An irish tale - Parte seconda

di JaneD_Alexandra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


 An irish tale – Parte seconda
 
CAPITOLO I
 

 
Il prato era disseminato di tende da campeggio.
Era una serata fresca, con un cielo sereno chiazzato da poche rare nubi azzurrine. Soffiava un vento lieve, da Nord che muoveva appena appena le fronde degli alti sempreverdi che circondavano il campo. Rade volute di fumo si levavano da una decina di falò accesi fra una tenda e l’altra, dove i ragazzi si radunavano per abbrustolire i marshmallow e i wurstel infilzati nei lunghi spiedini d’acciaio. Un parlottio sommesso animava appena appena il silenzio del luogo, molto caro ai boys scout che pattugliavano il campo e si assicuravano che le norme di convivenza con la natura non fossero infrante. Si spostavano da un punto all’altro, fasciati nelle loro giovanili divise verdi, più o meno bardati di fiocchi e medagliette. L’essere investiti di una grossa responsabilità rendeva il loro passo e la loro postura fieri e non perdevano occasione di offrire il loro aiuto agli ospiti più inesperti e intraprendenti. Era la fine di Giugno del 2012 e si stava disputando un torneo di tennis di beneficienza. Le tende ospitavano i partecipanti.
Sorprendentemente, erano stati molti i giovani atleti ad aderire al progetto. L’affluenza aveva comportato un maggior numero di giorni per la pianificazione dei match e il torneo, organizzato per disputarsi a metà Maggio, a suon di rinvii e posticipazioni, era iniziato nella terza settimana di Giugno. I proventi erano stati raccolti dai boys scout e alla fine delle gare sarebbero stati devoluti alla associazione di biologi, per una campagna di impollinazione artificiale per il reimpianto di una specie vegetale che rischiava di estinguersi a causa di un parassita e per un progetto che prevedeva lo spostamento di alcuni animali ad una riserva più grande.
Quando il sole tramontò e l’oscurità avvolse come un manto il prato, gli scouts accesero una per volta le lanterne in dotazione alle tende, ma servì a poco, in quanto, contro ogni previsione, la maggior parte degli atleti, che erano esausti per i match disputati durante la giornata, decisero di andarsi a coricare. Qualcuno si lamentò per il mal di schiena che il sacco a pelo gli aveva procurato, qualcun altro decantava l’importanza di un cuscino ortopedico, ma in genere erano tutti così stanchi che il campo presto si vuotò e le lanterne furono spente. Dopo l’ultimo giro di ronda, anche gli scouts poterono ritirarsi e concedersi al tanto agognato sonno ristoratore.
 
Le tende non avevano una disposizione particolare, ma gli allenatori avevano deciso di comune accordo di sparpagliarsi per meglio monitorare i propri allievi.
Anya era accanto alla tenda di Miss Tameeng, uno degli allenatori più rigidi e bisbetici che avesse mai incontrato. Non ammetteva che nessun ragazzo, che fosse dell’area posta sotto la sua giurisdizione o no, uscisse dalla tenda dopo l’orario consentito e imponeva che nessun ragazzo si avvicinasse alla tenda di una ragazza e viceversa. La naturale protesta dei sottoposti era servita a poco e perfino Anya, nonostante i suoi ventuno anni e la buona reputazione di cui godeva presso il circolo di tennis, era stata letteralmente costretta a chiudersi in tenda e aspettare, sveglia o no, che una nuova giornata piena di match cominciasse.
Inizialmente, quando si era sdraiata sul sacco a pelo, dopo essere stata strappata al falò al quale stava abbrustolendo dei marshmallow e aver visto il frutto delle fatiche di un giovane scout essere spento dalla secchiata d’acqua di Miss Tameeng, aveva pensato di potersi addormentare nel giro di pochi minuti, ma alle undici e mezza passate fissava ancora la cerata della tenda.
Nel frattempo nel campo era sceso il silenzio, a parte sporadici bisbigli incomprensibili, e i suoi compagni erano andati tutti a coricarsi. Attraverso i teli della tenda, intuì che le lanterne vicine erano state spente dagli scouts.
Divideva la tenda con una ragazzina di sedici anni che per gran parte della serata l’aveva intrattenuta con i suoi dilemmi sentimentali, di una sicura quanto prossima rottura con il suo ragazzo e della paura di sfigurare al primo torneo di tennis della sua carriera. Per fortuna Anya quella sera aveva la vena retorica e calmarla fu solo questione di tempo e pazienza; poi il discorso aveva imboccato sentieri più facilmente praticabili.
Quando uscì era già passata la mezzanotte. Preda di un fastidioso dolore alla schiena, sgattaiolò dal sacco a pelo, aprì la cerniera della tenda e si allontanò in punta di piedi, superando un fuocherello morente e scavalcando le radici di un paio di pini. Camminò fino ad una tenda fiocamente illuminata e alzò una mano con fare rassicurante in direzione del capo scout che si era mosso per riconoscerla. Anya lasciò che la sua torcia la illuminasse e sorrise colpevolmente.
- Hai lo stemma di riconoscimento?
Anya ebbe un istante di esitazione. Mosse una spalla e mostrò il quadrifoglio verde ricamato sulla manica, il simbolo che il circolo di tennis aveva adottato per il torneo. Il capo scout assentì e abbassò la torcia.
- D’accordo, puoi andare.
Anya camminò per un’altra decina di metri, fino a raggiungere la tenda del suo allenatore. Anche la sua lanterna era accesa.
- Mister?
- Chi è?
La giovane si acquattò di fronte l’entrata. – Sono Anya.
- Ah, Anya! Stavo pensando a te, sai? – fece lui mettendo da parte il libro che stava leggendo. - Come mai sei ancora sveglia? È mezzanotte e mezza … - disse con un’occhiata all’orologio. La ragazza si lasciò cadere seduta sul prato, facendo spallucce.
- Diceva che mi stava pensando …
L’uomo la guardò con sospetto e abbozzò un sorriso. – Sì – annuì – domani ci sarà Sonja McKintoschk. La conosci?
- Di fama.
- Gira voce che sia la migliore tennista esordiente di tutta l’Inghilterra.
Anya abbassò appena appena lo sguardo, inarcando un sopracciglio. Linda era una sua fan.
- I giornalisti la vogliono a Wimbledon l’anno prossimo.
La ragazza mimò un’espressione compiaciuta, mentre si mordicchiava un labbro. Restò in silenzio per una manciata di secondi, poi abbassò lo sguardo ai laccetti che sbucavano dall’orlo della felpa.
- La sfiderò io, non è così?
L’allenatore annuì. – Sarà qui alle undici e tu sarai la sua prima avversaria …
- Ma io avrò giocato già un match.
- Lo so.
Anya distolse lo sguardo.
- È questo il motivo per cui non riusciva a dormire?
- Sì – assentì lui. – Ma ce la farai …
- Infatti sta dormendo placidamente e sta sognando un mondo fantastico popolato da creature benevole! Perché non me l’ha detto prima? N … non sono pronta! Io non mi sento affatto pronta!
- Non è vero …
- Quella ha fama di mangiarseli gli avversari!
- Non alzare la voce, per favore. Sveglierai tutti.
Anya serrò la mascella, guardandolo in cagnesco.
- L’ho saputo solo questo pomeriggio, mentre giocavi contro Carolina Madison. Sonja era impegnata a Londra fino all’altro ieri … ha dato la sua adesione solo questa mattina.
- Questa mattina?!
Il mister annuì.
- Quando è arrivata?
- Nel primo pomeriggio … e se è questo che ti stai chiedendo … sì, ti ha vista mentre giocavi.
Anya si stropicciò le palpebre con i palmi delle mani. Sospirò – Non mi sto chiedendo questo … non mi sto chiedendo niente. Alle undici sfiderò Sonja McKintoschk. Sta bene. Però avrei tanto gradito che me lo dicesse prima.
- Saresti corsa ad allenarti quando avresti avuto bisogno di riposare.
La giovane si alzò in piedi – Non sono così sprovveduta.
- Te ne stai già andando?
- Sì.
- Non mi hai ancora detto il motivo per cui non riuscivi a dormire.
Anya si girò. Solo l’amicizia che li legava da una vita la trattenne dal rispondergli di farsi gli affari propri, ma non servì aprire bocca per rispondere.
- C’entra il tuo ragazzo?
Anya distolse lo sguardo e scosse il capo con le labbra serrate.
- Come no … Avete litigato?
- No.
- Dimmi la verità.
- No!
- Va bene, va bene! Non ti scaldare!
L’allenatore sorrise, sovrappensiero. Anya lo guardò con una punta di sospetto, prima di decidere di andar via.
- Buonanotte, Mister.
- Non prenderti troppe gatte a pelare. Cerca di mantenere la concentrazione per il match di domani e di dormire.
- Buonanotte, mister.
- Buonanotte.
 
L’indomani mattina si sentiva come un pugile preso a cazzotti.
Quando raggiunse la mensa per colazione, scelse un tavolo libero e sedette a ridosso della parete, poggiandovisi così mollemente con la spalla e la testa da dare l’impressione di stare dormendo.
Da quella postazione aveva una perfetta visione del campo esterno, dove si muovevano freneticamente decine di giovani tennisti con i volti gonfi di sonno e i capelli scombinati. Il brusio della mensa copriva ogni rumore, ma si udivano nettamente i campanellini della porta che si apriva e chiudeva alle sue spalle ed il tintinnio di posate e bicchieri. Le conversazioni che si svolgevano fuori dalla finestra si potevano solo immaginare. Non sentendosi ancora dell’umore giusto per iniziare a mangiare quello che aveva messo nel vassoio, mentre centellinava il succo di frutta, si mise a fissare le bocche delle persone che parlavano, sperando di capire qualcosa. La maggior parte discutevano dei punti accumulati, dei set e degli avversari da sfidare; ma gli altri, quelli che seguiva con più attenzione, leggevano i pronostici dei quotidiani sportivi locali: a quanto pareva i giornalisti non avevano sbagliato neppure una previsione e qualcuno particolarmente insolente aveva stilato la lista dei possibili sconfitti. Anya si avvicinò al vetro della finestra, deglutendo a fatica un sorso di succo quando il ragazzo che ne aveva parlato iniziò a leggere l’elenco all’amico. Ebbe come l’impressione che il brusio nella mensa fosse aumentato di colpo e lanciò un’occhiata furente ai commensali, chiedendosi se le conveniva zittirli con un’esclamazione. Accadde in un istante, ma quando tornò a guardare oltre la finestra i ragazzi con il giornale erano spariti.
- Dannazione!
Allontanò d’impulso il vassoio e si pressò i palmi delle mani sugli occhi fino a vedere vortici colorati. Poi il cellulare vibrò. Anya saltò su, attirando l’attenzione di alcuni ragazzi vicini. Si tastò ansiosamente i fianchi e ficcò due dita in tasca. Accettò la chiamata ancor prima di leggere il display.
- Paride!
La linea era disturbata. Sistemò il cellulare sull’orecchio, ma il tentativo di sentire meglio cadde nel vuoto.
- Pronto? Pronto? Paride, sei tu?
Uscì dalla mensa. Quando finalmente non ci furono più interferenze riprese a parlare. – Paride?
- Anya? sono Linda!
- Li-Linda?! … che c’è?
Dall’altro capo del telefono ci fu un momento di silenzio. – Pronto?
- “Ciao, Linda. Come va? È da quasi una settimana che non ci vediamo e mi manchi tantissimo! Mi raggiungerete per la finale?” … Tzé, figurati …
Anya sbuffò. – Linda, vai al sodo, per favore.
- Volevamo farti gli auguri di buona fortuna per il prossimo match.
- D’accordo … fate presto, però, perché aspetto una chiamata e non ho ancora fatto colazione.
Anya si guardò intorno e si lasciò cadere su una panca. Sentì sua sorella parlottare e i rumori di qualcosa contro il microfono del telefono. Distorse le sopracciglia.
- Pronto, Anya?
- Sono ancora qui.
- La mamma ti manda i suoi migliori auguri e un bacio “grande grande”. Non vuole farti perdere tempo. Bene, ci vediamo presto. Saremo lì domani.
- D’accordo … a domani … - borbottò - … Ciao.
Linda la salutò e chiuse la chiamata. Perplessa, Anya guardò il display. Se la giornata iniziava sotto quegli auspici, allora c’era di che preoccuparsi. Era troppo stanca, però, per considerare seriamente la cosa. Ficcò il cellulare in tasca e rientrò nella mensa. Al suo tavolo si erano seduti due ragazzi che parlavano fitto fitto e ridevano di gusto. Anya ricordò di averli visti la sera prima seduti di fronte ad un falò: anche allora parlavano fittamente. Allungò una mano verso il suo vassoio, ancora intatto, per portarselo via e scegliersi un altro tavolo libero, quando, accanto al braccio di uno dei ragazzi, vide il giornale. Ritirò la mano e sedette. Il più vicino la salutò.
- Ciao – lo ricambiò lei.
I ragazzi le lanciarono un’occhiata. Il più interessato parve quello che teneva il giornale.
- È di oggi? – fece Anya, indicandoglielo con un cenno.
- Sì …
Glielo passò e Anya lo aprì immediatamente, sfogliandolo fino alla pagina dei pronostici.
- Sei Anya Bacott?
La giovane gli scoccò un’occhiata sbilenca, senza rispondere. Probabilmente la conoscevano già.
- Forse … - iniziò il terzo ragazzo – non dovresti leggere quell’articolo …
- Perché mai?
I tre amici si scambiarono uno sguardo. Due di loro ripresero a mangiare come se nulla fosse, ma quello che aveva parlato per ultimo, continuò ad osservare Anya fino a che non vide i suoi occhi bloccarsi su qualcosa e le dita stropicciare la carta.
- È capitato anche a Jim Featherstone, un mio amico – si affrettò a dire - avevano detto che avrebbe perso e invece ha vinto due match di fila!
Anya gettò il giornale sul tavolo e si alzò di scatto. Se il posto a sedere fosse stato una sedia, dietro la spinta dei suoi polpacci sarebbe caduta rumorosamente; ma si trattava di una panca e la sua rabbia montò nel silenzio.
- Babbei – sibilò a denti stretti.
 
Il match iniziò con dieci minuti di ritardo. La seconda giocatrice, mentre Anya era già seduta nel bordo campo a controllare il telefonino e battere la mano sulla rete della racchetta, si diceva che avesse perso la sua maglia e che ci fossero stati un po’ di problemi a reperirgliene subito un’altra. Dalla descrizione Anya intuì che fosse un avversario tutt’altro che difficile da battere e la sua impazienza trovò giustificazione solo nella curiosità di incontrare Sonja McKintoschk.
Dieci minuti dopo, quindi, la sua avversaria era già entrata in campo, seguita dall’allenatore che si tratteneva a stento dal gridare. Anya le lanciò un’occhiata e si meravigliò nel constatare che anche l’altra la stava guardando. La sua espressione tradiva una irritazione non comune, ma non vi badò. Raggiunsero contemporaneamente le rispettive posizioni e quando Anya ebbe in mano la palla la partita iniziò.
 
Se all’alba la giornata parve promettere sole e uccellini cinguettanti, rischiarandosi con una fredda nebbiolina azzurra che aveva invaso di umidità il campeggio dei tennisti, nel corso della mattinata, chi aveva creduto a quel fuorviante prologo, dovette ricredersi: il tempo prometteva pioggia. Come i suoi compagni, Anya aveva conosciuto un momento di completa serenità fisica e mentale, che tuttavia era durato poco. Non appena le nubi si lasciarono il sole alle spalle e l’ombra scese sulla campagna inglese, l’irritazione si diffuse come un germe altamente infettivo fra gli atleti, gli allenatori e i sempre ottimisti scouts. Non si poteva stare insieme senza che nascessero battibecchi. Un gruppo composto da più di due persone era destinato a sfaldarsi in mento di due minuti.
Fino a prima di iniziare il riscaldamento, Anya non ricercò nessuna compagnia. L’allenatore la trovò seduta su una panchina con la racchetta in mano.
Il match fu il più difficile che avesse giocato da quando era cominciato il torneo. L’avversaria che tanto aveva sbeffeggiato mentalmente sembrava attingere da una scorta inesauribile di energie. Mentre rispondeva ai suoi colpi con sempre più fatica, Anya pensava che non avrebbe mai disputato il match con Sonja McKintoschk, perché sarebbe crollata di stanchezza prima. Alla fine del secondo set, quando cadde seduta sulla sedia, si sparò un sorso di bevanda energizzante dritto in bocca e tamponò il sudore dal collo. Spirava una timida corrente fresca. Anya era accaldata, ma quando alzò gli occhi al cielo capì che di lì a poco avrebbe piovuto. Forse la partita con Sonja sarebbe stata rimandata. Quando riprese a giocare, si sentiva meglio. Si concentrò sulle mosse della sua avversaria e con un po’ d’astuzia riuscì finalmente a rimontare e vincere.
 
Erano le dieci e trentacinque quando l’allenatore la portò con sé fuori dal campo da tennis. Anya grondava sudore da tutti i pori. Si spostarono di fronte allo spogliatoio femminile, in un cortile animato dal via vai di tenniste irlandesi e inglesi. Quando stava per cominciare a parlare, l’allenatore ricevette una chiamata al cellulare e si allontanò brevemente per rispondere. Anya poggiò il borsone su una panca e sedette, bevendo alcuni sorsi d’acqua. Ragazze di tutte le età entravano e uscivano dagli spogliatoi, fresche prima di una partita o sudate per un match appena giocato. A dividere le nazionalità erano le divise: verdi per le irlandesi, bianche e blu per le inglesi. Parlavano di tutto e di più, ma Anya non stava ad ascoltarle. Quando capì che i muscoli delle gambe si stavano raffreddando, si alzò e cominciò a fare avanti e indietro davanti la panca, lanciando di tanto in tanto un’occhiata all’allenatore che discuteva al cellulare. Si ricordò di un particolare e controllò anche il suo. Non aveva ancora ricevuto nessuna chiamata.
- Allora, Anya! A noi due – disse l’allenatore, una volta chiusa la chiamata. Si avvicinò e la giovane fece altrettanto, prendendo il borsone – dunque: fra poco giocherai con Sonja. L’ho vista allenarsi poco fa e puoi stare tranquilla che non ti supera in niente. Siete perfettamente pari. Non hai nessuna ragione di temerla e anche se fosse gioca come hai sempre giocato, magari con un’attenzione maggiore ai suoi movimenti. Detto questo, sai cosa devi fare: corri a cambiarti, prendi la tua racchetta e falle vedere chi sei. Mancano quaranta minuti all’inizio del match.
Le diede una pacca sulle spalle e si allontanò, lasciando la ragazza sola con mille dubbi. Anya spostò lo sguardo dall’entrata dagli spogliatoi al cielo e le labbra le si schiusero per la sorpresa quando vide un grosso banco di nubi gettare l’ombra sul paesaggio. Temette per il match, poi per il campeggio. Erano nubi grigie, cariche di chissà quante centinaia di litri di pioggia pronta a cadere. Se avesse cominciato a piovere tutti gli atleti avrebbero dovuto spostarsi negli alberghi più vicini. Il campo si sarebbe allagato, i match probabilmente sarebbero stati disputati in altri campi da tennis. Le difficoltà che un acquazzone comportava erano molte. Si girò verso l’entrata dello spogliatoio e si ripromise di pensarci dopo. Aveva altri pensieri per la testa. Si cambiò velocemente ed uscì con la racchetta in spalla.
Mentre camminava in direzione del campo da tennis per fare un po’ di riscaldamento ricordò di aver dimenticato il cellulare nel pantalone della tuta e fece dietro front per tornare a prenderlo; ma a poche decine di metri dallo spogliatoio la fermò Miss Tameeng.
- Anya Bacott! – la chiamò con la sua voce stridula. La ragazza saltò su, più per il fastidio di essere vista che per lo spavento. Abbassò la racchetta.
- Signorin …
- Allora, ho sentito dire che sfiderai la McKintoschk! Come mai non sei ad allenarti? Sarà un match molto faticoso e faresti bene a tenere i muscoli al caldo! E poi … oh! Ma sei uscita con la gonnellina! – esclamò indicandola. L’attenzione dei passanti fu calamitata e in breve si trovò decine di occhi addosso. Anya si sforzò di non darci tanto peso. – Il tuo allenatore mi ha appena detto che hai vinto un match … conoscevo la tua sfidante: si trovava in uno dei suoi giorni peggiori, perciò non è stata battagliera come avrebbe dovuto. Ora sfiderai Sonja e dio sa quanto ho pregato perché tu vinca. Contro quella non ci sono vie d’uscita. Mi meraviglio che il suo coach non l’abbia ancora portata a Wimbledon …
Guardò Anya dall’alto al basso e d’un tratto, come se avesse ricordato un impegno urgente, inarcò le sopracciglia e lanciò un’occhiata all’orologio subacqueo di ultima generazione che teneva legato al polso. Anya non ebbe neppure il tempo di chiedersi che cosa potesse farsene una come lei di uno strumento simile, che Miss Tameeng si eclissò senza dire niente. Le sue parole, però, risvegliarono l’ansia e si avviò a passo svelto al campo per riscaldarsi. Giunse ad un campo da tennis privo di rete, nel quale ragazzi e ragazze riscaldavano i muscoli per i match imminenti. Sulla soglia del campo, di fronte quella moltitudine di tennisti, Anya provo l’impulso di tornare allo spogliatoio e aspettare l’inizio del match lì. Si chiese perché dovesse giocare quando non ne aveva nessuna voglia, perché dovesse accontentare gli allenatori disputando un match che puzzava di scommesse; lei, la campionessa della contea di Dublino, contro la migliore tennista esordiente di tutta l’Inghilterra. Abbassò lo sguardo in preda ad una rabbia improvvisa e guardò se tra i ragazzi che si allenavano c’era anche Sonja. Ma si diede presto della stupida e distolse lo sguardo, poiché non aveva mai visto Sonja, né credeva che sarebbe andata ad allenarsi in un campo tanto plebeo. Sospirò e controllò l’ora. Erano le undici meno due minuti, ormai. Doveva allenarsi. Doveva disputare anche quel match. Mosse qualche passo verso il campo e sollevò la racchetta; un paio di ragazzi inglesi si girarono verso di lei e si dissero qualcosa. Quando stava per colpire la palla un fascio di luce illuminò la campagna per una frazione di secondo e subito dopo il fragore di un tuono fece sollevare gli occhi di tutti al cielo. Fu un attimo e incominciò a piovere.
Un borbottio di esclamazioni si trasformò presto in allegria per alcuni e in irritazione per altri; ma la decisione di mettersi al riparo fu unanime. I ragazzi abbandonarono in fretta il campo. Fuori di esso il sommovimento scatenato dal brutto tempo era destinato ad aumentare col passare dei minuti. Presto anche i tennisti impegnati nei match sarebbero stati costretti ad abbandonare il gioco e raggiungere gli spogliatoi. Anya raggiunse l’uscita del campo e cominciò ad avviarsi verso lo spogliatoio femminile. Prima di arrivare la pioggia era aumentata e lei aveva tramutato la camminata in corsa. Vi giunse tardi rispetto a quanto avrebbe voluto e il desiderio di farsi una doccia svanì di fronte ai turni che le ragazze stavano prefissando fra di loro. Indossò la tuta, prese il borsone ed uscì. Se possibile, la pioggia era aumentata ancora e in lontananza la folla di spettatori, liberava impazientemente le gradinate dei campi da tennis. Sicuramente l’allenatore era in giro a cercarla, ma non voleva star lì ad aspettarlo. Si mise il cappello con il quadrifoglio irlandese ed uscì.
Era giunta nei pressi della cucina della mensa, poco distante dal campeggio, quando si sentì afferrare per il polso destro. Si girò e istintivamente mollò la presa della borsa per difendersi; ma quando vide il suo assalitore in viso, strabuzzò gli occhi e fece un gran sorriso.
- Paride!
Lui la tirò con sé nelle cucine vuote e la baciò, chiudendosi la porta dietro. Anya lo ricambiò, cingendogli il collo con le braccia. Quando si staccarono, lo guardò negli occhi. Ogni traccia di rabbia e ripicca per non aver ricevuto nessuna telefonata svanì. Lui si mosse per baciarla ancora, ma Anya avvicinò le labbra all’orecchio e lui baciò il collo.
- Dove ti eri cacciato? – sussurrò con un brivido.
Sentì il suo petto riempirsi con un sospiro e allentò l’abbraccio per guardarlo meglio in viso. Era pallido, più magro, con le borse sotto gli occhi e i capelli biondi scarmigliati. Sorrise e in un lampo capì quanto fosse stanco. Tornava da un viaggio in Nuova Zelanda, dove era stato tre settimane per motivi di lavoro. Era un biologo e per diversi mesi, prima di partire, si era tenuto in contatto con i biologi del parco nazionale Tongariro, il più grande del paese.
- Sono arrivato questa mattina … - disse, quasi in un sussurro. – Il volo è durato più di venti ore … scusa se non ti ho più chiamata. Il cellulare si era scaricato e …
Anya sorrise. – Va bene … non è un problema … è che sono stata così in pensiero …
Paride sospirò, stringendola a sé. – Oh … perdonami.
Anya affondò il viso fra il collo e la spalla di lui,  inspirando a pieni polmoni il suo profumo. Paride si scusò per le sue condizioni, dicendo che non aveva avuto il tempo di farsi una doccia, ma ad Anya importò solo di riaverlo con sé.
 
Anya ebbe la fortuna di incontrare Mr. Harris, l’allenatore, all’uscita degli spogliatoi maschili, non molto lontani dell’entrata del campeggio. L’aveva cercato insieme a Paride da quando erano usciti dalle cucine, ma né l’uno né l’altra lo videro in giro. Anya, in ogni caso, non si preoccupava molto che lui l’aiutasse: le camminava dietro, con un voluminoso borsone in spalla e una reflex appesa al collo. Stanco per com’era non volle fargli domande. Girava lo sguardo a destra e sinistra, gli occhi strizzati a causa della pioggia, gli abiti mezzi bagnati. Quando trovarono Mr. Harris, questi stava discutendo così animatamente con un allievo da farle pensare il peggio. L’allenatore tendeva e contraeva spasmodicamente i pugni, puntava il dito contro il viso accalorato del giovane e sbraitava rimproveri senza dare modo al ragazzo di parlare. Anya si tenne in disparte e fece segno a Paride di non farsi vedere fino a che Mr. Harris non si fosse calmato. Sapeva quanto il suo allenatore detestasse la sua presenza durante le competizioni sportive: la sua più ferma convinzione era sempre stata quella che i rapporti amorosi nuocevano alla concentrazione nel gioco. Anya attese che il ragazzo venisse rispedito nello spogliatoio e si avvicinò.
- Mr. Harris …
- Che c’è?! – gridò lui. Vedendola, sussultò. – Oh, Anya! – continuò, più pacatamente. – Che c’è? È successo qualcosa?
La giovane scosse il capo con un timido sorriso.
- E così sei scampata al match con la McKintoschk? E brava … hai avuto fortuna.
L’espressione di Anya si indurì.
- Non eri pronta, comunque. Questa pioggia è stato un bene … ma è possibile che questo pomeriggio finisca di piovere. Nel qual caso – disse guardando l’orologio - ti voglio al campo numero due alle tre in punto.
Anya approfittò di quel breve momento di distrazione per alzare gli occhi al cielo. Le nuvole erano di un grigio intenso, ma non avrebbe piovuto ancora a lungo. L’allenatore aveva ragione e con ogni probabilità, nonostante la mole d’acqua caduta, gli addetti avevano già steso i teli per tenere il campo all’asciutto. Chinò lo sguardo. Non avrebbe avuto nessuna possibilità di evitare l’allenamento. Avrebbe voluto girarsi verso Paride, che la aspettava sotto un chioschetto di bibite, ma l’allenatore tornò a guardarla.
- Anya? Allora vieni?
La giovane annuì sbrigativamente. – Sì … sì, ci sarò.
- Bene … - borbottò Mr. Harris, dandole una pacca sulla spalla. – Tu sì che sei una vera tennista. Non quello scansafatiche là …
Indicò con un cenno del capo l’interno dello spogliatoio. Anya strinse la mano intorno alla bretella del borsone. Mr. Harris la salutò e si allontanò.
 
Paride non aveva prenotato nessuna stanza d’albergo. Appena arrivato, come le raccontò mentre camminavano, aveva preso un altro aereo che da Londra l’aveva portato a Dublino e poi un pullman che dall’aeroporto l’aveva condotto alle campagne dove era stato allestito il torneo. Erano già le dodici passate e il bed & breakfast nel quale trovarono posto stava servendo il pranzo. Malgrado non avessero molta fame mangiarono insieme, poi salirono in camera.
- A volte maledico questo sport … - disse Anya cadendo seduta sul bordo del letto. Paride sistemò i bagagli in un angolino e le sedette stancamente accanto, stropicciandosi un lato del viso. – Cosa è successo?
Anya lo guardò, sospirando, e gli raccontò di Sonja. – È per lei che alle tre dovrò andare ad allenarmi. Per lei e per il piacere di Mr. Harris e di chi scommetterà su me e Sonja. In Irlanda sono famosa, purtroppo.
Abbassò gli occhi, passandosi una mano sulla fronte. Quando si girò di nuovo, Paride sfoggiava un sorriso sbilenco.
- Sai su chi scommetterò io?
Anya scosse il capo. Poco a poco le labbra si curvarono in un sorriso più malizioso del suo. Paride si sporse verso di lei.
- È una tennista irlandese … - mormorò avvicinando lentamente le labbra al suo collo. Anya si sentì avvolgere da un brivido. La mano sinistra di Paride si posò sulla vita. – Si dice che sia imbattibile …
Sentì la sua bocca risalire lungo il collo, fino all’attaccatura dell’orecchio. La mano si insinuò sotto l’orlo della polo, carezzando languidamente i fianchi. Anya chinò il capo di lato, avvicinando le labbra alle sue, ma Paride non si lasciò baciare; cominciò a depositare dei piccoli baci lungo la linea della mandibola e ancora lungo il collo, che sapeva essere uno dei suoi punti più sensibili, e continuò a muovere la mano sotto la maglia, studiando con i polpastrelli i brividi che il suo tocco provocava e godendo a pieno palmo del calore della pelle. Anya chiuse gli occhi.
- … una vera professionista … - sussurrò sulle sue labbra. La ragazza provò ancora a baciarlo. Lui si allontanò leggermente, sorridendo – … non trovi?
A quel punto Anya riaprì gli occhi e gli prese il viso fra le mani. – Sì … – rispose, prima di baciarlo. – Una professionista …
Paride spostò la mano sulla cerniera della felpa e non appena la aprì, Anya interruppe il bacio e abbassò le braccia, aiutandolo a toglierla. Dopodiché mise mano all’orlo del suo cardigan grigio e lo sollevò, portando con sé anche la t-shirt blu che aveva indossato sotto. L’odore della sua pelle ed il suo calore la inebriarono, stordendola fino a farle girare la testa.
- Non ti permetterò più di assentarti per tutto questo tempo … - mormorò, riprendendo a baciarlo. Paride le sfilò la polo. – No … - disse, la voce arrochita. Scese nuovamente a baciarla lungo il collo e con dolcezza la spinse sul letto, scendendo a baciarle il petto. Anya inarcò la schiena, gemendo quando le labbra di lui giunsero fino all’ombelico. Paride alzò gli occhi sul suo viso, accompagnando ogni bacio con lo sfarfallio delle mani sul suo torace latteo. La guardò quando insinuò le dita nell’elastico del pantalone e lentamente lo fece scivolare lungo le gambe. La guardò quando fece risalire il tocco dalle caviglie alla piega del ginocchio e si avvicinò per baciare la morbida pelle della coscia. Anya sospirava ad ogni minimo tocco e più la guardava, più si sentiva tirare il fiato, seccare la bocca. Si sentiva opprimere dal desiderio. Quel corpo gli era mancato come null’altro al mondo, ma voleva andare piano, farle sentire quanto l’avesse desiderata e quanto più la desiderasse e la amasse man mano che gli attimi si susseguivano lenti l’uno dietro l’altro. Anya tese le braccia, richiamandolo a sé, e lui accorse, pronto a cogliere ogni suo cenno.
- Ti amo – mormorò baciandola.
Anya sorrise, facendosi soverchiare e riscaldare dal suo torace nudo. – Ti amo anch’io – sussurrò. Lo baciò con ardore, travolta dalla passione. Insinuò le mani fra di loro, sbottonò i suoi pantaloni, lo liberò da ogni barriera. Studiò la sua espressione eccitata, sorpresa; gli carezzò il viso e il torace, le spalle e la schiena, scendendo sempre più mentre gli ingabbiava i fianchi con le gambe.
Non ci furono più parole. Non ci fu più bisogno di cenni. Gli occhi lucidi parlavano per loro, comunicavano ogni intenzione. I loro impulsi fecero il resto.
Quel pomeriggio non ci fu nessun allenamento.
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Ciao a tutti!
Ritorno a pubblicare su EFP con il sequel della mia prima storia, “An irish tale”, che trovate a questo link: http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=861904
Tengo a precisare che nessuno dei personaggi e degli avvenimenti di questa seconda tournee di pubblicazioni sarà chiaro e comprensibile se prima non si legge la “Parte prima”.
Ho riflettuto a lungo prima di iniziare a scrivere questo sequel, che non era affatto previsto quando ho finito di lavorare ad “An irish tale”, ma alla fine mi sono arresa di fronte alla voglia di tornare e agire dei miei personaggi … ritroverete delle vecchie conoscenze e faranno la loro comparsa nuovi personaggi di cui adesso non anticipo nulla.
Spero di poter pubblicare con più costanza rispetto alla volta precedente e di regalarvi dei piacevoli momenti di lettura ad ogni pubblicazione.
Tornerò presto con il secondo capitolo, già scritto e in fase di correzione.
Ringrazio anticipatamente chi leggerà, chi commenterà e chi metterà tra le ricordate/preferite/seguite questa storia.
A presto!
Ik

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***



An irish tale - Parte seconda
 An
CAPITOLO II
 


 
Tra le stradine la corrente fredda della sera spirava appena appena più forte.
La strada che stava percorrendo era stretta, piena di pozzanghere. Su entrambi i lati era costeggiata da una fila di basse casette, ma si interrompeva a circa una ventina di metri più in là. Le case erano piccole, con una finestra per ognuna. L’unico piano era condiviso da famiglie che raggiungevano anche i sette individui. Talvolta, con loro, dormiva anche un animale: un cane, un cavallo o un mulo. Questi ultimi erano preferiti per la quantità di calore che producevano, ma spesso mancavano i soldi per mantenerne uno. Gran parte delle famiglie erano povere; si trattava di contadini con uno spicchio di terreno da coltivare per conto di un signorotto locale che permetteva loro di tenere solo una piccola percentuale del raccolto. Troppo esigua in rapporto al lavoro e alle energie che vi dedicavano.
A quell’ora della sera erano tutti a casa, impegnati a cenare o a scervellarsi per dividere al meglio la parte più sostanziosa della cena ai figli in crescita e costantemente affamati. Le mogli tenevano a bada i piccoli e controllavano che la zuppa sul camino fosse ben calda; l’avrebbero accompagnata con del pane e una fetta di lardo.
Dalla strada si udivano gli schiamazzi dei bambini nelle case. Gridavano per un nonnulla, si accapigliavano e piangevano. Il più delle volte i padri, sfiniti dal lavoro nei campi, non potendo più sopportare nulla che non si mettesse in pancia, li percuotevano con un cucchiaio di legno. Quando accadeva, Anya chiudeva gli occhi e affrettava il passo.
La sua casa si trovava fuori dal villaggio, a mezzo miglio. Si trattava di un’abitazione di mattoni scuri a un piano, con il tetto spiovente. Dava sulla strada che dalla campagna portava al villaggio ed era dotata di un giardinetto incolto. Da quando si era trasferita, Anya non si era mai data la pena di coltivarlo.
Quando arrivò a casa il vento era aumentato. Posò i libri sul tavolo e ravvivò il fuoco del camino con l’attizzatoio poggiato al muro. Aggiunse qualche piccolo ceppo e avvicinò alla fiamma una candela che posò poi sul bordo di pietra del camino, rischiarando ulteriormente la stanza.
Sulla strada passò un pesante cocchio trainato da un robusto cavallo in corsa. Sentendolo arrivare Anya si era avvicinata alla finestra, ma non aveva fatto in tempo a vederlo che quello era sparito rapidamente nell’oscurità della sera. Ne approfittò, comunque, per guardare il cielo. Un lampo lontano, tra le montagne, preannunciava mal tempo. Si allontanò dalla finestra con un sospiro sconsolato e lasciò l’infisso socchiuso per mitigare il calore del camino. Tagliò una cipolla e delle patate e le mise a lessare nella pentola sul fuoco del camino. Sperava che quella sera non avrebbe piovuto e che la minestra sarebbe bastata a combattere il freddo. Restò per alcuni minuti di fronte il focolare, girando la zuppa; poi prese un libro dal tavolo e lo aprì ad una pagina a caso. Glielo aveva regalato la madre di un bambino al quale faceva delle lezioni private. Fece frusciare lentamente le pagine. All’improvviso, però, la candela si spense con un soffio e l’odore acre di bruciato invase le sue narici. Si fece buio: anche la fiamma del camino si era spenta. Il terrore la paralizzò. La finestra si chiuse con un pesante rumore.
 
Con un sussulto riaprì gli occhi. Il buio era pesto. Si sentì mancare il fiato.
Sedette sul letto in preda allo spavento, con il ritmo cardiaco sfalsato. Istintivamente si guardò intorno e allungò le mani alla ricerca di qualcosa. Tastò ciò che aveva davanti: stoffa, stoffa, stoffa. Mormorò con tono supplice qualcosa che non comprese, continuando a muovere le mani. Quando toccò una superficie liscia e tiepida, una luce si accese.
- Anya …
Ancora disconnessa da quanto riguardasse la realtà, la ragazza si voltò di scatto e trasse le mani a sé. Paride si sforzò di riaversi dal sonno e batté le palpebre, confuso e preoccupato. Guardò brevemente il punto dell’avambraccio che gli aveva sfiorato e si mise a sedere.
- Anya? Cos’è successo? Perché sei così pallida?
Anya tentò di fare mente locale per rispondere. Cos’era successo?
- Io …
- Ti senti male? – riprese Paride, ancora più preoccupato. – Vuoi che chiami un dottore?
Aveva già messo mano alle lenzuola per scostarle e scendere dal letto, quando Anya lo bloccò, posandogli una mano sulla spalla. Lui la guardò e Anya fece di no con la testa.
- Non … non sto male … ho fatto di nuovo quel sogno … - Con fare tra lo stanco e il rassegnato, Paride si portò una mano alla fronte, sospirando. – Che c’è? Non mi credi, forse?
- Sì che ti credo … ma mi hai fatto prendere un colpo.
- Mi dispiace … - mormorò, cercando di nascondere la propria perplessità. – È che faccio lo stesso sogno da due settimane …
- Che sogno è?
Con qualche titubanza, Anya glielo raccontò. Quando finì di parlare, Paride era più turbato di lei.
- Facevo anch’io sogni del genere prima dell’incidente.
Anya lo guardò, sorpresa.
- Sognavo di essere un nobile di metà Ottocento … mi sembra di avertene parlato, però.
- Non sapevo che li facessi prima di …
Paride trattenne il fiato. Distolse lo sguardo e disse - Non mi capitava spesso come a te.
La mano della giovane si strinse intorno al lenzuolo. Serrò la mascella. Paride se ne accorse e le poggiò una mano sul braccio. – Potrebbe sempre essere lo stress … è naturale che in periodi del genere si facciano sogni strani … ti stai allenando molto per questo torneo, o sbaglio?
- No …
- Hai parlato con Mr. Harris …
Anya scosse il capo.
- Potresti farlo.
- Non posso ridurre gli allenamenti, né tantomeno chiedere che vengano annullati. C’è di mezzo la mia reputazione e …
Paride volse stancamente i palmi al cielo, corrugando le sopracciglia. – D’accordo. Quanto durerà ancora il torneo?
- Una settimana. Credo di avere ancora cinque match … se riesco a vincere contro Sonja.
Paride fece per parlare. Dalla sua espressione, Anya colse l’interrogativo.
- Domani mancherò tutto il giorno. Dopo questo pomeriggio Mr. Harris mi farà sudare tutta la giornata. Tanto più che c’è il match decisivo.
Paride avrebbe potuto essere deluso, ma fortunatamente aveva una tolleranza dei problemi molto alta. Represse il suo malcontento voltandosi da un’altra parte e sospirò silenziosamente. Anya aprì la bocca per parlare, ma nessuna frase fu formulata. Guardare Paride a volte le bastava per rispondere agli interrogativi che la crucciavano, anche se quella sera, dentro di sé, sentiva che molti dubbi sarebbero rimasti irrisolti.
 
Rimase sveglia per il resto della notte. Per un po’ lasciò che Paride la tenesse stretta mentre dormiva, ma quando, per il sonno o per i sogni, la presa divenne più debole, sgusciò via. Pensava di farsi un giro per il bed&breakfast in attesa che arrivasse il giorno, e si accingeva ad alzarsi, quando ricordò il portatile che Paride aveva posato sul tavolo. Avrebbe optato per quello.
Nel frattempo, seduta sul bordo del letto, cercava di abituare gli occhi all’oscurità; la luce non filtrava neppure dalla finestra, poiché in strada la maggior parte dei lampioni erano spenti.
Il tentativo di vedere al buio riuscì per metà e i contorni degli oggetti divennero poco a poco più distinguibili. Sedette al tavolino e girò il portatile in modo che la luce dello schermo non svegliasse Paride; quindi lo accese. Non era chiaro cosa volesse farci. Tenne lo sguardo basso fino a che il pc non ebbe finito di caricarsi e quando lo rialzò le sfuggì un sorriso. Sul desktop c’era una foto sua con Paride. Il suo volto sorridente la distrasse momentaneamente dall’angoscia del sogno. Controllò che la chiavetta fosse inserita e aprì la finestra di Internet. Su Google cercò Sonja McKintoschk. Trovò pochi risultati, gran parte dei quali erano articoli di cronaca sportiva che descrivevano i suoi successi, così passò alle foto. Anche in questo caso ce n’erano tante inutili, che non le permettevano di vedere Sonja in faccia, impegnata in perfette battute e rovesci. Una, però, nonostante fosse piccola e sembrasse la foto di un pass, la aiutò nel suo intento. Sonja era totalmente diversa dall’idea che se n’era sempre fatta: era una graziosa ragazza con i capelli biondi e il viso ovale su cui spiccavano due grandi occhi di un azzurro molto chiaro. Non vantava lineamenti sottili, ma qualcosa in lei faceva pensare alla Russia.
Anya chiuse la finestra di Internet e pensò a quello che le sarebbe toccato fare il giorno seguente. Prima di tutto doveva scusarsi con Mr. Harris per aver mancato all’allenamento; poi avrebbe dovuto telefonare a sua madre e a Linda che sarebbero arrivate alle undici per vederla. Dopodiché doveva trasferire le sue cose dal campeggio in un albergo vicino.
Costruì una lista su un pezzo di carta e alla fine mosse la penna con indecisione. Ciò che temeva maggiormente era incontrare il suo allenatore e riprendere la preparazione per il torneo. Era sicura che Mr. Harris avrebbe capito che c’era di mezzo Paride e si sarebbe infuriato; non l’aveva mai visto di buon occhio. Subito dopo, però, ricordò la nostalgia di quelle ultime settimane e mandò al diavolo ogni timore, per evitare di pensarla come Mr. Harris. Il solo pensiero le avrebbe dato i brividi.
Le riflessioni furono interrotte da un fruscio alle sue spalle. Paride si mosse nel sonno. Si voltò verso di lui e grazie alla luce emessa dal computer lo vide muovere il braccio nel suo lato.
- Anya …
- Shh … sono qui. Sto arrivando.
Spense il computer e tornò a letto. Si stese sul fianco dandogli le spalle e si lasciò abbracciare.
 
 
- Non transigo! Ti sei comportata da irresponsabile! Una perfetta idiota! Cosa pensavi, che saltando un allenamento ti sarebbe stato possibile recuperare tutto in una mattina?! Questo torneo ti ha fatto montare la testa, te lo dico io! Non ti rendi conto che la tua tecnica è piena di errori e che questo pomeriggio, e non domani … che questo pomeriggio hai uno dei più importanti match della tua carriera!
Le labbra di Anya si muovevano in una muta balbuzie. Non osava guardare l’allenatore in viso. Sapeva quanto fosse infuriato.
- Mi auguro – continuò abbassando leggermente la voce – che questo pomeriggio Sonja ti batta alla grande, che ti surclassi, così impari un po’ di umiltà!
- Mr. Harris …
- Non fiatare!
Le puntò il dito contro, come aveva fatto con il giovane tennista della mattina precedente. Uno scatto impercettibile delle sopracciglia fu l’unico segno del nervosismo che Anya cercava di celare.
- Trascorrere il pomeriggio con il fidanzato quando sai che ci sono degli impegni seri da assolvere … Puah!
Anya scattò. – Non ci vedevamo da un sacco di tempo!
- Stai zitta! – le urlò di nuovo contro. – Io non vedo i miei figli da una settimana e mezza e non me ne lamento. Avrei potuto incontrarli lo scorso pomeriggio, ma ci ho rinunciato per stare appresso a te!
La giovane storse la mascella. Mr. Harris prese fiato guardandola negli occhi.
- Se oggi pomeriggio vedo il tuo ragazzo in giro, giuro che gliene dico quattro!
Con uno scatto Anya alzò lo sguardo su di lui e aprì la bocca con un ringhio per gridargli contro; ma conosceva il carattere del suo allenatore e per evitare ulteriori discussioni preferì mordersi la lingua fino a farsi spuntare lacrime di dolore.
- Lui non c’entra niente – sibilò con rabbia.
Mr. Harris le voltò le spalle per allontanarsi. Mosse pochi passi, ma poi, come se c’avesse ripensato, tornò indietro. – Tu sei la mia migliore tennista. Non puoi permetterti tanto facilmente lussi simili … non posso permettertelo.
La giovane si sentiva già tremare il labbro inferiore e inghiottì forzatamente quegli avvertimenti. Mr. Harris si allontanò di nuovo. – Tra dieci minuti esatti iniziamo l’allenamento. Fatti trovare in campo.
 
Anya preferì non aver mai trascorso una mattinata ad allenarsi insieme a Mr. Harris e desiderò tornare indietro di un giorno per rispettare l’impegno al campo da tennis. Tra una battuta e l’altra trovò modo di pentirsene amaramente. L’allenatore sputò una critica dietro l’altra, ignorando le suppliche della giovane di fermarsi per fare una pausa e bere dell’acqua.
- Ti fermerai quando avremo finito – rispondeva ogni volta. Anya, il viso contratto in una smorfia di fatica, lo guardava: l’incontro con Sonja gli aveva dato alla testa. Era impazzito.
Alle dodici si sentiva così stanca da non riuscire a smettere di pensare a sedersi. Aveva la bocca così asciutta che deglutiva con fatica. Mr. Harris, però, non accennava a smettere. Si era procurato una macchina che sparava una palla dietro l’altra e con il passare dei minuti aveva aumentato la velocità. Anya non sentiva più le braccia. I muscoli delle spalle bruciavano da morire. Vedendo che continuava a colpirne una buona percentuale, Mr. Harris mise ancora una volta mano al pulsante della velocità. Anya fece uno sforzo sulla propria gola per gridargli di fermarsi. Al suo cenno negativo tirò la racchetta in un angolo e uscì.
Non camminò a lungo.  C’era il via vai di addetti e tennisti e rispose al tremolio supplice dei muscoli delle gambe sedendo alla prima panca che vide. Respirò profondamente da naso e bocca e si poggiò all’acciaio della panchina con entrambe le mani. Viso, collo, petto e spalle erano in fiamme. Toccandosi si accorse di essere in un bagno di sudore. Sospirò e fece forza sulle braccia per alzarsi. Mr. Harris fortunatamente non l’aveva seguita. Si trascinò fino al chiosco di bibite sotto il quale il pomeriggio precedente aveva fatto nascondere Paride e indicò alla banconista una bottiglietta d’acqua a temperatura ambiente. Non appena la donna la vide in viso sollevò le sopracciglia.
- Mio dio … ti senti bene?
La ragazza assentì stancamente, cercando d’istinto i soldi per pagare. Ma nei pantaloni non c’erano tasche e aveva dimenticato il portamonete nel borsone.
- Oh tranquilla … - fece la banconista con un sorriso rassicurante. – Per stavolta offre la casa …
Anya la ringraziò con il labiale e svitò febbrilmente il tappo della bottiglietta. Bevve come un poppante affamato, ignorando le gocce lungo il mento, inghiottendo con gioia ogni sorso d’acqua.
Nel frattempo al chiosco giunse un’altra ragazza, della quale inizialmente Anya non si accorse, ma che scrutò con uno sguardo sbilenco non appena si avvicinò. Nel riconoscerla un sorso d’acqua le andò di traverso. La giovane le si appressò.
- Mannaggia alla miseria! Anya!
- L … Lind … - tossì.
Linda sorrise. – Respira, su! Non avere fretta di parlare!
Anya alzò le braccia, come più di una volta le aveva raccomandato sua madre e, sforzandosi di non tossire, respirò profondamente. Sua sorella la guardò in viso.
- Hai la faccia tutta congestionata … ma che hai combinato? Ti sei presa a schiaffi con qualcuno?
Anya sorrise. – Sì, con Mr. Harris!
Linda inarcò un sopracciglio. – Capisco … brutta storia. Da quanto tempo ti alleni?
- Non so … che ore sono? – lanciò un’occhiata al quadrante dell’orologio. – Mezzogiorno e cinque … beh, da due ore tonde tonde. Quando siete arrivate?
- Chi?
- Tu e la mamma.
- Ah … circa un’ora fa. Lei sta seguendo il match del figlio della signora McCarthy … te lo ricordi, John … quello che non vuole parenti in giro …
Anya assentì. Continuava a sudare e si sentiva il collo bruciare.
- Paride è qui?
- È arrivato ieri mattina con l’aereo di Londra. Se non l’avete visto in giro sarà sicuramente in albergo …
Si incamminarono in direzione del campo dove Kate stava seguendo il match. Linda aveva comprato una bottiglia di tè fresco alla pesca e ne aveva versato un po’ in un bicchiere di plastica. Anya trascinava le punte dei piedi, bevendo l’acqua fino a che non finì. Linda le parlò delle strane persone che aveva incontrato sul pullman, ma già da un po’ Anya non la ascoltava più. continuò a svitare ed avvitare il tappo della bottiglietta.
- Anya? Sì … Buonanotte!
Anya serrò le labbra, fissando il vuoto. Sbadigliò.
- Oh, ma ci sei?
La giovane annuì distrattamente, guardandosi indietro. Forse avrebbe dovuto tornare all’allenamento.
- Mancano tre ore e mezza al match … - disse – siete sicure di volere venire a vedermi?
Linda arricciò leggermente un labbro con perplessità. – Certo … certo che sì. Perché?
- Non lo so … ci vediamo dopo, Linda. Torno ad allenarmi.
Le girò le spalle e si allontanò. Linda corrugò la fronte, indecisa se chiamarla indietro o no. Alla fine si allontanò anche lei, consapevole che intavolare una conversazione con lei in un momento simile equivaleva a voler trovare un ago in un pagliaio.
 
Alle quattro nessun muscolo era freddo. Tremavano tutti di fatica e tensione. La follia di Mr. Harris non le aveva dato tregua. Non capiva se il suo intento era punirla, farle tenere i muscoli caldi o affaticarla per indurla a perdere. Con ogni probabilità la faceva riscaldare per permetterle di disputare un match che avrebbe perso per la stanchezza.
Sbadigliò.
Chissà se anche lui stava scommettendo sull’esito dei set. Si grattò una gamba, schiacciò un ciuffo ribelle sulla nuca. Sospirò.
Molta gente sedeva sulle gradinate. Molta ne arrivava ancora. Un singolo mormorio diventava un collettivo brusio e un’esclamazione, generale schiamazzo. Uno schiamazzo crescente. Si pentì di aver deciso di aspettare Sonja in campo, seduta sul bordo del campo; ma, pensandoci, altro non avrebbe potuto fare e in ogni caso alle quattro meno dieci avrebbe dovuto lasciare gli spogliatoi per andarsi a sedere lì. Guardò l’orario. La sua avversaria era in ritardo di cinque minuti. Si girò dall’entrata dalla quale sarebbe comparsa e scosse il capo con rassegnazione, socchiudendo le palpebre a causa del sole e del sonno. Sonja si stava facendo aspettare e, non si sarebbe detto, picchiava un sole forte che asciugava rapidamente le superfici bagnate di pioggia. Il caldo era opprimente oppure era solo una sua impressione, in quanto nessuno sugli spalti si faceva aria con un ventaglio. Si portò la bottiglietta alle labbra per bagnare la bocca e scrutò le tre gradinate che aveva davanti; di guardarsi dietro non ne voleva sapere. Non vide Paride, né sua madre, né Linda e per un brevissimo istante pensò che le avessero dato ascolto e fossero rimasti tutti e tre in albergo, ma nessuno dei tre dava l’impressione di essere disposto a rinunciare al suo match. Probabilmente erano nella gradinata alle sue spalle.
Si era rassegnata all’idea di dover attendere Sonja, giochicchiando con la racchetta, quando un’improvvisa ovazione della folla ne introdusse l’entrata. Anya si voltò. La sua avversaria era stranamente diversa dalla foto che aveva trovato su Internet, a partire di capelli, raccolti in minuscole treccioline francesi legate in un codino alla base della nuca. L’espressione era esageratamente concentrata. Capì poi che era nervosismo, quando la vide sbottare rabbiosamente qualcosa in direzione di un raccattapalle. Anya sperò senza troppa convinzione di poter sfruttare quell’agitazione a proprio favore.
Raggiunsero le rispettive postazioni dopo qualche minuto. Si strinsero sbrigativamente la mano. Anya batté per prima. Sonja rispose con un dritto energico che fece correre Anya sul lato sinistro del campo. Colpì la palla con un rovescio altrettanto forte e Sonja ricambiò dirigendola sul lato destro. Il colpo fu inaspettatamente scagliato con poca foga e la palla rimbalzò due volte prima che Anya la raggiungesse vicino alla rete. Sonja fece punto.
Tra l’ovazione della folla, inglese per grande parte, Anya mimò un’espressione di sportivo compiacimento. Si trattene dallo scrutare nuovamente il pubblico. Mr. Harris doveva essere anche lui là in mezzo. Non volle immaginare le sue imprecazioni.
La tecnica di Sonja era imprevedibile. Colpi così energici da somigliare a cannonate si susseguivano a tiri deboli che sfalsavano il passo dell’avversaria irlandese, donandogli un’agitazione che a stento la ragazza tratteneva.
A dieci minuti dall’inizio Sonja era in grande vantaggio. Era una giocatrice professionista. Anya era certa di aver sentito la voce di Mr. Harris, ma per quanto scrutasse il pubblico o per il sole che le feriva gli occhi o per la fretta di tornare al gioco o per la stanchezza non lo vedeva. Con sbuffi sempre più lunghi ricercava la concentrazione del gioco e si incoraggiava ad ogni punto guadagnato da Sonja, guardandola bene in viso e cercando sempre più disperatamente un accenno alle sue intenzioni.
Corse da un lato all’altro quasi senza mai fermarsi. Colpiva la palla in modo da donargli un’angolazione che potesse in qualche maniera mettere Sonja in difficoltà; ma quella, fresca come una rosa, si manteneva al centro e faceva buon uso dei piedi per zampettare dove si aspettava che Anya la portasse.
Quel match somigliava sempre più ad una partita di scacchi. Quando Anya capì la subdola logica matematica tentò di rispondere a tono, ma era ormai talmente esausta da riuscire a sfruttare le energie solo per il gioco. Gli alfieri irlandesi caddero l’uno dietro l’altro, le torri crollarono, i cavalli furono spazzati via. I pedoni proseguivano il cammino sul campo minato nel disperato tentativo di fare scacco al re nero.
Anya fece miracolosamente punto. Non trattenne un sorriso trionfante. Se lo meritava. Guardò Sonja dall’altra parte della rete. Batteva la mano sulla rete della racchetta, ma era tranquilla come prima. Anya batté. Sonja rispose prontamente con un dritto che quasi non la scompose. La palla ebbe un tiro lungo e spostò Anya leggermente a destra. La giovane colpì con poca forza, in modo da costringere Sonja a smuoversi dalla sua postazione. La palla tornò indietro con un tiro altrettanto corto e Anya scattò vicino alla rete. Sonja tirò ancora debolmente, Anya si avvicinò ancora di più alla rete. Si accorse presto di doversi allontanare verso il fondo campo, ma l’avversaria continuava a tenerla vicina. Anya previde il prossimo colpo e con un astuto sorriso appena accennato, Sonja spedì la palla un paio di metri dietro Anya. La ragazza corse, allungò la racchetta e perse l’equilibrio, cadendo distesa sul fianco sinistro. La racchetta finì a pochi centimetri dalla sua mano e la palla vi cadde vicino.
La folla applaudì: Sonja aveva di nuovo fatto punto.
Anya si rialzò con lentezza e la spalla dolorante. Represse una smorfia di dolore e si rimise in gioco, pensando che aveva solo l’ultimo set da giocare.
 
La folla esplose nell’applauso più rumoroso di tutto il match. Sonja era tutta un sorriso e alzò le braccia al cielo in segno di vittoria. Anya era di nuovo caduta sotto il potente attacco dell’avversaria; ma stavolta era troppo stanca per rialzarsi. Poco importava se il pubblico la guardava e ghignava. Era seduta, ma avvertiva l’impulso di lasciarsi cadere distesa e addormentarsi.
Negli spogliatoi prese l’occorrente per lavarsi e si fece una doccia calda. Non c’era nessuno. Quando ebbe finito di cambiarsi ed era china sul borsone per posare le sue cose, la luce che entrava dalla porta fu coperta da una figura. Anya non si diede la pena di vedere chi fosse.
- Hai fatto schifo.
Arricciò un labbro. Con pochi movimenti, eseguiti prevalentemente con il braccio destro, chiuse la zip e mise il cellulare in tasca.
- Mi hai sentito?
La giovane annuì.
- Dunque? Non rispondi niente?
- Se dovessi rispondere lo farei per essere assai poco educata.
Mr. Harris contrasse i muscoli delle guance in un’espressione di disprezzo. Si tolse dalla soglia della porta e le si avvicinò.
- Gli allenatori della McKintoschk hanno riso di me. Ridono di me. A causa tua.
Anya alzò il mento. L’allenatore le sbarrava la strada per uscire. Tirò su col naso con strafottenza e si dispose all’ascolto senza guardarlo.
- Mi hai fatto fare la figura dell’incapace. Hai giocato da schifo. Ma che avevi per la testa?! – gridò all’improvviso. – Pensavi ancora al tuo ragazzo, per caso?
Il petto della giovane si gonfiò di risentimento. Chiuse gli occhi. Paride era l’unico a renderla veramente felice. Desiderò averlo vicino e fargli sentire le infamità di Mr. Harris … ma … no! Schiuse le palpebre pregando perché quel desiderio venisse presto cancellato.
- Possiamo parlarne domani, Mr. Harris?
- Forse – riprese lui senza ascoltarla – non hai capito che il torneo per te è finito.
Anya abbassò lo sguardo alle scarpe. – L’ho capito invece.
- E quindi?
- Quindi cosa?!
Mr. Harris le si avventò contro. – Lo vedi che del tennis non ti importa un cazzo?! Basta che arrivi il tuo ragazzo e vai in solluchero! – Gridò. - Non è questo lo spirito del tennis, Anya! Speravo l’avessi imparato!
- Non è Paride il problema! Oggi …
- Non è lui? Paride ti distrae dal gioco! Ti fa perdere la concentrazione! Quante volte ti ho detto di evitare gli incontri amorosi durante una competizione? Quante volte? Perché non mi ascolti mai?
L’unica risposta che poteva dargli era che amava Paride come lui non aveva mai saputo fare con sua moglie. Lo sguardo che gli scoccò fu probabilmente più eloquente di qualsiasi parola, perché Mr. Harris cambiò espressione, anche se continuava a tenerle puntato il dito contro. Quando riprese a parlare, però, le dimostrò di essersi sbagliata.
- Ho voluto scommettere sul match, oggi. Sarei stato felice di perdere … - disse mettendo mano alla tasca ed estraendo poche banconote ripiegate. Anya aggrottò le sopracciglia in un’espressione di triste curiosità. - … ma ho vinto. – Continuò luì.
Afferrò la sua mano sinistra. Non avendo ancora capito, o non volendo accettare, ciò che Mr. Harris stava facendo, Anya ritrasse debolmente la mano, ma il movimento le costò una fitta alla spalla. L’allenatore ficcò una banconota da venti euro nel suo palmo.
- Questo perché tu ricorda cosa non fare.
Uscì senza aggiungere altro. Anya aggrottò ancora di più le sopracciglia, aprendo la bocca per chiamare Mr. Harris indietro. In gola, però, aveva un nodo talmente stretto che nulla uscì se non uno strano mugolio. Batté rapidamente le palpebre e guardò la banconota mezzo stropicciata nel palmo. In quel momento entrarono due ragazze. Solo allora si accorse di stare singhiozzando e si voltò per non essere vista. Il petto fu silenziosamente scosso e si poggiò ad una parete per cercare di calmarsi. Aveva la vista annebbiata, le guance bagnate da lacrime calde. Si strofinò rabbiosamente il viso con il dorso della manica e scappò fuori.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Salve a tutti!
Torno a pubblicare a così breve distanza dal primo capitolo perché ho già parecchi capitoli pronti e anche perché cerco di approfittare di questi ultimi giorni con il computer prima di partire per una breve vacanza post-esami! Ce voleva … =)
La storia vien giù copiosa come la pioggia di Dublino, pertanto pubblicherò fino ad esaurimento scorte … purtroppo quando tornerò a pubblicare non lo farò più così assiduamente, ma spero di poter completare almeno un capitolo a settimana …
Vi ringrazio per aver letto il primo capitolo e ancor di più per essere arrivate anche alla fine del secondo. Chi scrive, in fondo, lo fa perché le sue parole vengano lette, no? ;) Fatemi sapere cosa ne pensate!
A presto!
Ik

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


An irish tale - Parte seconda
 An
CAPITOLO III

 

 
Quando Anya si infuriava cominciava a parlare in gaelico. Era la lingua che aveva imparato per prima e che parlava poco, soprattutto in presenza di estranei; nel qual caso si costringeva perfino a pensare in inglese.
Aveva un forte accento irlandese che, se non odiato, divertiva chi la ascoltava. A differenza sua, Linda non si era mai impegnata tanto a imparare la lingua madre e padroneggiava l’inglese meglio della sorella, ragion per cui nei momenti in cui la sorella era molto arrabbiata era spesso in difficoltà e doveva prestare maggiore attenzione a quello che Anya diceva. La capiva, ma il gaelico le era estraneo abbastanza da non sapere come rispondere.
Gli unici a saper parlare fluentemente la lingua tradizionale irlandese erano Kate e Paride.
Il motivo che spinse la giovane a sfoderare il suo lato più patriota si riallacciava ancora una volta al torneo. Subito dopo il match non volle sentire nessun tipo di ragioni. L’insieme degli avvenimenti che quel giorno si erano susseguiti furono sufficienti a pizzicarla nel profondo  e a darle la sensazione di aver perduto la sua dignità di sportiva.
Kate e Linda non provarono a consolarla. Se si trattava di orgoglio non c’era parola che funzionasse.
Fu ancora una volta Paride a prendere in mano le redini della situazione. Alla fine del match, dagli spalti, aveva visto Anya lasciare il campo con un atteggiamento sostenuto che gli aveva dato subito dei sospetti. Appena possibile era andato negli spogliatoi, ma alcune ragazze gli dissero che se n’era andata da un pezzo. A quel punto non si diede la pena di cercarla ancora, nonostante fosse preoccupato. Tornò al bed&breakfast e con sorpresa la vide discutere in gaelico con la proprietaria con un misto di animosità e pacatezza. Ai suoi piedi c’erano due grandi borsoni.
- Meno male che sei tornato! – sbottò la giovane girandosi verso di lui. – Vuoi spiegare anche tu alla signora che ti conosco perfettamente e che non c’è ragione di non lasciarmi salire in camera?!
Paride fece un cenno affermativo alla proprietaria e quella chinò gli occhi su uno strano registro, appuntandovi con una punta di fastidio il nome completo di Anya.
Una volta in camera, Paride depositò uno dei due borsoni di Anya in un angolo e si mise a spiare i suoi movimenti senza farsi notare. La ragazza portava sul viso i segni del pianto e i capelli bagnati, che le si asciugavano in riccioli intorno al viso. Sulla tuta, nella zona della schiena e delle spalle, c’era un grosso alone di umidità e una delle tasche del pantalone della tuta era piena di fazzoletti usati. Anya si era seduta sul bordo del letto, fissando il vuoto come se fosse di nuovo sul punto di piangere. Pareva cercasse il momento propizio per parlare. Prendeva lunghi respiri, con un’espressione determinata che indicava la sua volontà di non ricominciare a singhiozzare, ma appena Paride le si sedette accanto e l’abbracciò scoppiò a piangere.
- Checché ne dica Mr. Harris, per me sei stata grandiosa.
Anya premette il viso contro la sua spalla e Paride batté la mano sulla schiena. Quando fu sicuro che Anya non aveva più lacrime da versare si lasciò scappare un sorriso.
- Ti va una birra?
 
I raggi del sole erano pressoché perpendicolari ai vetri delle finestre e la stanza riluceva di una calda tonalità giallo zafferano. Paride raccattò in fretta i documenti di identità e i soldi dal pantalone che aveva indossato prima e raggiunse Anya nel corridoio.
- Let’s go!
- Ehi – lo richiamò Anya quando furono in strada. – ma non senti freddo, così vestito?
Indossava una polo grigio scura con le maniche lunghe ed un jeans che oltre ad aver visto giorni migliori metteva in evidenza il recente dimagrimento di Paride a causa di un virus intestinale.
Paride arricciò il labbro. – No – borbottò scuotendo il capo. – Sarà l’effetto della Nuova Zelanda … lì è pieno inverno e quest’Estate per me è il tropico.
La ragazza gli strinse la mano. – E se iniziassi a sentire freddo? Faresti la danza Maori per riscaldarti?
- Certamente – rise lui, annuendo – Adesso so come si fa.
Camminarono fino al “Oak’s Shield”, un pub arredato alla maniera irlandese, con pareti e tetto di legno ed un bancone lucido anch’esso di legno dietro il quale c’era uno scaffale pieno d’ogni sorta di alcolici e boccali di vetro che portavano gli stemmi delle più famose marche di birra irlandese.
I camerieri indossavano una divisa nera, costituita da una maglia a girocollo ed un pantalone lungo; l’unico colore era il verde scuro del grembiule, al centro del quale era stampato lo stemma con le iniziali del locale.
I tavoli erano quasi tutti vuoti. C’era solo una coppia di ragazze che Anya riconobbe come due tenniste inglesi. La cameriera che li accolse non nascose la sorpresa di avere dei clienti in un orario così pomeridiano e borbottò qualcosa al riguardo mentre li accompagnava ad uno dei tanti lunghi tavoli. Ne scelsero uno addossato alla parete e sedettero ad un angolo. La cameriera consegnò i menù, sfoggiando un gran sorriso in direzione del giovane.
Anya la guardò allontanarsi e scorse la lista di ordinazioni e prezzi con un sopracciglio sollevato, poi tornò indietro, lo lesse daccapo e lo buttò sul tavolo. Paride impiegò un po’ più di tempo, indeciso tra diversi tipi di birra. La cameriera lo guardò da lontano e bisbigliò qualcosa alla collega del bancone. Poco dopo si avvicinò per prendere le ordinazioni.
- Una Guinness e due portate di tramezzini – sentenziò Anya.
Paride levò gli occhi dal menù. – Prendo anch’io una Guinness, una fetta di torta e un bicchiere di acqua e limone.
La cameriera scrisse sul taccuino. Poi, con lo stesso sorriso di prima, disse – Un bicchiere di acqua e limone, dici?
Anya grattò via una scheggia dal tavolo.
- Sì …
- Vedrò cosa posso fare … in tal caso va bene anche un bicchiere d’acqua con limone a parte?
Il ragazzo sorrise con perplessità ed annuì. Non potendo inventarsi altro per stargli vicino, la cameriera si riprese i menù e si allontanò.
- Dunque … - fece lui riconcentrandosi su Anya. Gli venne in mente una domanda sulla giornata appena trascorsa, ma evitò di porla.
Anya gli sorrise. – Ma che ci vuoi fare con l’acqua e limone?
- Serve a non ubriacarci … in molti pensano che bevendo a stomaco pieno l’alcol fa meno effetto. È vero, ma c’è sempre la possibilità che l’alcol vada alla testa; quindi si usa il limone, che ha un forte potere antiossidante e attenua gli effetti dell’alcol.
Anya lo guardò con la fronte corrugata. – Guarda te … ora so come evitare che Linda si metta a sparare cavolate dopo un bicchierino …
- Povera Linda …
In quel momento, forse presi dalla vena musicale o semplicemente stufi del silenzio e del tintinnio dei bicchieri, i camerieri accesero la radio del pub. Il volume non era alto, anzi, faceva da piacevole sottofondo alle conversazioni, ma Anya impiegò un paio di secondi a capire che non fosse musica di una macchina di passaggio. I colpi di una batteria segnarono la conclusione di “Give it away” dei Red hot chili peppers e subito dopo cominciò “I want to take you higher” degli Sly and the family stone.
Le ordinazioni arrivarono circa cinque minuti dopo. Anya parlava con Paride quando con la coda dell’occhio vide avvicinarsi la cameriera. Aveva il sorriso civettuolo di prima e, se non avesse avuto la maglietta a girocollo del locale, era convinta che nell’atto di porgere il piatto di torta a Paride avrebbe badato a esporre la scollatura per quel che bastava ad attirarne l’attenzione. Si sentì avvampare di colpo e si tolse la giacca mentre i piatti di tramezzini e la birra le venivano sistemati davanti. Aveva indossato una maglia bianca, aderente, con lo scollo tondo e ampio, e le maniche a tre quarti. Non seppe se furono le braccia atletiche o più semplicemente l’aver finito di fare il proprio lavoro, ma la cameriera augurò loro buon appetito e si eclissò.
Anya attaccò immediatamente il primo piatto di tramezzini. Li scrutò uno per uno, sollevando le fettine di pane per vedere cosa contenessero e pregustandoli con un gran sorriso. Ce n’erano cinque per piatto e quasi tutti erano stati cotti sulla piastra. Divorò il primo senza sentirne il sapore e socchiudendo gli occhi,  preda dell’estati di chi mangia qualcosa dopo un lungo digiuno; mentre passava al secondo e poi al terzo, Paride spremette il mezzo limone in un lungo bicchiere di acqua fresca.
- Fame? – rise.
- Ci puoi giurare … - bofonchiò con un boccone nella guancia - … è da stamattina che non mangio!
Anya stava per addentare il quarto tramezzino, quando tra il ripieno riconobbe delle fette di cipolla. Rimise il tramezzino nel piatto e le rimosse.
- Sa, signor Langley – spiegò quando s’avvide che lui la stava osservando – il mio ragazzo non ama baciarmi quando il mio alito sa di cipolla …
Paride rise di nuovo e Anya prese la Guinness. Come al solito il sapore tendenzialmente amaro distorse la piega di occhi e labbra, ma bevve fino a svuotare per metà il boccale.
 
In meno di dieci minuti l’alcol aveva sortito il suo effetto. L’acqua con il limone di Paride ebbe il potere di attenuare i sintomi, ma nel giro di cinque minuti, da perfetta irlandese, Anya aveva messo in pancia mezzo litro di birra.
- Mi gira la testa … - si lamentò portandosi una mano agli occhi. Paride la scrutò, divertito e preoccupato.
- Ti avevo detto di non berla tutta insieme.
Anya scoppiò a ridere, coprendosi il volto con le mani.
- Odio sentirmi così! – sghignazzò – Mi sento una merda! Non guardarmi, ti prego …
- Sarebbe meglio se ti andassi a sciacquare il viso con dell’acqua fredda.
- Sì, certo – disse lei allontanando le mani dal volto – così quella ne approfitta …
- “Quella”?
La giovane fece correre lo sguardo da un punto all’altro del locale, il quale nel frattempo si era riempito di altra gente che aveva preso posto in tavoli lontani l’uno dall’altro. I camerieri in sala adesso erano due.
- Anya? “Quella” chi?
- Eccola – fece lei indicando con un cenno del capo un punto alle sue spalle. Paride si voltò con discrezione.
- Oh Anya, smettila … è solo una cameriera …
- L’ho vista con i miei occhi. Ti guardava e sorrideva come se avesse appena incontrato il suo idolo.
Il ragazzo tornò alla torta. – Me ne sono accorto anch’io, ma è una ragazzina e le …
- Vuoi dire – lo interruppe lei – che se non fosse una ragazzina ricambieresti i suoi sorrisini?
Paride posò la forchetta sul bordo del piatto. – Adesso vuoi farmi una scenata di gelosia?
- I-io … no!
- Bene, allora piantala.
Si guardarono negli occhi. L’espressione seria, vagamente dispiaciuta di Paride corresse impercettibilmente i lineamenti di lei, che presero una piega più desolata e confusa. A quel mutamento Paride sospirò.
- Forse è meglio se ti bagni il viso e il collo con un po’ di acqua fresca – disse sfiorandole una mano – Ti sentirai meglio.
Anya fece piano di sì con la testa e si alzò. Il bagno era in fondo alla sala, accanto a quella che doveva essere la porta della dispensa. Quando entrò le narici furono invase da una delicata essenza floreale. La porta si richiuse da sola, separandola tutta in una volta dal brusio della sala. Si avvicinò al lavandino e aprì il rubinetto.
Scoppiò a piangere ancor prima di bagnarsi la faccia.
 
- Mr. Harris ha scommesso sulla vittoria di Sonja.
Erano seduti su un muretto, fuori dal pub. Avevano deciso di uscire poco dopo che Anya era tornata dal bagno. Erano stati in silenzio a lungo. Paride aveva continuato a mangiare la sua torta biscottata ai frutti di bosco, ignaro della distrazione di Anya, e lei era riuscita a sfoggiare un sorriso talmente convincente da non destare alcun sospetto; ma poco dopo, come si conviene ad una donna in preda al turbamento, la situazione era precipitata e la battaglia contro le lacrime era stata persa. A quell’improvviso cambio d’umore Paride non aveva saputo come reagire. Credendo che scherzasse l'aveva guardata senza capire con un boccone di torta fra i denti; ma quando fu chiaro che diceva sul serio aveva chiesto il conto e nel giro di pochi minuti erano usciti.
- Cosa?!
- Mr. Harris – ripeté lei asciugandosi le guance con un fazzoletto - ha scommesso contro di me. Naturalmente ha vinto …
- Che bastardo!
- … e ha voluto condividere con me la vincita …
Anya insinuò una mano nella tasca del jeans. Paride chinò gli occhi sulla banconota che gli tendeva e la prese con incredulità, presto sostituita dal disgusto.
- Quindi – mormorò – è per questo che piangi da una giornata?
- Non lo so …
Paride tacque. Era sera, una sera placida e pregna delle essenze estive. La via era deserta, a parte i piccoli gruppi di giovani e non, che entravano e uscivano dal pub e producevano schiamazzi più o meno rumorosi. La porta del locale si chiudeva tutte le volte con un cigolio ed un tonfo ligneo. Il muretto sul quale erano seduti dava sul rigoglioso giardino di una villetta e le pietre grigie erano scivolose per l’umidità della notte, fredde come metallo al tocco. Paride serrava nervosamente le dita sulle piccole sporgenze di calce.
- Andiamo a casa, Paride … al bed&breakfast?
Acconsentì e insieme si incamminarono lungo il viale.
- Mi sento uno schifo … ho rovinato la serata … perdonami.
- Eravamo solo andati a prenderci una birra – la rassicurò prendendola sottobraccio - … non fa niente.
 
 
La mattina seguente, di comune accordo, Anya, Kate e Linda tornarono a Dublino. Paride si separò da loro per andare a salutare la sua famiglia a Waterford city, ma promise che le avrebbe raggiunte meno di una settimana dopo per una breve vacanza.
Anya era così di cattivo umore che quell’attesa ebbe il potere di infuriarla. Lasciò Paride con i più bendisposti sentimenti e non proferì parola durante il viaggio verso Dublino. Approfittando della temperatura mite, ancor prima di darsi la pena di disfare i bagagli, si cambiò e andò al mare. Soffiava un vento che increspava le onde e rendeva l’acqua più bluastra e inquietante del solito. Nubi grigie avanzavano in direzione del sole, ma erano lontane abbastanza da non far temere un acquazzone imminente. Pur tuttavia, una coppia di genitori, in vista dei primi mutamenti dell’intensità del vento e dell’imbiancarsi della luce rivestirono i propri bambini e fecero armi e bagagli. Come loro altre persone decisero di andar via. Non fosse stato per il cattivo tempo, Anya avrebbe pensato che la gente la credeva affetta da una malattia contagiosissima: proprio quando lei arrivava, la spiaggia, già semideserta, si svuotava completamente.
Sospirò. L’aria profumava di salsedine. Le onde si infrangevano sulla battigia con un’energia crescente. Stese l’asciugamano sulla sabbia compatta e cosparsa qua e là di alghe verdi, e corse verso il mare. Un’onda percorse con velocità la lunga battigia e lambì i piedi. L’acqua era più fredda di quello che aveva immaginato. Camminò fino a che non le arrivò all’ombelico e rabbrividì, trattenendo il fiato. Si bagnò brevemente il resto del busto e le braccia per evitare uno sbalzo termico e si tuffò. Nel buio i lunghi capelli fluttuarono intorno al viso, sfiorarono le spalle. Un’onda la spinse all’indietro.
L’acqua la depose sulla battigia ed Anya provò ancora un leggero senso di rifiuto. Ci rise su, si alzò e si tuffò nuovamente.
Al primo tuono l’odore di salsedine si intensificò. Invase naso e polmoni, purificò la mente, si depositò sulla pelle. Anya si sdraiò sull’asciugamano per godere degli ultimi raggi del sole, ma dovette desistere da tale proposito meno di mezz’ora dopo, quando le prime, minuscole goccioline di pioggia vennero giù. Come se qualcuno dal cielo avesse potuto vederla e renderle un favore, guardò in alto con l’espressione più corrucciata e irritata che riuscì a tirar fuori e si alzò. Mise a posto le proprie cose e arrangiò i capelli in uno chiffon.
Una volta in strada, a poca distanza dalla macchina, si chiese se quella di tornare a casa fosse una buona idea, o perlomeno se le andasse. La risposta gliela suggerì lo stomaco, che gorgogliando, la portò a scrutare l’altro capo del marciapiede con cipiglio. Adocchiò un bar e vi si recò. La porta si aprì con un tintinnio, ma si sentiva di un umore talmente pessimo che non scomodò il collo per alzare lo sguardo alla serie di campanellini che a stento si udivano con la televisione accesa. Si chiese solo per quale razza di motivo fossero stati piantati sopra la porta.
Dietro il bancone si muoveva una barista che lucidava dei bicchieri con una tovaglietta bianca. Fece appena un cenno di saluto in direzione di Anya e reindirizzò lo sguardo alla televisione. La giovane si sistemò su uno sgabello al banco e si guardò attorno alla ricerca del menù. La barista parve vederla nonostante la testa girata e indicò con in braccio un grande cartello con scritte in gessetto bianco.
- Prendo un frappé di lamponi – sbottò Anya di malavoglia. Con altrettanto scarso entusiasmo la barista si mise al lavoro, non smettendo di lanciare occhiate alla televisione. Trasmettevano un programma di candid camera che produceva risate finte con un ritmo regolare. Anya stette un po’ a guardarlo, ma la gente che veniva coinvolta negli scherzi, con reazioni più o meno esilaranti, non la divertì neanche un po’.
A parte lei nel bar non c’era nessun cliente. Era un locale spazioso, con una fila di tre tavoli vicino alla grande finestra dalla quale si vedeva il mare, e con inserti metallici e rossi sul bancone e sugli angoli del tetto. Dalla stanza adiacente, sicuramente il laboratorio, il profumo di burro, zucchero, frittura e glassa, si amalgamava e poi diffondeva attraverso la porta che metteva in comunicazione i due ambienti. Con ogni probabilità le prelibatezze in cottura sarebbero servite a riempire la metà del bancone vuota.
La barista le mise davanti il frappé di lamponi, ma già Anya aveva voglia di qualcosa di più goloso, perché no, anche grasso e succulento. L’odore di dolci la investì un’altra volta e abbatté con un diabolico sorriso le difese approntate dalla forza di volontà. Anya strizzò le palpebre. Non doveva, non poteva. I denti morsero un labbro, pizzicarono la pelle, si serrarono e si mostrarono lentamente mentre le labbra si schiudevano in un sorriso preannunciativo.
- Senta …
Ci fu l’ennesimo coro di risate alla televisione, poi la pubblicità. La barista mise da parte i bicchieri lucidati e andò da lei.
Sì, con i comodi …
- Potrebbe domandare al pasticcere cosa sta preparando?
Non poteva chiedere niente di peggio. La contrarietà si manifestò nel volto passivo della barista con una semichiusura delle palpebre ed un movimento appena percettibile della mandibola. La donna tornò indietro e senza nemmeno entrare nel laboratorio del pasticcere si mise a confabulare con lui.
Anya riprese a sorseggiare il frappé. Quando stava per prendere uno dei lamponi surgelati usati come guarnizione, la porta si aprì con il solito tintinnio. Si accingeva a girarsi, ma una voce conoscente la bloccò. Lo riconobbe subito: il tono calmo, giovanile, rassicurante, che tanto aveva apprezzato nell’adolescenza e che da meno di un anno aveva imparato suo malgrado ad odiare. La risata spontanea e allegra che ancora suscitava un’istintiva risposta agli angoli delle sue labbra, colmava ora il suo cuore di tristezza e nostalgia dei tempi passati. Abbassò gli occhi sul frappé, tentando di nascondere il viso, ma un dettaglio particolarmente lucido del bancone rifletté con qualche distorsione il volto di colui che preferiva non vedere.
Prima ancora di chiedersi che cosa ci facesse lì Philip, si domandò se l’avesse riconosciuta o se intendesse avvicinarsi. Nel dubbio, ficcò una mano nella borsa ed indossò frettolosamente gli occhiali da sole, sperando che almeno la tonalità vermiglia dei suoi capelli gli facesse venire un dubbio sulla sua identità.
- Siediti pure lì … chiamo la barista e arrivo.
Anya aggrottò le sopracciglia. Scrutò nuovamente il riflesso del bancone, ma bastò affidarsi ad uno sguardo obliquo per vedere che dietro di lei, in piedi accanto al tavolo addossato alla finestra, messa a tre quarti di spalle, c’era una ragazza con una lunga e ondulata chioma rossa. Fu meno di un attimo, poiché dovette girarsi, ma quella vista la spiazzò.
Lentamente, la barista tornò e le mise davanti un enorme vassoio con una quantità di dolci di cui elencò nomi e ingredienti. Anya la guardò, annuì, ascoltò, sorrise alle prelibatezze che aveva davanti, parlò con strafottenza, fece udire forte e chiara la sua voce, si tolse gli occhiali da sole.
Ma la barista smise di parlare, borbottò qualcosa con irritazione e la lasciò in asso.
Solo allora Anya si vide riflessa sulla superficie specchiante che faceva da sfondo allo scaffale degli alcolici, dietro il bancone, e capì che nulla di quello che aveva immaginato o pensato di fare era avvenuto.
Poco a poco riprese contatto con la realtà, riconobbe sé stessa e il volto che stava fissando.
Non si era accorta della barista che parlava, non aveva annuito, non aveva dato l’impressione di stare ascoltando. I suoi lineamenti erano rimasti immobili, dalla gola non era uscita neppure una sillaba. E gli occhiali da sole erano ancora al loro posto.
La sola cosa che aveva continuato a vedere erano quei capelli rossi, lungi come i suoi. Ondulati come i suoi.
Della stessa tonalità di rosso.
Quando tornò a guardare verso il tavolo abbandonò ogni discrezione. Si tolse gli occhiali e respirò senza il timore che Phil la vedesse o la sentisse. Inaspettatamente non lo vide, così che concentrò l’attenzione sulla ragazza che si era seduta al tavolo e scriveva qualcosa al cellulare. Il fatto che avesse spostato una ciocca dietro l’orecchio rese la sua osservazione più semplice, ma la sconvolse dentro, perché più la guardava, più si rendeva conto che le somigliava. Con il petto pesante, gonfio, carico di una strana angoscia, distolse gli occhi dalla giovane. Si vide di nuovo riflessa, ma stavolta con una sensazione diversa. Istintivamente spostò lo sguardo un po’ più a destra di quello specchio. Con un’espressione molto simile Philip la stava osservando. Anya si girò completamente verso di lui. Se avesse voluto comunicargli tutto l’odio represso fino a quel giorno, quel momento, se avesse voluto parlargli e chiedergli spiegazioni sulla ragazza dietro di loro, se avesse voluto semplicemente domandargli il perché di tutto e lasciare che si spiegasse, era troppo turbata per capirlo. Gli occhi di Phil parlarono chiaro e questo fu più che sufficiente perché il suo cuore rinnovasse il disprezzo e la compassione nei suoi confronti, gli stessi sentimenti che avevano dettato le ultime, dure parole che gli aveva rivolto.
Ficcò una mano nella borsa e prese il portafogli. Gettò una manciata di monete sul bancone e fece un cenno alla barista.
- Tenga pure il resto – mormorò raccogliendo le sue cose. Si conservò l’ultima occhiata per l’ignara giovane al tavolo e per i suoi capelli e uscì.
 
 
 
Dublino, Dicembre 2011.
 
Quel giorno una fitta nebbia gravava sulla città. Come previsto dai meteorologi, la visibilità era parecchio ridotta, ma era metà dicembre e la gente non poteva fare a meno di uscire a fare spese per le feste imminenti. Le strade erano piene di auto. Sui marciapiedi la gente si muoveva come formichine in ricognizione, mantenendo il più possibile la vicinanza ai muri dei palazzi e una certa distanza dal bordo del marciapiede. Gli automobilisti guidavano con prudenza e si piegavano frequentemente sul manubrio alla ricerca di un segnale stradale luminoso che indicasse loro il percorso da seguire o quantomeno un semaforo che segnalasse la presenza di un incrocio. Le luci non altro erano che aloni opachi in una massa di vapore e i più strizzavano gli occhi pensando che il problema risiedesse nella loro capacità di messa a fuoco.
Come se non bastasse cadeva una fitta pioggerellina che non era schiaffata da nessuna parte per assenza di vento, ma che rallentava ulteriormente il traffico, dato che i vetri si riempivano di goccioline e per il freddo si appannavano, mentre agli angoli delle strade si erano formate delle pozzanghere più o meno grosse. I piedi degli automobilisti correvano sempre più spesso su freno e frizione, mentre le dita scorrevano a memoria i pulsanti per il riscaldamento, metodo che avrebbe spannato il parabrezza.
In diverso modo e misura quello stesso atteggiamento donava ai movimenti di Philip un accento insolito ma sempre più usuale, un atteggiamento esperto e reso ancor più sicuro dalla ben celata voglia di farsi vedere dall’amica seduta alla sua sinistra, nel posto passeggeri. Non osava pensare che ad ella non interessasse vederlo cimentato nella guida in quelle difficoltose condizioni, poiché erano appena stati all’aeroporto per salutare il suo ragazzo, quel certo Langley che non gli aveva mai ispirato molta fiducia.
Messaggiavano ancora. Lui doveva essere certamente molto spiritoso perché Anya sorridesse e arrossisse in quel modo; in questo proposito poteva (ma non osava neppure immaginare di farlo) dichiararsi sconfitto, in quanto Anya era diventata di un tratto distaccata e taciturna, lontana tanto nella realtà quanto nei pensieri, malgrado non peccasse di scarsa gentilezza. Langley poteva credere di averle ormai rubato il cuore, ma per Philip era tutto un gioco di attese. Paride era ormai un uomo maturo, molto prossimo alla trentina, mentre lui era più grande di Anya solo di qualche mese e vantava una differenza di giovinezza ragguardevole. Se non completamente certo, era almeno sicuro di poter avere diverse possibilità in più di Langley: prima fra tutte il fatto che conosceva Anya da quando avevano cominciato il liceo, il che era tutto dire, vista l’adolescenza trascorsa insieme; e poi Anya poteva stufarsi dell’aria intraprendente e da uomo maturo del suo ragazzo, e in caso di rottura, avrebbe trovato buona consolazione in lui, Phil. Il suo migliore amico.
Non doveva esserci cattiveria, no. Reprimeva tutte le volte ogni intento malvagio, si imponeva sempre la calma ed il rispetto nei confronti di Langley per amore dell’amica, tutto l’opposto di quel che, invece, faceva Langley stesso. Gli leggeva negli occhi una certa incostanza. Non era ben definibile, ma prescindibile già dal loro colore, uno strano miscuglio fra grigio e verde, sempre in mutamento. Cosa da poco, sì, cosa da niente, ma Phil non era uno di quelli che credevano al proverbio “L’abito non fa il monaco”.
- Ti andrebbe di fermarci da Starbucks? – le aveva detto d’un tratto, fermandosi ad un semaforo.
- Perché?
- Come “perché”? Per prenderci qualcosa …
- Uhm …
Phil si era girato verso di lei.
- No, grazie, Phil … ho da fare …
Pazienza. La guida era continuata per alcuni minuti sotto la pioggia incessante, frustrante, tediante. Il ticchettio delle dita di Anya sui tasti del cellulare riempiva il silenzio. Philip aveva acceso la radio.
- Phil, spegni quel maledetto aggeggio! Paride mi sta chiamando …
Il ragazzo l’aveva osservata per alcuni istanti con incredulità. Anya allora gli aveva mostrato la chiamata in arrivo e lui aveva obbedito. Qualche momento dopo non seppe se il suono più fastidioso era la pioggia sui vetri, il tergicristalli in funzione, il clacson delle altre macchine al semaforo o la voce di Anya che infarciva ogni frase con un “amore”. Purtroppo per lui la chiamata si concluse a cinquanta metri dall’abitazione dell’amica. Quando si fermarono e Anya stava per scendere, Phil le allungò un ombrellino, ma Anya non lo vide e corse verso il portoncino di casa. Come di consueto, scese anche lui per salutare la madre e la sorella di lei, alle quali era molto affezionato.
- Credo che nessuna delle due sia in casa, in questo momento – aveva borbottato Anya estraendo dalla borsa le chiavi di casa. L’ipotesi trovò conferma nel buio dell’appartamento, in parte illuminato a intermittenza dalle luci di natale.
- Le regole le conosci: fa’ come se fossi a casa tua.
Anya si era tolta sciarpa e cappotto ed era sparita oltre la cucina. Philip aveva annuito a vuoto, pensando a come poteva sentirsi a casa, se mancava il fuoco che la riscaldava. Pur tuttavia, facendo ancora leva sulla sua pazienza, era entrato in soggiorno e si era seduto sul divano, poggiando il cappello ed il giubbotto sullo schienale di una delle due poltrone. Aveva guardato l’albero addobbato per alcuni minuti, in tralice.
- Vuoi il tè? – aveva gridato Anya dalla cucina, prima che il silenzio venisse rotto da un forte clangore di pentole e stoviglie. Philip stava per rispondere di sì, ma si era tirato su e l’aveva raggiunta in cucina.
- Anya?
La ragazza era seduta a terra, poggiata sui polpacci, e stringeva le dita della mano sinistra con l’altra mano, mugolando imprecazioni una dietro l’altra. Intorno a lei c’era una grossa pentola d’acciaio, delle posate ed un pentolino più piccolo. Alla sua destra, e questo preoccupò maggiormente Phil, c’erano i resti di un coperchio di vetro traforato per la cottura a vapore. Uno di questi era sporco di sangue e con orrore si accorse che tra le dita della mano destra di Anya colavano gocce scarlatte.
- Anya? Cielo … ma che ti sei fatta? Fa’ vedere …
Non senza insistenza aveva ottenuto di vedere la ferita e aveva scoperto un taglio non molto ampio, ma profondo, appena sotto l’indice della mano sinistra. Doveva aver toccato qualche vena particolare visto il modo in cui sanguinava. Erano andati in bagno e Phil aveva spinto la mano tremante di Anya sotto il getto d’acqua tiepida. Le aveva detto di rimanere così e aveva rovistato febbrilmente nell’armadietto alla ricerca di un disinfettante; quando l’ebbe trovato inzuppò un grosso batuffolo e lo pose sulla ferita.
- Maledetto idiota! – era saltata su lei con un grido di dolore, spingendolo da parte. Phil era finito quasi sull’armadietto dei medicinali, mentre Anya era corsa fuori dal bagno. Preoccupato e confuso, lui l’aveva seguita in cucina, poi in soggiorno.
- Perché mi vieni dietro? – aveva urlato la ragazza, voltandosi d’improvviso.  Phil aveva guardato alternativamente lei e la mano, sollevando le spalle. Anya si era girata e si era stretta la mano al petto.
- Vuoi che ti porti in ospedale? – aveva detto, poggiandole una mano sulla spalla. Anya continuava a lamentarsi e Phil temeva che la ferita avesse interessato anche un nervo. – Ti prendo il cappotto …
- Lasciami stare!
Philip l’aveva guardata. Il viso di Anya esprimeva un dolore così intenso da nascondere ogni altra emozione ad un occhio estraneo, ma lui, che la conosceva da un sacco di tempo, colse un baleno si aggressività. Fu come se all’improvviso la parte più buona di lui fosse crollata, fuggita via, e avvertì nettamente l’irrazionalità prendere il sopravvento, con una lieve vertigine.
- E va bene! – aveva gridato. – Va bene, ti lascio in pace!
Anya non sembrò aspettarsi una reazione simile. In momenti più lucidi, a quell’espressione dell’amica, Phil avrebbe subito corretto il proprio comportamento, ma in quell’istante non sapeva trovare una ragione valida per calmarsi.
- E adesso cosa ti succede? – aveva detto Anya.
- Cosa mi succede? – aveva risposto Phil allargando le braccia – Cosa mi succede, mi chiedi?! Sono stufo di starti a sentire quando fai così!
- Com … cosa?!
- Non fare così!
- Così, come?
- Smettila!
Ad una nuova fitta, Anya si era avvicinata nuovamente la mano al petto, macchiando la felpa di sangue. Phil si era portato le mani alle tempie, come se in questo modo si sarebbe liberato dei pensieri più opprimenti. L’espressione che assunse era tale da farlo credere in preda ad una rabbia crescente che a stento si sforzava di contenere.
- Si può sapere che ti prende?!
Quando Phil aveva rialzato lo sguardo su di lei, aveva gli occhi lucidi.
- Forse è meglio se me ne vado … - aveva detto tendendo una mano verso il cappotto sulla poltrona.
- No! Non vai da nessuna parte, invece!
- Anya …
- Voglio sapere che cosa ti prende! È da stamattina che sei strano!
Phil aveva corrugato la fronte e il mento con finta sorpresa. Fosse durata solo una mattinata quella smania …
- Phil!
Si era così voltato verso di lei, evitando di guardarla negli occhi, e d’impulso aveva detto – Ti amo! Ti amo, ecco che mi prende! – aveva annuito.
Seppure conoscesse già i suoi sentimenti, Anya rimase di stucco.
- Mi piaci da morire … non so da quanto, ma non riesco a pensarti come semplice amica …
Fu la volta che appuntò gli occhi sul suo viso e le lacrime vennero dolorosamente giù. Si nascose gli occhi dietro le mani, tentando di frenare i singhiozzi con dei respiri profondi. Pochi istanti dopo era di nuovo padrone di sé e, con una breve indagine sulla gola, capì di poter parlare senza il rischio di rimettersi a piangere come un bambino. Aveva abbassato le mani e deglutito. Sul volto di lei avrebbe desiderato trovare tenerezza e compassione, invece rimase sbalordito quando vi aveva colto un piglio di fastidio.
- Perché me lo stai dicendo di nuovo?
- Cosa?
Anya aveva sottointeso la risposta chinando il capo di lato. La domanda che gli aveva posto era retorica. In quell’attimo Phil capì di stare per mettere a repentaglio l’amicizia che li legava, di perdere per sempre quell’affetto di cui si era sempre accontentato e che aveva ricambiato con un amore che sfiorava l’adorazione. Avrebbe potuto non rispondere, rimanere in silenzio e lasciare che il loro legame fosse piuttosto incrinato momentaneamente da un dubbio, da un germe di sospetto; avrebbe anche lasciato che Anya lo evitasse per un periodo, piuttosto che rompere definitivamente con lei. Avrebbe preferito essere torturato, picchiato, calpestato. Nessuno lo avrebbe convinto a tirare finalmente fuori ciò che provava da tempo. Avrebbe lasciato che trionfasse il suo egoismo e avere quindi Anya per sé ancora per un po’, pure se da semplice amica.
Ma non era nelle condizioni giuste per attuare i buoni propositi. Preda di un tormento già grande, lo sguardo indagatore di Anya gli aveva di nuovo aizzato qualcosa dentro, le barriere di cortesia che la razionalità aveva ripreso a innalzare in quel breve frangente crollarono e un impulso irrazionale lo aveva agitato.
- Non ce la faccio a vederti con lui! – aveva gridato – La sua presenza è irritante, indisponente. Non lo sopporto, perdonami. Odio doverti dividere con lui!
- Dovermi dividere con lui?! Dividere? Ma quando mai mi hai divisa?!
- Ogni giorno!
Anya aveva guardato altrove con un misto di incredulità e risentimento, stringendo maggiormente la presa sulla mano ferita e pressandovi il batuffolo con il disinfettante. – Sei patetico – aveva detto scuotendo il capo – Patetico.
- Perché? – aveva allora gridato lui dandosi uno schiaffo sulla fronte. – Perché non capisci?
- L’unica cosa che c’è da capire è che devi smetterla … ti ho detto mille volte, più o meno gentilmente, che non ricambio i tuoi sentimenti come … come si dovrebbe. Te l’ho già detto! Sei tu che non capisci!
- Anya io ti amo!
- Io no!
Quell’urlo l’aveva spiazzato. Anche lei adesso aveva le lacrime agli occhi e volle credere che fosse per merito suo, piuttosto che per la ferita e per il nervosismo. Aveva appuntato ancora una volta quel suo sguardo sprezzante su di lui, gli aveva gridato con un fremito delle spalle, stringendo la mano e aumentando leggermente la fuoriuscita di sangue attraverso le dita. Qualche goccia precipitò fino al pavimento, ma Phil non la seguì. Nuove lacrime sorsero ai suoi occhi azzurri e la vista si annebbiò.
- Non possiamo andare avanti così – aveva ripreso lei qualche istante dopo con un tono di voce più basso. – È evidente che non possiamo andare avanti così – aveva scandito.
- C-che vuoi dire?
- Che devi uscire dalla mia vita o rimanerci ai miei patti.
- No …
- Io non posso rinunciare a Paride per stare con te. Ti voglio bene, ma non ti amo … io amo lui, Phil.
Il ragazzo serrò la mascella. L’odio per Langley raggiunse l’apice: gliel’aveva portata via. Gliela stava portando via. Scie calde si disegnarono sulle gote, sulle guance, colarono lungo il collo.
- Dici di amarmi – aveva continuato lei con severità – e pretendi che io ti ricambi. Dici di amarmi e mi urli contro che ti dà fastidio vedermi con l’uomo che amo più di me stessa. Dici di amarmi e mi chiedi di separarmi da lui, di essere solo tua … come puoi definirlo Amore se ti comporti da egoista?
In quel momento pensarono la stessa cosa, sebbene le reazioni furono diverse: la loro amicizia era giunta al termine. Per Phil non poteva esserci niente senza di lei; per Anya quella decisione sarebbe costata più di quello che lui immaginava, ma non poteva farlo soffrire in quel modo. Era chiaro che quei pensieri lo assillavano ininterrottamente da molto tempo.
Philip non aveva risposto nulla. Aveva chinato lo sguardo sul pavimento, serrato la mascella, cercato di contenere un singhiozzo inghiottendo saliva.
Anya aveva studiato i suoi movimenti con un timore appena percepibile. Che gli avesse spezzato il cuore era evidente dal modo in cui piangeva, e anche che Phil avesse preso la sua decisione. Le si era avvicinato lentamente e lei con la coda dell’occhio l’aveva seguito. Aveva depositato un bacio sulla sua guancia e poi aveva fatto dei passi indietro. Aveva preso le sue cose dallo schienale della giacca, continuando a guardarla, come se all’ultimo Anya potesse cambiare idea, o come se il tempo potesse tornare miracolosamente indietro. Ma lei era rimasta immobile, con uno strano dolore all’addome, gli occhi bassi.
- Stammi bene – gli aveva sentito mormorare, poco prima che sparisse oltre la porta del soggiorno.
 
Non poté fare a meno di aprire la mano e guardare la cicatrice.
L’idea della strada che aveva percorso era ben lungi dalla sua mente. Il ricordo di quella mattina non l’aveva lasciata neppure un attimo. Camminava con il borsone in spalla, le cuffiette del suo vecchio lettore mp3 appese al collo. I capelli che sulla fronte e sulle tempie si erano asciugati, ora la pioggia tornava a bagnarli e incollarli alla nivea pelle del viso. Aveva dimenticato l’ombrello in macchina.
A meno di venti metri da un incrocio, nonostante l’agitazione, si guardò alla vetrina di un negozio d’elettrodomestici. Dall’interno un commesso si mosse, intenzionato ad accoglierla con un caloroso “Buongiorno” ed elencarle i nuovi arrivi. La giovane si allontanò prima che quello cominciasse a coltivare altre speranze. Camminò fino all’incrocio e si poggiò al semaforo in attesa che diventasse verde.
- Oh, mi scusi! – sentì dire ad una signora. Anya si girò. Probabilmente l’aveva urtata con il suo ombrello. Lo osservò: era grande abbastanza da riparare anche quattro persone.
- Non si preoccupi …
- Ha fatto il bagno a mare con questo tempaccio?
Anya si girò di nuovo e fece mente locale. – Sì …
- Cattiva idea …
Le labbra della giovane si sollevarono leggermente da un angolo. Controllò il semaforo: rosso.
- Vuole ripararsi sotto il mio ombrello, signorina?
- Grazie, ma sto bene così.
Prima che la signora replicasse, ricevette il segnale che il semaforo aveva cambiato colore e attraversò rapidamente la strada di fronte a qualche macchina ferma. Continuò a camminare fino a imbattersi in una parruccheria che non aveva mai visto. La ragazza di Phil le tornò in mente, lei con tutti i suoi lunghi e ondulati capelli rossi.
Entrò. C’era solo una signora con i bigodini sotto il casco, così che il parrucchiere le andò subito incontro.
- Shampoo e lisciatura, grazie.
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Bentornate!
Ritorno con un aggiornamento veloce (non ho volute aspettare neppure il pomeriggio!) … mi fervono i preparativi e, purtroppo, non so se domani potrò pubblicare. Il quarto capitolo slitterà di qualche giorno, anche perché è in revisione, ma cercherò di non deludere le aspettative di chi mi segue!
Ringrazio di tutto cuore chi ha letto anche questo capitolo. Vedere come aumenta il numero delle visite mi rende felice, ma soprattutto mi dà l’ispirazione per continuare a scrivere … molti colpi di scena mi sono già venuti in mente e ho preso rapidamente appunto per non perderli!
Un ringraziamento speciale va a chi vorrà questa storia tra le preferite/seguite/ricordate e a chi commenterà. Siete la mia linfa creativa.
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Ik

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


 An irish tale – Parte seconda
 
CAPITOLO IV 
 

 
Seduta al tavolo della cucina, lasciava che fosse il ticchettio della lancetta dei secondi a scandire il tempo.
E la noia.
Lasciò ricadere il capo sulle braccia poggiate al tavolo con un mugolio. Non aveva ancora smaltito l’ubriacatura.
Si stropicciò la fronte sul dorso della mano, con lentezza e sospirò. Gli occhi si ritrovarono a pochi millimetri di distanza dall’orologio da polso e senza faticare per mettere a fuoco spedirono al cervello le informazioni che trovarono: un’offuscata e distorta visione del quadrante bianco e di una lancetta finissima che scendeva giù, giù, giù, con una lentezza maledetta, che andava indirizzandosi sempre più verso lei come in un tediante, crudele, asfissiante gioco della bottiglia.
Un angolo del duro quadrante infastidì l’arcata sopraccigliare e con un altro lamento Anya raddrizzò il collo.
Se solo avesse potuto scomparire, una buona volta.
Erano le tre e mezza del mattino. La casa era al buio, gli infissi chiusi. Solo la luce della cucina era accesa. Ma, sebbene l’avesse aiutata a non finire dritta dritta contro lo spigolo di un mobile, la maledisse con tutte le sue forze e, fatta leva sulle ultime energie, si allungò fino all’interruttore e la spense.
Sospirò con frustrato sollievo.
Un potente rombo di tamburi la colse alla sprovvista, pressando con forza immane ai lati della testa.
E che dio sia lodato!
Un’altra fitta.
Ma come diavolo aveva fatto a ridursi in quello stato?
Doveva aver bevuto proprio tanto … ma perché non ascoltava mai la vocina che Paride le aveva inculcato in quella testa senza ripieno? Perché?
Una domanda: perché?
 
Aveva appena lasciato la parruccheria per prendere la macchina e tornare, anche se di controvoglia, a casa, quando si era imbattuta in Brigitte, una compagna del liceo.
Non erano mai state affiatate, tutte e due, anzi, solo negli ultimi due anni di scuola avevano sviluppato una simpatia reciproca che non si era mai evoluta in un’amicizia vera e propria. Nonostante ciò, non appena il suo sguardo si era posato su di lei, Anya aveva fatto un gran sorriso e le si era avvicinata con le braccia aperte.
- Brigitte! Che sorpresa!
L’altra aveva fatto altrettanto e in meno di un minuto, presa improvvisamente dai convenevoli e dai ricordi della scuola, Anya aveva dimenticato il fortuito incontro al bar con Philip. Brigitte aveva ricambiato la stretta con una punta di compostezza in più, appuntando subito l’attenzione sulla piega ancora calda e profumata dei capelli di Anya, lisci e più setosi del solito.
- Ma guarda un po’! Hai fatto finalmente la lisciatura chimica?
Anya aveva scosso il capo, ridendo. Brigitte aveva sempre avuto una mania per i capelli. A quanto diceva lei stessa, spendeva più soldi nella loro cura che in vestiti; ed effettivamente la sua chioma poteva fare invidia alle modelle più belle e famose del mondo. Aveva i capelli lunghi fin quasi al fondo schiena, di un naturale biondo cenere chiaro che splendeva al minimo riverbero. Non avevano mai un nodo, nonostante fossero mossi, e da che la conosceva, non l’aveva mai vista con i capelli legati. In quel momento si era mossa facendoli fluttuare con ostentata disinvoltura, ma Anya non vi aveva prestato attenzione.
Avevano camminato per un po’ e Anya si era allontanata nuovamente dalla macchina dove avrebbe volentieri posato la grande borsa con l’equipaggiamento per il mare. Da quella breve chiacchierata Anya aveva scoperto che l’amica aveva abbandonato di recente l’università per dedicarsi a dei corsi di potenziamento di tedesco, essendo lei stessa di origini bavaresi da parte materna, poiché intendeva viaggiare lungamente in Germania e, se il caso l’avesse voluto, trasferirvisi definitivamente.
Da parte sua, Anya offrì una storia che personalmente trovava molto meno interessante, essendo stata squalificata da uno dei tornei per lei più importanti e soffrendo la lontananza del proprio ragazzo. A questo si aggiungeva l’acuto senso di sconfitta per il recente incontro con Philip, ma badò a non farne cenno per evitare prolungamenti di un problema che la faceva rabbrividire di fastidio al solo pensiero.
Alla fine, dopo un breve silenzio, Brigitte, in un mellifluo tentativo di consolarla, le aveva proposto di passare la serata con lei ed alcuni suoi amici al pub. Prima di rispondere Anya aveva sondato il suo sguardo e scandagliato ogni minima espressione, ricordando tutte le ramanzine che sua madre le aveva fatto nell’adolescenza e la contrarietà di Paride nel vederle anche solo mezzo bicchiere di vino in mano. Ma, considerato che non passava una serata del genere da molto tempo e che si prospettava una noiosa serata davanti alla tv, aveva accettato di buon grado.
 
Non poteva pentirsi di più di quello che stava già facendo.
Una birra da mezzo litro a digiuno, degli aperitivi alla frutta e un drink alcolico. E non le avevano dato neppure una fettina di limone.
E sì che la prossima volta accettava! Gradevole compagnia, per carità: un gruppetto di cinque ragazzi e quattro ragazze, lei compresa, ad un pub vicino alla costa.
Si sforzò di ricordare dei nomi. C’era Bradley, che le aveva fatto una corte spudorata fino a quando Brigitte non gli aveva detto che era già impegnata, momento in cui le sue attenzioni s’erano fatte ancor più insistenti. Un ragazzo abbastanza carino, ma frivolo in ogni dettaglio della persona e del carattere. Niente da fare. Gli aveva parlato per un po’, poi aveva preferito Jim, fissato con le arti marziali e i manga e mezzo giapponese nel look, con una camicia alla coreana … rossa?, e i capelli scuri sparati col gel.
Mannaggia a lei non ricordava gli altri. C’era Brigitte … e Sarah (della quale era sicurissima che non aveva tollerato la sua presenza sin dall’inizio) e poi qualche personaggio di contorno, bocconcini slavati senza punto, né virgola.
Una morsa fortissima affondò i suoi canini nelle tempie e la nausea montò di conseguenza. Aveva buttato l’anima appena arrivata a casa, non meno di un’ora prima. Quando aveva varcato la porta di casa era bell’e ubriaca, ma conservava quel po’ di lucidità sufficiente a ricordare l’ubicazione del gabinetto. Un fiume d’acido le aveva inondato l’esofago, era risalito sempre di più graffiando la gola e urticando il palato. Sfinita, era crollata sul pavimento, reggendosi come una beota al mobiletto degli asciugamani. A quel punto era scoppiata a ridere, aspettandosi da un momento all’altro sua madre che spalancava la porta del bagno e strabuzzava gli occhi per la sorpresa e il disgusto di trovarla in quello stato. Aveva riso di cuore, tenendosi lo stomaco malmesso con una mano e cercando di tirarsi su per farsi un bicchierone di acqua e bicarbonato con cui sciacquarsi la bocca, invasa da un sapore quanto mai orrendo, e aveva continuato a sghignazzare mentre tirava lo sciacquone e si sentiva sfiatare imboccando il corridoio per raggiungere la cucina.
Quando si fu calmata aveva fatto dei gargarismi e si era sciacquata il viso con l’acqua fredda; dopodiché si era lasciata cadere su una sedia e aveva cominciato a pensare.
Non avrebbe detto niente a Paride, questo era poco ma sicuro, non perché era geloso, ma perché non avrebbe retto un altro rimprovero.
E dio sapeva quanto fosse stufa di tutto ciò.
Si sentiva a pezzi, letteralmente. La spalla sinistra le faceva ancora male, dopo la caduta al match con Sonja, la testa pulsava da impazzire, aveva lo stomaco in subbuglio, la gola in fiamme e nel cervello le idee erano tanto confuse da non riuscire a star ferme, così che cozzavano, si urtavano l’un l’altra come molecole impazzite, producendo un rumore ed un caos infernali.
Ma si sentiva a pezzi anche dentro. Dove non lo sapeva dire; forse erano le spalle o le braccia stanche … o il petto.
Le venivano in mente le parole di Mr. Harris quando ci rifletteva su.
“Hai fatto schifo.”
Avvertì un improvviso dolore allo stomaco, come un morso; poi più giù, verso l’ombelico.
“Mi hai fatto fare la figura dell’incapace.”
Strizzò le palpebre per dimenticare. Massaggiò gli occhi con le dita, scosse il capo, arrendendosi e lottando contro qualcosa che non sapeva definire. Contrasse le dita delle mani fino a sentire le unghia penetrare nella pelle, contrasse i muscoli del viso in un ringhio silenzioso e un nuovo spasmo all’addome la avvolse con un’insana vampata di caldo.
 
Quando si svegliò, dal suo letto Linda la fissava con gli occhi spalancati.
- Che c’è?
Anya l’aveva guardata lungamente in viso.
“Che c’è?”?
- Anya?
Aveva Linda davanti. Sua sorella.
Le dita si strinsero, insicure, intorno ad un angolo di coperta. Poco a poco la percezione delle cose si diffuse al resto del corpo e realizzò di essere in pigiama, seduta sul suo letto, avvolta dalle sue coperte, nella sua stanza e si sorprese di essere sopravvissuta agli spasmi allo stomaco, anche se non al mal di testa e alla nausea. Si guardò intorno per avere la certezza di non stare sognando, puntellandosi sul materasso, aggrottando piano le sopracciglia e schiudendo le labbra per la sorpresa. Udì Linda sospirare, sul punto di dire qualcosa.
- A …
- Sì, che c’è? Cosa vuoi?
Stropicciò pigramente le palpebre con uno sbadiglio irritato e si girò verso la sorella.
- Ma a che ora sei tornata ieri sera? – riprese Linda malcelando il fastidio per il tono che aveva appena usato.
Anya ricadde sul cuscino in preda ad un forte languore, ma le occhiate di Linda su di sé le impedirono di rilassarsi. – E che ne so … - borbottò coprendosi la fronte con un braccio. Stava sistemandosi per voltarsi dall’altra parte, quando con un guizzo degli occhi (non poi tanto veloce, considerato il mal di testa) si girò di nuovo verso di lei. – Perché mi chiedevi cosa avessi?
Linda si mise a sedere sul letto, allungando il braccio verso il comodino per prendere l’orologio. Prendendo tempo con un’aria sostenuta, allacciò l’orologio al polso e si alzò.
- Ti sei lamentata per tutto il tempo - disse - e poi hai gridato …
Anya aggrottò le sopracciglia. – G-gridato? Che dicevo?
Linda si diresse verso l’attaccapanni appeso dietro la porta e senza guardarla fece spallucce. Indossò una giacchetta di cotone, tirando su le maniche fino alla piega dei gomiti, e sbuffò bruscamente.
- Un sacco di cose incomprensibili … l’unica cosa che ho capito è stato il “no” che hai urlato quando ti sei svegliata ... e che mi ha fatto saltare in aria.
Anya era sempre più confusa. Aprì la bocca per dire qualcosa, la richiuse, la riaprì. Che si fosse svegliata nell’attimo in cui aveva gridato non le pareva possibile, perché la stanza era avvolta nel silenzio, come sempre.
- Fidati, non sto scherzando. E … se posso dirlo, senza che ti preoccupi esageratamente, ti sei lamentata anche questa notte … hai avuto gli incubi, per caso?
- No … - rispose sovrappensiero. Linda la guardò con il volto assonnato e aprì la porta. – Cioè, sì. Ma … non è un incubo a tutti gli effetti …
- Che vuoi dire?
Anya prese un respiro. A Linda non aveva mai raccontato del sogno, che già si ripeteva da diverso tempo, e nemmeno della sua esperienza durante il coma. Gliene aveva fatto accenno, una volta, ma l’aveva preso come uno scherzo e si era allontanata ridacchiando. Solo Paride lo sapeva, ma lui in quel momento era a Waterford e non l’avrebbe visto se non una settimana dopo. Le venne d’improvviso voglia di raccontarle tutto, scongiurarla di crederle e, se fosse stato il caso, chiamare Paride come testimone. Ma Linda, la sua adorata sorella, non avrebbe creduto neppure ad una parola.
- È un sogno che faccio da tempo … - azzardò, dopo mille tentennamenti. - … ma è una sciocchezza …
- Ne sei sicura? – domandò Linda, con un baleno di sospetto.
Ad Anya parve di deglutire un confetto intero. – Sì – sorrise, senza capire il perché di quella bugia – sicura …
- Bene – fece l’altra, varcando la soglia in direzione del corridoio, ma tornando indietro all’ultimo minuto – io, Paul e Ophelia andiamo a mare, questa mattina. Vuoi farci compagnia?
La giovane cacciò un’occhiata al cielo oltre la finestra.
- Un bagno freddo sarebbe un buon modo per smaltire gli effetti di quella sbornia maledetta di cui ancora porti i segni …
Anya arricciò un labbro con fare ostile.
- Allora?
- Ma come vi salta in mente di andare a mare in una giornata simile?! Pioverà fra poco!
- Vieni o no?
Si guardarono per un lungo momento. Linda aggrottò la fronte con un evidente atteggiamento di sfida, mentre Anya, vittima dell’emicrania, socchiuse le palpebre per sopportare meglio il dolore. Poi Linda storse la guancia, che tirò un angolo delle labbra in uno strano sorriso.
- Paride te ne direbbe quattro vedendoti così conciata …
- Sta’ zitta!
- Eccome se te le direbbe …
Seppure detto in tono scherzoso, quella frase colpì Anya da qualche parte, nel petto, ed ebbe il potere di aumentare quel senso di sconfitta che l’assillava dalla fine del torneo, che si era accresciuto il pomeriggio precedente al bar e che si riassumeva in una banconota da venti euro.
Hai fatto schifo.
Nessuno avrebbe voluto deludere. Nessun altro dopo Mr. Harris. Se anche Paride si fosse arrabbiato con lei sarebbe stata la fine. Qualcosa dentro di lei si sarebbe spezzata irrimediabilmente. Non poteva permetterselo.
Linda aprì la bocca per parlare.
- D’accordo! – esplose Anya con una fitta prepotente di dolore.
- Vuoi dire che …
- Sì, sì, sì, vengo … - disse, abbassando la voce. Si portò una mano alla fronte, mentre alzò l’altro braccio per indicarle la porta - … ma ora vattene! Sparisci!
Sul punto di bofonchiare qualcosa con aria infastidita, Linda strinse spasmodicamente le dita sulla maniglia, con ogni probabilità pensando a quanto mutevole fosse il carattere della sorella in quel periodo e a quanto complicato fosse assecondarla, visto che non gliene andava mai bene una e che aborriva ogni tipo di compagnia. Si chiese d’improvviso con chi fosse uscita la sera precedente, ma a quel tentennamento Anya rispose con un ringhio e Linda, confusa e sempre più infastidita, si dileguò.
 
 
La settimana che venne non fu priva di noia.
In primo luogo, mentre era a mare con Linda, Paride l’aveva chiamata per avvisarla che avrebbe rinviato la partenza da Waterford a causa di problemi di lavoro. Diceva che aveva perso alcuni appunti degli studi in Nuova Zelanda e stava perdendo tempo per farseli rispedire via e-mail; al termine di questo processo avrebbe compilato una relazione da presentare all’università di Dublino.
Quando le telefonò, il tono le parve parecchio dispiaciuto, anche se il rumore delle scartoffie e della tastiera del computer in sottofondo le diede l’impressione che lui, a differenza sua, non avrebbe sentito passare lentamente quei giorni di distanza.
Per ingannare l’attesa, decise di far compagnia alla madre nell’ambulatorio, prendendosi cura degli animaletti che le venivano portati. I casi di un gatto appena sterilizzato e alla ricerca di un padrone e di un cagnolino con una zampa e delle costole rotte a seguito di un incidente furono quelli che occuparono la maggior parte del suo tempo.
Di tornare ad allenarsi al circolo non ne voleva sapere, sebbene sentisse il bisogno di muoversi. Guardava ogni giorno il calendario e ogni giorno pensava al torneo che ancora non si era concluso e che con tutte le probabilità Sonja stava vincendo. E sempre pensava a Mr. Harris e ai suoi rimproveri e alla clamorosa sconfitta e alla spossatezza che non aveva saputo combattere.
Negli ultimi giorni di quella fatidica settimana all’ambulatorio veterinario giunse una signora con un cucciolo di cane piccolissimo che non mangiava più. La pelliccia, bianca con qualche macchia marrone e nera, e la conformazione fisica del cane fecero subito pensare ad Anya ad un incrocio di setter inglese. La padrona le disse che a causa di alcune complicazioni, la mamma dei piccoli era morta qualche giorno dopo il parto e che dei quattro cuccioli era rimasto solo quello.
Kate lo visitò attentamente, ma non diagnosticò nulla di anomalo. Disse alla padrona di dover trattenere la bestiola in ambulatorio fino a che non si sarebbe rimessa del tutto e quando la donna se ne andò lo affidò alle cure della figlia.
- Non potrò occuparmene subito – le disse avvolgendolo in una copertina di lana - perché devo fare la radiografia al cane con la zampa rotta …
Anya annuì prontamente, prendendo il fagotto tra le braccia. – È un cucciolo, Anya, quindi niente latte vaccino. Troverai del latte in polvere per cani nella dispensa. Per il resto sai cosa fare …
Da un basso mobiletto accanto alla porta Kate prese una scatola e la pose sul lettino delle visite. Anya vide che conteneva gli strumenti necessari per l’allattamento: un biberon, dei ciucci di sostituzione e un lungo cucchiaino, forse per miscelare il latte in polvere all’acqua. Sistemò meglio il fagotto su un braccio e prese la scatola per guardarvi meglio dentro.
- Adesso – riprese Kate con un’occhiata all’orologio – devo andare. Sono in ritardo … ci vediamo dopo!
Le diede un bacio sulla fronte, come faceva sempre per salutarla, ed uscì.
Nello stesso momento il cagnolino si mosse con un guaito e Anya pensò bene di iniziare a darsi da fare.
 
 
La testa era diventata parecchio pesante. Si buttava da un lato all’altro in continuazione, sulle note di un sonno che la cullava da qualche ora.
Gli occhi lacrimavano e si chiudevano. Anya sbadigliava, ma le forze per aprire e chiudere la mascella si esaurivano man mano.
Tra le braccia teneva ancora il fagotto con il cucciolo ed era rannicchiata a ridosso di una parete, circondata da ripiani metallici con strumenti medici sterili e dispense varie in cui erano conservati i medicinali più importanti. L’oscurità, rischiarita dalla luce dei lampioni che filtrava dalle imposte e da una lucina accesa all’altro capo dell’ambulatorio, aveva conciliato il sonno sin dal tramonto del sole.
Un fruscio appena percettibile tra le calde coltri la risvegliò e istintivamente mosse le braccia per cullare. Ma ricordò che non si trattava di un bambino, bensì di un cucciolo e si fermò, anche perché era troppo stanca per continuare.
Sollevò il braccio destro piegando il polso per controllare l’ora e si accorse di avere in mano il biberon pieno per metà di latte. Lo scosse con l’incertezza tipica del sonno e lo riabbassò; poi, in un singulto di curiosità, mosse le dita e borbottò un’imprecazione strascicata. Il latte si era raffreddato e quel che c’era di peggio erano gli strumenti fuori portata. Per raggiungerli avrebbe dovuto alzarsi.
Ebbe pochi minuti per riposarsi, prima che il cucciolo si risvegliasse e iniziasse a piagnucolare. Per sbaglio, lo cullò di nuovo e si alzò di malavoglia per scaldargli il latte.
Sul ripiano accanto al fornelletto c’erano i resti della sua cena: la carta di una focaccia con rucola e bresaola, una lattina vuota di birra, un involto con le insegne del locale. Mise il biberon nel pentolino d’acqua e accese il fornelletto. Cullò ancora il cucciolo, che continuava a mugolare, e presa dalla necessità di stiracchiarsi lo poggiò con tutto l’involto di coperte sul lettino delle visite e sbadigliò per un lungo momento, le braccia alzate e le dita incrociate. Istintivamente cercò una sedia per sedersi accanto al lettino, la ricordò presto che sua madre non era solita usarne, anche perché visitare un animale seduta non sarebbe stato comodo. Le uniche si trovavano nella sala d’aspetto.
Si versò un po’ di latte sul dorso della mano e accertatane la buona temperatura spense il fuoco. Il cucciolo si attaccò immediatamente alla tettarella, spingendosi in avanti con le zampette delicate e suggendo con la forza di chi ha fame. Anya continuò a guardarsi intorno alla ricerca di un modo di stare più comoda. Sospirò.
Mentre il cucciolo continuava a poppare fece caso al silenzio dell’ambulatorio e all’assenza di rumori nella strada. Solo allora ricordò di non aver ancora visto che ore erano e cercò con gli occhi l’orologio dell’ambulatorio. Corrugò il mento, sollevò un sopracciglio. Si erano già fatte le dieci di sera.
Quanto ancora il cucciolo avrebbe avuto bisogno di lei?
Pensò di metterlo in una scatola, su una copertina autoriscaldante, ma la prospettiva di lasciarlo tutto solo di notte non le andò per niente a genio. Si sarebbe svegliato sicuramente e l’avrebbe cercata. No, non sarebbe riuscita a dormire sapendo che non c’era nessuno con lui.
Si spostò così in sala d’aspetto e sedette, con enorme sollievo, su una sedia imbottita. Il cane continuò a ingurgitare latte e, guardandolo, Anya capì di essere di nuovo perfettamente sveglia.
Di tanto in tanto una macchina di passaggio rompeva il silenzio o si udivano delle voci incomprensibili dalla fine della strada o dal marciapiede opposto, ma in generale i rumori erano veramente pochi, perché l’ambulatorio aveva sede in un quartiere isolato nella periferia di Dublino.
Dopo dei giorni all’insegna dei dubbi, del chiasso, di quella collosa, morbosa sensazione di sconfitta e rifiuto, quella calma assoluta, quella quiete che tanto pressava sulle orecchie, ma che avvolgeva il cuore di un’insolita pace, fu una delle cose più belle di quell’ultimo periodo. E guardare quella piccola creatura che mangiava con tanto entusiasmo non poté che amplificare quella pace, donandole delle preziose sfumature di gioia. Un formicolio le solleticò le pareti dello stomaco, risalì lungo la gola e inondò gli occhi di tenerezza. Se quello scricciolo aveva ancora tanta vitalità era anche merito suo.
Fu con quell’espressione rapita che si voltò di scatto verso la porta quando questa si aprì. La commozione fu mascherata solo inizialmente dallo spavento, ma alla vista del visitatore tornò e si miscelò ad un grande sorriso.
Paride non trovò parole per salutarla. Gli occhi lucidi di Anya parlarono per entrambi e un nodo gli strinse la gola come un foulard di seta. Conservando le chiavi in una tasca del jeans si avvicinò lentamente, con la stessa incredulità di chi è di fronte al più bel quadro del mondo. Con un fagotto fra le braccia e un biberon tenuto con tanta accortezza, Anya gli sembrò una mamma che allatta il figlio e per un attimo, istintivamente, immaginò che l’essere che teneva in braccio fosse figlio loro.
Anya si alzò per abbracciarlo e allargò leggermente le braccia per permetterglielo. Paride indugiò, ancora ubriaco di quell’inattesa tenerezza, lanciò un’occhiata al fagotto, poi guardò lei e si avvicinò ancora di un passo, fino a che i loro visi non furono vicinissimi.
Si guardarono negli occhi. Paride le prese il volto fra le mani, con delicatezza, e sfiorò le sue morbide labbra con un bacio leggero. – Ti amo – mormorò a fior di labbra – ti amo …
La baciò di nuovo, facendo lentamente scendere la mano sinistra lungo il collo, passandola fra i capelli, posandola sul braccio e poi sulla schiena, dove si fermò ed esercitò una leggera pressione per avvicinare il suo corpo al suo. Anya lo ricambiò con trasporto, contraccambiando la sua commozione con la gioia di averlo finalmente e nuovamente vicino. Lo abbracciò con l’unico braccio libero, rabbrividendo quando l’altra sua mano scese fino alla vita e ricercò il contatto febbrile con la sua pelle sollevando appena appena l’orlo della maglia. Un attimo dopo Anya sentì il tocco delle sue labbra cambiare, farsi più fremente e la presa delle mani variò di conseguenza, preda di un nuovo pulpito emotivo. Tentò di cogliere dei segni più evidenti sul suo viso, ma lui, cosciente o no, non lasciò che lo scoprisse e scese a baciare il collo, fermandosi poi sull’incavo fra questo e la spalla. Rinsaldò la presa intorno alla vita e Anya, perplessa, lo ricambiò.
Percepì nettamente il battito del suo cuore contro il proprio petto e lo sentì forte, rapido, rassicurante. Riempì i polmoni con dei lunghi sospiri di felicità, ma sulle sue labbra il sorriso si storse e poco a poco si dileguò quando sentì qualcosa colare lungo la spalla. Contemporaneamente il respiro di Paride divenne più irregolare e un respiro più brusco dei precedenti le fece intuire che stesse piangendo.
- Paride … ehi … cosa c’è? – mormorò passandogli una mano sul dorso e cercando di guardarlo in viso.
- No … - bisbigliò lui, carezzandole la schiena – … rimani così. È perfetto …
 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


 An irish tale – Parte seconda
 
CAPITOLO V 

 
 
 
Il signor Quickeye aveva detto che avrebbe piovuto. E quando lei scrutò l’orizzonte, volgendo lo sguardo a ovest, qualche chilometro sopra le montagne, capì quanto avesse ragione; una ragione che si fece ancor più grande allorché il vento intensificò la sua già poco trascurabile potenza.
Un carro trainato da una coppia di grossi cavalli comparve sulla strada, ad una cinquantina di metri più lontano, alle sue spalle. Anche senza vederlo, intuì dal fragore delle ruote che avesse una certa fretta di raggiungere il villaggio e si spostò immediatamente fuori dal sentiero. Solo per un istante le grida del cocchiere soverchiarono il fracasso delle ruote. Una grossa nuvola di polvere fu, insieme ai solchi sulla terra battuta, l’unico segno del suo passaggio. Le mani del vento spazzarono via tutto in un fugace vortice. La polvere danzante si alzò in una spira sinuosa prima di dileguarsi.
Riprese il cammino stringendosi allo scialle. La corrente incollava gli abiti al suo corpo, spingendo ad ogni passo la stoffa nera della gonna fra le gambe. I lembi dello scialle scivolavano suo malgrado dalla presa delle dita e la cuffietta, l’austera cuffietta di cotone grigio, oltre a essere poco adatta ai climi freddi, non resistiva alla pressione del vento e con una mano la sosteneva affinché non ricadesse sulle spalle.
In diverso modo e misura ogni parte del suo corpo era impegnata ad affrontare quella lunga camminata. La mano libera stringeva sottobraccio un involto con un pane di segale e una coppia di tomi con cui aveva appena fatto lezione. Con il passare dei minuti l’incarto che avvolgeva il pane si era divelto e il fruscio della carta copriva a intervalli il silenzio. Quando lo ebbe a noia tentò di porvi fine con una pacca, ma ottenne solo che la cuffietta scivolasse via dalla chioma fulva. Sospirò con avvilimento slegando i lacci del collo e prendendola nella mano sinistra. L’acconciatura non perse tempo a sfaldarsi e il compito di scostare le ciocche da occhi e fronte tornò a occupare la mano destra.
Fortuna, pensò, che mancavano ancora pochi passi a casa.
Il sentiero si inerpicava in una leggera salita di terra battuta e qualche ciottolo calcareo. Il tempo, che non aveva visto il passaggio di calessi e carrozze, gli aveva donato un aspetto pressoché uniforme, aggiungendo, per grazia del clima umido, dei ciuffetti di erba verde ai lati. Vi si inoltrò e finalmente raggiunse la piccola abitazione di pietra.
L’interno accoglieva tutto il necessario per una vita spicciola e senza pretese. La casa era appartenuta ad una famiglia di contadini che avevano preferito spostarsi nelle fabbriche inglesi, il che spiegava la presenza di tre stanze: una cucina e due camere che lei aveva trasformato in camere da letto. Dei tre la cucina era l’ambiente più grande. Al suo centro vi era un tavolo di legno scuro, rettangolare, con gli spigoli scheggiati e il segno di coltelli conficcati sulla superficie; addossato al muro di destra c’era un camino alto abbastanza da permettere di controllare una minestra sul fuoco e tanto grande da riscaldare la casa in pochi minuti anche con le temperature più basse; addossato al muro di sinistra, invece, c’era un mobiletto dove venivano riposti i piatti, i bicchieri ed una quantità di posate che Anya non aveva mai usato tutte. Ai lati del camino e sparse un po’ per tutta la casa erano le sedie, che insieme al tavolo costituivano l’unica eredità dei precedenti abitanti della casa. Le modifiche apportate dalla seconda inquilina erano poche e dettate da un diverso stile di vita: poco distante dal camino, fuori la portata delle scintille, c’era una piccola culla di legno, una sedia a dondolo e ai suoi piedi un piccolo tappeto sbiadito, regalo di una donna che non aveva potuto ripagare in denaro le lezioni al figlio. Quando si sedeva sulla sedia a dondolo aveva quasi sempre Victor in braccio. Era un bimbo di appena sette mesi, l’unica, vera ragione che la spingeva ad andare avanti ed affrontare anche i problemi più difficili. Era suo figlio, il suo mondo, il regalo più bello che il signor Langley le aveva fatto. Quando lo cullava non faceva che pensare a quanto era stata felice alla tenuta di Waterford, a quanto ancora avrebbe potuto esserlo se non fosse accaduto quel che era accaduto. Pensava a Paride, si chiedeva come avrebbe reagito alla notizia della gravidanza. Victor aveva i suoi stessi occhi verdastri, era cocciuto, aveva le mani forti. Come se non bastasse era anche molto curioso, tendeva le braccia verso tutti gli oggetti e quando non poteva ottenerli si aggrappava ai capelli della madre. Anche in quei momenti, Anya si ritrovava a pensare alla possibile reazione di Paride.
 
Il villaggio si trovava nei pressi di Portlaw, a nord ovest della contea di Waterford e a qualche miglio di distanza dal confine con la contea di Kilkenny. Il numero degli abitanti non era alto e infatti il villaggio non vantava dimensioni ragguardevoli. Solo con l’arrivo degli operai era stata costruita una locanda per viaggiatori, ma anche questa manifestava la scarsa abitudine dei cittadini agli avventori: piccola e gestita da una vedova di mezza età, aveva più l’aspetto di una grande casa, mancava di una sala di ritrovo e i pasti si svolgevano in una cucina con un lungo tavolo.
Le case erano circa una trentina, ma ultimamente il loro numero era aumentato per l’arrivo di operai dalla città. Fuori dal villaggio, in un terreno rimasto incolto da anni, acquistato solo di recente da un nobile del sud, si stava costruendo una scuola che portava il suo nome: il P.B.V.T. Langley Istitute. La fautrice del progetto era Anya Bacott, un’istitutrice, a quanto pareva, di Waterford che si era ritrovata per le mani il terreno e un lascito parecchio consistente. A nessuno era chiaro il legame tra i due e ancor meno il motivo per cui questo “generoso” finanziatore non si facesse mai vedere in giro. Per quanto il numero di abitanti fosse basso, circolavano molte voci sia sul suo conto che su quello della ragazza che abitava a mezzo miglio dalla cittadina: qualcuno supponeva che fossero fratelli; qualcun altro che fossero fidanzati; qualcun altro ancora che fossero padre e figlia. Le voci più maliziose giuravano che la ragazza fosse stata sedotta e abbandonata e lui, per zittirla ed evitare di mandare a monte il proprio matrimonio con la notizia della gravidanza, le aveva lasciato un terreno e una rendita da far gola a tutti.
Anya conosceva quelle voci una per una, ma dal suo arrivo non aveva mai fatto niente per smentirle. Anche se fosse, sarebbe stato faticoso e snervante dedicarsi a ognuna. E poi era gente povera, dalle vedute ristrette, e non la biasimava, anche se era oggetto di discriminazione, in quanto ragazza madre; forse era questo il motivo per cui il conte aveva ordinato la costruzione di una scuola in quelle campagne.
I lavori in cantiere procedevano con lentezza. Anya vi dedicava la maggior parte del tempo e in capo a un anno più di un quarto del lascito del conte era stato speso. Quando contava i soldi ne rilevava sempre molti in meno e registrava con il cuore pesante ogni spesa. Per arrivare al cantiere doveva camminare tutti i giorni per almeno un quarto d’ora, spesso sotto la pioggia. In caso di cattivo tempo gli operai non lavoravano e in generale gran parte di loro aveva una salute così malferma da ammalarsi giusto quando i lavori riprendevano. In quattro si erano portati la famiglia dietro e delle abitazioni erano sorte sul limitare del cantiere; durante il giorno i figli degli operai giocavano e correvano senza mai far silenzio, rendendo spesso difficile il lavoro scrupoloso dei mastri muratori. Sparivano quantità più o meno esigue di polvere di calce, cadevano i cumuli di mattoni rossi appena arrivati dalle fabbriche del nord, i cani da guardia abbaiavano senza interruzione, disturbati dalle grida infantili, sparivano gli attrezzi del falegname e le righe di legno dell’architetto. Le vittime andavano a lamentarsi con Anya dritte a casa sua, spesso alla fine di una giornata dedicata anche alle lezioni private, ma lei nulla poteva rispondere se non che erano bambini, che non conoscevano l’importanza delle cose e che bisognava portare pazienza.
La verità era che di quella vita neppure lei ne poteva più e si lamentava con il signor Langley, lo sguardo rivolto al cielo, della sua decisione di affidarle un impegno così dannatamente gravoso. Era lui quello con le capacità organizzative, quello più versato al controllo e più portato al comando. Ne ricordava le espressioni decise, spesso pensierose, le occhiate scattanti che esigevano obbedienza e la spiccata intransigenza. Probabilmente, pensava sempre dopo aver pianto per l’esasperazione, quello era un progetto suo, a cui si sarebbe dedicato di persona; ma perché, in previsione della sua morte, aveva deciso di affidarlo a lei?
Era questo che la rattristiva di più e ci rifletteva sempre più spesso, seduta sulla sedia a dondolo, davanti al camino, i piedi puntati sul tappeto. Avrebbe voluto scoprire la ragione di una tale fiducia, avrebbe voluto scoprire ancora molte cose su di lui; ma il tempo non era stato e non era clemente e anche quando si soffermava su quei pensieri, la mente divagava, divagava, divagava, conducendola sempre a tutt’altro genere di riflessioni, come ad esempio la quantità di patate e cipolle da preparare per cena o l’argomento della lezione del giorno dopo.
Quel genere di serate da qualche tempo erano diventate frequenti. Sedeva davanti al camino con Victor in braccio e si addormentava; si svegliava prima dell’alba, di regola a causa dei dolori, e non riprendeva il sonno neppure se si metteva a letto. Così, ancora vestita e con l’acconciatura disfatta, appena spuntava il sole visitava il cantiere e cominciava a porsi una quantità di domande alle quali non sapeva trovare risposta.
 
Prima di entrare in casa, in previsione della pioggia, si mise tra le braccia un po’ dei tocchi di legna che aveva accatastato ai piedi di uno dei muri esterni. Ne prese quanti più poteva e, piegata al’indietro dal peso, bussò con la punta del piede.
Una voce femminile, incerta, rispose dall’interno.
- Sono Anya!
Non appena la porta fu aperta Anya si precipitò verso l’interno e fece cadere i ceppi in un angolo, poi mise il pane e la cuffietta sul tavolo. Ierne sistemò i ceppi, mentre Anya riprendeva fiato massaggiandosi la schiena e si guardava intorno con una punta d’apprensione.
- Ierne, dov’è Victor?
La donna sorrise, rassicurante – Sta ancora dormendo – disse ravvivando le fiamme con un attizzatoio. Anya ricercò brevemente il suo sguardo, poi corse nella sua stanza. Accanto al letto, in una piccola culla di legno imbottita con un cuscino e qualche coperta, dormiva un bambino piccolo. Anya gli si avvicinò in punta di piedi e si sporse su di lui, visibilmente intenerita e sollevata.
- Si è svegliato mentre ero via?
Non si era neppure curata di vedere se Ierne fosse dietro di lei o la stesse ascoltando, ma la donna, come in previsione di quella domanda, si era avvicinata e osservava madre e figlio con un sorriso. – Neppure una volta, signorina Bacott. Ha dormito tutto il tempo … - mormorò sistemando un angolo della coperta nella culla e scuotendo piano il capo – È proprio un bravo bambino.
Anya carezzò con delicatezza la nuca del piccolo, colorata da una sottilissima chioma fulva, trattenendo l’impulso di prenderlo fra le braccia. Quando Ierne aveva parlato, lei stava percorrendo il profilo del figlio, non stancandosi mai di trovare in quel minuscolo viso una spiccata somiglianza con il padre. Sorrise, serrando la mascella con profondo rimpianto, e deglutì, rimettendosi dritta sulla schiena. Nel sonno, il piccolo serrò le dita piccole e paffute e mosse appena appena un piede.
- Credo che stia per svegliarsi – sussurrò Ierne con un sospiro.
Anya sorrise e le lanciò un’occhiata. Dai suoi movimenti capì che voleva andarsene. E la capiva, perché a breve si sarebbe scatenato un temporale e lei doveva raggiungere la famiglia nei pressi del cantiere. Si allontanò brevemente dalla culla e si volse verso Ierne. La accompagnò in cucina e prese il denaro per pagarla. Nonostante fosse la madre dei bambini che più danni avevano arrecato agli strumenti dei muratori, non concepiva l’idea di affidarle il figlio senza una ricompensa. Anche quella volta Ierne la ringraziò con un gran sorriso, si avvolse nello scialle e uscì.
Ogni volta che Ierne se ne andava sentiva il peso della solitudine piombarle addosso. Il rumore dei suoi passi nel sentiero si dissolveva presto, assorbito dai muri di pietra e dal vento, e d’improvviso gli unici suoni erano il crepitare delle fiamme nel camino e il tamburellare del cuore contro il petto.
Talvolta, vi si aggiungeva il pianto di Victor … come in quel momento.
Corse da lui e, scostata la coperta, lo prese in braccio. Nel riconoscere il tocco materno, il bimbo si calmò un po’, ma dopo un istante il pianto si fece nuovamente forte. Anya andò in cucina, cullandolo e sussurrandogli parole dolci, allontanò la sedia a dondolo dal camino e sedette. Il dimenarsi di Victor la fece sorridere. Si lasciò stringere il dorso di una mano, mentre con l’altra sbottonava l’abito e scostava le sottane. Intuite le intenzioni materne, Victor si quietò di nuovo e allungò una mano verso il petto alla ricerca di un nutrimento che non tardò ad arrivare. Si attaccò al seno con un sollievo ben visibile e cominciò a poppare con grande voracità. Solo in quel momento, alla vista del suo mondo appagato, Anya poté rilassarsi contro la spalliera della sedia.
 
Il rombo cupo del primo tuono giunse attutito tra le mura di pietra dell’abitazione. Anya ringraziò ancora una volta il cielo per averle concesso di trovare una casa così piccola e calda, in una regione in cui il freddo faceva da padrone. L’unico fastidio proveniva dalla pioggia che veniva schiaffata contro i vetri delle finestre dal vento. La casa era dotata di almeno una finestra per ogni camera, ragion per cui ignorare quel rumore non era possibile.
Mentre cullava Victor nel tentativo di farlo addormentare, controllava che la minestra di patate e carote cuocesse sul fuoco del camino. Si chinava spesso per evitare che gli ingredienti si attaccassero al fondo del paiolo, usando un lungo cucchiaio di legno. Sempre più di frequente rimpiangeva i fornelli della tenuta, in cui la fiamma era almeno regolabile. Quando si abbassava, per gioco, essendo pieno di energie, Victor afferrava le ciocche che le erano sfuggite all’acconciatura e tirava forte, facendo gemere Anya di dolore; la cosa pareva divertirlo e nel sentirlo ridere in quel modo, lei proprio non aveva il coraggio, né lo spirito per rimproverarlo. Si spostava i capelli dietro le orecchie e non ci pensava più.
Quando, infine, sembrava aver perduto un bel po’ di energie, dopo aver lungamente discusso a voce alta argomenti che solo lui conosceva e aver ripetuto più volte una storpiatura di “mamma”, afferrandole la pelle delle guance, chiuse gli occhi – fase che richiese una ninna nanna ed un po’ di tempo – e si addormentò. Anya si mise la culla vicino e lo adagiò lì; poi,  dopo averlo desiderato dall’ora di pranzo, si riempì il piatto di minestra. Dedicò alla cena una buona mezz’ora, malgrado il sonno e l’acuto senso di fame, e, intervallando un cucchiaio di zuppa ad una spintarella alla culla e ad un morso di pane nero. Appena finì mise tutto da parte e si preparò per la notte, la tempesta di pioggia e vento a fare da sottofondo.
Trascinò la culla di Victor nella sua stanza e mise mano all’abbottonatura dell’abito, lanciando di tanto in tanto un’occhiata al paesaggio tenebroso oltre la finestra e al figlioletto che dormiva sereno. Si avvicinò al vetro freddo e scostando le tendine guardò meglio fuori. Il paesaggio era avvolto nell’oscurità; solo quando un lampo lo illuminava era possibile vedere le fronde degli alberi scosse dal forte vento e dalla pioggia. Scariche d’acqua si intervallavano a cadute di una grandine minuscola e tamburellante. Il fischio del vento soverchiava ogni altro rumore. Sbigottita e turbata tornò a spogliarsi e indossò in fretta la camicia da notte, rabbrividendo per il contatto dei piedi nudi con il pavimento freddo. A quel punto mise mano alle coperte del letto e si sarebbe coricata se al rombo lontano di un tuono, non si fosse sovrapposto un improvviso tamburellare sul legno. Spaventata, sussultò. Si voltò istantaneamente verso la finestra e affinò i sensi alla ricerca di un altro suono simile, che non tardò ad arrivare. Il tamburellare fu più forte di prima e capì, dal ritmo, che si trattava del bussare contro una porta di legno. La sua.
Con il cuore in gola si alzò e prese Victor in braccio. Il bambino continuò a dormire serenamente, ma Anya per istinto lo cullò, mentre entrava in cucina e muoveva un passo dopo l’altro verso la porta. Altri quattro colpi raggiunsero il legno.
- Chi è? – gridò la giovane, osservando la porta come se dovesse crollare da un momento all’altro. Tese l’orecchio, ma non udì nessuna risposta. Male. Era forse un malintenzionato che sapeva che in casa c’era solo una giovane donna con un figlio piccolo?
Si avvicinò di qualche passo alla porta e chiese di nuovo – Chi è?
Udì, questa volta, nell’impeto del temporale, una voce maschile. Chi bussava era dietro la porta, ma quel suono pareva lontano o come pronunciato a fatica. Strinse a sé Victor, non smettendo neppure per un istante di cullarlo fra le braccia. Guardinga, si avvicinò alla finestra e scostò un lembo della tendina per guardare fuori. Sospirò. Se era un forestiero, mannaggia a lui, perché non andava nella locanda? C’erano letti e pasti caldi per tutti lì! Carezzò con lo sguardo Victor, riflettendo velocemente sul da farsi. L’uomo bussò ancora, con un po’ più di energia e stavolta la sua voce si levò, forte e chiara.
- Non intendo fare del male a nessuno! Non sono armato!
Le parve subito familiare. La conosceva.
Tornò in camera da letto per mettere Victor nella culla e si riavvicinò alla porta.
- Arrivo! – esclamò, coprendosi rapidamente con lo scialle. Ebbe un ultimo attimo di titubanza quando la mano avvinghiò la maniglia, ma, dopotutto, si ripeté, quell’uomo non poteva essere un estraneo. Così aprì.
I mesi di solitudine trascorsi in quella piccola casa di campagna, circondata a larga distanza dalle abitazioni dei contadini, situata a mezzo miglio da un villaggio straripante di gente solo la sera, in quanto durante il giorno erano quasi tutti impegnati nei campi, diede i suoi frutti in quel preciso istante. Il non essere più abituata a vedere uomini distintamente abbigliati, il fatto di essere stata esiliata per quasi un anno in una landa che non vantava la presenza di giovanotti lindi ed educati, ma che pullulava di uomini dai visi raggrinziti dal sole e dai modi burberi, fece sì che il suo volto latteo si colorasse di una sorpresa consapevole e compiaciuta.
L’uomo dietro la porta era tutt’altro che un malintenzionato. Non era un forestiero. Era ben vestito, aveva un bel volto e malgrado il tempo imponesse il contrario, si erigeva con un atteggiamento trasandato e orgoglioso, desolato e fiero. Forse c’era qualcosa di nuovo, ma riconobbe gli occhi color nocciola, i capelli ondulati che ora gli si incollavano sulla fronte e ai lati del volto, l’espressione saccente e gentile. Capì che la differenza rispetto a come se lo ricordava stava nel fatto che aveva tagliato sia i baffi che il pizzetto e quel volto bello e maturo rinnovò in lei il pensiero che aveva avuto la prima volta che si erano incontrati. Che uomo …
- Signor Drebber … - mormorò, incredula.
L’uomo sgranò gli occhi. – An … signorina Bacott!
- Prego – balbettò lei, facendosi di lato – entrate …
Indicò appena l’interno con il braccio, senza distogliere da lui lo sguardo. Drebber si fece lentamente avanti, muovendo gli occhi da un punto all’altro della stanza. Si sentì rabbrividire, non sapeva nemmeno per cosa, se per il freddo o l’emozione, e quando la porta dietro di lui si richiuse tornò a guardare la sua ospite.
- Signorina Bacott … - ripeté, esterrefatto. – Signorina Bacott … siete proprio voi! – e accennò un sorriso.
Anya lo ricambiò con altrettanto entusiasmo e annuì. Lo guardò a lungo. Il viso bagnato, i capelli ondulati e gocciolanti, la figura elegante e per niente intirizzita, i vestiti fradici. Per un attimo si chiese se fosse veramente lui, quel signor Drebber per cui aveva lavorato e che le aveva chiesto di sposarlo. Il sorriso si ampliò impercettibilmente, le guance presero un tocco di colore. Ma come poteva essere?
- Signor Drebber – chiese cacciando un’occhiata alla porta – come mai qui?
L’uomo parve destarsi solo in quel momento dalla sorpresa, ma anche quando parlò, il suo sguardo non perse la curiosa ammirazione per la ragazza. Osservava ogni suo movimento con l’espressione di chi ricorda improvvisamente qualcosa che aveva dimenticato e che non voleva più perdere, come se da  un momento all’altro, se non badava a tenere gli occhi aperti, quel qualcosa poteva dissolversi come un sogno.
Anya chinò leggermente il capo di lato, ricercando il suo sguardo. Drebber se ne accorse solo quando la sensazione di essere osservato si fece palpabile e distolse in fretta gli occhi dal volto latteo che tanto bel tormento gli aveva dato in passato. Si morse un labbro e stirò le labbra in un altro sorriso.
- Torno … - balbettò - … torno da … sono stato a Kilkenny … per due giorni. È un bel posto – annuì, grattando distrattamente la tesa del cappello che teneva tra le mani. – Voi? State bene?
La giovane aggrottò la fronte. – Io? Sì, sto bene … - disse, sentendosi di colpo stupida e ricercando qualcosa da fare. Assunse un’espressione cortese, mentre rifletteva rapidamente su cosa dire. Poi notò la pozzanghera intorno agli stivali del signor Drebber, e, ispirata, indicò subito il camino.
- Avete bisogno di asciugarvi … venite, le fiamme del camino sono vivaci.
Drebber la seguì, posizionandosi di fronte al camino con i palmi delle mani rivolti alle fiamme. Anya gli disse qualcosa sul cappotto, indicò le gocce d’acqua sul pavimento. Ma dei suoi discorsi capiva ben poco. Obbedì, togliendosi la giacca, allungò il cappello alla sottile mano che gli porgeva, si avvicinò un po’ di più al camino. Aveva la gola secca, la bocca secca, le labbra asciutte. E più la guardava più avvertiva il bisogno di idratarsi. Si muoveva con sicurezza, non perdendo mai quel fare così femminile che le era tipico. Gli orli della camicia da notte danzavano intorno alle caviglie bianche, la lana seguiva le forme del corpo, carezzava braccia e fianchi, evidenziava il movimento delle gambe. Come ricordava bene quell’autunno in sua compagnia! Come bene si capiva adesso, ripensando alla proposta che le aveva fatto!
Serrò gli occhi. Si prese per idiota.
- Signor Drebber?
Si sentì toccare ad una spalla e si girò di scatto. – Sì?
- Mi chiedevo se foste venuto in carrozza …
Drebber scosse il capo. – No … viaggio a cavallo. Una cattiva idea, lo so – si affrettò ad aggiungere notando la sua espressione – ma è stato solo a causa di un contrattempo. Alla mia carrozza è saltata una ruota ad una ventina di miglia dal confine.
- Il cavallo è al riparo?
- L’ho legato sotto la tettoia di fianco alla casa.
Anya assentì e guardò il fuoco.
- Con questo tempo – disse senza voltarsi – dovrete aspettare domani mattina per riprendere il viaggio.
Drebber trattenne il fiato. All’emozione si sostituì presto l’imbarazzo.
- Potrete rimanere qui. Ho una stanza in più …
- Oh no, signorina … arrecherei solo disturbo – disse. Ed era sincero. Non avrebbe davvero potuto accettare una tale proposta da una donna che viveva da sola. Anche se quella donna era lei.
- Non recate nessun disturbo, signor Drebber – borbottò tranquilla Anya, tornando a guardarlo.
- Mi ero fermato alla locanda dei viaggiatori, ma la donna che la gestisce ha detto che non c’erano più letti …  - disse - Non mi sono mai trovato in una situazione simile. Vi sono sinceramente grato per la vostra ospitalità, ma non posso proprio approfittarne. Preferisco rimettermi in viaggio.
- Perdereste la bussola prima ancora di fare un miglio – disse lei con un sospiro. – Forse è meglio se accettate la mia proposta.
Drebber esitò.
- Sia chiaro – precisò Anya, fraintendendolo – non sono mai generosa in fatto di inviti. La vostra è una necessità, per questo insisto.
Tacque, non azzardandosi a guardarla. Mosse gli occhi dalla punta dei suoi stivali al camino, poi dal tavolo alle porte sulla parete di fronte. La sensazione di disagio crebbe, ma alla fine accettò. Anya lo fece sedere al tavolo.
- Gradite qualcosa di caldo? Un tè?
- Davvero, io …
- Suvvia, non esitate. Ho della minestra di patate e carote e del prosciutto, se vi va … avete cenato?
Drebber scosse il capo, con un sorriso imbarazzato. Anya si diede subito da fare, mettendogli davanti un piatto pieno di una profumata minestra fumante e una grossa fetta di pane nero.
- Mi dispiace di non avere una di quelle pagnotte bianche che imbandivano sempre la vostra tavola – disse, tagliando una fetta di formaggio - né del buon vino rosso …
Drebber corrugò il mento con un’aria parecchio soddisfatta. Cercò di rispondere, ma le parole gli si fermarono in gola. Ignara dell’enorme gratitudine che Drebber tentava di manifestare con compostezza, Anya mise la fetta di formaggio su quella di pane nero e lo invitò con un cenno a mangiare, mentre metteva da parte il formaggio rimanente.
- Sono io, adesso, a chiedervi di non scusarvi, signorina Bacott …
Anya prese posto di fronte a lui, dall’altro capo del tavolo. Lo interruppe con un cenno della mano ed un sorriso bonario e tentò di ignorare la sensazione di imbarazzo che la prese quando calò il silenzio. Il signor Drebber la ringraziò con lo sguardo e cominciò a mangiare.
- Avete detto di essere stato a Kilkenny? – gli chiese dopo un po’.
L’uomo ingoiò un boccone di minestra ed annuì. – A Thomastown, per la precisione – disse bevendo un sorso d’acqua. L’espressione di Anya lo invitò a proseguire. – Sono andato a trovare la mia … la famiglia della mia fidanzata.
La giovane sgranò gli occhi. Lo stupore fu tale che non seppe cosa rispondergli. Fece un gran sorriso e disse – Da quanto tempo?
- Da quanto tempo siamo … ?
Anya annuì e lo guardò. La flebile luce del camino non nascose il rossore che gli ricoprì le guance. Si chiese, d’un tratto, se fosse stata avventata.
Drebber si schiarì la voce. – Da ieri.
- Oh … Vi faccio i miei migliori auguri, allora! – disse con entusiasmo, sperando di tamponare l’eccesso di curiosità, al quale Drebber non pareva manco aver fatto caso. Ricambiò il sorriso, ficcando in bocca un pezzo di pane col formaggio.
- Come si chiama?
- Chi?
- La vostra fidanzata … sempre se posso chiederlo.
Lui trattenne un sorriso, ma gli occhi brillarono. Li chinò sul piatto, quando rispose – Keira.
- Un bel nome … in gaelico significa “scuro”.
Drebber fece di sì. – Anche se la mia fidanzata è bionda …
La giovane si dimostrò ancora una volta contenta, ma trattenne l’impulso di fare altre domande per evitare ulteriore imbarazzo. Era vero che conosceva il signor Drebber al punto da poter porre qualsiasi domanda, ma era anche vero che non lo vedeva da mesi e la situazione non sembrava particolarmente propizia per quel genere di discorsi. Fuori il turbinio del temporale si era fatto più forte e in particolari momenti la fiamma del camino veniva scossa dalla corrente attraverso la canna fumaria. Lanciò un’occhiata alla cena del signor Drebber e guardò anche lui mentre mangiava, badando che lui non la notasse. Non nascose che fosse veramente un bell’uomo. I capelli gli si stavano asciugando in fretta, piegandosi in maniera disordinata sulle tempie e sulla fronte, donandogli un aspetto più giovanile. Calcolò che doveva avere poco più di trent’anni e scrutò maliziosamente il viso alla ricerca di qualche ruga. Ne trovò qualcuna solo agli angoli degli occhi, ma erano così superficiali da non avere valore alcuno. Si concentrò allora sul movimento delle iridi e poi sulla piega dei lineamenti. Probabilmente stava ancora pensando alla sua Keira. Provava un pizzico di gelosia, ma non negò di essere contenta per lui, che a quell’età non poteva far altro che sposarsi e zittire le chiacchiere sul suo celibato. Notò pure una cicatrice poco sotto il naso e un’altra appena sopra l’angolo delle labbra. Si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima, dato che erano visibili, ma si diede presto della stupida, ricordando che quando l’aveva conosciuto il signor Drebber aveva i baffi.
La mente andò, così, al giorno del loro primo incontro: Anya era al mercato con Greta e Adele e aveva deciso di allontanarsi perché la visione del macellaio che sgozzava le anatre la faceva star male. Si era allora recata in pasticceria e lì l’aveva visto. Sgranocchiava un biscotto con un’aria così spavalda e trasognata da dare sui nervi. Era stato in quel momento che si era offerto di pagare per qualsiasi suo desiderio. Ma lei si era rifiutata ed era tornata alle sue incombenze.
Di quell’incontro e dei regali che seguirono il signor Langley non fu mai contento. Tentò di nasconderli uno per uno – i muffin, l’abito di seta blu per il ballo – ma lui, volente o nolente, trovava sempre il modo per impicciarsi.
- Le vostre riflessioni sono così tristi?
Anya si ridestò di colpo. Solo allora si accorse di aver distolto lo sguardo dal suo ospite e di essersi portata una mano al petto, all’altezza del cuore, stringendo la camicia da notte come se fosse il suo ultimo appiglio. Calmò i battiti con dei sospiri e si voltò. Drebber la guardava, spezzando la fetta di pane nero.
Scosse piano il capo, abbozzando un sorriso. – No …  - mormorò. Mosse le labbra per aggiungere qualcosa, ma tacque.
Il signor Drebber morse un pezzo di formaggio con aria pensierosa. Tacque anche lui e per un po’ si udì solo il crepitio delle fiamme nel camino. Perfino il vento sembrava essersi placato.
- Non vi ho mai detto quanto mi dispiace – disse poi.
Anya lo guardò. – Per cosa?
Drebber ebbe un istante di esitazione. Il movimento delle iridi tradì il rimorso per aver parlato. – Che … - cominciò - … che il conte Langley …
Anya capì e lo interruppe con un cenno fulmineo della mano. Odiava sentirlo dire. – Va bene, va bene – sussurrò, lo sguardo basso. Drebber si irrigidì leggermente, mentre la vedeva stropicciarsi gli occhi e la faccia con le dita.
- Mi dispiace, non volevo essere indiscreto.
- Non preoccupatevi – disse lei, allontanando le mani dal viso. – Sto ancora cercando di farci l’abitudine … - aggiunse sottovoce dopo un po’.
Il volto del signor Drebber non poté esprimere un dispiacere più grande. Gli occhi si sgranarono leggermente, le sopracciglia si incurvarono, le labbra si dischiusero e balbettarono silenziosamente alla ricerca di suoni da articolare. Al contempo le mani si contrassero, i polpastrelli si nascosero nel palmo della mano, il petto si gonfiò e così rimase fino a quando Anya si alzò e si avvicinò al camino, avvolta nello scialle.
- Signor Drebber … non sentitevi in colpa, ve ne prego …
Lo udì sospirare una, due, tre volte. – Ho lasciato Westok dopo averlo saputo – disse, girandosi probabilmente verso di lei. Anya, di fronte al camino, gli dava le spalle. Senza attendere una risposta, continuò – In un certo senso, quelle lande erano legate a lui. Dopo … - titubò. Prese fiato ancora una volta, poi tacque.
Ma Anya immaginava già cosa voleva dire e le lacrime vennero giù da sole. Alla morte del signor Langley, la gestione dei terreni era passata all’amministratore, il signor Hobson, ma questi, avendo uno spirito più commerciale che contadino, non si era rivelato all’altezza dell’incarico e nel giro di pochi mesi gran parte del raccolto era andato perduto. Certo, la colpa non era solo sua, poiché l’inverno era arrivato in anticipo e il freddo era stato intenso, ma nulla le toglieva dalla testa che il conte, a differenza sua, avrebbe saputo come evitare il disastro. Ciò che stava per dire il signor Drebber, quindi, era che dopo la scomparsa del conte la brughiera era stata sopraffatta dal suo lato più selvatico.
Anya si passò il dorso della manica sulle guance.
- Vi ho cercata a lungo. Imogen stessa mi chiedeva di voi e sperava di convincervi a trasferirvi a casa sua, a Cork … - disse, muovendosi leggermente sulla sedia, forse per poggiarsi alla spalliera.
- Nessuno mi aveva detto che vi eravate trasferita qui.
- Perché nessuno lo sa.
Drebber masticò l’ultimo pezzo di pane senza sentirne il sapore. Quando s’avvide di aver finito la cena, nonostante avesse ancora un certo appetito, non osò chiedere nulla e si alzò silenziosamente per mettersi davanti al camino. La sua giovane ospite era come imbambolata dalle fiamme del camino, ma aveva le guance rigate di lacrime che continuavano a cadere. L’occhiata che le lanciò bastò pure a notare quanto poco si sforzasse di contenersi. D’istinto desiderò abbracciarla e rassicurarla fino a che non si fosse calmata, ma qualcosa lo frenò. Un pizzicore ai polpastrelli lo distrasse dall’intento e tese le mani verso le fiamme.
Il silenzio li avvolse nuovamente, ma questa volta il temporale si sentiva bene. Giusto in quel momento fu come se il cielo si stesse spaccando. Il fragore lacerante del tuono fece vibrare i vetri delle finestre e la porta. Accanto a sé, con la coda dell’occhio, Drebber vide la giovane sussultare e guardarsi dietro, in direzione di una delle due camere da letto, prima di correre verso quella a destra. Uno strano mugolio era sembrato provenire da quella direzione. Un lamento che si era trasformato poi nel pianto di un bambino. Senza ombra di dubbio di un bambino. Confuso e ancora scosso dal frastuono del temporale, sul momento non fu in grado di riflettere sulla faccenda. Si pose a stento una domanda circa la ragione per cui un bambino si trovasse in quella casa. Un pensiero sconnesso si susseguì rapido dietro ad un altro, per cui, quando la ragazza ricomparve con un bebè tra le braccia, lo stupore fu tale che sentì qualcosa nella testa venir meno. Guardò il bambino, poi Anya. Colto l’interrogativo, lei sorrise e annuì, non smettendo di cullare il figlio e rassicurarlo con dolci sussurri.
Sbigottito, dimenticando la necessità di asciugare gli abiti che aveva addosso, Drebber mosse qualche passo verso di lei, fissando con un misto di adorazione e contemplazione quel bimbo che con tanto ardore ricercava le attenzioni della madre. Quando fu vicino Anya sorrise di nuovo, ma questa volta con una strana luce negli occhi, un luccichio che non gli sfuggì e che gli strinse la gola in un nodo delicato.
- Signorina Bacott … - sussurrò, allungando una mano verso il bimbo.
- Perdonate la svista, signor Drebber – disse lei. – Avevo dimenticato di presentarvi Victor, mio figlio.
Il petto dell’uomo fu scosso da un singulto simile ad un brusco tentativo di trattenete il respiro e in un baleno la vista gli si appannò.
- Signor Drebber … - sentì dirle - … signor Drebber … state bene?
Lui sorrise. – Altrochè – bisbigliò, passandosi una mano sul collo – altrochè ... – e sospirò guardandola negli occhi – Vostro figlio, avete detto?
- Sì …
Carezzò delicatamente la nuca del bambino, che nel frattempo si era calmato – Vostro figlio … - sussurrò, incredulo - … è bellissimo …
Victor appuntò i suoi occhi verdastri su di lui, sgranandoli appena nel tentativo di studiarlo. Le piccole sopracciglia vermiglie si incurvarono con una leggere contrazione della fronte e la piega degli occhi si distorse. Allontanò una mano dal petto materno per tenderla verso quello strano individuo. Il signor Drebber gli avvicinò la sua, ma lui la rifiutò prontamente e tornò a stringersi alla madre con lieve fastidio. Una breve ventata del suo profumo lo investì, quando ella sbottò in un sorriso.
- È sempre così con gli estranei …
Approfittò della vicinanza della sedia a dondolo con il camino e vi prese posto. Il signor Drebber la imitò prontamente, sedendosi senza mai smettere di fissare il piccolo. A quel punto gli sorse un dubbio.
- E … il padre?
La giovane si poggiò allo schienale della poltroncina. Victor giochicchiava con i laccetti della sua camicia da notte.
- Lo conoscevate – si limitò a dire, senza alzare gli occhi.
Quella consapevolezza, se possibile, fu più commovente della vista di madre e figlio insieme. Altre lacrime, questa volta di dolore e rancore, gli inondarono gli occhi marroni.
Il petto di Anya era stretto in una morsa non meno dolorosa. Vedendolo emozionarsi, aveva trovato la risposta alla domanda che da molto tempo la assillava, e cioè quale sarebbe stata la reazione del signor Langley nel vedersi il figlio davanti. Per un attimo aveva creduto che lui fosse lì, al posto del signor Drebber. I suoi occhi grigio verdi si erano bagnati di lacrime, la mano aveva coperto la bocca e poi era risalita alla fronte aggrottata per lo stupore. Aveva teso le mani per prenderlo in braccio e non appena Anya, nella sua mente, aveva accettato di porgerglielo, lui era sparito e al suo posto era apparso il signor Drebber.
Victor ricominciò a piagnucolare. Si accorse che la guardava negli occhi e arricciava il mento come se in lei vedesse la persona più spaventosa del mondo. Gli carezzò una guancia ed una lacrima cadde sul dorso. Notò allora di avere il viso bagnato e si affrettò ad asciugarlo con un grande sorriso.
Il signor Drebber era poggiato alle ginocchia coi gomiti, le mani sul viso. A intervalli prendeva bruscamente fiato e scuoteva la testa in un muto e sgomento diniego. Che stesse pensando al conte era chiaro dal modo in cui lanciava occhiate a lei e Victor, ma non c’era nessuna accezione maliziosa; di più era angosciato dall’idea che Anya non avesse un uomo al suo fianco e Victor fosse nato senza padre, come spiegò dopo.
- Quei bastardi … - mormorò con rabbia - … ma come hanno potuto?!
Tacque per alcuni minuti. Continuò a tormentarsi con quei pensieri fino a quando la pelle della fronte cominciò a far male sotto il tocco nervoso e pressante dei polpastrelli.
- Quanti mesi ha?
- Ne farà sette alla fine del mese.
- È nato a Marzo? – disse dopo un breve calcolo.
Anya annuì.
- E … lui lo sapeva, quando … ?
- No – mormorò - non lo sapevo neppure io. Ho scoperto di essere incinta solo quando mi sono trasferita qui.
- E non c’è mai stato nessuno con voi?
Avrebbe voluto rispondere di no, che non era mai stata sola, unicamente per evitare di farlo preoccupare. Serrò la mascella e senza il coraggio di guardarlo, scosse piano il capo. Come immaginava, imprecò a bassa voce.
- Neppure uno dei vostri colleghi alla tenuta? Proprio nessuno?
Victor allungò una mano verso i suoi capelli e lei si affrettò a scostarli dietro le spalle. Voleva giocare e probabilmente dopo gli sarebbe venuta fame. Gli avvicinò una mano e li lasciò stringere e mordicchiare le dita.
- Avevo deciso di non dire ad anima viva di essermi trasferita qui perché non volevo gente che mi commiserasse tra i piedi. Era un periodo parecchio difficile, come potrete immaginare, e decisi di approfittare di una piccola parte del lascito di Pa … del conte, per vivere l’inverno qui. Così venni ad abitare in questa casa, acquistata con tutto il terreno. Qualche giorno dopo andai dal medico del paese a causa di un malessere che persisteva da diverso tempo e scoprì di essere incinta. Fortunatamente non soffrì della maggior parte di disturbi che affligono le donne in quello stato e potei dedicarmi alla ricerca di operai per la costruzione dell’istituto … - si interruppe a causa di un morso particolarmente forte di Victor e allontanò la mano – Il signor Langley aveva fatto preparare il progetto da un architetto di Waterford city, con cui aveva concordato perfino la distanza fra un letto e l’altro del dormitorio. Mi stupì scoprire che il progetto risaliva all’inizio del 1855, qualche mese dopo la morte della moglie e della figlia – Fu di nuovo interrotta da Victor che le aveva slacciato la scollatura della camicia e tirava il tessuto alla ricerca del seno. Si sistemò come poteva e allungò un lembo dello scialle sulla scollatura.
- I lavori al cantiere sono cominciati a fine Aprile, un mese dopo la nascita di Victor. Da allora le mie giornate sono così piene che avvertire la mancanza di qualcuno al mio fianco è difficile.
Drebber la scrutò e capì subito che mentiva. Ricordava come avesse rifiutato la sua proposta di matrimonio per amore del conte. Ricordava il modo in cui aveva stretto il suo corpo quando si era recato alla tenuta per il cordoglio e anche la sua figura smorta, appassita, al funerale. Era un dolore visibilmente intenso e ancora adesso ne rintracciava i segni sul viso bianco.
- Vorrei rendermi utile, signorina. Vorrei poter fare qualcosa per voi e per il piccolo …
Anya si strinse nelle spalle. – Ho tutto quello che mi serve … – rispose.
- Perdonate l’indiscrezione, ma come farete quando il lascito del conte si estinguerà?
- Come ho fatto finora. Mi guadagnerò da vivere dando lezioni e quando l’istituto sarà finito lavorerò lì.
- Date lezioni?
Anya annuì con un atteggiamento che somigliava tanto alla rassegnazione. – A chi si fida di una donna senza un marito e con un figlio.
Drebber aggrottò le sopracciglia e, pensieroso, si voltò verso di lei. Victor sembrava averne abbastanza del fatto che la madre dedicasse le sue attenzioni ad un estraneo e puntò i piedi paffuti sulle gambe della madre con un lamento, facendole capire di non voler più stare sdraiato. Lei lo tirò su, sorreggendolo e facendolo poggiare alla sua spalla sinistra. Visibilmente soddisfatto, Victor sorrise e si lasciò stringere. Nel breve momento in cui il bambino aveva spostato lo sguardo nella sua direzione, Drebber notò la spiccata somiglianza con il padre e si sentì invadere nuovamente il petto di una tristezza infinita. Avevano gli stessi occhi e uguale sembrava essere anche l’arcata sopraccigliare. Quel particolare lo impressionò al punto tale che il battito cardiaco ne fu influenzato e la rabbia nel vedere quella ragazza così sola gli contrasse le pareti dello stomaco. Neppure pensare che gli assassini del conte erano morti servì a consolarlo.
Poco dopo Victor manifestò il bisogno di essere allattato, mettendo mano alla scollatura della camicia da notte della madre e lamentandosi ogniqualvolta lei si sistemava. Drebber, intuiti la stanchezza e l’imbarazzo della giovane, pensò di ritirarsi nella camera che gli era stata offerta. Ebbe la fortuna che sia a camicia che il pantalone si erano asciugati completamente.  Continuò a seguire le azioni di madre e figlio, mentre si sistemava per la notte, dai rumori che gli giungevano. Intuì il momento in cui lei attaccò il bambino al seno quando il piagnucolare si interruppe; in seguito la udì alzarsi e fare lentamente avanti e indietro per la cucina. Lo raggiunsero le note di una melodia appena sussurrata e lottando con sempre più fatica contro il sonno, immaginò gli occhietti di Victor chiudersi come i suoi.
 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


 An irish tale – Parte seconda
 
CAPITOLO VI

 
 
 
Dublino 2012
 
Paride le aveva detto che aveva borbottato frasi sconnesse per tutta la mattina, tacendo per lunghi intervalli e parlando per brevi. Non era stato molto preciso perché diceva che si addormentava alla fine di ogni discorso, ma su un punto era stato chiaro: che avesse pronunciato più volte il nome Victor.
Non era parso contento della cosa e conoscendolo Anya non poteva biasimarlo. Calcolando che si era anche svegliato di cattivo umore non osò chiedergli di più e, alzatasi dal letto, era subito andata a farsi una doccia. Solo mentre il getto d’acqua la rinfrescava, poco a poco, cominciò a ricordare i particolari del sogno e giustificare la strana sensazione al petto. Victor non era, come doveva aver pensato Paride, un amico molto affezionato o un amante, ma il nome di un bambino.
Asciugandosi e vestendosi, si propose di spiegarglielo, ma già prima di uscire dal bagno aveva cambiato idea. Raccontare il sogno per filo e per segno avrebbe solo fatto aumentare i suoi sospetti. Lo trovò in cucina, poggiato con entrambe le mani al ripiano di granito. Dato il piglio concentrato dedusse che stava cercando di capire come funzionava la macchina del caffè, che osservava da tutte le angolazioni.
- Vuoi la caffettiera? – gli chiese. Lui scosse il capo. – Ti dico come funz …
- No.              
Non si girò neppure a guardarla. Anya tacque e si allontanò, certa che avrebbe avuto più possibilità di rallegrarsi stando da solo.
Andò ad aprire le finestre di casa e inspirò profondamente l’aria frizzante che la investì. Il cielo stava rischiarendosi solo in quel momento. In lontananza, a est, tutt’intorno al sole, delle nuvolette promettevano di non rendere vita facile alla bella giornata promessa dai meteorologi. A ovest il cielo era ancora scuro, ma già un gruppetto invisibile di merli fischiettava allegramente salutando la notte.
Lasciò ricadere la tenda di fronte la finestra aperta del soggiorno e si avviò verso la cucina. Quando entrò vide Paride drizzare la schiena con un sospiro soddisfatto e aprire le dispense che aveva davanti.
Gli si avvicinò - Stai cercando una tazza?
Paride chiuse le ante della dispensa con un lieve grugnito e annuì, passandosi una mano sul viso assonnato. Anya ne prese una in cui di solito si versava il latte caldo, alta e capiente, con un grande manico. Dalla sua espressione, si capiva che Paride avesse deciso di bere una gran quantità di caffè. Fissò per un lungo momento la macchinetta in malo modo, poggiato al ripiano della cucina, la mascella serrata; si stropicciò ancora una volta gli occhi e la fronte e mentre Anya gli porgeva la tazza, il viso non ancora sbarbato fu solcato da un baleno di preoccupazione che mosse il suo sguardo verso un punto indefinito davanti a sé.
- C’è qualcosa che non va? – chiese Anya dopo un momento.
Il caffè cominciò ad uscire. Paride allungò la tazza, scuotendo il capo senza troppa convinzione. Con una punta di inevitabile sospetto, allora, Anya gli si avvicinò e, poggiandogli una mano sulla spalla, lo costrinse a guardarla negli occhi.
- Non è niente … - disse lui.
- Sputa il rospo.
Paride reindirizzò lo sguardo alla tazza semipiena. Considerò se aggiungere o no lo zucchero. – Riguarda quella relazione sugli studi al parco Tongariro …
Il caffè aveva un colore piuttosto scuro ed era più denso del solito. Agitò leggermente la tazza. Dannato lui e la macchinetta.
- Ma … è caffè espresso!
Non guardò Anya, ma capì che stava pensando la stessa cosa. Mentre la tazza finiva di riempirsi si sentì scuotere da un’intensa irritazione. Se avesse accettato il suo aiuto prima non avrebbe sbagliato e, soprattutto, non avrebbe perso tempo prezioso.
- Dicevi sul parco Tongariro?
- Fra mezz’ora – sospirò con un’occhiata all’orologio – devo uscire per andare all’università di Dublino, dove terrò una conferenza sui miei studi …
Anya assentì, preoccupata come lui che potesse ritardare, ma quelle parole le gonfiarono il petto di orgoglio. Il suo ragazzo, un biologo, avrebbe tenuto una conferenza all’università di Dublino!
Mentre Paride lanciava ancora sguardi fulminei alla macchinetta e al caffè nero nella tazza, constatò dall’orologio della cucina che erano le sette e dieci e che rimaneva effettivamente poco tempo per prepararsi.
- Al caffè ci penso io, se vuoi …
Lui annuì, ma quando stava per uscire dalla cucina, si fermò.
- Anya?
- Sì? – fece lei reimpostando la macchinetta del caffè.
- Domani mattina parto.
Anya si girò a guardarlo. Paride si umettò le labbra, facendo schioccare la mascella – Vado a Londra. Terrò una conferenza anche lì.
- A Londra? E quando torni?
- Mancherò tre giorni … forse quattro.
La giovane storse le sopracciglia, poggiandosi al ripiano con una mano. – Quattro giorni per una conferenza?
Notò come Paride si stesse pentendo di aver parlato. Serrò le dita della mano sullo stipite della porta, si morse il labbro superiore, cacciò un’occhiata al corridoio come se non vedesse l’ora di andarsene. Quel nervosismo la irritò.
- D’accordo, ti assenterai per quattro giorni … - disse con un’alzata di spalle, riprendendo ad armeggiare con la macchinetta - … sta bene. Non ti arrabbiare … mi stavo solo chiedendo se alla fine riceverai una medaglietta per aver battuto il record della conferenza più lunga della storia. Quattro giorni …
Lo udì sbuffare bruscamente e allontanarsi nel corridoio; i suoi passi si arrestarono a metà strada e proseguirono nel soggiorno, dove aveva lasciato le sue cose e dove avevano dormito. Dopo un breve silenzio lo udì salutare sua madre. Kate entrò sbadigliando in cucina pochi secondi dopo. Tra le braccia, avvolto in una copertina, aveva il cucciolo di cane dell’ambulatorio. Capì dall’espressione di Anya che qualcosa con Paride doveva essere andata storta e non disse una parola. Era sicura, anzi, che a breve si sarebbero rincontrati e si allontanò per andare da Linda.
 
 
Era uscito dopo un’altra breve discussione che riguardava l’eccessiva lunghezza di un viaggio che come unico obiettivo aveva una conferenza all’università di Londra. Anya l’aveva accompagnato alla porta senza dire una parola e si era rifiutata di salutarlo quando lui si era sporto verso di lei. Gli aveva consegnato una bottiglietta con il suo caffè lungo e aveva girato il viso per non guardarlo, ma Paride non era nello spirito di accontentarla e le aveva scoccato un bacio contrariato sulla guancia. Una volta sul marciapiede si era guardato intorno con aria spaesata, dimenticandosi dove aveva parcheggiato la macchina la sera prima, quando era andato a prendere Anya all’ambulatorio.
In strada non aveva incontrato traffico ed era giunto a destinazione con un quarto d’ora abbondante di anticipo e parcheggiò a debita distanza dai maestosi edifici del Trinity college, l’università più rinomata e ambita d’Irlanda.
Era la sua prima conferenza. Una conferenza che come argomento aveva i suoi primi studi da biologo, raccolti nella sua prima relazione ufficiale, strapiena di numeri, dati e informazioni da tenere bene in mente, ben marchiati nella memoria. Il nervosismo si tramutò in ansia. Improvvisamente. Alzò lo sguardo su uno degli edifici del campus e prese un grande respiro per calmare le vertigini.
Cercò di non pensare al possibile numero di ragazzi e professori ai quali avrebbe parlato e scese dalla macchina, portando con sé la borsa porta computer e una carpetta che conteneva i dati su carta, delle foto e la scaletta con gli argomenti di cui discutere. Quando chiuse lo sportello, rimirandosi sul vetro, controllò che il colletto della camicia fosse sistemato bene e che la cravatta – dannata costrizione – non svolazzasse esageratamente. Una nuova vertigine lo colse quando rialzò gli occhi sull’entrata del campus. Strinse convulsamente le dita intorno al manico della borsa porta computer e bevve un sorso di caffè. Un gruppetto di studenti, che mentre parcheggiava aveva intravisto in fondo alla strada, gli passò accanto. Alcuni di loro avevano dei libri in mano; altri portavano delle borse a tracolla. Si erano allontanati di una mezza dozzina di passi quando una ragazza sbottò in un’esclamazione irritata che palesava tutto il suo fastidio per dover rinunciare alla sua lezione preferita per assistere ad una noiosa conferenza sugli studi di alcuni biologi in Nuova Zelanda. Il gruppetto, togliendo un paio di ragazzi, approvò immediatamente.
Paride, poggiato al tettuccio dell’auto con il braccio destro, li osservò allontanarsi con gli occhi spalancati. Per poco la bottiglietta di caffè non gli cadde di mano. Quando fuoriuscirono dal suo campo visivo abbassò lentamente lo sguardo sulla borsa porta computer e sulla cartella dei documenti. Poi stappò la bottiglietta di caffè e bevve tutto d’un fiato. Un paio di gocce colarono lungo il mento e si asciugò con il dorso della mano.
Aveva girato mezzo mondo per quelle ricerche. Si era preso un virus e aveva lavorato piegato in due dal mal di pancia. L’avevano pagato non proprio lautamente, gli avevano fatto scrivere una maledetta relazione che lo aveva tenuto una settimana in casa … e ora!?
Ma al diavolo tutti!
Tappò la bottiglietta senza manco guardarla e alzò lo sguardo al Trinity college. Le vertigini lo aspettavano dietro l’angolo. Prese fiato a occhi chiusi e con un atteggiamento che sapeva tutto di sfida …
- Dottor Langley!
Riaprì gli occhi con un sussulto. Una grossa mano gli cadde sulla spalla, in una pacca che somigliava più che altro a uno schiaffo contenuto. Si voltò bruscamente e il grugno infastidito, nel riconoscere il nuovo arrivato, fu presto sostituito da una smorfia cordiale.
- Professore Flann!
L’uomo strizzò gli occhi con una bel simulata allegria. – Alla fine è riuscito a laurearsi, vedo …
- Già.
- Sono contento … - borbottò quello picchiettando la manona sulla spalla del ragazzo. – Sono proprio contento … si è anche specializzato?
Paride mosse lievemente le spalle, infastidito da quella presa che puzzava di tentativo di sottomissione. Annuì, squadrandogli il viso tondo. – Mi sono laureato in …
- Non importa, non importa … - fece quello indirizzando lo sguardo al campus. – Qualunque corso abbia frequentato, Langley …
- Dottor Langley.
- Qualunque corso abbia frequentato, dottor Langley – si corresse quello stringendo le dita sulla sua spalla – è una fortuna che ne sia uscito. Non è da tutti riuscirci …
Paride mosse un passo indietro, liberandosi definitivamente della presa con un sospiro e facendo piegare le labbra del professore in un ghigno a metà. Gli occhi non poterono che cadergli sulla cicatrice che gli percorreva un lato del naso e guardò l’orologio perché Flann non beccasse il suo sorriso orgoglioso e soddisfatto. Se avesse avuto una cicatrice sulle nocche della sinistra, sarebbe stato pubblicamente riconosciuto come l’aggressore del professor Flann; ma lo stesso professore aveva taciuto sulla vicenda per timore di essere espulso dall’università e denunciato. Durante il secondo anno di corso, Paride l’aveva beccato a molestare una studentessa al termine di una lezione, quando l’aula si era svuotata. Era una sua vecchia compagna di liceo e si era avvicinata al professore per chiedere informazioni sullo svolgimento degli esami; dopo poche battute il discorso era degenerato in proposte poco ortodosse e palpeggiamenti da criminale. Paride se n’era accorto solo perché era dovuto rientrare per recuperare il cellulare dimenticato su uno dei banchi, e non c’aveva pensato due volte ad attrarre l’attenzione dell’amica. Il professore l’aveva cacciato in malo modo ed in breve era arrivato ad alzare la voce. L’aveva spinto, facendogli perdere l’equilibrio e il ragazzo, accecato dalla rabbia, lo aveva colpito.
Stava ancora sghignazzando quando gli occhi caddero sul quadrante dell’orologio. Smise di ridere all’istante e tese malvolentieri una mano al professore Flann per salutarlo.
- Oh, dottor Langley … io, naturalmente, vengo con lei – disse quello levando i palmi – Voglio approfittare di queste ore libere per sentire cosa mai avrà combinato in Nuova Zelanda.
Si incamminarono insieme. Flann lo guidò per il campus e per i lunghi corridoi della facoltà con l’atteggiamento di chi è seguito dal cagnolino scodinzolante. Un paio di volte, forse per dispetto, Flann si fermò per salutare dei colleghi e presentargli con un tono di voce svenevolmente mellifluo, quel discreto biologo che a minuti avrebbe tenuto una – chiamiamola così – conferenza, su studi di dubbia utilità e ricerche che prima di allora non avevano mai interessato nessuno che non volesse sperperare soldi in spedizioni simili. Paride offriva sorrisi di circostanza e ignorava senza buoni risultati le occhiate perplesse degli altri professori. Da tempo ormai, non faceva che guardare l’orologio e fissare speranzosamente i corridoi o le porte che l’avrebbero condotto all’aula magna. Ogni volta che Flann smetteva di parlare le sue fughe erano sempre più repentine, malgrado il professore gli piantasse una mano sulla spalla per convincerlo a non avere “tutta quella fretta esagerata”.
Erano ormai vicini all’aula magna quando Flann si fermò per la terza volta. Non sentendolo più accanto a sé, Paride si guardò dietro e lo vide attaccare bottone con un ometto basso dall’aspetto severo, in perfetta antitesi con lui. Non sembrava entusiasta dall’idea di parlargli, ragion per cui Paride pensò che l’incontro si concludesse presto. La sua piccola figura era prevalentemente occultata dalla mole di Flann, così che, quando Paride tornò indietro e lo riconobbe, non trattenne un’esclamazione meravigliata. Era il professor Gregory, l’anziano insegnante con cui aveva preparato la tesi di laurea.
- Non appena ho letto il suo nome, Langley, ho subito cancellato la mia prima lezione di oggi e ho convinto i miei alunni a partecipare – disse incamminandosi in direzione dell’aula magna – È sempre bene che i ragazzi ascoltino con le proprie orecchie quali e quante siano le possibilità fuori dal college per chi studia e si impegna seriamente.
Finalmente entrarono nell’aula. Era enorme, sobria e ordinata come la ricordava. Molti alunni erano già seduti e molti altri ne arrivavano ancora. Intorno alla cattedra si erano assiepati almeno una decina di professori, gran parte dei quali li conosceva, e un paio di assistenti stavano accertando il funzionamento dei microfoni. Fino ad allora era entrato in quell’aula per seguire, mai per parlare. Il professore Gregory gli stava dicendo delle altre cose con un’aria compiaciuta e solenne, ma non lo sentiva più. Aprì e chiuse la bocca come un morto di sete nel deserto, fissando la cattedra che man mano si avvicinava.
- … e ho anche sentito dire che fra non molto tornerà in Nuova Zelanda. Sbaglio, Langley?
Quell’affermazione lo ridestò. Sorrise ad una professoressa che gli tendeva la mano, ricambiò il saluto con una stretta di mano e si sforzò di concentrarsi sulla scaletta che si era preparato. Invano. Sorrise ancora, salutò, assentì. Ripensò al discorso, di nuovo si distrasse. Un pensiero piacevole martellava sulle pareti del cervello. Le palpebre si serrarono nel tentativo di far chiarezza. Gregory gli chiese se andasse tutto bene. Sorrise, annuì. Stava bene … doveva solo capire a cosa stava pensando. Serrò un po’ di più gli occhi, spostando lo sguardo sulle sue mani e poi sulla giacca, sulla punta della dannata cravatta, sugli occhialini del professor Gregory. Poi la compagnia si dileguò e un assistente gli indicò la cattedra, dove tutto era stato sistemato. Vi si diresse. Che gli venisse un colpo se riusciva a capire quale pensiero gli faceva perdere la concentrazione. Consegnò il cd con le slide all’assistente e si avvicinò alla sedia di pelle nera imbottita della cattedra. Si volse agli astanti e diede loro il benvenuto con un sorriso professionale.
Furono spente gran parte delle luci dell’aula, tratte alcuni neon per permettere agli studenti di prendere appunti. L’unica fonte luminosa rimase lo schermo bianco su cui furono presto proiettate le slide.
La conferenza iniziò e Paride parlò tranquillamente per alcuni minuti.
Fu solo quando si girò per mostrare il particolare di una foto del parco Tongariro che, improvvisamente, intercettò quel pensiero opprimente: sarebbe tornato in Nuova Zelanda.
E la mente non poté che collegare ogni preoccupazione verso qualcosa, o meglio qualcuno, che gli stava molto a cuore.
Anya.
 
 
La macchina frenò di colpo per l’ennesima volta.
Linda si colpì le cosce con i palmi. Il suono aspro degli schiaffi la sorprese ancor prima di sentire il bruciore.
- Ma vuoi fare attenzione?!
Anya cambiò marcia con stizza. – Chiudi il becco!
Si era girata appena verso di lei, ma vide bene Linda mordersi il labbro e massaggiarsi le cosce.
- Che mi fai fare! – sibilò notando due grandi chiazze rosse.
Anya scosse il capo, roteando gli occhi.
Mancavano appena duecento metri al circolo di tennis e in strada si avanzava più lenti delle lumache. Più volte fu tentata di spegnere la macchina e farsela a piedi. In un certo momento, in un impeto di rabbia, aveva spento il motore e si era allungata verso il sedile posteriore per prendere la racchetta e il borsone. L’aveva bloccata Linda, in uno dei suoi rari accessi di giudizio.
Quando finalmente parcheggiò, Anya dette un’occhiata all’orologio. Per fortuna, pensò storcendo le sopracciglia, non erano arrivate in ritardo. Mr. Harris le stava aspettando.
O stava aspettando solo lei?
- Che ci trovi di tanto allegro nel tornare ad allenarsi? – chiese, quando notò Linda precipitarsi verso l’entrata. Chiuse la macchina e la raggiunse, bloccandola quando aprì bocca per rispondere.
L’ingresso del circolo consisteva in una stanza che somigliava ad una reception d’albergo. C’era un bancone, spostato leggermente a sinistra, dietro il quale una segretaria gestiva le telefonate, le iscrizioni, in numero di entrate mensili di ogni socio e si premurava di appendere le date e i risultati dei tornei che impegnavano i tennisti del circolo. Nella parete di fronte l’entrata c’era un’altra porta, sempre chiusa per non fare uscire l’aria condizionata o il riscaldamento. La distanza fra una porta all’altra era di appena cinque passi e il tratto di pavimento che le metteva in comunicazione era stato rifatto a mo’ di sentiero con l’applicazione di ciottoli di fiume. Sulla parete di destra, a metà strada, c’era la porta di un bagno.
- Bentornate ragazze! – esclamò la segretaria quando Anya e Linda entrarono. Solo Linda la ricambiò. Misero sul bancone le card e attesero che la ragazza registrasse gli ingressi.
Avendone fin sopra i capelli di stare ferma e calma, Anya cominciò a fare avanti e indietro per la stanza, sbuffando sommessamente e guardandosi un po’ attorno per vedere se qualcosa, in un mese di assenza dal campo, era cambiata.
- Sei per caso di cattivo umore, Anya?
Ma no, non c’era niente … la parete di destra era, come sempre, costellata di foto d’ogni sorta: ce n’erano degli allenatori ai tempi in cui gareggiavano, dei grandi campioni passati e presenti, degli allievi più promettenti e di quelli che riscuotevano già grande successo. Fece scorrere lo sguardo da una foto all’altra, scrutò una foto di gruppo in cui c’era lei all’età di diciotto anni vicino a Linda e Mr. Harris, ghignò e passò rapidamente oltre. Con un’occhiata d’insieme riconfermò che non ne era stata aggiunta nessuna e si voltò verso il bancone, dietro il quale il ticchettio delle dita della segretaria sulla tastiera le diede la conferma che gli ingressi erano stati registrati.
Un momento dopo lei e Linda erano pronte per uscire. Linda andò per prima, Anya perse tempo per posare la card nel portafogli. Sul punto di aprire la porta, però, le tornò la frenesia. Non l’aveva notata prima, o almeno l’aveva confusa con una di quelle che si trovavano anche nei giornali, ma appiccicata alla parete, a sinistra della porta, c’era una foto di Sonja McKintoschk con un trofeo in mano. Una coppa placcata in argento con lo stemma del parco nazionale dove si era disputato il torneo. Quel torneo.
La giovane tennista inglese sorrideva a trentadue denti, vestita con un completo che metteva in evidenza le gambe e le braccia muscolose.
Senza un perché, Anya fissò quel fisico a lungo, concentrandosi maggiormente su quei polpacci che l’avevano fatta saltellare come una molla per tutta la durata del match. Li aveva visti anche mentre giocavano: sembravano d’acciaio.
D’impulso contrasse i suoi. Dentro le tasche del pantalone della tuta, i pugni si serrarono con forza.
Sentiva di aver perso la sua dignità di sportiva in quel torneo. Mr. Harris l’aveva fatta apparire per ciò che non era: una pappamolle col fiato corto, le gambe di piombo e le braccia deboli. Maledetto lui. Lei era molto più di una pappamolle. Non aveva nulla da invidiare a quella boriosa con le treccine bionde.
Si appressò rabbiosamente a Linda e insieme raggiunsero gli spogliatoi.
 
Le ragazze che la videro tornare ad allenarsi ebbero molto da chiederle. I tornei erano motivo di gossip per tutte; ma le domande più frequenti riguardavano Sonja McKintoschk.
Linda ebbe molta cura di tenergliele lontane mentre si riscaldavano. Scelsero un campetto libero ed eseguirono gli esercizi nel totale silenzio.
Dal modo in cui la vedeva chiudere gli occhi e scuotere periodicamente il capo, Linda capì che sua sorella cercava di scacciare qualcosa dalla mente. Mentre riprendeva fiato le volgeva spesso le spalle e contraeva le dita delle mani. L’affetto che la legava a lei la portò più volte ad aprire la bocca per chiederle cosa, di preciso, non andasse, per chiederle di parlarne con lei. Ma mai una parola pronunciò.  Sua madre le aveva detto che quella mattina lei e Paride avevano avuto dei diverbi e lui non si era ancora fatto sentire. Poteva essere quello che la crucciava? O l’essere tornata ad allenarsi?
 
A tutte le preoccupazioni che aveva già aveva dovuto metterci pure Sonja.
Cosa doveva aspettarsi da Mr. Harris come sorpresa post-torneo? Le avrebbe sbattuto un fascio di banconote in faccia, come premio per la sua stoltezza?
Fosse stato così, almeno ci avrebbe guadagnato.
Voleva liberarsi di tutti quei maledetti pensieri per poter riprendere fiato con calma. Il caos era tale da farle perdere il conto delle flessioni e indurla a farne fin quando le braccia non la reggevano più.
Alla fine dell’ultima serie di flessioni si andò a sedere con la schiena poggiata alla rete verde che delimitava il campo e alzò gli occhi al cielo.
Avvolta da un calore che lei stessa produceva, si portò le ginocchia al petto e vi poggiò la fronte, percependo distintamente le gocce di sudore lungo la pelle di tutto il corpo. Poi, all’improvviso, una voce alta, squillante, la riscosse.
- Le signorine Bacott!
Mr. Harris camminò svelto lungo tutta la rete e quando entrò nel campo batté fortemente le mani. Jack lo seguiva con la racchetta in una mano e tre palle da tennis nell’altra. Anya si alzò in piedi, guardò alternativamente Mr. Harris e Jack con aria interrogativa e infine salutò il secondo con un cenno. Linda non perse tempo ad afferrare la sua racchetta.
- Allora, come va? – chiese l’allenatore di buon umore.
Linda fece mezzo sorriso in segno affermativo.
Mr. Harris guardò Anya. – E a te?
La ragazza abbassò gli occhi solo per evitare di rispondere male. Jack e Linda la guardarono senza capire. Inghiottendo la rabbia e il sarcasmo che l’allenatore di era premurato di farle cogliere, stirò le labbra anche lei, chiedendosi quanto la sua espressione somigliasse ad un sorriso.
- Bene. Possiamo cominciare! – esclamò Harris battendo nuovamente le mani. – Linda, tu allenati nell’altro campo con Jack – indicò quello oltre la rete – Tu, invece, vieni qui.
Anya osservò i due ragazzi allontanarsi.
- Anya?
- Sì?
- Vieni qui, ho detto.
Non negò di provare una punta di paura. Si chinò sul borsone per prendere la racchetta.
- Quella lasciala perdere, per ora. Ti sei scaldata bene? – chiese mentre lei si avvicinava.
- Sì.
- Pure le gambe?
Anya annuì. – Sì.
La squadrò con una rapida occhiata. Il volto niveo era arrossato e lungo le braccia colavano delle goccioline di sudore.
- Perfetto. Fammi sessanta piegamenti.
Dal campo vicino le giunse il rumore della palla che colpiva il terreno.
- Cosa?!
- Ho detto sessanta piegamenti – ripeté Harris, asciutto, massaggiandosi il setto nasale come se non volesse perdere la concentrazione.
Il rumore della palla si interruppe. Anya ruotò appena una spalla per guardarsi dietro. Linda, sbigottita, la fissava.
 
 
Quella sera Paride tornò a casa con un’incredibile sensazione di leggerezza, come se avesse appena dato un esame difficilissimo e ci avesse preso trenta e lode. Quando entrò le sue narici furono invase dall’odore di spezzatino. Fece capolino dalla porta della cucina e Kate, che si aspettava già di vederlo, lo salutò mentre tagliuzzava delle carote.
- Com’è andata?
Paride sospirò. – Bene – sorrise – Molto bene.
Kate ricambiò il sorriso, orgogliosa.
- Anya dov’è?
- Credo che sia in soggiorno … è tornata di pessimo umore, oggi.
- Da dove?
Kate buttò il trito di carote in un tegame. – Dall’allenamento.
Paride assentì con le sopracciglia aggrottate. Si mosse come per far capire a Kate di voler andare da lei e la donna sorrise. – Vai pure.
Entrò prima di tutto il soggiorno per posare la borsa del pc e la carpetta coi documenti. Quindi si allentò la cravatta e appese la giacca allo schienale di una sedia. Udì la voce di Linda, da un’altra stanza, sbottare in un’esclamazione irritata.
- Non ti sopporto quando fai così! – gridava – Sempre lì a dire “Chiudi il becco” e “Stai zitta” e “Levati di mezzo” e fai questo e fai quello! – continuò. Ci fu un tramestio di passi, come se qualcuno pestasse i talloni sul pavimento, poi una porta sbatté e Linda, infuriata, entrò nel salotto, arrestandosi di colpo quando si vide Paride davanti.
- Tu! – esclamò dopo un istante d’imbarazzo, puntandogli il dito contro – Vedi di farla funzionare, perché mi sta dando sui nervi!
La osservò superarlo e andarsi a buttare su una poltrona con un libro in mano. Il suo cipiglio lo convinse a dileguarsi. Buttò la cravatta sulla giacca e sbottonandosi il colletto e i polsini, raggiunse la camera di Anya. Quando alzò la mano per bussare, lei, come se lo avesse visto, lo invitò ad entrare. La stanza era completamente buia. Paride avvertì nettamente le pupille dilatarsi mentre si richiudeva la porta dietro.
- Anya?
- Mmh?
Paride girò il capo, sforzandosi di vedere.
- Sono qui … - mormorò.
Avanzò in direzione del suo letto e a tentoni cercò dove sedersi. La mano destra incontrò uno dei suoi piedi, che lei ritrasse. Inarcò le sopracciglia a quel gesto e sedette lentamente, come se sotto il suo peso il letto potesse rompersi.
Per un lungo momento non parlò nessuno. Paride muoveva le dita sul copriletto, tracciando disegni invisibili; si girava verso di lei, anche se non la vedeva e di tanto in tanto sospirava senza farsi sentire. Poi allungò una mano e incontrò la sua caviglia. Carezzò con delicatezza la pelle e quando fu certo che non si sarebbe spostata, risalì lentamente lungo i polpacci, le cosce, i fianchi, acuendo l’udito alla ricerca di un qualsiasi cenno di fastidio, fino a che non incontrò il braccio. Da lì, con lo stesso tocco leggero, proseguì fino alla piega del polso e le prese la mano. Un angolo delle labbra gli si contrasse con una sorpresa compiaciuta. Anya non rifiutò neppure quel contatto e, anzi, ricambiò la stretta.
- Mi dispiace … - disse dopo un lungo silenzio.
Anya si mosse, forse per trarre le gambe a sé. – Non importa – sospirò – non è la prima volta che ti svegli di cattivo umore …
- Non mi riferivo a quello – mormorò, scuotendo piano il capo. – Parlo di Londra.
Sperò quasi che Anya lo interrompesse, ma lei continuò a tacere. Forse non era neppure girata verso di lui.
- Ultimamente siamo stati molto poco insieme.
Rafforzò dolcemente la presa intorno alla sua mano, carezzandone il dorso con il pollice, fissando il buio.
- Lo so – disse lei a voce bassa dopo un lungo silenzio.
Paride trattenne il fiato. Non ebbe più il coraggio di parlare.
Ripensò agli eventi della giornata appena trascorsa: la conferenza all’università, il pranzo con alcuni dei professori più illustri del Trinity college, Flann compreso, l’incontro fortuito al campus con dei vecchi colleghi e la discussione con Gregory in merito agli studi in Nuova Zelanda, cosa a cui il professore era molto interessato. Paride aveva sempre visto in Gregory il suo ideale di professore, a prescindere dall’aspetto e dagli occhi guizzanti che preannunciavano un carattere severo e intransigente; sin da quando era entrato al Trinity college i suoi modi e le sue decisioni erano riusciti, in qualche modo, a influenzarlo. Ne aveva appreso il metodo di studi e quando aveva scritto la tesi, il confronto continuo, quasi costante con lui, aveva influito pure sul suo modo di pensare, pure senza cambiamenti radicali.
Quando, l’anno prima, gli avevano proposto quelle settimane di studio in Nuova Zelanda, Gregory l’aveva spintonato e ripreso più volte, trasformando la sua refrattarietà in calda accondiscendenza. “Non è il migliore studente che io abbia mai avuto, Langley, ma ammiro la sua perseveranza” gli diceva “la quale, tuttavia, necessita di essere temprata come il ferro. La Nuova Zelanda è il posto giusto. Ci ho mandato i miei figli e se ne avessi avuto la possibilità da giovane ci sarei andato pure io. Senza pensarci due volte”.
E il frequentarlo assiduamente gli aveva dato anche questa sensazione. Il professor Gregory era uno dei pochi che l’aveva consigliato durante l’università, avvicinandosi parecchio alla figura di un padre.
 
Anya cambiò posizione con un mugolio e dalle ginocchia contro i lombi capì che si fosse girata verso di lui. Fece ridiscendere la mano fino al ginocchio e poi risalì leggermente fino a metà coscia, come a volere studiare ogni sua forma.
Se fosse partito, la permanenza all’estero sarebbe stata molto più lunga di tre settimane. Gregory parlava di mesi.
- Hai le mani fredde …
Ritrasse il braccio. – Davvero?
Il cuscino frusciò. Non capì che cosa avesse fatto Anya fino a quando non la udì assentire.
Chinò lo sguardo alle mani che si stringevano l’un l’altra.
- Paride, è successo qualcosa?
Amava quel tono. Una voce carica di una preoccupazione alla quale era capace di dare un’intonazione sempre diversa. Immaginò la sua espressione corrucciata, le sopracciglia lievemente contratte, lo sguardo indagatore. Serrò le palpebre per un lunghissimo istante, si stropicciò la fronte.
- No – disse – perché?
- Dimmi la verità.
- Non è successo niente … - borbottò, abbandonando le braccia sulle gambe.
Ci fu un altro fruscio e il materasso ondeggiò dolcemente. Si voltò istintivamente verso di lei ed ebbe un brivido quando si sentì poggiare la mano sulla schiena. Tacita richiesta. Tacita domanda.
- È stata una giornata stancante … - deglutì, alla ricerca di un tono rassicurante – I professori non facevano che parlare, parlare, parlare …  dopotutto è normale, quando ti rivedono … no? Sembravano contenti … la conferenza è durata due ore buone … non mi sono accorto di avere sete se non quando ho smesso di parlare … sono partito a macchinetta. Come quando ti interrogano, hai presente? e tu sai di sapere e cominci a dire tutto quello ti viene in mente e la gente ti sorride, annuisce … capisce quello che dici … e se ti fermi ti guarda fino a che non riprendi a parlare …
Si interruppe quando sentì il tocco di lei risalire fino alla spalla e poi lei stessa farsi più vicina. Intuì, dal contatto delle loro gambe, che gli si fosse seduta accanto e d’un tratto fu assalito dal timore che non gli avesse creduto.
- Penso – cominciò con lieve esitazione, muovendo febbrilmente gli occhi alla ricerca di un porto sicuro – che le università dovrebbero concedere a tutti gli studenti l’opportunità di fare ricerca sul campo … affiancati da biologi di professione …
Anya non osò interromperlo. Intuì la sua agitazione e lo lasciò parlare quanto voleva, poiché sapeva che l’avrebbe fatto sentire meglio. Poco a poco avvertì la sua voce riprendere il tono consueto e quando tacque ricercò il contatto della sua mano. Fu come se lui non aspettasse altro. La avvicinò a sé, sollevandole le gambe e poggiandole sulle sue, e l’abbracciò.
Anya trattenne un mugugno di dolore per l’acido lattico, quando alzò le braccia per ricambiare la stretta e maledisse quel buio per non poter vedere Paride in viso, non sapendo che nello stesso istante lui lo benediceva perché nascondeva ogni segno visibile di menzogna.


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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


 An irish tale – Parte seconda
 
CAPITOLO VII

 


Waterford, 1857
 
 
L’alba era buia come la notte.
Svegliandosi si era accorto che non aveva ancora smesso di piovere. Fortunatamente il vento era cessato, ma cadeva una pioggia così fitta da non permettere di vedere a più di dieci passi di distanza.
Si appressò al vetro appannato della finestra, passandovi una mano per guardare fuori, e sgranò gli occhi per la confusione che il temporale notturno aveva prodotto nel giardino: il mucchio di ceppi di legno era crollato e nessuno di essi, spargendosi sul fango, era rimasto al sicuro dalla pioggia; foglie secche costellavano il sentiero e la terra bruna, e a pochi metri dalla porta si era formata una grossa pozzanghera fangosa su cui galleggiavano foglie e rametti secchi.
Si stropicciò gli occhi, sbadigliando e indirizzando lo sguardo assonnato al letto. Dalla cucina gli giunsero dei gridolini infantili e una risata cristallina. Sorrise, mentre sistemava al meglio delle sue possibilità il letto. La voce di Anya che motteggiava il figlio gli fece compagnia per tutto il tempo e senza smettere di sorridere, si guardò istintivamente attorno alla ricerca della brocca d’acqua per lavarsi il viso. Il pensiero che in quella casa non ci fosse nessun servo che provvedesse a certi servizi, lo colse nello stesso istante in cu, con sorpresa, vide ciò che cercava: sul comodino ai piedi del letto c’erano una piccola bacinella ed una pezzuola bianca per il viso e sul pavimento una brocca piena di acqua fresca. Gli giunsero ancora i dialoghi fra madre e figlio, più in particolare di una domanda di Anya alla quale Victor rispose con un gridolino divertito. Rise, affrettandosi a lavare il viso e a rivestirsi.
Quando entrò in cucina, illuminata e riscaldata dalla fiamma del camino, Anya stava tagliando delle fette di pane nero e teneva contemporaneamente d’occhio Victor che faceva i suoi soliti discorsetti. Sembrava intenzionata a concentrarsi su qualcosa che la annoiava, ma a cui non poteva pensare tranquillamente a causa dei borbottii del figlio.
Quella mattina la pelle diafana era messa in risalto da un semplice abito blu e la chioma vermiglia che la sera addietro era sciolta sulle spalle, era adesso raccolta in una crocchia che conteneva a malapena le ciocche più corte che incorniciavano il viso. Alzò subito lo sguardo quando il signor Drebber comparve, e gli sorrise.
- Buongiorno signorina Bacott – la salutò lui con un piccolo inchino.
- Buongiorno signor Drebber – rispose lei, piacevolmente sorpresa, muovendosi svelta verso il camino. – Avete dormito bene?
- Sì, grazie.
Sulla fiamma era stata messa a bollire dell’acqua. Il vapore che si innalzava sfiorava con delle volute trasparenti il viso ed i capelli di Anya che si era chinata per prendere una tazza d’acqua. – Mi fa piacere – disse tornando al tavolo, poco più distante da Victor. Drebber avanzò fino alla culla per guardarlo: sembrava avere una gran voglia di giocare.
- Oggi si è svegliato pieno di energie – spiegò la giovane lanciando un’occhiata nella sua direzione, mentre versava l’acqua in una teiera di porcellana bianca. Un piccolo sbuffo di vapore fuoriuscì dal beccuccio. Versò un cucchiaino di tè nell’acqua bollente e chiuse subito la teiera, scostando una ciocca dietro l’orecchio. Drebber riconcentrò l’attenzione sul piccolo. Victor serrava le piccole dita paffute intorno alle zampe di un rudimentale anatroccolo di legno, a cui di tanto in tanto mordicchiava la testa. Alla vista del signor Drebber interruppe di colpo il gioco e storse le sopracciglia come aveva fatto la sera prima, guardandolo con apparente fastidio. Drebber fu tentato di imitarlo, ma non desiderava stargli antipatico, così sorrise.
- Gradite il tè?
Anya stava mettendo in tavola un piatto con delle fette di prosciutto e formaggio, una scodellina con della conserva color rosso scuro e un tagliere di legno con il pane nero. Drebber provò un’intensa sensazione di imbarazzo e scrutò con uno sguardo sbilenco il suo volto gentile. Una parte di lui desiderò ardentemente che la pioggia finisse presto, così che la giovane non avrebbe dovuto più privarsi di niente; l’altra preferiva radicarsi in quella casetta per sempre.
S’affrettò a distogliere la mente da quei pensieri e, ricordata la domanda, assentì ringraziandola, mentre lei finiva di apparecchiare con dei piatti e delle posate prese dalla dispensa.
- Vi prego ancora di scusare l’assenza delle pietanze alle quali siete abituato, signor Drebber …
- Oh, signorina Bacott – la interruppe scuotendo il capo – non ditelo nemmeno per scherzo.
- Non fosse stato per il brutto tempo vi avrei fatto trovare anche del latte caldo e del burro, magari …
Un nodo alla gola lo costrinse a tacere. Sul punto di parlare, serrò le labbra e chinò gli occhi con tenero cipiglio.
- State facendo già tanto per me, signorina – disse poi, schiarendosi la voce – anzi, non avrei dovuto neppure fermarmi per colazione e riprendere il viaggio per Cork, pure se sotto la pioggia. Vi sono infinitamente grato per l’ospitalità che mi state offrendo. Vi sono enormemente debitore.
La giovane arricciò il labbro inferiore con condiscendenza e gli sorrise. Si allontanò per versare il tè nella tazza del signor Drebber e Victor, dalla culla, ricominciò a lamentarsi. I movimenti di Anya si colorirono appena appena d’impazienza e gli occhi corsero rapidi al bambino. Quando lo notò Drebber si era già mosso per raggiungerla e subito si chiese se potesse fare qualcosa per aiutarla. Anya se ne accorse e lo rassicurò con un cenno.
- Fa i capricci. Ha mangiato, ha giocato, l’ho lavato e io sono qui … sia aspetta che lo prenda in braccio, ma come mangio? È meglio lasciarlo stare quando gli prende …
Il posto che occupava a tavola, in ogni caso, la costringeva ad assecondare quel comportamento. Così, quando rimosse la pentola d’acqua dal camino e si accostò alla sua sedia, Victor si quietò. Drebber la raggiunse per aiutarla a sedere.
Per lui fu poco più di un dettaglio, una regola di galateo, un gesto della quotidianità, circondato come doveva essere di donne, nella sua casa di Cork, ma per Anya fece la differenza. Quell’attenzione la meravigliò, la bloccò, la emozionò, quasi la commosse. Si toccò il petto con aria rapita, senza rendersene conto e forse, quando il signor Drebber raggiunse il suo posto e sedette tranquillo di fronte a lei, sorrise. Avvertì un movimento all’altezza delle labbra.
- Dovere – rispose il signor Drebber con un’espressione gentile.
 
Il suo ospite si alzò dal tavolo della colazione con pochi bocconi in pancia. Due fette e poco più di pane nero e qualche assaggio di prosciutto.
Anya tentò di convincerlo a non fare complimenti, ma il signor Drebber fu irremovibile. Accettò solo di assaggiare la conserva di lamponi.
- Solo perché l’avete preparata voi, Miss Bacott – aveva precisato prendendo il cucchiaino che Anya gli porgeva – ma, credetemi, ho lo stomaco chiuso. La pioggia mi rende nervoso.
Anya aveva assentito senza convinzione, ma si era di nuovo allietata quando il signor Drebber le fece i complimenti. Tra sé ringraziò Greta, la cuoca del signor Langley, per averle permesso di rubare alcuni suoi trucchi.
Dopo la colazione, mangiucchiando un pezzo di pane nero, Drebber si accostò alla finestra a sinistra della porta.
- Non ha ancora smesso di piovere – constatò dopo un lungo silenzio. Anya cacciò un’occhiata da sopra le sue spalle, riponendo i piatti della colazione sul ripiano della dispensa, in attesa di lavarli nel lavabo del giardino.
Il davanzale era sufficientemente ampio da offrirsi come sostegno, ma non largo abbastanza da permettergli di sedersi. Vi si appoggiò con una gamba, incrociando le braccia.
Vederlo in quella posizione ad Anya piacque. Era una scena da dipinto. Lo fissò con un sorriso appena accennato. L’elegante figura del signor Drebber era visibilmente costretta in una posa scomoda, ma c’era qualcosa di estremamente affascinante nel modo in cui teneva la fronte poggiata al vetro freddo e in cui, sovrappensiero, masticava il pane. Non indossava ancora il gilet, né il colletto con il cravattino. Era vestito del solo pantalone, coperto fin quasi al ginocchio da un paio di stivali neri da equitazione, e della camicia, che disegnava splendidamente la linea delle spalle e del torace, e sbuffava con morbidezza dal bordo del pantalone. Tenne per un bel pezzo gli occhi puntati davanti a sé, in direzione dei campi a est della casa, poi si girò leggermente verso sinistra e di sbieco osservò il sentiero che si inerpicava fra le basse colline a ovest.
Quando si mise in bocca l’ultimo pezzo di pane, Anya fu tentata di allungargliene un’altra fetta.
Ad un certo punto, dopo quella che sembrava una riflessione profonda e complessa, si mise una mano sul fianco e disse – Credo proprio che avrò il tempo giusto di prepararmi prima che smetta di piovere.
Anya stava controllando che Victor dormisse tranquillo. Ruotò la schiena per girarsi a guardarlo.
- All’orizzonte, a est, le nubi sembrano più chiare – spiegò l’uomo con un cenno al paesaggio – e si avvicinano con intenti più pacifici. Considerando che impiegherei circa dieci minuti a terminare di vestirmi e altri dieci minuti per preparare il cavallo … sì, potrei rimettermi in strada immediatamente e raggiungere la prima stazione di cambio entro due ore al massimo. Con la carrozza sarei a Cork per stasera. 
Victor era immerso nel miglior sonno. Ripensando a come l’aveva ignorato mentre piagnucolava capricciosamente, guardandolo così piccolo, dolce e indifeso, si sentì la madre più crudele del mondo. Distolse gli occhi da lui in preda al senso di colpa e spinse dolcemente un lato della culla per farla dondolare.
- Ne convenite, signorina Bacott?
Dalla variazione del suono della voce, intuì che si fosse scostato dal vetro della finestra. Si voltò nuovamente verso di lui, incrociando i suoi occhi marroni.
- Sì … - disse piano - … con la carrozza viaggerete più velocemente.
Lanciò un’occhiata distratta alla finestra, e riportò lo sguardo sull’uomo, che osservava i suoi movimenti con una strana espressione. Anya pensò che la prospettiva di tornare a casa lo allettasse e alzò un angolo delle labbra in un sorriso incoraggiante; ma le sue sopracciglia brune si inarcarono non nostalgia e le palpebre batterono come se la mente stesse preparando un discorso. Pensieroso, chinò lievemente lo sguardo.
- Posso farvi una domanda, Miss Bacott? – disse poco dopo.
La ragazza assentì, stringendosi nelle spalle – Certo.
Prima di riprendere a parlare il signor Drebber balbettò silenziosamente qualcosa, esitando. – Mi chiedevo … se non risulto troppo indiscreto … cosa farete quando me ne sarò andato?
Suonò più come un’affermazione che come una domanda e la voce uscì con una dolcezza maggiore a quella che il proprietario si sarebbe aspettato. Drebber si diede mentalmente dell’idiota, ma Anya non sembrava averci fatto caso. O, se c’aveva fatto caso, era così assorta da non avere modo alcuno di pensarci su.
- Non saprei … - borbottò, allontanandosi dalla culla di Victor – c’è così tanto da fare qui … probabilmente farò qualche lezione – continuò indicando la finestra – se smetterà di piovere … ma non prima di aver chiamato Ierne …
Drebber sollevò un sopracciglio. – Ierne?
- È la donna che si occupa di Victor in mia assenza.
Annuì automaticamente, ma si sentì prendere il petto e lo stomaco da una strana sensazione, che si affrettò a identificare per decidere all’istante in che tipo di espressione piegare il viso, per sapere come e dove guardare. Era un misto di rabbia, delusione, gelosia. Gelosia.
Gelosia.
Distolse in fretta lo sguardo dal viso di lei per appuntarlo sul paesaggio, fuori, in lontananza, tra le colline e i sentieri, e si morse l’interno delle guance, cercando convulsamente dentro di sé le redini di quel tumulto.
- La donna che si occupa di Victor … - ripeté a bassa voce, incamerando ossigeno. – E, dite, la conoscete bene?
Anya rispose con voce bassa, ma sicura. – Sì.
Sospirò. Un profumo tiepido, dolce, femminile lo raggiunse con un lieve spostamento d’aria. Lo respirò e si sentì immediatamente più calmo e rilassato.
- Ierne – continuò lei – è la moglie di uno dei muratori che lavorato all’istituto. È una donna buona, leale e onesta. Mi fido solo di lei.
Parlò con una tranquillità che nel giro di pochi secondi si ritrovò in perfetta antitesi con lo stato d’animo dell’uomo, il quale, avvedendosi che la fonte di quel delizioso profumo era quasi al suo fianco, a un braccio di distanza, fu preda di uno scatto interiore che per amore della razionalità gli impose di respirare con meno avventatezza. Mascherò quello sleale intento cambiando posizione e con la scusa di voler dare un’occhiata a Victor si allontanò verso la sua culla.
- E … quanti … quanti allievi avete, An … signorina Bacott?
- Tre – rispose lei con una punta di incertezza, avvicinandosi, dopo aver dato un’occhiata al cielo grigio.
- Tre?
- Beh … in verità sono quattro, tre maschi ed una femminuccia, ma quest’ultima ha quasi compiuto dieci anni e per i genitori il poco che sono riuscita a insegnarle è più che sufficiente. Penso proprio che mi licenzieranno, un giorno di questi.
Quell’affermazione distrasse Drebber dal turbamento che gli scuoteva il petto, ma mosse per la seconda volta in pochi minuti il suo lato più impulsivo. Tralasciando ciò che quella sola visione era capace di suscitargli, guardò per un lungo momento la giovane.
- E voi glielo permetterete?
Anya ricambiò lo sguardo senza capire. – E cosa dovrei fare? Di certo non posso costringerli ad accettare il mio servizio.
- Ma avete un bambino piccolo …
- Lo so.
Drebber chinò gli occhi su Victor. – Dovreste parlare con loro e dirgli che avete bisogno di lavorare …
Anya non rispose. La sentì sospirare e forse passarsi una mano sul viso e sui capelli. Lui tese la sua verso il bimbo e gli toccò con estrema delicatezza la nuca, poi le piccole dita chiuse a pugno. I pensieri della sera prima gli riattraversarono la mente e una parte di lui si pentì di aver ceduto Westok, che gli avrebbe certamente permesso di essere più vicino ad Anya e il suo bambino. La voglia di fare qualcosa per entrambi si trasformò in necessità, in assoluto bisogno, ma ciò che sentiva lo confondeva al punto tale che non sapeva da dove cominciare.
- Farei qualsiasi cosa per lui, signor Drebber – mormorò Anya – ma ci sono delle cose che io, nella mia condizione, non posso fare.
Capì che stava riferendosi al fatto di avere un figlio senza essere sposata e all’opinione che la gente aveva di lei. Avvertì distintamente la rabbia tendergli ogni fibra del corpo.
- Ci sono delle convenzioni che non posso scavalcare e delle libertà che non posso prendermi. Devo accontentarmi di quello che ho e andare avanti così, almeno fino a che l’istituto non sarà finito.
Drebber restò in silenzio, continuando a carezzare Victor e tentando di dominare l’agitazione che sfalsava il battito cardiaco.
- Se non sbaglio – disse dopo, riavvicinandosi alla finestra – ieri avete detto che i lavori dell’istituto sono iniziati alla fine di Aprile.
- Sì.
- E a che punto sono arrivati?
Anya non ci pensò molto, ma si ricordò che quella mattina non era andata a controllare il cantiere e che aspettava un carico di mattoni rossi da una fabbrica di Dublino.
- Le fondamenta sono già state scavate ed è appena iniziata la fase di edificazione.
Aveva chiesto ad un gruppo di muratori di mandare a chiamarla nel caso il carico fosse arrivato e aveva consegnato al capo cantiere i soldi per il pagamento. Si trattava di una grossa cifra e istintivamente gettò un’occhiata al paesaggio fuori dalla finestra, ancora ingrigito dalla pioggia. Una morsa strinse le pareti dello stomaco.
- In sei mesi? – disse sorpreso Drebber. Anya annuì distrattamente.
- E i primi mattoni sono stati posati?
Stava pensando proprio a quello!
- Sono arrivati due carichi consistenti il mese scorso e … arriveranno dei mattoni anche questa settimana …
Fremette. Erano effettivamente stati scaricati? E se era sì, il capo cantiere li aveva fatti mettere al riparo dal vento e dalla pioggia, come gli aveva ordinato? Si ritrovò a desiderare ardentemente che il signor Drebber se ne andasse presto, così da permetterle di uscire. Arrischiò l’ennesima occhiata al paesaggio e dovette fare i conti con la pioggia che continuava a cadere. Sembrava non finire mai.
- Dalla fabbrica di Dublino?
La voce del signor Drebber la risvegliò. – Com ... ? Ah, sì, sì … da Dublino …
Victor dormiva. Avrebbe potuto approfittare del prolungamento della permanenza del signor Drebber e lasciargli il bambino in custodia mentre lei correva al cantiere. Si trattava di mezz’ora, forse anche meno. Senza rendersene conto, mentre Drebber riprendeva a parlare, formulando progetti ed esponendo dubbi riguardo all’istituto, prese a camminare avanti e indietro di fronte al camino, cambiando in continuazione la posizione delle mani: dapprima una sullo stomaco e l’altra lungo il fianco; poi incrociate nel gesto della preghiera, sotto il mento; infine una sulla fronte incorniciata dai ciuffi sfuggiti all’acconciatura, l’altra sulla vita. Per fortuna Drebber tenne per tutto il tempo lo sguardo rivolto verso l’esterno.
Quando, diversi minuti dopo, si girò, Drebber lo fece per comunicare una lieta notizia: aveva smesso di piovere. Incredula, Anya corse a guardare, il petto in parapiglia per l’imminenza di un impegno che paventava.
 
- Ebbene, signorina Bacott, è giunto il momento di salutarci – esordì il signor Drebber quando fu pronto. Nel giro di poco tempo aveva sistemato colletto e cravattino, indossato il gilet, la giacca e una lunga redingote grigio scura. Anya glieli aveva messi ad asciugare tutti davanti al camino durante la notte e le guance arrossate del signor Drebber provarono che erano ancora caldi. Si sentì più tranquilla al pensiero che per un bel pezzo non avrebbe sofferto la bassa temperatura e l’umidità.
- È stato un incontro fortuito e piacevole, piacevole davvero – continuò con un sorriso gentile – e spero di rivedere presto voi ed il vostro meraviglioso bambino.
Anya ricambiò il sorriso – Lo spero anch’io, signor Drebber.
Seguì un breve silenzio, durante il quale Drebber guardò la culla e grattò la tesa del cappello come sul punto di voler aggiungere qualcosa che gli bloccava le parole in gola. – Siete molto, molto fortunata, signorina – disse, fermandosi e prendendo fiato nel tentativo di controllare l’emozione. Il pensiero di quello che voleva aggiungere gli stringeva perfidamente il nodo alla gola. Si grattò un sopracciglio e senza alzare su di lei lo sguardo, riprese – Mi dispiace molto che siate così sola …
Il disagio del signor Drebber piegò i lineamenti della giovane in un’espressione di materna pietà. Le sue parole la commossero, inducendola a riflettere ancora una volta sul suo nubilato, ma quando lui riuscì a superare la crisi iniziale e la guardò, sorrise bonariamente per rassicurarlo.
- Suvvia, non vorrete piangere per questo? – disse passandogli una mano sul braccio. – Non sono sola … c’è Victor con me … e poi, ve l’ho detto ieri, con tutto il daffare che ho …
Drebber si passò il dorso della mano sulla fronte e scosse il capo. Per un attimo Anya si aspettò che dicesse qualcosa, ma Drebber si voltò verso la culla e tacque per un lungo momento.
- Signorina Bacott … - disse, una volta smaltita gran parte della commozione, ma con gli occhi ancora lucidi – non so quando capiterò di nuovo da queste parti. Gli affari in prossimità delle feste aumentano sempre e credo che il tempo per i viaggi da questo momento in avanti per me sarà molto poco. Per tale ragione, prima di lasciarci, vorrei farvi una proposta che spero accetterete …
La guardò negli occhi alla ricerca di un cenno d’assenso e Anya lo incoraggiò. Di sicuro non le avrebbe chiesto nuovamente di sposarlo. – Di che si tratta?
- Nella mia famiglia è tradizione trascorrere le due settimane delle festività natalizie con parenti e amici. La sera della Vigilia andiamo alla messa per la nascita di Nostro Signore, a Natale organizziamo un grande pranzo e i giorni seguenti li trascorriamo insieme, dedicandoci a varie attività, come il teatro e la musica … è una delle non tante occasioni che la mia famiglia ha durante l’anno per riunirsi. Ciò che mi domandavo è se vi andasse di omaggiarci con la vostra presenza … dopotutto la mia famiglia ha sempre espresso il desiderio di conoscervi e Brandon sente la vostra mancanza …
Anya immaginò la famiglia Drebber al completo e gli ospiti che avrebbe potuto conoscere oltre loro. Ci sarebbe sicuramente stata anche Keira la sua fidanzata, e la felicità di accettare l’invito si scontrò subito con il timore di poter essere al centro di qualche discussione familiare, essendo pure una ragazza madre. Ma ricordò altrettanto velocemente che qualche giorno prima si era ripromessa di organizzare qualcosa di speciale per le feste, pure se fosse stata sola con Victor. Non le andava per niente a genio che il suo bambino trascorresse un Natale squallido e senza compagnia. E poi, pensò, c’era il piccolo Brandon, il suo primo alunno, il suo Drebber preferito.
- Mi farebbe molto piacere, signor Drebber – sorrise.
L’uomo non seppe come esprimere la sua gioia. Sgranò gli occhi e allargò le braccia come a dire “Magnifico!”.
- Eccellente! – disse. Ruotò sulla suola dello stivale sinistro, lanciando un’occhiata a Victor, e tornò a guardare Anya – Eccellente!
Sorrise e subito pensò che il tempo stringeva e che se voleva partire doveva farlo in quel momento, pena il dover restare in casa di Anya per minimo altri due giorni o, peggiore delle ipotesi, il viaggiare sotto la pioggia e beccarsi una brutta polmonite. Fortunatamente la sua ospite capì e insieme si appressarono alla porta.
- Allora … a presto, signorina Bacott.
- Già – assentì lei – a presto, signor Drebber. Fate avere i miei saluti alla cara Imogen e a Brandon.
Drebber indossò i guanti da equitazione e si passò il cappello sotto braccio. – Lo farò, Miss.
Anya aprì la porta e Drebber uscì Il cavallo era legato, ben al riparo da vento e pioggia, sotto una tettoia che Anya aveva fatto costruire appositamente, malgrado non avesse animali. Drebber si fece leva sulla staffa sinistra e montò in sella, prendendo immediatamente le redini e sistemando la redingote. Il cavallo scalpitò, ruotando su sé stesso con impazienza, e i suoi zoccoli affondarono nel fango. Drebber ricercò lo sguardo di Anya e quando lo trovò le concesse un ultimo mezzo inchino con il capo. Poi diede un colpo di talloni e la sua figura aggraziata si fece rapidamente più piccola, fino a sparire in un sentiero alberato.
 
La sua assenza era nettamente percepibile, ma l’aria della cucina era ancora pregna dell’odore dei suoi abiti. La respirò, sovrappensiero.
 
Si chiese se fosse meglio portare Victor da Ierne o far venire lei a casa, ma si diede della stupida nello stesso istante in cui il dubbio nacque. Si dichiarò poi fortunata, quando avvistò uno degli operai del cantiere camminare verso di esso a una cinquantina di metri da casa sua. Lo chiamò a gran voce e quello, conoscendo lei e Ierne, le fece subito cenno di aver capito e si affrettò.
La donna fu da lei in meno di una ventina di minuti.
- Si tratta della solita uscita, Ierne – disse indossando la sua giacca pesante – Andrò al cantiere, poi passerò dal paese per comprare qualcosa da mangiare. Spero di far tutto nel più breve tempo possibile …
- Vada tranquilla.
La giovane si allacciò frettolosamente la cuffietta al capo e tastò la tasca dell’abito per accertarsi di aver preso le monete.
- Spero proprio di far presto – mormorò – o dovrai confrontarti con un bambino affamato. Dorme da qualche ora, ma questa mattina ha mangiato poco …
- Starà mettendo i primi dentini …
Inarcò le sopracciglia, avvolgendosi il collo con una vecchia sciarpa di lana. – Tu dici?
- Sicuro. I miei figli hanno messo i primi più o meno a quest’età.
Anya si soffermò brevemente a pensarci su e fece un’espressione che tutto diceva della sua preoccupazione per un argomento che pareva preoccupare tanto ogni madre. Perfino Margareth, una volta, le aveva detto che era stata un’ardua impresa placare i dolori alle gengive del signor Langley quand’era bambino.
- Vado – disse ad un certo punto, ridestandosi da quei pensieri. Ierne fece un cenno d’assenso e Anya, vincendo il desiderio di stare con il figlio, si avviò spedita verso la porta, sistemandosi nervosamente la cuffietta e la sciarpa.
Il freddo le ammantò subito il viso. Soffiava un vento leggero, ma gelido. L’aria era umida e pregna dell’odore di pioggia. Si strinse automaticamente la giacca addosso, seppure non sentisse freddo, e superò con un balzo la pozzanghera che si era formata a pochi passi dall’entrata.
Seguì le impronte a U del destriero del signor Drebber per un buon tratto, cancellandole talvolta con il passo cadenzato e rallentato. Poi si inerpicò in un sentiero costeggiante una collinetta e lo abbandonò per ridiscendere lungo un declivio erboso dal quale era visibile il cantiere ed erano udibili i colpi di martello dei pochi operai al lavoro. Camminò per altri duecento metri circa e finalmente giunse a destinazione.
Il cantiere si trovava al centro di un grande prato, protetto da due lati adiacenti da due colline, una delle quali era più rocciosa e con i fianchi più ripidi. A est, a un miglio di distanza, proprio in dirittura del sentiero dal quale Anya era scesa, c’era la città, mentre in direzione sud, nascosta alla vista da una schiera di alberi e dalle case degli operai, c’era la sua abitazione.
Il cantiere non aveva recinzioni abbastanza alte da impedire ai bambini di arrampicarsi e bazzicare a loro piacimento tra un banco di lavoro e un altro. A volte, quando decidevano di stare calmi o erano annoiati, trascorrevano il tempo seduti con le gambe penzoloni sui muretti di pietra grigia, canticchiando o più semplicemente osservando i padri e i fratelli più grandi che lavoravano. Anche quel giorno Anya li trovò lì, con le scarpe e i pantaloni tutti impiastricciati di fango e le facce pallide sporche terra o polvere; quando gli passò davanti, essendo stati rimproverati spesso, ammutolirono e la seguirono con i loro sguardi sospettosi e intimoriti. Anya ricambiò l’occhiata solo per ribadire la propria posizione autorevole.
Più avanti si fermò davanti ad una coppia di muratori che si trascinavano dietro delle lunghe spranghe di ferro. Salutarono Anya con un tono imbarazzato. Lei li ricambiò con un cenno del capo, riprendendo con un sospiro la strada per la capanna del capo cantiere. Man mano che si avvicinava notò un insolito comportamento tra gli operai: molti di loro la salutavano senza alzare lo sguardo; altri, al suo passaggio, smettevano di lavorare con fare quasi colpevole; altri ancora li sorprendeva a guardarla con uno strano cipiglio. Il silenzio regnava sovrano.
Affrettò il passo mentre avvertiva il sospetto e la paura stringere lo stomaco in una morsa dolorosa. La capanna del capocantiere si trovava in una posizione leggermente sopraelevata rispetto al terreno. Funzionava più da ufficio che da abitazione vera e propria e difatti non c’era un letto, né una dispensa per il cibo, ma solo un piccolo camino nella parete di fronte alla porta ed un tavolo pieno di scartoffie, mappe e strumenti di precisione vari.
Nel trovarla vuota, la paura si trasformò in rabbia. Come minimo quel perdigiorno sarebbe arrivato a metà mattina. Uscì immediatamente, non avendo altro da fare, e aguzzò la vista alla ricerca del capo cantiere, ben sapendo di non trovarlo. Imboccò, così, la strada del ritorno, e aveva percorso meno di una decina di passi quando dei mormorii di sollievo si levarono fra gli operai al lavoro. Si fermò all’improvviso. Quella situazione non le piaceva per niente. Scrutò i volti di ognuno e di nuovo calò il silenzio. Si rivolse al muratore più vicino.
- Tu!
L’uomo sbiancò.
- Mi dici cosa sta succedendo? Perché il capo cantiere non è ancora arrivato?
Il muratore esitò. Abbandonò il martello e sotto lo sguardo di tutti le si avvicinò.
- Tornate al lavoro voi! – gridò Anya con gli occhi fiammeggianti. Il silenzio durò ancora qualche istante, poi con un generale parlottio gli operai obbedirono.
- Allora? – sibilò lei tornando a guardare il muratore – Qual è la ragione per cui devo preoccuparmi?
Con un sospiro l’uomo abbandonò ogni indugio. Senza guardarla disse – Seguitemi.
Anya gli si affiancò. Il passo del muratore era più ampio del suo, essendo egli un uomo alto e robusto, ma mancava di sicurezza. Avanzava ostentando disinvoltura, ma sul volto spiccava un’espressione corrucciata e dispiaciuta e si grattava il palmo delle mani con i pollici. I modi di Anya erano visibilmente più decisi, ma i suoi occhi azzurri esprimevano tutta la preoccupazione annidatasi nello stomaco.
Aveva il capo chino quando si fermarono. Il muratore gonfiò il petto con un sospiro, poi alzò un braccio per indicare qualcosa davanti a sé. Anya lo scrutò brevemente, poi ruotò lo sguardo.
- Sono arrivati ieri mattina, dopo che ve ne siete andata.
Lo spiazzo che gli si apriva di fronte era tutto ricoperto di mattoni scuri. Erano radunati in tre grossi cumuli, ma nel loro aspetto c’era qualcosa di strano. Mosse pochi passi con il cuore in gola e con un sussurro disperato e incredulo si portò la mano alla bocca. Ne prese uno in mano e dal peso capì che l’argilla si era impregnata d’acqua. Quando provò a girarlo ne perse la presa e l’impatto con il terreno lo spaccò di netto.
Guardò nuovamente i cumuli e inorridì. Erano tutti nelle stesse condizioni.
 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Angolo dell’autrice:
 
Chiedo venia per la lunga assenza.
Non mi dilungherò con le scuse, ma quello appena trascorso, oltre che un periodo pregno d’impegni, è stato anche un lasso di tempo scoraggiante su ogni fronte creativo.
Ho ripreso a scrivere da pochissimo e spero che stavolta l’ispirazione non venga meno.
Dunque: capitolo lungo e nuovi personaggi in arrivo!^^
Vi auguro buona lettura e buon inizio d’anno scolastico/universitario/accademico!
Baci <3
Ik

 
 
 
An irish tale – Parte seconda
 
CAPITOLO VIII

 


Waterford, 1857

 
Roccia, fango, sabbia, pietra.
I piedi pestavano con forza ogni superficie. Le suole di cuoio erano una labile barriera contro la ruvidità del terreno.
Camminava spedita lungo i sentieri rupestri che indirizzavano i viandanti in paese, gli operai appena giunti alla locanda, i contadini alle case.
L’acqua veniva giù in traiettorie prive di angolo.
Il respiro ansante era la prima parte di lei che si apriva un varco in quel muro umido. Il fiato caldo la precedeva con trasparenti nuvolette di vapore.
I lembi del cappotto logoro la seguivano, calciati dai talloni, insudiciati di fango e acqua sporca.
I fianchi muovevano la gonna a destra e sinistra, forzati all’ondulazione dal passo ampio.
Le braccia piegate, sorreggevano il peso crescente di un piccolo cumulo di mattoni; le mani erano aperte e contratte sulla loro superficie viscida. Non poteva allontanarle senza rischiare che qualche mattone venisse giù, come era accaduto un centinaio di passi prima. Si era voltata a guardare brevemente ciò che aveva perso e guardava ancora, innervosita per questo e per l’obiettivo della camminata.
L’acconciatura si era sciolta quasi completamente. Un ammasso di ciocche ricce e ondulate ricadeva ad incorniciare il viso pallido, col naso rosso per il freddo, ed un’espressione che non prometteva gentilezze.
Continuò a camminare sotto la pioggia battente mentre imboccava l’ultimo sentiero in salita. Le scarpe sdrucciolarono su una pozza di fango e si sbilanciò in avanti, faticando con le gambe per ritrovare il naturale assetto. Perse la presa di un altro mattone, che si conficcò nel terreno molle.
La casa del capocantiere sorgeva in una bassa collinetta alla fine della città. Aveva scelto egli stesso l’ubicazione, nonostante fosse distante un paio di miglia dal cantiere, perché così i poveri operai, che non avevano un cavallo per affrontare quei sentieri che con il maltempo si facevano più che impervi, erano scoraggiati dal disturbarlo quando non era al posto di lavoro. Credeva che in questo modo avrebbe fatto a meno anche della sua giovane finanziatrice, ma si sbagliava di grosso.
Anya colpì la pesante porta di legno con quattro calci ben assestati, piegandosi leggermente in avanti per riprendere fiato e sistemando la presa sul carico con una smorfia di fatica. Poi, mentre aspettava che le aprissero, si volse all’indietro, guardando verso il lontano cantiere circondato dalle colline e chiedendosi se gli operai si stessero mettendo al riparo piuttosto che munirsi di impermeabili e continuare a lavorare.
La porta si aprì con un breve clangore di serratura. Anya si girò di scatto. Sull’uscio comparve Mrs. Russell, la moglie del capocantiere. L’irritazione abbandonò a fatica il volto squadrato. Il cipiglio degli occhi era una muta domanda sul motivo che l’aveva spinta fin da loro e a bussare in quel modo.
- Buongiorno, Mrs. Russell – proruppe la giovane, contenendo a stento la voce. – Cerco vostro marito. Suppongo che sia in casa.
La donna la osservò per un istante, inarcando le sopracciglia; poi si fece da parte e spinse la porta per farla entrare. Anya mosse in fretta alcuni passi verso l’interno. Mrs. Russell chiuse e la seguì. Solo allora sembrò accorgersi dei mattoni che Anya sorreggeva a stento e che le macchiavano l’abito di fango e argilla.
- Vo … volete poggiarli da qualche parte, Miss …
- Mrs. Russell – la interruppe, chiudendo gli occhi per un lunghissimo istante – chiami suo marito, per favore. Devo parlargli.
Ma per la donna non ci fu neppure bisogno di muovere un passo. Ignaro, il capocantiere era già entrato in cucina, fresco di toletta e vestito di abiti costosi e asciutti. Anya gli scoccò un’occhiata malevola, serrando i denti per non mettersi a gridare per la rabbia.
- È un piacere vederla a quest’ora del giorno, signor Russell! – ringhiò, scaraventando con tutta la forza delle sue braccia il carico di mattoni infangati sul pavimento.
L’improvviso tramestio fece trasalire l’uomo, che scattò meccanicamente all’indietro con gli occhi sbarrati.
Anya gonfiò i polmoni d’aria, soffiando dalle narici dilatate. Mrs. Russell, non abituata a episodi del genere, si tenne in disparte con una mano sulla bocca spalancata e gli occhi che si appuntavano ora sul pavimento sporco, ora sulla giovane. Anya sperò che vi si abituasse, perché era stufa di essere presa in giro dal capocantiere e perché credeva che egli l’avrebbe in qualche modo portata a replicare lo spettacolo.
- E questo cosa significa?
Anya serrò le labbra. – Non li riconoscete? – disse con finta sorpresa.
Il signor Russell spostò lo sguardo dal mucchio impiastricciato alla ragazza e poi rapidamente alla moglie.
- Sono dei mattoni – disse, arrischiando un passo avanti per guardare meglio.
- Esatto.
- E quindi?
- “Quindi”? – fece lei, spazientendosi. – Cos’altro vede, signor Russell?
Alla sua destra, la signora si riscosse. Essendo più vicina del marito al mucchio, scrutando con l’occhiata di chi è abituato a valutare una cosa con velocità, disse – Sembrano bagnati …
Anya fissò l’uomo, annuendo con amarezza ed una punta di sarcasmo. – Bagnati …  – sillabò – È per questo che sono qui, signor Russell. Forse lei può darmi una spiegazione.
Il cipiglio del capocantiere si colorò di disprezzo.
- Non devo spiegazioni a nessuno.
Anya strinse i pugni con rabbia. – Quindi lei non sapeva che il secondo carico di mattoni fosse arrivato ieri mattina, dopo il mio ritorno a casa?
- Certo che lo sapevo!
- E perché, nell’imminenza del temporale, non li ha fatti trasferire nel capanno?
- Non c’erano i muli per trasportarli!
Anya storse la mascella. – I muli … - scosse il capo - … i muli …  per tutta la giornata di ieri abbiamo avuto vento, freddo e umidità e lei mi dice che non c’erano i muli? Ma mi ha preso per scema?!
Lo guardò dritto in faccia e di nuovo colse quella strana smorfia disgustata, che Russell si affrettò a ingabbiare dietro un sospiro esasperato.
- Sa che non mi permetterei mai …
Ma Anya fu subito certa del contrario e sentì uno strano formicolio alla gola. Inghiottì il risentimento.
- Ho appena perso duecento sterline, signor Russell – disse conficcando un’unghia nel palmo. – A causa sua ho appena perduto duecento sterline …
- A causa mia?! Miss Bacott, ci vada piano con le accuse!
- Centoquaranta in mattoni e sessanta in malta e calce.
L’uomo guardò sua moglie con un’espressione stralunata, come se Anya fosse impazzita.
- Rimangono meno di tremilacinquecento sterline, signor Russell! – gridò ancora lei – Mi vuole dire come finanzierò i lavori se i miei soldi vengono sprecati in questo modo?
- Infatti non arriverà neppure a metà costruzione!
Anya trasalì. Le parole che si accingeva a pronunciare le si spezzarono in gola. Il signor Russell le puntò il dito contro, seriamente spazientito. Il sangue gli affluì alle guance contratte.
- Non ha ancora imparato niente su un cantiere, Miss Bacott. Niente! Non può venire a lamentarsi qui, in casa mia, del rapido dimagrimento delle … - esitò, conoscendo l’origine di tutto quel denaro - … delle sue finanze, se lei stessa non bada ad ingrassarle! Io non posso farci nulla se i soldi diminuiscono!
- Avrebbe dovuto coprire i mattoni! – urlò Anya, fuori di sé, mentre le guance ricominciavano a bagnarsi di lacrime. – Gliel’avevo esplicitamente ordinato!
Russell non parlò. Parve calmarsi di colpo, volse lo sguardo altrove, oltre la finestra; poi si girò verso il resto dei mattoni sul pavimento. Nel suo volto tipicamente irlandese, Anya non colse alcun cenno di colpa. Serrava e muoveva la mascella nel gesto di chi è impegnato in riflessioni lunghe e tediose e prima di rispondere appuntò i suoi occhi chiari su Anya.
- Non è vero – disse infine, con asciuttezza.
Anya assorbì anche questa; poi alla testa avvertì una sensazione di vuoto che si diffuse velocemente al resto del corpo, mozzandole il fiato.
- Non è vero? – boccheggiò, basita. Girò lo sguardo verso Mrs. Russell, ma il supporto su cui aveva sperato non arrivò, oppure era ben celato dietro quella maschera che fissava il marito e non osava proferire parola per timore di contrariarlo.
- Signor Russell, non le permetto – continuò più debolmente – questa faccenda riguarda pure lei!
Ma l’uomo dissentì. – Si sbaglia.
- La costruzione di quest’istituto riguarda anche lei!
- Miss Bacott …
- Il progetto che il conte Langley ha fatto preparare porta anche la sua firma!
- Miss Bacott! – la richiamò, zittendola all’istante. Anya lo fronteggiò con lo sguardo per un lungo momento; poi lui continuò – È vero. È vero, ho firmato, ma non era stato preso nessun tipo di accordo sul fatto che dovessi lavorare anche come capocantiere. Il mio intervento riguardava le mie sole competenze da ingegnere edile e nient’altro.
Anya si portò le mani al viso per nascondere le lacrime e tentò invano di placare i singhiozzi con respiri lunghi e profondi.
- Il conte si era rivolto a lei!
- Ma a trascinarmi qui è stato un altro … o meglio, un’altra.
Anya gonfiò i polmoni per evitare di lasciarsi andare. Guardò oltre la finestra come aveva fatto lui poco prima, mordendosi con forza le labbra.
- Ha detto bene – sibilò, poco dopo – non è stato lui a portarla qui. Sono stata io a pregarla di farlo … e le ho offerto una paga che nessun direttore avrebbe mai concesso. Avrebbe dovuto essermi grato e invece …
Il signor Russell alzò per un brevissimo istante gli occhi al cielo e sospirò lungamente.
- Miss Bacott …
- … e invece – continuò alzando il tono di voce – una mattina mi sveglio e trovo duecento sterline di materiale completamente inutilizzabile!
- Miss Bacott ...
Questa volta era stata la signora Russell a parlare, preoccupata per il suo livello di agitazione. Anya colse nel suo sguardo un baleno di allarme e immaginò di avere un aspetto terribile, con l’acconciatura mezza sciolta, i capelli completamente bagnati, l’abito chiazzato di fango e le guance sanguigne. Ciò, più che calmarla, intensificò il suo malumore. Ansante, si passò il dorso delle maniche sul viso e scostò, con pochi risultati soddisfacenti, i capelli dal viso.
- Detrarrò i soldi che ho perso dalla vostra paga, signor Russell – disse risoluta.
- Dalla mia paga? – fece lui alzando le sopracciglia. La moglie gli fece cenno di fermarsi. – E ditemi, questo dovrebbe mettermi in difficoltà, come indubbiamente sperate di fare?
Nella sua mente, Anya afferrò uno dei mattoni e glielo tirò contro la fronte, spaccandogliela di netto come un guscio di noce; ma nella realtà riuscì solo a piangere, mostrando coi segni di una disperata e rabbiosa debolezza, l’intento con il quale aveva sperato di mettere in riga un lavoratore pusillanime.
- Sarà meglio discuterne a mente fresca, Miss Bacott – continuò Russell, impassibile – adesso tornate a casa. Agnes, accompagna la nostra ospite alla porta.
Ma Anya non era dello stesso avviso. Russell necessitava di una punizione esemplare. A freddo non sarebbe stato in grado di offrirgliene una adeguata. Prima che la signora potesse toccarla, Anya si asciugò in fretta il viso.
- Signor Russell, non cambio idea. È colpa vostra se ho perso quei soldi e sarete voi a risanare il danno!
- Potrei anche farlo – la interruppe l’altro sventolando la mano, mettendo in risalto la sua agitazione – perché duecento sterline, di certo, non rovinerebbero le mie finanze.
Anya fremette.
- Ma - continuò lui – non voglio che dimentichiate la vostra fetta di responsabilità.
Si avvicinò di un paio di passi, oltrepassando finalmente il tavolo. – Pertanto, non sborserò neppure un halfpenny.
- Signor Russell!
L’uomo fece cenno ad Agnes di pensarci lei e la donna, a malincuore, afflitta dallo stato della giovane, la prese per un braccio.
- Miss Bacott, calmatevi, su …
Anya sottrasse di scatto il braccio. – Siete un farabutto! Se fosse stato il conte Langley il direttore dei lavori, vi sareste comportato così anche con lui?
Russell trattenne un ghigno e fece finta di pensarci su. – Non saprei … ma di certo ragionare con lui sarebbe stato più semplice – disse, inarcando un sopracciglio. – Dimenticherò questa conversazione e ne riparleremo domani. Tornate dal vostro poppante, Miss Bacott.
A quell’affermazione perfino la signora gli cacciò un’occhiata di fuoco, ma bloccò subito la ragazza quando questa fece per scagliarsi contro di lui.
Anya si ritrovò fuori dalla porta in un batter d’occhio e con la stessa velocità il battente le si chiuse davanti. 
 
Osservò il legno a un palmo dal suo naso per dei lunghi istanti, sull’orlo del pianto.
Ma non doveva piangere. Non doveva. Non per una ragione così futile.
Perché, in un modo o in un altro gliel’avrebbe fatta pagare.
Un passo alla volta si allontanò dall’abitazione, calpestando pietre e fango, sotto la pioggia battente, ansando e tremando in preda ad un’inquietudine che non capiva. Quando giunse alla fine del sentiero in discesa, scivolò e cadde mezzo sdraiata in una pozzanghera. Solo in quel momento capì e un impulso risalì dall’addome alla gola. Ringhiò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Subito dopo scoppiò a piangere e, ignorando l’acqua che filtrava velocemente attraverso il vestito e la biancheria, si strinse le ginocchia al petto.
Dalla cima della collina, qualcuno di sporse. Avvertì dei passi nonostante lo scroscio della pioggia e fissò il vuoto quasi sperando che qualcuno andasse a consolarla. Ma nel giro di pochi istanti i passi e i borbottii svanirono, e rimase sola.
Lo sguardo corse automaticamente al cielo plumbeo e il senso di umiliazione si trasformò istantaneamente in straziante nostalgia.
 
Non capì quanto fosse rimasta ai piedi di quella collina, con gli abiti impregnati d’acqua, esposta al vento gelido. Quando riuscì a calmarsi e si alzò, una vertigine la sbilanciò di lato e per sorreggersi affondò involontariamente la mano nel fango. La vide come l’ennesima umiliazione, ma, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto ricominciare a piangere per l’assenza di forze.
Fece un bizzarro tentativo di sistemarsi lo scialle fradicio sulle spalle, ma lo accartocciò e se lo mise sottobraccio.
Camminò più a lungo di quanto avesse sperato, rabbrividendo di continuo per le goccioline di pioggia che colavano lungo il collo e il petto. Esausta, si poggiò ad un muretto di pietre grigie nel bel mezzo di un pascolo verde, superò il cantiere e imboccò il sentiero di casa, preoccupandosi per il suo aspetto e dell’impressione che avrebbe fatto a Victor se l’avesse vista. La porta di casa si aprì quando le mancavano ancora una decina di passi e Ierne comparve sulla soglia, visibilmente preoccupata. La raggiunse di gran carriera e, prendendola per un braccio, la condusse velocemente dentro.
- Oh, Miss Bacott … - mormorò chiudendosi la porta dietro - … avete un aspetto terribile … cosa vi è successo?
Anya eclissò gentilmente la mano che la donna avvicinò al suo viso e scosse il capo, guardandosi intorno. – Dov’è Victor? – chiese, con la voce roca per il recente sfogo.
- Sta dormendo.
Anya avanzò verso il centro della stanza, schiarendosi la voce. - Ha pianto?
Ierne frenò il suo tentativo di raggiungerlo, prendendola per entrambi gli avambracci. – Miss Bacott … - mormorò, confusa – guardatemi, per favore …
- Ha pianto, Ierne?
- Sì – annuì – ma solo un pochettino, perché doveva essere cambiato. Ora guardatemi, per favore.
Rafforzò gentilmente la presa intorno alle braccia e Anya obbedì, voltandosi lentamente.
- Cielo … - sussurrò la donna carezzando il suo viso latteo con lo sguardo sgomento. Gli occhi di Anya si colmarono con facilità di nuove lacrime calde. Ierne sondò la sua figura intera, accigliandosi ancor di più.
- Andate a cambiarvi, Miss Bacott – sussurrò, apprensiva – o vi prenderete un malanno così ridotta …
La ragazza assentì col capo e lentamente si dileguò. In camera sfogliò il corpo magro dagli indumenti fradici, dal primo all’ultimo. Abito, gonna, biancheria. Si ritrovò nuda nel giro di pochi attimi. A denti stretti si rivestì.
Tornò in cucina rassicurata dalla visione di Victor placido e calmo nella sua culla, avvolto in coperte candide quanto il suo essere innocente. Ierne impegnata al camino le ricordò di non aver comprato nulla da mangiare e la frustrazione montò insieme alla rabbia. Serrò con forza i pugni, presa dalla voglia di darseli in testa. Ierne lo notò e le fu presto vicino.
- Sono una stupida … - sibilò con le labbra tremanti, passandosi una mano sul viso. – Una stupida.
La bloccò con un gesto stizzoso quando cominciò a scuotere la testa.
- Non so badare alla casa, al denaro, al cantiere … dimentico di comprare da mangiare, sperpero il denaro … fra poco dovrò interrompere i lavori perché non è rimasto materiale … - la voce si incrinò - i mattoni sono andati tutti distrutti, la malta si è rovinata … Russell ha proprio ragione – si coprì gli occhi con una mano – sono una sprovveduta … una stupida!
 
A nulla valsero le sollecite rassicurazioni di Ierne, che poco dopo, quando la pioggia si placò, fu gentilmente congedata. Prima di andarsene la donna le indicò una minestra che si era premurata di preparare in vista del vento freddo; stava ancora cuocendo nel camino. Anya ne sfiorò distrattamente la superficie con il mestolo in legno, scoppiando le bollicine di cottura, prendendo una cucchiaiata e facendola ricadere con apatia.
Quando stava per sedersi a tavola per mangiare, Victor bloccò il suo braccio a mezz’aria con un pianto che la diceva tutta sul suo appetito. Non le restò altro da fare che attaccarselo al seno e rassegnarsi al dover pranzare ancora una volta con un piatto di minestra fredda.
I pensieri di quella mattina non la abbandonarono neppure con il figlio vicino. Mentre lo guardava poppare fu presa dal timore che il suo animo incagliato potesse produrre latte cattivo e tentò vanamente di calmarsi, regolando la respirazione, volgendo la mente verso qualcosa di bello. Acuì l’attenzione sui ricordi legati al signor Langley, sulla sua vita alla tenuta e sul lavoro massacrante che la sfiniva ma che la aiutava a non pensare a niente. Con Paride ottenne di calmarsi e forse, parte di quella pacificazione confortò Victor, perché lo vide ancorare una mano paffuta alla stoffa dell’abito in una presa rassicurante.
Desiderò ancora una volta che Paride fosse lì, a badare a lei, a Victor e al cantiere, che la privasse di ogni gravoso impegno e che facesse lui le scelte che lei paventava e rimandava di giorno in giorno. Si ritrovò a guardare oltre la finestra, quasi nella speranza di vederlo ricomparire, a cavallo di Fedor, bello e autoritario come era sempre stato. Agognò i suoi occhi, il ricordo dei suoi baci e delle sue carezze la ammantò in un piacevole calore, scaldò il petto, scompigliò piacevolmente lo stomaco. Chiuse gli occhi, ripercorrendo col pensiero il loro primo bacio e il pomeriggio alla cascata. L’odore virile della sua pelle aleggiò intorno alle sue narici come se lui fosse presente. E la sua voce … sì, risentì anche quella.
Ma quel flusso di coscienza, come ogni cosa fittizia, non era destinato a durare. I suoi ingannevoli colori, le immagini, si dileguarono svelti al rombo di un tuono come fumo voluttuoso nel vento.
Gli occhi si riaprirono e in un’orbita semicircolare ripercorsero, rapidi e lenti, illusi e consapevoli, i contorni degli oggetti intorno a loro. Infine si posarono su due corrucciate iridi verdastre e parvero rasserenarsi.
 
 
Nel pomeriggio il tempo non fu più clemente del mattino.
Non lo era affatto.
Non lo sarebbe stato per molto ancora.
La previsione non aveva nulla di pessimistico, basandosi purtroppo sulla minuziosa osservazione del moto turbinoso delle basse nubi e sull’intensità del vento che scuoteva come un pettine le fronde degli alberi. Tra un ramo e l’altro la corrente si faceva largo con un ruggito udibile anche a centinaia di metri di distanza, miscelandosi al fragore della pioggia e ai boati del temporale.
Nulla di poetico vi era nell’osservare le colline schiaffeggiate da una tale tempesta. In ogni casa, occhi di tutti i colori cacciavano sguardi preoccupati alle finestre e oltre, piegandosi, crucciandosi nella tacita preghiera che quell’inverno non fosse freddo come il precedente, che aveva condannato senza pietà la maggior parte del raccolto. Le dita delle mani si intrecciavano, si allontanavano l’una dall’altra; si contorcevano nervosamente. Gli animi non erano tranquilli, ma si somigliavano per la speranza comune di diventarlo.
In misura più o meno differente, il turbamento si era insidiato nel cuore di Anya, che in quel temporale aveva perduto la possibilità di far lezione e guadagnare il denaro necessario alle spese del giorno. La consapevolezza di dover attingere al lascito del signor Langley fino a che la pioggia non sarebbe cessata fu un amaro pensiero.
Poggiata al davanzale della finestra, le spalle contro la pietra del muro, osservava ipnotizzata le fronde in movimento e di tanto in tanto cacciava un’occhiata sbilenca alla culla al centro della stanza. Ringraziò ancora una volta di aver trovato una casa che isolava da ogni rumore; non osava immaginare i tentativi di addormentare Victor, altrimenti.
Tornava a fissare il paesaggio con un atteggiamento dal duplice volto: da un lato la volontà di agire fluiva nei vasi sanguigni elettrizzando i muscoli; dall’altro si scontrava con la consapevolezza del quotidiano vivere, animato e vessato da interrogativi di grande e trascurabile importanza, a seconda dei punti di vista. Il cantiere era barbosamente il primo.
Si stropicciò la fronte quando tornò a pensarci.
 
Dopo due giorni i timori e i dubbi poterono essere allontanati.
Il temporale e la pioggia cessarono, ma in compenso, come se l’Irlanda non volesse saperne di dar pace ai suoi figli, il vento continuò a soffiare imperturbabile. Si imposero, definitivi, il freddo e l’umidità, che non resero vita facile al tentativo che il vento aveva messo in atto per asciugare i campi.
Il fango ricoprì strade e sentieri per qualche tempo ancora e di rado, unicamente per ragioni di stretta necessità, i carri si avventuravano negli spostamenti. Chi aveva un cavallo o una bestia da monta era il più fortunato, ma non chi possedeva un gregge da far pascolare, dal momento che i declivi delle colline erano da una parte ricoperti del viscido fango e dall’altra impraticabili per le aspre rocce che affioravano dal terreno.
In città la locanda dei viaggiatori si svuotò con la fine del temporale, ma tardò a riempirsi e la proprietaria ebbe da lamentarsene a lungo, martoriando con la sua ugola penetrante chiunque incrociasse il suo cammino. Anya stessa, la mattina che si recò al mercato, malgrado i pregiudizi che circondavano il suo nome, fu avvicinata con affabilità e soverchiata d’ogni genere di quesiti, ai quali riuscì a sottrarsi solo, e purtroppo, facendo ricorso a ciò che la gente le invidiava: il lavoro al cantiere.
Sulla strada del ritorno ebbe modo di allungare gli occhi fin dove la lieve nebbia lo consentiva: il paesaggio, scurito dall’umidità, sembrava tutto sommato praticabile e percorribile con una carrozza, perciò, quando arrivò a casa, dovette sganciare qualche moneta in più alla buona Ierne perché andasse a cercare una vettura. La richiesta fu presto esaudita e nel pomeriggio, il vento si era calmato un po’, un cocchiere decisamente troppo poco professionale per esercitare questa professione in una grande città come Waterford City, la raggiunse a casa con una carrozza d’aspetto poco affidabile, ma robusta.
L’uscita, come il temporale appena conclusosi, le sottrasse altro denaro utile, sia perché il servizio di trasporto era dispendioso, sia perché le toglieva tempo per andare al cantiere o fare lezioni; ma si trattava di un paio di pomeriggi al mese e la finalità era l’unica cosa in grado di mettere un po’ di pace nel suo animo rattristato.
- Sempre al solito posto, signor Carter – lo informò consegnandogli la borsa. L’uomo assentì prontamente, sporgendosi verso l’interno del mezzo per poggiare il bagaglio su un sedile. Anya tornò da Ierne, in piedi davanti la porta, e la donna sorrise bonariamente.
- Andate tranquilla, signorina – la rassicurò ancora una volta, mentre Anya sistemava la coperta sul viso di Victor, in braccio a Ierne. Era così tutte le volte. Sempre la stessa storia. Non riusciva mai a separarsene e la cosa non era illogica, ma neppure il contrario. Quei pomeriggi erano una continua guerra tra pulsioni opposte: su un fronte la nostalgia e l’amore per Paride, sull’altro l’istinto materno. Iniziava sempre mentre si preparava per uscire e non finiva se non quando risentiva il figlio tra le braccia.
Ierne intuì le sue sensazioni e le mise una mano sulla spalla. – Tranquilla, signorina Bacott. Non dimenticate che anch’io sono madre.
La ragazza si morse le labbra, sorrise nervosamente, assentì. Guardò Victor, poi Ierne. Un insistente prurito ai polpastrelli la costrinse a serrare i pugni. Decisa, si voltò e salì in carrozza.
Il mezzo, uno schiocco di frusta dopo, partì con un sussulto che la schiacciò contro la spalliera del sedile. Evitò di scostare le tende del finestrino, ma intuì il momento in cui la casa sparì oltre le colline.
 
 
Impiegò più di due ore la carrozza a raggiungere i terreni della tenuta.
E solo alla vista dei primi cipressi Anya scostò le tendine. Non avrebbe voluto aprire i finestrini per respirare il meno possibile quegli odori nostalgici e terribilmente familiari, ma fu costretta a farlo poiché i vetri erano graffiati e schizzati di fango e ben poco era possibile vedervi attraverso. Alzò il più vicino con un paio di strattoni e dopo un lungo momento di esitazione si sporse leggermente fuori. Le lacrime arrivarono all’improvviso, con un singulto che gonfiò il petto e la spinse a portarsi una mano alla bocca per non lasciarsi andare. Pressò le dita così forte da complicarsi la respirazione, ma riuscì nel suo intento e con compostezza osservò quei campi che conosceva bene scorrere uno dopo l’altro, tanti tasselli consunti di un grande puzzle in frantumi, dove i contadini, con i cavalli e i buoi, mandavano avanti un’attività in lento declino.
Un nuovo singulto la scosse quando con la coda dell’occhio e poi con lo sguardo tutto, vide la tenuta in lontananza, come sempre visibile attraverso i robusti tronchi dei sempreverdi che la circondavano, ora nascosta dietro le fronde come una bambina timida vestita di stracci. Gli occhi azzurri questa volta si inondarono ineluttabilmente e le guance rosse dello sforzo di contenersi, furono bagnate dalle prime lacrime calde.
Ma no, scosse il capo, doveva essere forte. Basta con i piagnistei.
E invece le lacrime continuarono a cadere sulla bianca mascella serrata, sulle labbra martoriate dai denti. I polpastrelli rimossero ogni traccia di bagnato dal viso, ma era un gioco perso in partenza, perché gli sforzi non venivano ripagati.
- Carter, ferma!
La voce uscì inaspettatamente decisa dal petto ansante. Da fuori giunse il tono ovattato dall’alcol e dal fumo del cocchiere, che fermò la marcia dei due infaticabili bai con un “Uoo” perentorio.
D’improvviso cadde il silenzio e Anya trasse un profondo respiro, passandosi ancora una volta le dita sulle guance e battendo le palpebre per ricacciare le altre. Una volta fuori fu investita da una sferzata di vento freddo e si abbottonò rapidamente la larga giacca di panno, mentre alzava lo sguardo al campo in cui si erano fermati. Lo aveva chiamato il Campo dei fiori, perché era lì che raccoglieva i boccioli più belli da mettere sulla tomba. Si mosse svelta, aguzzando la vista con scrupolo, tendendo le mani verso i fiori che promettevano d’essere più duraturi. Compose un bel mazzolino, lo osservò inclinando il capo a destra e sinistra, lo rimpolpò fino a quando fu soddisfatta.
Carter, come sempre, la aspettava muovendosi avanti e indietro, senza una parola. Chiuse le mani a coppa davanti alla bocca e ci soffiò dentro. Anya abbassò lo sguardo, immaginando che a breve avrebbe tratto la sua solita fiaschetta dalla tasca e avrebbe bevuto qualche sorso per riscaldarsi. Così diceva lui.
Bastò lanciargli un’occhiata attenta per dargli a intendere che si stava allontanando. L’uomo levò una mano come a dire che poteva prendersi tutto il tempo e Anya si avviò. Non doveva camminare molto. Faceva fermare la carrozza sempre prima, ma il punto da raggiungere, anche se nascosto dall’erba alta, era vicino. Procedette a capo chino, il cuore così scatenato da far paura. Il vento le soffiava contro con volubilità, prodigandosi talvolta in carezze fresche e talvolta in capricci pressanti, schiacciandole la gonna contro le gambe o insinuando le sue dita ariose nell’acconciatura, scompigliando le ciocche ricciolute.
Superò il sentiero di terra battuta doppiamente avvallato per il passaggio dei carri contadini e proseguì, accelerando leggermente il passo, nel campo successivo. L’erba alta le suggerì di essere ormai vicina e incominciò a piangere e a venire di nuovo scossa dai singhiozzi mentre muoveva le labbra in cerca di parole, mormorando qualche preghiera.
Quando ormai mancavano pochi passi, il vento le soffiò contro una voce. Riconobbe istantaneamente un tono maschile e stanco, disilluso e alzò lo sguardo. Ciò che vide, dopo aver disciolto la nebbia di lacrime, la colpì e la sorprese: davanti alle tre tombe dei Langley, c’era un uomo anziano, quasi del tutto calvo, coperto da un lungo cappotto grigio e vecchio, gli occhi fissi sulla lapide del conte. Aveva entrambe le mani in tasca ed il suo portamento, nonostante l’aspetto trasandato, aveva un che di fiero e la schiena era ritta come quella di un uomo in salute.
Anya si avvicinò cautamente. Non lo aveva mai visto prima. A un paio di metri dalle sepolture inclinò timidamente il capo di lato e lo guardò in viso. L’uomo, presumibilmente immerso nei pensieri o in qualche preghiera, non si voltò. Anya ingoiò un moto d’impazienza, e si spinse un po’ più in avanti, quanto bastava affinché il vecchio la notasse. L’uomo si girò appena verso di lei, indirizzò solo gli occhi in un’occhiata sbilenca, e si sporse lievemente all’indietro in una casta reazione sorpresa. Anya si mosse in modo simile nel notare il suo sguardo, rassegnato e infinitamente triste.
- Salve – borbottò l’uomo, riportando gli occhi sulla lapide. Anya non riuscì a smettere di osservarlo.
- Salve – ricambiò, incerta.
Guardò la tomba. La vista si appannò velocemente nel leggere il nome e l’epitaffio. Non ci avrebbe mai fatto l’abitudine, lo sapeva. Si asciugò il viso e sospirò in silenzio, tenendosi in disparte per timore di recare disturbo all’uomo in preghiera. Nuove domande sorsero quando si riprese dalla commozione, ma furono tutte messe a tacere dal suo lato più diffidente.
- Potete … - mormorò d’un tratto l’anziano, indicando le sepolture con un cenno della mano che aveva ancora in tasca. Una folata di vento carezzò l’erba dei campi con un delicato fruscio. – Io ho finito …
Anya non aspettava altro e si fece avanti con una punta d’imbarazzo, ma mentre suddivideva il mazzo di fiori in tre parti uguali e si allungava verso la tomba della piccola Emily, si chiese ancora una volta chi fosse quell’uomo e che cosa ci facesse lì. Badò a non dargli le spalle.
- Era sua moglie quella?
Si voltò. Con lo stesso gesto di prima, senza tirar fuori le mani dal cappotto, l’anziano indicò la tomba centrale. Anya assentì. Intuito che non avrebbe risposto, tornò a occuparsi dei fiori, ma dopo un momento lo udì borbottare qualcosa che somigliava ad un “McAdamhs … chi l’avrebbe mai detto …”.
La cosa la stranì, ma si sforzò ancora una volta di non pensarci e di trattenere la curiosità.
- Emily era la figlia …
Anya spolverò la lapide con il dorso della manica del cappotto. – Sì.
Si spostò di fronte la tomba della signora Langley e cambiò i fiori anche nel suo vaso. L’uomo mosse un piccolo passo indietro per concederle maggior libertà di movimento, ma la giovane badò a non approfittarne. Si mosse velocemente, bisbigliò una preghiera per la defunta e raggiunse la tomba del conte. Udì l’anziano sospirare, come se temesse quel momento, poi i suoi passi si allontanarono. Si permise un’occhiata obliqua e lo vide volgere le spalle alle sepolture, il capo chino, mentre tirava fuori una mano dalla tasca e se la passava sul viso.
Riportò lentamente lo sguardo sulla tomba e mosse un passo avanti, inginocchiandosi accanto alla lastra di pietra grigia. Non dovette compiere alcuno sforzo per accantonare i dubbi sul vecchio e ricordare cosa chiedere.
Chiedere, brutta cosa. Ma non si trattava di altro, purtroppo, quando rivolgeva qualche preghiera al signor Langley. Lui era sempre stato l’unico in grado di aiutarla. Anche adesso che non c’era più, non poteva non domandargli un aiuto.
Ma il dover chiedere rimaneva comunque qualcosa di oneroso, troppo, da fare quando non si aveva niente da offrire in cambio. Anya non aveva mai avuto dei debiti con nessuno, aveva sempre fatto molta attenzione a non accumularne, né in termini di denaro, né di favori; ma adesso sentiva il cuore appesantito da tanti impegni da assolvere e il brutto era che non ne conosceva alcuno.
Le labbra lavorarono per lei, disegnarono ogni richiesta nel silenzio, talvolta serrandosi con delicatezza, talvolta con cipiglio. Furono svelte, più delle lacrime che scesero a bagnarle e a irritare la pelle sottile con il loro sale. Infine si chiusero e tacquero. I denti ne morsero le pareti interne.
- Lo conoscevate?
Anya si alzò, asciugandosi le gote e gli occhi con un angolo del fazzoletto. Impostò la voce con un sospiro spezzato e annuì. – Sì.
L’uomo fece uno strano verso d’assenso, impercettibile, come un lamento. Dai lievi rumori che produceva, Anya intuì una certa titubanza e quando si voltò a guardarlo capì di avere ragione. Le dava le spalle, gli occhi al cielo, il viso levato alle docili carezze del vento. I dossi pronunciati delle mani serrate all’interno delle tasche disegnarono due pieghe diagonali sui lembi del cappotto.
La voce risuonò di nuovo stanca e disillusa. – E com’era?
Anya aggrottò le sopracciglia. – Io … ho lavorato per lui, in casa sua … - L’uomo si girò lentamente. – Era un buon padrone, autoritario ed esigente, ma giusto.
Il vecchio accennò un sorriso fissando il vuoto.
- Voi non lo conoscevate, mi pare di capire – riprese lei.
- Non tanto … ma l’ho incontrato, molto tempo fa.
Anya lanciò un’occhiata al nome scolpito sulla pietra, come se il conte potesse rispondere al suo sguardo interrogativo rivelandole finalmente l’identità di quell’uomo; ma, forse perché aveva già chiesto troppo nelle sue preghiere o forse perché neppure il signor Langley se ne ricordava, la domanda restò orfana.
Troppo distratta e a disagio per badare alle preghiere e ai ricordi, non potendo nascondere che avrebbe preferito essere sola in quel momento prezioso, si allontanò dalla tomba, già intenzionata a tornare alla carrozza.
Il vecchio parlò in quell’istante.
- Sapete, ero di casa qui, una volta. Adesso non riconosco più i sentieri …
- Molti cambiamenti sono avvenuti negli ultimi anni.
- È stato lui?
Anya aggrottò la fronte. Il vecchio indicò la tomba del conte con un cenno del capo.
- Non solo – dissentì lei. – Le terre attualmente sono amministrate da un economista. I campi appartengono ad un’azienda agricola. È normale, direi, che ci siano dei cambiamenti.
Normale? Certo, come no. Non lo credeva davvero.
L’uomo parve pensarla ugualmente. Rimirò il paesaggio con un’occhiata circolare, strizzando gli occhi. Lo fece due volte, crucciando il mento.
- Io, in ogni caso, non riesco a raccapezzarmi … da che parte devo prendere per raggiungere il confine Sud-Ovest della contea di Kilkenny?
La giovane sollevò le sopracciglia. Indicò la strada dietro di sé con il pollice, ruotando il busto nella stessa direzione.
- Quella. Dovete percorrerla fino alla stazione di cambio, poi proseguire sulla strada che va a Nord.
L’uomo si fece pensieroso. Poi parve ricordarsi qualcosa.
- Perdonate, non mi sono presentato. Io sono Jude. Jude Colbert.
- Io sono Anya Bacott – rispose lei, con un lieve cenno del capo.
L’uomo la imitò, ma in lui quel movimento si compì con un’inusuale eleganza, come se fosse avvezzo a tali formalità. Seguì il moto delle sue iridi scure e flemmatiche e provò l’insolita sensazione di aver già visto qualcuno farlo allo stesso modo. Spulciò in fretta fra i ricordi.
- Perdonate, ma … ci siamo già visti da qualche parte?
Il vecchio fece spallucce e la scrutò con uno sguardo obliquo.
Ancora quella sensazione.
- No … direi di no.
Ma lei non se ne convinse.
- Vengo da North Tipperary.
Si ridestò con un sospiro rassegnato, fissando il vuoto, poi il vecchio. – Fa molto freddo lì …
- Per questo mi sto spostando.
- Viaggiate verso sud e poi risalite verso nord. C’è brutto tempo a Kilkenny, in questo periodo. Non troverete clima migliore di quello che avevate a Tipperary.
Fu un’osservazione invadente, ma il vecchio non se ne preoccupò affatto. Sembrava abituato a quel genere di discorsi e ciò disegnò in lei un interrogativo. Le sopracciglia di aggrottarono ancor di più. Non le interessava di certo la vita di quel vecchio, non doveva riguardarla, ma c’era qualcosa nei suoi modi che stimolava la curiosità. Dimostrava in molti atteggiamenti di essere diverso dal comune uomo del popolo, ma per certi aspetti induceva a ritenerlo tale, se non a definirlo con accezioni meno fiduciose.
- Lo so, ma c’è sempre qualche differenza. E poi – aggiunse sollevando per un istante le sopracciglia – vado lì per lavorare. Sicuramente non soffrirò il freddo e … – sospirò – … non penserò a niente.
Questa volta Anya non seppe se fare affidamento al suo dire. Il vento tornò con una sferzata gelida che le scompigliò nuovamente i capelli. Le ciocche ondulate bisticciarono sulla fronte, stuzzicarono gli occhi e le labbra. Li scostò con una mano, mentre con l’altra sistemava il bavero della giacca in modo da non sentire freddo al collo. La carrozza di Carter era ancora ferma sul limitare del campo attiguo e lui gironzolava nei paraggi, godendosi il panorama tra un sorso e un altro dalla fiaschetta.
- È stato il prete a consigliarmi, sapete?
Anya si voltò. Non vedeva l’ora di andarsene, ma la turbava il pensiero di quel vecchio da solo. Non voleva lasciarlo lì.
- Ho avuto diversi problemi, recentemente. Non riuscivo a staccarmi dalla bottiglia – spiegò con lo sguardo basso, spostando la terra con la punta dei piedi - Padre Oersted mi ha consigliato di rimettermi a lavorare e mi ha indicato un cantiere, dove dice che stanno costruendo una scuola …
La ragazza sgranò gli occhi.
- Un cantiere sul confine di Waterford con Kilkenny?
Il vecchio Colbert annuì. – Lo conoscete?
- Se lo conosco? Vengo proprio da lì!
- Accidenti … spero non scherziate. Sono vecchio, mica scemo.
- Oh no – rise la giovane. – Certo che no …
Jude la scrutò con un’occhiata sbilenca, muovendo le mani all’interno delle tasche. Guardò oltre la spalla la tomba del signor Langley e con il tono di chi ne ha sentite già tante, bofonchiò – Una bella notizia, finalmente. Proprio una bella notizia … e dite, conoscete qualcuno che ci lavora?
- Diciamo di sì … conosco gli operai, i mastri lavoratori, l’architetto, il capocantiere …
- Alla faccia! Sapete se cercano nuovi operai?
Anya fece qualche rapido calcolo e il sorriso poco a poco si spense.
Se servivano altri operai? Bella domanda … il denaro bastava appena a pagare quelli che già lavoravano, figurarsi assumerne nuovi! Vecchi poi. Si fosse trattato di forza giovane, di muscoli freschi e spalle in grado di caricare pesi senza scricchiolii di ossa e articolazioni, allora un pensiero ce l’avrebbe fatto. Ma …
Squadrò Jude.
… qui si parlava di un uomo che doveva aver superato la sessantina, uno di quelli che dovevano passare il resto della loro vita nella pace di un focolare, non nel fango vischioso e gelido di un cantiere. Va bene, aveva un buon portamento, la costituzione parlava chiaramente di una giovinezza fortunata e non zoppicava da nessuna gamba. Però era anziano. Troppo poco adatto.
Volse lo sguardo in direzione dei campi. – Nuovi operai, dite? Non saprei … non ho mai sentito il capo farne cenno.
- Sapete, sono vecchio, ma conservo una buona tempra. Dio me ne ha fatto dono alla nascita ed io me ne curo come un padre del figlioletto. Quando mi ci metto sono instancabile.
- Potreste chiedere, allora …
Ma dubitava che Russell lo assumesse.
Jude mosse le spalle, tirando su col naso arrossato dal freddo. Si girò verso le tre tombe, soffermandosi più a lungo su quella del conte; poi si riscosse.
- Beh, è stato un piacere, signorina Bacott.
Lei fece un mezzo sorriso – Anche per me, signor Colbert. Spero che avrete fortuna.
Jude sollevò appena le grigie sopracciglia, sorridendo appena. Piegò il capo in un inchino di saluto e ringraziamento e si mosse per allontanarsi.
Anya fece lo stesso e si incamminò dopo aver toccato la lapide del conte con un bacio posato sulle dita. Il vento aveva ripreso a soffiare forte, i lembi della giacca si sollevarono facendo penetrare il freddo e i capelli svolazzarono intorno al viso pallido. Aveva percorso poche decine di metri, quando lo sguardo si posò sulla figura di Jude che incedeva stancamente su un sentiero parallelo. Non era vicino, né tanto distante da non riuscire a guardarlo in viso. Aveva ripreso l’espressione triste e teneva lo sguardo basso.
Provò troppa pena per lasciarlo così.
A pochi passi dal cocchio di Carter lo chiamò, alzando un braccio. L’uomo si girò con un sussulto.
E lei con un cenno lo invitò a proseguire in carrozza.
 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


An irish tale - Parte seconda

CAPITOLO IX

 


Dublino, 2012

 
Le palpebre si chiudevano di loro spontanea volontà.
E la cosa la infastidì.
Non c’era verso di allontanare la sonnolenza.
Sbuffando, cambiò posizione: spostò le gambe, incrociò le braccia al petto.
Oh, senti … è proprio comodo.
Ma … no. Non qui. Non nel Gate dell’aeroporto!
Un minuto. Un minutino solo. Poi mi alzo.
La testa ciondolò in avanti. Chiuse di nuovo gli occhi.
 
- Sa che è sconsigliato dormire in un luogo pubblico?
 Riaprì gli occhi con un sussulto.
Accidenti!
Fu come se avesse appena ricevuto una bastonata sul collo. Strinse la parte dolorante con un gemito, voltandosi di scatto (e pentendosene subito dopo) verso destra, da dove aveva sentito arrivare quel sussurro.
- Ma che cazz … P-Paride?… sei tu!
Lo guardò in viso con una punta di allarme. Lui era in piedi, con il borsone in spalla.
- Buongiorno – la apostrofò.
Lei riabbassò gli occhi con un ghigno affaticato e colpevole. – Buongiorno …
- Stavi dormendo o sbaglio?
Si stropicciò la faccia intorpidita, poggiando i gomiti alle ginocchia. Merda. Non aveva proprio resistito.
- Può darsi … - bofonchiò. Si alzò e … le gambe. Maledizione. Facevano male da morire. Rizzò la schiena con una smorfia e si avvicinò a Paride per salutarlo.
- Fatto buon viaggio?
Il ragazzo rispose dopo un momento. – Sì – annuì – tutto bene … tu? Che mi racconti? – mosse un sopracciglio – Ti sono mancato?
Anya gli carezzò il collo con le dita, facendolo rabbrividire. – Lo chiedo io a te.
- Non vale …
- Oh sì, invece - lo interruppe, guardandolo negli occhi. – Allora?
Lui le sfiorò la guancia con una mano, scrutandola con fare attento e curioso. Un angolo delle labbra si sollevò appena e Anya pensò che a breve l’avrebbe baciata. Era così che voleva che rispondesse. E invece Paride non si mosse, anzi; all’improvviso cambiò espressione, il sorriso si restrinse.
- Usciamo?
Anya aggrottò le sopracciglia.
- C’è troppa gente qui … - borbottò lui, sistemando la tracolla del borsone sulla spalla.
La ragazza annuì in silenzio e si scostò. Attraversarono l’aeroporto camminando vicini, chiacchierando del viaggio a Londra e di poco altro. Appena furono fuori Paride rallentò il passo e fece un bel respiro. Anya lo seguì ancora fino a che non raggiunsero il parcheggio, che non era tanto lontano, e mentre gli consegnava le chiavi della macchina lo guardò in viso, stranita dal comportamento di prima. Altre volte aveva rifiutato di baciarla, si era mosso in avanti e poi subito indietro, come un’onda, ritraendosi per motivi suoi. Non aveva mai domandato e lui non si era mai giustificato. La risposta arrivava sempre dopo, tacita, inaspettata. Paride si limitava a confermarla e ciò accadeva sempre tramite lo sguardo.
 
 
La strada fortunatamente era libera.
E Anya non aveva ancora fatto domande.
Benedetta ragazza … non avrebbe potuto essere più fortunato. I suoi amici si erano sempre lamentati delle loro fidanzate, perché non facevano altro che blaterare senza sosta. Lui non ci aveva mai creduto, convinto che gonfiassero il discorso ed usassero vocaboli esagerati per suscitare il riso; ma quando qualcuna di loro gli era stata presentata aveva subito capito.
Incontrando Anya era stato benedetto dal cielo.
Lei non solo era taciturna, ma prima di chiedere, prima di muovere un passo, osservava e rifletteva. Formulava ipotesi e quando ne aveva a sufficienza, quando cioè il suo cervello si era riempito fino all’orlo ed il turbamento era diventato intollerabile, chiedeva a quale teoria dovesse fare affidamento, a cosa doveva credere.
Questo lato di lei era ciò che lo aveva fatto innamorare più di ogni altra cosa. La rendeva talvolta difficile da comprendere, ma era anche scaltro da parte sua comportarsi così, perché lo induceva ad avvicinarsi, a sporgersi. A fare ciò che lui aveva sempre temuto.
La sua vicinanza lo aveva reso più coraggioso. E non solo nei suoi confronti.
Ma questo ermetismo era anche fonte di tribolazione. Senza parlare, per quanto ottimi osservatori si potesse essere, non era sempre facile intuire i pensieri dell’altro. Forse Anya indovinava i suoi, ma lui non non era capace di fare lo stesso con lei. Anya era troppo mutevole per essere svelata.
Quando capitavano situazioni come quella che stava vivendo, quando cioè era lui quello preda dell’ansia e delle inquietudini,  parlare e muoversi diventavano attività pericolose, che lo mettevano a nudo, perché il corpo, il suo corpo, sapeva parlare benissimo, senza bisogno di usare la bocca.
La strada era ancora libera.
E Anya non parlava.
Ma sentiva i suoi occhi addosso. Lo guardava, lo sapeva.
Amava il suo essere taciturna, ma la odiava quando si comportava così. Avrebbe voluto mettersi a  gridare.
Un piccolo ingorgo in lontananza lo indusse a rallentare. Poco dopo frenò.
- Le conferenze sono andate bene?
Quella domanda lo sorprese. Si voltò verso di lei e sorrise – Fortunatamente sì.
- Mmh.
- Mmh? Ne dubiti?
- Oh … no – fece spallucce lei, guardando la strada oltre il finestrino – certo che no.
- Orbene?
Anya sospirò. – Stavo cercando di capire cosa ti cruccia. Perché è ovvio che qualcosa non va.
Paride la guardò. – Ce l’hai con me per il bacio che non ti ho dato? Lo sai anche tu che quando c’è tutta quella gente …
- Non è per questo.
Lui sospirò, grattandosi la nuca.
- Sei silenzioso.
- Anche tu non parli molto, stamane.
Anya sbuffò, muovendo gli occhi e le sopracciglia come a canzonarlo e voltandosi verso il suo finestrino.
- È per questo che mi osservavi mentre guidavo?
- Anche – disse lei senza girarsi.
Alzò gli occhi al cielo, grattandosi il mento. – Stiamo litigando? – domandò guardando lei e la strada alternativamente.
- Nient’affatto.
- Perché non mi guardi allora?
La vide irrigidirsi. Le braccia che aveva incrociato al petto si serrarono con maggior forza e testardaggine. Si voltò con uno sbuffo, puntandogli contro i suoi occhi d’acquamarina. Odiò ammetterlo, ma si pentì di quella scelta. Sotto lo sguardo di Anya, sopraffatto com’era dall’ansia e dai sensi di colpa, si sentì improvvisamente scoperto. Distolse gli occhi con la tacita scusa di dover tener d’occhio la strada.
Fortunatamente Anya smise di fissarlo nello stesso istante in cui si era girato. Le parole del luminare di biologia incontrato a Londra tornarono a ronzargli nelle orecchie. Tentò di scacciarle, ma, come una mosca su un pezzo di carne cruda, quelle tornarono presto alla carica.
Si ricordi Langley: non posso concederle più di tre giorni per pensarci. Le ho concesso una lauta proroga e non posso farlo di nuovo. Rifletta attentamente sulla mia proposta.
Gli occhi non poterono che cercare ancora una volta quelli di Anya, ma di lei non scorse che il profilo, presa com’era dall’osservazione del panorama esterno. La osservò per un po’ e il cuore parve trovare la pace perduta.
Aveva ragione ad avercela con lui. Eccome se ne aveva. Le aveva mentito per più di due settimane con quella storia degli studi. Ora non poteva più continuare. Gli rimanevano due giorni per confessarle tutto. Due giorni per convincerla che quella che gli veniva offerta era una grande opportunità. Due giorni per convincerla che dopotutto il tempo che avrebbero trascorso lontani sarebbe passato in fretta, come sempre. Ma soprattutto quei due giorni erano un tempo appena sufficiente per persuadere se stesso e rimuovere ogni forma di colpevolezza dal proprio animo.
Cazzo.
- Cosa fai oggi?
- Mmh?
- Dicevo, hai qualcosa di importante da fare, oggi?
Anya fece spallucce, senza girarsi. – Avrei dovuto passare un po’ di tempo con il mio ragazzo, ma a quanto pare lui non è in vena.
Si lasciò scappare un sorriso, ma avrebbe voluto arrabbiarsi. Prese tempo.
- Risponde al nome di Paride Langley, per caso?
- Ma guarda … lo conosci anche tu?
- L’ho incontrato stamattina. Diceva che anche lui avrebbe dovuto trascorrere un po’ di tempo con la sua ragazza, ma l’ha trovata che dormiva su una sedia del Gate dell’aeroporto … l’annoiava la prospettiva di rivederlo, forse?
Anya aggrottò le sopracciglia ad una tale velata acidità e lo guardò. Sembrava tranquillo come quando l’aveva visto all’aeroporto; ma, lo sapeva, dentro ribolliva d’inquietudine. Lo vedeva dal modo in cui serrava le dita intorno al volante e di come si passava la mano sul mento e fra i capelli. L’unica cosa che non comprendeva, adesso, era quella battuta. L’unica. Per il resto era chiaro che non vedeva l’ora di smaltire quel malessere di cui non si decideva ancora a parlare.
- Questo tuo amico dimentica che quella ragazza si è messa in macchina nonostante la notte non avesse dormito e nonostante avesse tutte le fibre del corpo invase da un malefico acido lattico … e che non ha neppure fatto colazione per poter arrivare in orario all’aeroporto, salvo poi prendersi in quel posto la notizia che “per problemi tecnici” l’aereo di Londra avrebbe avuto un ritardo di due ore!
Lo guardò con atteggiamento di sfida, per nulla impietosita dal proprio stato; poi si mise a fissare la strada.
Lo udì serrare la mascella. Invano attese una risposta. Per dei minuti il silenzio fu animato dallo sfregamento delle sue dita sul mento irsuto e dai suoi sbuffi spazientiti. Era più nervoso di prima, si deduceva dalla spinta del piede sull’acceleratore, e l’ingorgo non aiutava. Il procedere della macchina divenne un perpetuo singhiozzare, con repentine accelerazioni e sussultanti frenate. Poi, finalmente, la strada si liberò e il viaggio riprese nella normalità.
Fu mentre muoveva il cambio che finalmente si decise a parlare. Il tono era più calmo, quasi pentito.
- Non farlo più.
Anya si riscosse. – Cosa?
- Metterti in pericolo per così poco.
- Che intendi?
Le scoccò un’occhiata rapida, sorprendentemente preoccupata. Le bastò quella per capire.
- Non ero digiuna … avevo bevuto due caffè.
Lui scosse il capo - Ti sei messa alla guida piena di sonno. Avresti potuto … - scacciò quel pensiero con un brivido – Non farlo mai più.
 
 
Come di consueto quando soggiornava a Dublino, Paride prese alloggio in casa Bacott. Le origini italiane di Kate si rivelarono ancora una volta e per lui non ci fu verso di rifiutare nessuna delle sue offerte. Lui che era un irlandese puro non aveva mai compreso a fondo i modi spicci e affettuosi della signora, ma non aveva neppure il cuore di negarle la felicità di averlo a casa, né di rifiutare le sue generose offerte.
Mangiò tutto quello che Kate gli caricò nel piatto, suscitando l’ilarità di Linda che trovava divertente la sua difficoltà a far comprendere quanto poco fosse abituato a pasti del genere; poi si allontanò per sistemarsi nel suo angolino del soggiorno.
Nel pomeriggio Anya e Linda andarono ad allenarsi al circolo. Conoscendo i programmi dell’allenatore si separarono e Linda si recò in un campo a parte con un’altra tennista. Anya occupò il campo che Mr. Harris le aveva fatto assegnare e dove aveva portato una serie di attrezzi e macchinari per l’allenamento e iniziò a riscaldarsi, sperando di guarire con la corsa il bruciore dovuto all’acido lattico; mezz’ora dopo l’allenatore non si era ancora fatto vivo, ma il dubbio fu presto risolto da Jack.
- Si è assentato per malattia. Non ha avvisato neppure me, sto’ stronzo.
Accolse la notizia con sollievo. Non aveva nessuna voglia di vederlo effettivamente e avrebbe potuto trascorrere quel tempo in compagnia di Paride. Il solo pensiero le fece tornare il buonumore.
Si fece una doccia veloce e si recò alla reception per chiedere alla segretaria di avvisare Linda che sarebbe tornata a prenderla alla fine degli allenamenti. Mentre parlava, entrò Paride. Aveva l’aspetto di chi si è svegliato da poco e ha tentato in tutti i modi di cancellare i segni del sonno. Le ispirò tenerezza e rapida scorse la sua figura coperta di una polo beige, un cardigan blu e un jeans stropicciato, probabilmente quello con cui aveva dormito.
- Ehi! – lo salutò.
Lui la ricambiò con un sorriso sorpreso. – Ehi …
- Come mai qui?
Il ragazzo fece spallucce. – Sono venuto a vederti.
- Oggi non mi alleno.
- Perché?
- Mr. Harris non c’è.
- Ah … - inarcò le sopracciglia - … che culo.
La segretaria rise sottovoce. Perfino lei conosceva l’astio di Mr. Harris nei confronti di Paride, principale fonte di distrazione della sua campionessa.
- E Linda? – riprese lui dopo – È qui?
- Si sta allenando.
- La aspettiamo?
- Non è necessario … le ho lasciato un messaggio per farle sapere che mi sto allontanando. Ti andrebbe un frappé?
Lui ci pensò su. – A te va?
- Ad essere sincera non ne sento il bisogno … chiedevo per sapere …
- Te la prendi se ti dico di no?
Lei scosse il capo. – No – mormorò, interdetta – certo che no.
Le venne voglia di proporgli qualcos’altro, ma fu frenata dalla direzione del suo sguardo che puntava il vuoto. Scelse il silenzio, ma sperò vivamente che qualcosa lo riempisse. Sfiorò con gli occhi la segretaria al lavoro, le foto sulle pareti, il colletto della polo di Paride.
- Stavi andando via, quindi?
Lei annuì.
Il ragazzo indicò il borsone con un cenno del capo. – Ti andrebbe una partita?
- Certo.
Lo accompagnò nel campo dove poco prima di era riscaldata e posò il borsone sulla panca. Indossava una tuta con dei pantaloni lunghi che la facevano sentire un po’ a disagio, dato che era abituata ad allenarsi a gambe scoperte, ma si sarebbe trattato di una breve partita e cercò di non badarci. Tolse la fodera alla sua racchetta e passò a Paride quella che si portava sempre di riserva. Lui la prese senza fiatare ed in silenzio ne saggiò distrattamente la rete.
- Però … ti tratti bene.
- Quando si parla di tennis non bado a spese.
Lo guardò, aspettandosi di vederlo sorridere, ma rimase delusa. Si liberò della giacca e mentre la metteva da parte prese tre palline dal borsone.
- Riesci sempre a farmi paura quando ti metti quella faccia.
- Quale faccia?
- La smorfia concentrata e pericolosa di chi non vuole perdere.
Anya non gli rispose. Gli mise in mano una palla e si girò per raggiungere la propria metà campo.
- Hai degli impegni stasera?
- No, nessuno – disse lei con un’alzata di spalle. – Vuoi uscire?
- Può darsi.
Prossima alla rete, si fermò e gli cacciò un’occhiata sbilenca. Paride non la ricambiò, probabilmente neppure se ne accorse, perché riprese a fissare il vuoto come aveva fatto nella reception. Ipotizzò si trattasse del sonno, ma a parte l’aspetto trascurato, sembrava perfettamente padrone di sé. Non poté fare a meno di pensare agli eventi di quella mattina, al bacio negato e alla sua agitazione. Adesso i pensieri parevano soffocati da qualche particolare riflessione, per cui non si azzardò a formulare neppure mezza teoria, ma c’era qualcosa che continuava a minare anche la sua di pace ed era intenzionata a scoprire le sembianze del sentimento che aveva assunto.
 
Fece rimbalzare la palla sulla rete della racchetta.
Una, due, tre volte. Poi se la fece sfuggire di mano.
Più avanti Anya raggiunse la sua metà campo e si poggiò alla racchetta, presumibilmente aspettando che battesse.
Il cuore gli salì in gola.
È il momento, idiota. Togliti questa mola dolorante e falla finita.
Si era svegliato di soprassalto. Aveva dormito tanto e male, sognando che lui e Anya si lasciavano e che le relazioni sul parco Tongariro andavano a fuoco, scatenando l’ira di tutti i professori che avevano fatto affidamento su di lui.
Si era scoperto sudato e solo. Kate era tornata in ambulatorio e gli aveva lasciato una macedonia sul tavolo che non aveva mangiato. Si era sciacquato il viso ed era uscito.
L’agitazione gli aveva fatto venire i crampi allo stomaco. Prese fiato ad occhi chiusi e scoccò un’occhiata alla sua avversaria. Anya stava sistemando i lacci di una scarpa. Decise di approfittarne.
- C’è una cosa che devo dirti.
- Ti ascolto.
- Non mi dà pace da quando sono tornato …
La ragazza si rialzò in piedi e lo guardò in modo strano. – Me ne ero accorta.
Deglutì a vuoto. Stava scherzando? L’aveva notato davvero? Eppure aveva fatto attenzione a non lasciar trasparire neppure l’ombra di un sentimento, era stato lontano da lei con la scusa delle relazioni e quando era tornato a Dublino c’era stato così poco che …
- Hai trascorso la giornata a crucciarti – spiegò.
- Oh … no … - sospirò. I polmoni si gonfiarono di sollievo. Si grattò una tempia – non è da stamattina … è un pensiero più vecchio … - indugiò brevemente, mordendosi un labbro – Non te ne ho parlato subito perché temevo che il torneo ti andasse male.
Anya studiava la superficie villosa di una delle due palle da tennis che aveva in mano. Le osservava molto da vicino, ma Paride intuì che fosse solo un pretesto per non farlo sentire a disagio mentre parlava e gliene fu immensamente grato; ma quando finì di esprimersi notò un leggero crucciarsi delle sue sopracciglia rosse e quel dettaglio lo gettò nella confusione.
- Di cosa si tratta?
- Ho ricevuto una proposta …  – cominciò lui, riscuotendosi – da Christopher Jones. È un noto scienziato inglese … - spiegò – uno dei promotori e insieme finanziatori delle spedizioni studio in Nuova Zelanda.
Le iridi azzurre della giovane si levarono, attente.
- L’ho incontrato a Londra, dopo la mia prima conferenza. Stavo uscendo dall’università, quando mi ha fermato e ci siamo messi a parlare e ... ed è venuto fuori l’argomento Parco Tongariro. Ha detto che ha letto le mie relazioni ed è rimasto molto soddisfatto del mio lavoro, della mia capacità organizzativa e analitica ... e anche che ha avuto modo di parlare di me con il professor Gregory …
Concluse il discorso nella sua mente e l’ansia lo soffocò. Non osava immaginare come avrebbe reagito Anya. La conosceva troppo bene per non paventare i suoi occhi e i suoi silenzi. Probabilmente la sua mente correva già verso il cuore del discorso o forse l’aveva già raggiunto e si burlava di come Paride titubasse a dargli vita tramite quello stupido grumo di parole. Non voleva pensarci. Non doveva.
Maledizione …
Deglutì forzatamente e la guardò. Gli occhi d’acquamarina non avevano cessato di osservarlo. E i polpastrelli carezzavano distrattamente la superficie di una palla, salvo poi tentare di strappare con le unghia il villo verde chiaro.
- Mi ha proposto di ripetere l’esperienza … si tratterebbe di partire all’inizio del mese prossimo …
Finalmente Anya si mosse, ma quando incontrò il suo sguardo, Paride avrebbe voluto darsene quattro in testa.
- E tu cosa gli hai detto?
E qui veniva il difficile. Trasse un lungo respiro. – Anya, ascolta …
- Hai accettato? – lo interruppe, tesa. – Hai accettato, non è vero?
Lui abbandonò la sua postazione, superò la rete. – Anya, ti prego, ascolta …
La ragazza indietreggiò, guardandolo con una punta di sospetto. – Perché hai detto che ci pensi da quando sei tornato dalla Nuova Zelanda? – la sua mente fece un rapido calcolo e i suoi occhi furono attraversati da una strana consapevolezza. – Non è stato solo questo scienziato a proporti di ripartire, vero? Avevi già ricevuto un’offerta simile prima di tornare …
Lui la afferrò dolcemente per un braccio, tentando di rabbonirla. – Anya …
- … e l’hai accettata.
- Ascoltami …
- Perché non me ne hai parlato subito?
Sospirò. – Te l’ho detto, non volevo impensierirti … stavi disputando il torneo. Mr. Harris mi avrebbe ucciso se solo avessi aperto bocca!
Ma Mr. Harris l’avrebbe ucciso a prescindere, era risaputo.
Anya picchiettò la racchetta sul terreno, come se stesse trattenendo uno scatto rabbioso. E infatti ciò che disse e soprattutto il modo in cui lo fece dimostrò quale sforzo facesse per non mettersi a gridare.
- Dio! – esclamò in un urlo strozzato, liberandosi dalla sua presa. – Per che cosa mi devo incazzare, prima, eh? Per che cosa? – Lo superò e si fermò dopo pochi passi, dandogli le spalle. – Sono passate più di tre settimane. Tre settimane, accidenti! E me lo dici solo adesso? – Si girò. – Perché?!
Lui sospirò stancamente, serrando la mascella. - Perché mi è rimasto poco tempo …
- Poco tempo? Che intendi?
Doveva? No, questa avrebbe potuto risparmiarsela. Avrebbe voluto risparmiargliela.
Ormai è fatta. Una in più che differenza fa?
- Mi è rimasto poco tempo prima di partire.
Anya si irrigidì. Lo guardò dritto negli occhi.  – Eh già … - sbottò a bassa voce, ricordando quello che lui aveva detto poco prima. – Due settimane …
Paride le si avvicinò, allungando una mano verso il suo polso. – Anya …
Lei si ritrasse in silenzio, senza smettere di fissarlo. Tradita, ecco cosa diceva il suo sguardo. Delusa, offesa. Il petto affannato parlò al suo posto, gonfiandosi di rancore e sgonfiandosi con esitazione.
Preda del ribrezzo verso sé stesso, Paride abbassò lo sguardo.
Aveva sempre odiato vederla soffrire, l’aveva sempre consolata quando piangeva, si era sempre fatto in quattro per aiutarla a risolvere i problemi che la tormentavano, anche i più insignificanti; avrebbe picchiato chiunque avesse osato toccarla o farle del male.
E ora a bagnarle gli occhi era lui. Ad arrossare quegli occhi azzurri, non altri era che lui.
Sbuffò; poi le afferrò il polso e tirò dolcemente, avvicinandola a sé.
- Anya, ascolta …
Lei si ritrasse. – Non mi toccare.
- Per favore, Anya …
- Non mi toccare, ho detto!
La lasciò andare, alzando le mani in segno di resa, ma la situazione incominciava a farsi pesante. Più di quanto si era immaginato. Fino a quella mattina, mentre l’aereo di Londra lo riportava a Dublino, si era prefigurato questa conversazione. Era stato angosciante pensarci: lei si era arrabbiata, aveva pianto, lo aveva addirittura schiaffeggiato; ma alla fine si era lasciata abbracciare, ammansire, coccolare. Aveva capito le sue ragioni e lui si era lasciato rapire il cuore e la mente da quelle dolci riflessioni, aveva goduto dello sfarfallio allo stomaco e aveva trepidato al pensiero di rivederla.
Ma, si sa, l’immaginazione è una crudele ingannatrice.
Strinse i denti, esasperato, e si passò le mani sul viso come se in quel modo, nel buio, trovare una soluzione fosse più semplice. Quando le riabbassò si accorse che Anya si stava asciugando le guance e che le sua labbra tremavano, esibendo la lotta fra i sentimenti e l’autocontrollo che cercava di nasconderli.
- Anya, cerca di capire – mormorò, ricercando il suo sguardo.
- Mi hai mentito! Per più di tre settimane! – esclamò, trattenendo altre lacrime. – Cosa devo capire ancora?!
- È tanto tempo, lo so! – esclamò lui a sua volta, attirando la sua attenzione – Molto! ma ti sei chiesta perché ci ho messo tanto a dirtelo? È stato più forte di me – continuò con un tono più dolce, guardandola negli occhi – Sapevo di fare la cosa sbagliata, ma temevo di ferirti. Ogni volta che venivo a trovarti, ogni volta che passavo del tempo con te, tentavo di parlartene, ma non avevo mai il coraggio. Non lo trovavo … - allungò piano le dita verso il suo braccio e lo strinse. – Anche adesso ho paura. Ho ancora paura di fare la cosa sbagliata, ma non posso più trattenere questo peso opprimente. Ho bisogno di parlartene perché mi sembra di impazzire.
Studiò la sua espressione, nel timore di scorgervi un segno di fastidio, ma trovò solo lacrime da asciugare e si maledisse perché a far bagnare quelle guance era stato lui.
- Per tutto questo tempo ho provato la sensazione di avere le mani legate, come se ci fosse una catena a limitare i miei movimenti, come se un muro mi separasse dalla mia vita di sempre. Il pensiero di questo viaggio è stato una dannazione e lo è ancora, perché non passa secondo senza che l’aspettativa di starti lontano … una seconda volta non torni a dannarmi. Non sai quante volte ho provato a liberarmi e andavo e venivo da Waterford, facevo la spola da casa mia a casa tua pieno di pensieri, di inquietudini e preoccupazioni … sempre sul punto di dirti tutto. Ma poi ti vedevo e non ce la facevo  … non volevo farti soffrire. – Avvicinò una mano al suo viso, nel tentativo di asciugare le sue lacrime, ma Anya lo bloccò. - Ho accettato di partire – sospirò – quando ero ancora in Nuova Zelanda. Mancavano due giorni al mio rientro e non vedevo l’ora di tornare da te, di riabbracciarti … - tentò una battuta – … anche di rivederti giocare con quel tuo grugno aggressivo, perché no … non vedevo l’ora di tornare, ma allo stesso tempo pensavo a noi due, facevo progetti per il futuro … e lo faccio ancora adesso. Partendo di nuovo acquisirò una nuova fetta di notorietà presso l’università di Dublino, perché mi verrà data la possibilità di scrivere una tesi su queste ricerche e … - scansò per un istante lo sguardo, perché di questo non era sicuro -  … e di conquistare una cattedra al dipartimento di biologia … ti prego, Anya,  fidati di me – sussurrò, ricercando la sua approvazione– Ho sbagliato a non parlartene subito. Sono stato un debole, perdonami.
Anya tacque. Contrariamente a ciò che si era più volte immaginato e a quanto si aspettava, non gli mollò nessuno schiaffo, né gli lanciò la racchetta sul naso. Imperturbabile, continuò ad osservarlo, di nuovo perfettamente padrona di sé, gli occhi arrossati ma asciutti, le labbra ferme. Paride evitò a lungo il nero delle sue pupille e il ghiaccio delle sue iridi, perché sentiva che l’uno l’avrebbe fatto sprofondare nel ribrezzo di sé e l’altro l’avrebbe tagliato come una lama; ma poi la sentì sospirare debolmente e con la coda dell’occhio vide la sua mascella muoversi e le sopracciglia corrugarsi.
La sua voce era ferma. – Quanto starai via, stavolta?
Lui deglutì, colmo del desiderio di scappare, di fuggire da quella situazione che gli stava sfondando il petto. La guardò, abbassò gli occhi; la guardò di nuovo.
- Paride? Quanto tempo starai via?
Sospirò. – Dieci settimane … forse dodici.
Anya annuì piano. Con fredda cortesia mosse il braccio per liberarlo dalla sua presa e in silenzio si allontanò verso il bordo del campo. Fu così lenta e delicata che neppure se ne accorse. Gli parve un sogno, un brutto sogno da scacciare con una manata come volute di fumo. La seguì con gli occhi e provò l’impulso di abbracciarla, perché conosceva quell’espressione, quei modi di fare, e sapeva che a breve si sarebbe rimessa a piangere. La raggiunse con pochi passi, mise da parte la racchetta che ancora aveva in mano.
- Anya …
- Stai zitto, non parlare! – esclamò senza voltarsi, mentre con movimenti svelti e pratici rimetteva la racchetta nella fodera e chiudeva la cerniera tutt’intorno.
Lui iniziò a spazientirsi. – Anya – la chiamò di nuovo, posando una mano sulla sua spalla.
- Lasciami in pace, ho detto! Lasciami! Non voglio più starti a sentire!
Mosse la spalla per liberarsi dalla sua presa, una, due volte. Poi gettò con malagrazia le palle da tennis a terra e con uno scatto si girò verso di lui. Paride non la vide nemmeno. Avvertì solo un forte rumore e subito dopo un bruciore pazzesco alla guancia sinistra. Restò al suo posto, basito e più irritato di prima, guardando Anya rimettersi a ordinare la sua attrezzatura sportiva con un nervosismo poco contenuto.
- Sei un bugiardo … - cominciò lei – Un maledetto bugiardo. Mi hai mentito per tre settimane … hai preso una decisione come quella … senza dirmi niente. Per dieci settimane, forse dodici – sollevò un sopracciglio, canzonandolo – te ne andrai all’altro capo del mondo, a venti ore di viaggio, dopo averlo deciso da solo … e mi chiedi di capirti!
Cominciò a singhiozzare in silenzio, mordendosi le labbra e artigliando la spalliera della panca perché non era rimasto nulla da sistemare. Trasse un respiro profondo e proseguì.
- Perché devo essere informata sempre all’ultimo delle tue decisioni, Paride? Perché mi hai fai questo? Cosa ci sto a fare io, qui, se non hai mai il coraggio di parlarmi dei tuoi problemi? Perché hai paura? Cosa ho fatto? – allargò le braccia, con i palmi rivolti al cielo – Mi pare di non essere mai stata invadente con te. Ho sempre rispettato i tuoi spazi, le tue scelte, ho sempre cercato di fare del mio meglio, venendoti in aiuto ogni volta che ne avevi bisogno. Non mi sono mai impicciata nei tuoi affari perché mi fido di te. – Rimarcò particolarmente le ultime parole e lo scrutò, soffermandosi brevemente sulla chiazza rossa dello schiaffo e trattenendo a stento un singulto colpevole. - So che non mi faresti del male – continuò con voce più bassa - e che sei sincero, nonostante i silenzi. Ma ciò che non capisco e che mi scoraggia di più è il motivo di questa tua paura … perché vuol dire che non hai fiducia in me. Già una volta hai mentito sul viaggio. Mi hai avvisata solo quattro giorni prima di partire, quando avevi già fatto il biglietto aereo e avevi deciso gli scali. Non ho tentato di frenarti, lo sai, perché non sarebbe stato giusto. E nonostante tutto, nonostante la mia comprensione, tu hai deciso di replicarti. E adesso te ne vai, per più di due mesi non avrò la possibilità di vederti, né di starti vicino come vorrei fare da un sacco di tempo, perché tu devi pensare ai tuoi progetti per il futuro … alla tua cattedra universitaria.
Anche io ho dei progetti, delle ambizioni … e dei pensieri per la testa che non mi danno pace neppure quando dormo. La gente si aspetta un sacco di cose da me … e mi sembra di impazzire, perché la mia vita è diventata un inferno. Sono pressata su ogni fronte, il mio sangue è diventato cibo per sciacalli, passo il tempo ad agognare il momento in cui ti avrò finalmente con me, perché solo tra le tue braccia riesco a sentirmi in pace …
Si asciugò in fretta le lacrime, come avesse notato solo in quel momento di stare piangendo, e alzò gli occhi al cielo, battendo le palpebre per riprendersi. Strofinò le guance con i palmi tremanti e vista la racchetta di Paride poggiata alla rete, lo superò per prenderla. Riprese a parlare mentre la riponeva nella fodera.
- E invece ultimamente mi sono ritrovata a temere i nostri incontri, a temere te, perché non sapevo cosa ti passasse per la testa, se ce l’avessi con me o … se avessi intenzione di lasciarmi! Sono arrivata a pensare di tutto, perfino che avessi un’altra, ma continuavo a ripetermi che tu non sei come gli altri,  che sei diverso … - la cerniera si inceppò e dopo due tentativi di farla scorrere gettò tutto all’aria – E adesso te ne esci con questa storia del viaggio! Mi hai sconvolto tutto! Non so più cosa pensare … se mi ami ancora o se preferisci concentrarti sulla tua vita, anziché su noi due! Se … se hai bisogno di tempo per riflettere o per stare da solo o … Accidenti! Avresti dovuto dirmelo prima, Paride! Avresti dovuto parlarmene … non ti avrei impedito di partire di nuovo, lo sai, ma avresti almeno potuto considerarmi!
Paride la ascoltò con la stessa espressione che aveva assunto dopo lo schiaffo; ma mentre lei parlava lo sbigottimento fu mitigato e poi sostituito da una serie di emozioni e sentimenti diversi e contrastanti, che si sommarono alla raffica di parole e lo annientarono con i pianti.
Dimenticò il bruciore alla guancia nel momento in cui la vide singhiozzare per la prima volta e, sebbene lo desiderasse con tutto sé stesso, non disse una parola per timore di farla arrabbiare ancor di più. Ma la voglia ardente di calmarla, di abbracciarla e ammansirla come aveva fatto nei suoi sogni crebbe di minuto in minuto, fino a diventare intollerabile e a spingerlo ad allungare le braccia per stringerla a sé. Perché se era arrivato lo schiaffo, nulla gli proibiva di pensare che si sarebbe avverata anche la restante parte del sogno.
Anya, però, si mosse verso il borsone e le mani di lui carezzarono il vuoto, contraendosi e iniziando a rassegnarsi.
- Passerò il mio tempo con te, queste due settimane, se lo vorrai – disse, inacidito, mentre lei finiva di riporre la propria attrezzatura in borsa. – Staremo insieme ogni giorno, senza preoccupazioni o pensieri di alcun genere.
- So che dovrai tornare a casa per prepararti, cosa credi? Mi hai preso per un’ingenua?
- Sono serio.
Ed effettivamente, quando lo guardò, Anya capì che diceva il vero; ma non poteva dargliela vinta, non dopo che lui le aveva nascosto i suoi intenti per intere settimane. Smise di fissare di colpo le sue iridi verdastre, scuotendo il capo.
- Non funziona così, Paride … non puoi prima dirmi quanto questa spedizione sia importante per il tuo futuro e poi farmi credere che saresti disposto a metterla da parte per stare con me.
Paride si spazientì. Digrignò i denti – Non sto fingendo, dannazione! – gridò. - Voglio trascorrere veramente questi giorni con te!
- Per far cosa? – ringhiò lei in risposta, sfidandolo con lo sguardo – Per continuare a prendermi in giro? No, grazie! Torna pure a casa tua, se devi, tornatene a Waterford e non farti più vedere!
A quel punto cadde il silenzio. Anya afferrò la giacca della tuta e tornò indietro nel campo per raccattare le palle che aveva tirato nello scatto di rabbia di prima. Le ficcò in malo modo in una tasca del borsone e si guardò subito intorno, cercando la terza. Si bloccò quando ricordò di averla data a Paride, che probabilmente la teneva ancora in mano, e chiuse la cerniera della tasca, disponendo tutto per andare via.
Diede il discorso per concluso, anche se rifiutava di soffermarsi maggiormente sul peso delle proprie parole, ma quando si spostò per prendere il borsone dalla panca vide la mano del ragazzo aperta davanti a lei, con la palla sul palmo. La conservò rapidamente in tasca.
- Vuoi che me ne vada, quindi?
Serrò i denti, lo guardò, stavolta evitando le iridi grigio verdi. Sentiva su di sé una delle sue tipiche occhiate sbilenche e respirava pesantemente, segno che qualcosa lo agitava dentro. Si morse le labbra, un groppo alla gola che prometteva nuovi sfoghi.
Tacque a lungo, trattenendo le lacrime, e probabilmente Paride la interpretò come una risposta, perché assentì piano col capo, senza smettere di guardarla.
- Ci rivediamo fra tre mesi, allora – mormorò, asciutto. – Stammi bene.
Le diede una pacca sulla spalla, indugiando ancora un po’; poi, con un sospiro, la superò e si allontanò. Lo seguì con l’udito fino a che il silenzio non inghiottì il suo passo spedito.
Poi si lasciò ricadere sulla panca.
 
 
 
Il sole era tramontato quasi completamente quando uscì dal circolo.
A casa trovò Kate, ma non le disse nulla della lite che aveva avuto con Anya, perché non voleva preoccuparla; sapeva che Anya avrebbe fatto lo stesso. Trovare una scusa plausibile per spiegare la sua improvvisa decisione di tornare a Waterford, però, non fu semplice. Kate continuava a circuirlo con domande invadenti e dovette ricorrere a tutta la sua buona volontà per non cedere all’irritazione. Celò ogni atteggiamento sospetto con dei sorrisi amabili e scacciò le parole di Anya che gli ronzavano senza posa nelle orecchie visualizzando mentalmente l’autostrada per Waterford.
Alla fine, però, Kate si convinse a lasciarlo andare, ma non prima di avergli messo in mano due vaschette di macedonia ed un panino al prosciutto e pomodoro. Paride raccattò in fretta le sue cose dal soggiorno e uscì.
Caricò i bagagli nell’auto con la vana speranza di rivedere Anya, anche solo da lontano; ma ricordò presto che era Sabato e il Sabato sera, dopo gli allenamenti, lei e Linda cenavano fuori. Non c’era nessuna possibilità, dunque, ma lui covò fino all’ultimo l’illusione che il nervosismo la portasse a rinunciare ai divertimenti e a tornare a casa in anticipo.
Salì in macchina con uno strano sentore. Notò Kate alla finestra e si sporse verso il parabrezza per salutarla, sforzandosi di sorridere. Poi mise in moto e abbandonando ogni remora si allontanò.
L’imbocco dell’autostrada era fortunatamente vicino e già dieci minuti dopo avanzava ad alta velocità nel dedalo buio, i fari accesi ad illuminare i segnali catarifrangenti sui cigli della strada. C’erano poche macchine in giro e di ciò ringraziò il cielo, ma non la fortuna, che quel giorno l’aveva abbandonato.
Si grattò il mento con la mano destra, il gomito poggiato allo sportello.
Avrebbe davvero rinunciato ai preparativi del viaggio per stare con lei quelle due settimane. L’avrebbe fatto sul serio. Si sarebbe arrangiato con quello che si era portato a Londra e avrebbe comprato quello che mancava.  Sarebbe stata una bellissima vacanza prima di rimettersi a lavorare. Non ci aveva pensato che per pochi attimi, ma aveva già immaginato come sarebbe stato portarla al cottage di campagna dei suoi e passare un fine settimana da soli. Lui e lei. Era stato poco più che un baleno nella mente, una riflessione spicciola e semplice, ma gli era piaciuta da morire e il cuore aveva fatto un salto di gioia.
Anche adesso, pensandoci, l’idea lo allettava tantissimo e aguzzò istintivamente lo sguardo alla ricerca di cartelli stradali che indicassero una svolta per Dublino, prima di darsi del deficiente e premere il piede sull’acceleratore.
Un idiota, ecco cos’era. Le aveva sbattuto in faccia un buon motivo per odiarlo.
Non c’era da meravigliarsi che l’avesse cacciato via.
Chissà quanto ci avrebbe messo a perdonarlo … uno, due, tre giorni? Una settimana? O forse due?
Lui in ogni caso non sarebbe partito senza rivederla. Non gliel’aveva detto per una questione d’orgoglio, ma non sarebbe mai andato via senza salutarla. La amava troppo.
Ci pensò a lungo, picchiettando le dita sul manubrio e sbuffando a intervalli, agognando il momento in cui l’avrebbe rivista e pregustando la sua espressione sorpresa; e non avrebbe dovuto, perché ciò lo distrasse dalla guida.
E quando se ne accorse era ormai troppo tardi.
 

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


An irish tale – Parte Seconda
 
CAPITOLO X
 

 
 
- Anya! Anya, ma ti vuol calmare? – la redarguì Linda, posandole una mano sulla spalla – Vedrai che non gli è successo niente!
Continuò a non darle retta, mentre camminava speditamente verso l’ospedale. Linda e Kate le stavano dietro a fatica. La presa di Linda si fece più decisa.
- Anya!
- Lasciami! – gridò, liberandosi con una manata. – Se devi lamentarti tornatene a casa!
Velocizzò il passo e con poche falcate raggiunse l’entrata. Fece guizzare lo sguardo alla ricerca della reception, che trovò subito, bianca e austera, oltre un via vai di gente e infermieri.
- Cerco Paride Langley – disse, tesa, accostandosi al banco.  La segretaria le fece cenno di aspettare, mentre parlava al telefono. Anya sbuffò, concitata e spazientita. La chiamata si concluse poco dopo.
- Nome?
- Langley Paride – scandì.
- Il suo.
- Bacott – disse, sporgendosi leggermente – Anya Bacott.
La segretaria scrisse un appunto.
- Sapete cos’è successo? Mi può dare qualche notizia? È un ragazzo biondo, magro … - alzò una mano oltre la sua fronte - … alto così … dovrebbe …
- È arrivato circa mezz’ora fa – la interruppe la donna, dopo aver letto un foglio – Codice verde.
Anya tirò un lungo sospiro, sgranando gli occhi e poi chiudendoli. Gonfiò il petto, portandosi una mano alla fronte. – Oh … dio sia lodato. In quale reparto è?
La segretaria scorse nuovamente il foglio. – Osservazione.
- Capito … Grazie infinite.
Stava per andarsene, quando la segretaria la richiamò. – Lei è una parente?
- Sono la sua ragazza … - mormorò, esitando – Posso andare da lui?
La donna la scrutò brevemente con una strana espressione. – L’orario delle visite è terminato, signorina – disse, comprensiva – Mi dispiace.
Anya abbassò le spalle, implorante. – La prego …
La segretaria scosse il capo con gentilezza. – Non posso, davvero … - volse gli occhi oltre le spalle di Anya. Voltandosi, la ragazza vide che si era formato un piccolo turno. Kate e Linda la aspettavano poco distante, i visi preoccupati.
- Ma forse potrebbe parlare con il medico che l’ha preso in cura …
Anya si fece attenta. - Come si chiama?
La segretaria allungò gli occhi verso un elenco e aprì la bocca per parlare, ma in quello stesso istante un uomo si avvicinò al banco, facendo un cenno di scuse ad Anya e porgendo una cartelletta alla donna. Anya ne osservò i movimenti e notò il camice bianco. Lui e la segretaria confabularono brevemente e ad un certo punto la donna fece un cenno nella sua direzione.
- Questa signorina necessita d’essere informata sullo stato di salute di un suo paziente … un certo Paride Langley.
Il medico guardò alternativamente l’una e l’altra, soffermandosi infine sulla giovane. Esitò, strizzando gli occhi nel tentativo di ricordare qualcosa, poi inarcò le sopracciglia.
- Certo, sì … codice verde, se non sbaglio? – borbottò rivolto alla segretaria.
- Come sta? – indagò subito Anya.
- Un po’ ammaccato, ad essere sincero … - disse con un mezzo sorriso, invitandola a seguirlo. – Lei è la fidanzata?
Anya annuì, volgendosi poi verso Kate e Linda. – Lì ci sono mia madre e mia sorella …
L’uomo recepì il messaggio e scosse il capo – Loro aspetteranno l’orario delle visite di domani mattina. Al momento è meglio se entra solo lei.
La condusse in un corridoio e mentre si facevano strada fra gli infermieri al lavoro e qualche raro paziente spiegò con poche parole la situazione di Paride.
- È arrivato in ospedale in stato d’incoscienza, ma si è ripreso presto; ha subìto una commozione cerebrale di lieve entità ed un colpo di frusta per il quale gli abbiamo dovuto mettere un collare ortopedico. A quanto pare – continuò, gonfiando il tono di biasimo – non portava la cintura e questo ha fatto sì che sbattesse la faccia contro il volante …
Svoltarono a sinistra e camminarono fino a metà corridoio. – La stanza è quella – spiegò il dottore, fermandosi a pochi passi da una porta aperta. – Terremo il suo fidanzato in osservazione per tutta la notte. Se dovessero esserci problemi d’ogni sorta, si rivolga agli infermieri. Non lo massacri di domande, come pensa di fare … gli parli per tenerlo sveglio, ma non lo stressi.
Anya assentì, ricordando qualcosa sulle commozioni cerebrali e sui loro sintomi, e appena fu sola entrò in camera. La luce centrale era spenta, ma si distinguevano l’austero mobilio e due letti con i rispettivi comodini. Sul primo di essi una lampada emetteva un flebile bagliore.
Paride era steso supino sul letto più vicino alla finestra, vestito con gli abiti del pomeriggio e semibloccato da un collare bianco che lo obbligava a tenere lo sguardo rivolto al soffitto. Candido, nella penombra, spiccava anche un cerotto sul sopracciglio sinistro. Gli si avvicinò silenziosamente, credendo che dormisse, ma lo trovò sveglio. Percepì il suo sguardo sbilenco su di sé e lo evitò, nonostante ci fosse poco in lui che comunicasse lucidità e buona salute. Si chinò per abbracciarlo, ma ci rinunciò nel vederlo così bloccato. Gli strinse una mano e carezzò il suo viso graffiato senza dire una parola.
Nel suo momentaneo imbarazzo Paride non potè permettersi altro qualche occhiata e poche domande confuse. Fu sincero quando disse di non ricordare niente.
-  Ti riprenderai presto, stai tranquillo – lo rassicurò lei.
Non parlò nessuno. Un lungo silenzio si susseguì a quelle poche parole pronunciate con incertezza, poi qualche altra domanda. Ma nulla più.
Paride era sempre sul punto di addormentarsi. Chiudeva gli occhi senza volerlo, abbandonandosi ad un sonno che Anya si premurava di allontanare con delle piccole pacche sul braccio. Le palpebre si rialzavano con un guizzo assonnato, poi di nuovo si abbassavano, carezzando languidamente le iridi verdastre, tormentate dalla poca luce emessa dalla lampada.
- Non potresti spegnerla? – mugugnò lui ad un certo punto.
Anya ricercò un compromesso, spostando la direzione del fascio luminoso. Doveva eseguire gli ordini del medico, per quanto fastidioso fosse per lui e il suo mal di testa.
Il dottore passò qualche minuto dopo per controllare che andasse tutto bene e fu così contento di vedere che Anya aveva rispettato i suoi precetti, che decise di farla rimanere tutta la notte per vegliare il malato. Quell’affermazione alla ragazza non giunse nuova, perché già dal suo arrivo aveva deciso di stare con Paride, ma le ricordò che non dormiva da più di ventiquattro ore e la testa incominciò il suo capriccio con un rimbombare improvviso tra le pareti del cranio.
Il dottore ne approfittò per fare una breve visita al paziente,  che non parve molto contento di rivederlo, e rassicurò Anya dicendo che non era più necessario tenerlo sveglio, ma che poteva anche farlo dormire per brevi intervalli.
Quando se ne fu andato, Anya corse sulle impostazioni del cellulare per attivare la sveglia. Nonostante l’agitazione di poco prima, non se la sentiva di tenere gli occhi aperti per un’altra notte.
Si addormentò col capo poggiato al materasso.
 
 
Il momento in cui il tenue grigiore di una giornata nuvolosa si insinuò fra le sue ciglia, ebbe la conferma di non essere morto.
Ma per lo stato in cui si trovava e per l’indolenzimento che agguantava il collo e tutto il lato sinistro del volto era convinto che ci fosse mancato poco.
Non poteva permettersi grandi movimenti. A stento riusciva a girare il viso a destra e a sinistra. Quel dannato collare impediva davvero ogni gesto. Il medico gliel’aveva detto che per una buona settimana, e forse di più, la sua vita quotidiana avrebbe subito delle modifiche.
Anya l’aveva svegliato un sacco di volte. Non poteva vedersi, ma era sicuro di avere un aspetto orrendo. Al tatto aveva sentito un cerotto sulla fronte, sul punto in cui doveva aver sbattuto. Faceva molto male, di sicuro c’erano anche dei punti, ma non ne era certo perché la sera prima non era stato nelle condizioni di decifrare parole e azioni dei medici.
Si sentiva ancora frastornato e una tossina, dentro, ammalava la sua consueta pace, infangando l’animo di una rabbia indecifrabile. Qualcosa dentro la testa, in basso, sulla nuca, premeva e pungolava come un nervo ferito, i muscoli del collo si irrigidivano, facevano sempre più male. Ma non era il dolore fisico la fonte di tutto quel malessere. O almeno non solo questo.
Il motivo lo scoprì poco dopo, quando la coscienza di sé si diffuse al resto del corpo. Stringeva debolmente la sua mano destra, inondava il braccio di sottili fiumiciattoli rossi, respirava così piano e profondamente da non poter essere facilmente udita.
Non seppe come si ritrovò a guardarla. Le iridi si aggrapparono alle estremità degli occhi, premettero per poter curiosare e si pacificarono nello stesso istante.
Ma c’era qualcosa, nella testa, che risuonava come un monito. Volteggiava mollemente e poi saettava come un cobra, mordendo il suo lato sentimentale, cantilenandogli di stare all’erta, di riflettere. Di respirare a fondo, di soppesare le parole prima di pronunciarle.
Le pupille si riportarono verso l’alto, salutando con sarcasmo un soffitto ormai troppo familiare, e le palpebre si chiusero, annebbiandolo con molteplici visioni dai mille colori, che il cervello tentò subito di riassettare in immagini sensate. Ricordi sfocati furono il prodotto dei primi sforzi. La concentrazione era ancora troppo debole per poter fornire un valido aiuto. Il cobra continuava a pungolare, a strangolare le emozioni, ad avvelenare il buonsenso. Fu allontanato e con un guizzo affaticato i ricordi del pomeriggio prima tornarono ad affollargli la mente.
Riaprì gli occhi così lentamente che gli parve di non averli mai chiusi e l’unico sopracciglio sano, pensieroso, si corrugò.
 
Anya si svegliò poco dopo, quando l’infermiera dei pasti entrò nella stanza.
Lo aiutò a mettersi seduto e poi a mangiare. La sua gentilezza, seppure offuscata da un mite risentimento che ne raffreddava il consueto ardore, lo intenerì. Si rifiutò categoricamente di condividere con lui la colazione accontentandosi di un caffè nero preso al distributore automatico.
Non ebbe il coraggio di confessarle i propri propositi nel vederla così preoccupata alla sua salute e ricercò lungamente le parole più adatte al suo cattivo umore. Mordaci, gli avvenimenti del giorno precedente stuzzicarono il suo orgoglio, mettendo a fuoco una vigliaccheria offuscata solo nel lavoro.
In attesa della visita del medico, Anya, che, seppur accorata, non voleva saperne di allacciare un discorso, si spostò davanti alla finestra, poggiandosi al davanzale con entrambi gli avambracci e affondando il viso nel petto.
- Ricordi qualcosa di ciò che è successo ieri sera? – gli domandò dopo un po’.
Paride ricercò ancora una volta tra le immagini della mente. – No.
- Te ne ricorderai presto. Spero – si raddrizzò, sbadigliando. – E allora dovrai dirmi a cosa diavolo stavi pensando mentre guidavi.
Non ci fu bisogno di sforzare ulteriormente l’immaginazione. La logica si scomodò e il collegamento fra la lite del pomeriggio e la possibile causa della sua distrazione baluginò come una piccola scossa elettrica nel buio. Capì, allora, perché Anya lo stesse guardando in quel modo strano.
- Hai esperienza nella mnemonica …
Il modo in cui serrò le labbra gli diede a intendere che fosse pienamente soddisfatta di quel risultato, ma che non volesse darlo a vedere.
- Diretta, sì – sospirò.
Si aspettò di vederla avvicinarsi, ma il suo fare contrariato la obbligò a rimanere ferma sul posto. Il sole le inondava il viso di luce, alimentava il color fuoco della sua chioma e schiariva l’azzurro degli occhi socchiusi. Sembrava una ninfa dei boschi, così immobile e orgogliosa. Una ninfa pensierosa e pronta all’assalto come un felino affamato. Stava di sicuro pensando a qualcosa. Ma, che il collo gli togliesse la ragione con una fitta improvvisa, non capiva proprio cosa. Quella ragazza era veramente impossibile da decifrare e a volte si chiedeva se i sentimenti che nutriva nei suoi confronti fossero giusti e sufficienti, perché c’erano molte cose di lei che ancora non comprendeva. E si dannava, perché questo mistero investiva Anya di un’aurea che lo spaventava.
E lo portava a tacere.
Ripensò al diverbio avuto con lei a causa dei suoi silenzi, alla rabbia che non aveva contenuto nel sapere che sarebbe partito nel giro di due settimane, al rancore che ancora adesso doveva covare e al risentimento, al freddo risentimento che non gli concedeva miglior vista di quella che lei, messa quasi di spalle, non gli offriva già.
Quando stava con lei aveva voglia di guardarla negli occhi. E, seppure fosse cosciente di aver mancato anche lui ad un impegno di attenzioni e gesti affettuosi e sinceri, quella manchevolezza da parte sua lo irritò.
- Stavo pensando – disse d’un tratto Anya, sovrappensiero, girandosi appena – che questa mattina il dottore ti dimetterà.
- Lo so.
- Ha telefonato mia madre, mentre ero a prendermi il caffè. Ha visto la tua macchina e … - si voltò a guardarlo, con uno sbuffo quasi divertito – ti fa i complimenti per come l’hai ridotta.
Paride mosse istintivamente il capo nella sua direzione e di colpo si bloccò, portandosi entrambe le mani al collare, gemendo di dolore.
- Dannazione! – sibilò. – In che senso mi fa i complimenti?
Finalmente Anya si avvicinò e lo aiutò a distendersi, anche se lui non ne aveva voglia. – Chiudi gli occhi e rilassati – gli ordinò, sedendosi sul bordo del materasso.
- Che è successo alla macchina?
- Rilassati, ho detto, e ti spiegherò tutto.
Suonava come un ricatto, ma se serviva a farla parlare, perché non cedere?
- Dunque – sospirò lei – sei sicuro di non ricordare niente?
- Certo che sì.
- Rilassati. Hai avuto uno scontro frontale con il posteriore di un camion. C’era traffico e in un tratto di autostrada le macchine erano bloccate. Eri talmente distratto – enfatizzò il tono e la pronuncia nell’ultima parola, inarcando un sopracciglio – che hai continuato ad avanzare a moderata velocità fino a quando … non l’hai preso in pieno.
- Non ricordo un accidenti …
- Ricorderai dopo … quando dovrai pagare i danni al camion. La tua macchina si è ammaccata per benino: stando ad un’analisi poco accurata potresti farla riparare, ma credo ti costerebbe meno comprarne una di seconda mano. Linda ci teneva a farti sapere che la prima parola che le è venuta in mente quando ha visto il cofano è stata “Crack” – e mimò con le dita di una mano l’accartocciamento del metallo.
- Oh Gesù …
Si stropicciò la fronte, deglutendo il vuoto, dimenticando la ferita al sopracciglio e pressando involontariamente un dito sulla cucitura. Anya se ne accorse quando lo sentì lamentarsi e gli allontanò con un gesto la mano, prodigandosi per controllare che tutto fosse a posto.
- Stai fermo – sbottò a bassa voce, strappando un’estremità del cerotto per dare un’occhiata. – È tutto a posto, fortunatamente … - poi sospirò, rimettendosi a sedere – A volte sei peggio di un bambino …
Il taglio bruciava e doleva tantissimo. Aveva appena toccato la cucitura e adesso non sentiva l’intero sopracciglio.
- Dimmi la verità, Anya, fino a dove mi sono rotto?
Lei aggrottò la fronte.
- Anya – la chiamò di nuovo lui, scrutandola obliquamente – so di essermi spaccato la faccia … ma dimmi fino a dove, almeno. Non ci capisco niente con tutta questa …  – e indicò il collare ortopedico - … roba addosso!
- Beh … ti hanno dato quattro punti. Solo quattro punti al sopracciglio …
La guardò ancora per un po’. Era una sua impressione o Anya stava pensando ad altro?
Sbottò in una secca risatina sprezzante. Sprezzante verso sé stesso.
- Mi hai fatta preoccupare tanto, sai?
Stavolta, magari, c’aveva azzeccato. Anya ignorò il suo sarcasmo, continuando piuttosto a seguire ben altre riflessioni.
- Te ne sei andato senza neppure salutarmi …
- Tu non hai voluto …
- … per colpa tua.
Ad una simile risposta si sarebbe strofinato il dorso della mano sul mento, che in quella situazione fu sostituito da un roteare esasperato delle iridi.
- Colpa tua, inutile che neghi.
- Non voglio discuterne, adesso, Anya.
- Come sempre, del resto …
- Anya – la richiamò, stanco – ti prego.
La ragazza tacque. Paride ci pensò un attimo su. Ma sì, perché tacere?
- Mentre ancora dormivi, stamane, ho riflettuto su un particolare …
- Quale?
- Appena esco da qui prendo il treno per Waterford.
Le sopracciglia vermiglie disegnarono una bizzarra W. – A Waterford?
- Sì.
- Conciato così?
- Cosa ci trovi di strano?
- Il medico non te l’ha ancora detto, ma, fidati, dovrai stare a riposo per un po’ di giorni. Non dovrai stressare il collo, dovresti saperlo tu prima di tutti.
- Certo che lo so … - mosse le labbra, serrandole, crucciandole come chi si sente responsabile – però, riflettendo su ciò che è successo ieri … te lo leggo nello sguardo e tu lo leggi nel mio: se continuiamo a frequentarci in questi giorni, rischiamo di cozzare un’altra volta …
- Cozzare? Che stai dicendo?
Paride alzò una mano per attirare la sua attenzione e al tempo stesso calmarla. Gli fece male il collo, ma  non gli importò.
- Anya cerco solo di vedere le cose come stanno realmente. Inutile negarlo: con il carattere che ci ritroviamo finiremmo per litigare di nuovo … è meglio se torno a Waterford.
Il materasso riacquisì in fretta la sua forma quando ella si alzò. Un piccolo sobbalzo ed un intero lato del suo corpo fu privato del suo piacevole tepore, le narici dalla fragranza che usava tamponare sul collo e sui polsi.
- Anya …
- Non ricominciare.
Ferma, glaciale. Paride non replicò, ma mise da parte quello che pensava per dirlo in un secondo momento.
Anya fece scricchiolare le nocche delle mani. – Non ti avrei alterato, Paride. Non nelle condizioni in cui sei. Credevo che in quasi un anno che stiamo insieme avessi imparato a conoscermi almeno un po’. Continui a non fidarti, invece.
La rabbia lo cavalcò da capo a piedi, le labbra fremettero. – Possibile ch … - sibilò, strozzando il tono di voce, gemendo poi per una fitta al collo – Merda …
Anya non lo degnò d’altro che di un’occhiata indifferente, con la quale cercò di celare la preoccupazione che in un baleno avviluppò pugni e stomaco.
Nel dato momento in cui Paride, placatosi il dolore, girò lo sguardo per risponderle, entrò un’infermiere.
- Buongiorno – lo salutò avvicinandosi al letto e facendogli cenno di sedersi – il dottore la attende nel suo studio per la visita.
Paride si lasciò aiutare senza abbandonare l’aria risentita. L’infermiere lo fece alzare in un batter d’occhio, con dei movimenti che non gli procurarono nessun dolore al collo. Gliene fu tacitamente grato e mentre quello gli metteva in mano gli oggetti personali che man mano raccoglieva dal comodino, scoccò un’occhiata alla ragazza, girandosi goffamente con l’intero busto, incontrando il suo sguardo azzurro.
Anya gli camminò accanto fino allo studio medico ed entrò con lui.
- Penso e, spero, si farà aiutare da questa ottima crocerossina, signor Langley … dall’aspetto di entrambi deduco che nessuno di voi ha dormito in modo regolare, questa notte. Ha rispettato l’impegno preso, signorina, e mi congratulo. Qualcun altro si sarebbe addormentato e … buonanotte!
Lo sguardo dei due ragazzi si incrociò, prodotto e conclusione di una tensione che aleggiava e opprimeva l’aria, in un baleno di simulata indifferenza che non passò inosservato. Il medico interruppe il suo dire per un breve istante, dopo il quale riattaccò con una breve tiritera di consigli, prescrizioni e divieti.
Una stretta di mano e nel giro di pochi minuti si ritrovarono alle porte dell’ospedale, le facce pallide e assonate inondate di sole, i capelli scarmigliati scossi da un alito di vento tiepido.
 
 
 
Due giorni dopo.
 
 
Il secco scricchiolio di un guscio d’arachide ruppe il silenzio.
Anya si portò la racchetta alla spalla, passeggiando sul posto con le spalle rivolte verso la rete.
- Jack! Batti!
Ruotò fulminea sull’intero corpo, colpendo la palla con un rovescio ad una mano. Jack rispose con un diritto che indirizzò la palla alla destra dell’avversaria, che allungò leggermente il passo e si servì anche lei di un diritto ben caricato con le spalle e gli addominali, mentre un verso rabbioso fuoriusciva d’impulso dalle labbra. Jack ne valutò la forza, saltellando sulle punte dei piedi, prima di slanciarsi con pochi passi verso sinistra e rispondere con una volèe di rovescio che mandò la palla alla sinistra di Anya, obbligandola a scattare e ad utilizzare un rovescio a due mani. La palla urtò contro la rete.
- Va bene – esclamò Mr. Harris, sollevando una mano – per oggi finiamo qua.
Anya si drizzò sulla schiena, gonfiando finalmente il petto di sollievo. Dalla panca sul bordo campo Linda alzò i pollici in sua direzione in segno d’apprezzamento.
Era sera, il cielo si era annerito da almeno una decina di minuti. Agli angoli del campo erano stati accesi i fari d’illuminazione, che non ferivano gli occhi per merito della loro piccola dimensione. Anya si asciugò il sudore con un asciugamano, respirando pesantemente e defaticando i muscoli con una lenta camminata nella sua metà campo. Affidò la racchetta a sua sorella quando Mr. Harris richiamò lei e Jack con un cenno.
- Domani riprendiamo l’allenamento allo stesso orario – disse, rompendo un altro baccello d’arachide e versandosi i semi sui palmi. – Vi allenerete di nuovo insieme e tu, Anya, giocherai per dieci minuti con il rovescio a due mani. Voglio capire per quale diamine di motivo continui a carezzare quella dannata palla invece di colpirla a dovere! – si ficcò in bocca i semi e annuì ad un pensiero suo mentre masticava. – Anzi, fammene uno adesso. Jack, batti.
Il ragazzo si allontanò di malavoglia verso la sua metà campo, svogliatamente imitato da Anya che non vedeva l’ora di tornarsene a casa. Acchiappò la palla che Mr. Harris gli lanciò e batté. La ragazza rispose come voleva Mr. Harris, soddisfacendo involontariamente la sua voglia di vederla sbagliare con un colpo debole.
- Ecco … ecco!
Mangiò altri due semi d’arachide mentre la raggiungeva. La oltrepassò, posizionandosi dietro di lei e gridò nuovamente a Jack di battere. Non appena Anya si dispose per rispondere nuovamente con il rovescio a due mani, sentì Mr. Harris sbottare qualcosa con il tono di chi ha appena trovato un oggetto perso da tempo e subito dopo una sua mano toccarla alla spalla sinistra. Si irrigidì senza volerlo, avvertendo con una punta di allarme le dita dell’allenatore percorrere i muscoli delle spalle. In un primo momento non capì quella strana agitazione, ma un secondo dopo, quando lui le sollevò il braccio e premette i polpastrelli appena sotto l’attaccatura del deltoide, scattò con un lamento soffocato.
- Ah! Trovato! – esclamò, tronfio, a voce bassa, mentre continuava a muovere le dita e pressarle sul punto dolente. – Qui ti fa male?
Anya si contorse appena, con una smorfia che preoccupò Linda. Assentì col capo.
Alle sue spalle, Mr. Harris sbuffò quasi con apprensione.
- Mr. Harris?
- Hai sbattuto da qualche parte, per caso?
Lei ci pensò su. – No.
- Sicura? – la toccò di nuovo dove faceva male.
- Sì.
- Linda?
La ragazza si girò subito. Assunse un’espressione pensierosa, poi fece spallucce, scuotendo piano la testa.
- Hai la spalla gonfia, Anya.
Lei ritrasse il braccio, guardinga e si voltò.
- Non sembra grave – continuò lui, facendo un cenno in direzione della spalla – ma rimane pur sempre un problema … che intendo risolvere in fretta.
Lo spaesamento di Anya fu dissolto dal risuonare della voce di Jack. – Potrebbe darsi – azzardò, avvicinandosi alla rete – che sia dovuto all’allenarsi di frequente?
Mr. Harris fece subito di no, sventolando la mano con sprezzo, quasi che quella domanda fosse una vespa da cacciare via. Anya lo seguì con un crucciarsi della fronte, pronta a contraddirlo, ma le riflessioni che non aveva interrotto del tutto le servirono, come un piatto freddo, il ricordo del match con Sonja McKintoschk, quando, ad un suo potente diretto aveva reagito con uno scatto che l’aveva fatta finire a terra.
- Domani – la ridestò Mr. Harris con un pugnetto sulla spalla sana, in conclusione del discorso – facciamo un salto dal dottor White … d’accordo?
Nell’udire quel nome, perfino Linda si mise sull’attenti.
- Il dottor White? No di certo!
L’arachide che Mr. Harris aveva in mano si ruppe all’improvviso. – Perché no?
Linda incominciò a sudare freddo. Jack si spostò lungo la rete, avvicinandosi ad un’estremità.
- Perché … Ci sono altri fisioterapisti oltre lui! – ringhiò Anya.
- Ma lui – sibilò l’allenatore, mangiando un seme d’arachide – ti conosce da una vita.
Linda fece un cenno a Jack.
- Dal dottor White non ci vado! Chiuso il discorso!
Jack si appressò con circospezione ai due. – Mr. Harris … dovrei parlarle …
- Non lo dici tu quando chiudere il discorso, stupida ragazzina insolente! – ringhiò a bassa voce l’uomo, puntandole il dito contro. – Hai una spalla da recuperare, se non te ne sei ancora resa conto e sono disposto a trascinarti per i piedi dal medico. Vedi di comportarti da donna responsabile e matura!
Jack prevenì lo scatto rabbioso di Anya, prendendola dolcemente per il braccio e trascinandola fino alla panca davanti alla quale la aspettava Linda. Straordinariamente la ragazza non obiettò, obbedendo con una strana, fumosa, incandescente, calma. Ignorò il sudore, ficcò alla bell’è meglio gli strumenti da gioco nel borsone e uscì, la giacca ed il pantalone della tuta accartocciati sotto il braccio.
Jack tornò indietro verso la sua roba, non avendo in realtà nulla da chiedere a Mr. Harris, che continuò a sgranocchiare, imperturbabile come chi è abituato ad averla vinta, le sue arachidi.
- Ma perché se l’è presa tanto?! – sussurrò il ragazzo, guardando la porta oltre la quale Anya era appena scomparsa.
Linda piegò frettolosamente una maglia e la ficcò nel suo borsone, insieme ad una fascia di spugna per i polsi ed un asciugamano. Controllò, senza avere un motivo valido per farlo, che Mr. Harris non li sentisse e fece una smorfia. Poi calcolò mentalmente quanto Jack sapesse delle amicizie di sua sorella e rispose. - Il dottor White è il padre di Philip.
Gli fece un cenno come ad assicurarsi se avesse capito o meno e sgusciò via.
 

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