. Mai.
“Mycroft-”
“Sei disonorato. Tutto è perduto” disse con voce sconfitta, e gli voltò le spalle.
Calò il silenziò. Sherlock si sforzò di far lavorare il cervello a pieno regime, nel tentativo disperato di cercare una spiegazione a questa insensatezza.
“Mycroft” cominciò poi dopo essere tornato in controllo di sé. “Quel che dici non è vero.”
“No?” rispose sarcastico suo fratello, ancora girato di schiena. “Ti credevo abbastanza brillante da riuscire a non negare l’evidenza.”
“Non è successo nulla di ciò che stai insinuando.”
“Il tuo odore è cambiato. Si è diluito in quello di un alfa. Il tuo corpo mostra la tua appartenenza a qualcuno.” Mycroft si voltò: il suo viso solitamente calmo e inespressivo era percorso da rughe di angoscia. “Ora ti chiedo: perché? Quel Watson è sincero nel tuo attaccamento a te. E mi sembrava di comprendere che anche tu provassi qualcosa per lui, se hai acconsentito a sposarlo.”
Sherlock era basito. Per la prima volta nella sua vita, Mycroft sembrava genuinamente non capire.
“Ti ripeto” continuò, la voce vibrante di rabbia, “che non ho permesso a nessuno di reclamarmi.” Era troppo orgoglioso per implorarlo di credergli, ma il suo sguardo si ammorbidì suo malgrado, tentando di muoverlo a commozione. “Ci deve essere un errore.”
Mycroft lo guardò a lungo, come se volesse esaminarlo in ogni sua parte, e soppesarne la buonafede. Dopodiché disse: “Sono certo di non sbagliarmi, ma non possiamo lasciare spazio a nessun dubbio. Chiederò il parere di un medico.”
Si avviò in direzione della porta.
“Tu resta qui dentro” ordinò duramente, la voce che non ammetteva ragioni. “Se qualche altro alfa sente il tuo odore, il segreto verrà rivelato e non potremo fare più nulla.”
Poi, senza aggiungere altro, uscì.
Sherlock sentì le forze venirgli meno e si lasciò cadere su una sedia, tremante. Ci doveva essere un errore. Sì, era l’unica spiegazione possibile.
Si rifiutò di pensare a John con angoscia perché aveva ancora la speranza che tutto si sarebbe risolto.
 
*
 
Mycroft stava passeggiando nervosamente avanti e indietro davanti alla stanza di suo fratello quando la porta si socchiuse.
“Dunque?” chiese senza preamboli al medico, che aveva un’espressione buia in volto.
“Vostro fratello è stato deflorato” rispose l’uomo in tono dolente. “Sul collo vi sono i segni di un reclamo, ma c’è una buona notizia.”
Mycroft, pallido, annuì per spingerlo a continuare.
“La ghiandola è solo incisa, non spezzata. Il legame non è stato completato del tutto.”
“Significa che non rischia di…”
“Sì, esatto. Il nodo non ha fatto presa. E’ come se l’alfa in questione fosse improvvisamente rinsavito e avesse deciso di tirarsi indietro all’ultimo momento.”
Mycroft chiuse gli occhi e si immerse in un silenzio colmo di sconforto. Infine scosse la testa e disse:
“Vi ringrazio. Farò in modo che la vostra discrezione venga ripagata con una somma consistente.”
L’uomo gli porse la mano.
“Ci conosciamo da molto tempo, marchese. Ho aiutato vostro fratello a nascere.” Il suo sguardo era sincero, empatico. “Non lo getterò in pasto ai lupi.”
Mycroft gli strinse la mano con gratitudine.
“Vi ringrazio ancora.”
“Temo però di essere costretto a dirlo alla signora marchesa. Non ha la potestà che avete voi su vostro fratello, tuttavia… Capite, è la madre. E ho degli obblighi di amicizia anche nei suoi confronti.”
“Sì” lo interruppe Mycroft, stancamente. “Certo che capisco.”
L’uomo fece un cenno col mento e si congedò.
Mycroft prese un lungo respiro prima di bussare alla porta di suo fratello ed entrare.
 
*
 
La stanza era immersa nel buio più completo. Non una candela era accesa.
Mycroft distinse con difficoltà la sagoma rannicchiata di suo fratello in mezzo alle coperte. Con un sospiro, si sedette sul letto.
Gli posò una mano sulla spalla.
“Dimmi chi è stato” mormorò, la voce cupa ma premurosa.
Sherlock rimase rigido, immobile, e zitto.
Sherlock.”
Sentì le sue spalle tremare sotto il peso di un respiro che doveva essergli risultato molto faticoso.
“Non è possibile” fu la sua risposta, pronunciata in una voce così bassa da essere quasi inudibile. “Non è vero”.
C’era ancora una certa rabbiosa testardaggine nella sua voce. Mycroft ne fu irritato e perse le staffe.
“Smettila di evitare le tue responsabilità. Sai benissimo cosa è successo. Non mi mentire.”
“Non ti sto mentendo!” sbottò furente l’altro, rannicchiandosi ancora di più nelle lenzuola. “Non è mai accaduto nulla di quel genere.”
Tacque per qualche secondo, poi si corresse, in tono più controllato: “Io e il capitano Watson… Siamo stati intimi. Ma non ci siamo nemmeno lontanamente avvicinati al reclamo.” Tirò su col naso. “Questo è tutto quello che so. Sei libero di non crederci, ma questo non rende i miei ricordi meno veri, né le mie parole meno sincere.”
Mycroft scosse la testa e si alzò in piedi.
“Spero che per l’ora in cui dovrai affrontare nostra madre, tu avrai pensato a giustificazioni più solide di queste. Anche se dubito che questa volta il tuo ingegno riuscirà a salvarti.”
Poi uscì, lasciandolo solo e in balìa della confusione più completa.
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: risponderò al più presto ai deliziosi commenti <3 Grazie della pioggia d’amore che avete riversato su quella pover’anima del maggiordomo, e a presto!

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Capitolo 5
*** V ***


Il suo ingegno, come aveva ben previsto Mycroft, non salvò Sherlock dal disastro.
Sua madre svenne, pianse, gridò al tradimento e al disonore. Lo cacciò di casa giurandogli che mai più l’avrebbe guardato negli occhi tanta era la sofferenza che il suo crimine le aveva inflitto.
Sherlock non tentò neanche di convincerla del fatto che era innocente. Tutti sembravano decisi a credere nella cruda evidenza dei fatti (come in altre circostanze, e lo realizzò con rabbia, avrebbe sicuramente fatto lui stesso) e non a quello che lui aveva da dire. Si rassegnò a soffocare il disperato senso di impotenza da cui si sentiva invaso e a tornare insensibile, freddo e ignaro della gioia autentica come un tempo, perché solo pensando di non averla mai vissuta poteva sopportare di averla persa per sempre.
La testa china, ascoltò la sua condanna in silenzio, i pugni chiusi lungo i fianchi unico segno del suo malessere.
Mycroft intercesse per lui e convinse la loro madre a segregarlo nella loro casa di campagna, sperduta nel nulla; solo campi e campi di sterpaglie gelate a perdita d’occhio. Nessuna anima viva si sarebbe mai spinta a fargli visita eccetto i loro servitori, per rifornire la dispensa. Avrebbero inventato una sua improvvisa vocazione per l’isolamento più assoluto e così le apparenze si sarebbero salvate. Gli unici a essere a conoscenza dell’increscioso fatto erano Sherlock stesso, Mycroft, la loro madre e il medico di famiglia, e così sarebbe stato fino alla fine dei suoi giorni.
 
*
 
In carrozza, diretto verso il luogo del suo esilio forzato, Sherlock insinuò una mano sotto i fitti ricci che gli coprivano la nuca.
Sotto i suoi polpastrelli, innegabile marchio di infamia, il segno di un morso che non ricordava di aver mai subito; e che ora lo destinava a un futuro di vergogna e solitudine.
Ciò che più lo faceva soffrire era immaginare la delusione del capitano Watson. Il pensiero di aver perso il suo favore, di aver spento per sempre la luce ammirata che si accendeva nei suoi occhi ogni volta che il suo sguardo si posava su di lui, lo tormentava quasi più della sua stessa disgrazia.
Ripensò a quella frase che lui gli aveva detto, a quel commovente: “Mi basta sapere che pensate bene di me,” e solo allora capì il vero significato di quelle parole, il bisogno, la supplica che vi era nascosta dietro.
 
*
 
La natura testarda di Sherlock fece in modo che quel limbo di sgomento lo intrappolasse per poco meno di due giorni.
Sistematosi meglio che poté nella sua nuova prigione, si rimboccò le maniche e, descrivendo a grandi passi cerchi su cerchi nel giardino della tenuta, prese ad analizzare il problema da ogni lato possibile.
Dopo lunghe ore di riflessione, seppur a malincuore, giunse a un’unica possibile spiegazione di tutti i fatti.
Vi erano innegabili prove fisiologiche di un’unione consumatasi fra lui e un alfa. Era assolutamente sicuro di non ricordare alcunché dell’accaduto, ma questa sua certezza non era del tutto incompatibile con la triste verità. Aveva letto resoconti di eventi molto traumatici in grado di provocare amnesie temporanee o meno.
Proseguendo con questa linea di pensiero, l’unico momento di vulnerabilità in cui qualcuno avrebbe potuto facilmente approfittare di lui coincideva con l’assalto al castello: al tempo era in calore e ferito alla testa. Le memorie di quei terribili momenti purtroppo rimanevano così vaghe da non permettergli di indagare più a fondo.
Era davvero possibile che qualcuno fosse stato in grado di usargli una tale violenza senza che lui ricordasse nulla? Sì, era possibile. Lo stato di confusione tipico del calore e la percossa al capo lo avevano reso una vittima perfetta. Doveva poi aver rimosso tutto, incapace di fare i conti con la vergogna che si era trovato a provare una volta tornato in sé. John l’aveva trovato svenuto e l’aveva portato in salvo quando probabilmente il suo aggressore era già fuggito.
Altrimenti, si disse, avrebbe sicuramente detto qualcosa al riguardo.
Sherlock si fermò davanti al cancello della tenuta al far della sera. I piedi gli dolevano e una grande stanchezza fisica e mentale si era impossessata di lui.
Si concesse di pensare un poco al capitano per trarre sollievo dalle belle memorie che gli associava. Ricordò il tocco caldo delle sue mani e la luce gentile dei suoi occhi, tenendo lo sguardo fisso sulle nuvole fattesi dorate e imponendosi di non farsi vincere da qualcosa di così stucchevole come la malinconia.
Poi voltò le spalle al tramonto e tornò a camminare.
 
*
 
Quella stessa notte, solo nel proprio letto, prese la sua decisione.
Non vi era possibilità di scendere più in basso di così. In qualche modo, tuttavia, quelle deprimenti circostanze si stavano rivelando stranamente liberatorie: niente gli impediva di andare fino in fondo a quel mistero. Mai si era sentito così completamente padrone del proprio destino - per quanto sventurato.
Sì, non sarebbe perito senza perlomeno capire la ragione della sua sconfitta. Avrebbe fatto la sua mossa la mattina seguente; e forse, con la fortuna dalla sua parte, avrebbe infine scoperto la verità.
 
*
 
Ignaro dei disagi di Sherlock, il capitano, da parte sua, si era fatto a poco a poco consumare dall’ansia.
Tre giorni erano passati senza nessuna sua notizia. Non aveva nemmeno ricevuto risposta al biglietto con cui gli comunicava la benedizione di suo fratello al loro matrimonio.
Nel suo alloggio in una locanda poco lontana dal maniero degli Holmes, John passò il suo tempo a passeggiare su e giù per la stanza invaso da un crescente terrore, incapace di calmarsi.
La sua mente non poté fare a meno di pensare al peggio. Era di certo successo quello che aveva temuto sin dall’inizio.
Se solo la loro unione si fosse potuta celebrare subito
 
*
 
La mattina del quarto giorno i suoi nervi cedettero e lui si recò al castello. Come si era immaginato nei suoi peggiori incubi, gli impedirono di vedere Sherlock.
In sua vece, un’espressione addolorata in volto, scese a parlargli suo fratello.
“Capitano Watson, mi rincresce essere portatore di cattive notizie,” cominciò con sincero rammarico l’uomo, “ma purtroppo mio fratello si è gravemente ammalato. Non posso permettervi di vederlo.”
A quella notizia John Watson spalancò gli occhi e si accasciò su una sedia, scosso da tremiti irrefrenabili.
Mycroft sospirò e gli pose una mano sulla spalla.
“Credetemi, condivido il vostro dolore” mormorò tristemente. “E’ successo all’improvviso. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che-”
“Vi prego, smettete di mentirmi” disse angosciato il capitano rialzando la testa, le lacrime agli occhi. “So cosa è accaduto a vostro fratello.”
Mycroft ritirò la mano dalla sua spalla.
“Voi sapevate di questa fatto vergognoso?” disse allibito.
John Watson annuì senza il coraggio di guardarlo negli occhi. Mycroft rimase brevemente senza parole, agghiacciato, poi indagò:
“Siete a conoscenza dell’identità dell’aggressore, dunque?”
Un altro debole segno affermativo.
Mycroft sentì una sorda collera montare dentro di sé.
“Ma perché non avete parlato sino ad ora?”
Il capitano si fece mortalmente pallido e tornò a seppellire il viso nelle mani.
“Mio Dio, che cosa ho fatto” balbettò pieno di vergogna. “Che cosa ho fatto.”

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Capitolo 6
*** VI ***


VI
 
 
 
La mattina di due giorni dopo la sua risoluzione notturna, Sherlock scese in salotto per trovarvi il proprio fratello pigramente seduto sulla sua poltrona, lo sguardo colmo di disapprovazione fisso su ogni angolo della stanza.
“Sherlock, benedetto ragazzo. A malapena una settimana di permanenza e già la casa è ridotta in questo stato deplorevole” borbottò Mycroft con un sospiro.
“Che diavolo ci fai qui?” sibilò l’altro imbracciando il suo violino e volgendogli le spalle, deciso ad ignorarlo almeno fisicamente. “Nostra madre ti manda a spiarmi? Vuole sapere se il suo piccolo reietto è arrivato a uccidersi per la disperazione? Ha!” Gli brandì contro l’archetto come una spada. “Dille che da me può scordarsi certi disgustosi atti sentimentali.”
Mycroft si rigirò lentamente il bastone da passeggio fra le mani, lo sguardo penetrante fisso sul fratello minore.
“Nostra madre è ancora furiosa con te ma questo non la esimerà mai dal preoccuparsi.” Gli rivolse un sorriso amaro. “Non che questo costituisca una sorpresa, d’altronde. Sei sempre stato il suo preferito.”
Sherlock smise d’improvviso di suonare e si voltò a guardarlo.
“Lo sai” disse lento, stranamente esitante, “che io non l’ho mai voluto, questo.”
Mycroft sospirò.
“Sì, so perfettamente che non hai mai fatto nulla per esserlo. Piuttosto il contrario, direi.” Un altro sospiro, più profondo. “Ciononostante…”
Sherlock aggrottò le sopracciglia. Mycroft sorrise con fare pensieroso.
“Non tutto a questo mondo può essere facilmente spiegato, mio diletto fratello” disse in tono distratto. “L’amore, come oggetto di studi razionali, è molto elusivo.”
“Cosa potrai mai saperne tu.”
Mycroft rise di fronte a quella risposta così secca e immediata.
“Nulla, nulla, ovviamente. Non pretendo di essere un’autorità in merito.”
Sherlock vide che stava stringendo forte il manico del suo bastone, come faceva le rare volte in cui provava emozioni così intense da richiedere uno sforzo fisico per essere tenute bada.
D’improvviso non seppe più che dire e tra loro calò un silenzio teso e scomodo.
Incapace di sopportarlo a lungo, Sherlock fece schioccare la lingua e si sedette con eccessivo impeto sul divano.
“Dimmi perché sei qui, Mycroft” mormorò con lo sguardo ostinatamente fisso fuori dalla finestra.
Suo fratello si prese diversi attimi prima di rispondere, limitandosi a guardarlo con aria indecifrabile.
“Ti credo” disse in tutta semplicità.
Si fece sfuggire uno sbuffo esasperato di fronte allo sguardo allibito di Sherlock.
“Dato il perfetto funzionamento del tuo apparato uditivo, non è certo necessario che io mi ripeta.”
Sherlock si riscosse subito dal proprio imbarazzante stupore e gli lanciò un’occhiata supponente.
“Ce ne hai messo di tempo per tornare in possesso di quel poco di sale in zucca che ti ritrovi, razza di stupido” sbottò. Dopodiché si alzò in piedi e uscì dalla stanza con un teatrale svolazzo della propria vestaglia.
Mycroft fece appena in tempo a notare sulle sue labbra un fugace sorriso.
 
*
 
“Lo sai che mangiare carne cotta nuoce alla tua fragile salute.”
Un ghigno crudele.
“O meglio, lo sai che semplicemente mangiare nuoce alla tua fragile salute.”
Mycroft si pulì la bocca con il tovagliolo e lanciò uno sguardo accigliato al proprio fratello.
Sherlock, al di là della tavola, stava giocherellando con un coltello, un’espressione arrogante in viso. Sembrava fermamente deciso a non toccare nulla del piatto che aveva davanti.
Mycroft inspirò raccogliendo a sé tutta la pazienza di cui disponeva e si portò alla bocca un altro poco di arrosto.
“Ti interesserà sapere che ho parlato con il tuo capitano, caro fratello.”
Sorrise quando udì il rumore metallico del coltello che cadeva con malagrazia sulla tavola.
“Che cosa hai detto?” esalò Sherlock, le labbra strette in una linea sottile.
Mycroft notò che la mano che aveva lasciato cadere la posata tremava.
“Non avendo più avuto più notizie, è entrato in uno stato di grande preoccupazione ed è venuto a chiedere di te.”
“Gli hai-”
“Sì, gli ho propinato la tua debole storiella della malattia.” Bevve un sorso di vino. Sherlock fece schioccare la lingua, innervosito da quella pausa indesiderata. “Ma temo che abbia chiamato il tuo bluff. Si è dimostrato affatto stupido. Credevi davvero che un uomo con il fegato di chiederti in matrimonio avrebbe desistito così facilmente?”
Sherlock si alzò da tavola con un movimento improvviso.
“Non agitarti. Renderai difficile la digestione di tutto quello che non hai mangiato” lo ammonì placidamente Mycroft.
“Al diavolo tu e il tuo dannato cibo!” urlò Sherlock, fuori di sé. Era divenuto paonazzo in viso e stringeva il tavolo con nocche ormai divenute bianche. “Cosa significa quello che hai detto? Che cosa-”
“Significa che ha capito tutto, Sherlock.” Mycroft appoggiò con lentezza i gomiti sul tavolo e gli rivolse uno sguardo intenso. “Ma la cosa più importante è che mi ha vivamente detto di riferirti che non gli importa.”
Sherlock impallidì. Si risiedette di colpo, passandosi una mano fra i capelli.
“Non può essere vero” mormorò sbigottito.
“Concordo con te che sia un comportamento inusuale per un alfa – un soldato, per di più. Solitamente i militari hanno il vizio di voler conquistare omega come fossero fortezze.”
Aveva usato lo stesso tono pigramente vago che adottava di solito per parlare del tempo.
Sherlock digrignò i denti, fulminandolo con un’occhiata.
“Mycroft, ti avverto, se non cessi immediatamente di prenderti gioco di me-”
“Calmati, Sherlock. Non è mai stata mia intenzione.” Riprese a tagliare la carne, imperturbabile. “Il capitano mi ha detto di averlo capito già durante il vostro... Idillio.” Si forzò la parola dalle labbra come se fosse qualcosa di eccessivamente dolce rimastogli incastrato fra i denti.
Sherlock assunse un’espressione confusa.
“Non me ne ha mai parlato” mormorò.
“Non voleva turbarti inutilmente, dato che aveva già deciso di sposarti nonostante questa incresciosa circostanza.”
“Sa chi è stato?”
“No, e nemmeno gli interessa. Ha espresso il più ardente desiderio di riunirsi presto a te e dimenticare questa orrenda storia il prima possibile.”
Sherlock non riuscì a sopportare oltre quel discorso e abbandonò la stanza senza una parola in più.
Mycroft sospirò, prendendo a massaggiarsi le tempie con la punta delle dita.
Finì di cenare in silenzio e in solitudine.
 
*
 
La mattina seguente, in piedi sulla porta della sua camera da letto, Mycroft sbuffò e osservò con vago fastidio l’involto di coperte che era suo fratello muoversi con lentezza, raggomitolandosi più strettamente su un fianco.
“Mi rincresce rinunciare alla tua come sempre deliziosa compagnia, mio caro fratello, ma temo di essere costretto a tornare a casa. Gli affari non aspettano.”
Prevedibilmente, non ottenne risposta.
“Buona giornata, Sherlock” disse in tono conclusivo.
Stava per chiudersi la porta alle spalle quando udì un sussurro quasi incomprensibile:
“Mycroft.”
La sua mano si appoggiò sulla maniglia, ma non la spinse. Con un sospirò, si voltò per vedere Sherlock appoggiare la schiena ai cuscini e guardarlo con un’espressione incerta che sul suo viso sembrava completamente fuori posto.
Sei sempre stato il suo preferito.
“Sì?” chiese, alzando un sopracciglio.
Sherlock continuò a guardarlo, incapace, all’apparenza, di parlare.
In un lampo di deplorevole nostalgia Mycroft rivide il viso incerto di un bambino pallido e ricciuto che lo seguiva ovunque, chiedendogli con lo sguardo domande silenziose su ciò che non riusciva a capire del mondo.
Tu lo sai che io non l’ho mai voluto, questo.
 “Puoi… Mandarlo da me?” mormorò infine Sherlock, abbassando gli occhi sulle lenzuola.
Mycroft divenne immobile e sembrò ponderare la sua richiesta. Infine, distogliendo lo sguardo, disse:
“Implicherebbe disobbedire a nostra madre.”
“Lo farai?”
Strinse forte la maniglia.
L’amore, come oggetto di studi razionali, è molto elusivo.
“Sì.”
Sherlock abbandonò completamente la sua apparenza misera ed emise un chiassoso verso di giubilo. Saltato giù dal letto, prese a vestirsi in fretta e furia, un sorriso soddisfatto sulle labbra. Tremava di eccitazione.
Mycroft si chiuse la porta alle spalle.
Sherlock aveva un certo talento per la recitazione, ma la sua bravura non poteva niente contro i legami di sangue. Il suo tentativo di far passare la propria supplica per una manipolazione insincera era miseramente fallito.
Ma per quanto si sforzasse non riusciva a biasimare il suo comportamento. Non erano mai stati capaci né di aiutarsi né di farsi aiutare alla luce del sole: persino le loro poche gentilezze reciproche erano mascherate da furbi sotterfugi, da do ut des, da estorsioni. Ammettere di tenere l’uno all’altro pur immersi sino al collo nella loro faida fraterna, d’altronde, era un pensiero davvero paradossale.
Cosa potrai mai saperne tu.
Mycroft si concesse un sorriso amaro. Uno solo. Poi reindossò la sua usuale maschera di indecifrabilità e, salito in carrozza, ordinò al occhiere di partire.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: ritorno dopo l’agognata pausa estiva *getta coriandoli*
Spero vi sia piaciuto <3

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