Shame di nightswimming (/viewuser.php?uid=11000)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 1 *** I ***
Note
dell’autrice: buongiorno
fandom <3 Rieccomi con un’altra fatica (?!).
Sopportatemi, l’estate è calda
e noiosa e io ho bisogno di distrarmi XD
Questo
delirio è nato da un project dell’inglisc fandom
che si divertiva a reinventare
opere d’arte, testi di canzoni e trame di libri in chiave
sherlockiana (fate un
giro su Tumblr con il tag “let’s draw
sherlock” – troverete cose fantastiche
XD). Dopo aver letto una versione assolutamente epica di
“Orgoglio e
pregiudizio” in cui John veste i panni di Lizzy Bennett ho
sentito il bisogno
insopprimibile di saltare anch’io sul carro
dell’harmony gay in costume, e così
eccomi qua.
Questa
storia è un’omegaverse!AU ambientata
nell’800 - ridete pure, io non faccio
altro da quando mi sono messa a scriverla XD – ispirata alla
“Marchesa di O” di
Heinrich Von Kleist, che, poveretto, a quest’ora si
starà vivacemente rivoltando
nella tomba e col quale mi scuso tantissimo. ç_ç
Inutile
dire che Sherlock fa la marchesa (scusa, Sher) (con quanta gente mi sto
scusando XDDD ma d’altro canto è il minimo),
mentre John è sempre John, cioè un
capitano dell’esercito inglese BAMFissimo e col fascino
aggiunto della divisa
storica.
Due
parole su come verranno trattati l’omegaverse e lo slash
durante questo
drammone.
Il
matrimonio omosessuale è consentito dalla legge,
perché la mia take sul XIX
secolo è molto gaia open-minded e giusta
e buona. Ciò detto, gli omega sono
esseri considerati deboli, utili quasi solo a sfornare bambini (non il
caso di
questa storia) e socialmente inferiori, al punto da avere bisogno
dell’autorizzazione
di un alfa (famigliare o consorte) per fare praticamente qualunque cosa
- dall’andare
in giro al gestire i propri beni al rimanere soli con altre persone in
una
stanza. Ovviamente, nel caso un omega dovesse avere un rapporto
pre-matrimoniale (o anche solo subirlo), il suo onore sarebbe spacciato
e si
ritroverebbe ad essere una sorta di paria, rigettato da tutti e
condannato a
fare una vita da cani per il resto dei suoi giorni; mentre per
l’alfa non ci
sarebbe nessun problema, obviously. Dove l’ho già
sentita questa storia? *sighs*
Anyway
- gli alfa riconoscono gli omega reclamati dall’odore, che
captano anche a
centinaia di metri di distanza, ma non sono in grado di sapere
l’identità né dell’omega
in questione né dell’alfa che l’ha
reclamato: ciò significa che sanno che
devono starci lontano ma non sanno nelle ire di chi incorrerebbero nel
caso
dovessero sgarrare.
Una
volta formato, il Legame fra alfa e omega è eterno e
indistruttibile, nonché
estremamente intenso – al punto da provocare una sorta di
malessere fisico se i
due stanno lontani troppo a lungo.
Come
la gran parte delle storie omegaverse, vi è la problematica
del consenso ogni
qualvolta gli omega entrano in calore e tutti sembrano andare fuori
come
citofoni. E’ anche il caso, in senso lato (poi capirete) di
questa storia – per
cui se l’argomento vi turba vi consiglio di astenervi dalla
lettura.
Ma
non fatevi spaventare da questa clausolina. La storia per la maggior
parte
gronda romanticismo, dichiarazioni d’ammmore e sviolinate
(letterali e non).
Anzi, colgo la palla al balzo per avvertirvi che forse Sherlock
potrebbe
risultare un filo OOC. Io ho tentato di non farmi prendere troppo la
mano, ma
il rischio potrebbe esserci.
Vi
annuncio con magno gaudio che la fic è già
terminata (?!!!), comprende circa
una quindicina di (corti) capitoli e verrà aggiornata
settimanalmente.
Che
giorno è oggi? *checks* Giovedì, benissimo,
quindi ci vediamo giovedì prossimo
<3
Spero
vi piaccia :*
Shame is the shadow of love.
“Shame”, PJ Harvey
I
Sherlock Holmes era quello
che si poteva considerare un ottimo partito.
Fra
tutti gli omega spiccava per intelligenza e per un peculiare, esotico
tipo di
bellezza. Apparteneva inoltre a una famiglia nobile e danarosa che in
futuro gli
avrebbe garantito una rendita molto più che cospicua. Era in
salute, colto e
perfettamente educato; parlava diverse lingue senza sforzo; suonava il
violino
da virtuoso.
Eppure,
all’età di trent’anni, non era ancora
stato reclamato da nessuno.
Suo
fratello Mycroft, con crudele ironia, dava spesso la colpa di questo
increscioso stato di cose a una qualche malformazione, a uno scherzo
del
destino. Sherlock infatti possedeva un carattere che non aveva niente della natura
remissiva e
accomodante degli omega: era autoritario, sprezzante, orgoglioso ed
egocentrico. A colpo d’occhio, sarebbe sembrato un alfa come
il maggiore degli
Holmes, come il loro padre.
Ma
non lo era. E questo, nonostante tutte le sue altre qualità,
lo aveva sempre
reso indesiderabile.
Non
che la cosa lo ferisse. Al contrario: segretamente, lo rendeva fiero.
Sua
madre e Mycroft non riuscivano a pensare a nessun alfa che potesse
sopportare
l’indole pungente di Sherlock; e Sherlock nemmeno concepiva
l’idea della
sottomissione a chicchessìa.
Per
anni e anni era andato in calore odiandone ogni delizioso spasmo, ogni
gemito
forzato da un desiderio irresistibile che sentiva alieno, ogni raptus
irrazionale
che gli diceva di trovare un compagno e porre fino a quel vuoto
doloroso che
avvertiva dentro di sé. Inoltre conosceva bene i pochi
diritti e i molti obblighi
che spettavano agli omega reclamati e la prospettiva di limitare in
qualsiasi
modo la propria libertà non lo attirava affatto.
Non
era fatto di quella pasta. Si sentiva nato per comandare, non per
essere
comandato.
La
tragedia consisteva nel fatto che chi era come individuo strideva
troppo con
ciò che era per natura; ma, per quanto fosse frustrante far
convivere queste
due parti di sé, Sherlock non aveva mai ceduto.
I
pochi pretendenti fattisi avanti erano stati respinti e lui si era
ritirato
nella solitudine del castello famigliare, circondato da servitori beta
e omega
che non rappresentassero un rischio, conducendo un’innaturale
esistenza da
celibe e dedicandosi esclusivamente ai suoi studi scientifici e al suo
violino.
L’impasse
non si era mai interrotta. Con buona pace di Mycroft e di sua madre,
che lo
avrebbero voluto sistemato – e felice – con un alfa
adatto il più presto
possibile; e gli anni erano trascorsi lenti e monotoni senza che
nessuno
venisse mai soddisfatto nei propri desideri.
*
Il
susseguirsi di giorni sempre uguali venne interrotto dalla guerra.
Sherlock
era talmente annoiato che al principio la considerò un
piacevole diversivo, ma
era destinato a ricredersi.
Il
castello degli Holmes era abbastanza sfarzoso da attirare
l’attenzione delle
numerose truppe straniere in vena di razzie che avevano invaso il
paese.
Mycroft, che si trovava in Francia per affari, scrisse a Sherlock e a
sua madre
di abbandonare al più presto quel luogo ormai divenuto
pericoloso e di recarsi
nella loro tenuta di campagna, più modesta e meno
appariscente.
La
marchesa era un’omega già avanti con gli anni,
cagionevole di salute e legata
in maniera spasmodica alle comodità. Stropicciando con dita
nervose la lettera
di Mycroft, si lamentò della fatica e dei disagi che quel
trasferimento avrebbe
comportato, senza contare che il calore di Sherlock era ormai alle
porte e
sarebbe stato rischioso farlo viaggiare.
E
poi, la guerra era quasi finita. Era solo questione di resistere per
poco tempo
ancora.
Sherlock
era immerso nella lettura di un volume di botanica e ignorò
del tutto quel
tentativo di conversazione.
*
Gli
assalitori erano russi. Sherlock ne riconobbe le uniformi, e distinse
la loro
lingua attraverso le urla.
La
cittadella sulla quale svettava il loro castello era già
stata costretta alla
resa. Dopo aver occupato in meno di un giorno i magazzini, i campi e le
case
dei suoi abitanti, arrivando al punto di appiccare fuoco ai
possedimenti di chi
resisteva, l’esercito russo attese il calare della sera e
sferrò un attacco
notturno alle loro mura.
L’ala
sinistra venne immediatamente distrutta, costringendo la signora Holmes
e le
sue cameriere ad abbandonarla fra strepiti e lacrime. Sherlock, debole
e sudato
a causa del calore, guidò il corteo delle donne fino ai
sotterranei e gridò
loro di rifugiarsi lì. Sopra le loro teste si udivano colpi
di fucile,
esplosioni, il fragore di porte sfondate e muri distrutti.
Una
granata esplose dal nulla sulle scale che stavano scendendo e
seminò lo
scompiglio. Sherlock avvertì un dolore intenso alla testa e
cadde a terra,
tossendo per il fumo, squassato dagli spasmi liquidi che Madre Natura
si
ostinava ad infliggergli persino in momenti come quello.
Li
scorse con la coda dell’occhio. Erano tutti e tre alfa,
sghignazzanti e con il
fucile in mano, e lo guardavano dalla cima delle scale con un
luccichìo
malevolo negli occhi.
Sherlock
urlò per ricevere aiuto ma ormai aveva perso i suoi.
I
tre lo trascinarono nella prima stanza a disposizione sputandogli
addosso frasi
oscene. Sherlock si divincolò, tirò calci e pugni
alla cieca, persino morse, ma
loro erano in maggioranza numerica e fu solo questione di minuti prima
che si
ritrovasse prono a terra con le mani costrette dietro la schiena.
Era
furioso con sé stesso. L’odore di quei tre alfa
obnubilava il suo cervello e
rallentava i suoi movimenti, rendendoli languidi nonostante la rabbia e
– si
rese conto con orrore - invitanti. Si detestò come mai nella
sua vita quando
realizzò che sarebbe successo l’irreparabile e che
il suo stesso istinto
desiderava che questo irreparabile succedesse. Il suo corpo tremava di
paura e
di voglia, di disgusto e di aspettativa, di disperazione e di
eccitazione.
Sherlock
chiuse gli occhi quando avvertì una mano rude strappargli la
camicia e pregò
che finisse presto.
Si
era definitivamente rassegnato a quell’umiliazione quando
sentì la porta
sbattere e si accorse che uno dei suoi assalitori, ferito gravemente,
era caduto
a terra. A fatica si voltò sulla schiena: davanti a lui era
in corso un corpo a
corpo selvaggio fra un soldato che portava l’uniforme
dell’esercito britannico
e i due russi superstiti.
L’uomo
sconosciuto non era di grande statura ma si rivelò un
esperto nell’arte del
combattimento. Buttato il fucile a terra colpì con quella
che sembrava una
rabbia incandescente prima un uomo, poi l’altro, i suoi
movimenti così fulminei
che Sherlock a malapena riuscì a distinguerli.
Dopo
averli uccisi sotto i suoi occhi trafiggendoli con la spada,
alzò lo sguardo su
di lui.
Sherlock
trattenne il fiato. Era sporco di sangue, nero per il fumo e ansimante
– ed
emanava un odore delizioso. Era forse l’alfa più
attraente su cui avesse mai
posato lo sguardo.
“State
bene?” chiese l’uomo inginocchiandosi al suo
fianco, gli occhi che fino a un
attimo prima erano stati spietati ora premurosi e quasi reverenti.
Sherlock lo
guardò con una gratitudine che si confondeva con il
desiderio; l’uomo trattenne
il respiro e imprecò.
“Voi-”
Aveva
assunto un’espressione angosciata. Sherlock
allungò una mano e lo sfiorò con meraviglia,
il corpo e la mente ubriachi di bisogno, di sollievo, di
quell’adorazione cieca
che il calore provocava anche solo nei confronti della mera idea di un
alfa
degno e forte. E lui, lui era stato solo tutta la vita e ora ne aveva
uno in
carne e ossa a poca distanza.
Quando
le dita di Sherlock gli carezzarono il collo l’uomo gemette.
Le pupille gli erano
diventate enormi; tutto il suo corpo tremava come un arco teso allo
spasimo. Si
morse un labbro e lo guardò con aria terrificata e allo
stesso tempo
predatoria.
Ormai
al limite della resistenza, stava per avvicinare il proprio viso al suo
quando
l’uomo imprecò nuovamente e si alzò di
scatto, allontanandosi da lui. Sherlock
si sentì mancare il fiato: gli sembrò
così ingiusto, così crudele.
“Vi
aiuterò” disse l’uomo con voce
strozzata, prima di aprirsi la giubba
dell’uniforme, strappare un pezzo della propria camicia e
premerselo su naso e
bocca, “ma voi dovrete aiutare me e impedirmi di essere come
loro.”
Diede
un calcio a uno dei cadaveri che giacevano a terra. Sherlock
seguì il movimento
del suo piede con sguardo appannato. Accettò la mano che lui
gli porgeva per
alzarsi in piedi e si ritrovò premuto contro di lui.
D’istinto,
schiacciò il naso contro il suo collo per inspirare a fondo
il suo odore e
gemette.
L’uomo
emise un verso frustrato e gli afferrò un braccio con una
mano tremante,
tentando di tenerlo a distanza.
“Vi
prego,” disse attraverso i denti digrignati, lo sguardo fisso
a terra. “Vi
prego, vi voglio portare via di qui sano e salvo.”
Sherlock
lo sentiva a malapena. La minaccia cui era scampato stava pompando
adrenalina
nel suo sangue, acutizzando gli effetti del calore e privandolo di
qualsiasi
altro scopo se non quello di avere quell’alfa, diventare cera
nelle sue mani e
farsi prendere.
Perché
lui facesse resistenza quando era ovvio che il desiderio era reciproco,
la
mente obnubilata di Sherlock non riusciva a capirlo.
L’uomo
lo trascinò fuori dalla stanza e su per le scale,
sostenendolo per un braccio,
ma tenendo un passo sostenuto per evitare di stargli troppo vicino.
“La
mia guarnigione ha sventato l’attacco, i russi sono quasi
tutti fuggiti o
morti” gli disse con lo sguardo fisso davanti a
sé. La sua voce era soffocata
dalla stoffa che teneva premuta sul viso con la mano libera.
“Riavrete la
vostra casa - seppure in queste misere condizioni. Mi
rincresce.”
Notata
una stanza che era stata risparmiata dal grosso della distruzione,
l’uomo emise
un urlo vittorioso e lo guidò all’interno.
Erano
i suoi alloggi privati.
Sherlock
si fece guidare confusamente verso il proprio letto, tentando di
attirarlo a sé
come poteva, ormai reso quasi pazzo dal bisogno. L’uomo
resisteva sempre meno,
gemendo in preda alla frustrazione, cercando di tenerlo a distanza ma
guardandolo con occhi che bruciavano.
“Chiamo
aiuto” disse, bloccandogli sopra la testa quelle mani che lo
cercavano con
insistenza animalesca, e facendolo stendere in modo che riposasse.
“Lasciatemi
chiamare aiuto per voi. Vi prego.”
L’ultima
parola venne fuori quasi come un singhiozzo. I lineamenti
dell’uomo erano
contratti in un’espressione sofferente e combattuta.
Sherlock
gli mise le braccia al collo e lo strinse più forte che
potè.
“Non
andatevene” disse in un sussurro disperato, baciandolo sulle
labbra, sulla
mascella, sulle palpebre. “Vi scongiuro, restate con me.
Voglio-”
Poi
divenne tutto nero.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** II ***
Note
dell’autrice:
scusate
se aggiorno fuori tabella di marcia, ma non so se domani sera o
giovedì sarò in
grado di raggiungere un pc, per cui lo faccio ora. Grazie infinite dei
bellissimi commenti <3
II
Riaprì
gli occhi nella quiete serale della sua stanza, illuminata dalla luce
delle
candele.
Sua
madre emise un singhiozzo sollevato e si sporse sul suo letto per
baciargli la
fronte.
“Sherlock,
caro, finalmente sei sveglio. E’ tutto finito.” Gli
accarezzò i ricci sudati,
le lacrime agli occhi. “Siamo salvi.”
Sherlock
battè le palpebre. L’aria era piena di pace
ritrovata; non c’era più nessuna
traccia di distruzione o di urla o di colpi di fucile.
“Per
quanto ho dormito?” chiese con voce roca. Sua madre si
affrettò a versargli un
bicchiere d’acqua e glielo porse. Sherlock lo bevve tutto in
tre lunghi sorsi.
“Eri
stremato dalle forti emozioni e dal calore. Sei rimasto privo di sensi
per così
tanto tempo.” Si asciugò gli occhi con un
fazzoletto. “Tre giorni interi. Io e
il capitano Watson eravamo divorati dalla preoccupazione.”
Sherlock
si mise seduto contro i cuscini. Qualcuno lo aveva spogliato,
mettendogli la
camicia da notte. I muscoli gli dolevano e si sentiva la testa come
piena di
spilli dolorosi.
“Il…
Capitano Watson?” chiese confuso, massaggiandosi le tempie.
Sua
madre sospirò mettendosi una mano sul petto.
“Il
tuo salvatore. Il nostro
– la sua
guarnigione ha scacciato i russi, appena in tempo.” Sorrise
con aria sognante. “E’
venuto più volte a informarsi delle tue condizioni. Un
impeccabile gentiluomo.”
Sherlock
congiunse le punte delle dita sotto il mento. Cercò di
concentrarsi: le sue
memorie di quel giorno erano vaghe e confuse.
Ricordò
due occhi di un blu tempestoso, minacciosi e dolci a un tempo.
Ricordò il gesto
di premersi un pezzo di stoffa sul viso. Ricordò una mano
che lo aiutava ad
alzarsi.
Nient’altro.
“Ditemi,
la sua guarnigione è ancora in città?”
chiese.
“Sì,
caro.”
Sherlock
annuì, pensieroso.
“Desidero
vederlo per esprimergli la mia gratitudine” disse infine.
Sua
madre si alzò in piedi.
“Darò
disposizioni perché venga domani. Ora torna a
riposare.”
*
La
mattina seguente, Sherlock, di nuovo in forze, si mise di
buon’ora nel suo
studio e si dedicò a riempire i suoi taccuini con i
risultati di vecchi
esperimenti.
Verso
le undici qualcuno bussò alla porta.
“Sì?”
disse, senza alzare lo sguardo dai fogli.
“Un
capitano John Watson, signore, del Quinto Fucilieri di
Northumberland.”
Sollevò
la testa. Il suo maggiordomo lo guardava con espressione neutra, in
attesa di
una risposta.
Sherlock
si alzò in piedi.
“Fatelo
entrare, grazie.”
L’uomo
annuì e richiuse nuovamente la porta dietro di sé.
Sherlock
si sistemò il colletto della camicia, lisciò la
piega dei pantaloni e controllò
che i gemelli fossero allacciati con cura.
Poco
dopo si sentì di nuovo bussare.
“Prego.”
Entrò
un uomo in divisa militare, di statura modesta, biondo e
dall’aria garbata. Sherlock
ne riconobbe gli occhi: un azzurro cupo che dava l’aria di
poter facilmente
essere dolce come minaccioso.
John
Watson gli sorrise.
“Marchese”
disse, dopo essersi inchinato. Sherlock lo imitò.
“Sono felice di sapere che vi
siete ripreso.”
Aveva
un’espressione sincera e aperta. Sherlock sollevò
un angolo delle labbra.
“Se
ho potuto riprendermi in primo luogo, è grazie a voi. E, vi
prego, chiamatemi
Holmes.”
Gli
porse una mano. Dopo una breve esitazione, John Watson la strinse.
Sherlock
sentì un brivido caldo scorrergli lungo il braccio e
potè giurare di averlo
avvertito anche nell’altro uomo. Per un attimo una strana
armonia, un
inspiegabile senso di completezza lo invase.
Sciolse
in fretta la presa e tornò a sedersi, indicando al suo
ospite di fare
altrettanto.
“Prego,
mettetevi a vostro agio, così potremo parlare più
comodamente del modo in cui potrò
sdebitarmi per quello che avete fatto.” Allargò il
suo sorriso, che raggiunse
gli occhi. John Watson si illuminò. “Anche se
penso non vi sia un corrispettivo
materiale per la dignità di un uomo, o per la sua
vita.”
John
Watson fece per parlare, ma poi si accorse che il maggiordomo degli
Holmes li
stava osservando impettito dalla porta e si interruppe.
Sherlock
sospirò.
“Vi
prego di scusarmi, ma sono un omega non reclamato e in molti casi non
ho diritto
alla discrezione.” Le sue parole grondavano disprezzo; il
maggiordomo si mosse
da un piede all’altro, a disagio. “Pare che non sia
sicuro lasciarmi solo con
un alfa.”
John
Watson gli rivolse un’occhiata colma di dispiacere, ma non di
pietà. Poi
distolse in fretta lo sguardo e si mise a giocherellare con i guanti
che teneva
in mano.
“Credetevi
quando vi dico che il solo pensiero di farvi danno mi
addolora” disse piano.
Sherlock
batté le palpebre, per un momento preso alla sprovvista da
quella misteriosa
affermazione. Poi torno in sé e si mise a riordinare
meccanicamente i suoi taccuini
sulla scrivania.
“Mi
avete salvato la vita. Sono un uomo con abbondanza di mezzi. Chiedetemi
quello
che volete, e io ve lo darò” disse in tono pratico
ma benevolo. “Qualsiasi
cosa.”
John
Watson allargò gli occhi per la sorpresa prima di scuotere
la testa con decisione.
“No,
no, no. Non sono venuto per ottenere qualcosa in cambio. Quel che ho
fatto l’ho
fatto per dovere e… Per voi.”
L’onestà nel suo sguardo era quasi sconcertante.
Sherlock ne fu colpito. “Solo per voi.”
Calò
un breve silenzio, pieno da una parte di stupore, e
dall’altra di nervosismo.
Sherlock
si schiarì la voce tentando di scuoterli da
quell’imbarazzo.
“Ma…
Ci sarà pure qualcosa che volete. Che posso
darvi,” tentò in tono ragionevole.
John
Watson lo guardò intensamente.
“Mi
basta sapere che pensate bene di me.”
Sherlock
rise.
“Avete
impedito il mio disonore, e con molta probabilità la mia
morte. Come potrei non
pensare bene di voi?” chiese sarcastico.
Di
nuovo John Watson distolse lo sguardo. Vedendo un tenue rossore
imporporargli
il collo, Sherlock eruppe in una risata profonda.
“Non
siate così modesto, capitano Watson. Ho sentito dire che
siete un eroe di
guerra. Dovreste essere abituato alle lodi.”
Fu
il torno del soldato di ridere.
“Ho
un temperamento peculiare.”
“Un
tipo di peculiare non del tutto spiacevole, allora.”
Il
rossore sulle guance di John Watson peggiorò, diventando
più che evidente.
“Io…
Ho mentito, signor Holmes” ammise, dopo aver deglutito con
fatica. Quando
sollevò lo sguardo Sherlock vide che era pieno di
apprensione. “C’è
qualcosa che vorrei.”
Sherlock
sorrise.
“Ne
ero certo. Non esitate a manifestare il vostro desiderio. Entro i
limiti del
possibile, farò di tutto per esaudirlo.”
John
Watson si alzò in piedi e pose la mano sull’elsa
della spada che portava al
fianco. Sherlock intuì che il gesto lo tranquillizzava;
dopotutto, era un
soldato. Si chiese cosa potesse incutergli tanto timore – si
chiese cosa
potesse essere così estremo da fare paura persino a un
coraggioso ufficiale
dell’esercito britannico.
“Signor
Holmes” cominciò, e i suoi occhi ardevano.
“Ve lo chiedo con la più grande
sincerità d’animo e vorrei, se possibile, che voi
rispondeste animato da un
uguale sentimento.”
Sherlock
aggrottò le sopracciglia, ma annuì.
“Avete
la mia parola, capitano.”
John
Watson aggirò la scrivania posta in mezzo a loro e gli si
avvicinò, la mascella
tesa, lo sguardo nervoso.
“Vorrei
che mi concedeste l’onore della vostra mano” disse,
scandendo le parole con
infinita cura.
Sherlock
credette di non aver sentito bene. Con la coda dell’occhio
vide che il suo maggiordomo
era rimasto a bocca aperta.
“Io…
Temo di non capire…” disse con qualche
difficoltà, il cuore che gli batteva
forte in petto per la sorpresa. Gli occhi di John Watson erano gentili
e pieni
di passione.
“Vorrei
sposarvi al più presto. Rendervi mio.” Gli
sfiorò con delicatezza una mano,
chinandosi su di lui. “Se anche voi vorrete fare lo stesso
con me.”
Sherlock
alzò il capo. Erano molto vicini, eppure non
sentì nessun famigliare sentimento
di repulsione verso quell’uomo a un tempo timido e
intraprendente che aveva
appena dichiarato di volersi legare a lui. La sua gentilezza, la sua
sensibilità e la sua empatia rendevano improbabile, quasi
paradossale la sua
natura di alfa; eppure Sherlock ancora ricordava il suo odore, quel
profumo
delizioso.
No,
non c’era nessun errore. John Watson tradiva gli stereotipi
della propria
specie: era diverso, unico.
Come
lui.
Sherlock
si alzò bruscamente in piedi.
Cosa
stava facendo? Doveva restare lucido. Ne andava del suo futuro, della
sua
libertà. Non poteva farsi abbagliare dalla gratitudine e da
una prima buona
impressione.
“Voi
non mi conoscete” disse secco, misurando a lunghi passi la
stanza. “Dite di
avere un temperamento peculiare. E’ vero anche nel mio caso:
ho trent’anni e
non sono ancora stato reclamato.” Rialzò lo
sguardo su di lui, diffidente. “Questo
non vi insospettisce? Non vi spaventa il pensiero di un omega
così contrario
all’idea di un compagno?”
John
Watson sorrise con dolcezza.
“Penso
che non vogliate un padrone, non che non vogliate un compagno. E penso
che se
fossi un omega anch’io desidererei la stessa cosa.”
Sherlock
si fermò in mezzo alla stanza. Lo guardò
esterrefatto.
“Vi
prendete gioco di me?” sibilò.
Il
capitano tornò subito serio e scosse la testa.
“No-
credetemi, no. Ho sentito molto parlare di voi. Le vostre ricerche
scientifiche, il desiderio d’indipendenza, il rifiuto di ogni
alfa abbastanza
coraggioso da proporsi a uno spirito così libero. So che vi
dipingono come
arrogante e…” si interruppe e deglutì,
a disagio, “e… pazzo… e vogliate
scusare
queste parole che non sono le mie. Credetemi quando vi dico che da quel
poco
che ho avuto modo di conoscervi, non mi sembrate né
arrogante né pazzo. Penso
che siate straordinario.” Si avvicinò a lui in due
passi, gli occhi vivi e
adoranti. “E che non intendo tarparvi le ali né
costringervi a nulla che voi
non vogliate. Desidero solo avere l’onore di essere il vostro
alfa.”
Sherlock
socchiuse gli occhi, un ghigno pericoloso sulle labbra.
“Voi
non sapete quello che dite” sussurrò tagliente.
“Ve ne pentireste. Oh, ve ne
pentireste. Se voi ora mi state mentendo, prima o poi sareste costretto
a
rivelare la vostra vera natura. Mi verreste in odio. Di conseguenza, mi
adopererei in ogni modo per rendere la vostra vita un inferno. E vi
posso
assicurare che ho una mente molto attiva e fantasiosa.” Il suo
ghigno si allargò.
“Avreste pace solo durante il mio calore… Ma,
conoscendomi, forse neanche in
quella circostanza.”
John
Watson gli si avvicinò tanto che le loro fronti quasi si
sfiorarono. Non
sembrava sentirsi affatto minacciato né offeso da quelle
parole così
irrispettose - dette da un omega, per di più. Aveva scoperto
i denti e i suoi
occhi erano diventati scuri, ma a Sherlock sembrarono più
sintomi di
eccitazione che di rabbia.
“No”
disse roco. “Voi, voi non
sapete cosa
dite, se pensate che me ne potrei pentire anche solo per
un’ora.”
Poi
sorrise. Provocatorio. Languido.
“Signore-”
si intromise debolmente il maggiordomo, che sembrava sconvolto dalla
situazione
che si era venuta a creare.
Sherlock
prese un grosso respiro, poi si raddrizzò, allontanando il
viso da quello
dell’alfa.
Era
la prima volta in vita sua che veniva pervaso da una simile sensazione
di frenesia,
fatta eccezione per i giorni del calore.
Era
intrigato. Voleva. Desiderava. E non si sentiva umiliato, né
schiavo di una
natura perfida e traditrice. Al contrario: si sentiva vivo. Energico.
In controllo di una debolezza che non sembrava
neanche più tale.
“Andate
a chiamare la marchesa” ordinò.
Il
maggiordomo emise una sorta di squittio.
“Ma,
signore, sapete bene che-”
“Se
al vostro ritorno il vostro padrone si dovesse lamentare di un qualche
affronto
subito, vi do il permesso di punirmi con la morte” disse John
Watson
guardandolo negli occhi. Sorrideva con aria maliziosa, ma complice.
Sherlock
sorrise a sua volta.
“Avete
sentito? Andate.”
Non
appena il servitore fu uscito, i due si riavvicinarono come attratti da
un
magnete invisibile.
“Avevo
tentato più volte di immaginare come foste fatto”
sussurrò John Watson
carezzandogli la guancia con il dorso di una mano. Sherlock gli
afferrò il
polso e ne baciò l’interno; l’altro si
lasciò sfuggire un sospiro deliziato e
sorrise. “Credevo che il vostro scarso successo in campo
amoroso derivasse da un
aspetto sfortunato, amplificato da un carattere difficile. Poi, tre
giorni fa,
vi ho visto. E…”
Sherlock
rise. Si rese conto che una forza sconosciuta sembrava avergli
sottratto peso,
lasciandolo fluttuante nell’aria. Un’euforia
misteriosa che lo galvanizzava.
“Vi
siete ricreduto?” chiese cingendogli la vita con un braccio.
John
Watson tacque e lo guardò con malcelato desiderio.
“Sì”
sussurrò sulle sue labbra. “Dio,
sì.”
Fu
un bacio colmo di rispetto, piacere, gioia. Sherlock non era abituato a
nessuno
dei tre e dovette aggrapparsi alle sue spalle per tentare di riprendere
possesso delle proprie gambe. Teneva gli occhi chiusi e si sentiva
caldo,
leggero, meravigliosamente confuso.
John
Watson si separò da lui senza fiato.
“Sposatemi”
disse con urgenza, prendendogli il viso in entrambe le mani.
“Sposatemi domani.
Ditemi di sì.”
Sherlock
appoggiò la fronte alla sua e sospirò.
“Sì.”
*
Quando
tornarono a bussare alla porta, si separarono, sorridenti.
“Prego”
disse Sherlock, gli occhi ancora fissi in quelli dell’altro.
John aveva quasi
le lacrime agli occhi.
Sua
madre entrò in un turbinio di gonne e ventaglio.
“Oh,
Sherlock, è vero dunque?” esclamò al
colmo della gioia, sfiorandogli una
guancia con una carezza.
Suo
figlio alzò gli occhi al cielo. John si schiarì
la voce e, dopo essersi
inchinato, avvicinò le labbra alla mano della donna.
“Marchesa”
disse reprimendo a stento un sorriso. Aveva notato che Sherlock
sembrava
indispettito da tutto quel giubilo. “Lieto di
rivedervi.”
La
signora Holmes rise deliziata.
“Capitano”
disse facendosi allegramente aria col ventaglio. “Voi siete
un angelo. Avete
compiuto il miracolo! Si era persa del tutto la speranza.”
John
arrossì e raddrizzò la schiena, sistemandosi a
disagio la spada sul fianco.
Sherlock emise un verso seccato.
“Vi
ringrazio per avermi presentato al meglio, madre” disse acido
indicandole la
propria sedia.
La
marchesa prese posto come una regina sul trono.
“Caro,
io ho sempre saputo della tua natura ostica, ma in fondo buona. Avevo
però il
terrore che nessun altro se ne accorgesse.”
John
sorrise con fare educato ma non commentò, visto che non
voleva offendere né
lei, né Sherlock.
“Marchesa,
l’ho già domandato a vostro figlio, ma ritengo
indispensabile anche la vostra
benedizione: vorrei avere l’onore della-”
“L’avete!”
gridò la signora, le guance rosse per
l’entusiasmo. “L’avete,
capitano!”
John
non potè fare a meno di sorridere per la gioia riconfermata,
e Sherlock,
seppure ancora infastidito, non potè fare a meno di unirsi a
lui.
“Credete
che la cerimonia possa essere celebrata in fretta?” chiese
impaziente il
capitano.
“Deve!”
rispose subito la marchesa. Sherlock digrignò i denti: aveva
paura che John ci
ripensasse, e non faceva nulla per nasconderlo. “Al
più presto.”
“Domani
due giugno sarebbe una data adatta?”
La
donna stava già per dire sì quando si interruppe
di colpo. Sherlock la fulminò
con un’occhiata.
“Temo
che questo non sia possibile, capitano” mormorò la
marchesa con aria afflitta.
“Dalla morte del mio adorato marito, la custodia di Sherlock
è passata all’unico
alfa rimasto nella famiglia: suo fratello Mycroft.”
Sospirò. “E il caro Mycroft
al momento si trova in Francia. Senza il suo permesso, Sherlock non si
può
sposare.”
John
impallidì per la delusione. Sherlock, furioso,
battè un piede a terra.
“Ridicolo!
Non sono una proprietà che si trasmetta da una persona
all’altra. Non ho alcun
bisogno del benestare di Mycroft!”
Sua
madre emise un verso di dissenso.
“Sherlock,
abbiamo già parlato di queste tue strane idee ribelli. Non
essere sciocco.
Certo che hai bisogno del suo benestare. E’ il tuo tutore; il
suo compito è di
proteggerti, di scegliere quel che è meglio per-”
“So
io quel che è meglio per me!” gridò
Sherlock, rosso in volto.
John
gli sfiorò un braccio per calmarlo.
“Non
è possibile ottenere il suo permesso via lettera?”
chiese, pallido e nervoso.
La
marchesa sembrò riflettervi su.
“Sì”
disse infine con aria penserosa. “Penso che la legge lo
consenta.” Guardò con
aria speranzosa i due, che erano ancora vicini. “Gli
scriveremo in modo che
possiate unirvi al più presto.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** III ***
III
Mio
caro
fratello,
apprendo
con
gioia la buona novella. E’ una vera benedizione sapere che,
nonostante i tuoi
scetticismi e la tua natura testarda, tu sia riuscito ad abbracciare la
promessa di una felicità duratura.
Tuttavia,
per
quanto concerne la tua richiesta di un mio assenso scritto che vi
consenta di
stringere presto questo tanto auspicato vincolo, mi trovo costretto ad
opporre
un rifiuto. E’ mio desiderio conoscere di persona questo
coraggioso capitano
Watson prima di concedere il mio benestare.
Non
lascerò che
un membro della casata degli Holmes si unisca a chiunque non abbia
incontrato
la mia totale approvazione.
Sarò
di ritorno
sabato dieci giugno. Confido che saprai attendere.
Ti
porgo ancora
le mie congratulazioni,
Mycroft
*
“Maledetto!”
sbottò Sherlock furibondo, accartocciando la lettera e
scagliandola via.
John
strinse i pugni e tacque di fronte alla sua collera. Seduto su una
poltrona
dello studio di Sherlock, si tormentava un labbro con il pollice,
pallido e
cupo in volto.
“Se
crede di poter fare quello che vuole di me-”
“Temo
che possa farlo, signor Holmes” lo interruppe tristemente
John. “E’ una legge
disumana, la nostra.”
Si
alzò in piedi e gli si fece vicino. Gli aveva a malapena
sfiorato i capelli con
una carezza rassicurante quando il maggiordomo, sempre ritto in piedi
nella sua
posizione di guardia davanti alla porta, si schiarì la voce
con fare di
disapprovazione.
Sherlock
perse le staffe.
“Fuori!”
gridò, gli occhi che mandavano lampi. “Fuori di
qui! Non sono in calore, il
capitano Watson è perfettamente capace di moderare i suoi
slanci, e anche se
non lo fosse saremo sposati fra dieci giorni a dir tanto! Cosa importa
se
succederà nella prossima ora o durante la prima notte di
nozze?”
Il
viso del maggiordomo divenne di fuoco.
“Ma,
signore, cercate di capire-”
“Fuori,
ho detto!”
“Signor
Holmes…”
“Silenzio,
capitano! E voi, mi avete sentito? Fuori!”
L’uomo
balbettò impaurito, ma rimase al proprio posto, irremovibile.
John
trattenne Sherlock, che si era già gettato in avanti,
dall’usargli violenza e
lo fece riaccomodare sulla sua sedia.
“Signor
Holmes, il suo servitore obbedisce solo agli ordini”
tentò di convincerlo in
tono ragionevole. “Non è sua la scelta di stare
qui. Anzi” lanciò uno sguardo
di scuse al pover’uomo, “credo proprio che
gradirebbe essere da tutt’altra
parte.”
Sherlock
digrignò i denti ma gli prese una mano fra le sue e la
strinse forte.
“Non
sopporto più questa prigione. E’ casa mia, e non
posso fare niente di quello
che vorrei davvero!” mormorò, la voce colma di
frustrazione.
John
sorrise con calore.
“Vi
porterò via di qui. Presto. E potrete fare quello che
vorrete, quando vorrete,
tutte le volte che vorrete.” Gli baciò le nocche.
“Ve lo prometto.”
Sherlock
lo guardò negli occhi.
Quell’uomo
gli stava offrendo la libertà, il vincolo coniugale,
devozione e amore tutto in
una volta. Com’era possibile? Era un alfa. Avrebbe dovuto
dirgli con una risata
sprezzante che dal giorno delle nozze in avanti, la sua vita sarebbe
stata una
mera appendice dei suoi desideri e delle sue voglie. Nulla di
più.
Sposato,
e reclamato, Sherlock avrebbe potuto finalmente andare ovunque volesse
senza
correre alcun rischio. Il suo odore sarebbe cambiato; il suo status
pure.
Esistevano punizioni gravissime per chi profanava il sacro legame fra
un alfa e
un omega uniti dal matrimonio e dalla natura. Nessuno avrebbe osato
attaccarlo.
Sarebbe stato libero, libero di condurre ricerche in giro per il mondo,
libero
di seguire la sua curiosità, libero di parlare con chi
voleva senza irritanti
maggiordomi di mezzo. Libero, e al sicuro.
Lui
aveva tutto da guadagnare da quell’accomodamento. Ma John?
Cosa poteva guadagnarci,
lui?
Nei
giorni trascorsi ad aspettare la risposta di Mycroft, seduti in
giardino o
intorno alla sua scrivania, avevano parlato per lunghe ore delle loro
vite
prima di incontrarsi. John aveva ricusato l’obbligo di
prendere un compagno
perché gli aveva preferito il combattimento, il dovere e il
piacere di soldato;
gli aveva detto di aver rifiutato molte proposte da omega persino
più blasonati
e ricchi di lui pur di seguire le sue inclinazioni.
Dunque
non intendeva sposarlo per avere né un titolo, né
la sicurezza economica. Era
un combattente eccelso, un eroe di guerra, e aveva un carattere e un
aspetto
più che piacevoli. Non doveva mai aver avuto
difficoltà a essere oggetto di
desiderio.
Di
cosa mai si poteva trattare? Sherlock voleva saperlo, aveva bisogno di saperlo.
“Capitano”
cominciò, sciogliendo l’intreccio delle loro mani.
L’altro gli rivolse
un’espressione interrogativa. “Sarò
sincero con voi, perché la sincerità è
il
minimo che vi devo.”
“Parlate”
lo incalzò John, fattosi curioso.
Sherlock
lo guardò a lungo negli occhi, cercandovi un qualunque
indizio, una qualunque manifestazione
evidente del motivo che stava cercando, prima di domandargli:
“Perché io?
Perché un omega che vi ordina di tacere e vi giura vendetta
se mai lo
deluderete? Non comprendo.” Scosse la testa. “Siete
un alfa.”
John
sorrise.
“E
voi siete un omega. Dovreste essere nulla più che una culla
umana per i miei
figli. Eppure, guardatevi.” Lo indicò con un ampio
gesto della mano con quella
che sembrava ammirazione. “Sono certo che siete in grado di
superare per
carattere e intelligenza gran parte dei miei pari. Vi ho detto che per
anni ho
preferito la guerra ad un eventuale legame: non capite? Non desidero un
inferiore,
un mero sfogo per i miei istinti, e nemmeno qualcuno che mi tema e
senta paura
in mia presenza. Voglio qualcuno che si riveli una sfida, per me, che
non mi
faccia perdere lo spirito combattivo. Un compagno che mi rispetti, ma
con cui
si possa instaurare un rapporto di forze opposte. Un uomo da poter
amare… da
poter meritare.” Distolse lo sguardo. Ancora una volta,
sembrava imbarazzato.
“I racconti che ho udito su di voi vi definivano indomabile.
La prima volta che
vi ho sentito descritto in quei termini, ho pensato: se davvero esiste
un omega
che risponda alla mie aspettative, è lui.”
Sherlock,
a quelle parole, si fece immobile e zitto. Lo guardò quasi
con un reverenziale
terrore, come se non avesse mai visto uno spettacolo simile: strano e
meraviglioso a un tempo.
John
si leccò le labbra e arrossì ancora di
più.
“Perdonate
se con questa dichiarazione vi ho messo a disagio. Abbiamo tempo per
prendere
confidenza l’uno con altro, e davvero io-”
Sherlock
chiuse gli occhi gli baciò una mano, indugiando con le
labbra sulla sua pelle
per lungo tempo. John venne preso dalla commozione e gli
baciò la fronte.
Entrambi
ignorarono il tentativo disperato del maggiordomo di richiamarli alla
decenza.
*
Il
dieci giugno sembrava voler arrivare con molta più lentezza
rispetto al normale
scorrere del tempo.
Sebbene
le giornate trascorressero in modo piacevole (Sherlock aveva mostrato
al
capitano i risultati e le osservazioni ottenuti grazie a anni e anni di
ricerca
scientifica: l’uomo ne era rimasto strabiliato, e si era
espresso con parole
molto più che lusinghiere, l’ammirazione e
l’amore che gli illuminavano lo
sguardo) i loro animi erano irrequieti. L’attesa li
consumava; il miraggio della
loro unione, così vicina e allo stesso tempo così
lontana, li frustrava.
Il
capitano Watson sembrava specialmente affetto da quello stillicidio.
Diveniva
più nervoso di giorno in giorno, e si rifiutava
categoricamente di voler
lasciare il castello, anche solo per un pretesto innocuo come una
passeggiata a
cavallo. Aveva richiesto a Sherlock il favore di trascorrere
più tempo
possibile solo con lui nei suoi alloggi - fatta eccezione per
l’irrinunciabile
maggiordomo - e di annullare le visite previste per quella settimana.
Sherlock
ne era rimasto stupito, ma lusingato. Nessuno aveva mai voluto
trascorrere
tanto tempo in sua esclusiva compagnia.
Mycroft
era solito ripetere sempre che, alla lunga, la sua lingua tagliente
sarebbe
risultata simile alla tortura cinese della goccia. Sgarbo dopo sgarbo,
insinuazione dopo insinuazione, le povere vittime sarebbero uscite di
senno senza
possibilità di scampo. Sherlock aveva potuto riscontrare la
verità di quelle sue
parole acri nella vita di tutti i giorni.
Ma
John Watson, in questa come in molte altre cose, si era rivelato
diverso.
Pendeva
dalle sue labbra; ma con una grande dignità, e nobilitato da
un sentimento che
agli occhi di Sherlock sembrava ardere come il sole. Si era dimostrato
sinceramente
interessato sia ai suoi studi, sia alla sua persona, intervallando
lunghi
minuti di silenzio passati ad ascoltare a commenti pacati e pertinenti.
Sherlock
si beava di quella calma autorevolezza, di quel suo carattere
così forte e
accomodante a un tempo. I suoi sorrisi deliziati erano come un balsamo
per il
proprio orgoglio sempre rimasto arroccato in difesa. Ogni giorno che
passava,
sembrava covincersi sempre di più della bontà
della sua scelta, e, per la prima
volta nella sua vita, si sentì interamente appagato.
Interamente felice.
Se
solo avesse potuto condurre oltre le proprie esplorazioni della persona
del
capitano, e non solo del suo spirito, allora si sarebbe considerato
vicino alla
beatitudine.
Dopo
quel primo - e finora unico - sconvolgente bacio, tutto ciò
che la presenza
irritante del maggiordomo aveva permesso erano stati sfioramenti di
mani e
carezze sui capelli. Tocchi fugaci che non l’avevano neanche
lontanamente
soddisfatto; e che, sospettava, non erano bastati in minima misura
neanche al
capitano.
Provava
grande curiosità nei confronti dei bisogni che la sua carne
sembrava avere. Era
tutto nuovo per lui, e desiderava sapere quanto più
possibile, nel minor tempo
possibile. Questo desiderio intenso e avvolgente non era nulla rispetto
alla
brutalità del calore: un lume di candela, piacevole e
intimo, paragonato a un
incendio che appiccava fuoco a qualunque cosa incontrasse con cieca
furia
distruttrice.
Quella
voglia era solo sua, pensava, non della natura. Il suo corpo gli
obbediva,
cantava; era pervaso da un’energia gioiosa; e la sua mente,
per una volta, sembrava
accodarsi di buon grado alla sua controparte più terrena,
apparentemente
incapace di evidenziare alcun lato negativo.
Il
fatto che John Watson si dimostrasse all’apparenza
irreprensibile non gli era
però di alcun aiuto.
Aveva
proposto più volte di eludere la sorveglianza, di scappare,
di rifugiarsi anche
solo per poco tempo in un luogo solitario: ma il capitano non aveva
voluto
sentire ragioni.
Dopotutto,
non erano ancora sposati. Le consuetudini imponevano castità
e astensione.
Ma
come Sherlock ben sapeva, tutti prima o poi giungevano al punto di
rottura. A
volte bastava semplicemente crearlo con le proprie mani.
“Voi
avete esperienza” aveva insistito una sera, mentre bevevano
un bicchiere di
vino nel fumoir.
Il
capitano aveva lanciato un preventivo sguardo di scuse al maggiordomo e
gli
aveva sorriso, un rossore delizioso sul collo. “Non
è di mio gradimento partire
svantaggiato. Quando verrà il momento, desidero possedere
almeno una basilare
conoscenza del-”
“Signor
Holmes, vi prego” aveva riso il capitano. Lo guardava con
occhi sgranati, che
non sapevano cosa fosse meglio: se fingere di essere sconvolto quando,
oramai,
la natura anticonformista dell’altro gli era ormai
più che famigliare, o se
spingerlo ad andare avanti e vedere dove il discorso sarebbe giunto.
Sherlock
sapeva che l’ultima possibilità era quella che lo
attraeva di più. “Contenetevi.
Siamo ascoltati.”
Sherlock
soffiò un sbuffo impaziente dal naso.
“Non
per mia volontà, perciò le conseguenze di quello
che dirò non dipendono da me.
Potete sempre andarvene,” disse poi rivolto al maggiordomo,
ormai
sempiternamente paonazzo in volto.
“Io-”
tentò l’uomo, spiazzato, tormentandosi le mani.
Sherlock
rivolse uno sguardo al bell’orologio a muro che troneggiava
di fianco al
camino. Segnava le undici e tre quarti.
“Vi
chiedo fino alla mezzanotte. Uscite a prendere un po’
d’aria nel parco, e magari
una rosa per l’aiuto-cuoca con i capelli rossi. ”
Sorrise, ma siccome non potè
fare a meno di esibire tutti i denti, impaziente com’era di
restare solo con il
capitano, risultò più minaccioso che
rassicurante. “Portategliela. Sarà buona
con voi. Credetemi.”
Riuscì
ad addolcire la sua espressione semplicemente perché aveva
colto con la coda
dell’occhio un sorriso divertito di John.
“Mia
madre non saprà nulla.”
“Poco
danno può essere fatto in quindici minuti,
signore” rincarò gentilmente la dose
il capitano.
Il
maggiordomo guardò prima l’uno, poi
l’altro, indeciso e spaventato.
“Io-”
ripeté.
“Avete
la mia parola.”
“La
nostra.”
Sherlock
sorrise.
“Non
finirete nei guai.”
L’uomo
divenne d’improvviso rigido, dopodiché
annuì svelto e grato e svicolò come un
topo fuori dalla porta.
Sherlock
non perse tempo. Dopo aver girato la chiave nella toppa, si
voltò a fronteggiare
l’altro con sguardo impaziente.
John
si era alzato dalla sedia e aspettava immobile.
Qualcosa
scattò nella mente di Sherlock nel vedere
l’espressione aperta e onesta del suo
viso, il desiderio puro e sincero nel suo sguardo.
In
un attimo, eliminò ogni distanza fra loro e lo strinse per
la vita, affondando
il naso nei suoi capelli.
Sentire
il suo odore avvolgerlo fu come essere incendiato.
Confuso
ma pieno di determinazione, prese a far vagare le mani ovunque poteva,
gemendo
frustrato nell’incontrare nient’altro che vestiti.
John sospirò e lo strinse
forte, quasi impedendogli di muoversi nel suo abbraccio, impegnato a
ricoprirgli il viso di baci.
“Dimmi
come” gli sussurrò Sherlock all’orecchio
sentendosi l’intero corpo in fiamme.
“John-”
Fu
allora che ogni dubbio riguardo alla natura dell’altro
sparì dalla sua mente,
perché il capitano manifestò con un ringhio basso
e possessivo il suo temperamento
di alfa.
Sherlock
sentì le sue labbra prendere possesso delle proprie, calde,
ruvide, prepotenti,
ogni remora e delicatezza messe da parte. Una mano si
insinuò nei suoi capelli
e gli fece reclinare la nuca per fargli esporre il collo: Sherlock
gemette con
abbandono quando avvertì la sua lingua e i suoi denti
assaggiare la pelle
sensibile.
Fu
allora che capì, finalmente, cosa significava la passione
amorosa, e cosa
invece era soltanto mero impulso fisico. Le sensazioni travalicavano il
suo
corpo: lo avvolgevano in qualcosa di più grande,
indescrivibile, intenso al
punto del dolore. Non aveva mai creduto che lui, Sherlock Holmes,
potesse mai
contenere dentro il proprio cuore tanto trasporto nei confronti di
un’altra
persona all’infuori di sé.
John
si allontanò di colpo. Gli prese il viso fra le mani, il
respiro corto, gli
occhi grandi ed intensi. “Così bello”
sussurrò roco sfiorandogli l’angolo delle
labbra rosse di baci con il pollice. Gli sorrise incantato.
“Non sei di questo
mondo.”
Sherlock
rabbrividì e tentò goffamente di raggiungere la
sua cintura; impresa difficile
dal momento che i baci erano ripresi.
“Lascia
che-” provò a dire sulle sue labbra. John scosse
la testa.
“No.
Abbiamo poco tempo. Voglio che sia tutto per te.”
“Ma-”
“Devi
sapere cosa si prova prima di poter ricreare quella
sensazione” si impose John,
gentile ma fermo.
Sherlock
assunse un’espressione oltraggiata ma infine si convinse e
annuì.
“Voglio
toccarti” disse distogliendo lo sguardo, imbarazzato dal tono
simile al
capriccio con cui aveva pronunciato quelle parole. “Non so
perché lo voglio
così tanto. Perché lo antepongo al desiderio che
tu tocchi me.”
John
lo abbracciò e gli sussurrò
all’orecchio, la voce fremente di gioia:
“E’ colpa
di quel sentimento che tanto detesti.”
Sherlock
fece una smorfia.
“Che
tanto detestavo” borbottò contrariato, come ogni
volta che doveva ammettere di essersi
ricreduto su qualcosa.
Avvertì
l’altro sussultare e prendere un lungo sospiro tremante.
“Stringiti
a me” disse poi John con voce spezzata. Sherlock
obbedì.
Il
tempo era poco, sentì mormorare John, il tempo era poco e
lui gli chiedeva con
angoscia sincera di perdonarlo se tutto gli fosse risultato troppo
frenetico e
brusco. Sherlock stava per ingiungergli di stare zitto quando
sentì una sua
mano farsi strada sotto la camicia, carezzargli la pelle, scendere
oltre il suo
ombelico.
La
guancia premuta contro la spalla di John, trattenne il fiato; e quando
avvertì
le sue dita sfiorarlo e chiudersi attorno a lui con una riverenza tale
da
portarlo quasi alle lacrime, gemette.
John
gli baciò una tempia. Il suo respiro era affannoso. Sembrava
sull’orlo di
qualcosa che Sherlock non conosceva.
Si
impose di ricordarsi di ridefinire la parola
“calore” nel proprio personale
vocabolario, perché quando la mano di John si mosse, la
sensazione fu di un
piacere quasi bruciante. Si sentiva teso e costantemente al limite, e
si disse
che la sensazione sarebbe dovuta risultargli sgradevole, ma invece era
tutto il
contrario. Sembrava che John avesse trovato una fonte di piacere nel
suo corpo
che lui prima di quel momento non sapeva nemmeno di avere.
Pensò
che quel momento così squisito non sarebbe potuto durare, ma
invece proseguì
per quelli che dovevano essere minuti interi; e quei fremiti deliziosi
non
fecero altro che aumentare, invadendolo da capo a piedi, accecandolo.
John
sussurrò qualcosa di concitato e incomprensibile al suo
orecchio. Il tono della
sua voce era colmo di devozione. Sherlock lo strinse forte e venne
preso alla
sprovvista dalla fine- una contrazione meravigliosa, violenta,
assordante, che
chiuse il suo corpo in un cerchio continuo di piacere.
Quando
riaprì gli occhi, si rese conto che aveva affondato i denti
nella spalla di
John, e che non era in grado di reggersi in piedi.
“Sedetevi.”
Obbedì
senza forze. John lo cinse per la vita e lo fece accomodare su una
poltrona.
Tremava
e aveva il viso congestionato.
Sherlock
lo guardò ancora ansimante.
“State
bene?” chiese, meravigliandosi del sussurro rauco che era
diventata la sua
voce. Aveva urlato? Non riuscì a vergognarsene.
“Vi ho turbato in qualche modo?”
John
rise.
“Se
mi-” Gli rivolse uno sguardo sofferente, eppure divertito.
“Non vi potevate
vedere. Non credo che ‘turbamento’ sia in grado di
definire adeguatamente
quello che avete provocato in me.”
L’orologio
battè la mezzanotte.
Sherlock
si risistemò gli abiti, immerso in un silenzio pensieroso.
Erano tornati al
voi; l’intimità dei nomi di battesimo era solo un
ricordo. Il mondo al di là
delle mani di John gli sembrò freddo e inaccogliente.
“Io…
Vi vorrei ringraziare” disse rigido.
John,
che si era voltato verso il camino e sedeva piegato su sé
stesso su una scomoda
sedia, come per nascondersi al suo sguardo, si girò
nuovamente verso di lui.
Sherlock
lo fissò con espressione decisa.
“Avvicinatevi”
disse.
John
obbedì.
Non
sembrava a proprio agio col suo stesso corpo. Era come se qualcosa
stesse
rendendo difficoltosi i suoi movimenti, donandogli una goffaggine che
non gli
apparteneva.
Sherlock
lo guardò con attenzione, nuovamente lucido.
Sembrava
combattuto. Irrequieto. Quasi impaurito.
Raccolse
il coraggio per superare l’umiliazione cui si stava per
sottoporre e parlò.
“Ditemi
cosa ho sbagliato.”
John
gli rivolse un’occhiata allibita, dopodiché scosse
la testa e sorrise
debolmente. Si sporse in avanti per sfiorargli le labbra con un bacio
colmo di tenerezza.
“Voi
non potrete mai sbagliare nulla” gli disse a un soffio dal
viso, la voce affranta.
“Sono io che ho commesso un errore imperdonabile.”
Sherlock
sorrise.
“Vi
posso assicurare che questo non è vero.”
Doveva
avere un’espressione particolarmente sfacciata in volto
perché John rise e lo
baciò di nuovo. Sherlock ricambiò con sollievo.
“Mi
fate perdere il controllo” ammise infine John, le labbra
sulla sua tempia.
“Smarrire il senno. Inorridire di me stesso.”
Sembrava sinceramente disgustato
dalle proprie azioni.
Sherlock
emise un verso di disapprovazione.
“Smettetela
di fare penitenza. Ho chiesto io espressamente quello che è
accaduto. E voi non
avete nemmeno permesso che io ricambiassi.” Lo strinse con
ostinazione. “Vi è
proibito avvertire senso di colpa.”
John
ricambiò l’abbraccio ma non lo guardò
più in viso per il resto della sera.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** IV ***
IV
La
mattina del dieci giugno doveva, nella sua testa, essere colma di gioia
e sollievo,
ma con sua grande perplessità si accorse che il capitano
sembrava provare tutto
il contrario.
Pallido
in volto, passeggiava su e giù per il suo studio scosso dai
nervi e da
un’apparente forte preoccupazione. Era taciturno e irritabile
– quasi
irriconoscibile.
Sherlock
imbracciò il violino. Sapeva quanto John amasse sentirlo
suonare: sperava di
riuscire a rilassarlo.
I
suoi sforzi vennero ricompensati da un sorriso tirato.
“Suonate
divinamente, come sempre” disse John sedendosi di malavoglia
su una poltrona.
Sembrava essersi un poco tranquillizzato. “Posso chiedervi
che cos’è?”
Sherlock
sorrise.
“‘La
Trota’ di Schubert. Una delle mie favorite.”
“E’
splendida.”
Si
sentì bussare.
“Sì?”
Una
cameriera entrò nella stanza e si inchinò
rispettosamente.
“Vostro
fratello è arrivato, signore.”
Sherlock
si illuminò.
“Non
credevo che sarei mai stato felice di udire l’annuncio del
ritorno di Mycroft
in questa casa. A quanto pare, mi trovo costretto a
ricredermi.” Concluse la
sua esibizione con uno svolazzo dell’archetto,
dopodiché ripose il violino. “Andiamo,
capitano.”
“Mi
rincresce deludervi, signore” lo interruppe timidamente la
ragazza. “Ma il
marchese ha richiesto un colloquio privato con il solo capitano
Watson.” Esitò
prima di continuare. “Dice che il suo ordine non è
negoziabile.”
John
allargò gli occhi per la sorpresa. Sherlock battè
un piede a terra, furioso.
“Chi
si crede di essere, l’Inquisizione Spagnola?”
sbottò al colmo
dell’indignazione.
La
cameriera impallidì.
“Mi-
mi rincresce, signore” ripeté.
“Non
è colpa vostra” intervenne John, ragionevole. Poi,
rivolto a Sherlock:
“Soddisferò la richiesta di vostro fratello, ma
posso chiedervi cosa mi posso
aspettare da questo colloquio?”
Sherlock
digrignò i denti.
“Vi
passerà al setaccio per controllare che siate…
adatto.” I suoi occhi mandavano
lampi. “Adatto a me, e a questa famiglia.”
John
rimase in silenzio per qualche secondo, guardandolo in apprensione,
dopodiché
annuì e si schiarì la voce.
“Fatemi
strada” disse alla cameriera.
Sulla
porta, si girò e sorrise esitante a Sherlock.
“Non
abbiamo niente da temere.”
Sherlock,
ancora stizzito, gli voltò le spalle e riprese a suonare.
*
Due
ore dopo, Sherlock era al colmo della sopportazione. Aveva continuato a
maltrattare il suo violino tentando di sfogarsi ma non aveva ottenuto
il
risultato sperato. Si sentiva impaziente e nervoso suo malgrado, e la
cosa lo
irritava.
Finalmente
si udì bussare alla porta.
“Entrate!”
urlò quasi.
La
stessa cameriera di prima si fece avanti con un inchino e una busta.
Sherlock
quasi gliela strappò di mano. Prese a leggere, febbrile:
La
risposta di
vostro fratello è sì.
Mi
ha
gentilmente chiesto di lasciarvi libero il resto della giornata, in
modo che
possiate condividere la vostra gioia con lui e con la marchesa.
Obbedisco
con
immenso piacere.
Non
credevo
fosse possibile amarvi più di quanto vi amavo stamattina
prima di ricevere
questa meravigliosa notizia, ma mi trovo costretto a ricredermi.
Con
la speranza e
la certezza che vi rivedrò al più presto,
Cap. John H. Watson
Sherlock
sentì un moto di affetto totalmente sconosciuto verso il
proprio fratello e
rise.
*
Non
ebbe modo di vedere Mycroft prima di cena.
Il
loro rapporto era ostico per la maggior parte del tempo, per cui non si
sorprese che suo fratello non fosse venuto a salutarlo, né
che a lui non fosse venuto
l’impulso di fare il reciproco. Nemmeno la felice circostanza
attuale era stata
in grado di avvicinarli.
Sherlock
decise che era troppo eccitato per badarci quanto avrebbe dovuto.
Continuò
a suonare motivetti allegri per tutto il pomeriggio, e quando il
maggiordomo
venne ad annunciargli che la marchesa e suo fratello erano
già a tavola, scese
le scale con passo leggero.
“Sembra
che per una volta tu abbia fatto qualcosa di utile, Mycroft”
annunciò con un
ghigno mentre entrava nella sala da pranzo. Ignorò del tutto
lo sguardo di
disapprovazione della loro madre a quelle parole. “Mi hai
sorpreso, devo
ammetterlo.”
Suo
fratello alzò lo sguardo dal piatto e sorrise con aria
condiscendente.
“Mio
caro Sherlock-”
Si
interruppe di colpo nel vederlo. La sua espressione si tinse di puro
orrore.
Sherlock
alzò un sopracciglio, confuso.
Poi
si corresse: Mycroft si era interrotto di colpo nell’annusarlo.
Prima
che potesse fare ordine nei suoi pensieri, suo fratello si era alzato
da tavola
e l’aveva trascinato per un braccio fuori dalla stanza, sotto
lo sguardo
sbigottito della loro madre.
Sherlock
tentò di divincolarsi.
“Mycroft,
sei uscito di senno? Lasciami!” sibilò furioso.
“Vieni
con me. Subito” ringhiò lui in risposta.
*
Dopo
averlo condotto nella propria stanza, Mycroft chiuse a chiave la porta
e si
tirò vicino il fratello, premendo il naso contro il suo
collo e annusando a
fondo.
Sherlock,
fuori di sé dalla rabbia, lo allontanò con
violenza.
“Mycroft,
levati di dosso! Immediata-”
“Sei
stato reclamato” disse Mycroft con voce attonita.
Sherlock
si fece immobile. Non credeva alle proprie orecchie. Si doveva trattare
di uno
scherzo – doveva essere
uno scherzo –
ma gli occhi pieni di sgomento di suo fratello gli dissero che quello
non era
il caso.
“Che
cosa-” tentò, incredulo.
Mycroft
strinse i pugni lungo i fianchi, le narici frementi.
“Sei
solo uno sciocco. Uno sciocco ragazzo, incosciente e scriteriato. A
cosa
credevi ti avrebbe portato questo tuo atto di ribellione? Non posso
credere che
dopo aver trovato un uomo degno come il capitano Watson tu abbia deciso
di
sprecare la tua fortuna in questo modo ridicolo!”
urlò.
Sherlock
battè le palpebre, impietrito. Suo fratello non aveva mai
urlato in sua
presenza. Mai.
“Mycroft-”
“Sei
disonorato. Tutto è perduto” disse con voce
sconfitta, e gli voltò le spalle.
Calò
il silenziò. Sherlock si sforzò di far lavorare
il cervello a pieno regime, nel
tentativo disperato di cercare una spiegazione a questa insensatezza.
“Mycroft”
cominciò poi dopo essere tornato in controllo di
sé. “Quel che dici non è
vero.”
“No?”
rispose sarcastico suo fratello, ancora girato di schiena.
“Ti credevo
abbastanza brillante da riuscire a non negare
l’evidenza.”
“Non
è successo nulla di ciò che stai
insinuando.”
“Il
tuo odore è cambiato. Si è diluito in quello di
un alfa. Il tuo corpo mostra la
tua appartenenza a qualcuno.” Mycroft si voltò: il
suo viso solitamente calmo e
inespressivo era percorso da rughe di angoscia. “Ora ti
chiedo: perché? Quel
Watson è sincero nel tuo attaccamento a te. E mi sembrava di
comprendere che
anche tu provassi qualcosa per lui, se hai acconsentito a
sposarlo.”
Sherlock
era basito. Per la prima volta nella sua vita, Mycroft sembrava
genuinamente non capire.
“Ti
ripeto” continuò, la voce vibrante di rabbia,
“che non ho permesso a nessuno di
reclamarmi.” Era troppo orgoglioso per implorarlo di
credergli, ma il suo
sguardo si ammorbidì suo malgrado, tentando di muoverlo a
commozione. “Ci deve
essere un errore.”
Mycroft
lo guardò a lungo, come se volesse esaminarlo in ogni sua
parte, e soppesarne
la buonafede. Dopodiché disse: “Sono certo di non
sbagliarmi, ma non possiamo
lasciare spazio a nessun dubbio. Chiederò il parere di un
medico.”
Si
avviò in direzione della porta.
“Tu
resta qui dentro” ordinò duramente, la voce che
non ammetteva ragioni. “Se
qualche altro alfa sente il tuo odore, il segreto verrà
rivelato e non potremo
fare più nulla.”
Poi,
senza aggiungere altro, uscì.
Sherlock
sentì le forze venirgli meno e si lasciò cadere
su una sedia, tremante. Ci
doveva essere un errore. Sì, era l’unica
spiegazione possibile.
Si
rifiutò di pensare a John con angoscia perché
aveva ancora la speranza che tutto
si sarebbe risolto.
*
Mycroft
stava passeggiando nervosamente avanti e indietro davanti alla stanza
di suo
fratello quando la porta si socchiuse.
“Dunque?”
chiese senza preamboli al medico, che aveva un’espressione
buia in volto.
“Vostro
fratello è stato deflorato” rispose
l’uomo in tono dolente. “Sul collo vi sono
i segni di un reclamo, ma c’è una buona
notizia.”
Mycroft,
pallido, annuì per spingerlo a continuare.
“La
ghiandola è solo incisa, non spezzata. Il legame non
è stato completato del
tutto.”
“Significa
che non rischia di…”
“Sì,
esatto. Il nodo non ha fatto presa. E’ come se
l’alfa in questione fosse
improvvisamente rinsavito e avesse deciso di tirarsi indietro
all’ultimo
momento.”
Mycroft
chiuse gli occhi e si immerse in un silenzio colmo di sconforto. Infine
scosse
la testa e disse:
“Vi
ringrazio. Farò in modo che la vostra discrezione venga
ripagata con una somma
consistente.”
L’uomo
gli porse la mano.
“Ci
conosciamo da molto tempo, marchese. Ho aiutato vostro fratello a
nascere.” Il
suo sguardo era sincero, empatico. “Non lo getterò
in pasto ai lupi.”
Mycroft
gli strinse la mano con gratitudine.
“Vi
ringrazio ancora.”
“Temo
però di essere costretto a dirlo alla signora marchesa. Non
ha la potestà che
avete voi su vostro fratello, tuttavia… Capite, è
la madre. E ho degli obblighi
di amicizia anche nei suoi confronti.”
“Sì”
lo interruppe Mycroft, stancamente. “Certo che
capisco.”
L’uomo
fece un cenno col mento e si congedò.
Mycroft
prese un lungo respiro prima di bussare alla porta di suo fratello ed
entrare.
*
La
stanza era immersa nel buio più completo. Non una candela
era accesa.
Mycroft
distinse con difficoltà la sagoma rannicchiata di suo
fratello in mezzo alle
coperte. Con un sospiro, si sedette sul letto.
Gli
posò una mano sulla spalla.
“Dimmi
chi è stato” mormorò, la voce cupa ma
premurosa.
Sherlock
rimase rigido, immobile, e zitto.
“Sherlock.”
Sentì
le sue spalle tremare sotto il peso di un respiro che doveva essergli
risultato
molto faticoso.
“Non
è possibile” fu la sua risposta, pronunciata in
una voce così bassa da essere
quasi inudibile. “Non è vero”.
C’era
ancora una certa rabbiosa testardaggine nella sua voce. Mycroft ne fu
irritato
e perse le staffe.
“Smettila
di evitare le tue responsabilità. Sai benissimo cosa
è successo. Non mi mentire.”
“Non
ti sto mentendo!” sbottò furente
l’altro, rannicchiandosi ancora di più nelle
lenzuola. “Non è mai accaduto nulla di quel
genere.”
Tacque
per qualche secondo, poi si corresse, in tono più
controllato: “Io e il
capitano Watson… Siamo stati intimi. Ma non ci siamo nemmeno
lontanamente
avvicinati al reclamo.” Tirò su col naso.
“Questo è tutto quello che so. Sei
libero di non crederci, ma questo non rende i miei ricordi meno veri,
né le mie
parole meno sincere.”
Mycroft
scosse la testa e si alzò in piedi.
“Spero
che per l’ora in cui dovrai affrontare nostra madre, tu avrai
pensato a
giustificazioni più solide di queste. Anche se dubito che
questa volta il tuo
ingegno riuscirà a salvarti.”
Poi
uscì, lasciandolo solo e in balìa della
confusione più completa.
Note
dell’autrice:
risponderò
al più presto ai deliziosi commenti <3 Grazie della
pioggia d’amore che
avete riversato su quella pover’anima del maggiordomo, e a
presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** V ***
Il
suo ingegno, come aveva ben previsto Mycroft, non salvò
Sherlock dal disastro.
Sua
madre svenne, pianse, gridò al tradimento e al disonore. Lo
cacciò di casa
giurandogli che mai più l’avrebbe guardato negli
occhi tanta era la sofferenza
che il suo crimine le aveva inflitto.
Sherlock
non tentò neanche di convincerla del fatto che era
innocente. Tutti sembravano
decisi a credere nella cruda evidenza dei fatti (come in altre
circostanze, e
lo realizzò con rabbia, avrebbe sicuramente fatto lui
stesso) e non a quello
che lui aveva da dire. Si rassegnò a soffocare il disperato
senso di impotenza
da cui si sentiva invaso e a tornare insensibile, freddo e ignaro della
gioia
autentica come un tempo, perché solo pensando di non averla
mai vissuta poteva
sopportare di averla persa per sempre.
La
testa china, ascoltò la sua condanna in silenzio, i pugni
chiusi lungo i
fianchi unico segno del suo malessere.
Mycroft
intercesse per lui e convinse la loro madre a segregarlo nella loro
casa di
campagna, sperduta nel nulla; solo campi e campi di sterpaglie gelate a
perdita
d’occhio. Nessuna anima viva si sarebbe mai spinta a fargli
visita eccetto i
loro servitori, per rifornire la dispensa. Avrebbero inventato una sua
improvvisa vocazione per l’isolamento più assoluto
e così le apparenze si
sarebbero salvate. Gli unici a essere a conoscenza
dell’increscioso fatto erano
Sherlock stesso, Mycroft, la loro madre e il medico di famiglia, e
così sarebbe
stato fino alla fine dei suoi giorni.
*
In
carrozza, diretto verso il luogo del suo esilio forzato, Sherlock
insinuò una
mano sotto i fitti ricci che gli coprivano la nuca.
Sotto
i suoi polpastrelli, innegabile marchio di infamia, il segno di un
morso che
non ricordava di aver mai subito; e che ora lo destinava a un futuro di
vergogna e solitudine.
Ciò
che più lo faceva soffrire era immaginare la delusione del
capitano Watson. Il
pensiero di aver perso il suo favore, di aver spento per sempre la luce
ammirata che si accendeva nei suoi occhi ogni volta che il suo sguardo
si
posava su di lui, lo tormentava quasi più della sua stessa
disgrazia.
Ripensò
a quella frase che lui gli aveva detto, a quel commovente:
“Mi basta sapere che
pensate bene di me,” e solo allora capì il vero
significato di quelle parole,
il bisogno, la supplica che vi era nascosta dietro.
*
La
natura testarda di Sherlock fece in modo che quel limbo di sgomento lo
intrappolasse per poco meno di due giorni.
Sistematosi
meglio che poté nella sua nuova prigione, si
rimboccò le maniche e, descrivendo
a grandi passi cerchi su cerchi nel giardino della tenuta, prese ad
analizzare
il problema da ogni lato possibile.
Dopo
lunghe ore di riflessione, seppur a malincuore, giunse a
un’unica possibile
spiegazione di tutti i fatti.
Vi
erano innegabili prove fisiologiche di un’unione consumatasi
fra lui e un alfa.
Era assolutamente sicuro di non ricordare alcunché
dell’accaduto, ma questa sua
certezza non era del tutto incompatibile con la triste
verità. Aveva letto
resoconti di eventi molto traumatici in grado di provocare amnesie
temporanee o
meno.
Proseguendo
con questa linea di pensiero, l’unico momento di
vulnerabilità in cui qualcuno
avrebbe potuto facilmente approfittare di lui coincideva con
l’assalto al
castello: al tempo era in calore e ferito alla testa. Le memorie di
quei terribili
momenti purtroppo rimanevano così vaghe da non permettergli
di indagare più a
fondo.
Era
davvero possibile che qualcuno fosse stato in grado di usargli una tale
violenza senza che lui ricordasse nulla? Sì, era possibile.
Lo stato di
confusione tipico del calore e la percossa al capo lo avevano reso una
vittima
perfetta. Doveva poi aver rimosso tutto, incapace di fare i conti con
la
vergogna che si era trovato a provare una volta tornato in
sé. John l’aveva
trovato svenuto e l’aveva portato in salvo quando
probabilmente il suo
aggressore era già fuggito.
Altrimenti,
si disse, avrebbe sicuramente detto qualcosa al riguardo.
Sherlock
si fermò davanti al cancello della tenuta al far della sera.
I piedi gli
dolevano e una grande stanchezza fisica e mentale si era impossessata
di lui.
Si
concesse di pensare un poco al capitano per trarre sollievo dalle belle
memorie
che gli associava. Ricordò il tocco caldo delle sue mani e
la luce gentile dei
suoi occhi, tenendo lo sguardo fisso sulle nuvole fattesi dorate e
imponendosi
di non farsi vincere da qualcosa di così stucchevole come la
malinconia.
Poi
voltò le spalle al tramonto e tornò a camminare.
*
Quella
stessa notte, solo nel proprio letto, prese la sua decisione.
Non
vi era possibilità di scendere più in basso di
così. In qualche modo, tuttavia,
quelle deprimenti circostanze si stavano rivelando stranamente
liberatorie:
niente gli impediva di andare fino in fondo a quel mistero. Mai si era
sentito
così completamente padrone del proprio destino - per quanto
sventurato.
Sì,
non sarebbe perito senza perlomeno capire la ragione della sua
sconfitta. Avrebbe
fatto la sua mossa la mattina seguente; e forse, con la fortuna dalla
sua
parte, avrebbe infine scoperto la verità.
*
Ignaro
dei disagi di Sherlock, il capitano, da parte sua, si era fatto a poco
a poco
consumare dall’ansia.
Tre
giorni erano passati senza nessuna sua notizia. Non aveva nemmeno
ricevuto
risposta al biglietto con cui gli comunicava la benedizione di suo
fratello al
loro matrimonio.
Nel
suo alloggio in una locanda poco lontana dal maniero degli Holmes, John
passò
il suo tempo a passeggiare su e giù per la stanza invaso da
un crescente
terrore, incapace di calmarsi.
La
sua mente non poté fare a meno di pensare al peggio. Era di
certo successo
quello che aveva temuto sin dall’inizio.
Se
solo la loro unione si fosse potuta celebrare subito…
*
La
mattina del quarto giorno i suoi nervi cedettero e lui si
recò al castello.
Come si era immaginato nei suoi peggiori incubi, gli impedirono di
vedere
Sherlock.
In
sua vece, un’espressione addolorata in volto, scese a
parlargli suo fratello.
“Capitano
Watson, mi rincresce essere portatore di cattive notizie,”
cominciò con sincero
rammarico l’uomo, “ma purtroppo mio fratello si
è gravemente ammalato. Non
posso permettervi di vederlo.”
A
quella notizia John Watson spalancò gli occhi e si
accasciò su una sedia, scosso
da tremiti irrefrenabili.
Mycroft
sospirò e gli pose una mano sulla spalla.
“Credetemi,
condivido il vostro dolore” mormorò tristemente.
“E’ successo all’improvviso.
Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che-”
“Vi
prego, smettete di mentirmi” disse angosciato il capitano
rialzando la testa,
le lacrime agli occhi. “So cosa è accaduto a
vostro fratello.”
Mycroft
ritirò la mano dalla sua spalla.
“Voi
sapevate di questa fatto vergognoso?” disse allibito.
John
Watson annuì senza il coraggio di guardarlo negli occhi.
Mycroft rimase
brevemente senza parole, agghiacciato, poi indagò:
“Siete
a conoscenza dell’identità
dell’aggressore, dunque?”
Un
altro debole segno affermativo.
Mycroft
sentì una sorda collera montare dentro di sé.
“Ma
perché non avete parlato sino ad ora?”
Il
capitano si fece mortalmente pallido e tornò a seppellire il
viso nelle mani.
“Mio
Dio, che cosa ho fatto” balbettò pieno di
vergogna. “Che cosa ho fatto.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** VI ***
VI
La
mattina di due giorni dopo la sua risoluzione notturna, Sherlock scese
in
salotto per trovarvi il proprio fratello pigramente seduto sulla sua
poltrona,
lo sguardo colmo di disapprovazione fisso su ogni angolo della stanza.
“Sherlock,
benedetto ragazzo. A malapena una settimana di permanenza e
già la casa è
ridotta in questo stato deplorevole” borbottò
Mycroft con un sospiro.
“Che
diavolo ci fai qui?” sibilò l’altro
imbracciando il suo violino e volgendogli
le spalle, deciso ad ignorarlo almeno fisicamente. “Nostra
madre ti manda a
spiarmi? Vuole sapere se il suo piccolo reietto è arrivato a
uccidersi per la
disperazione? Ha!” Gli brandì contro
l’archetto come una spada. “Dille che da
me può scordarsi certi disgustosi atti
sentimentali.”
Mycroft
si rigirò lentamente il bastone da passeggio fra le mani, lo
sguardo penetrante
fisso sul fratello minore.
“Nostra
madre è ancora furiosa con te ma questo non la
esimerà mai dal preoccuparsi.”
Gli rivolse un sorriso amaro. “Non che questo costituisca una
sorpresa,
d’altronde. Sei sempre stato il suo preferito.”
Sherlock
smise d’improvviso di suonare e si voltò a
guardarlo.
“Lo
sai” disse lento, stranamente esitante, “che io non
l’ho mai voluto, questo.”
Mycroft
sospirò.
“Sì,
so perfettamente che non hai mai fatto nulla per esserlo. Piuttosto il
contrario, direi.” Un altro sospiro, più profondo.
“Ciononostante…”
Sherlock
aggrottò le sopracciglia. Mycroft sorrise con fare
pensieroso.
“Non
tutto a questo mondo può essere facilmente spiegato, mio
diletto fratello”
disse in tono distratto. “L’amore, come oggetto di
studi razionali, è molto
elusivo.”
“Cosa
potrai mai saperne tu.”
Mycroft
rise di fronte a quella risposta così secca e immediata.
“Nulla,
nulla, ovviamente. Non pretendo di essere
un’autorità in merito.”
Sherlock
vide che stava stringendo forte il manico del suo bastone, come faceva
le rare
volte in cui provava emozioni così intense da richiedere uno
sforzo fisico per essere
tenute bada.
D’improvviso
non seppe più che dire e tra loro calò un
silenzio teso e scomodo.
Incapace
di sopportarlo a lungo, Sherlock fece schioccare la lingua e si sedette
con eccessivo
impeto sul divano.
“Dimmi
perché sei qui, Mycroft” mormorò con lo
sguardo ostinatamente fisso fuori dalla
finestra.
Suo
fratello si prese diversi attimi prima di rispondere, limitandosi a
guardarlo
con aria indecifrabile.
“Ti
credo” disse in tutta semplicità.
Si
fece sfuggire uno sbuffo esasperato di fronte allo sguardo allibito di
Sherlock.
“Dato
il perfetto funzionamento del tuo apparato uditivo, non è
certo necessario che
io mi ripeta.”
Sherlock
si riscosse subito dal proprio imbarazzante stupore e gli
lanciò un’occhiata supponente.
“Ce
ne hai messo di tempo per tornare in possesso di quel poco di sale in
zucca che
ti ritrovi, razza di stupido” sbottò.
Dopodiché si alzò in piedi e uscì
dalla
stanza con un teatrale svolazzo della propria vestaglia.
Mycroft
fece appena in tempo a notare sulle sue labbra un fugace sorriso.
*
“Lo
sai che mangiare carne cotta nuoce alla tua fragile salute.”
Un
ghigno crudele.
“O
meglio, lo sai che semplicemente mangiare
nuoce alla tua fragile salute.”
Mycroft
si pulì la bocca con il tovagliolo e lanciò uno
sguardo accigliato al proprio
fratello.
Sherlock,
al di là della tavola, stava giocherellando con un coltello,
un’espressione
arrogante in viso. Sembrava fermamente deciso a non toccare nulla del
piatto che
aveva davanti.
Mycroft
inspirò raccogliendo a sé tutta la pazienza di
cui disponeva e si portò alla
bocca un altro poco di arrosto.
“Ti
interesserà sapere che ho parlato con il tuo capitano, caro
fratello.”
Sorrise
quando udì il rumore metallico del coltello che cadeva con
malagrazia sulla
tavola.
“Che
cosa hai detto?” esalò Sherlock, le labbra strette
in una linea sottile.
Mycroft
notò che la mano che aveva lasciato cadere la posata tremava.
“Non
avendo più avuto più notizie, è
entrato in uno stato di grande preoccupazione
ed è venuto a chiedere di te.”
“Gli
hai-”
“Sì,
gli ho propinato la tua debole storiella della malattia.”
Bevve un sorso di
vino. Sherlock fece schioccare la lingua, innervosito da quella pausa
indesiderata. “Ma temo che abbia chiamato il tuo bluff. Si
è dimostrato affatto
stupido. Credevi davvero che un uomo con il fegato di chiederti in
matrimonio
avrebbe desistito così facilmente?”
Sherlock
si alzò da tavola con un movimento improvviso.
“Non
agitarti. Renderai difficile la digestione di tutto quello che non hai
mangiato” lo ammonì placidamente Mycroft.
“Al
diavolo tu e il tuo dannato cibo!” urlò Sherlock,
fuori di sé. Era divenuto
paonazzo in viso e stringeva il tavolo con nocche ormai divenute
bianche. “Cosa
significa quello che hai detto? Che cosa-”
“Significa
che ha capito tutto, Sherlock.” Mycroft appoggiò
con lentezza i gomiti sul
tavolo e gli rivolse uno sguardo intenso. “Ma la cosa
più importante è che mi
ha vivamente detto di riferirti che non gli importa.”
Sherlock
impallidì. Si risiedette di colpo, passandosi una mano fra i
capelli.
“Non
può essere vero” mormorò sbigottito.
“Concordo
con te che sia un comportamento inusuale per un alfa – un
soldato, per di più.
Solitamente i militari hanno il vizio di voler conquistare omega come
fossero
fortezze.”
Aveva
usato lo stesso tono pigramente vago che adottava di solito per parlare
del
tempo.
Sherlock
digrignò i denti, fulminandolo con un’occhiata.
“Mycroft,
ti avverto, se non cessi immediatamente
di prenderti gioco di me-”
“Calmati,
Sherlock. Non è mai stata mia intenzione.” Riprese
a tagliare la carne,
imperturbabile. “Il capitano mi ha detto di averlo capito
già durante il
vostro... Idillio.” Si forzò la parola dalle
labbra come se fosse qualcosa di
eccessivamente dolce rimastogli incastrato fra i denti.
Sherlock
assunse un’espressione confusa.
“Non
me ne ha mai parlato” mormorò.
“Non
voleva turbarti inutilmente, dato che aveva già deciso di
sposarti nonostante
questa incresciosa circostanza.”
“Sa
chi è stato?”
“No,
e nemmeno gli interessa. Ha espresso il più ardente
desiderio di riunirsi presto
a te e dimenticare questa orrenda storia il prima possibile.”
Sherlock
non riuscì a sopportare oltre quel discorso e
abbandonò la stanza senza una
parola in più.
Mycroft
sospirò, prendendo a massaggiarsi le tempie con la punta
delle dita.
Finì
di cenare in silenzio e in solitudine.
*
La
mattina seguente, in piedi sulla porta della sua camera da letto,
Mycroft
sbuffò e osservò con vago fastidio
l’involto di coperte che era suo fratello muoversi
con lentezza, raggomitolandosi più strettamente su un
fianco.
“Mi
rincresce rinunciare alla tua come sempre deliziosa compagnia, mio caro
fratello, ma temo di essere costretto a tornare a casa. Gli affari non
aspettano.”
Prevedibilmente,
non ottenne risposta.
“Buona
giornata, Sherlock” disse in tono conclusivo.
Stava
per chiudersi la porta alle spalle quando udì un sussurro
quasi
incomprensibile:
“Mycroft.”
La
sua mano si appoggiò sulla maniglia, ma non la spinse. Con
un sospirò, si voltò
per vedere Sherlock appoggiare la schiena ai cuscini e guardarlo con
un’espressione incerta che sul suo viso sembrava
completamente fuori posto.
Sei
sempre stato
il suo preferito.
“Sì?”
chiese, alzando un sopracciglio.
Sherlock
continuò a guardarlo, incapace, all’apparenza, di
parlare.
In
un lampo di deplorevole nostalgia Mycroft rivide il viso incerto di un
bambino
pallido e ricciuto che lo seguiva ovunque, chiedendogli con lo sguardo
domande
silenziose su ciò che non riusciva a capire del mondo.
Tu
lo sai che io
non l’ho mai voluto, questo.
“Puoi…
Mandarlo da me?” mormorò infine
Sherlock, abbassando gli occhi sulle lenzuola.
Mycroft
divenne immobile e sembrò ponderare la sua richiesta.
Infine, distogliendo lo
sguardo, disse:
“Implicherebbe
disobbedire a nostra madre.”
“Lo
farai?”
Strinse
forte la maniglia.
L’amore,
come
oggetto di studi razionali, è molto elusivo.
“Sì.”
Sherlock
abbandonò completamente la sua apparenza misera ed emise un
chiassoso verso di
giubilo. Saltato giù dal letto, prese a vestirsi in fretta e
furia, un sorriso
soddisfatto sulle labbra. Tremava di eccitazione.
Mycroft
si chiuse la porta alle spalle.
Sherlock
aveva un certo talento per la recitazione, ma la sua bravura non poteva
niente
contro i legami di sangue. Il suo tentativo di far passare la propria
supplica
per una manipolazione insincera era miseramente fallito.
Ma
per quanto si sforzasse non riusciva a biasimare il suo comportamento.
Non
erano mai stati capaci né di aiutarsi né di farsi
aiutare alla luce del sole:
persino le loro poche gentilezze reciproche erano mascherate da furbi
sotterfugi, da do ut des, da estorsioni. Ammettere di tenere
l’uno all’altro
pur immersi sino al collo nella loro faida fraterna,
d’altronde, era un
pensiero davvero paradossale.
Cosa
potrai mai
saperne tu.
Mycroft
si concesse un sorriso amaro. Uno solo. Poi reindossò la sua
usuale maschera di
indecifrabilità e, salito in carrozza, ordinò al
occhiere di partire.
Note
dell’autrice:
ritorno
dopo l’agognata pausa estiva *getta coriandoli*
Spero
vi sia piaciuto <3
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1986348
|