Ricordi di ghiaccio rosso

di KiarettaScrittrice92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno a Tokyo ***
Capitolo 2: *** Sorpresa! ***
Capitolo 3: *** Festa di compleanno ***
Capitolo 4: *** Conan Edogawa ***
Capitolo 5: *** Shinichi salvami! ***
Capitolo 6: *** Insieme al campeggio ***
Capitolo 7: *** Uno strano microchip ***
Capitolo 8: *** Ran ritorna! ***
Capitolo 9: *** Soli contro il mondo ***
Capitolo 10: *** Confessioni di notte ***
Capitolo 11: *** Addio Boss ***
Capitolo 12: *** Tutto è bene quel che finisce bene ***



Capitolo 1
*** Ritorno a Tokyo ***


Ritorno a Tokyo

Il treno correva sui binari di metallo sferragliando e sfrecciando vicino alla campagna verde. Shinichi stava leggendo l’ultimo libro di suo padre, ma era distratto. Ogni fine frase guardava, malinconico, gli alberi che passavano velocemente. Tutto gli sembrava vuoto e inutile. Non capiva il senso di quel viaggio e non riusciva a rilassarsi. A quell’ora poteva essere a Sendai, a casa sua, stravaccato sul letto a rilassarsi.
Ad un certo punto si accorse di aver riletto la stessa frase quattro volte. Stufo di stare ancora sul libro e di stare seduto, si alzò ed uscì dal suo comparto. Nel corridoio del vagone c’era qualche passeggero che chiacchierava e altri che guardavano il paesaggio dai finestrini. Anche lui si avvicinò a uno dei tanti rettangoli di vetro che percorrevano il lungo mostro d’acciaio. Il paesaggio da quel lato, però, non era molto diverso da quello che si vedeva dal suo scompartimento. Il suo sguardo malinconico si era posato su quella distesa verde che schizzava velocemente sotto i suoi occhi azzurri.
Ad un certo punto una vocina lo distrasse.
«Perché sei triste?»
Sentite quelle parole il ragazzo si voltò e vide il bambino che gli aveva fatto quella domanda. Aveva i capelli biondo cenere, corti ai lati e lunghi sopra e lo guardava con due innocenti occhi verdi, evidenziati da un paio di spessi occhiali. Non poteva aver più di dieci anni, forse otto.
Shinichi cambiò espressione, mostrando uno dei suoi soliti sorrisi e accovacciandosi salutò il bambino:
«Ciao piccolo, come ti chiami?»
«Conan, Conan Otaki!»
Il ragazzo ebbe un sussulto. Ciò che aveva appena detto il bambino, quel tono di voce, quell'espressione innocente dietro agli occhiali. Qualcosa di tutto ciò gli aveva ricordato un flash che gli attraversò la mente, veloce e prepotente come un lampo seguito dal tuono.

«Mi chiamo Shin…no io volevo dire…ecco…ecco…Conan… Conan Edogawa.»

Proprio in quell’istante il treno iniziò a rallentare e una voce maschile risuonò nel corridoio, richiamando il bambino:
«Conan sbrigati, stiamo per scendere!»
Solo in quell’istante Shinichi si accorse che il treno si stava avvicinando proprio alla stazione in cui doveva scendere. Tornò nel suo scompartimento e prese dalla retina in alto i due bagagli che si era portato: un borsone, che si mise subito a tracolla, e un trolley. Uscito dallo scompartimento vide dal finestrino del corridoio il grosso cartello che annunciava il nome della stazione Beika-Tokyo
Scese dal treno e, per l’ennesima volta, si chiese per quale arcano motivo fosse lì. Suo padre, ma soprattutto sua madre avevano insistito tanto perché lui partisse, ma lui non ne aveva ancora capito il motivo. Il giorno prima gli avevano dato il biglietto del treno, 70.000 yen e un mazzo di chiavi con un foglietto dove vi era scritto un indirizzo. Quando lui per l’ennesima volta provò a chiedere spiegazioni, l’uomo aveva risposto:
«Vedrai che capirai…»
Eppure lui ancora non capiva, anche se ormai era lì e di certo non poteva tornare indietro. Anzi, forse, non voleva tornare indietro: più camminava per le strade di Tokyo, più la sua testardaggine lo spingeva a cercare di capire cosa c’era dietro a quel mistero.
Ci mise circa un quarto d’ora ad arrivare all’indirizzo segnato sul biglietto. Quando fu davanti al cancello iniziò a suonare al citofono, sperando che qualcuno rispondesse. Eppure guardando l’enorme villa, oltre quelle sbarre di metallo, sembrava che quella residenza fosse disabitata ormai da qualche anno.
«È inutile che continui a provare, lì non ci abita nessuno da ormai due anni.»
Shinichi si girò e vide una ragazzina di dodici anni. I capelli corti e ramati e gli occhi di un verde acqua misterioso, come se ci si potesse perdere dentro. La bambina era seria, forse un po’ troppo seria per la sua età e lo stava guardando fisso negli occhi, come se avesse voluto frugargli all’interno dell’anima.
«Proprio tu…» disse con un filo di voce.
«Che c’è?» domandò il ragazzo, non avendo capito quell’affermazione.
«Proprio tu a suonare a questa porta…» completò la frase lei, sempre con voce pacata.
«Ma cosa stai dicendo?» chiese ancora il ragazzo, sempre più confuso.
«Perché non guardi la targhetta appesa lì…Shinichi Kudo…» rispose lei, indicando con il dito la colonna del cancello e dando enfasi al nome del ragazzo.
Il ragazzo si voltò, proprio mentre lei pronunciava il suo nome e mentre sentiva la voce della bambina dire anche il suo cognome, lui contemporaneamente lo lesse sulla targhetta e gli si gelò il sangue nelle vene. Quella villa era sua? Sua o di suo padre, s’intende. Eppure lui non ricordava minimamente di essere mai vissuto a Tokyo.
Poi si ricordò della bambina alle sue spalle e di ciò che aveva detto. Si voltò verso di lei, con ancora quell’aria sconvolta in volto.
«Come fai a sapere il mio nome?»
«Perché noi ci conosciamo Shinichi… mi chiamo Ai Haibara.»
Il ragazzo ebbe di nuovo quella strana sensazione e un’altro ricordo gli attraversò veloce la mente.

«Ragazzi vi presento Ai Haibara, che a partire da oggi farà parte della nostra classe…»

Conosceva davvero quella ragazzina? E come mai aveva quello strano ricordo di lei? Insomma, era più piccola di almeno dieci anni, come era possibile che andassero nella stessa classe? Decise però che non era il momento di scoprirlo. Ciò che davvero gli interessava di più era entrare in quella villa per capire che intenzioni avevano avuto i suoi nel mandarlo lì, a Tokyo. Perciò prese dalla tasca il mazzo di chiavi che gli aveva lasciato suo padre, si voltò verso il cancello e cercò di trovare la chiave giusta per quella serratura. Fece un paio di tentativi, poi finalmente trovò quella giusta ed entrò, senza rivolgere più la parola a quella strana bambina che ancora lo stava guardando con aria seria attraverso le sbarre del cancello. 
«È permesso?» chiese, quando dopo qualche altro tentativo per la serratura del portone, entrò nella villa. Non rispose nessuno: proprio come aveva sospettato quella residenza era disabitata da un po’, anche se era stranamente pulita e profumata. Come se qualcuno fosse andato qualche giorno prima a pulirla. Quell’odore in un certo senso lo rassicurò, dando anche a quell’immenso ingresso un’aria tremendamente familiare.
Le pareti del corridoio laterale, che passava proprio vicino alla scala, erano tappezzate di riconoscimenti a Yasaku Kudo, suo padre. 
Decise di andare a vedere il piano di sopra, per trovare una camera da letto in cui sistemare i bagagli e poter dormire la notte. Eppure appena entrò nella prima stanza del corridoio del piano superiore rimase scioccato. 
La stanza aveva le pareti azzurre e su una di esse c’era un’enorme poster di lui che tirava un calcio al pallone. Ormai da due anni giocava nella squadra di calcio di Fukushima, una città abbastanza vicina a Sendai, ma non ricordava quella scena e oltretutto non era quella l’uniforme della squadra. Scosse la testa, cercando di ricordare, ma questa volta nessun ricordo gli sfiorò la mente.
Posò le valige vicino alla scrivania, decidendo che avrebbe sistemato gli abiti e il resto in un altro momento. Proprio sulla scrivania, vicino ad un portapenne in metallo, notò una foto che ritraeva lui assieme ad una ragazza, con sullo sfondo un castello bianco dai tetti rossi, ebbe di nuovo quella sensazione questa volta più forte. Quella ragazza l’aveva già vista. Ne era sicuro. Eppure non riusciva a ricordare né dove né quando.
Aprì uno dei cassetti della scrivania, sempre più curioso e sempre più intenzionato a capirci qualcosa. Ne tirò fuori dei ritagli di giornali. I titoli riguardavano tutti lui: Shinichi risolve il caso a villa Kanue, Il detective liceale colpisce ancora e così via. Ce n’erano almeno una ventina, eppure lui non ricordava assolutamente niente.
Si sdraiò sul letto. Era parecchio comodo e gli ricordava molto quello di casa sua. Rimase lì a fissare il soffitto, cercando di capire quale mistero si celasse in quella casa e per quale motivo non ricordava nulla della sua vita vissuta a Tokyo. Però era stanco per il viaggio e, tra un pensiero e l’altro, le palpebre divennero pensanti e finì per addormentarsi, cadendo tra le braccia di Morfeo.

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Capitolo 2
*** Sorpresa! ***


Sorpresa!

Erano passati non più venti minuti da quando il ragazzo si era addormentato. Era in quello stato di dormiveglia che gli permetteva di riposarsi, ma allo stesso tempo lo lasciava vigile su tutto ciò che gli accadeva attorno. Forse fu anche per questo che sentì subito quello strano rumore vicino a lui, il tipico suono di qualcosa che si carica. Aprì gli occhi e per l’ennesima volta, in quella maledetta giornata, rimase sconvolto da ciò che vide. 
Accanto al letto, con un ginocchio poggiato sul materasso e l’altro piede a terra, c’era la ragazzina che aveva incontrato davanti al cancello che gli stava puntando una pistola. All’inizio il ragazzo non capì subito, poi ebbe un’altro di quegli strani ricordi, ma questa volta era solo una breva scena, nessuna parola. Ricordava perfettamente che tutto ciò era già accaduto, in quella che sembrava una stanza d’ospedale. Quella stessa ragazzina gli aveva puntato anche allora una pistola in testa, allo stesso identico modo.
Chiuse gli occhi. Sperando che fosse tutto un incubo. Anzi non lo sperava proprio, se lo continuava a ripetere in testa, come se solo il pensiero di non essere lì l’avrebbe riportato a casa, sdraiato sul suo vero letto, nella sua vera camera, a Sendai.
Quando riaprì gli occhi, però, era ancora lì, ma la ragazzina non era più vicino al letto. Si mise a sedere, passandosi irritato una mano sul volto e cercando di riprendersi. Si voltò verso dove si era diretta e la vide chinata vicino alla scrivania a rovistare nella sua valigia. 
«Ehi! Che fai?» chiese alzando il tono di voce.
La ragazzina sembrò non sentire le parole del ragazzo e quando trovò ciò che stava cercando glielo lanciò decisa. Per un attimo la vista di Shinichi fu oscurata dall’abito che la ragazzina gli aveva lanciato. Se lo tolse dal volto e vide che era il suo kimono blu, quello che solitamente indossava per le feste. Non si ricordava di averlo messo in valigia, ma probabilmente era stata sua madre a farlo.
«Indossalo! - disse la bambina - Passo a prenderti tra venti minuti!» proseguì, continuando a mantenere la sua aria seria.
«Cosa? E perché?» domandò lui sempre più confuso.
«Lo scoprirai…» rispose misteriosamente.
«Ma in realtà io volevo…»
«Verrai con me che tu lo voglia o no! - lo interruppe decisa la piccola - Ci vediamo tra venti minuti.» concluse, per poi uscire dalla camera e, probabilmente, anche dalla casa. Solo in quel momento si chiese come quella ragazzina fosse entrata in casa, dato che si ricordava perfettamente di aver chiuso a chiave il portone. 
Dopo qualche secondo capì che sarebbe stato inutile continuare a scervellarsi per una cosa del genere, perciò decise di fare ciò che diceva lei e andarsi a cambiare. In fondo, se voleva davvero capirci qualcosa, doveva assecondarsi a tutto ciò che gli accadeva attorno e, dato che quella bambina sembrava conoscerlo e lui aveva qualche vago ricordo di lei, forse era il caso di seguirla e vedere cosa sarebbe successo.

 

Era sotto la doccia. L’acqua fredda gli bagnava i capelli castani e gli rigava il viso. Adorava quella sensazione: le piccole gocce fredde che gli picchiettavano il volto lo rilassavano in qualsiasi situazione. Anche quando era nervoso o confuso, come in quel momento, quella sensazione lo rilassava a tal punto che riusciva a pensare a tutto in modo più razionale. In quel momento infatti stava pensando alla bambina. Quel volto asciutto, sempre serio, anche troppo per la sua età. Poi, per qualche strano motivo, i suoi pensieri passarono dalla bambina a quella ragazza ritratta assieme a lui nella foto sulla scrivania e finalmente quella sensazione si fece vivida e un’altro ricordo gli attraverso furioso il cervello. Questa volta ancora più prepotente degli altri.

«Perché non riesci a capire che cosa provo? Questo vuol dire che non ti piaccio non è vero Shinichi?» diceva quella ragazza guardandolo negli occhi.
«Io…Ran…a dire il vero…vedi io…» balbettò, mentre lei tratteneva una risata.
«Sciocco, perché ti innervosisci? Io stavo solo scherzando… non sei affatto un bravo detective se ci sei cascato in questo modo!»

Ran. Era così che si chiamava quella ragazza.
Uscì dalla doccia e s’infilò l’accappatoio bianco che era appeso là vicino, avvolgendo per bene il suo corpo dentro quel morbido tessuto spugnoso. Profumava di pulito e per un po’ rimase lì, a farsi coccolare da quella sensazione. Poi si mise davanti allo specchio rimanendo per qualche momento a guardare il suo riflesso. I suoi capelli castani erano rimasti appiccicati sul viso, le piccole gocce che abbandonavano le punte rotolavano sul volto cadendo sul pavimento piastrellato e formando piccoli cerchi rotondi. Aveva provato quella sensazione un sacco di volte: insomma, sentire i capelli bagnati e l’acqua che scivola lungo il corpo è normale, eppure in quel momento di tensione, in quei ricordi strani che lo assillavano, ecco che un altro gli oltrepassò la mente.

«Serve per forza una ragione? Io non so che motivo abbia un uomo di uccidere un altro uomo, e nemmeno perché gli salvi la vita… A quanto pare una risposta logica non esiste!»

Quella era la sua voce, ne era sicuro. Eppure quella non era né Tokyo, né Sendai e quell’uomo con in mano la pistola chi era? Non stava capendo più niente, e più i ricordi diventavano numerosi più lui si sentiva stordito da essi. Possibile che non si ricordasse niente di tutti quei momenti?
Decise di lasciar perdere per l’ennesima volta quei pensieri, come se tanto fosse stato inutile affrontarli in un momento del genere. Iniziò ad indossare il suo kimono blu, l’ultima volta che se l’era messo era stato per il capodanno. Si guardò allo specchio: gli stava bene come al solito e lo faceva sembrare un po’ più adulto. Era un semplice kimono blu, tenuto in vita dalla fascia bianca e spessa, tipica di quell’abito. Ebbe appena il tempo di allacciarsi la fascia dietro la schiena che qualcuno suonò al campanello di casa. 
Shinichi andò ad aprire la porta e ovviamente, passati i venti minuti, si ritrovò davanti la ragazzina. Rimase stupito nel vederla. Si era cambiata anche lei: indossava un kimono rosso con una fascia nera, che sembrava finalmente risaltare quella maturità che la sua età non poteva dimostrare. Come se dentro quel copro da tredicenne ci fosse una donna. Il ragazzo notò anche che la bambina si era truccata: i suoi occhi risaltavano sul viso grazie a un leggero strato di ombretto azzurro e una sottile linea nera che le contornava gli occhi. Era bellissima e Shinichi era sicuro che quando sarebbe cresciuta sarebbe diventata una donna altrettanto bella e attraente.
«Sei pronto?» chiese la ragazzina con serietà.
«Sì… - rispose lui - ma dove andiamo?» chiese poi, non riuscendo a trattenere la curiosità, che ormai lo stava divorando.
«Lo vedrai!» rispose lei continuando a mantenere i suo sguardo serio, ma dal suo tono di voce si capiva che era divertita da quella situazione di mistero.


Dopo una passeggiata di qualche minuto arrivarono finalmente alla stazione della metro. Shinichi aveva notato che lì a Tokyo, anche nei giorni non di festa la gente che indossava un kimono non veniva neanche notata. La fretta degli abitanti di quella città e il loro poco interesse per chi gli passava accanto non permetteva loro di notare che due ragazzi, uno più grande e l'altra più piccola, indossassero degli elegantissimi abiti da festa e stessero prendendo la metro come tutti gli altri. 
La ragazzina guardò la bacheca in cui c'era la piantina e l’orario dei treni, dopo qualche minuto in cui rimase a consultarla si voltò di nuovo verso i binari.
«Bene, il nostro treno passa di qui per le dieci e mezza, perciò mancano più o meno dieci minuti.» concluse guardando il suo orologio da polso. 
Shinichi non rispose, in fondo non ce n’era bisogno. Inoltre, qualcos’altro stava occupando la mente del ragazzo in quel momento: un’altro ricordo, che gli attraversò la mente proprio nel guardare quei binari in acciaio e i vari treni della metro che vi sfrecciavano sopra.

La ragazza indifesa era vicino ai binari, il treno stava arrivando e una mano la spinse sui binari.
«Ran…» urlò lui buttandosi giù e trascinandola fuori dai binari prima che il treno prendesse tutti e due.

La ragazza era la stessa della foto e la stessa che stava dietro di lui su quel pianerottolo sotto la pioggia. Eppure quel ricordo non poteva essere suo. Perché nel momento in cui si era buttato e l’aveva trascinata via, pareva molto più piccolo di lei, come se fosse un bambino. Ora che ci pensava anche la voce che era uscita dalla sua bocca in quel ricordo sembrava quella di un bambino. 
Quei ricordi stavano diventando sempre più assurdi e incomprensibili. Eppure di una cosa era certo: quella ragazza la conosceva, ne era sicuro. Anche se non si ricordava in che modo l’aveva conosciuta o quando, quel volto aveva qualcosa di tremendamente familiare.
«Ai…» disse rivolgendosi alla bambina, forse lei avrebbe saputo rispondergli.
«Sì?» chiese la ragazzina col suo primo sorriso da quando l’aveva vista.
«Tu conosci una certa… Ran?»
La ragazza tornò seria, come se quel nome le avesse dato parecchio fastidio, poi rispose.
«Sì! - il tono della sua sua voce sembrava quasi deluso e offeso - E la conosci anche tu…»
«Lo so, ma…»
«…ma non te la ricordi!» fece la ragazzina completando la frase al posto suo, mentre lui rispondeva solamente con un cenno di testa.
«Stai tranquillo, ricorderai! - lo rassicurò lei - Vieni sta arrivando!» continuò, mentre il treno arrivò sfrecciando davanti a loro e si fermò, per poi aprire le porte e far entrare la fiumana di gente che senza un’automobile doveva andare da una parte all’altra di Tokyo.


Il treno ci mise davvero poco a portarli alla loro destinazione e, quando risalirono dal sottosuolo, per uscire dalla stazione della metro, Shinichi notò immediatamente l’ingresso di un parco divertimenti dove spiccava subito un castello bianco con i tetti rossi, anzi a vederli meglio sembravano rosa. Ma questa volta era sicuro di aver già visto quel castello: era lo stesso che c’era sulla foto sopra la scrivania.
«Bentornato al Tropical Land, Shinichi!» disse la ragazzina.
«Questo parco…»
«L’hai già visto?»
«Beh sì, sulla foto della scrivania c’è lo stesso castello, quindi vuol dire che ci son già stato.»
La ragazzina sorrise compiaciuta, come se quell’affermazione del ragazzo le avesse reso migliore la giornata.
«Vieni, tra venti minuti abbiamo l’appuntamento al pala ghiaccio con gli altri!» disse, incamminandosi verso l’ingresso del parco, seguita dal ragazzo.
All’entrata la ragazzina fece vedere un foglio, come un documento, che aveva estratto dalla sacca nera che portava appesa al polso. La guardiola quindi li fece passare senza nessun problema. 
Attraversarono il parco camminando velocemente, ma il ragazzo voleva godersi appieno quel luogo. In fondo aveva ancora diciannove anni e non gli sarebbe dispiaciuto fare un giro su quelle numerose giostre. Anzi si stupiva che la ragazzina non facesse nessuna piega davanti a quello che sarebbe dovuto essere il paradiso per qualsiasi bambino.
Ad un tratto, mentre continuava a camminare notò una bella piazza, attorniata da delle cascate e tutt’a un tratto una fontana iniziò a zampillare, proprio in mezzo alla piazza. Appena vide quegli zampilli, furono due i ricordi che gli attraversarono la mente.

«Cos’è un luogo di ritrovo?» chiese lei, sempre la stessa ragazza.
«Vedrai…dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno!» concluse e la fontana iniziò a zampillare intorno a loro, isolandoli dal resto del mondo, mentre un meraviglioso sorriso di stupore si dipingeva sul viso della ragazza.

L’uomo armato di pistola si stava avvicinando sempre di più a lui e alla ragazza, che erano chinati in mezzo alla piazza.
«Bene…come si dice: prima le donne...» disse in tono maligno.
Sorrise e iniziò a contare:
«Dieci, nove, otto, sette, sei…»
«Una specie di preghiera...» disse l’uomo armato, alzando la pistola verso di loro e avvicinandosi sempre di più, ma nel conto alla rovescia, assieme a lui, si aggiunse anche la ragazza.
«…cinque, quattro, tre, due, uno…»
La fontana iniziò a zampillare nuovamente, proteggendoli dall’uomo armato.

Era assurdo, altri ricordi, e nel secondo di nuovo quella sensazione di essere un bambino. Era più basso e più piccolo della ragazza, che con le mani gli circondava le spalle. Anche la sua voce, nel conto alla rovescia, era ancora quella infantile. Shinichi s’iniziò a chiedere se quelli non fossero stati i ricordi di qualcun altro. Però anche in quel modo, la faccenda sarebbe rimasta comunque strana, anzi forse sarebbe diventata ancora più strana. Scosse la testa, cacciando quei pensieri contorti da essa e riprese a camminare veloce per star dietro al passo svelto della ragazzina.
Arrivati al pala ghiaccio entrarono. Dentro faceva freddo. L’edificio, come tutti quelli del suo genere, era ovale. La ragazzina, appena entrata, salì subito per una scaletta laterale, arrivando così al punto più alto delle tribune. Dovettero attraversare tutta la tribuna sinistra, finché non arrivarono davanti ad una porta gialla. La ragazzina la aprì, ma oltre ad essa era tutto buio.
Fu un attimo. Il tempo che il ragazzo entrò nella stanza e sentì dietro di sé la porta gialla chiudersi. Poi le luci si accesero di botto, accecandolo per qualche secondo.
«Sorpresa!»

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Capitolo 3
*** Festa di compleanno ***


Festa di compleanno

La sala era addobbata di festoni bianchi e blu e, in fondo c’era uno striscione con su scritto a caratteri cubitali Buon compleanno Shinichi.
Se n’era completamente dimenticato, come al solito. Quel giorno era il 4 maggio ed era il giorno del suo compleanno. Come aveva potuto scordarsi una data così importante? Soprattutto quel giorno, che finalmente avrebbe compiuto i suoi attesissimi vent’anni.
Il ragazzo si guardò intorno c’erano un sacco di persone che credeva di conoscere, eppure anche quella volta non riusciva a inquadrare dove le avesse viste. Ognuna di loro aveva un volto familiare, ma non riusciva proprio a ricordare nulla del tempo passato con loro. Iniziò a squadrarle, una per una, come se guardando attentamente i loro volti potesse ricordarsi qualcosa e, incredibilmente, fu proprio così, dato che per ognuno di loro tornò ad attraversargli la mente uno di quei ricordi. 
All’angolo sinistro della stanza c’era un gruppo di adulti. 
Il primo era un uomo piuttosto anziano e grassoccio, portava un kimono blu ghiaccio molto largo. Era stempiato con i capelli ormai grigi, dietro agli occhiali due piccoli occhi azzurri lo guardavano, accompagnati da un gioviale sorriso.

L’uomo lo stava trascinando sotto la pioggia. Erano di nuovo i ricordi di quel bambino.
«Professore, lei è appena corso a casa dal ristorante Colombo, vero?» disse e immediatamente l’uomo si fermò.
«Eh? Come fai a saperlo?»
«Lo so perché i suoi vestiti sono bagnati davanti e dietro no, questo significa che lei professore ha corso sotto la pioggia, e sui suoi pantaloni ci sono delle macchie di fango e l’unico posto qui intorno con del fango è l’area in costruzione di fronte al ristorante Colombo e infine sulla sua barba c’è della speciale salsa Colombo.»
A tutte quelle sue deduzioni, l’uomo lo guardò stupito:
«Ma… e tu come lo sai?»
«He, he, he, elementare mio caro Professore!» disse muovendo il ditino di fronte al viso.

Accanto all’uomo anziano, ce n’era un altro. Era alto, coi capelli neri, pettinati in modo perfetto. Portava anche lui un kimono, ma viola. Il suo viso era un po’ scocciato, lo si vedeva dagli occhi scuri e dalla bocca storpiata in una smorfia e sormontata da un paio di baffetti neri. Anche con lui arrivò un’altro ricordo del bambino.

Aveva appena aperto gli occhi, si trovava in una sala d’ospedale, sdraiato su un letto, con un tubo di flebo attaccato al piccolo braccio. Si mise seduto, ringraziando di essere ancora vivo, ma una fitta all’addome lo fece gemere. Poi la vide: la solita ragazza, addormentata sul letto in cui era sdraiato.
«Le devi la vita figliolo! - disse la voce di quell’uomo, che entrò proprio in quel momento nella stanza, sbadigliando - Ti ha donato 400 cl di sangue e come se non bastasse ti è stata accanto e ti ha vegliato tutta la notte.»

Accanto a lui c’era una donna con i capelli castano chiaro raccolti in una stretta crocchia, aveva due occhi azzurri dietro gli occhiali e indossava un kimono lilla, molto elegante che, insieme a tutto il suo aspetto, le dava un’aria seria e autoritaria.

«Che cosa c'è Conan? Perché ti nascondi?» gli chiese la ragazza, sempre la stessa.
«Eppure era molto vivace fino a un momento fa! - disse la donna con aria divertita - Mi è sembrato addirittura che avesse risolto il caso tutto da solo! Non è forse così Conan?» disse la donna facendogli l’occhiolino.

Poi vi era un altro uomo robusto. Portava un kimono marrone coordinato con un cappello in feltro che aveva sul capo, che copriva i capelli scuri, dello stesso colore nero dei baffoni e dei piccoli occhi attenti. Sembrava quasi una figura austera e autoritaria, come se fosse il capo di qualcuno.

L’uomo batté violentemente sulla sua schiena, facendolo quasi cascare a terra:
«Allora, Shinichi, non c’è che dire anche questa volta mi sei stato di grande aiuto, lo apprezzo davvero tanto, ti sono debitore.»
«Ma si figuri può chiamarmi quando vuole ispettore, se ha bisogno di aiuto per questi casi difficili sa dove trovarmi!» gli rispose lui dopo essere tornato serio.

Accanto a lui c’erano altre due persone, un uomo e una donna, che sembravano molto più giovani. L’uomo era magro, coi capelli castani un po’ spettinati e gli occhi blu ghiaccio, quasi tendenti al grigio e indossava un kimono grigio parecchio semplice. La donna, invece, indossava un elegantissimo kimono rosso a fiori, aveva anche lei i capelli castani, ma più scuri dell'uomo di fianco a lei, e i suoi occhi sembravano tendere a un misterioso violetto scuro. Se l’uomo sembrava parecchio impacciato e in imbarazzo, la donna invece aveva l’aria sicura e decisa. 
Anche di loro ebbe un chiaro ricordo, sempre da parte del bambino, ma senza alcune parole. Era un semplice flash, di un bacio tra i due, in una stanza d’ospedale.
Proprio sotto lo striscione c’erano tre ragazzini, della stessa età di Ai, dall’aria contenta., che lo guardavano felicissimi, come se lui fosse il loro giocattolo preferito, o il loro migliore amico.
Il primo dei tre era alto e magro, i capelli castano chiaro e gli occhi più scuri, il viso sorridente era costellato di lentiggini ed indossava un kimono celeste. L’altro accanto era piuttosto robusto, aveva i capelli neri molto corti, dello stesso colore degli occhi e indossava un largo kimono verde acido. L’ultima era una bambina coi capelli castani tenuti da un cerchietto rosa confetto e gli occhi azzurri, indossava un kimono, dello stesso colore del cerchietto, a fiori ed era molto graziosa. Sembrava una bambola, per quanto era carina.

Stavano camminando dentro ad una caverna. Lui era sulle spalle del bambino più robusto, con un dolore incontrollabile all’addome, quindi anche questa volta il ricordo non sembrava essere suo. 
Ad un tratto la bambina si fermò, con le lacrime già pronte per scendere.
«È tutta colpa mia! Se non avessi insistito per dare un’occhiata a questa caverna e fossi rimasta zitta, adesso Conan non avrebbe quella brutta ferita!» disse iniziando a singhiozzare.
«Invece non è per niente colpa tua, Ayumi! - intervenne deciso il bambino lentigginoso - Sono stato io a trovare questo posto e a chiamarvi, quindi finiscila!»
«Basta! State zitti tutti e due! - sentenziò infine il bambino che lo teneva sulle spalle - Sapete benissimo che la colpa è mia. Col mio entusiasmo vi ho trascinati qua dentro e per giunta ho visto in faccia quegli assassini.»
Sentì di nuovo quella sensazione di sorriso sulle sue labbra.
«Vi sbagliate! - disse con voce flebile, facendo voltare tutti e tre verso di lui - Se non foste venuti qui, un omicidio sarebbe rimasto impunito e invece, grazie alla vostra curiosità, sappiamo chi sono i colpevoli e possiamo fare giustizia. Tenete duro! C'è una fantastica grigliata che ci aspetta, ve ne siete già scordati? Non avete voglia di mangiare una bella salsiccia fumante con le patatine?» disse, e con quelle parole riportò il sorriso sul volto dei bambini.

All’angolo destro della sala, infine, c’era un gruppo di ragazzi della sua età. Tra cui, però, notò anche il bambino che aveva incontrato sul treno per Beika. Il piccolo, teneva la mano a un ragazzo che assomigliava molto a Shinichi, per quanto riguardava il fisico e i lineamenti del viso, non fosse stato per la pelle parecchio più scura, i capelli castani, ma più scuri e con una diversa pettinatura e gli occhi di un verde profondo che lo guardavano con aria seria, quasi preoccupata. La mano libera era infilata nella tasca del suo abito, che Shinichi notò subito non essere un kimono, come quello di tutti gli altri, ma una semplice tenuta da kendo.

«Heiji, scusa, come mai Shinichi indossa il tuo cappellino preferito?» chiese una ragazza e sia lui che l’altro ragazzo si voltarono.
«Così… - rispose il ragazzo, che era vicino a lui - Mi ha chiesto di prestarglielo e gliel’ho dato.»
«Strano non sapevo ti piacessero i cappellini.» disse la ragazza, sempre lei, ma questa volta essendo quello che sembrava essere un suo ricordo, era della sua altezza.
«Eh…sì…» disse lui, calandosi ancora di più la visiera sul volto.
«In realtà non ti sta molto bene!» sentenziò di nuovo lei.
«Uffa! Volete smetterla? M’imbarazzate!» disse lui voltandosi dall’altra parte, tra le risate degli altri tre.

L’altro ragazzo di fianco, invece, era davvero la sua fotocopia. Stesso viso, stessi occhi, stessa carnagione. L'unica cosa che li differenziava era quella zazzera castano chiaro arruffata. Lui indossava un kimono assai particolare. Sembrava cucito a mano. Era bianco e candido e sul petto vi era cucito con del filo azzurro di varie tonalità un cilindro, con ombre e luci.

Era di nuovo il bambino, si trovava sul tetto di un’edificio e quel ragazzo, vestito con uno strano costume, si avvicinò a lui. Pensò che non poteva avere più di vent’anni.
«Ehi piccolo, buonasera! Che cosa ci fai qui sul tetto a quest’ora?»
Lui senza nemmeno degnarlo più di uno sguardo, si voltò e accese il piccolo fuoco d’artificio alle sue spalle.
«I fuochi d’artificio.» rispose poi, quando quello esplose, dopodiché gli diede di nuovo le spalle.
Non passò molto, che vide un elicottero venire nella loro direzione.
«Ehi guardi là, un elicottero! Credo che ci abbiano avvistati!» fece, facendo sorridere il ragazzo.
«Ma sei straordinario! Non sei un bambino come gli altri!» disse congratulandosi con lui.

Infine, c’erano tre ragazze. La prima aveva i capelli castano molto chiaro, quasi biondi, tirati indietro da una grossa fascia gialla e due occhi azzurri che sembravano mostrare una certa esuberanza. Il suo kimono a fiori s’intonava perfettamente con la fascia che aveva in testa e le dava un’aria altezzosa, forse anche troppo.

Un’altro suo ricordo. Era nell'ombra, dietro le quinte di un palco, vestito di tutto punto e con un elmo, che s’intonava al suo costume, sotto braccio.
«Sei pronto Araide? - disse la ragazza voltandosi - È la scena in esterno, adesso tocca a te! Preparati ad entrare, su vieni… - poi finalmente lo vide - Shinichi! Tu?» 
Lui le fece segno di fare silenzio.

Quella accanto aveva i capelli castani raccolti in una coda di cavallo, tenuta su con un fiocco arancione. I suoi occhi erano verde chiaro e sembravano felici e tranquilli. Il suo kimono era dello stesso colore del nastro per i capelli, anch’esso aveva delle decorazioni di fiori.

La katana dell’uomo che aveva di fronte tagliò di netto il suo bastone e lui dovette spingere la ragazza a terra per salvarla:
«Heiji! - urlò lei che era caduta in ginocchio, mentre lui cercava di schivare tutti i fendenti della katana - Fermo…lui non è Heiji!»
All’improvviso un fendente gli portò via il cappello.

Ed infine c’era lei. Quella ragazza che aveva rivisto in quasi tutti i ricordi prima. Capelli lunghi e castani, occhi lilla e limpidi, un sorriso incantevole e dolce e un kimono rosa pallido che le dava un’aria da ragazza per bene e a modo. Come aveva potuto dimenticare un volto del genere? Una ragazza così perfetta come lei non si poteva dimenticare così facilmente, eppure lui era stato lì, in quel parco, con lei, e non si ricordava nulla.
Un’altro ricordo riguardante la ragazza gli affiorò nella testa, ma per l’ennesima volta era un ricordo di quel bambino.

Erano entrambi nascosti dietro una roccia.
«Hai ragione, Conan – disse l’uomo, lo stesso del ricordo alla fontana – Ora dovrò uccidere anche te!»
«Conan…» sussurrò la ragazza, che sembrava iniziare a preoccuparsi seriamente, mentre lui invece era sicuro e determinato. 
La strinse col suo piccolo braccio, proprio mentre si accorgeva che il canotto della giostra acquatica stava per passare sul fiume la sotto:
«Ehi, perché? – chiese la ragazza in un sussurro, lui si girò – Per… perché mi stai proteggendo? Dimmelo!»
Lui la guardò negli occhi poi la prese per mano e iniziò a correre:
«Perché ti amo! Ti amo tantissimo più di ogni altra persona…al mondo!»

Ai si era unita agli altri bambini che iniziarono a chiacchierare mentre il gruppo dei ragazzi continuava a fissarlo, tutti un po’ intimiditi come lui. Il primo ad avvicinarsi fu il ragazzo con la pelle scura, che ancora teneva il bambino per mano.
Il piccolo salutò Shinichi, con aria contenta e il ragazzo ricambiò.
«Ciao Conan!» gli rispose, poi guardò il ragazzo che gli sorrise.
«Ehi Kudo, come va?»
«Bene…credo…» rispose, sempre un po’ confuso.
«Non ti preoccupare amico, riuscirai a ricordare tutto!»
Si diressero verso gli altri, ma appena arrivarono nel gruppo non ci fu nemmeno il tempo di salutarli, che un grido agghiacciante risuonò dal pala ghiaccio.
Tutti corsero a vedere cosa era successo, era uno spettacolo orribile. Una donna, probabilmente di mezz’età, giaceva a terra mentre un rivolo di sangue scivolava sul bianco ghiaccio e un’altra donna piangeva accanto al corpo. A quella vista tutti gli adulti che c’erano alla festa si diressero decisi in mezzo alla pista, tre dei quali tirarono fuori dalle tasche dei kimono i loro distintivi.
In quello stesso istante una fitta allucinante alla testa colpì Shinichi, facendolo cadere a terra. Era come se il suo cervello avesse fretta di ricordare qualcosa o tutto e gli premesse contro il cranio.
«Kudo… che ti prende?» disse il ragazzo con la pelle scura, chinandosi vicino a lui, ma non ebbe il tempo di rispondere: in un attimo tutto divenne prima annebbiato e poi completamente buio.


Probabilmente si era già ripreso dallo svenimento. Sentiva odore di disinfettante e si sentiva rilassato, ma non voleva aprire gli occhi, perché proprio in quel momento un altro ricordo gli attraversò veloce il cervello.

«Kudo mi dici perché non hai voluto prendere parte all’interrogatorio?» gli domandò il ragazzo dalla pelle scura.
«Voglio dirti una cosa… la soluzione di un omicidio sta nell’entrare nella psicologia del colpevole, per risolvere l’enigma basta rifletterci sopra a fondo per arrivare a una conclusione logica.» ebbe una fitta al petto, come se qualcuno gli avesse chiuso il cuore in una morsa.
«Che cosa ti succede? Ti senti male?»
«È tutto molto frustrante – rispose lui continuando a premere sul petto, senza più riuscire a sopportare quel dolore – nonostante i casi che abbia risolto e risolverò non capirò mai qual è la logica che spinge un individuo a uccidere, posso capire che sia un’emozione, ma non riesco a comprendere il gesto, va oltre la mia comprensione!» il suo corpo non resistette più e, con un gemito, cadde a terra, spaventando tutti i presenti.

Decise di aprire gli occhi e si rese conto di essere in una piccola stanza di un bianco immacolato. Era sdraiato su un letto dalle lenzuola candide e si sentiva fresco e riposato. Probabilmente quella stanza faceva parte dell’infermeria del parco.
Proprio in quel momento il ragazzo dalla pelle scura entrò nella stanza.
«Come va, Kudo?»
«Bene – disse con lo sguardo verso il soffitto – Ha…Hattori!»
«Kudo…ti sei ricordato di me?» fece l’amico contento.
Lui rispose con un sorriso e un cenno, ma poi si portò la mano alla testa con un’espressione di dolore.
«Ma si può sapere che hai?» chiese di nuovo preoccupato l‘amico.
«Non lo so… ogni volta che cerco di ricordare…»
«Kudo, non ti preoccupare la cosa importante per adesso è che stai bene! - ci fu una pausa poi il ragazzo dalla pelle scura riprese - E di Ran? Non ricordi niente?»
Shinichi fece no col capo:
«So di conoscerla ma…» il ragazzo ebbe un’altra fitta dolorosa alla testa.
«Lascia perdere Kudo… per ora riposa. Devi proprio stare male, il giorno del tuo compleanno?» disse, come battuta e tutti e due si misero a ridere, divertiti.
«Sono contento di averti rivisto Hattori!»
«Anch’io Kudo!»

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Capitolo 4
*** Conan Edogawa ***


Conan Edogawa

Era la mattina del 5 maggio, Shinichi dormiva tranquillo nel suo letto. 
Il giorno prima era stato quasi indimenticabile, perché dopo che fu uscito dall’infermeria lui e tutti gli invitati alla festa, girarono per il parco divertimenti senza tregua, provando ogni tipo di giostra. Altri flashback e ricordi costellarono il suo giro di divertimento al Tropical Land, ma per un po’ non pensò a nulla, cercando solo di godersi quei nuovi momenti che avrebbero dato vita ad altri stupendi ricordi.
Quella sera arrivò a casa così stanco che appena si buttò a letto, dopo essersi messo il suo comodo pigiama verde acqua, crollo subito in un sonno senza sogni, che lo rilasso completamente.
Quella mattina, appunto, stava dormendo tranquillo nel suo comodo letto, quando ad un tratto un rumore prorompente e improvviso lo fece trasalire.
Il ragazzo, ancora mezzo stordito, si affaccio dalla finestra e vide uno squarcio nel muro della casa di fronte. In mezzo alle macerie c’era l’uomo anziano della festa del giorno prima, coperto completamente di fuliggine.
«Ciao Shinichi!» lo salutò l’uomo con un grosso sorriso, come se non fosse successo niente e fosse tutto normale.
«Buongiorno… Professor Agasa…» rispose il ragazzo, mentre un nuovo ricordo gli attraversava la mente, accompagnato da una fastidiosa fitta alla testa.

Anche in quel ricordo era stato svegliato da un’esplosione.
«Ah! Cos’è stato? – e dopo essersi alzato e andato alla finestra la scena era la stessa – Basta, Professore, potrebbe fare meno rumore?»
L’uomo uscì dalle macerie divertito:
«Bhe, siccome volevo svegliarti ho pensato che fosse meglio questo rumore di una semplice sveglia non ti pare?»

A Shinichi scappò da ridere: certo che se quelli erano davvero i suoi amici, se n’era fatte di risate in vita sua. Poi venne distratto nuovamente dalla voce del professore.
«Cambiati e vieni qua, io e Ai ti dobbiamo parlare!»
Lui rispose con un cenno di testa, acconsentendo. Tanto ormai era già sveglio e non sarebbe mai riuscito a prendere sonno. Decise perciò di farsi una bella doccia fredda e accettare l’invito.

 

Dopo circa una mezz’ora era finalmente di fronte alla casa del professore. Entrò nel giardino, attraversando il cancello aperto e arrivato davanti al portone d’ingresso dell’edificio, un po’ titubante, suonò il campanello. 
Ad aprire venne la ragazzina che lo salutò con un leggero sorriso e invitandolo ad entrare lo accompagnò in salotto. Una stanzetta laterale rispetto alla grande zona living che occupava tutto il centro della dimora.
Il tavolino al centro del salotto era pieno di carte e fogli scritti e tra tutto quel caos vi era un computer portatile aperto.
«Ciao!» disse il professore quando vide Ai e Shinichi entrare nella stanza.
Era seduto su una delle quattro poltrone che attorniavano il tavolino e la bambina fece altrettanto.
«Salve professore… perché mi avete chiamato?» chiese il ragazzo, indeciso se sedersi o no.
«Abbiamo cercato di capire come mai hai perso la memoria – iniziò la ragazzina, con la sua solita aria seria – e per quale motivo ti fa male la testa quando cerchi di ricordare.»
«Avete scoperto qualcosa?» chiese speranzoso, senza sedersi sulla poltrona, era troppo teso per farlo.
«Sì…!» rispose Agasa e per un attimo il ragazzo vide uno spiraglio di luce in quel buio misterioso e contorto.
«Non so se ti ricordi di loro, ma due anni fa hai scoperto il mistero dell’organizzazione e li hai mandati in prigione, due giorni dopo che sei partito sono evasi…» disse la bambina, il suo tono non cambiava mai.
«E allora?» chiese il ragazzo senza capire.
Non ricordava niente di quel periodo, forse qualcosa, ma erano comunque ricordi vaghi.
«Allora, il loro piano era basato su un computer che controllava le persone con un laser super potente – continuò Ai – e abbiamo il timore che l’abbiano usato contro di te… Ora dobbiamo riuscire a farti tornare la memoria e sventare il loro piano.»
«E avete qualche idea a riguardo?» chiese il ragazzo un po’ scettico.
La ragazzina sospirò per la prima volta, abbandonando quell’espressione seria e facendone apparire una quasi preoccupata.
«Purtroppo no! È da tre giorni e due notti che io e il professor Agasa cerchiamo di venir fuori da questa situazione, per trovare qualcosa che disattivi l’effetto del laser, ma non c’è niente da fare.»
Il ragazzo disperato cercò comunque di mantenere la calma e la ragione. Cosa si ricordava davvero di quei uomini? Quali erano quei vaghi ricordi che gli venivano in mente ripensando a loro? Abiti neri. Un palazzo in fiamme. Una corsa in un lunghissimo corridoio. E poi…
«Ma… - disse esprimendo i suoi pensieri in parole - se non ricordo male, tu eri dell’organizzazione, quindi saprai com’è progettato il computer.»
«No, io non ero un elemento importante dell’organizzazione e se devo dirti la verità prima che tu scoprissi il loro piano io non sapevo neanche di che trattava, mi tenevano allo scuro di tutto. L’unica cosa che facevo io, era creare la putoxina per quelli che si impicciavano troppo del loro piano.»
In quel momento un ricordo del bambino si fece spazio nella sua mente. Molto più forte e molto più prepotente degli altri, come se fosse stato una lama che gli voleva penetrare cranio e cervello.

«Aptx 4869!»
«Cosa?» chiese lui girandosi verso la ragazzina che lo guardava seria.
«Sai che cos’è non è vero Conan? È il nome della medicina che ti hanno dato!» continuò mentre lui la guardava stupito.
«Eh,eh! - i mise a ridere con una risata nervosa, quasi isterica - Ma di che cosa stai parlando? Scusa, ma io non ho mai preso niente del genere!» cercò di dire.
«Davvero? Eppure io so che il nome è proprio quello, perché sono stata io a prepararla… per ordine dell’organizzazione segreta!» continuò lei con uno sguardo di sfida.
«Ah sì? Davvero? L’hai fatta tu? Eh,eh, ma una bambina come te non potrebbe mai farcela da sola!» rispose, quella ragazzina con la sua serietà e sicurezza lo metteva davvero a disagio.
«L’ho bevuta anch’io, proprio come hai fatto tu, Conan – il bambino rimase interdetto, stava iniziando a preoccuparsi – Per mezzo degli effetti auto distruttivi sulle cellule tutto il corpo, sia la struttura ossea, che i muscoli, che gli organi interni e i capelli, tutto tranne il sistema nervoso regredisce fino allo stato infantile! È una specie di elisir dell’infanzia.»
«Quindi tu non sei Ai Haibara?» chiese con voce tremante e preoccupata.
«Il mio vero nome non è quello, mi chiamo Sherry!» rispose, con uno sguardo sempre più intenso.
«Cosa?»
«Ho soltanto usato un nome in codice. Allora? Sei rimasto sorpreso?...Shinichi Kudo?»

Non ci poteva credere. Ciò stava a significare che anche i ricordi del bambino erano suoi. Sotto l’effetto della putoxina era tornato bambino e lo era rimasto per un anno intero. Sì, ora ricordava, ricordava esattamente com’era successo: un uomo dai lunghi capelli argentei vestito di nero e poi si era risvegliato su un prato. Non ebbe però il tempo di pensare ad altro perché una forte fitta alla testa lo fece svenire all’istante.


Si risvegliò in una grande stanza circolare, la zona centrale della dimora. Al centro vi era un’enorme computer e lui era sdraiato su un letto vicino a un televisore, cercò di alzarsi ma sentiva la testa pesante e si ributto sul cuscino, chiudendo di nuovo gli occhi.
«Ben risvegliato Kudo! - sentì la voce della bambina avvicinarsi a lui - Che cosa ti sei ricordato di tanto importante da svenire?»
«Conan…Edogawa…» disse riaprendo gli occhi e trovandosi quello sguardo verde acqua a mezzo metro da lui.
La bambina rimase immobile senza batter ciglio.
«Complimenti quindi ti ricordi anche della putoxina!»
«Sì!» rispose lui, ma in realtà la sua mente era volata ad altro.
Se davvero i ricordi che finora aveva avuto di Conan erano veri allora ce n’era uno che sembrava non essere chiaro o almeno era chiaro come il sole, ma più ci pensava meno si ricordava.

«Perché ti amo! Ti amo tantissimo più di ogni altra persona…al mondo!»

Subito dopo però, ne arrivò un’altro, questa volta più vivido e in questo caso aveva l’aspetto da adolescente.

Non erano in Giappone, quella era decisamente Londra e lei era davanti a lui , in lacrime.
«Non capisci che cosa provo? Eppure sei un detective o sbaglio? Risolvi tanti misteri e non sai capire quali sono i miei sentimenti! Ti detesto!» disse, urlando le ultime due parole, dopodiché lo superò per poi fuggire.
«Aspetta! Dove vai? Fermati! - urlò, per poi iniziare ad inseguirla - Ran! Dai torna qui! Ran! - attraversarono tutto il Westmister Bridge - Ti fermi un attimo? Ehi!» finalmente la raggiunse, afferrandola per il braccio.
«Lasciami! Lasciami stare!» protestò lei.
«Ma non ti rendi conto di quanto sei complicata?» le domandò irritato.
«Cosa dici?» chiese lei un po’ stupita.
«Tu sei come uno di quei casi difficili da risolvere. Mescoli così tanti sentimenti discordanti che anche se fossi Sherlock Holmes non sarei in grado di capire i tuoi pensieri! Come posso decifrare il cuore della ragazza che amo?» concluse lasciandola interdetta.

«Ai…» disse cercando di tornare con la mente al mondo reale.
«Sì? Che c’è?» disse lei rigirandosi verso il ragazzo a letto.
«Parlami di Ran… ti prego!» a quella sua richiesta la ragazzina si incupì, poi con un sospiro lo accontentò.
«Come vuoi tu… caro il mio detective! È una tua amica d’infanzia che conosci dalla scuola materna. Pratica il karate, ormai è cintura nera e ha vinto pure il torneo; hai sempre avuto una cotta per lei ma non hai mai avuto il coraggio di dirglielo, fino a che un giorno a Londra le hai confessato i tuoi sentimenti, mentre eri sotto l’effetto di un’antidoto temporaneo! Due anni fa, quando sei tornato Shinichi Kudo gli ho raccontato tutta la verità su te e Conan Edogawa e vi siete messi insieme, almeno fino quando non sei partito per Sendai. Tutto qui!» fece il discorso tutto d’un fiato, come se le pesasse fermarsi a pensare e concluse andandosene dalla stanza.
Il ragazzo rimase ancora più scioccato da quella notizia. Ne era stato innamorato? O forse l’amava ancora? Il fatto era che non si ricordava assolutamente nulla di lei se non quegli sporadici ricordi che gli erano venuti in mente e se provava a concentrarsi su di lei il mal di testa aumentava fastidiosamente. Di una cosa però era certo: quando l’aveva vista alla festa l’aveva colpito a tal punto da rimanerne quasi incantato.

Stava dormendo tranquillo nel suo letto. La sera prima era tornato a casa alle undici. Quando un grido tagliò l’aria come un coltello dalla lama di cristallo. 
Il ragazzo si svegliò di soprassalto. Possibile che non si potesse dormire in quel quartiere? Subito dopo il grido iniziarono dei singhiozzi acuti e quasi insopportabili da sentire. Il ragazzo provò ad affacciarsi dalla finestra, per capire chi stava piangendo e perché, ma non vedeva niente di strano. Decise perciò di darsi una sciacquata veloce ed andare a vedere di persona. 
Appena fu vestito uscì di corsa fuori di casa e si diresse verso il luogo da cui provenivano i singhiozzi, fino ad arrivare in una villa col cancello aperto.
A terra sul giardino vi era un uomo di trent’anni che guardava fisso un punto indeterminato del cielo e un rivolo di sangue usciva da una ferita alla testa rendendo l’erba verde di un rosso vivo. Al ragazzo quella scena ricordò molto quella del pala ghiaccio.
La donna che aveva urlato era a terra in ginocchio e guardava terrorizzata il corpo senza vita dell’uomo, mentre la donna che singhiozzava era un’altra, che stava in piedi più distante.


Passò una buona mezz’ora prima che la polizia arrivasse. Era una sola volante, con a bordo l’ispettore, un poliziotto in borghese e due agenti della scientifica.
Iniziarono subito le indagini. Shinichi, che era rimasto in disparte, nascosto dietro la colonna del muro fuori dal cancello, riconobbe subito nell’ispettore e nell’agente in borghese due invitati alla sua festa, che ben prestò ricordò come l’ispettore Megure e l’agente Wataru Takagi. 
Il ragazzo sembrava non volersi immischiare in quelle faccende, ma era curioso di sapere come sarebbe andato a finire quel caso, perciò rimase tranquillo nel suo nascondiglio. Poi però qualcosa lo spinse a uscire allo scoperto.
«Signorina Tazuia, tutte le prove sono contro di lei, deve seguirci in centrale!» disse l’ispettore con aria convinta.
«Ne è proprio sicuro ispettore? – chiese il ragazzo uscendo da dietro la colonna – Avrò perso la memoria ma non l’astuzia, l’assassino non può essere stata la cameriera la signorina Tazuia!»
«Shinichi! Che bello rivederti in azione! - disse con aria esuberante e irrequieta l’ispettore, poi tornando serio chiese spiegazioni al ragazzo - Comunque sia l’assassino non può essere che lei. La vittima ha lasciato il messaggio “T M” sulla terra prima di morire e starebbe per Tazuia Mayeni.»
«No ispettore, si dà il caso che questa persona e stata uccisa allo stesso modo e dalla stessa persona della vittima al pala ghiaccio di Tropical Land. Quel giorno al pala ghiaccio, venendo verso la sala della festa ho guardato attentamente le uniche tre persone che stavano usufruendo della pista. E sono più che sicuro che oltre alla vittima c'era la signora Mishiwa e suo marito, che è appena stato ucciso. L’assassino – il ragazzo puntò il dito sulla donna occhialuta in lacrime – è proprio lei signora Mishiwa!»
«Ma cosa dici Shinichi, le tracce ritrovate sull’arma del delitto sono quelle della cameriera non le sue!» disse subito l’uomo, facendolo sorridere.
«È troppo facile ingannarla ispettore, è vero quella è una ferita d’arma da fuoco e la pistola accanto alla vittima fa pensare che sia quella l’arma del delitto. Ma mi dica ispettore, quale criminale lascerebbe una prova così schiacciante della sua colpevolezza vicino al luogo del delitto. Oltretutto in una casa che conosce alla perfezione e in cui avrebbe potuto tranquillamente nascondere l’arma? Ora non so per quale motivo la signorina Mayeni abbia lasciato le impronte su quella pistola, ma quella non è l’arma del delitto.
«E allora dove si trova l’arma del delitto?» chiese l’ispettore.
«Si guardi bene intorno ispettore, lo vede quello gnomo da giardino nell’aiuola di tulipani?»
L’ispettore si girò verso il luogo che gli aveva indicato il ragazzo e notò una pistola ben nascosta dall’erba alta. Ordinò ai suoi uomini di andarla a recuperare, poi si rivolse di nuovo a Shinichi.
«Ma come puoi incolpare la signora Mishiwa se non hai prove? Insomma non sappiamo ancora che impronte potremmo trovare su quest’altra pistola.
«Io le prove ce l’ho ispettore! – si avvicinò alla cameriera – Signorina oggi in casa eravate solo lei e i signori Mishiwa non è forse vero? – la donna fece un cenno e il ragazzo continuò – Ispettore, noti una cosa, anche se l’assassino ha usato un’arma da fuoco, il sangue della vittima non è schizzato come sarebbe dovuto accadere!»
«Hai ragione!» disse l’ispettore.
«Takagi può venire un attimo? – disse il ragazzo rivolgendosi all’assistente dell’ispettore – Potresti fare un attimo la vittima? Mettiti qui!»
Quando il ragazzo e l’assistente furono in posizione il primo iniziò la sua dimostrazione dei fatti.
Per un attimo gli sembrò di ricordare. Quella sensazione maestosa e stupenda di avere un caso in pugno. Era da due anni che non provava quell’emozione. Si sentiva quasi realizzato, come uno scrittore che finisce il suo miglior romanzo o un attore che riceve gli applausi dal pubblico.
«L’assassino ha preso la vittima per il collo – disse mentre poggiava la mano sulla gola di Takagi – poi gli ha puntato la pistola alla fronte e, senza mai staccarsi da lui, l’ha fatto inciampare su questo sasso, a questo punto – continuò lasciando il collo dell’assistente – quando erano tutti e due a terra l’assassino gli ha sparato alla tempia!» concluse.
«Va bene, ma come fai a sapere che è stata la signora Mishiwa e non la signorina Tazuia?»
«Sicuramente lei e i suoi agenti avrete notato i segni sul collo della vittima, segni che ha lasciato l’assassino tenendolo da lì! La cameriera però ha le unghie troppo corte per lasciare dei segni del genere mentre la moglie della vittima…»
Questa rivelazione fu un fulmine a ciel sereno per l’ispettore, che sgranò gli occhi sorpreso.
«E la signorina Tamani al pala ghiaccio?» chiese incuriosito
«Molto semplice, ispettore Megure, Tamani era l’amante del signor Mishiwa! Erano da soli al pala ghiaccio ed è molto più semplice far cadere la propria vittima mentre sta pattinando. Se poi si usa un silenziatore nessuno ti sente e il gioco è fatto. Ovviamente il marito ha visto tutto, ma la donna sapeva che presto avrebbe ucciso anche lui, perciò con qualche minaccia lo ha fatto star zitto fino al giorno del giudizio. Le lettere T M scritte dalla vittima significano proprio questo “Tamani Mishiwa” e non era un messaggio per noi, ma per la moglie, per rivelargli che a sua insaputa lui si era risposato con l’amante. Non è forse così signora Mishiwa?» chiese, infine, rivolgendosi alla donna con gli occhiali, che rimase in silenzio senza muoversi.

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Capitolo 5
*** Shinichi salvami! ***


Shinichi salvami!

Era di nuovo a casa e si stava ancora assaporando quella sensazione di conquista che era aumentata pian piano che il caso si districava nella sua mente: mentre ogni filo di quella matassa contorta e rossa, mostrava il suo percorso netto. Sì ora ricordava appieno quella sensazione. A Sendai, forse per la mancanza di memoria, forse per la tranquillità insana di quella città, non c’era stata nessuna occasione di riassaporare quell’emozione prorompente che lo faceva sentire un grande artista del suo mestiere. Già, il suo mestiere. Come aveva fatto a dimenticarsi il suo più grande sogno, quel sogno che aveva covato nel profondo del cuore fin da quando era bambino. Come aveva potuto dimenticarsi quella gioia incommensurabile che si prova ogni volta che si risolve un caso?
Ad un tratto i suoi pensieri furono spenti, dallo squillo del suo cellulare. Guardò incuriosito il display, ma tutto ciò che lesse fu Num. Privato. Decise di rispondere e premette il tasto verde.
«Sì, pronto?»
«Hello, cool guy!»
Il ragazzo rimase immobile, senza fiatare: conosceva quella voce, come conosceva quel nomignolo. Eppure non riusciva a ricordare.
«Volevo solo dirti che non riuscirai a sfuggirci, ormai la tua mente è nelle nostre mani!»
«Mi vuoi dire chi diavolo…?»
«Chi sono? - lo precedette la donna, che poi scoppiò a ridere con una risata gelida, ma allo stesso tempo sensuale e attraente, poi la donna riprese a parlare - Vedo che la tua memoria perde qualche colpo.» a quel punto Shinichi sentì in lontananza, sempre dall’altro lato della cornetta, una voce maschile.
«Ora basta Vermouth! Piantala con gli scherzi abbiamo cose più importanti da fare!»
«Goodbye, cool guy… look my Angel…»
La donna chiuse la conversazione e Shinichi si ritrovò a combattere con un altro insopportabile mal di testa. Chi era quella donna? Che voleva da lui? E che diavolo voleva dire l’ultima frase?
Capì che c’era solo una soluzione per avere delle risposte. Perciò si diresse verso il telefono di casa, che si trovava su un mobiletto vicino alle scale dell’ingresso, e cercò nell’agenda che c’era al suo fianco il numero di casa del professore. Appena lo trovò, lo digitò e aspettò che qualcuno dall’altra parte rispondesse.
Fu il professore a rispondere e il ragazzo chiese subito di Ai, era sicuro che lei gli avrebbe dato delle risposte.
«Pronto?» rispose la ragazzina dopo aver preso il telefono in mano.
«Ai, chi è Vermouth?» chiese senza usare giri di parole, doveva sapere le cose e le doveva sapere subito.
La ragazzina dall’altra parte del telefono, però, rimase in silenzio.
«Ai!!! Rispondimi, dannazione!!!» urlò il ragazzo.
«Un… un componente dell’organizzazione…»
Questa volta fu lui a rimanere senza parole. Come aveva fatto a non arrivarci da solo. Poi ricordò di nuovo qualcosa. Alcolici. Ma certo! Tutti i membri dell’organizzazione avevano come nome in codice degli alcolici. 
La ragazzina dall’altra parte del telefono gli bloccò ogni altro pensiero.
«Perché me lo chiedi?»
«Mi ha chiamato al cellulare, mi ha detto che mi hanno in pugno e…» non ebbe il tempo di finire la frase che la ragazzina terrorizzata lo interruppe.
«Shinichi… ha per caso parlato di me?» chiese con voce tremante.
«Non credo…»
«Shiho Miyano…»
«No! Ha solo detto… “guarda il mio Angelo”… l’ha detto in inglese…«
La bambina rimase di nuovo in silenzio, ma questa volta il ragazzo riusciva a sentire il suo respiro spezzato attraverso il telefono, come se fosse preoccupata per qualcosa.
«Ai, perché non parli?»
La bambina dall’altra parte era immobile, la mano che teneva il telefono vibrava come una foglia sotto una brezza autunnale. Non sapeva se avrebbe dovuto dirglielo, ma fu più forte di lei.
«Shinichi… – disse con voce tremante – Ran è in pericolo!»
Il cordless nelle mani del ragazzo cadde a terra con un tonfo.


Il ragazzo correva già da cinque minuti, quando prese il cellulare dalla tasca e iniziò a controllare la rubrica. Andiamo doveva pure avere il suo numero, pensò continuando a far scorrere il cursore. Eppure quel maledetto nome sembrava non voler comparire. Raicho, Raku, Ralph. Ran trovata! Premette il tasto verde e si avvicinò l’apparecchio all’orecchio, mentre continuava a correre, senza avere in realtà una meta precisa.
«Pronto?» rispose la voce della ragazza e il ragazzo ebbe un sospiro di sollievo.
«Ran… dove sei?»
«Shinichi… cosa?»
«Dove sei ora? Dimmelo!» disse il ragazzo urlando.
«A casa… Mio padre è uscito per andare a giocare a majong e io sono a casa! Perché…?»
«Dimmi dove abiti!»
Nessuna risposta.
«Ran…» la chiamò, sperando solo che si fosse distratta.
Eppure non arrivò nemmeno un fiato.
«Raaaaaaaaaaan!» urlò disperato e finalmente qualcuno rispose.
«Ascoltami bene piccola peste, ci hai messo i bastoni tra le ruote troppe volte, ora se rivuoi la tua amichetta dovrai venire da noi, siamo intesi?» disse una voce maschile, che fece gelare il sangue nelle vene al ragazzo.
Poi la chiamata si chiuse. Il ragazzo si fermò, senza fiato, sia per la corsa che per ciò che aveva sentito. Decise che era inutile rimanere lì e così tornò a casa.
Quando fu a villa Kudo, nella sua camera stette per una buona decina di minuti a fissare la foto sulla scrivania dove lui e Ran sorridevano proprio sotto il castello del Tropical Land, quando all’improvviso, finalmente, si decise e prese il telefono.
Dall’altra parte risposero quasi subito.
«Ai… l’hanno presa! Mi hanno detto di andare da loro se la rivoglio…»
«Kudo il loro vecchio covo è andato in fiamme durante l’ultima battaglia, non so dove si siano stabiliti ora. Inoltre è peri…» non riuscì a finire la frase.
«Lo so io dove si trova il nuovo covo, ma ti devo chiedere una cosa…»
«Dimmi.»
«Mi serve una pistola e ho come l’impressione che me ne puoi procurare una!» disse, strappando un sospiro alla ragazzina.
«Ci vediamo tra mezz’ora davanti a casa tua ok?» disse rassegnata dalla decisione dell’amico.

Quella mezz’ora al ragazzo sembrò non passare mai. Si sentiva nervoso ed era più che ovvio, sebbene non si ricordasse di lei e dei momenti passati insieme, sapeva che Ran per lui era sempre stata importante e l’idea che quelli dell’organizzazione l’avessero catturata gli stava chiudendo il cuore in una morsa mortale che sembrava mozzargli il respiro. Quando finalmente passò il ragazzo, che stava aspettando ormai da dieci minuti fuori dal cancello di casa sua, vide la bambina venire verso di lui.
«Questa è la pistola… bada che ha solo tre colpi usali bene!» disse la bambina porgendogli una Walther PPK/S.
«Grazie…» le rispose velocemente, già pronto ad andare, ma lei lo fermò.
«Aspetta tieni anche questa. È una cintura spara palloni, l’ha inventata il dottor Agasa per te quando eri ancora Edogawa, magari ti può servire… In fondo sei la punta numero uno di Fukushima!»
«Ti ringrazio Ai, – disse il ragazzo iniziando a correre – ci vediamo dopo, aspettami…» urlò salutandola con la mano sinistra.
La bambina pregò con tutto il cuore che tornasse sano e salvo. Non avrebbe mai sopportato di vedere quegli occhi azzurri e penetranti di cui era innamorata chiudersi per sempre. Intanto però lo guardava allontanarsi, proprio come si era allontanato da Ran quella fatidica sera al Tropical Land quando diventò Conan Edogawa.


Erano ormai le nove di sera quando Shinichi scese dal treno della metro alla fermata del Tropical Land. Appena sceso vide che il cancello del parco era chiuso con un lucchetto: in quei giorni era stato chiuso per via dell’incidente al pala ghiaccio. Arrivato di fronte al cancello, senza alcuna esitazione si arrampicò aggrappandosi alle aste in metallo e lo scavalcò senza nessun problema. Non ci mise molto e, dopo qualche secondo, si ritrovò dall’altro lato, finalmente dentro il luna park. Iniziò a correre senza fermarsi, sapeva esattamente dove doveva dirigersi. Sebbene i suoi ricordi di quel luogo fossero offuscati, il suo istinto lo stava guidando alla sua destinazione e non aveva nessun bisogno della memoria. 
Arrivò fin davanti alla biglietteria del “Treno dei Misteri” e solo a quel punto si fermò, per riprendere fiato e per guardarsi intorno. Ora aveva bisogno di lei: della sua memoria. Sperò con tutto il cuore che non lo tradisse proprio in quel momento. Ad un tratto lo vide: era un condotto di ventilazione, proprio vicino ad un albero e subito quel ricordo gli balenò nella mente.

«Guarda, Shinichi, c’è pochissima coda per il Treno dei Misteri!» disse la ragazza correndo verso la biglietteria. 
In quel momento lui notò due bambini, intenti a entrare in un condotto di ventilazione.
«Quei due stanno cercando di entrare senza pagare! – disse con aria scocciata – Ma tu guarda, questi sono i ragazzi di oggi!»

Trovato! Per fortuna anche questa volta gli era andata bene. Si avvicinò alla grata in cui fortunatamente non c’erano viti o bulloni a tenerla, gli bastò mettere un po’ di forza e si staccò dal muro, lasciando il piccolo e stretto condotto aperto. Appena tolta la grata s’infilò dentro quel luogo stretto e buio e sentì subito il freddo metallo che rivestiva il condotto sul ventre, mentre iniziava a strisciare. Andò avanti, con quel passo chiamato dai soldati “passo del ghepardo”, per quelle che a lui sembrarono ore, in realtà, molto probabilmente, erano passati non più di venti minuti. Ad un tratto iniziò a sentire un forte odore di alcool e iniziò a strisciare più velocemente. 
Quando finalmente uscì da quel cunicolo si trovava dentro la grotta della giostra, proprio dove passavano i binari. Iniziò a tastare la parete ruvida e sconnessa di quel luogo come se cercasse un passaggio segreto. Dopo un po’ di tempo finalmente trovò quello che gli interessava. Sul muro deformato della grotta vi era un’incisione, sembrava un pipistrello, proprio come quello che c’era sui tappi di bottiglia dei Breeze Bacardi. Proprio sul petto del pipistrello c’era un piccolo bottone, Shinichi lo premette con un po’ di timore. A quel punto si aprì una minuscola fessura sul muro, tanto grande da farci passare una mano, da dove uscì una tastierina munita di numeri e lettere. 
Per un attimo rimase paralizzato nel vederla: ci voleva una password. Come avrebbe fatto ora? Si mise a pensare, forse non ci sarebbe stato bisogno di ricordare chissà quale particolare. Bastava pensare a cosa potevano sapere solo i componenti dell’organizzazione. Poi gli venne un’idea, avvicinò la mano alla piccola tastiera e iniziò a digitare APTX4869.
Davanti a lui una parte del muro indietreggiò per poi spostarsi sulla destra lasciando aperto un varco. Il ragazzo un po’ titubante entrò, mettendo la mano in tasca e afferrando saldamente la pistola. Finalmente sembrava essere dentro il loro covo, ma non sapeva se essere contento o nervoso, anche se il pensiero di ritrovare il prima possibile quella ragazza lo spinse a continuare a camminare, come se in quel momento lei stessa gli stesse chiedendo disperatamente di salvarla.
Camminava velocemente per il vicolo buio, quando una mano lo fermò. Al contrario di come ricordava Shinichi quell’uomo non era vestito di nero ma indossava un paio di pantaloni verde bottiglia e una giacca dello stesso colore sopra una camicia bianca. Era robusto, con l’auricolare all’orecchio, la testa rasata e un paio di occhiali scuri, sebbene lì non ci fosse assolutamente sole o alcuna luce.
«Chi è lei? Che ci fa qui?» chiese l’uomo.
«Devo parlare con...- il ragazzo ebbe una nuova fitta alla testa, come diavolo si chiamava, poi gli venne in mente - …Gin!»
«Seguimi!» rispose tranquillamente lui, probabilmente era già stato avvertito del suo arrivo.
I due camminarono per un lungo corridoio pieno di porte. Erano davvero parecchio organizzati. Quel covo somigliava molto a quello che aveva rivisto nei suoi ricordi dell’ultima battaglia dell’organizzazione: lunghi corridoi costellati di porte, ognuna con la sua targhetta che segnava il nome del proprietario dell’ufficio.
Ad un certo punto l’uomo che camminava di fronte a lui si fermò e il ragazzo lesse cosa c’era scritto sulla lamierina ovale in ottone attaccata sulla porta nera d’ebano di fronte a lui. Gin.
«Aspettami qui! Non ti muovere!» ordinò l’uomo e lui obbedì, mentre quello entrava e si chiudeva la porta alle spalle.
Non voleva complicare ancora di più le cose, però per prevenienza rimise la mano in tasca e afferrò la pistola. Appena sentì il freddo metallo di quell’aggeggio mortale sul palmo della mano ebbe un brivido, ma la strinse ancora più saldamente.
L’uomo uscì pochi secondi dopo, con aria seria e impassibile. 
«Puoi entrare!» disse in tono seccato, poi si allontanò per il lungo corridoio.
Shinichi posò la mano tremante sulla maniglia e ruotò il pomello verso destra per aprire la porta. Appena riuscì a vedere cosa c’era all’interno però, tutta la poca sicurezza che aveva accumulato crollò in un secondo lasciandolo con un fastidioso groppo in gola e con una paura folle.
Ran era accasciata a terra con le spalle al muro. Aveva una ferita alla testa e i suoi occhi erano chiusi, sembrava aver perso conoscenza.
«Ben arrivato... piccolo detective…» disse una voce maschile.
Il ragazzo dovette distrarsi da quella visione agghiacciante. Si girò e vide un uomo tutto vestito di nero, con una cascata di capelli argentei e due occhi di ghiaccio che facevano paura solo a vederli. Ora si ricordava perfettamente di lui: quell’uomo era sempre stato nei suoi peggiori incubi.
«Cosa vuoi da me?» chiese con la voce che gli tremava.
Si maledì per quell’insicurezza. In quel modo avrebbe fatto capire all’uomo che aveva di fronte la sua paura e non doveva.
«Io lascerò libera la tua amica a una condizione…» disse tranquillamente lui.
«Dimmi quale!»
«Tu resterai qui!»
«Io non starò mai con voi, preferirei morire piuttosto che allearmi con delle menti così contorte e crudeli come le vostre!» disse il ragazzo urlando e ritrovando per un attimo il coraggio.
«E chi ha detto che ti vogliamo come alleato?»
Il ragazzo non seppe più che rispondere, ci furono due interminabili minuti di silenzio, poi ad un tratto accadde qualcosa: Ran che era ancora a terra riprese conoscenza.
«Shin…Shinichi…» disse con un filo di voce, facendolo girare.
«Ran…»
L’uomo coi capelli lunghi tirò fuori la pistola e la puntò sulla ragazza.
«Scegli o tu o lei!»
Shinichi per un attimo pensò che era la fine, di certo non avrebbe abbandonato Ran a quell’orribile destino, ma in quel modo non l’avrebbe più rivista, non si sarebbe più ricordato di lei, non avrebbe più potuto rivivere momenti indimenticabili con quegli occhi violetti e dolci.
Decise. Avrebbe provato il tutto per tutto, di certo non si sarebbe arreso così in fretta. La mano che ancora teneva stretta la pistola in tasca, uscì di scatto e il ragazzo la puntò verso l’uomo. Il biondo però non si era scomposto e i suoi occhi perfidi continuarono a guardare quelli tremanti di Shinichi. Il suo obbiettivo però era cambiato, ora non puntava più la pistola su Ran, ma su di lui.
Il ragazzo non sapeva cosa fare, la sua mano vibrava come una foglia al vento, avrebbe dovuto sparare eppure non ci riusciva.
Anche Ran fissava la scena: il suo sguardo, però, si fermò di più su quel ragazzo impaurito che puntava la pistola contro il suo aggressore. Era venuto a salvarla, anche se probabilmente non si ricordava di lei e di tutti i momenti passati insieme. Sentì qualcosa di caldo e sottile rigarle il viso e scivolare piano verso le labbra e capì che era una lacrima, la catturò con la bocca sentendo il suo sapore salino, poi chiuse gli occhi per ricacciare indietro le altre, ma si pentì subito di ciò che fece.
Neanche un secondo e sentì il rombo assurdo di uno sparo. Serrò gli occhi di colpo e rimase paralizzata da ciò che vide: Shinichi era accasciato a terra con la mano che teneva il suo fianco, dove la giacca era di un colore rosso vivo.
«Shinichiiii!» urlò disperata.
La risata dell’uomo in nero inondò la stanza, mettendo i brividi a entrambi i due ragazzi.
«Sei stato uno sciocco Kudo! Credevi di essere più furbo di me? Hai perso la memoria e senza quella non sei nessuno!» sorrise compiaciuto.
«Ti sbagli... - disse il ragazzo cercando di rialzarsi - ...io sarò sempre uno scalino più in alto di te!» puntò la pistola contro l’uomo e sparò prendendolo al ventre.
L’uomo cadde a terra esanime. Shinichi sapeva che in quel modo non lo aveva ucciso, ma non si sarebbe comunque mosso. Sparò un’altro colpo alla pistola che l’uomo teneva in mano, che volò lontano dal suo possessore. Solo allora, quando fu sicuro che il suo avversario era stato sistemato, si avvicinò a Ran.
«Come stai?» chiese.
«Bene… ma tu…»
«Tranquilla sto bene! Ora ti porto fuori di qui.»
Sorreggendosi a vicenda uscirono di corsa dalla stanza. Fortunatamente i corridoi erano desolati, fortunatamente e stranamente, eppure Shinichi era troppo impegnato a portare Ran fuori da quel luogo per rendersi conto che tutta quella calma era assurdamente strana. Arrivarono all’entrata e non si accorse nemmeno che c’era neanche l’uomo vestito di verde. Attraversarono la galleria delle montagne russe e poi si infilarono nel condotto di metallo. 
La ferita gli bruciava e lui iniziava a vedere solo le sagome poi quando uscirono e furono vicino all’albero fu buio e non vide più niente.

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Capitolo 6
*** Insieme al campeggio ***


Insieme al campeggio

Il ragazzo aprì gli occhi, ma subito la stanza gli parve offuscata: dovette sbattere le palpebre un paio di volte, per riuscire a vedere finalmente un’immagine nitida. Era in una stanza d’ospedale, lo dimostrava il letto candido, la tendina verde messa a ridosso del muro, l’odore di disinfettante, ma soprattutto la canula della flebo attaccata al suo braccio. 
Tentò di mettersi seduto, ma subito una fitta al fianco sinistro lo fece ributtare sul letto con un gemito. Già una volta era stato in ospedale in quella situazione, sotto le sembianze di Conan. Quel giorno Ran gli aveva donato il sangue per l’operazione. Chissà se l’avevano operato anche questa volta, oppure gli avevano solamente dovuto chiudere la ferita. 
Non passò molto tempo: una ventina di minuti, mezz’ora al massimo, quando la porta della stanza si aprì e comparvero i due ragazzi che erano alla sua festa di compleanno. Heiji si avvicinò subito al letto, con un sorriso, forse contento di vedere l’amico sveglio, mentre l’altro tenendo le mani in tasca andò verso la finestra, guardando fuori.
«Kudo stai bene?» chiese Heiji, appena fu vicino al letto dell’amico.
«Insomma…- disse toccandosi la fasciatura - che cosa è successo? Io mi ricordo di essere uscito da lì e poi…»
«È stato lui a salvarti. - disse Heiji indicando l’altro ragazzo che ora guardava dalla finestra - Quando sei andato a salvare Ran, Ai era talmente preoccupata per te che mi ha chiamato, purtroppo io non potevo raggiungerti perché avevo un caso tra le mani, ma fortunatamente lui era nei paraggi del Tropical Land e ti ha visto entrare nel parco.»
Shinichi si girò verso il ragazzo e lo fisso per diversi secondi. Si ricordava vagamente di lui e cercò di concentrarsi meglio. Il primo ricordo che aveva avuto era stato quello che probabilmente era il loro primo incontro. Quel vestito bianco... Poi gli venne in mente, Kaito Kid, il ladro gentiluomo. Lui ed Heiji, come molti altri investigatori gli avevano sempre dato la caccia, ma lui ogni volta riusciva a sfuggire. Eppure durante la lotta contro gli uomini in nero se non fosse stato per lui a quest’ora non sarebbe stato più al mondo.
«Kaito…» disse con un filo di voce, come se ad un tratto fosse diventato timido.
Il ragazzo si girò verso di lui con un ghigno divertito, poi tornò serio.
«Non pensare che l’abbia fatto per te! È solo che mi dà noia perdere l’unica persona che riesce a tenermi testa!»
«È solo troppo orgoglioso per ammettere che è tuo amico anche se siete rivali... Non è forse così Kid?» intervenne Heiji e tutti e tre si misero a ridere. 
Finalmente si stava iniziando a ricordare del suo passato, pian piano ogni ricordo veniva a galla. Forse non gli era chiaro ancora tutto, la maggior parte dei ricordi erano ancora annebbiati e confusi, ma pian piano si stava ricordando e questo lo rendeva felice.


Erano le cinque di pomeriggio quando la porta della stanza d’ospedale, in cui era stato ricoverato, si aprì per la seconda volta, facendo entrare Ran. Aveva la testa fasciata e i suoi occhi violetti e immensi lo guardavano con compassione. Il ragazzo non riuscì a resistere all’intensità di quello sguardo e dovette voltarsi, rigirandosi dall’altro lato del letto, come un bambino offeso che non vuole più vedere in faccia chi l’aveva fatto arrabbiare. In realtà, semplicemente, si vergognava: non riusciva a sostenere quello sguardo, perché più la guardava negli occhi, più aveva paura di non ricordarsi di lei. Sì, sapeva il suo nome, sapeva che l’aveva amata e che molto probabilmente provava ancora una certa attrazione per lei, sapeva che lei ricambiava i suoi sentimenti, eppure sentiva che quello non gli bastava. Era come se l’assenza di quei ricordi con lei lo facesse sentire vuoto e incompleto. 
Strinse i denti, innervosito da quella sensazione. Non aveva mai pianto in vita sua, se non forse da bambino, ma in quella circostanza avrebbe voluto riuscirci almeno una volta, per sfogare quella frustrazione.
«Shinichi…» disse la ragazza intimidita, chiamandolo semplicemente per nome.
«Cosa c'è?» chiese il ragazzo cercando di non fargli capire che la sua voce tremava, anzi cercò anche di rimanere freddo e distaccato, come se fosse veramente offeso.
«So che non ti ricordi ancora di me… - rispose lei - ma ti ringrazio per avermi salvata da quell’uomo!» le rispose lei, che alla fine della frase arrossì leggermente.
«Non c’è di che!» rispose lui cercando di rimanere, ancora, serio e freddo.
«Perché non mi guardi in faccia quando ti parlo?» chiese la ragazza e questa volta il suo tono sembrava scocciato, quasi offeso.
Lui si girò dopo aver fatto un grosso sospiro per trattenere il nervoso che aveva addosso. Vide il rossore sulle sue morbide guance, i suoi occhi lilla tristi e lucidi, pronti per fare uscire qualche lacrima e subito gli si bloccò il respiro. Non c’era più l’ansia di quei ricordi confusi e contorti nella sua mente, non c’era più la frustrazione di non ricordarsi più momenti importanti, c’era solo lei, lei e i suoi occhi immensamente tristi, nei quali voleva perdersi per farli tornare felici e limpidi. 
Avrebbe tanto voluto prenderla tra la sue braccia e consolarla, stringerla e rassicurarla che sarebbe andato tutto bene, che non le sarebbe capitato più nulla di male, che anche a costo della vita, l’avrebbe protetta. Eppure né il suo corpo, né la sua lingua volevano muoversi di un millimetro. 
Fu lei a fare il primo passo. Si avvicinò a lui cauta, come se volesse avvisarlo di cosa stava per fare e gli stesse dando la possibilità di evitarlo, ma lui, invece, non si mosse e la ragazza inevitabilmente arrivò a poggiare le labbra rosee sulle sue. 
Shinichi rimase lì immobile, chiuse solo gli occhi, in modo da assaporare appieno quella sensazione che non gli sembrava affatto nuova. Era un’esperienza bellissima poter sentire la carne delle sue labbra sfiorare quelle vellutate di lei e per un attimo ebbe l’istinto di andare oltre: di aprirsi un varco tra le sue labbra per baciarla seriamente, ma questo non accadde perché lei si staccò proprio quando lui prese quella decisione. 


Shinichi era stato dimesso tre giorni dopo che Ran venne a fargli visita. Nei giorni successivi un sacco di altre persone andarono a trovarlo e, doveva ammetterlo, quelle visite non gli dispiacevano affatto, sopratutto quelle che ogni giorno gli fecevano i quattro bambini della festa, in particolar modo la piccola Ayumi che era spensierata e dolce e sembrava sempre trovare il lato positivo in tutto, mettendolo di buon umore. Quando fu dimesso, ne uscì senza grossi danni. Aveva solo una cicatrice al fianco che gli doleva ancora se faceva troppi sforzi, ma per il resto si sentiva in gran forma e pronto a ricominciare la sua vita. 
Era appena rientrato a casa e si era seduto sul divano dell’ingresso per rilassarsi un po’, quando gli squillò il cellulare. Per un attimo ebbe un fremito. Se fosse stata di nuovo quella donna? Tirò un sospiro di sollievo, quando sul display del suo cellulare vide la scritta Mamma, decidendo così di premere il tasto verde e rispondere alla chiamata.
«Pronto?»
«Ehi, Shin-chan come stai?»
«Ciao mamma, qui tutto a posto e voi? Papà ha finito il suo libro?» domandò, tanto per parlare.
«Non ancora. Dice di essere in un vicolo ceco, secondo me sta solo invecchiando!»
Il ragazzo sorrise divertito: sua madre non cambiava mai, aveva sempre la battuta pronta e si divertiva sempre un mondo a vantare le sue abilità, anche a costo di sminuire gli altri.
«E tu invece, quando uscirà il tuo ultimo film? Dato che hai ricominciato a recitare.» riprese il ragazzo.
«Non ne ho la più pallida idea, il regista non mi ha riferito ancora niente!» esclamò la madre.
«Capisco…»
«Ah, Shinichi!»
«Che c’è mamma?»
«La tua... Beh ecco la tua memoria... Insomma è tutto ok? Sai, io e tuo padre eravamo un po’ preoccupati.»
«È tutto a posto stai tranquilla. Ti voglio bene, ciao, e salutami papà.»
Poi chiuse la chiamata senza aspettare che la madre rispondesse, mentre quella sensazione di nervoso e frustrazione tornò ad assillarlo. Per quei giorni all’ospedale, dopo la visita di Ran, si era quasi dimenticato della storia della memoria, come se conoscesse tutte quelle persone che arano andate a trovarlo, eppure sapeva che non era così.
La donna dall’altro lato del telefono rimase allibita. Non solo suo figlio le aveva chiuso il telefono in faccia, ma le aveva anche detto “ti voglio bene” e non l’aveva mai fatto in vita sua. Ciò voleva dire solo una cosa, che non era davvero tutto apposto come diceva lui.


Passarono altri due giorni dalla telefonata di Yukiko. Shinichi si era rimesso a pieno e si sentiva come nuovo. Quel fastidio di non ricordare nulla sembrava essersi assopito e si sentiva più che sereno.
Il giorno prima Heiji lo aveva invitato a fare un campeggio e lui aveva accettato volentieri, in modo così da staccare dalla vita fredda e monotona della città. Forse sperava anche che, all’aria aperta, gli venisse in mente qualche nuovo ricordo.
Erano in macchina e il ragazzo dalla pelle scura stava al volante mentre lui sedeva nel posto del passeggero, affianco.
«Dai sarà divertente un campeggio solo maschi senza le ragazze che sicuramente staranno tutto il weekend a fare shopping!» disse Heiji col fare ironico mentre guidava la macchina.
«Ma perché dovevo venire pure io? Ho cose più importanti da fare che andare in campeggio!» esclamò Kaito che era seduto, o meglio stravaccato nel sedile posteriore.
«Sì per poi rubare chissà quale gioiello? Scordatelo e poi anche Aoko ha il weekend organizzato con le ragazze!» rispose Heiji prontamente, facendo sbuffare l’altro, dopodiché per un po’, calò il silenzio.
«Hattori… Sonoko, ha il ragazzo?» domandò Shinichi rompendo nuovamente il ghiaccio.
«Sì, credo si chiami Makoto Kyogoku e lo conosci più tu che io… Ma non sarà con noi!»
«Capisco…»
Questa volta non ricordava assolutamente nulla di questo ragazzo, nemmeno il nome gli aveva portato in mente alcun ricordo. Eppure non è che gli importasse molto questa volta, insomma era soltanto il fidanzato di Sonoko, ragazza che a quanto ricordava era una molto alla buona, che ci provava con tutti, quindi sarebbe stato irrilevante.
Il ragazzo scosse la testa, cercando così di togliere quei soliti pensieri e di trovare un altro argomento su cui parlare con i due amici. I discorsi però finirono su un caso complicato che Heiji aveva risolto qualche giorno prima e subito dopo Shinichi raccontò il caso particolare della villa, collegato a quello del pala ghiaccio.
A quel punto il povero Kaito esasperato, all’ennesima risata dei due, sbuffò.
«Ma guarda un po’ te se devo andare a fare il campeggio con due detective!»
«Non ti lamentare Kid e goditi la vacanza!» lo rimproverò il detective dalla pelle scura.
«Ti ho detto mille volte di non chiamarmi Kid quando non…!»
«Sì sì, scusa mi sono confuso… Comunque stai tranquillo, per questo weekend tra te e noi ci sarà una tregua giusto Kudo?»
Il ragazzo fece un cenno con la testa, mentre guardava fuori dal finestrino un immenso campo di girasoli.
Amava quei fiori. Forse perché erano un po’ l’opposto suo. Loro cercavano sempre la luce, si tendevano vogliosi verso il sole traendone gioia, luce e calore, mentre lui dava sempre le spalle a quel calore. Non sapeva perché, forse per paura di bruciarsi, oppure semplicemente perché gli veniva difficile osare, eppure era sicuro che una volta lui non era così, una volta lui era sicuro di sé quasi su tutto.
In quel momento voltò anche lui lo sguardo verso il sole per un attimo: doveva essere sicuro anche lui. Così, guardando ancora per qualche secondo quella sfera incandescente nel cielo, si fece la promessa che sarebbe tornato lo Shinichi che tutte quelle persone a Tokyo conoscevano, sebbene sapesse che non sarebbe stato affatto facile mantenerla.


La sera, a cena, i tre ragazzi erano intorno al fuoco. Stavano cucinando degli spiedi e ognuno teneva il suo, facendolo rosolare su quel piccolo falò scoppiettante. Shinichi però era nervoso, si guardava attorno agitato, come se ci fosse odore di guai nell’aria.
«Kudo perché ti guardi in giro? Mi fai venire il nervoso!» esclamò Kaito.
«Lascialo perdere, Kaito, avrà perso la memoria, ma il suo istinto da detective è sempre all’erta.» gli rispose Heiji fissando l’amico che aveva smesso di guardarsi attorno ed era tornato a guardare intensamente il suo spiedo, subito dopo il rimprovero dell’amico.
«Forse volevi dire che la sua sfiga è pronta a colpire un’altra vittima?» disse addentando un pezzo di carne del suo spiedo.
«La vuoi piantare? - s’intromise di nuovo il giovane detective di Osaka - Oggi sei proprio acido Kaito! Cos’hai bevuto stamattina a colazione succo di limone al posto del latte?»
«Ho capito, va bene… Io vado a dormire» finì la sua porzione di cibo e dopo essersi alzato si ritirò nella sua tenda di un bianco immacolato, che sotto la luce della luna sembrava quasi splendere. 
Non passò molto, che anche i due giovani detective, finiti i loro spiedi, si ritirarono ognuno nella propria tenda.
Shinichi era subito crollato. Forse per la stanchezza accumulata durante il viaggio o semplicemente perché aveva sonno. Si era accucciato sotto il caldo sacco a pelo, per ripararsi dall’aria fredda che tirava in quella zona da campeggio e si lasciò trasportare nel mondo dei sogni dal sussurro del vento che muoveva leggermente la tenda. 
Il ragazzo ormai stava dormendo da qualche ora, ed era nel pieno del sonno, quando un grido acuto squarciò quella notte gelida.
Shinichi si svegliò di colpo. Per un attimo gli sembrò che il cuore gli fosse finito in gola per lo spavento. Qualche secondo dopo, appena si riprese, si affacciò incuriosito dalla tenda e notò che non solo i suoi due amici, ma anche molti altri campeggiatori faceva altrettanto. 
Con uno sguardo d’assenso lui ed Heiji decisero che era il caso di andare a vedere cosa fosse successo. Così poco dopo uscirono tutti e tre dalle loro tende con i giubbotti sopra i pigiami pesanti.
Si diressero di corsa verso il luogo da cui era provenuto l’urlo e, quando arrivarono:
«Che cosa è successo signora?» chiese Heiji rivolgendosi alla donna che aveva urlato.
Era una donna robusta ed aveva come minimo una quarantina d’anni se non di più. Era ancora stranamente vestita, inoltre non era vestita come una normale campeggiatrice, ma indossava un’elegante vestito a fiori e un paio di spadrillas di tela bianca.
La donna, col suo dito tremante indicò la porta della roulotte proprio di fronte a lei. A quel gesto Heiji e Shinichi entrarono per vedere cosa volesse indicare e la situazione fu subito chiara.
A terra c’era una donna sui trent’anni, i capelli neri erano sparsi sul pavimento e sporchi di sangue che aveva sporcato un po’ dappertutto. Alla nuca aveva un foro, segno indelebile dell’uso di un’arma da fuoco, ma non c’erano segni di aggressione o di lotta, l’unica cosa strana era il computer portatile ancora acceso.
«Ci dica esattamente cos’è successo.» chiese Shinichi alla signora, dopo essere uscito dalla roulotte.
«Erano le otto e mezza quando sono tornata alla roulotte, la mia amica, la signorina Shizune, era al computer portatile - disse la donna puntando il dito verso un computer sulla scrivania della roulotte - eravamo qui di passaggio perché dovevamo portare una cosa importante a una nostra amica, ma quando sono andata a vedere se era messa al proprio posto nella scatola, non la trovai. Mi arrabbiai con Shizune e poi uscii e andai a cercarla, circa mezz’ora fa sono tornata alla roulotte a mani vuote e ho trovato la povera Shizune così, com’è adesso…»
«Scusi se le sembro indiscreto, ma quale sarebbe l’oggetto in questione?» chiese Heiji, cercando di saperne di più.
«Una collana di madre perla che spettava in eredità alla nostra amica. Aveva anche un ciondolo di quelli che si aprono e dentro c'era una strana pietra che non ho mai visto.» a quella risposta, i due giovani detective si girarono verso Kaito che era stato per tutto il tempo fuori dalla roulotte mezzo assonnato, ma comunque con l’aria attenta.
«Ehi, non guardate me! Non c’entro! E poi non rubo cose che non conosco!» disse alzando le mani come a volersi arrendere.
«No Hattori, non può essere stato lui... e poi Kaito non ucciderebbe nessuno, lo sai bene!» disse Shinichi.
Eppure questa volta avevano pochi indizi. Quel caso sembrava parecchio più complicato degli altri e quella tela di fili rossi era intrecciata talmente bene che era parecchio difficile sbrogliarla. Il ragazzo, come fosse una richiesta d’incoraggiamento, chiese ad Holmes di aiutarlo. Sperava che rivangando nella sua memoria, quelle letture che sapeva una volta adorava, forse sarebbe riuscito ad arrivare alla soluzione. 
Decisero comunque che sarebbe stato opportuno chiamare la polizia, che ovviamente non tardò ad arrivare e si mise subito ad indagare insieme ai ragazzi. Eppure neanche loro, riuscirono a trovare anche solo un minimo dettaglio che potesse dare una svolta al caso.
«Abbiamo troppi pochi indizi e troppi sospetti - disse l’ispettore Megure guardando il corpo della vittima - Shinichi ed Heiji, siete sicuri che sia tutto qui?»
«Così ha detto la signora, ispettore.» rispose Heiji.
«Capisco…» rispose l’uomo, più a se stesso che ai due ragazzi, continuando a guardare pensieroso la vittima.
Ad un tratto però tutti e tre furono sorpresi dalla voce femminile di una donna.
«Ispettore, ispettore…» gridò correndo verso il suo capo.
La donna era la stessa che si trovava vicino a Takagi il giorno del suo compleanno e Shinichi la ricordò come Sato. Miwako Sato.
«Sì, che c’è Sato? Hai trovato qualche indizio?»
«Di più ispettore l’arma del delitto!»
I due amici si guardarono negli occhi per pochi secondi, poi iniziarono a correre verso la direzione da cui era venuta la donna, seguiti a ruota dall’ispettore e l’altro agente. Sul luogo c’erano diversi agenti che gironzolavano.
Era un piccolo spiazzo circondato da cespugli e alberi, alcuni secchi per via dell’afa di quei giorni, non sembrava molto grande, ci potevano stare al massimo cinque o sei tende, non di più.
Sato indicò un punto vicino a un piccolo albero secco: a terra vi era una pistola, probabilmente una PPK. Fu un’agente della scientifica a prenderla, con i suoi bianchi guanti di plastica, per poi metterla in una busta trasparente e sigillaria.
I due ragazzi rimasero lì, davanti a quell’alberello, cercando di ricostruire la dinamica dei fatti.
«Tu quindi credi che l’assassino sia corso qui e l’abbia fatta cadere di proposito?» chiese Heiji stupito, dopo un’affermazione, che a lui sembrava assurda, del suo amico.
«Potrebbe essere un spiegazione valida. Quello che non mi convince è il perché prima ha preso la collana e poi, dopo che la signora se ne andata di nuovo, ha ucciso Shizune, mi pare illogico.»
«Probabilmente voleva che… - il ragazzo si zittì fissava un punto dietro la schiena dell’amico - Kudo guarda là!» disse indicando un ramo del piccolo albero secco dietro di lui.
Shinichi si girò e vide che impigliato nel ramo dell’albero c’era un pezzo di stoffa nera. Avvicinò la mano a quel pezzo di tessuto: le dita gli tramavano, come se stesse per toccare qualcosa di rovente e sapeva che si sarebbe bruciato. Quando lo ebbe in mano lo fissò con occhi attenti, ma allo stesso tempo spaventati.
«Kudo... tu credi che in tutto questo possa c’entrare l'organizzazione?» chiese il giovane detective di Osaka, vedendo lo sguardo perplesso dell’amico, mentre teneva quel pezzo di stoffa in mano.
«Non lo so, spero solo che non erano qui per me, ma per la collana!» disse mettendosi poi il pezzo di stoffa in tasca.
«Cosa pensi di fare?»
«Forse è meglio che torniamo alle nostre tende. Se sono davvero stati loro non penso siano stati così stupidi da lasciare altre tracce in giro, già è un miracolo che abbiamo trovato questa.»
I due ragazzi tornarono alle tende senza dire una parola all’ispettore, che invece sperava in una loro brillante deduzione per quel caso complicato.
«Ho paura Hattori!» sussurrò Shinichi quando furono seduti vicino alle loro tende.
«Che cosa stai dicendo Kudo? Non hai mai avuto paura di niente e di nessuno! Non ti puoi far mettere i piedi in testa da loro, li hai battuti una volta e puoi rifarlo!» disse Heiji non riconoscendo più l’amico. 
Chissà forse il laser dell’organizzazione aveva anche quello scopo, oltre a quello di far perdere la memoria o forse semplicemente non ricordando il suo passato non era facile affrontare alla leggera una situazione del genere.
«Stai pure tranquillo Kudo. - disse una voce alle loro spalle, i due si voltarono e videro Kaito uscire dalla sua tenda e unirsi a loro - Se sono venuti qui non è sicuramente per te!»
«Kaito cosa…? Che vuoi dire?» chiese Shinichi stupito.
«Vi ho mentito prima! Sapevo di cosa si trattava quella collana, ma non avevo intenzione di rubarla!»
«E allora? Cosa c’entra con l’organizzazione?» domandò Heiji.
«Vi ricordate cosa ha detto, la signora sul ciondolo della collana?»
«Sì, della pietra strana che non sapeva cos’era!» disse prontamente il ragazzo.
«Esatto! Quella pietra è un opale verde, un tipo di pietra che si trova solo in India! Ora non so se è vero ma credo che sia quello l’alimentatore per il laser che ti ha fatto perdere la memoria… - disse rivolgendosi a Shinichi - e dato che è più facile rubarlo piuttosto che andarlo a prendere fino a lì ne hanno approfittato! Certo con uno non se ne fanno molto, ma penso che alimenti il laser almeno per altri due o tre obbiettivi.»
Tutti e tre i ragazzi rimasero in silenzio nella notte fredda, rannicchiati su se stessi, mentre nuvolette di condensa uscivano dalle loro bocche quando respiravano.

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Capitolo 7
*** Uno strano microchip ***


Uno strano microchip

Shinichi era sdraiato sul letto della sua stanza, a casa Kudo. Si era davvero divertito quel fine settimana, sebbene la prima sera era stata movimentata e anche un po’ misteriosa, gli uomini in nero non si fecero più vedere né sentire e il resto del week-end passò sereno, oltretutto Kaito, dopo ciò che era accaduto quella sera, era diventato più cordiale e gentile, come se avesse pensato che non aveva alcun senso fare il permaloso e l’asociale con due amici, che sebbene fossero suoi rivali, avevano un profondo rispetto per lui, come lui ne aveva per loro. 
In quel momento però, Shinichi, non stava pensando a come aveva passato il week-end o a come Kaito aveva cambiato atteggiamento nei suoi confronti, ma a ciò che Kaito gli aveva detto la prima sera del campeggio sull’opale verde: quando tutti e tre rimasero per ore al freddo senza più dire una parola.
Doveva iniziare a mettersi all’opera. Heiji aveva ragione, non poteva stare con le mani in mano e aspettare come un bambino spaventato che gli eventi facessero il loro corso: doveva agire, doveva cercare di capire come fermare quei pazzi criminali. L’aveva fatto già una volta, sotto le sembianze di Conan e poteva farlo di nuovo.
Decise perciò di chiamare Ai, probabilmente lei sapeva qualcosa riguardante quella pietra, o magari sapeva qualcosa di meno preciso, che comunque lo avrebbe portato più vicino alla verità.
Scese al piano di sotto, prese il telefono di casa e digitò il numero. Al telefono rispose subito la bambina.
«Qui studio del dottor Agasa, parla la segretaria.»
«Segretaria? Studio? Ai che stai dicendo?» chiese il ragazzo confuso.
«Oh Kudo, sei tu! Pensavo fossi un’altro cliente del professore!» rispose la bambina con un sospiro di sollievo.
«Cliente di cosa?» chiese sempre più stupito.
«In questi due anni il dottor Agasa ha aperto un’azienda aggiusta computer e mi ha assunta come segretaria!» rispose lei.
«Davvero?»
«Sì sì, l’ha fatto quando io avevo deciso di trasferirmi altrove: mi ha detto che comunque anche se ero adulta avevo l’aspetto di una ragazzina e non potevo andare a vivere da sola. Così mi ha assunto, pagandomi e dicendomi che in questo modo avevo un motivo per rimanere con lui.»
«Certo che se le inventa tutte!» disse, senza riuscire a trattenere una risata.
«Già non dirlo a me! - rispose lei, ma Shinichi non poteva vedere che sul suo viso era comparso un piccolo sorriso nel sentirlo ridere - A proposito, che mi dovevi dire?»
All’improvviso Shinichi si ricordò perché aveva chiamato la sua piccola amica e tornò improvvisamente serio.
«Volevo chiederti se per caso sai qualcosa sull’opale verde.»
La ragazzina rimase immobile e silenziosa. Non sapeva se stava zitta perché conosceva qualcosa e la sua domanda l’aveva spaventata, oppure perché stava pensando. Poi, ad un tratto, parlò.
«Mai sentito! Perché?» chiese.
«Riguarda l’organizzazione! Kaito pensa che sia l’alimentatore per il laser.» spiegò lui.
«Mi spiace. Non so proprio niente! - ma la sua voce, questa volta, era indecisa e lui capì che mentiva, poi continuò - Farò delle ricerche a riguardo e ti farò sapere. Ora devo andare, ciao.» e chiuse il telefono in faccia al povero Shinichi.
Dopo aver chiuso la conversazione la ragazzina si sedette sul divano verde acido e ripensò a quel giorno in cui per la prima e forse unica volta aveva sentito di quella pietra. 
Ricordava ogni dettaglio come fosse stato il giorno prima. Ricordava cosa indossava sua sorella, cosa indossava lei. Ricordava la conversazione. Ricordava anche la determinazione ai limiti della stoltezza di sua sorella nel voler scoprire a cosa servisse quell’opale verde che aveva trovato per caso nell’ufficio di Vermouth. Ricordava persino il piano che aveva escogitato, un piano che in realtà faceva acqua da tutte le parti, ma che lei voleva assolutamente mettere in atto per poter finalmente incastrare l’organizzazione e poter dare la libertà ad entrambe.


Shinichi era rimasto davanti al mobile del telefono, pensieroso. Aveva capito dalla voce di Ai che ne sapeva di più di quanto sembrava e doveva scoprire ciò che la tormentava, eppure non poteva né costringerla a parlare né rimanere con quel dubbio che lo assillava.
Proprio mentre pensava a ciò squillò il suo cellulare, che teneva nella tasca dei pantaloni. Non guardò neanche il display per vedere chi fosse a chiamarlo e automaticamente premette il tasto verde e si avvicinò l’apparecchio all’orecchio. 
«Pronto?»
«Ciao Shinichi, come stai?» chiese una voce intimidita dall’altra parte del telefono.
Il ragazzo si poteva aspettare di tutto ma non sentire la sua voce. Rimase per qualche secondo stranito poi, quello stupore, in modo alquanto strano e improvviso, si trasformò in felicità nel sentire proprio lei.
«Ran… - disse, dopodiché cercò di creare una frase sensata - Perché mi hai chiamato?»
«Beh… Volevo sapere come stavi così ho pensato di chiamarti. Ti disturbo?»
Anche lei era intimidita e un po’ impacciata e il ragazzo sorrise divertito.
«No figurati. Non stavo facendo niente… Però, non è vero che mi hai chiamato solo per sapere come stavo.»
La ragazza dall’altro lato del telefono si stupì, ma solo per un attimo. Quello era il suo Shinichi, quel ragazzo che anche per telefono riusciva a capirla come un libro aperto e a cui non poteva assolutamente mentire. Nonostante avesse perso la memoria quel ragazzo dall’altro lato della cornetta era proprio il suo Shinichi.
«Beh ecco… Heiji ha parlato a Kazhua del campeggio e lei l’ha riferito a me. Quindi volevo sapere se… beh ecco… se hai scoperto qualcosa di nuovo.» rispose.
«No, non ho scoperto niente! Ma ancora non mi stai dicendo la verità!» disse Shinichi schietto.
«Ok, ok… pensavo… Ti va di andare a fare un giro domani? Solamente io e te?» chiese, dopodiché si zittì.
Shinichi rimase immobile e zitto: quella proposta proprio non se l’aspettava. Era rimasto lì, imbambolato a pensare a come sarebbe stato un vero appuntamento con Ran, poi, misteriosamente, gli tornò in mente il bacio all’ospedale e non capì più nulla.
«Shinichi? Ci sei?» domandò Ran, dall’altra parte del telefono, riportandolo alla realtà, scosse la testa e cercò di tornare serio per rispondere, finalmente, alla ragazza.
«Va bene! Ci vediamo domani alle dieci da me. Ora devo scappare, a domani.» e, dopo aver ricevuto la risposta della ragazza, chiuse velocemente il contatto.
Appena staccò la chiamata si dannò per aver dato quell’appuntamento a Ran. Insomma ancora non ricordava nulla di lei, se non qualche minimo flash. Come poteva farle passare una bella giornata? Non conosceva i suoi gusti, le sue passioni. Nulla.
Si sedette abbattuto sul divano e si concentrò al massimo, sopportando il mal di testa che lo assillava. Doveva trovare qualcosa da fare, qualsiasi cosa.


Il giorno dopo arrivò più in fretta del previsto. Ran era da due minuti davanti al cancello di casa Kudo, aveva già suonato e Shinichi le aveva risposto che stava per arrivare. 
Finalmente la ragazza, dopo quei due lunghi minuti, lo vide uscire dalla porta principale, mentre si chiudeva la porta alle spalle, facendo due giri di chiave e iniziando a percorrere il vialetto.
Rimase per l’ennesima volta stupito da quanto fosse bella quella ragazza e, per tutto il percorso del vialetto, la guardò ammirato. Indossava una maglietta a maniche corte e una gonna lunga, entrambe celesti, in modo da intonarsi quasi perfettamente ai suoi occhi violetti. Arrivato di fianco a lei si salutarono un po’ intimiditi, come fosse davvero la prima volta. Fu Ran ad essere un po’ più coraggiosa e parlare per prima.
«Allora dove mi porti di bello?» domandò.
«Beh…ecco…» anche questa volta non sapeva che rispondere, non sapeva il motivo, ma ogni volta che aveva lei di fianco si sentiva impacciato.
«Non importa! - intervenne di nuovo lei - Sarà una sorpresa…!»
Si fecero una lunga passeggiata di circa di venti minuti, chiacchierando di qualsiasi cosa passasse loro nella mente, soprattutto Shinichi, raccontò della sua vita a Sendai. Dopo quei venti minuti di cammino arrivarono ad un laghetto fuori città che pareva davvero poco frequentato: sparse sul prato e sulle panchine potevano esserci non più di una decina di persone. Si sedettero su una delle tante panchine bianche che circondavano il piccolo specchio d’acqua e rimasero per qualche secondo ad ammirare il bel paesaggio.
Dopo un po’ Shinichi decise che era arrivato il momento di porgere a Ran il pacchetto che teneva sotto braccio da quando era uscito di casa.
«Questo è per te!» disse, sperando con tutto il cuore di essersi ricordato bene i suoi gusti.
Ran fissò il pacchetto per qualche secondo, incuriosita, poi lo prese in mano e lo scartò. Dentro vi era un abito da sera di seta turchese e una collana che aveva come ciondolo una piccola stella. La ragazza rimase stupita e incantata da quel dolce regalo e pensò che in qualche modo dovesse ricambiare.
«È bellissimo!» esclamò la ragazza.
«Sono contento che ti piaccia.» rispose lui sorridendo e a quel sorriso la ragazza decise come ricambiare quel piccolo pensiero.
«Anch’io ti devo dare una cosa... chiudi gli occhi!»
Il ragazzo all’inizio fu un po’ titubante, poi però si fidò di lei e chiuse gli occhi.
Per la seconda volta in pochi giorni sentì quella sensazione stupenda delle labbra di lei appoggiate sulle sue. Aprì gli occhi esterrefatto: Ran, con gli occhi chiusi e gli zigomi leggermente rossi per l’emozione, lo stava baciando e questa volta non era un semplice bacio a stampo come quello all’ospedale. Le labbra di lei scivolavano dolcemente sulle sue cercando di baciare ogni centimetro del sua bocca.
Fu lui a prendere coraggio: chiuse di nuovo gli occhi, alzò il braccio e le iniziò ad accarezzare i capelli castani, poi schiuse le labbra e sentì il suo caldo respiro in bocca.


Erano passate due ore dal bacio al lago. I due ragazzi avevano pranzato in un simpatico ristorante a self service, ovviamente tutto offerto da Shinichi, dopodiché avevano preso la metropolitana, per dirigersi al certo del quartiere di Beika. 
Stavano parlando di quanto fosse divertente la giostra spaziale di Tropical Land e alla fine della discussione si misero a ridere divertiti. Ci fu qualche minuto d’imbarazzante silenzio, in cui i due non sapevo più di che parlare, poi fu Ran ha riprendere la discussione. 
«Il vantaggio del fatto che tu hai perso la memoria è che non mi parli più di Sherlock Holmes come facevi in tutti i nostri appuntamenti!» disse e tutti e due scoppiarono nuovamente a ridere di gusto.
Poco dopo i due ragazzi scesero dalla metro e Shinichi alla fermata, prima di andare alla loro ultima destinazione per l’appuntamento, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una benda nera e la mise sugli occhi della ragazza.
«Ma che fai?» chiese lei un po’ scocciata.
«Tu fidati di me.»
Camminarono per un paio di minuti, ma ad un certo punto Ran riprese con la sua protesta.
«Shinichi, si può sapere perché mi hai messo la benda agli occhi» domandò un po’ offesa.
«Aspetta e vedrai!»
Shinichi si fermò, andò dietro la ragazza e le tolse la benda.
Lei rimase stupita da ciò che vide, d’avanti a lei c’era un grosso cartello con su scritto: Solo per oggi “La Leggenda Del Filo Rosso”.
«Shinichi tu…!» disse voltandosi verso di lui.
«Ho pensato a tutti i posti in cui ti potevo portare e quando ho pensato al cinema... mi sono ricordato di quella volta…»

«Posso accettare a una sola condizione…»
«Dimmi quale…» rispose lui con il cambia voce in una mano e il telefono della cabina nell’altra.
«Vorrei che mi accompagnassi al cinema sabato sera, c’è uno spettacolo speciale!» rispose lei.
«Che cosa?»

«Qual è il film che lo porterai a vedere?» chiese il padre della ragazza.
«È “La Leggenda Del Filo Rosso!”»
«La leggenda del filo rosso?» chiesero in coro lui e l’uomo.
«Ma come, non lo conoscete? Parla di uomini e donne destinati fino alla nascita a stare insieme per il fatto che sono legati da un filo rosso che portano al mignolo... è un film estremamente romantico, un’appassionante storia d’amore…»
Il solito polpettone… pensò lui, ringraziando il cielo che non l’avrebbe visto.

«Grazie Shinichi!» esclamò la ragazza contenta.
Durante il film Ran aveva gli occhi puntati sullo schermo mentre Shinichi, stava quasi per addormentarsi, pentendosi quasi immediatamente di aver deciso di vedere quel film: era uno dei film più noiosi che avesse mai visto e avrebbe volentieri schiacciato un pisolino.
«È stato bellissimo e poi lui era un ragazzo così affascinante! " disse Ran, all’uscita dal cinema, contenta della giornata trascorsa.
«Se devo essere sincero, non l’ho trovato così bello il film e poi, non ti offendere, ma lui era uno scorfano!» disse il ragazzo seccato.
«Come uno scorfano, ma ti sei visto?» rispose la ragazza a tono.
«Beh, se mi ami ci deve pur essere una ragione, o sbaglio?»
Lui abbassò lo sguardo, lei divenne tutta rossa e, dopo quella frase, rimasero in silenzio fino a casa di Shinichi.
«Vieni dentro, ti devo far vedere una cosa.» disse il ragazzo e lei lo seguì.
Entrarono in casa che era tutto buio e l’opaca luce della luna filtrava dalle finestre. 
Fu un attimo: il ragazzo non ebbe nemmeno il tempo di accendere la luce a pochi passi dall’ingresso che Ran si ritrovò tenuta stretta da un uomo, mentre una donna stava puntando una revolver proprio a lui. 
Il panico più totale percorse ogni cellula del suo corpo e quando sentì la sua voce ebbe in brivido.
«Ora tu vieni con noi senza troppe storie, cool guy!» disse la donna e lui non potendo fare altrimenti accettò, chiedendo però che lasciassero andare Ran.
L’uomo che la teneva, perciò, le diede un colpo in testa per fare in modo che non chiamasse subito la polizia e a quel gesto il ragazzo s’infuriò coi due, ma sotto la minaccia della pistola dovette quietarsi e seguirli in macchina, lasciando lì la povera Ran.
Solo in auto, una Mercedes nera coi vetri dietro oscurati, il ragazzo, di nascosto dai suoi due aguzzini, mandò un messaggio ad Ai in modo che potesse soccorrere Ran.


Circa un’ora dopo si ritrovò di nuovo nel covo dell’organizzazione, questa volta, però, l’ufficio in cui si trovava era diverso: era quello di Vermouth. La donna lo aveva legato a una sedia, con le mani dietro la schiena e lo stava fissando incuriosita e ammirata.
«Si può sapere perché ce l’avete con me?» chiese il ragazzo, lanciando uno sguardo di rabbia alla donna che teneva in mano la pistola.
«È una lunga storia, cool guy… ma sarò lieta di raccontartela prima di ucciderti... - si sedette su un altra sedia a qualche metro da lui, incrociò sensualmente le gambe e iniziò a raccontare - Devi sapere che i tuoi genitori, che si erano messi d’accordo con Akai e Jodie, due dell’FBI casomai non ti ricordassi ancora di loro, avevano deciso di piazzare un microchip all’interno del tuo corpo. Lo scopo era di nasconderlo a noi. Nessuno avrebbe mai pensato che un microchip così importante per l’FBI potesse essere dentro il corpo di un bambino giapponese. Ovviamente i due agenti avevano assicurato i tuoi genitori che esso non avrebbe fatto danni al tuo corpo. Noi, all’inizio, non sapevamo dove fosse quel microchip, poi quattro anni fa scoprimmo che si trovava nel corpo di un ragazzo che doveva avere più o meno sedici anni, facemmo delle ricerche, così la lista dei ragazzi si rimpicciolì. Tre anni fa tu andasti al Tropical Land e Gin e Vodka ti seguirono perché eri uno di quella lista. In realtà erano lì, anche, per concludere un’affare, ma dopo che Vodka si fece beccare da te, Gin non poté fare a meno che decidere di eliminarti con la putoxina. Qualche mese dopo scoprimmo che eri proprio tu il ragazzo e il boss s’infuriò con Gin e Vodka. Il giorno che ci arrestarono, quando tu venisti da noi ancora sotto le sembianze del marmocchio, furono tutti euforici di non aver perso l’ultima speranza. Io l’avevo capito da un po’ che in realtà tu eri Shinichi, ma sai non volevo smuovere troppo le acque: sono una che si fa spesso gli affari suoi. Ora, però, più che mai quel chip è di vitale importanza per noi. Perciò eccoti qui!»
Il ragazzo rimase in silenzio per qualche minuto, spaesato. Ciò voleva dire che lui era immischiato in quella faccenda fin dall'inizio, non era cominciato tutto quando si era trasformato in Conan. Lui, in quella storia, c’era fino al collo già da bambino, ma allora perché i suoi genitori non gli avevano mai detto niente? Perché non gli avevano raccontato questo grande segreto? Insomma ormai aveva vent’anni, aveva tutto il diritto di sapere quelle cose.
«E a cosa vi serve il microchip?» chiese nervoso.
«A secrets makes for woman woman... - rispose lei mettendosi il dito indice sulla bocca - E ora addio cool guy.»
La donna si alzò dalla sedia, puntò la pistola al suo petto e premette il grilletto.
Shinichi riuscì solo ad avvertire il dolore lancinante al petto e a vederla avvicinarsi col suo ghigno terribilmente affascinante, poi tutto divenne buio.

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Capitolo 8
*** Ran ritorna! ***


Ran ritorna!

Aprì gli occhi, ritrovandosi di nuovo in ospedale. Cercò di alzarsi, ma una fitta al petto lo bloccò e ricadde sul cuscino con un gemito, rimanendo con lo sguardo annebbiato per qualche secondo. A quanto pareva questa volta la ferita era molto più dolorosa di quella al fianco e ad ogni movimento gli dava l’impressione di mozzargli il respiro.
«Vedi di stare un po’ fermo! - fece una voce vicino alla finestra della piccola sala, facendolo voltare da quella parte e aspettando che tutto tornasse a fuoco, vedendo poi Heiji che riprese a parlare con aria tranquilla - Con quella ferita credo che sarà difficile alzarsi senza riaprirla, dovrai aspettare che il dottore ti dica che puoi muoverti!» aveva le mani in tasca e sembrava avere un’aria molto più seria del solito, come se si fosse preoccupato particolarmente, probabilmente era lì da parecchio tempo.
«Cos’è successo?» chiese un po’ confuso.
«Sei in ospedale da due giorni, ieri sera ti hanno operato, il proiettile ti ha preso in pieno un polmone e se non ti operavano subito probabilmente saresti morto…» rispose Heiji, sempre con aria seria.
«Come sono uscito di lì? Ricordo solo che Vermouth mi ha sparato addosso, poi non ricordo più nulla.» disse Shinichi con un filo di voce.
«Certo, eri svenuto, è normale che non ti ricordi nulla. Comunque è stato di nuovo Kaito a salvarti: non so perfettamente cosa sia successo là dentro, lui non l’ha voluto raccontare, ma stavolta ci stava per rimettere la pelle anche lui, è arrivato qui ieri mattina ferito e con te sulle spalle.»
«Capisco… E Ran? Sta bene?»
Heiji guardò per qualche secondo l’amico poi abbassò lo sguardo senza parlare. Ora sembrava ancora più serio di prima e Shinichi pensò subito al peggio: qualcosa dentro di lui iniziò a opprimerlo, sentiva che avrebbe potuto cessare di respirare da un momento all’altro. Con voce tremante ripose la domanda in modo diverso.
«Hattori, - disse - dov’è Ran?»
Il ragazzo aprì la bocca per parlare, ma poi la richiuse immediatamente. Shinichi non capì se quella riluttanza nel parlare era perché non sapeva cosa dire o perché non voleva proprio dire cosa era accaduto, ma lo irritò talmente tanto che non riuscì più a trattenere la rabbia.
«Hattori, dimmi dov’è Ran!» urlò Shinichi, un urlo che gli mozzò il fiato per via della ferita che gli diede una fitta allucinante al petto, lasciandolo di nuovo intontito per qualche secondo.
«Ok ok, calmati… te lo dirò!» disse l’amico preoccupato, non voleva che Shinichi si sforzasse più di tanto, inoltre era preoccupato della reazione che avrebbe avuto l’amico a ciò che gli avrebbe detto.
«Ran è… dall’altra parte del corridoio... La botta in testa è stata forte... - si fermò un attimo poi, dopo un lungo sospiro, riprese - è entrata in coma…»
Shinichi rimase immobile. In un attimo sembrò che tutto il mondo gli fosse crollato addosso: sentì salire il panico, ma come al solito nemmeno una lacrima solcò il suo viso. Heiji notò l’espressione di sgomento nei suoi occhi azzurri e cercò di rassicurarlo.
«Kudo, io…»
«Lasciami solo Hattori, ti scongiuro!» lo interruppe lui con aria talmente seria e fredda da far venire i brividi al ragazzo di Osaka che, dopo un sospiro, uscì dalla stanza, rassegnato, chiudendosi la porta alle spalle.
Quando finalmente Shinichi fu da solo, tirò infuriato un pugno sul suo stesso materasso, con il braccio libero dal tubo della flebo, sentendolo vibrare sotto di lui. Non era possibile, Ran non poteva essere in coma, non ora, non quando stava ricominciando ad innamorarsi di lei, non quando era di nuovo riuscito a ricordare qualcosa dei momenti che avevano passato assieme, non quando si stava innamorando nuovamente della sua semplicità, della sua dolcezza, della sua grinta. Ran doveva resistere, doveva combattere, doveva vincere questa battaglia in cui l’avversario sembrava più forte di lei: proprio come la finale del torneo di karate, che ora il ragazzo ricordava perfettamente.


Era il tramonto, Shinichi stava guardando il cielo in fiamme, quando una voce alle sue spalle lo prese alla sprovvista.
«Come va... grande detective?» nel sentire quella voce, il ragazzo si rigirò nel letto, in modo da vedere in faccia il suo interlocutore, anche se, ormai, avrebbe riconosciuto quella voce ad occhi chiusi, con quel tono spavaldo e un po’ sfacciato.
«Tutto apposto. - rispose - E tu?» aggiunse guardando la spalla del ragazzo, era coperta dalla camicia bianca, ma si vedeva benissimo lo spessore della fasciatura su di essa.
«Mi è quasi già passata.» rispose lui.
Shinichi sapeva che stava mentendo: se la fasciatura era ancora così spessa da notarsi sotto la camicia, voleva dire che la ferita non era ancora guarita del tutto, proprio come la sua.
Il giovane detective, però, rimase in silenzio per qualche minuto, non sapendo cosa dire. Pensava solo che quel ragazzo di fronte a lui, che sarebbe dovuto essere il suo rivale, gli aveva salvato la vita per la seconda volta e non riusciva a fare a meno di essergli riconoscente.
«Grazie Kaito…» disse con un filo di voce, che però l’altro percepì subito.
«Figurati! A cosa servono gli amici se non ad aiutarti?» fece, strappandogli un sorriso, un sorriso sentito, ma anche un po’ triste.
«Ma rischiare la vita non è solo un aiuto… Forse… - gli occhi dei due ragazzi, che erano quasi dello stesso colore, s’incrociarono - Forse ti devo un favore… D’ora in avanti non sarò più rivale di Kaito Kuroba, ma solo di Kid, ti prometto che inseguirò solo il ladro bianco, ma quando si tratterà di avere davanti te saremo solo amici, ok?»
Kaito fece un sorrisetto compiaciuto, uno di quelli che dedicava solo a lui quando stava per sfuggirgli per l’ennesima volta.
«Vacci piano con le parole, piccolo detective! Ti sei dimenticato chi sono io?» e con uno schiocco di dita, diventò per un attimo Kid e poi sparì in una nuvola di fumo.
Il detective sorrise divertito, pensando che il ragazzo aveva ragione, non doveva dimenticare che se avrebbe catturato Kid, avrebbe mandato il suo stesso amico in prigione, ma ciò non lo sconvolse per niente. Anzi, sapeva che con quel gesto Kaito, gli aveva proprio chiesto di continuare a mantenere quel rapporto di rivalità che li legava così tanto. Giurò a se stesso, ma soprattutto a lui, che un giorno l’avrebbe preso, dopodiché si addormentò profondamente.


Passarono tre giorni dall’incontro con Kaito. Shinichi riceveva molte visite e quando fu in grado di alzarsi finalmente da letto, non sapendo cosa fare, andava in giro per l’ospedale facendo amicizia con altri pazienti. La ferita, comunque, poteva ancora riaprirsi e inoltre doveva passare un sacco di ore in riabilitazione, perciò il dottore gli aveva ordinato tassativamente di stare ancora un paio di giorni in ospedale, anche se lui sarebbe voluto uscire di lì molto prima.
Quel giorno Shinichi era sdraiato sul letto e il suo pensiero, come sempre quando non faceva niente, era rivolto alla stanza in fondo al corridoio, dove sapeva si trovava Ran. In quell’intera settimana non aveva avuto il coraggio di andarla a trovare nemmeno una volta. La vista di quel viso spento da ogni espressione gli avrebbe dato un dolore immenso, eppure sapeva che sarebbe dovuto andarci. 
Fu proprio in quel momento che prese il coraggio e, con movimenti lenti, per non riaprire la ferita, si alzò dal letto e andò deciso verso la sua destinazione. Uscì dalla sua stanza e percorse il corridoio, arrivato al fondo, però, si bloccò di nuovo. Aveva poggiato la mano sulla maniglia color argento, ma appena vide che stava tremando si fermò. Che cos’avrebbe fatto non appena l’avesse vista? 
Scosse la testa, era inutile rimuginarci sopra: qualsiasi cosa sarebbe successa, l’avrebbe affrontata, ma in quel momento Ran aveva bisogno del suo appoggio e lui sarebbe entrato in quella maledetta stanza.
Aprì la porta e per fortuna la scena non lo lasciò tanto sconvolto come si aspettava, anche se comunque lo rattristò parecchio. Sul letto candido giaceva Ran, priva di sensi, si avvicinò al capezzale e vide che, sotto la mascherina dell’ossigeno, il suo viso era ancora spaventato dall’ultima cosa che aveva visto all’ingresso di casa sua. 
Rimase lì per parecchi minuti, in assoluto silenzio, senza sapere che cosa fare poi, ad un tratto, preso da un moto di coraggio, si sedette sulla sedia verde di fianco al letto e iniziò a parlare.
«Ran… Non so se puoi sentirmi o no, ma ti scongiuro non mi abbandonare! Ho bisogno di te, senza te non vivo! Ti ho fatto sempre soffrire lo so... Per via della putoxina, della perdita di memoria, ma tu sei più forte di me! Sarò anche un bravo detective, ma per quanto riguarda queste cose non so proprio come comportarmi… Ti prego non mi lasciare! Ho paura di cadere in un abisso senza fondo, senza di te... Ho bisogno della tua sicurezza e del tuo sorriso per essere me stesso! Io voglio stare con te... per sempre... per la vita... Io… Io ti amo Ran!»
A quel punto la bocca della ragazza sotto la mascherina si trasformò, curvandosi in un sorriso e, poco dopo, nell’espressione di stupore di Shinichi si rifletterono gli occhi violetti della sua piccola Ran che con un po’ di fatica si aprirono pian piano.
«Shi-ni-chi…» disse con voce fievole la ragazza.
«Shhh - rispose lui mettendosi un dito sulla bocca - l’importante è che sei sveglia! Ora riposati.» dopodiché le diede un lieve bacio sulla fronte e se ne andò, con un sorriso, finalmente sincero e sereno.
Tornò nella sua stanzetta e si sdraiò sul letto molto più tranquillo di quando si era alzato. Rimase lì, a pensare che ormai i ricordi si stavano pian piano ricreando tutti. Forse, finalmente, le cose iniziavano a girare per il verso giusto. 
Non passò molto, forse una mezz’ora, non di più, quando ad un tratto qualcuno bussò alla porta aperta della camera. Shinichi si voltò e vide il suo miglior amico di Osaka sorridere ed entrare.
«Ehi Kudo, ti vedo più rilassato. Come va?»
«Tutto a posto! - rispose lui con un sorriso - Kazuha è da Ran?»
Il detective di Osaka rispose con un cenno di testa, ma rimase stupito di come parlare della ragazza non pesasse più all’amico.
«La aspetterà una bella sorpre…» neanche il tempo di finire la frase che la porta della stanza si spalancò.
«Heiji, Shinichi, si è svegliata, Ran è sveglia!» esclamò la ragazza.
I suoi occhi verdi sembravano dover buttare fuori lacrime di gioia da un momento all’altro.
«Cosa? - chiese stupito Heiji - Kudo tu…?»
«Sì, lo sapevo. - rispose lui sorridendo - Si è svegliata quando sono andato a trovarla.»

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Capitolo 9
*** Soli contro il mondo ***


Soli contro il mondo

Shinichi, dopo i suoi ultimi due giorni di ricovero fu finalmente dimesso dall’ospedale, con mille raccomandazioni da parte del dottore di non fare sforzi per almeno altre due settimane, in modo che i punti si asciugassero da soli.
Dovette passare una settimana perché anche Ran seguisse l’esempio del ragazzo. Fortunatamente non aveva avuto nessun trauma cranico compromettente e, non appena si fu risvegliata dal coma fu un miglioramento continuo: i dottori si erano quasi stupiti della rapidità con cui migliorava la salute di quella ragazza, non sapevano che Ran era tenace, qualsiasi cosa le toccava affrontare.
Appena uscita dall’ospedale trovò la macchina nera di Makoto Kyogoku che l’aspettava, dentro vi erano il ragazzo e Sonoko che, appena vide l’amica uscire dalle porte di vetro scorrevoli dell’ospedale, aprì la portiera dell’auto e scese abbracciandola contenta.
«Oh Ran, finalmente sei fuori. Non mi devi far prendere più colpi del genere è chiaro?» la rimproverò l’amica bionda che la stava ancora abbracciando.
Lei ricambiò quel gesto d’affetto e quando si staccarono rispose con un dolce sorriso.
«Sonoko… Lo sai come sono fatta. Non posso stare lontano dai guai per più di qualche giorno.»
Le due amiche scoppiarono a ridere, poi Sonoko lanciò la sua solita frecciatina da cupido.
«Sì sì, e come se non lo so… Anche il tuo maritino ha il tuo stesso problema da attira guai... Forse è per questo che siete fatti l’uno per l'altra.» disse e a quelle parole Ran arrossì vistosamente, dopodiché salirono entrambe in macchina.
«Ti accompagno a casa, Ran?» chiese Makoto, rivolto alla ragazza, che si era appena seduta sul sedile posteriore.
«No no, se non ti dispiace vorrei prima passare a villa Kudo.» rispose lei.
«Hai capito la nostra Ran? Prima l’amore e poi la famiglia…!» fece Sonoko prendendola ancora in giro, mentre lei, dietro, fece finta di non sentire e mandò un messaggio col suo cellulare a suo padre e sua madre, rassicurandoli che stava bene e che sarebbe tornata più tardi.


Quando suonò il citofono il ragazzo era seduto sul divano a guardare un po’ di tv, si alzò e andò direttamente ad aprire il portone.
Il suo cuore si riempì di gioia quando vide proprio Ran al cancello di casa sua. Percorse velocemente il vialetto fino ad arrivare alle sbarre di ferro del cancello che aprì subito, con un sorriso da parte a parte accompagnò le sue parole di sollievo.
«Ran, ti hanno dimessa! Sono davvero contento!»
«Era vero?» chiese Ran ignorando completamente le parole del ragazzo.
Era andata prima da Shinichi solo per due motivi e non sarebbe tornata a casa senza delle risposte.
«Cosa?» chiese il ragazzo preso alla sprovvista.
«Quello che hai detto in ospedale!» chiarì lei.
Il ragazzo arrossì, imbarazzato, domandandosi cos’avrebbe dovuto risponderle a quel punto, se aveva davvero sentito tutto non poteva di certo mentire. Si dannò di non avere il coraggio di dire le cose come stavano, poi con la voce tremante cercò di dire qualcosa.
«Beh ecco io… sì insomma io volevo dire che… Quello che ho detto all’ospedale era… era… - sospirò e abbassò lo sguardo - Sì era tutto vero!» disse tutto d’un fiato, come se avesse paura che le parole gli sfuggissero di bocca.
Il silenzio regnò per qualche secondo e non sentendo la sua voce Shinichi alzò lo sguardo incuriosito da che faccia aveva fatto a quella confessione. Quello che vide lo lasciò senza parole, sebbene fosse la cosa più ovvia che si poteva aspettare, la ragazza lo guardava con un dolce sorriso, come se volesse rassicurarlo del suo imbarazzo, poi, senza nessun preavviso, lo abbracciò. In un attimo il ragazzo si trovò le sue braccia attorno al collo e il profumo dei suoi capelli gli inebriò il naso, a quel punto non poté fare a meno di ricambiare e cinse le spalle della ragazza con le sue braccia.
«A proposito… - disse lei dopo qualche secondo, staccandosi dal ragazzo - C’è un’altra cosa che volevo chiederti.»
«Dimmi.»
«Cosa mi dovevi far vedere prima che accadesse tutto quel manicomio?»
Il ragazzo deglutì: si era completamente dimenticato di quel piccolo pacchetto che si trovava ancora nel cassetto della sua scrivania in attesa di essere aperto. Avrebbe potuto mostraglielo in quel momento, ma aveva perso tutto il coraggio.
«Cosa? - disse facendo finta di niente - Niente era una sciocchezza!» rispose imbarazzato, sperando che la ragazza si rassegnasse, ma lei non cedette per niente, anzi sembrò quasi arrabbiarsi.
«Shinichi, cosa mi volevi far vedere?» chiese con uno sguardo terrificante.
«Beh ecco io…»
«Shinichi!» urlò alla fine, terrorizzando il ragazzo che non voleva assolutamente assaggiare uno dei suoi calci.
«Va bene, va bene, te lo farò vedere, vieni.» senza più nessuna esitazione le prese la mano e insieme oltrepassarono il vialetto entrando in casa.
Erano sulla scala per salire al piano superiore, quando il cellulare di Ran squillò. La ragazza chiese a Shinichi di aspettare un’attimo poi dallo zaino uscì il suo cellulare e vide il nome di suo padre scritto sul display, sospirando.
«Scusami ci vorrà un attimo. - disse rivolgendosi a lui - Pronto?»
«Ran, torna a casa io e tua madre ci eravamo preoccupati, sbrigati!»
«Ma se vi ho mandato un messaggio... Ora sono impegnata!» rispose la ragazza un po’ stizzita dal comportamento del padre.
«Ran per favore non disubbidire e vieni subito, io e tua madre dobbiamo anche parlarti di una cosa importante.»
«Va bene, sto arrivando - sbuffò per poi salutare e chiudere la conversazione - Scusa, mio padre vuole che torni a casa, perché non vieni con me?» domandò rivolgendosi a Shinichi.
«Veramente io…» ma non fece in tempo a dire altro, perché Ran lo prese per il braccio e lo trascino fuori di casa.
Non ci misero molto ad arrivare all’agenzia Mouri e, nel vedere quegli enormi caratteri bianchi sulla vetrata dell’edificio a Shinichi riaffiorarono tanti brevi ricordi che lo fecero sorridere: finalmente il suo passato stava tornando a inondare la sua mente e non si era mai sentito così felice in vita sua. Non poteva immaginare che attraversata quella porta, la realtà lo avrebbe investito come un treno ad alta velocità, rompendo quel vetro sottile che era la sua felicità in quel momento.
La ragazza aprì la porta dell’ufficio, vedendo subito suo padre seduto alla scrivania, mentre sua madre era proprio davanti a lui e sembrava quasi che l’aprirsi della porta li avesse interrotti nel pieno di una discussione.
«Shinichi, ci sei anche tu?» fece Eri stupita.
«Buongiorno signora Kisaki.» disse il ragazzo educatamente, facendo un leggero inchino com’era tradizione in quel paese.
«Meglio! - sentenziò Kogoro incrociando le braccia - Così sarà tutto più chiaro.»
«In che senso?» domandò Ran, non aveva mai visto suo padre così serio.
«Ran, - attaccò il detective non muovendosi dalla sua posizione - io e tua madre abbiamo preso una decisione!»
«Tu l’hai presa! A me sembra un grosso errore e lo sai bene.» ribatté Eri.
«Ti sbagli lo facciamo per il suo bene!» rispose lui rivolgendosi all’ex moglie.
«Si può sapere che succede?» insistetté la ragazza esasperata.
«Abbiamo deciso, - riprese Kogoro rivolgendosi a Ran - che sarebbe meglio che tu e Kudo non vi frequentaste più!» a quelle parole entrambi i ragazzi sbarrarono stupiti gli occhi ma, se Shinichi rimase in silenzio senza contestare, Ran sembrò infuriarsi.
«Cosa?»
«Di solito, per via di quell’organizzazione, la sua vita è sempre in pericolo e non vogliamo lo sia anche la tua.» chiarì l’uomo.
«Stai scherzando spero!» urlò ancora Ran.
Il ragazzo invece rimase paralizzato dalla terribile realtà che gli si era parata davanti: come aveva fatto a non rendersi conto del rischio a cui stava esponendo Ran, dopo che per quasi due settimane era rimasta priva di sensi all’ospedale? Eppure quando si trovava sotto le sembianze di Conan aveva molta più considerazione di quel pericolo che incombeva su di lei se l’avesse coinvolta.
«Ran cerca di ragionare…» continuò il padre della ragazza.
«Scordatelo! - rispose subito la ragazza - Non perderò Shinichi per la terza volta, te lo puoi scordare!» poi prese Shinichi, ancora assorto nei suoi pensieri, per un polso e lo trascinò fuori dall’agenzia.
Avevano già fatto qualche metro quando Shinichi si bloccò di colpo, come se improvvisamente fosse tornato alla realtà.
«Ran… - la chiamò, facendola voltare verso di lui, aveva le lacrime agli occhi, a quella vista sentì le viscere contorcersi, ma con un enorme sforzo disse quello che sentiva dentro - Tuo padre ha ragione.» disse senza mezzi termini, ma cercando di essere il più tranquillo possibile.
«Ti ci metti pure tu?» chiese la ragazza, mentre le lacrime continuavano a sgorgare dai suoi occhi.
«Ran ragiona... Sei in pericolo se stai vicino a me. Guarda che è successo un mese fa, lo so che è dura, ma non potrei sopportare di… Insomma non voglio che tu ci rimetta per qualcosa che riguarda solo me.»
Purtroppo, finalmente ne era sicuro, il problema dell’organizzazione riguardava solo lui. A loro non importava più né di Ai né di tutti quelli che stavano intorno a lui, a meno che non intralciavano, volevano solo lui e il chip dentro il suo corpo.
«Un problema tuo? Shinichi, ma ti rendi conto di quello che dici? Mi avevi fatto una promessa quando sei tornato due anni fa, la ricordi?» domandò lei, quasi urlando, lasciandolo paralizzato, non la ricordava.
«Ran io…»
«Lasciami stare!» si lamentò infine, per poi andarsene piangendo e lasciandolo lì per vari minuti, spaesato, fino quando anche quel ricordo riaffiorò.

«Quindi sei stato vicino a me tutto il tempo e non mi hai detto niente?» gli domandò Ran, mentre una lacrima già scendeva per rigarle il viso.
«Scusami Ran, è che non volevo coinvolgerti in questa storia.» rispose lui.
«Ma sei impazzito? Ho pensato di tutto... Se avessi saputo avremmo combattuto insieme!»
«Cosa?» chiese stupito.
«Giurami che d’ora in poi qualsiasi sarà il rischio o il problema lo affronteremo insieme!» disse con aria decisa e seria Ran, le lacrime sul suo viso erano completamente sparite.
«Promesso!» sorrise lui divertito.

 

Shinichi camminava ormai da mezz’ora, doveva ritrovarla, doveva scusarsi, aveva ragione lei, non poteva escluderla ormai, ci erano dentro insieme e avrebbero affrontato la situazione insieme, non l’avrebbe abbandonata per la terza volta. 
Pensò a dove potesse andare Ran, poi finalmente dopo quella mezz’ora gli venne in mente. Si diresse verso il parco del lago in cui erano andati un mese prima, arrivando col fiato grosso, ma quando la vide lì davanti al lago, in piedi, mentre una lacrima le rigava il viso si tranquillizzò e si avvicinò lentamente.
Lei era lì da venti minuti, stava piangendo senza riuscire a fermare le lacrime: non poteva credere che il suo Shinichi le avesse detto di non vedersi più, si era davvero dimenticato di quella promessa. Forse era vero, forse lo faceva per difenderla, ma lei non si voleva separare da lui.
Ad un tratto sentì qualcuno cingerle le mani ai fianchi e un respiro profondo le sfiorò l’orecchio, facendola rabbrividire.
«Non ti lascerò mai, lo giuro, saremo io e te contro il mondo intero, piuttosto.»
Lei si girò e si buttò tra le sue braccia, con le lacrime che ancora scorrevano inesorabili e bagnavano la maglia del ragazzo.
Nonostante tutto, però, non ci mise molto a tranquillizzarsi e, poco dopo erano entrambi seduti su una delle panchine di quel luogo, proprio come un mese prima.
«Come facciamo con mio padre?» domandò lei, dopo vari minuti di silenzio.
«Non possiamo farci vedere insieme! Neanche da quelli dell’organizzazione. Dobbiamo trovare un posto in cui vederci, che conosciamo solo noi, almeno finché non sapremo cosa fare.»
«Vediamo fammi pensare…» borbottò Ran, alzando gli occhi al cielo.
«Ci sono! - disse invece Shinichi, poco dopo - Ti ricordi la grotta alla periferia di Beika?» disse, facendo sgranare gli occhi alla.
«Ti… Ti è tornata la memoria fino a quel punto?»
«Credo di sì. - sorrise, divertito dall’espressione stupita della ragazza - Non ricordo tutti i dettagli, ma ricordo che ci passavamo un sacco di tempo.»
«Certo che me la ricordo! - disse Ran contenta - Ci andavamo all’asilo quando volevamo stare soli!»
«Bene, allora ci vediamo lì domani alle tre!»
«Perfetto!» sorrise la ragazza.
«Ora torna da tuo padre e digli che accetti le sue condizioni solo fino a quando l’organizzazione non sarà sgominata.»
La ragazza rispose con un cenno di testa ed entrambi si alzarono dalla panchina, dopodiché lui le diede un lieve bacio in bocca e corse verso casa.


Erano le tre e mezza e Shinichi stava correndo come un forsennato: si era appisolato verso le due, svegliandosi alle tre e accorgendosi che era in ritardo, perdendo pure il treno. Correva il più veloce possibile, mentre un ricordo gli tornava vivo in mente.

Anche allora correva a più non posso, e dentro di sé sapeva che ormai lei doveva essersene già andata, ma quando arrivò la vide, davanti al cancello.
«Shinichi!» disse vedendolo.
Lui stanco e affaticato per la corsa le chiese perdono, ma lei invece di arrabbiarsi sorrise.

Arrivò alla grotta che non aveva più fiato.
«Perdonami Ran.» disse, ripetendo la stessa scena di quel ricordo.
«Non ti preoccupare!» disse lei col solito sorriso.
Dopo un lieve bacio si inoltrarono nel boschetto di quella zona, finché non arrivarono davanti a una grotta, dovettero chinarsi per riuscire ad entrare: l’ultima volta che vi erano entrati erano dei bambini e ci stavano tranquillamente, ora se fossero rimasti in piedi avrebbero sbattuto la testa. Dopodiché si sedettero a terra.
A parte le dimensioni, la grotta era come la ricordava Shinichi: una piccola libreria in un angolo con tutti i libri di Sherlock Holmes, che a quei tempi a Ran piacevano da morire e nell’altro angolo una credenza in cui solitamente teneva alcune provviste, quando avevano intenzione di stare lì a lungo, ma che in quel momento era vuota.
«Cos’è successo al covo?» Ran prese Shinichi alla sprovvista, mentre era ancora assorto nei ricordi, poi però rispose, raccontandole tutto quello che gli aveva raccontato Vermouth.
La ragazza sembrò rimanere un po’ scossa da quella notizia, ma non appena Shinichi, con un sorriso, le prese la mano, sembrò riprendersi.
«Dobbiamo escogitare un piano!» disse.
«Tranquilla non c’è problema!» sorrise il ragazzo facendole l’occhiolino.

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Capitolo 10
*** Confessioni di notte ***


Confessioni di notte

Durante i giorni successivi i due ragazzi si trovarono sempre in quella grotta cercando di organizzare alla perfezione un piano che potesse avere buoni risultati: unendo la materia grigia di Shinichi e l’irruenza di Ran, riuscirono a definire un piano che avrebbe permesso loro di fermare per sempre l’organizzazione.
Dopo quasi una settimana d’incontri al loro rifugio i due ragazzi erano pronti per attuare quel piano, si erano ritrovati anche quel giorno lì e, dopo aver definito gli ultimi dettagli, iniziarono a decidere come attuarlo al meglio.
«Dobbiamo chiedere aiuto agli altri.»
«Anche agli adulti?» domandò la ragazza.
«No! Non capirebbero, direbbero solamente che è pericoloso, questa volta dobbiamo cavarcela da soli!» sentenziò Shinichi deciso.
«Bene. Allora mentre io andrò a riferire ad Aoko, Sonoko e Kazuha che abbiamo bisogno del loro aiuto, tu penserai ai ragazzi.»
«Perfetto!»
«Potremmo usare questa grotta come punto di ritrovo. È piccola ma se…» non riuscì a finire la frase perché il ragazzo la bloccò.
«No! Questa grotta è nostra e di nessun altro!» sentenziò lui, facendola sorridere divertita.
«Va bene. Allora dove ci vediamo?» domandò.
«A casa mia!»
«E come faccio con mio padre?»
«Ti fai passare a prendere in macchina da Sonoko, così non sospetterà di nulla.»
«Va bene! Allora ci vediamo tra due giorni a casa tua.»
I due uscirono dalla grotta, si diedero un lieve bacio e poi ognuno andò per la sua strada in modo che nessuno li vedesse insieme.


Due giorni dopo si ritrovarono, come deciso, tutti a villa Kudo. Erano le tre del pomeriggio, quando tutto il gruppo si sistemò nella sala da pranzo, precisamente undici persone, tutti chiamati da Shinichi e Ran per organizzare il piano. Appena tutti furono seduti, il giovane detective cominciò a parlare.
«Allora, per prima cosa, per attuare il piano ho bisogno di sapere tutto il possibile sui loro movimenti dato che ho perso la memoria. - annunciò come scusante, anche se oramai ricordava quasi tutto del suo passato - Perciò Ai, dimmi cosa sai sull’opale verde.» fece, rivolgendosi alla ragazzina.
Lei contorse le mani sul tavolo, come se fosse appena stata scoperta in flagrante, poi parlò con tono tranquillo.
«Ne avevo sentito parlare da mia sorella, subito dopo che mi hai chiamato ho fatto delle ricerche e, guardando la sua composizione chimica, è probabile che quello che ha detto Kaito non sia errato.»
«Ok, - rispose lui - invece per quanto riguarda un certo microchip ne sai qualcosa?» chiese poi, speranzoso.
«No, perché?» domandò lei incuriosita.
«Niente - rispose il ragazzo - credevo di aver sentito qualcosa a suo riguardo da Vermouth e volevo esserne sicuro.» non aveva nessuna intenzione di rivelare a tutti i presenti il motivo per cui l’organizzazione ce l’aveva così tanto con lui, ma l’idea di non sapere niente su quel chip dentro al suo corpo lo assillava e così, istintivamente, strinse la mano di Ran che era proprio al suo fianco.
Nell’ora successiva il ragazzo spiegò dettagliatamente il piano che lui e Ran avevano messo a punto nei vari giorni dentro alla loro grotta, spiegando ad ognuna delle persone il loro compito. Solo dopo quell’ora, quando fu chiaro tutto a tutti, il gruppo si congedò, dandosi appuntamento al giorno dopo per attuare finalmente il piano. Solo a quel punto, i due ragazzi rimasero nuovamente soli in quell’enorme casa.
«Vado a preparare un the.» disse Shinichi dirigendosi verso la cucina.
«Ti dò una mano!» disse Ran.
Il ragazzo con un gesto veloce, tese il braccio verso di lei per fermarla e dirle che non ce n’era bisogno, ma in un attimo un dolore inaspettato al petto gli mozzò il fiato facendolo accasciare a terra.
«Shinichi?!» urlò Ran preoccupata, chinandosi su di lui.
«La ferita Ran… Si è riaperta…» disse con la voce spezzata, quando vide attraverso la sua camicia bianca le bende che gli avvolgevano il torace tingersi di rosso.


Ran aveva appena mandato il messaggio a tutti coloro che, neanche tre ore prima, erano stati in quella stessa casa, quando ad un tratto lo stesso cellulare che aveva usato per mandare quei messaggi squillò.
«Pronto?» chiese, anche se aveva letto il nome sul display.
«Perché quel messaggio?» sentì dire dalla voce della sua amica, che non la salutò nemmeno.
«Non c’è un motivo, il piano è rinviato.» rispose lei.
«Ho capito! Ma perché?»
«Perché sì Sonoko, ci sono stati dei problemi. Credo che sarà una questione di un paio di giorni, ma per ora il piano è rinviato!»
«Ma te l’ha detto Shinichi?» insistette ancora la ragazza.
«Ora basta con le domande, la questione finisce qui!» rispose, chiudendo con violenza il cellulare.
Non voleva dare troppe spiegazioni in giro e voleva far preoccupare meno possibile i suoi amici, inoltre sapeva bene che un’informazione come quella nelle mani sbagliate avrebbe messo all’erta l’organizzazione. Per questo motivo, non conoscendo i loro contatti o i loro metodi, era stata molto attenta nell’uso delle parole per quel messaggio. 
«Perché l’hai fatto Ran?» chiese una fievole voce dall’angolo della stanza, dove c’era il letto di Shinichi, riportandola alla realtà.
«Shinichi, sei sveglio! Ti ho medicato al meglio le ferite e tra un po’ arriva un dottore di cui mi fido a…»
«Perché l'hai fatto?» la interruppe il ragazzo, ripetendo la stessa domanda.
«Shinichi io pensavo che… Insomma abbiamo organizzato insieme questo piano, inoltre senza la tua parte non potremmo fare molto… Pensavo che…» non riusciva a spiegarsi.
«Non dovevi farlo! Io starò meglio…»
«Sicuramente starai meglio, ma non entro un giorno, hai bisogno di riposo. Ora aspettiamo il dottore, poi vedremo il da farsi.»
Il dottore arrivò poco dopo e, ovviamente, fu Ran ad andare ad aprire e scortarlo verso la camera di Shinichi. Lei stessa si stupì di quanto era cresciuta in quei tre anni: fosse successo una cosa del genere prima, l’avrebbe fatto correre fino alla stanza senza nemmeno salutare.
Il dottore entrò nella camera di Shinichi, poggiò la sua borsa di fianco al letto e sbottonò la camicia del ragazzo. Le bende, che probabilmente Ran gli aveva cambiato, erano di nuovo sporche di sangue. Dopodiché chiese alla ragazza un’asciugamano e una bacinella d’acqua prima di togliere le bende. Lei, con passo veloce, si allontanò un attimo e tornò, poco dopo, con ciò che l’uomo aveva chiesto. A quel punto il dottore infilò l’asciugamano tra il letto e il fianco destro del ragazzo in modo che il possibile sangue che sarebbe uscito dalla ferita non sporcasse le lenzuola, dopodiché iniziò a togliere le bende.
Controllò attentamente la ferita toccando leggermente la pelle attorno ad essa, facendo gemere leggermente il ragazzo. Dopodiché il dottore prese un lembo dell’asciugamano, lo bagnò nella bacinella piena d’acqua e tamponò la ferita, prima di rimettere delle bende asciutte prese dalla sua valigetta.
«Allora dottore?» chiese Shinichi quando ebbe finito.
«Sono saltati pochi punti. La ferita non si è riaperta del tutto e posso pure ricucirla io, anche se…» si bloccò pensieroso.
«Anche se?» chiese Ran preoccupata.
«Dovrebbe stare un giorno nel mio ambulatorio e servirebbe qualcuno che stesse con lui quando non ci sono.» rispose rivolgendosi alla ragazza.
«Non c’è problema, se si fida ci posso stare io.»
«Io mi fido signorina, ma si tratta di lunghe ore e di notte!» l’avvisò.
«Farò a turno con delle mie amiche stia tranquillo.» rispose lei con un sorriso.
«Se la sente di alzarsi signor Kudo?» chiese poi il dottore rivolgendosi a Shinichi.
Il ragazzo rispose con un cenno di testa e, con l’aiuto del dottore e di Ran si diresse assieme a loro al piano di sotto e poi all’auto dell’uomo.
Il dottore si mise al volante e, dopo che Ran si sedette vicino a Shinichi, mise la prima, premette l’acceleratore, lasciando leggermente la frizione e partì.
«Dottore, le dispiace se faccio una chiamata?» chiese Ran all’uomo al volante sul sedile anteriore.
«Certo che no, faccia pure.» rispose lui.
A quel permesso la ragazza prese il suo cellulare dalla borsa e cercò nella rubrica un numero, prima che potesse premere il tasto verde Shinichi la bloccò, afferrandole il polso.
«Non chiamare lui. - disse dopo aver letto il nome evidenziato sul display del telefono - Chiama Ai. Meno persone sanno di questo casino, meglio è.» 
La ragazza acconsentì e, dopo essersi fatta dettare il numero di cellulare della ragazzina, premette il tasto verde e avvicinò l’apparecchio telefonico all’orecchio.

 

Il dottore curò Shinichi molto velocemente e la serata passo in fretta, finché non arrivò notte.
«Signorina io chiudo, se arriva la sua amica può aprire con la chiave sulla scrivania!» disse il dottore prendendo la valigetta e uscendo dalla porta.
«Grazie!» rispose lei, prima che l’uomo andasse via, chiudendoli a chiave dentro.
«Come ti senti?» chiese Ran, tornando vicino al lettino dell’ambulatorio e sedendosi su una sedia là accanto. 
«Meglio. Vedrai che domani sarò di nuovo in forma!» rispose lui regalandole un’occhiolino a cui lei sorrise.
I due ragazzi, poi, si misero a parlare del più e del meno, ogni discorso era buono per rimanere svegli: di come Ran era ancora arrabbiata per la decisione di Kogoro, della storia assurda del microchip dentro Shinichi, della vita del ragazzo durante quei due anni a Sendai. Il tempo, tra un discorso e l’altro, passò in fretta e Ran cominciò a sbadigliare, un po’ stanca, quando qualcuno bussò alla porta dell’ambulatorio.
La ragazza si alzò e, dopo aver preso le chiavi sulla scrivania del dottore, andò ad aprire la porta. All’uscio c’era Ai, con quella sua solita aria seria e fredda, Ran pensò che alla fine non aveva quasi mai visto sorridere quella ragazzina.
«Ciao Ai!» disse sorridendo e sperando che lei ricambiasse per una volta, ma niente.
«Ciao, ti do il cambio.» fece semplicemente lei.
«Ok… - poi si avvicinò al capezzale di Shinichi - Buonanotte Shinichi.»
«Buonanotte Ran!» rispose lui con un sorriso.
Si diedero un lieve bacio sulla bocca e poi la ragazza se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.
La ragazzina si avvicinò al lettino e invece di sedersi sulla sedia, si sedette su di esso, guardando negli occhi il ragazzo.
«È fortunata Ran ad avere te.» disse col suo tono distaccato.
«Perché dici questo?» chiese Shinichi stupito.
«Niente…» disse lei scuotendo la testa, poi il suo sguardo tornò a perforare quello azzurro di lui.
«Ai…»
«Vorrei essere al suo posto…»
«Cos… tu?»
«Ti amo Kudo-kun…» a quella confessione il ragazzo rimase zitto e senza parole per qualche minuto e, anche quando cercò di parlare, non uscì molto dalla sua bocca.
«Ai io…»
«Stai tranquillo Kudo. - lo interruppe lei - Nonostante tutto so che Ran ti merita più di me, come so che è lei che ami... Se devo dire la verità ho sempre ammirato quella ragazza è semplice e allo stesso tempo coraggiosa... Ho deciso di rimanere piccola proprio per questo, così non sarei più stata tentata…»
Il silenzio calò per tutta la notte in quell’ambulatorio e la mattina dopo il dottore ritrovò il ragazzo e la bambina dormire beatamente entrambi nello stesso letto.

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Capitolo 11
*** Addio Boss ***


Addio Boss

Due giorni dopo il piano entrò, finalmente, in atto. Era sera e il gruppo, che si era ritrovato poco meno di una settimana prima a villa Kudo, era tutto radunato all’ingresso del Tropical Land, proprio oltre il cancello, davanti a loro solo quelle giostre spente e tristi e il buio della notte.
«Ok ora ci siamo tutti! - disse Shinichi quando l’ultimo componente del gruppo sbucò dal cancello - Ran, Sonoko voi venite con me!» disse rivolgendosi alle due ragazze che erano vestite con due eleganti vestiti da sera neri, Ran portava anche un paio di occhiali e i capelli raccolti in una coda di cavallo.
«Voi, invece, sapete cosa fare!» continuò il ragazzo e, dopo quella frase si divisero, dirigendosi ognuno al proprio posto di battaglia.
Shinichi e le due ragazze si erano diretti all’ingresso del covo dell’organizzazione e l’uomo in verde, che aveva accolto la prima volta Shinichi, era vestito di un rosso scuro.
«Siamo i nuovi elementi dell’organizzazione, dobbiamo incontrare il boss!» disse il ragazzo deciso, cercando di non far trasparire il nervosismo che aveva addosso attraverso la sua voce.
«In fondo al corridoio: oltrepassata la scaletta, la porta bianca.» rispose lui, ingenuamente, con tono scocciato.
I ragazzi seguirono le istruzioni che l’uomo aveva dato loro e attraversarono il lungo corridoio a passo lento. Shinichi si guardava intorno in continuazione, era teso, se avessero incontrato qualcuno che lo conosceva o che l’aveva visto già una volta sarebbe stato tutto vano. Insomma, in realtà avevano un piano di riserva, ma il ragazzo sperava con tutto il cuore di non dover ricorrere a quel piano così complicato.
Fortunatamente per loro arrivarono alla scaletta senza incontrare nessuno, la scesero lentamente e si ritrovarono in una stanza circolare a tre porte. Quella che avevano di fronte era bianca e su una lamierina d’ottone vi era scritto semplicemente Boss, le altre due erano in legno scuro, in una c’era scritto Sala Riunioni, mentre l’altra non aveva nessuna dicitura.
Il ragazzo stava per bussare alla porta quando sentì una voce familiare oltre ad essa.
«Non so più cosa fare!» sentì urlare.
«Controllati Vermouth! Questo incarico è della massima importanza! Voi tre dovete prendere quel microchip a tutti i costi. Non me ne frega niente di lui, se è necessario lo ucciderò io con le mie mani, ma voglio quel chip!»
«Sì Boss!» risposero tre voci in coro, Vermouth, Gin e Vodka.
I ragazzi, che avevano sentito tutto, erano rimasti paralizzati, ma quando sentirono un rumore di tacchi venire verso la porta entrambi si nascosero nella stanza senza targhetta, scoprendo che era uno sgabuzzino. Aspettarono che i passi dei tre si furono allontanati e appena non sentirono più nessun rumore uscirono con passo felpato dallo stanzino, per poi andare a bussare alla porta del Boss.
«Avanti…» disse una voce oltre la porta e, a quell’invito, Shinichi mise la mano sul pomello, ruotandolo e aprendo l’anta.
Entrarono in una stanza con le pareti di un bianco immacolato, su di un lato dell’ufficio vi era un armadio nero pieno di cartelle e, al centro, una scrivania nera, con una poltrona girata, appollaiato alla poltrona c’era un falco. Shinichi rimase paralizzato: non aveva più bisogno che un flash gli mostrasse a chi appartenesse quel volatile, oramai tutti i suoi ricordi erano tornati al loro posto e quello che stava vedendo lo lasciò senza parole.
«Chi è?» chiese una voce maschile da dietro la poltrona.
Il ragazzo non riuscì a rispondere, rimase zitto, paralizzato. Fu Ran a incitarlo a parlare, dandogli una leggera gomitata e, solo a quel tocco, il ragazzo si ricordò perché erano lì e il piano che avevano organizzato, così parlò.
«Siamo Scotch, Martini e Barbera i nuovi arrivati…»
La poltrona si girò e sia Ran che Shinichi rimasero di nuovo sbalorditi da chi stava seduto su quella poltrona.
Accomodato su di essa c’era un ragazzo di vent’anni, come loro, i capelli biondi e gli occhi castani, era vestito rigorosamente di nero e guardava dritto negli occhi Shinichi.
«Ben arrivato Martini... o forse dovrei dire Shinichi Kudo!» nel momento esatto in cui Saguru Hakuba pronunciò il suo nome, Shinichi ebbe un brivido lungo la schiena e ci mise qualche secondo per riuscire a rispondere.
«Mi devi delle spiegazioni Hakuba!»
«Certamente! Immagino sai già del microchip…» disse poggiando i gomiti sulla scrivania nera e congiungendo le dita tra di loro.
«Perché sei il boss?» domandò irritato il giovane detective.
«Lo era mio zio: circa tre anni fa è morto e scoprii tutto. Mi allettava l’idea di essere il capo di una banda di criminali, tutto qui. Oltretutto, mi superi come detective e quindi meglio fare il criminale della banda che ti perseguita no?!»
«A cosa serve il microchip?» continuò Shinichi, sempre più furibondo.
«Questa sì che è una bella domanda Kudo: vedi, dentro quel microchip, ci sono tutti i dati e i codici segreti dell’FBI. Con quel microchip nessuno ci potrà più fermare! Ora, se non vi dispiace…» tirò fuori una pistola e la puntò su Shinichi.
I tre ragazzi si allarmarono, ma quando stava per premere il grilletto cambio direzione e la pallottola sfreccio e destra del ragazzo che ebbe solamente il tempo di girarsi e vedere il piccolo cilindro di metallo colpire il fianco della ragazza vicino a lui.
«Raaaaaaaaaaaaan!» urlò, mentre Sonoko si portava le mani alla bocca, spaventata. 
Il proiettile aveva ferito Ran sul fianco e lei si era accasciata a terra, Shinichi rimase a guardarla soffrire per qualche secondo, poi si infuriò e tirò fuori la pistola che aveva alla cintura.
«Ti credevo una persona per bene Hakuba, ma mi sbagliavo!» sbottò, puntando a sua volta l’arma verso il ragazzo biondo.
«Sei sicuro che riuscirai a sparare?» chiese lui con tono sfacciato.
«Più che sicuro! Hai fatto del male a Ran e non te lo perdonerò mai!»
«E allora fallo! Io invece sono sicuro che non ne avrai il coraggio.» subito dopo quelle parole il vetro della finestra dietro Hakuba si ruppe e una pistola si posò sulla nuca del Boss.
«Se non riuscirà a farlo lui, lo farò io!» intervenne Heiji, che era appena entrato dalla finestra.
«Neanche tu ci riuscirai, Hattori! È una questione di principio: noi detective che catturiamo gli assassini, non possiamo diventarlo. Persino io non riesco ad uccidere una persona per odio o per invidia, però... se si tratta di qualcosa che potrebbe cambiare l’andamento di questa organizzazione…» così dicendo puntò la pistola su Shinichi che, con mani tremanti cercava di tenere ferma l’arma.
Forse aveva ragione lui, forse era vero che non sarebbe mai riuscito a sparargli,poi però, gli balenò in mente un’idea e, molto lentamente, abbassò la pistola.
«Kudo che stai facendo!» lo rimproverò Heiji urlando.
«Vedo che ti sei convinto!» disse invece, tranquillo, Hakuba.
La mano di Shinichi, quella non occupata, si avvicinò alla cintura dei pantaloni e in un attimo sfiorò la fibbia, facendo così uscire un pallone da calcio a cui subito dopo tirò un calcio, facendolo schizzare verso Saguru e prendendolo proprio in pieno, facendolo cadere addosso al povero Heiji.


Intanto, dalla piazza centrale del parco.
«Esattamente signor poliziotto - esclamava Ayumi al telefono - i miei amici Genta e Mitsuiko sono stati rapiti da due tizi vestiti di nero, venga a salvarli la prego, io ho cercato di seguirli... siamo dentro al Tropical Land!» la bambina riattaccò e fece l’occhiolino ad Ai, Genta e Mitsuiko.


Vermouth, Gin e Vodka stavano attraversando uno dei tanti corridoi del covo, quando la donna sentì un tonfo provenire da oltre la scaletta e fermò i due uomini.
«L’avete sentito anche voi?» chiese e, a quella domanda, i due risposero con un cenno di testa. 
Gli uomini in nero si precipitarono verso il corridoio da cui erano venuti, scesero la scaletta velocemente e, arrivati sul luogo, videro un ragazzo col berretto Sax che portava il boss fuori dal suo ufficio e quest’ultimo sembrava tramortito.
«Tu sei l’amico di quel detective ficcanaso!» disse Gin uscendo la pistola.
«Fermo! - disse Vermouth bloccandolo - Non fare cavolate. Sai benissimo chi è il nostro obbiettivo!» la donna stava fissando un ragazzo vestito di nero dagli occhi di un azzurro intenso, poi però il suo sguardo si posò alla sua destra: accanto a lui c’era una ragazza più o meno della stessa età, era a terra e sanguinava.
«È stato il “tuo Boss” se ti può interessare. - fece il ragazzo prendendola in braccio - Smettila Sharon...»
A quel nome, Vermouth, trasalì.
«Tu...»
«…Tu non sei così, non sei perfida come vuoi far credere: anche tu hai dei sentimenti, lo so… E so anche che non li puoi rivelare alla persona che ami perché siete troppo diversi... Ma se non provi non saprai mai se lui prova le stesse cose per te. Delle volte amore e odio sono talmente simili che si possono confondere. Ho sempre pensato che non eri malvagia dalla prima volta che ti ho incontrato a New York e so che non mi sbaglio, perciò smettila con questa recita e va a dire a Shuichi quello che provi per lui, spiegagli che sei pentita per tutto quello che hai fatto...»
Per tutto quel tempo Vermouth era rimasta in silenzio, poi ad un tratto sentì qualcosa percorrerle il viso: una piccola lacrima le scivolò sulla guancia. Non aveva mai pianto in vita sua, mai, eppure quel ragazzo era riuscito a far scendere quella piccola goccia salata dal suo occhio, quel ragazzo che, già due volte, l’aveva colpita al cuore.
Nello stesso istante dagli auricolari di Heiji, Shinichi e Sonoko, provenne la vocina di Ayumi.
«Missione compiuta, abbiamo chiamato la polizia!»
«Bravissima Ayumi!» rispose Shinichi, premendo un pulsantino vicino al suo apparecchio, in modo che la sua voce arrivasse agli auricolari di tutti. - Kaito, Aoko come va?»
«Abbiamo finito ora Shinichi, ma Kaito è ferito!» fece preoccupata, la voce di Aoko.
«Portalo fuori! - rispose lui - E speriamo solo finisca presto…»
«Ora basta parlare piccolo detective... - disse Gin coi suoi occhi di ghiaccio - Per te è finita!» concluse puntando la pistola contro il ragazzo, ma proprio mentre stava per premere il grilletto la mano di Vermouth lo bloccò.
«Non ci provare.»
«Vermouth cosa dici!?»
La donna bionda con un colpo secco storse il polso all’uomo, facendogli cadere la pistola di mano.
«Ti ho detto che non lo fai! Cool guy - disse poi rivolgendosi a Shinichi - esci dalla finestra prima che cambi idea.»
«Grazie Sharon.» rispose lui sorridendo poi uscirono e, arrivati fuori, fu una questione di qualche minuto e arrivarono polizia e ambulanza.

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Capitolo 12
*** Tutto è bene quel che finisce bene ***


Tutto è bene quel che finisce bene

Quella stessa sera all’ospedale Shinichi, mentre Ran era ancora svenuta, si prese una strigliata da Kogoro ma, ciò che l’uomo disse alla fine della sua furiosa ramanzina, lo stupì.
«… Comunque grazie, sono sicuro che se non fosse stato per te lei non sarebbe più qui. Spero solo che ora sia davvero finita.»
«È finita!» rispose lui guardando la ragazza adagiata sul letto.
«So che sei un bravo ragazzo… È solo che…»
«Ah Kogoro, smettila di recitare la parte del padre comprensivo. - lo rimproverò lui - Ormai sai benissimo che ti conosco: ricordati che in un anno solo mi hai riempito di pugni e insulti.» fece il ragazzo, ridendo.
«Quello non era voluto, allora pensavo fossi solo un moccioso insopportabile.» disse l’uomo ed entrambi scoppiarono a ridere , concludendo così la discussione.


Passarono due settimane da quella notte, Kaito e Ran si erano già ripresi e ben presto poterono tornare a casa. Quel giorno Shinichi era davanti allo specchio e si stava abbottonando la camicia bianca quando squillò il cellulare che era poggiato sul mobile vicino al lavandino. Lo prese, leggendo il nome e, dopo aver sorriso, rispose.
«Ehi, Heiji come va?»
«Tutto a posto. Senti, io e Kaito stiamo andando mangiare una pizza, per festeggiare il mio trasferimento a Tokyo, che ne dici vieni con noi?»
«Mi spiace, ma per questa sera dovrete festeggiare senza di me, ho delle cose importanti da fare.»
«Oh, il grande eroe si è deciso a fare il grande passo?» chiese la voce di Kaito, che a quando pare aveva sentito la conversazione, con tono ironico.
«Fatti i fatti tuoi!» rispose lui, diventando lievemente rosso, fortunatamente il ragazzo non poteva vederlo.


Sonoko aveva appena finito di truccare la sua migliore amica e la guardò per qualche secondo.
«Allora?» chiese la mora.
«Sei perfetta! Ora non ti resta che indossare il vestito e quel tonno cadrà ai tuoi piedi come un salame.»
«Sonoko, smettila!» la rimproverò Ran diventando rossa.
«Sei un'incanto! - disse, poco dopo, ammirando l’amica pronta e vestita, dopodiché buttò un occhiata al suo orologio da polso - Beh io devo andare, ricordati di raccontarmi tutto nei dettagli domani e non lasciarlo andare finché non ti dà almeno un bacio.»
«Sonoko, vattene!» sbuffò lei, con tono di rimprovero.
«Ok ok, salutami il tuo maritino.»
«Sonoko!» sbottò di nuovo Ran, per poi guardarla uscire dall’agenzia con il suo solito sorrisino divertito.


«Vai all’appuntamento con Ran?» chiese la bambina prendendolo alla sprovvista.
«Ai, mi hai fatto prendere un colpo!» esclamò, facendole alzare il sopracciglio.
«Siamo vicini, non puoi pretendere che non ci vediamo mai.»
«E chi ha mai detto che non ti voglio vedere.»
«Non lo so… Forse avere un terzo incomodo…»
«Ai tu non sarai mai un terzo incomodo: sei la migliore amica che io abbia mai avuto, lo sei sempre stata e lo sarai sempre e sono sicuro che prima o poi troverai il ragazzo che fa per te.»
«Dici?» chiese lei dubbiosa, a quella domanda però il ragazzo non poté dare subito una risposta, perché tre bambini iniziarono a chiamarli divertiti.
Shinichi sorrise, guardando quei tre ragazzini che l’avevano accompagnato per un anno intero nelle sue avventure.
«Sai Ai, - disse poi - credo che Mitsuhiko sia completamente cotto di te.»
«E pensi che non me ne sia accorta?» sorrise lei, leggermente divertita.
«C’ero io vero? È per questo che hai cercato di evitare qualsiasi situazione scomoda. - dedusse il ragazzo, usando la sua migliore abilità - Ma ora che io ho vent’anni e tu sei rimasta una tredicenne potresti provare a dargli una chance.»
«Sì potrei… - disse lei - Ora vai all’appuntamento, se no arriverai in ritardo!»


La vetrata di fianco a loro mostrava tutto il quartiere di Beika sfavillante delle sue luci.
«Allora, perché mi hai invitato qui?» chiese la ragazza bevendo un sorso del suo aperitivo.
«Ah mi spiace Ran… Dovrai aspettare la fine della cena per saperlo.» fece divertito lui, nascondendo poi il volto col suo bicchiere.
Non ci misero molto a cenare e, quando la cameriera portò due flut di champagne per concludere, il moro ringraziò e si rivolse poi alla ragazza.
«Ti ricordi questo posto vero?» chiese.
«Sì è il ristorante dove…» poi Ran si bloccò. 
Si ricordava bene quel posto, e ricordava pure cosa aveva detto la cameriera quando Shinichi se n’era andato. Non era possibile, non stava succedendo davvero, improvvisamente il cuore iniziò a martellarle in petto.
Il ragazzo tirò fuori dalla tasca un cofanetto di velluto blu, aprendolo davanti ai suoi occhi e mostrandole un bellissimo anello con una piccola pietra azzurra all’estremità che la lasciò di stucco, anche se non fu tanto sconvolgente quanto la frase che seguì quel gesto.
«Ran, vuoi sposarmi?»
«Shinichi… - era rimasta stupita, avrebbe voluto urlare sì in modo che la sentisse tutto il ristorante, ma per l’emozione le parole le si mozzavano in gola, riuscì solo ad accennare un - ...certo che lo voglio…»
Dopodiché Shinichi prese la mano della ragazza e le infilò l’anello all’anulare. Dopo quel gesto, entrambi, un po’ imbarazzati, fecero l’ultimo brindisi della serata, con i due bicchieri di champagne.

FINE

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