Ragione e legami di Sotalia (/viewuser.php?uid=40064)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Responsabilità ***
Capitolo 2: *** Fuga ***
Capitolo 3: *** Un esercito decimato e una lettera ***
Capitolo 4: *** Il professore e il fan dei Led Zeppelin ***
Capitolo 5: *** Il racconto del vecchio professore ***
Capitolo 6: *** La collezione è completa ***
Capitolo 7: *** Cose che si ricordano ***
Capitolo 8: *** Silenzio tutti ***
Capitolo 9: *** Morti viventi ***
Capitolo 10: *** Riscatto d'amore ***
Capitolo 11: *** La stazione ***
Capitolo 12: *** Quello che avrebbe dovuto essere e quello che sarà ***
Capitolo 13: *** Sbronzo ***
Capitolo 14: *** Punto di rottura ***
Capitolo 15: *** Emily e Susy ***
Capitolo 1 *** Responsabilità ***
1
1° capitolo
RESPONSABILITA’
“Non so come non abbia potuto rendermene conto...” si passa una mano fra i
capelli sporchi. “Eppure ora che ci penso era così ovvio”
“Non è colpa tua”
“Non dire idiozie, ti prego. Forse non sono stato io a far iniziare questa cosa,
ma l’ho favorita!” La sua voce è quasi un ringhio, un basso rintocco di campana
che vibra prolungatamente. L’altra voce, invece, si assottiglia ancora di più.
E’ acuta e rischia di andare in frantumi. E’ come un vetro che tintinna dopo una
schicchera, e si tiene il fiato sospeso in attesa che vada in mille pezzi. “E
allora siamo in due a essere colpevoli”. Di nuovo il ringhio. Stavolta però è
inumidito da una lacrima. L’altra voce non è sorpresa, ha sentito quel suono
strozzato fin troppe volte: “Dobbiamo dividere la responsabilità di quello che
abbiamo fatto, o che non abbiamo fatto, e di quello che dobbiamo fare”
DAL DIARIO DI
HERMIONE GRANGER
1° settembre
Il primo giorno di scuola! L’ennesimo ormai. Di nuovo alla stazione, i saluti,
il treno, gli studenti che duellano per i corridoi, i prefetti secchioni che li
rincorrono sputacchiando incantesimi, gli insegnanti rintanati nel loro
personale vagone, senza osare affacciarsi, neanche fossero sotto assedio.
Ho imparato a conoscere questo ambiente ormai. E’ il mio.
Ecco la scuola, imponente e un po’ inquietante per i primini, rassicurante per
quelli del secondo anno, ironica con quelli fino al quinto, ostica per quelli
del sesto, fraterna e complice con coloro che stanno per abbandonarla.
E per me? Cosa è per me? Non so dirlo. Vivo fra due realtà che dopo tutto questo
tempo ancora non so unire. Le mie sono due identità che rimarranno per sempre
distinte, che ignorano l’altra quasi con dispetto. Strega figlia di dentisti...
non suona granchè bene. Sembra un giochino di intelligenza. Quale parola non
c’entra niente con le altre? C’è più di una risposta esatta: strega, figlia e
dentisti.
Ma adesso sono qui. Cena sontuosa, come al solito. E’ tutto come è sempre stato.
Eppure mi sembra, in un certo senso, di essere entrata per la prima volta qui
dentro. Un po’ come quando si va in un posto che, per qualche ignota analogia,
ti sembra di aver già visitato.
Immagino che sia il cambio di prospettiva. Questo incredibile cambio di punto di
vista. Eppure sapevo che sarebbe andata così.
In questo momento, sono a letto. Sola in questa stanza. Grattastinchi è
accucciato sul copriletto. Non c’è stato verso di convincerlo ad accontentarsi
del tappeto, e io adesso mi devo adattare a sentirlo contro i piedi. Spero solo
che non sia troppo sporco. Ma alla fine, chi se ne frega? Non voglio più essere
una ragazzina troppo paurosa per affrontare la vita senza il filtro dei libri.
Adesso mi è richiesto uno sforzo di responsabilità, e io sento di essere pronta
per questo nuovo compito. Solo, che non sono sicura che sia questo ciò che
desidero realmente. E’ davvero a questo che mi sono preparata in questo tempo?
Fare scelte è una responsabilità che mi è venuta addosso all’improvviso,
crescendo. Però l’ho capito lentamente. Cosa scegliere quindi? In base a cosa
una delle mie identità dovrebbe prevalere sull’altra? In base a cosa scegliere
la magia, e questa scuola, invece dei miei genitori?
....
“Mi dica dunque, dove si trova Harry Potter in questo momento?”
“Che razza di domanda è? Che cosa vuol dire?”
“Signor Weasley, il significato mi sembra chiaro: dove si trova in questo
momento Harry Potter?”
“Non ho intenzione di rispondere. Chiedetemi altre cose, ma queste sono cose
private”
“Signor Weasley, la comunità magica ha bisogno di sapere, capisce? Harry Potter
è una personalità di spicco, ormai. Ha delle responsabilità nei confronti del
mondo magico, capisce? E’ un’icona, un simbolo da cui ogni singolo mago attinge
speranza quando è in difficoltà! Riveste dei doveri morali fondamentali”
“Harry non è solo una figurina che potete sballonzolarvi come vi pare! E se ha
delle responsabilità è soprattutto verso sè stesso!”
“Quindi lei ritiene che la fiducia dei maghi sia mal riposta in lui? Che Potter
non sia abbastanza forte per sopportare questo peso?”
“Certo che no, accidenti! Non voglio dire questo. E’ solo che non è giusto che
qualsiasi vigliacco spompato che sappia tenere in mano un’accidenti di bacchetta
non sappia far altro che appiccicarsi a lui! Harry ha una vita sua, cavolo!
Anche lui ha i suoi problemi, non può stare appresso a quelli di tutti gli altri
idioti!”
“Lei definisce la comunità magica idiota e vigliacca? E.. ehm.. può specificare
quali siano i problemi che trattengono Harry Potter dall’intrattenere una
normale vita pubblica?”
“Accidenti, questi sono affari suoi! Non riguardano nessun altro all’infuori di
lui! Lui è responsabile di sè stesso, e tutti dovrebbero imparare a esserlo!”
“E le sue responsabilità signor Weasley? Quali sono le sue, di responsabilità?”
Ronald
Weasley deglutì.
....
“Non te la prendere Ron, è inutile. Non possiamo farci niente”. Hermione cercava
di rassicurarlo.
Da quando era lei
quella forte?
Gli scostò i capelli dalla fronte. “Dovresti darti una lavata Ron. E rifarti la
barba. E’ inutile lasciarsi andare così. Certo in questo modo non lo aiuti”
Da quando era a lei
che toccava essere la forza di qualcun altro?
Ron si rannicchiò. Sembrava un bambino. Si sentiva un bambino. Un bambino molto,
molto arrabbiato, ma impotente.
DALLA GAZZETTA DEL
PROFETA
10 novembre
Harry Potter ha fatto perdere le sue tracce. Nessuna notizia di lui da 26 giorni
a questa parte. In seguito alla sua assenza alla convocazione del 15 ottobre di
quest’anno di fronte al Wizengamot, il corpo degli Auror si è messo in moto alla
sua ricerca. Si era temuto infatti che le recenti minacce da parte di ignoti nei
suoi confronti fossero state messe in atto, nonostante la rigida protezione
magica cui il mago era sottoposto. Tuttavia, indagini presso i suoi più stretti
conoscenti, lasciano intendere che ci sia qualcosa di losco in questa faccenda.
Riporto qui di seguito le conversazioni avute con alcuni esponenti della sua
cerchia di conoscenze intime: Ronald Weasley, Xenophilius Lovegood e figlia -i
quali sono notoriamente i gestori della assai discussa rivista “Il
Cavillo”-, Dolores Umbridge, il mezzogigante Rubeus Hagrid, noto per il suo
controverso rapporto con Albus Silente, e ancora altri volenterosi che
preferiscono rimanere ignoti. Posso cominciare con il giovane Ronald Weasley. Il
giovane appartiene a un’antica famiglia, che purtroppo si è guadagnata una certa
nomea in seguito a delle inquietanti testimonianze di contatti babbani. Il
ragazzo ha dimostrato una certa agitazione, durante il nostro colloquio e...
Prosegue a pagina 3
a cura di Rita
Skeeter
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Capitolo 2 *** Fuga ***
2
2° CAPITOLO
FUGA
Harry si appoggiò alla
parete umida e livida della grotta esalando un sospiro di sollievo. Si sfilò la
scarpa destra e con due dita tirò via dal piede il calzino intriso di sudore e
terra. Aveva due vesciche enormi e perfettamente tondeggianti sulla pianta del
piede. Una gli era appena scoppiata.
Harry era cosciente di
puzzare. D’altronde, cosa poteva pretendere, considerato che non aveva occasione
di lavarsi da giorni? “Gratta e netta...” borbottò puntando la bacchetta contro
di sè. Sentì la pelle bruciare come se gli fosse appena stata scartavetrata. Si
toccò il volto e se lo sentì rasposo sotto le dita. Quello, in effetti, non era
propriamente un incantesimo adatto a un essere umano. Tuttavia, i vestiti erano
tornati puliti, anche se l’odore era rimasto. Si trattava di un vago sentore di
foglie marce mescolato ad un alone acidulo di sudore.
Girovagava per i boschi da
giorni. Si materializzava in posti scelti a casaccio, stupendosi ogni volta
della buona riuscita dell’operazione. Concentrazione... piroetta... il fiato
sospeso per qualche secondo... sta per scoppiare si sta per spaccare oh no no
non posso spaccarmi... la pressione... l’aria. Era sempre con un senso di
vertigine che ritornava all’aperto: i polmoni potevano respirare, le membra
muoversi. Era un po’ come quando cambiando le marce di una bicicletta da una
troppo dura si passa a una troppo morbida, i piedi pedalano a vuoto e il mezzo
ondeggia paurosamente mentre si prova un improvviso senso di vuoto sotto di sè.
Poi ecco di nuovo la stabilità.
I mangiamorte. Lo avrebbero
trovato anche quella volta? Lo inseguivano riuscendo a rintracciarlo nei posti
più impensabili. Ancora non aveva capito come ciò potesse essere possibile.
Era cominciato tutto mentre
si dirigeva alla riunione del Wizengamot... quanto tempo prima? Avrebbe dovuto
parlare di fronte al Consiglio magico a proposito... di cosa? Non riesco a
ricordarlo.. non riesco.. non riesco.. non ricordarlo.. non riesco a
ricordarlo.. Non lo ricordava.
Colpa della stanchezza, se
era così confuso. Il problema era che se non riusciva a pensare per i
mangiamorte sarebbe stato molto più facile prenderlo. Doveva concentrarsi e
tenere la mente il più possibile presente..
Si era fermato a comprare
una brioche in un bar babbano: era ancora presto e il Ministero si trovava di lì
a due passi. Nel locale aveva notato due tizi che entravano mentre lui aspettava
il caffè.
“Ecco il suo caffè lungo
signore”. E allora avevano attaccato.
Un ragazzo aveva gridato
mentre la fidanzata veniva colpita da uno Stupeficium diretto a Harry.
Josephine. Si chiamava Josephine.
Mentre Harry si lanciava
dietro il bancone e urlava un Expelliarmus disperato, le sue orecchie erano
piene di quel nome pronunciato con tanta angoscia. “Stupeficium!” gridò di nuovo
il mangiamorte più alto. Era un uomo allampanato con un naso talmente lungo che
risultava pendulo. Non vogliono uccidermi.. pensò Harry lucidamente.
Non se cercano di colpirmi con uno Stupeficium...
In quel mentre il ragazzo,
di fronte ai primi segni di ripresa della fidanzata, si era avventato addosso al
mangiamorte più basso, tempestandolo di pugni. Era piuttosto ben messo, e
nonostante fosse privo dell’aiuto della magia riuscì a stordire l’aggressore
prima che potesse reagire. Mentre il mangiamorte si tamponava il naso
sanguinante con una manica e sbatteva gli occhietti persi nella fronte troppo
ampia, l’altro, quello alto, lanciò freddamente un incantesimo sul giovane.
L’ultima cosa che il
ragazzo vide fu il sorriso della fidanzata stranamente illuminato da una luce
verde. Aveva voluto fare l’eroe. Aveva voluto proteggere la sua principessa dai
due orchi che se la volevano mangiare. La principessa era in salvo adesso sì, ma
non aveva più il suo cavaliere e si struggeva di lacrime.
Harry, paonazzo di rabbia,
si scaraventò oltre il bancone rinunciando alla sua protezione di legno lucido e
plastica trasparente e aveva gridato “Avada kedavra!”. Lo spilungone stava per
accasciarsi, sì, sarebbe morto.. lui aveva fatto piangere la povera Josephine.
Come..? No! NO! Come era potuto accadere? Il mangiamorte non era stato colpito..
un uomo che cercava di svignarsela era morto sul marciapiede, appena fuori della
porta, al posto dell’assassino dal naso pendulo. Il silenzio si fece scioccante,
per Harry. Intorno a lui babbani costernati lo fissavano allibiti. Con la coda
dell’occhio Harry vide un bambino, un bambino minuscolo, biondo, che si
stringeva al seno della madre. “Stupeficium!”. Harry lo schivò e si gettò fuori,
per la strada. Tutto si era svolto molto rapidamente e solo allora qualche
passante tentava incerto di capire cosa stesse accadendo.
I mangiamorte lo
inseguirono rapidamente, ma Harry si era già infilato in un vicolo. I suoi due
inseguitori erano impediti dalla piccola folla che si era raccolta fuori del
bar.
Harry attese, col cuore in
gola. Rumori concitati provenivano dal punto della strada in cui si apriva il
locale, ma nessuno sembrava correre verso di lui. In quel momento gli sovvenne
un ottenebrante senso di inquietudine in cui si fece strada un’immagine: gli
occhi addolorati di Josephine. Lei lo aveva guardato mentre scappava. E anche
lui aveva guardato lei. Gli occhi della ragazza erano pieni odio.
Si sentì uno scalpiccio e,
d’istinto, Harry girò su se stesso e sparì. Trascorse qualche istante in cui
terrorizzato aspettava di ritrovarsi senza qualche parte del proprio corpo.
Invece era tutto intero. Era alla Tana. Il posto più stupido per nascondersi,
certo. Ma era accaduto tutto talmente in fretta che senza volerlo si era diretto
nel posto in cui aveva passato le ultime settimane.
Casa.. casa? Un
gratificante senso di familiarità quasi lo commosse. I soliti colori caldi, lo
strano orologio che teneva sotto controllo tutti i membri della famiglia Weasley.
Fuori della finestra vide uno gnomo strangolare una gallina. Sorrise.
L’atmosfera accogliente che pervadeva la casa era corroborante.
Però aveva scoperto di
essere in pericolo. Se rimaneva lì avrebbe trascinato tutti nella rovina.. Un
pressante senso di urgenza gli fece battere il sangue nelle orecchie. Tremava,
si accorse.
Si passò una mano sugli
occhi. Non era lucido, non riusciva a pensare.
Corse nella camera che
condivideva con Ron. Si guardò intorno solo un momento necessario ad accorgersi
che dalle pareti erano spariti i poster dai colori psichedelici dell’amico.
Non ci fece granchè caso e
cominciò ad afferrare qualche vestito e degli oggetti che ritenne importanti,
per poi gettarli alla rinfusa in uno zaino. Mentre frugava tra la roba sparsa
sul suo comodino, si tagliò un dito. Si succhiò il sangue che si gonfiava in una
goccia sul polpastrello, e intanto controllò cosa fosse il colpevole. Un pezzo
di vetro. Doveva essere un pezzo di specchio, perchè lo rifletteva. Lo prese e
lo buttò con noncuranza nel cestino. Ignorò una dolorosa fitta nostalgica che lo
prese al petto. Ne ignorava l’origine e non aveva senso, soprattutto in quel
momento.
“Harry, che stai facendo?”
gli chiese una voce rapida ma leggermente incrinata alle sue spalle. Una voce di
donna. Gli era familiare. Si voltò di scatto. Una forma sfocata davanti ai suoi
occhi, che poi si ricompose nella ben nota figura adolescente di Hermione. Che
sciocco era stato a non riconoscerla immediatamente!
“Herm, scusa, devo
andarmene”. Si stava sforzando di mantenere una voce ferma e autoritaria. Anche
se lei non avesse voluto dargli retta, lui avrebbe agito di testa sua. Come al
solito dunque.
“Andare dove, così
all’improvviso?” “Non ne ho la più pallida idea, basta che sia lontano da qui!”.
Hermione era sbalordita. Eppure avrebbe dovuto capirlo, conosceva la sua
perpetua situazione di braccato. Harry notò che, sopracciglia aggrottate e
cipiglio deciso, Hermione stava per aggiungere qualcosa. “No, Herm! Per favore,
non ricominciare con questa storia di venire con me! Tu e Ron neanche avreste
dovuto saperlo! Questa volta questa cosa la devo affrontare da solo, capisci?”
Si voltò e ricominciò a prepararsi. Chiuse le cinghie dello zaino e si girò
verso Hermione. La ragazza era molto spaventata. Non si era mossa di un passo da
dove si trovava prima, e lo fissava con occhi enormi.
“Ma, Harry, quale cosa?”
“Mi stai prendendo in giro,
Herm? Secondo te? Ti dice qualcosa il nome Voldemort?”
La ragazza aprì appena la
bocca, poi barcollò verso il letto e si sedette. Prese la mano di Harry e con
voce spezzata gli chiese guardandolo negli occhi: “Harry, di che stai parlando?”
Per un istante i due si
fissarono, poi Harry si divincolò. La guardò ancora una volta e girò su sè
stesso, sparendo.
Hermione si prese la testa
fra le mani, poi si precipitò fuori della stanza gridando: “RON!”
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Capitolo 3 *** Un esercito decimato e una lettera ***
CAPITOLO 3
CAPITOLO 3
UN ESERCITO DECIMATO
E UNA LETTERA
“Ron, non aspettiamo che te.”
Il ragazzo si girò di spalle. “Adesso arrivo”.
Hermione lo vide stringere i pugni. Richiuse la porta.
Ron aprì lentamente la mano e rimase a fissare il Deluminatore chiuso in essa.
Era l’unico legame con Harry rimastogli.
Guardò fuori della finestra e vide una piazzetta squallida e vuota.
Accanto a lui un quadro parlò. “Sta zitto Phineas” gli rispose brutalmente.
Ron si alzò in piedi e gettò malamente il piccolo pseudo-accendino dentro il
borsone con la sua roba.
Scese le scale e prima di entrare nella stanza dove i compagni erano riuniti
incrociò Krecher.
I due si guardarono. Ron lo superò.
Lo accolse il silenzio. Intorno a lui un gruppo sparuto di persone si era
raccolto intorno a un tavolo.
“Datti una mossa, piccolo roscio idiota. Ti abbiamo aspettato secoli”
“Sta zitto George”
George era invecchiato. I capelli lasciati crescere per coprire il foro in
corrispondenza dell’orecchio andato perduto gli davano un’aria squallida.
Ron trascinò una sedia di plastica fino alla tavola, e vi si sedette con
malagrazia. Era una di quelle larghe sedie di plastica bianca, da giardino. Non
le aveva mai sopportate.
Con un paio di occhiate intorno si rese conto di chi aveva risposto all’appello
di Hermione.
L’esercito di Silente era tutto lì?
Ginny, ovviamente. Così pallida e nervosa. Poi George, Percy, che aveva voluto
raggiungerli a tutti i costi. Neville, Luna. Dean, con quella sua aria smarrita
e i suoi nuovi occhialetti da capufficio. I soliti sfigati insomma. Ron sbuffò.
Cosa volevano lì? Che c’entravano loro?
Hermione era dispiaciuta. Aveva usato quel vecchio trucchetto delle monete ed
ecco tutto quello che era rimasto di quel gruppo così energico e unito. Un
gruppetto di persone imbarazzate e una cartolina di Cho Chang. Saluti dalla
Costa Azzurra.
Se ne stava lì, tutta immusonita con le mani in grembo.
Neville tossicchiò con un fare da vecchio professore che in quegli ultimi tempi
aveva imparato a fare suo.
“Ron, Hermione, perdonatemi ma non ho ancora ben chiare le dinamiche di quanto è
accaduto e quindi se per...” “Oh, non parlare come se dovessi fare bella figura
con qualcuno” sbottò Ron stupidamente.
Hermione lo guardò di sbieco, poi osò prendere in mano la situazione.
“Scusatemi se vi ho fatto venire qui così in fretta. Ecco... un’idea di quello
che è successo dovreste avercela no?”. La giovane donna guardò implorante
intorno a sè.
“Harry è scomparso” chiarì George con tono secco.
“Allora è proprio scomparso eh? Credevo che i giornali se lo fossero inventato.
Forse è andato in Alaska a fare ricerche sui mandrilli nevosi. Mi sembra che..”
“Oh, Luna, ti prego, sta zitta!”. “Ron!” lo richiamò Hermione. Perchè si
comportava a qual modo?
“Il fatto è che.. vedete, già prima che se ne andasse era parecchio nervoso”
continuò Hermione “Per giorni si è comportato in modo strano. Poi, quella
riunione col Wizengamot.. Non so cosa è successo, ma quella stessa mattina è
tornato alla Tana di corsa, ha preso uno zaino e se n’è andato. E non l’abbiamo
più visto! E prima di Smaterializzarsi si è messo a dire di Voldemort, di
qualcosa che doveva fare, accidenti mi è sembrato di essere tornata indietro nel
tempo!”
I presenti erano come gelati. Che voleva dire Voldemort?
“Che intendi esattamente affermando che era parecchio nervoso?” domandò
lentamente Neville. L’amica si stava facendo prendere dall’emozione.
Hermione prese un profondo respiro e si spiegò.
“Ti ricordi Neville, quando ti ho chiesto quel permesso di qualche giorno? Harry
mi aveva mandato una lettera in cui diceva...” Ron aveva rizzato la testa,
improvvisamente vigile.
“Ehi, di questa cosa non ne sapevo niente, io!”
Hermione era mortificata. “E’ perchè quando sono arrivata qui la situazione è un
po’ migliorata, non pensavo che servisse allarmarti”
“E perchè cazzo ha chiamato te se viviamo insieme? C’ero io con lui!”
“I-io non lo so.. mi dispia-ace..”
“Ron, per favore..” lo riprese Neville. L’uomo si calmò. Lo sconforto disarmante
dei giorni precedenti aveva lasciato il posto alla rabbia.
“Cosa c’era scritto nella lettera?”
“Cara Hermione,
mi dispiace
interromperti mentre lavori lì a scuola.
A proposito, come
vanno le lezioni?
Quel primino
grifondoro ha finito di scaccolarsi e attaccare caccole sotto il banco?
E ancora gli piace
lanciare gomme da masticare usate con la cerbottana?
Spero che dopo
l’ultima volta i tuoi capelli non si siano rovinati, ma penso che dopo la
punizione che gli hai affibbiato si sia ravveduto.
Certo che gli
Schiopodi Sparacoda new generation glieli potevi risparmiare,
povero ragazzo...
In ogni caso ti
scrivo per un motivo ben preciso.
Volevo evitare che in
futuro tu ti arrabbiassi con me.
Anche se alla Tana va
tutto bene sento che c’è qualcosa che non va.
Per prima cosa, non
riesco a capire la prolungata assenza di Molly e Arthur.
E Fred ancora non è
tornato dal suo viaggio in Egitto.
E non è finita,
purtroppo.
Temo che la casa sia
sorvegliata.
Troppo spesso noto
gente sospetta qui intorno,
e la cicatrice ha
tornato a farmi male.
Credo che Voldemort
riesca ormai a chiudermi definitivamente fuori della sua testa.
Non ho visioni da
tempo.
Una volta ero io ad
aver paura di lui,
ora è lui ad avere
paura di me.
In ogni caso, ti
scrivo soprattutto per salutarti.
Non credo che ci
rivedremo presto.
Credo di sapere cosa
devo fare adesso.
E un’ultima cosa: Ron
è molto nervoso ultimamente.
Ieri notte nel sonno
diceva il tuo nome.
Smettetela con questi
giochini infantili.
Mettetevi insieme,
punto.
Saluti con tanto
affetto.”
Ron fu l’ultimo a riprendersi.
“Hermione..” la chiamò con un filo di voce.
“Ma quali giochini... noi siamo sposati.”
“E’ Molly ad essere partita per l’Egitto”
George sollevò la testa. Gli occhi avevano uno sguardo così debole. “Papà è
morto l’anno scorso, e Fred...”
“E Voldemort è morto”
“Mi dispiace, non posso lasciare il lavoro. Vi aiuterò come posso, ma non posso
allontanarmi per così tanto tempo”. Dean si era tirato indietro. Si ficcò un
cappello in testa e uscì dalla stanza con gli sguardi di tutti appuntati sulle
spalle.
“Io ho molto tempo libero. Posso venirci con voi, in Alaska. Del Cavillo se ne
occuperanno mio figlio e Michael”
“Grazie Luna, davvero. E potrai anche scrivere un articolo sui mandrilli nevosi,
pensa”
“Hermione, Ron. Mi spiace ma mi posso allontanare dalla scuola solo per brevi
periodi, lo sapete. Ultimamente ho un sacco da fare e sto ricevendo pressioni e...
insomma, cose da preside. Tuttavia, se vi servisse urgentemente il mio aiuto non
esitate a chiamarmi. E non ti preoccupare Hermione. Troverò qualcuno con cui
sostituirti per qualche tempo. Appena potrai tornare, ti riprenderai la
cattedra”
“Grazie sul serio Neville. Sei un amico”
Lunatica Lovegood, direttrice della più eccentrica rivista magica, moglie del
Ministro della magia e madre, si allontanò nella notte calante. Neville Paciock,
energico preside un po’ melanconico, amante dei balli da sala, la seguì. Si
smaterializzarono.
Hermione chiuse la porta.
George passò un braccio intorno alle spalle di Ginny e la condusse su per la
scala della casa che una volta era stata di un uomo chiamato Sirius.
In quel momento si precipitò fuori da una stanza un bimbetto di otto anni circa.
Il più giovane.
“Mamma, mamma, adesso ci vieni a giocare con me?”
“No, Sirius. Mi dispiace, facciamo domani d’accordo?”
Il bambino si trascinò di nuovo nella sua camera. Prima che chiudesse la porta
con forza si udì un borbottio: “Uffa, non vedo l’ora che tornano Albus, Lily e
Jimmy. Loro sì che sanno come si gioca, cavoli!”
“COME ACCIDENTI HAI POTUTO NASCONDERMI TUTTO QUESTO?”
Il grido di Ron penetrò dritto nel cuore di Hermione.
“Harry è andato fuori di testa e tu che fai? Assecondiamolo, tanto che potrà
succedere? Non avevo la più pallida idea che fosse arrivato a questo punto! NO
RON, E’ SOLO UN PO’ DEPRESSO! SE SE N’E’ ANDATO E’ PERCHE’ AVEVA DEI PROBLEMI
TUTTI SUOI! SAI COME E’ FATTO... NON DICE MAI NULLA A NESSUNO! Ah.. e poi ero io
quello che si sentiva in colpa...”
Hermione pianse. Erano anni che non le succedeva. Era come se stesse piangendo
per la prima volta.
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Capitolo 4 *** Il professore e il fan dei Led Zeppelin ***
CAPITOLO 4
CAPITOLO 4
IL PROFESSORE E IL
FAN DEI LED ZEPPELIN
“Prendo questa”. Il ragazzo
tese il maglione alla commessa che, con la sua cicca penzolante dalle labbra
rugose e lo sguardo annoiato, battè il prezzo. “7 e 90, prego”.
Il giovane frugò nella sua
borsa e tirò fuori delle monete d’oro. La signora sgranò gli occhi.
“Mi dispiace, ma non ho
sterline. Questi vanno bene lo stesso?”
Le porse quattro di quelle
strane monete e lei si affrettò ad annuire, arraffandole in fretta.
Quando il ragazzo fu uscito
dal negozio, con il suo stravagante passo saltellante, la donna tirò fuori dal
calzino grigiastro 8 sterline, e le mise nella cassa. Al loro posto piazzò le
luccicanti monete d’oro, sentendo con piacere il loro contatto freddo e
metallico contro la pelle molle del piede vecchio.
Il ragazzo era proprio
contento del suo acquisto. Non gli piacevano quei vestiti che aveva addosso.
Erano così cupi e seriosi.
Entrò in un bar e chiese
dov’era il bagno. “Se vuoi pisciare qui dentro, devi comprare qualcosa” gli
rispose un barista distratto. Il giovane si guardò intorno, e poi prese un
pacchetto di chewing-gum. Dopo aver pagato con un paio di sterline trovate
accanto a un tombino, si vide far scivolare incontro sulla superficie liscia del
banco il resto, insieme a un paio di chiavi infilate in un anellino arrugginito.
Il barista distratto indicò con il pollice una rampa di scale che scendeva
dietro un pannello di cartone. Intanto serviva ad un ometto nervoso un caffè
dall’aria molto acquosa.
Il ragazzo saltellò verso
le scale e si chiuse dentro il bagno. Si guardò un attimo allo specchio e per
qualche strano motivo sentì una morsa allo stomaco.
Si chinò e tirò fuori dal
bustone di plastica un paio di jeans stinti e giallognoli. Se li infilò sulle
gambe secche e, dopo essersi sfilato la camicia, indossò il maglione nuovo.
Finalmente si sentiva a suo agio.
Non appena quel buffo
ragazzo fu scomparso dietro il pannello, l’ometto nervoso si voltò di scatto. Il
cuore batteva forte. Sentì un bruciore alla mano: il caffè bollente gli si era
versato sulla pelle. Accidenti a lui, al ragazzo e alla sua pelle sensibile.
“Tutto ok, professore?”. Il
barista, con il suo tono strascicato, insistette, di fronte allo sguardo perso
dell’uomo.
“Lo sai, professore? Sei
parecchio dimagrito”
“Lo so, e tu dovresti farti
gli affaracci tuoi una buona volta”
“Eh... che acido
professore. Che è successo? Lo sai, professore?” continuò. “Da undici anni una
volta al mese vieni a trovarci in questa bella topaia, il secondo giovedì del
mese. Sono bravo a ricordarmi tutto, vero, professore? Abbiamo sempre
chiacchierato tanto. Certe chiacchierate eh, professore? Eppure ancora non ho
capito che accidentaccio insegni”
“Insegno a distillare
pozioni magiche ai giovani maghi inglesi”
Il barista scoppiò a
ridere. “Sempre con questa storia, accidenti a te professore! Mai una volta che
sei serio”
Il barista, che con la sua
pelle tirata dimostrava parecchi anni di meno di quelli che si vedevano negli
occhi infossati sopra le occhiaie, tese una mano e prese un muffin dalla
vetrinetta dei dolci. Lo schiaffò accanto alla tazzina di caffè annacquato.
“Tieni un po’ qua. Offre la
casa dei topi, Horace”
Il ragazzo ficcò i vestiti
nella busta e si diede un’ultima occhiata allo specchio. Prese una piccola gomma
dalla scatolina appena comprata e cominciò a masticarla con grandi schiocchi
mascellari. Si passò una mano tra i capelli e sentì che erano cresciuti
parecchio. Finalmente riusciva a coprire quella strana cicatrice sulla fronte.
Risalì le scale e rientrò
nel locale ombroso. Un juke-box d’altri tempi, tempi di rock e ragazze con i
capelli arancioni e i vestiti a fiori, stava a prendere polvere in un angolo.
Incuriosito, il ragazzo si avvicinò e scorse con gli occhi le canzoni.
Soddisfatto, infilò una monetina nella fessura apposita e partì la musica.
“Black dog”, dei Led
Zeppelin. Roba seria, mica no.
La batteria, la chitarra.
Ogni nota un modesto orgasmo uditivo.
Il barista e gli avventori
lo fissarono in modo strano. In particolare uno di essi, un ometto nervoso
dall’aria sciupata. Sembrava che la pelle, forse abituata a tendersi su
superfici grasse e morbide, non si fosse ancora adattata alle forme spigolose
delle ossa.
Quell’uomo, con pochi
capelli dorati sulla testa e occhietti penetranti e intelligenti in modo del
tutto originale, lo fissava ostentatamente.
A disagio, non appena la
canzone terminò, il ragazzo prese la sua busta e uscì sulla strada. Sapeva che
l’uomo lo aveva seguito con lo sguardo e che attraverso il vetro continuava a
osservarlo. Dopo che ebbe mosso pochi passi si sentì afferrare una spalla e fu
costretto a voltarsi. Ed ecco lì l’ometto nervoso.
La forza dell’uomo era del
tutto inaspettata in uno con l’aria sfaldata che aveva lui.
“Tu!” gli gridò in faccia.
Quel grido non era rabbioso, testimoniava solo uno stupore vicino allo shock. La
presa si rilassò.
“Non sapevo ti piacesse la
musica babbana di trent’anni fa”
“Babbana?”
L’uomo parve interdetto.
“Babbana, certo. Ti risulta
che i Led pasticciassero con le bacchette magiche?”
“Signore, è sicuro di star
bene?”
Il professore guardò il
ragazzo. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e continuò a fissarlo.
Poi tese la mano e scostò i
capelli dalla fronte del giovane. I suoi gesti erano molto lenti.
Rimasero così a fissarsi.
“Cos’è, uno scherzo? Non
sei mica più un ragazzino. Come ti sei conciato?”
“Ma che sta dicendo? Chi è
lei?”
L’uomo strizzò gli occhi
come se non ci vedesse bene, poi scoppiò in una risata piena che non si sarebbe
detto potesse uscire da qual petto scassato.
“Oh, Harry! Sei ancora un
giocherellone! Dai, a me puoi dirlo, che stai combinando! A momenti non ti
riconoscevo sai? Dì tutto al tuo vecchio professore, Harry!”
“Mi.. mi dispiace.. Non so
di cosa sta parlando. Devo andare”
Corse via, senza guardare
indietro.
Lumacorno lo vide sparire
in mezzo ai passanti.
I capelli lunghi, un
maglione a righe dai colori psichedelici, musica rock degli anni settanta...
Cosa diavolo era preso a
Harry Potter?
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Capitolo 5 *** Il racconto del vecchio professore ***
CAPITOLO 5
CAPITOLO 5
IL RACCONTO DEL
VECCHIO PROFESSORE
DAL DIARIO DI HERMIONE
GRANGER
18 novembre
Sono stanca morta. Mi
sono appena fatta la doccia e la stanchezza si è trasformata in un subdolo
invito al sonno che credo proprio accetterò. In effetti sono tre giorni che non
dormo. Non so nemmeno più quanti mitomani ci hanno già segnalato di aver
incontrato Harry, una volta versione licantropo, un’altra vestito da scimmia.
Gli auror che lo cercano, gli amici che lo cercano, i giornalisti che lo
cercano. Soprattutto quel babbuino eccitato della Skeeter non si dà pace. E non
posso più nemmeno giocare la carta dell’animagus non dichiarato, considerato che
ormai è dichiarato eccome.
Ron è sempre più
nervoso, aggressivo e lunatico, e io non ho la più pallida idea di come
prenderlo. Ieri mattina è uscito alle cinque ed è tornato bagnato fradicio per
la pioggia un’ora dopo, con un sacchetto pieno di ciambelle al cioccolato. Mi ha
tranquillizzata e, verso le dieci, mi ha portato la colazione a letto -caffè e
ciambella- e abbiamo parlato. Sembravamo due ragazzi in luna di miele. Poi ha
avuto uno slancio di tenerezza e stavamo per fare l’amore quando è entrato il
piccolo Sirius chiedendo se aveva il permesso di prendere una delle ciambelle in
cucina. Subito dopo Ron si è chiuso in sè stesso e mi ha risposo malissimo
quando ho cercato di parlargli. Mi ha insultato e mi ha dato uno schiaffo. Non
l’ho più visto fino a sera. Gli ho aperto la porta e mi è quasi caduto tra le
braccia, in lacrime. Non so se dispiacermi o se vergognarmi di lui. Non
partecipa alle ricerche e sempre più spesso sparisce a lungo. Invece di
confortare Ginny, che sta dimostrando una forza straordinaria, sta lì a
lamentarsi e ad aggredire chiunque gli passi accanto. Qualche giorno fa si è
picchiato con George. Un’ora dopo giocava con Sirius, ridendo con lui che lo
prendeva in giro per il viso gonfio e l’occhio nero. Ginny è furiosa.
Cosa dovrei fare? Non
basta che perda giornate intere a cercare Harry, sorbendomi ogni singola
stupidaggine su avvistamenti impossibil
Hermione alzò la testa. Le
era parso che qualcuno avesse suonato alla porta. Avevano installato uno di quei
buffi campanelli babbani. Era stato divertente vedere Harry e Ron che con aria
ottusa cercavano di attivarlo picchiettandoci sopra con le bacchette... Ecco di
nuovo quel suono trillante.
Con un sospiro la donna
chiuse il diario e lo ripose sul ripiano accanto al letto. Si strinse la
vestaglia intorno al corpo e scese le scale lentamente, tenendo una mano sul
corrimano.
Aperta la porta, si trovò
di fronte un ometto biondiccio. Le era familiare.
“Horace Lumacorno!”
Aveva un’aria così
deperita. Le tracce della sua antica floridezza erano nascoste nella pelle
floscia. I capelli biondo paglierino gli si spargevano sulla fronte in modo
disordinato. I vestiti erano, come suo solito, dall’aspetto costoso ed
eccentrico, pomposo, ma erano portati con sciatteria ed incuria, e riportavano
tutti i segni dell’usura.
“Signorina Granger..
Weasley, mi scusi. Sa, l’abitudine..”
La guardò sgomento. In
effetti, nonostante fosse sposata ormai da anni con Ron, non aveva mai smesso di
chiamarla signorina Granger. E nonostante fossero colleghi da un po’ di tempo,
ormai, ancora le dava del lei.
Hermione ricambiò lo
sguardo, osservando le condizioni disastrose dell’uomo che le stava di fronte.
“Horace.. mio Dio.. entra
entra...”
“Grazie, signorina..
signora Weasley”
“Oh, Horace.. perchè ancora
non mi concedi l’onore di darmi del tu e di chiamarmi per nome? Mi davi più
confidenza quando ero una tua studentessa”
“Lo so, lo so. E’
l’abitudine..”
“Prego, siediti lì. Posso
offrirti qualcosa?”
“No, no grazie. Io...”
Hermione gli si sedette di
fronte, in attesa.
“Io.. da che.. che graziose
pantofole”. L’uomo arrossì.
Hermione, stupita dalla
curiosa affermazione, lanciò un’occhiata di sbieco prima alle vaporose calzature
che portava ai piedi, e poi al professore.
“Non capisco perchè ti
senti in imbarazzo”
“In effetti, cara, del
caffè non mi dispiacerebbe”. Hermione sorrise.
“Te lo preparo
immediatamente”
Pochi minuti dopo la donna
era già di ritorno. Portava su un vassoio una tazzina di caffè e una ciambella
al cioccolato.
“Hai bisogno di rimetterti
in forze” disse con semplicità in risposta allo sguardo piacevolmente confuso
dell’uomo.
“Cosa ti è successo? A
scuola non ti vediamo dall’anno scorso. Non voglio essere invadente, ma mi ha
sconvolto vederti adesso, così..”
Il tono schietto e deciso
della donna rianimò l’ometto, che sembrò ritrovare un po’ del suo vecchio
vigore.
“Ah, signora.. A volte i
giovani non hanno la minima idea dei sentimenti di un vecchio. E talvolta
persino i vecchi dimenticano di quanto possa essere complessa, variegata e
luminosa la loro anima..”
Hermione lo spinse a
continuare, ritrovando finalmente il buffo e pomposo modo di fare che le era
noto.
Horace Lumacorno si adagiò
con aria sognante sullo schienale della poltrona, portandosi affettatamente alle
labbra la tazzina. I modi cordiali e disponibili della giovane professoressa lo
facevano sentire a suo agio e lo incoraggiavano ad aprirsi.
“Io ero appunto uno di quei
vecchi, fino a pochi mesi fa. Così preso dalle banali venalità di questa terra
tentatrice. Poi avvenne qualcosa che mi cambiò profondamente, e mi indusse a
pormi delle domande sulla condotta della mia vita”
L’uomo non si sarebbe
fermato finchè non avesse terminato, ed Hermione era cosciente che la cosa non
sarebbe stata breve. Si chiedeva il motivo della visita, ma certo non poteva
interromperlo.
“Signora, lo scorso luglio
io incontrai una donna... ah che donna!”
L’attenzione di Hermione si
riaccese improvvisamente.
“Una strega estremamente
attraente nella sua maturità, cosa che le donava un fascino caldo ed
estremamente intrigante, mi creda signorina Granger.. mi scusi, Weasley. Dicevo,
conobbi questa donna: Maryrose, ah dolce nome. Costei mi onorò a lungo della sua
interessante compagnia. E attraverso di lei ebbi l’opportunità di conoscere una
realtà che fino ad allora mi era stata sempre estranea. Riesce a indovinare
quale, signorina Granger?”
“L’amore?” propose la
donna, il cui romanticismo, innato nella sua natura femminile, si era fatto
prepotentemente avanti.
“Amore?” domandò seccamente
il professore.
“Oh no, no, signorina
Granger. Nulla di così prosaico.”
Da qualche parte dentro di
sè Hermione si sentì offesa.
Lumacorno si chinò in
avanti, come se stesse per rivelare un segreto importantissimo.
“Io non bevo più alcool, nè
mi nutro più di carne. Ho rifiutato questi volgari piaceri in nome di una
spiritualità che in me si è ribellata alla mia bassa condotta. Sono entrato a
far parte di un’associazione naturalista, e sto ponderando l’idea di votarmi al
buddismo” affermò con orgoglio.
Poche cose avrebbero potuto
sconvolgere Hermione più di questa.
“Purtroppo eh,
purtroppo..”. Per pochi minuti Hermione aveva avuto davanti l’imponente figura
del Lumacorno che aveva conosciuto a sedici anni. Ora davanti a lei c’era di
nuovo un ometto nervoso e sfasciato.
“Purtroppo, la dolce
Maryrose, la mia guida verso più nobili lidi, mi ha abbandonato. Poco prima di
settembre, è sparita senza lasciarmi nulla. Non un biglietto.. non più il suo
profumo e il suo volto illuminato”
Lumacorno si asciugò una
lacrima.
“Mio Dio, mi dispiace
Horace..”
“Già già, anche a me..”
“E’ per questo motivo che
non ti sei più fatto vedere?”
“Già già”
“Oh, Horace, non avresti
dovuto scomparire a questo modo. Neville naturalmente si è rifiutato di
informarci dei motivi della tua assenza, ma eravamo tutti preoccupati. Runnings
e Queenday ci hanno chiesto a più riprese dove tu fossi finito”
“Ah, cari, cari ragazzi”
“Dovresti tornare, Horace.
E cercare di dimenticare Maryrose”
“Sì, sì, lo credo anch’io”
rispose asciugandosi gli occhi con un fazzoletto portogli dalla donna.
“Adesso è meglio che vada.
Temo di averle arrecato anche troppo disturbo, signora Weasley. La ringrazio per
le sue parole. Mi hanno davvero rincuorato”
L’uomo era già in piedi.
“Mi fa piacere Horace. Ma,
posso chiederti esattamente per quale motivo sei venuto?”
Il professore sgranò gli
occhi.
“Oh, come ho potuto
dimenticarlo! Ho incontrato Harry Potter”
EHM…
ammetto che questo capitolo è un tantino strano.. se pensate che sia ridicolo,
ditemelo che lo cancello immediatamente!
In ogni
caso mi fa piacere che siate arrivati a leggere fino a qui… grazie e ditemi cosa
pensate di questa storia. Prometto che farò di tutto per migliorarmi!
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Capitolo 6 *** La collezione è completa ***
CAPITOLO SEI
CAPITOLO SEI
LA COLLEZIONE E’
COMPLETA
Il ragazzo si spostò una
ciocca di capelli dalla fronte e seguì con gli occhi la macchina che lo aveva
superato. Gli faceva male la spalla per tutto il tempo che aveva passato a fare
l’autostop. La schiena contorta per aver dormito sul marciapiede, l’interno
delle narici umido di raffreddore, aspettava da più di un’ora che qualcuno si
fermasse per dargli un passaggio. Il suo bustone di plastica giaceva accanto ai
suoi piedi, rigonfio e ingombrante. Il pensiero del contenuto del bustone era
estremamente gratificante, e valeva ben la pena qualche sacrificio per
raggiungere il suo obiettivo. Era ben deciso e aveva ben chiaro in testa ciò che
doveva fare.
A fermarsi fu un maggiolino
dalla carrozzeria di un bel giallo brillante. Dentro l’abitacolo una donna si
chinò in avanti e gli sorrise. “Serve un passaggio?”
Il ragazzo rilassò
finalmente il braccio e si fiondò al finestrino, trascinandosi appresso il
bustone. “Devo andare a Brighton” “Ah, bhè, è lì che vado. Dai che ti ci porto”
rispose allegramente la donna. “Grazie!”
Presto il ragazzo si era
accomodato accanto alla donna, con il bustone tra le gambe.
“A proposito, io sono
Luisa”
“Piacere, Freddie”
“Come il cantante dei Queen”
“E’ vero. Lei è italiana?”
“Dammi del tu, per favore.
Ebbene sì, vengo dall’Europa mediterranea”
“Oltre al nome ho
riconosciuto l’accento. Conoscevo una ragazza italiana e quindi ho saputo fare
il confronto”
“Ah, davvero? E come l’hai
conosciuta?”
Luisa sterzò bruscamente.
Aveva imbroccato una traversa sbagliata e con un’inversione quasi a U si era
riportata sulla strada giusta.
“Io..”. Freddie parve
leggermente dubbioso. Non si era neanche accorto dell’azzardatissima manovra.
“A un concerto”. Tacque.
Luisa non insistette.
“E dimmi, che vai a fare a
Brighton?”
Una pausa un po’ troppo
lunga.
“A trovare mio fratello.
Io.. devo portargli una cosa”
Un sorpasso incredibilmente
avventato. Da qualche parte dietro di loro un clacson suonò.
“E tu, invece?”
“Niente d’interessante. Mi
ero presa una piccola vacanza nel fine-settimana e adesso torno al lavoro.
Lavoro in un pub. Ehi, ti dispiace se metto un po’ di musica?”
“Dipende”. Il ragazzo
accennò un sorriso.
Luisa lo guardò. Gli occhi
dietro i capelli lunghi e gli occhiali erano stranamente intensi. Era vestito in
modo strano. Le ricordava i giovani rockettari un po’ hippy che giravano su
furgoncini colorati rollando canne.. sessant’anni prima.
“I Queen ti vanno bene?
Così rimaniamo in tema”
“Mi vanno benissimo” Il
sorriso si estese. Intorno alla bocca Luisa notò qualche ruga sottile, appena
appena visibile. Forse aveva qualche anno in più di quelli che gli aveva
attribuito a tutta prima. Era alto e robusto, e il viso era arrotondato dai
capelli lunghi. In effetti, poteva avere vent’anni o quaranta. Il suo sguardo..
così triste eppure innocente. Istintivamente si sentiva fiduciosa in quel..
ragazzo?.. uomo?
“Keep yourself
alive”. I Queen e la loro musica.
“Tieniti in vita”. Luisa pensò che quelle parole non potevano che riferirsi
all’autostoppista che aveva caricato su a Londra.
“Ti va una canna?”
Il ragazzo la guardò,
stupito dalla sua schiettezza. Scoppiò a ridere. Erano secoli che non fumava.
“Dai qua”
Il maggiolino giallo,
rombando su note inventate sessant’anni prima, sfrecciava verso Brighton,
tirandosi appresso parecchie imprecazioni di educati inglesi indignati.
Dentro di lui un’italiana e
un uomo senza età, un uomo che sembrava perso nel tempo, tiravano da un paio di
canne casalinghe cantando vecchie canzoni rock.
“Passami a trovare qualche
volta, al Jerry’s pub.”
“Certo Luisa, a presto. E
grazie”
Non l’avrebbe vista mai
più.
L’eccentrica macchina, con
il suo impianto stereo e il suo motore potente, del tutto fuori posto nella
vecchia carcassa di ferro tirata a lucido, si allontanò zigzagando nel traffico.
Freddie si diresse a passo
sicuro verso una strada nota.
Ecco lì la casa.
Con gli occhi cercò un nome
sotto il citofono. Eccolo lì. Ci passò un attimo le dita, pensieroso, poi
premette con forza sul bottone.
“Pronto?”
“Cerco Robert Rolling”
“Sono io, chi parla?”
Silenzio.
“Chi è?”
“C’è qui una cosa per lei”
“Salga”
Un suono ronzante e poi la
serratura che scattava.
Freddie entrò
nell’ascensore e premette il numero 3.
Alla porta lo attendeva un
uomo alto.
Si guardarono.
“Ecco, è per lei”
“Chi lo manda? Non c’è
nessuna indicazione”
“Io.. credo che lo capirà
da solo”
“Devo firmare qualcosa?”
“Niente”
Freddie si allontanò.
L’uomo lo seguì con gli
occhi.
Aprì il bustone.
Un groppo in gola. Non
riuscì a fermare lo strano uomo che gli aveva portato lo strano dono.
Rientrò in casa. Dalla
camera di suo figlio proveniva il ritmo monotono di una qualche musica house.
Aprì una porta.
Davanti a lui c’erano file
e file di vecchi cd e di vinili, conservati con reverenziale sacralità.
Prese i 4 vinili contenuti
nel bustone e una piccola reliquia: un pezzo di cartone macchiato con gli
autografi dei Led Zeppelin.
La collezione era completa.
“Grazie Freddie”
In qualche modo miracoloso
Freddie lo udì.
Chiuse gli occhi e due,
esattamente due lacrime gli scesero lungo il volto.
Era in pace, adesso.
“Tu, piccolo stronzetto!”
Un uomo lo atterrò. Un uomo
con i capelli rossi.
“Ron, idiota, mollami!”
“Ah, mi riconosci eh? Ma
dove cazzo eri sparito? Che cazzo pensavi di fare? CHE CAZZO TI SEI MESSO
ADDOSSO? E PUZZI DI CANNA! MA TI CREDI DI ESSERE UN RAGAZZINO?”
Un pugno.
Harry si riprese e si
scrollò di dosso il Weasley dalle orecchie più rosse che avesse mai visto. I
passanti si fermarono a osservare i due.
“Porca puttana, ma che
fai?”
Ron gli si avventò di nuovo
contro. Un altro pugno.
“Che faccio io? Ma hai idea
di come sta Ginny? Sei un pezzo di merda!”
“Ron, fermati!”
Harry gli afferrò i polsi e
lo bloccò con le braccia dietro la schiena. Ron gli era superiore in quanto a
forza, ma lì si trattava della forma della sua faccia: se avesse lasciato fare
il rosso glie l’avrebbe spappolata.
Ron si calmò.
“Va bene, va bene.
Lasciami.”
“Come mi hai trovato?”
Ron lo squadrò. Alla
rabbia, nei suoi occhi si mescolava un grande sollievo. L’aveva trovato,
finalmente.
“Il Deluminatore”
“Capisco”
“Torna a casa con me, Harry.
Dobbiamo chiarire un po’ di cose”
Harry lo fissò.
No...n-no..non ancora
“No”
Si smaterializzò.
Proprio lì, sotto gli occhi
dell’amico e quelli di molti, molti babbani.
“Dannazione!”
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Capitolo 7 *** Cose che si ricordano ***
CAPITOLO 7
CAPITOLO 7
COSE CHE SI RICORDANO
“Tu, stronzetto, sei stato
tu!”
L’uomo inginocchiato ai
suoi piedi non aveva nemmeno il coraggio di piangere.
“La-la prego, no-non s-so
di c-cos-sa sta parla-a..” si interruppe quando sentì la lama fredda premere
contro la pelle del collo.
Il suo aguzzino passò
lentamente un dito sulla lama e gli mostrò il polpastrello: fu con sgomento che
Andy Connor vide che era macchiato di sangue. Il suo sangue.
“Certo che non ti ricordi.
Io sì invece. Perchè non mi scorderò la tua.. faccia di merda” scandì l’uomo.
Andy piagnucolò e accennò a dimenarsi, conscio che non sarebbe stato sufficiente
stare fermo e annuire per liberarsi da quella situazione.
“Il topo.. il topo cerca di
scappare”
Il coltello balenò. Una
striscia rossa di sangue apparve sulla guancia destra di Andy.
Quella mattina Andy, come
al solito, si era materializzato al Paiolo magico. Si stava dirigendo al negozio
di abiti in cui aveva preso il posto di Madama McClan (abiti per tutte le
occasioni..) che era morta un paio d’anni prima, pace all’anima sua.
Solo che nel retro del
locale c’era ad attenderlo un uomo alto dall’aria decisamente familiare, che
tuttavia non gli aveva lasciato il tempo di indagare più a fondo sulla sua
identità, considerato che l’aveva stordito con un incantesimo. Al suo risveglio
s’era ritrovato nelle cantine del Paiolo. O Tom era in combutta con quel pazzo,
oppure, più probabilmente, era sotto l’effetto di una maledizione Imperius.
“Te la ricordi questa
bambina? Eh, te.. te la ricordi pezzo di merda? Non.. non si scordano le cose
belle, e lei era la cosa più bella che ti.. sia mai capitata”
L’uomo, che portava calato
sulla fronte un cappuccio, gli sbattè in faccia una foto sbiadita. Andy strizzò
gli occhi, che gli pizzicavano per le lacrime che premevano per uscire. Una
bambina con i capelli di un colore incerto tra il biondo e il castano chiaro
faceva dondolare i piedini da un’altalena. Un altro bambino, un po’ più grande,
sugli undici anni, era tutto intento a giocare sul pavimento grigio di un
cortile... del cortile della sua casa.. e l’uomo che spingeva l’altalena
era lui, era Andy Connor. In effetti, quelli erano i suoi figli. Pochi anni dopo
che la foto era stata scattata, George, il più grande, era scomparso. Si era
pensato che fosse stato fatto fuori da Colui-che-non-deve-essere-nominato. La
bambina, la piccola Ines, lo aveva seguito un paio di mesi dopo. In seguito.. in
seguito a... Andy non si preoccupò più di reprimere il pianto.
“Ah, adesso ti ricordi eh?”
continuò l’uomo, mellifluo, passandogli la lama di piatto sul volto. “E’ colpa
tua se la mia sorellina è morta, stronzo.. è solo.. colpa tua!” gli sputò in
faccia gridando. Andy alzò lo sguardo, e frugò con gli occhi sotto l’ombra del
cappuccio. L’uomo si ritrasse un pochino.
“George?” osò chiedere.
“Non cercarmi in questo
volto, o non mi riconoscerai..”.
L’uomo si sfilò il
cappuccio.
Di fronte a Andy stava Harry Potter.
In un primo momento Andy
sobbalzò, poi cercò il figlio nello sguardo di quell’uomo dall’apparenza così
compromettente. Gemette perchè riconobbe in quegli occhi un singolo attimo della
sua vita, congelato e perpetuato con odio. In quegli occhi c’era un ricordo che
equivaleva alla dannazione.
“UCCIDIMI!” gridò Andy
aggrappandosi ai jeans di suo figlio, senza chiedersi perchè avesse l’aspetto di
Harry Potter.
“UCCIDIMI ORA!”.
“No, non diventerò un
assassino”
Il pianto di Andy si fece
strozzato, soffocato. Forse voleva uccidersi con le sue stesse lacrime.
Avrebbe mai ottenuto
l’assoluzione per quello che aveva fatto? Sarebbe mai stato in pace? Sarebbe mai
passato giorno senza che il rimorso e la consapevolezza lo imbottissero di
alcool?
George si chinò.
“Incestuoso bastardo. Sei stato tu a uccidere la mia sorellina, tu con le tue
sporche mani. E io, che sapevo tutto, che non ho potuto fare niente per fermare
quello che stavi facendo. Io che.. ero troppo piccolo”
Andy si accasciò. Vomitò, e
rimase con la sua stessa faccia immersa nel suo proprio vomito.
“Io non sarò un assassino.
Ma vendicherò la mia sorellina. Da quando ti ho visto.. da quando ti ho visto
fare quelle schifezze non ho più avuto pace. Per me tutto è cominciato in una
cantina, e tutto finirà in una cantina. E’ il posto giusto per i ratti. E’ nelle
cantine che i ratti vanno a crepare. Io ti lascio qui. Chiuderò la porta a
chiave. Il mio amico Tom ha ordine di non aprirla per altre nove ore, quanti
sono stati i mesi in cui è durato il martirio della mia sorellina. Puoi
aspettare la scadenza delle nove ore, e uscirai di qui senza un graffio. Oddio,
con uno forse sì.”
George uscì.
Andy guardò il pavimento a
pochi metri da lui. Il figlio gli aveva lasciato il coltello.
“Ron, ma dove sei stato?”
“Ho trovato Harry”
Hermione rimase bloccata
sulla porta. “Posso entrare, per favore?” chiese Ron a denti stretti. Hermione
si spostò senza cambiare espressione. I suoi occhi però, saettarono alla faccia
malconcia del marito.
Ron si accasciò su una
poltrona, e Hermione gli si accostò tamponando il suo occhio nero con una borsa
del ghiaccio. “E’ fuori di testa” esordì l’uomo.
“Era vestito in un modo
tutto strano, tutto colorato. Si era fumato una canna e girava per Brighton con
un’espressione stramba sulla faccia. Bhè, se era fatto, neanche poi tanto
strana...”
“E’ stato lui a
picchiarti?”
“Sì” rispose Ron secco,
senza darle ulteriori spiegazioni.
Hermione tacque, turbata.
“Ah.. e mi ha risposto dopo
dieci minuti che lo chiamavo. Eppure doveva sentirmi.. E un’altra cosa... lo
avevo incontrato qualche giorno fa, no? e..”
Hermione ritrasse
bruscamente la mano, e la borsa del ghiaccio cadde sul parquet con un tonfo
sordo.
“Non mi avevi detto niente”
lo interruppe con voce stridula.
“Hermione, quella volta lui
non mi ha riconosciuto. Non volevo farti preoccupare. Tutte quelle volte che
sono uscito, è perchè lo andavo a cercare con il Deluminatore...”
“Avevi detto di averlo
perso!”
Ron rispose prontamente.
“Lo avevo nascosto. Non volevo più vederlo perchè mi ricordava cose troppo
brutte, ma non avevo il coraggio di distruggerlo. Comunque te l’ho detto, se non
sapevi niente di questo è perchè non volevo farti preoccupare”
“Ah, bhè, ci sei riuscito
lo stesso!” gridò Hermione. Si prese la testa fra le mani.
“Mentre eri via.. è passato
qui Horace”
“Horace chi?” domandò
scattoso Ron, insensatamente geloso.
Hermione sbuffò.
Solitamente si compiaceva della timida e impacciata gelosia con cui Ron la
dichiarava sua, ma quello proprio non era il momento.
“Lumacorno. Ha incontrato
Harry qualche giorno fa in un locale babbano, e da quello che mi hai detto era
vestito più o meno nello stesso modo di quando lo hai visto tu. E Horace non è
riuscito a farsi riconoscere. Harry diceva persino.. di non essere lui.”
“In un altro momento non ci
crederei...” borbottò Ron raccogliendo la borsa del ghiaccio.
“Ho deciso” disse Hermione
improvvisamente risoluta.
“Ginny.. George!” chiamò
tendendo il collo verso le scale.
“Che stai facendo?” domandò
Ron allarmato.
“Hai il Deluminatore no?
Sarà facile ritrovarlo. Ma sarà ancora più facile prenderlo se siamo in tanti”
“Ne parli come se fosse un
pazzo ricercato” mormorò Ron, turbato.
Pochi istanti dopo
entrarono nella stanza un uomo e una donna dai capelli rossi, con al seguito un
bambino tutto intento a scaccolarsi.
“Sirius, ti ho visto. Sai
che non lo devi fare” lo riprese Ginevra.
“Scusa mammina..” borbottò
il piccolo, diventando rosso in viso quanto i capelli della madre.
“Sirius, puoi lasciare i
grandi da soli?” gli si rivolse George, dopo aver dato un’occhiata
all’espressione contrita ma energica di Hermione.
“So come raggiungere Harry.
Ron in realtà non aveva mai perso il Deluminatore e se ne è servito nei giorni
scorsi per cercarlo. La cosa si è fatta urgente. Io esco immediatamente. Voi
cosa pensate di fare? Venite con me?”
Ginny era impallidita. Il
fratello rivolse uno sguardo ardente a Ron, e dopo un attimo di immobilità si
avventò su di lui, rovesciando la poltrona.
“Sei un emerito idiota!
Quando pensavi di dirci che potevamo trovare Harry in qualsiasi momento?”
Non lo prese a pugni. Non
lo picchiò. Ma lo fissò in un modo che quasi lo fece piangere di vergogna e
frustrazione.
“Allora andiamo o no?”
Del tutto indifferenti alla
scena le due donne si erano già messe il cappotto.
Ron accese il Deluminatore.
Tutti si tenevano per mano. Un attimo dopo la stanza era vuota.
“Mamma, mamma! Mi posso
preparare la cioccola..” la voce di Sirius si smorzò quando si accorse che era
solo in casa. Solo-in-casa...
Nessun grande a tenerlo
d’occhio. Tanta cioccolata a sua disposizione senza che nessuno potesse beccarlo
a mangiare Nutella di nascosto.
Trottò tutto contento in
cucina, dove mise un pentolino con il latte sul fuoco. I fornelli erano un po’
troppo in alto per lui, ma non era questo gran problema.
Si arrampicò sulla credenza
e afferrò la scatolina con la polvere di cacao. Ne versò tutto il contenuto nel
pentolino e mescolò lentamente il latte, aspirandone soddisfatto le volute di
vapore profumate.
Gli sembrò che la
cioccolata fosse pronta e afferrò il manico del pentolino. Senza presina. Con un
ululato di dolore per la scottatura si gettò all’indietro e la sedia su cui si
era inerpicato si rovesciò, e lui cadde con lei. Si trascinò appreso il
pentolino e tutto il contenuto bollente gli si riversò addosso.
Sirius gridò. Sentì un
rumore alle sue spalle ma non se ne curò, occupato a piangere di dolore com’era.
Un’ombra bianca calò su di
lui.
Sta calmo.
Calmo? Come calmo? Faceva
male! MALE!
Poi il dolore
improvvisamente sparì.
Il bambino rimase a
sospirare sul pavimento, godendosi il contatto freddo delle piastrelle.
Aprì gli occhi e vide sopra
di sè una specie di fantasma.
La prima volta che aveva
visto un fantasma era stato quando insieme alla mamma e al papà era andato a
trovare zia Hermione e zio Neville alla scuola dove lavoravano, e dove lui
sarebbe andato settembre prossimo.
“Mi hai curato tu?”
Credo di sì.
Rispose lo strano fantasma. Sembrava
estremamente sorpreso e lo fissava in modo strano, senza però mettergli paura.
Sirius si tirò su. In
effetti quel fantasma era proprio strano. Non era una forma trasparente e
impalpabile. Piuttosto sembrava un uomo nascosto da una lastra di vetro un po’
sporca e non proprio liscia.
Aveva i capelli lunghi e la
faccia simpatica.
“Chi sei?” chiese il
bambino in totale innocenza.
L’uomo non rispose.
“Come hai fatto a farmi
passare la scottatura? I fantasmi non si possono toccare. Lo so perchè una volta
ci ho provato”
Non so bene
fu la risposta è come se avessi ricordato
qualcosa.
“Dai, dimmi chi sei.”
L’uomo tacque e indagò sul
viso del bambino. Poi sorrise.
Tu sei figlio di Ginny e
Harry, vero?
“Sì!” rispose entusiasta il
piccolo. “Conosci la mia mamma e il mio papà?”
Ero un loro amico. Dove
sono ora?
Il bambino fece spallucce.
“Papà è in viaggio, tipo. E’ partito parecchio tempo fa. Mamma è uscita da poco”
L’uomo dai capelli lunghi
si sedette a fianco del bambino. Stavano tutti e due a gambe incrociate. Si
guardavano.
Allora aspetterò con te
che ritornino, va bene?
Sirius annuì.
Dimmi un po’, come ti
chiami?
“Sirius”
L’uomo sobbalzò.
L’espressione stupita lasciò il posto ad uno sguardo opaco e dolce. Strane
lacrime brillanti e simili a vapore presero a scendergli giù lungo gli zigomi.
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Capitolo 8 *** Silenzio tutti ***
CAPITOLO 8
CAPITOLO 8
SILENZIO TUTTI.
Dalla “gazzetta del
profeta” del 15 dicembre:
..Pare, inoltre, che sia
Harry Potter il responsabile della morte del babbano Samuel Baggin avvenuta
ormai due mesi fa, nei pressi del Ministero della magia. Quel giorno Potter
avrebbe dovuto presentarsi di fronte al Wizengamot per un’udienza, ma non fu più
visto. Testimonianze attendibili riferiscono di averlo visto gridare e
gesticolare in un bar babbano, e scagliare incantesimi pericolosi e maledizioni
senza perdono a destra e a manca, inveendo contro individui visibili solo a
lui.. Il mistero della sua scomparsa è ancora aperto. I conoscenti intimi si
rifiutano di esporre opinioni al riguardo, fomentando sospetti su implicazioni
con la questione degli Elfi liberi. E’ ben noto infatti come Harry Potter non
sia nuovo a contatti di questo tipo. Approfondirò l’argomento nell’articolo a
pagina 5, dove presento un’intervista al leader del movimento di liberazione
degli elfi domestici: Jumm, recentemente registratosi all’anagrafe magica sotto
il nome di Jumm Garfield. In ogni caso, il mondo magico è in subbuglio per la
prolungata assenza del noto mago, che..
Rita Skeeter
Dalla “gazzetta del
profeta” del 17 dicembre:
E’ stato rinvenuto ieri
notte un cadavere nella cantina del Paiolo magico. Il proprietario e gestore
afferma di non saperne nulla. L’uomo si chiamava Andy Connor, e si è suicidato
dopo aver scritto sul muro col proprio sangue la frase “Scusami Ines. Grazie
George di essere tornato”. Gli esperti stanno ancora indagando sul caso. Andy
lavorava...
Il 23 dicembre. Ore 23:00.
Londra era addobbata di rosso e di verde. Con le sue luci cercava di competere
con le stelle in alto sopra di lei. E ci riusciva. Le insegne dei negozi
ammiccavano ai passanti imbacuccati in pellicciotti ecologici. Le vetrinette
risuonavano di musichette basse, provenienti da piccole radio incastrate su alti
scaffali. L’atmosfera era.. come dire? Trepidante. Nella sua frenesia la gente
aspettava.
L’uomo si era infilato in
un anonimo cappotto grigio scuro. Teneva le spalle strette e le mani in tasca,
nel tentativo di crearsi un’illusione di calore. Camminava in mezzo a decine di
altre persone cariche di pacchi. Le percepiva a stento. Aveva un’altra
occasione, un’occasione per fare qualcosa che avrebbe dovuto fare molto tempo
prima, se solo non gli fosse stato impedito.. Chissà se ancora avrebbe trovato
il ricordo di sè, chissà se aveva ancora diritto a mescolarsi a questa vita così
inconsapevole di sè stessa.
L’uomo camminava. Si fermò
di fronte a un negozio di dolciumi. Era gremito di ragazzi, bambini e giovani
donne che si accalcavano per accaparrarsi i pezzi più zuccherosi e sfiziosi.
Anche l’uomo entrò. Uscì dal negozio con un sacchetto di carta bianco, con
stampato sopra il marchio dell’esercizio. Era cambiata la direzione, e anche il
nome del posto. Certo, in tutto quel tempo.. Ricominciò a camminare, tenendo
stretto il sacchetto.
Era vivo. Era vivo? Aveva
forse il diritto di esserlo? Una lacrima gli scivolò oltre le ciglia. La sfiorò
stupito. Piangeva. Solo ai vivi è concesso piangere.
Sentiva sul cuore una
pesantezza formicolante. Sentiva il cuore. Solo i vivi hanno un cuore.
Annusò l’aria e si beò del
suo odore di cemento e ghiaccio.
Una pista di pattinaggio.
Rumore frizzante di pattini che scivolano sul ghiaccio.
L’uomo la superò e camminò
fino a un palazzo.
Cercò il nome sul citofono
e pigiò il pulsante. Never. Rispose una voce di donna.
“Sei.. sei Minnie?”
“Cerchi Minnie Never?”
“Sì! SI! Cerco lei..”
rispose l’uomo troppo in fretta. La donna all’altro capo del filo si mosse
inquieta. Il suo uomo la attendeva in camera da letto. Il vino bianco nel suo
bicchiere rischiò di traboccare. “Culetto mio, torna a letto!” si sentì
chiamare. E come, se lo desiderava, di tornare a letto!
“Chi è lei?” chiese al
misterioso uomo che veniva a citofonare alla casa dei suoi genitori due giorni
prima di Natale. Con la coda dell’occhio vide le luci rosse che brillavano
intermittenti nascoste come lucciole sull’albero in soggiorno.
“Cerco Minnie”
“Questo l’ho capito, ma lei
chi è?” insistette spazientita.
“Un vecchio amico. Io.. mi
chiamo Michael”
Ann ci pensò su. “Ann, ma
chi è?” la interruppe un po’ bruscamente il suo uomo dal letto. Lo sentì alzarsi
e venirle alle spalle. A stento trattenne un sospiro quando sentì il contatto
dei loro corpi nudi quando la abbracciò.
“Vieni con me. Chi è al
citofono?”
“Michael chi?” continuò
imperterrita Ann, sentendo come Mark le passava delicatamente i palmi aperti
lungo i fianchi nudi e tesi.
“Michael Barry”
Ma quel tizio non era
morto? Sapeva che sua madre aveva un amico con quel nome, quando era giovane. Ma
non era stato ucciso da Colui-che-non-deve.. accidenti.. da Voldemort?
“Michael Barry...” mormorò
Ann contro la cornetta.
Spesso aveva visto le sue
foto tra gli oggetti a cui sua madre teneva di più. Era stato un bel ragazzo.
Eppure lei era certa che fosse morto..
“Minnie Never era mia
madre. E’ morta” informò duramente quel presunto Michael.
Nessun suono, se non una
sorta di ansimare angoscioso.
“Signor Barry?”
Nessun suono.
Riappese la cornetta.
“Ma Michael Barry non era
quell’amico di tua madre che era morto per salvarla dai mangiamorte?”
“Sì”
Si baciarono. A lungo e
profondamente, tanto che quasi potevano respirare l’uno dalla gola dell’altro.
Ann posò la fronte sul
petto di Mark, intrecciando le sue dita con quelle di lui e carezzandole
lentamente.
“Sarà stato il suo fantasma
che è venuto a cercare quello di mia madre”
Lui le carezzò i capelli
passandoci in mezzo le dita.
“Ann?”
“Sì?”
Lei lo guardò, godendo
delle ombre mobili che si spostavano sul viso di lui.
“Andiamo a fare l’amore”
Michael si inginocchiò di
fronte alla lapide. Scostò la patina di gelo che offuscava il vetro sopra la
foto. Quello nella piccola foto rotonda era il volto di Minnie Never. Quel volto
era quello di una donna sulla trentina. A testimoniare la sua trascorsa
esistenza erano rimasti quella piccola foto rotonda e un’epigrafe intagliata
superficialmente:
Silenzio tutti. Gli elfi esistono.
Una piccola foto e una
frase in mezzo ad altre centinaia di piccole foto. E non c’era nessuno a
guardare quelle foto se non lui. Quello non era un cimitero di uomini, ma di
immagini.
Era triste: adesso che lui
poteva dire di essere vivo lei era morta. Allora non era vero che di là si
incontrano tutti coloro che si è persi. O forse basterebbe sapere di dover
cercare. E volerlo, magari.
Posò il sacchetto con i
cioccolatini sulla lastra di marmo che chiudeva la dolce Minnie sotto terra.
“Sono i tuoi preferiti.
Quelli rotondi, con la crema alla noce dentro. Credevo che li avremmo mangiati
insieme, ma data la situazione credo che li lascerò tutti a te. Non ho una gran
fame.”
Michael tirò fuori da una
tasca interna del cappotto un tascabile dalla copertina blu con una scritta
rossa.
“Lo stavamo leggendo quando
sono arrivati, Minnie. Mi dispiace di aver dovuto interrompere la lettura,
quella volta. Poi purtroppo non ho potuto ricominciare. Eravamo arrivati a che
la signorina con i capelli blu decide di regalare un bacio al signore dei
cammelli, no?”
Sì, eravamo arrivati lì.
Finisci di leggermi la storia, Michael. Nessuno ci disturberà la lettura
stavolta.
Michael chiuse il libro e
lo posò acanto al sacchetto. “Qui ho finito, Minnie”
Si alzò e si avviò. Si
fermò in un vicolo. Semplicemente per respirare. Aveva finito.
Quattro persone si
materializzarono accanto a lui. Sfoderò istintivamente la bacchetta.
“Harry!” gridò una donna
dai capelli crespi, e gli si avventò contro. Un’altra donna si aggrappò al
maglione dell’uomo che le era accanto.
Michael tese la mano, per
fermare l’impeto di quella donna riccia.
Poco più in là, sotto la
luce di un lampione, un uomo dai capelli rossi lo osservava livido.
“Aspetta un attimo”
Era giusto un attimo quello
che gli rimaneva.
“Harry..” lo chiamò la
donna, sul vertiginoso bilico del pianto.
“Non sono Harry, non
ancora”
Michael ispirò a fondo
l’aria fredda. Aprì le mani e lasciò che l’aria si facesse prendere dalle dita.
Mosse piano le dita e godè della sensazione di percepire distintamente vita
dentro di sè.
“Adesso” mormorò. Chiuse
gli occhi e sospirò.
Grazie.
Di nulla Michael. Ora
puoi andare, e io posso tornare...
“Harry!” lo chiamò Hermione
stridulamente.
L’uomo rilassò le sue
membra. Non represse un brivido. Aveva freddo. Voleva dire che era vivo.
Sorrise.
“Sono io”
Aprì le braccia, e Hermione
gli gettò le braccia al collo, tutta la collera dimenticata.
Ginny gli si avvicinò. Gli
toccò il viso. Ron e George rimanevano in silenzio.
“Andiamo a casa?” chiese
Ginny seria.
“Andiamo pure” rispose
calmo Harry.
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Capitolo 9 *** Morti viventi ***
CAPITOLO 9
CAPITOLO
9
MORTI
VIVENTI
Buio. L’unica luce permeava
attraverso i vetri delle finestre: era luce che veniva dalle stelle.
Non un passo, non un
respiro. Solo tic-tac, le lancette dell’orologio mandavano schiocchi distinti
nel silenzio. Che fosse dovuto all’ora tarda? Che tutti stessero dormendo? No,
la casa era vuota. L’unica presenza era quella del fantasma domestico che, forse
invecchiato pure lui, batteva deboli colpi sui tubi, intervallati da lunghe
pause di pace.
Girovagò per quella che una
volta era stata casa sua.
Alcuni pensavano che anime
particolarmente inquiete dopo la morte fossero legate a uno specifico luogo. In
un certo senso, quel determinato luogo le avrebbe possedute. Lui non aveva mai
creduto a quella roba. E ne aveva avuto conferma. Ma allora perchè si trovava
lì?
Decisamente non si sentiva
un fantasma. Dopotutto, lui era andato avanti. E poi aveva una decisa
sensibilità del mondo esterno, e in parte riusciva anche a entrarci in contatto.
Un fantasma non ne ha la possibilità. Un fantasma esiste. Punto. E se non ci
sono esseri viventi a percepirlo perde lentamente nitidezza fino a scomparire.
Che buffo, che sapesse quelle cose! In ogni caso era certo di non essere un
fantasma. Comunque non era neppure vivo. Che accidenti ci stava a fare lì?
Chissà perchè non c’era
nessuno... Andò in cucina e scrutò attraverso la luce scarsa per vedere sul
magicalendario che giorno fosse. Il 24 dicembre. Magari erano tutti andati a
qualche festa di Natale. Poco male. Avrebbe aspettato. Uno dei vantaggi di
essere morti è quello di non avere mai fretta.
Con un grugnito si afferrò
la gamba rigida e la sollevò, abbandonandola poi sulla robusta sedia di legno.
Si grattò il grosso naso schiacciato e represse con testardaggine un smorfia di
dolore. Accidentaccio a quella gamba, dopo tutti quegli anni ancora così
incriccata! Ma dopotutto, l’età.. La vecchiaia era arrivata anche per lui,
dopotutto.
La casa era fredda. O
meglio, la stanza era fredda. L’abitazione non comprendeva altri locali oltre a
quell’ambiente circolare e non molto largo. Il fuoco non bastava più a
riscaldare le sue grandi ossa.
Sul tavolo i resti di una
cena affrettata e decisamente poco raffinata. Un osso da cui aveva rosicchiato
via tutta la carne era abbandonato sul piatto. Sprecarlo così.. ma non aveva più
un cane a cui dare gli avanzi. In effetti, era solo.
Forse, se si fosse buttato
sul letto... con un paio delle sue coperte patchwork addosso... l’idea era
proprio invitante.
Con uno sforzo sovrumano
(come la sua taglia, d’altronde) si alzò in piedi e si trascinò fino al letto.
Una volta aveva provato a usare una stampella, ma si era rotta sotto il suo
peso. Per l’imbarazzo, aveva rifiutato l’offerta che gliene fosse costruita una
più resistente. Non poteva accettare di essersi ridotto in quello stato, lui che
una volta, neanche troppo tempo prima gli pareva, acchiappava gli unicorni,
cavalcava i testral e domava gli ippogrifi. Lui che era stato capace di tener
testa a dei centauri! Una stampella!
Si lasciò cadere sul
materasso ormai sfondato. Non si era nemmeno preoccupato di sostituirlo.
Si sentiva solo. La sua
donna era in Francia, e non c’era nemmeno un cane a tenergli compagnia.
Qualcuno bussò.
Dalla gola gli uscì una
specie di ringhio. Quell’imbecille di apprendista non riusciva ad entrare da
solo? E poi che voleva a quell’ora?
Bussò di nuovo. Il tocco
era leggero e pacato, se pacato si poteva definire quel bussare seccante.
“Chi è? Sei tu, Josh?”
Di nuovo. Bussò di nuovo.
Con un tocco leggermente più affrettato. Come se chiunque fosse potesse
permettersi di essere impaziente!
Hagrid, prima di
raccogliere nelle braccia abbastanza forza per tirarsi su, diede un’occhiata
alle finestre di Hogwarts. Tutte illuminate. Era Natale. Giù dal pendio
rotolavano voci e risate. Sicuramente nella Sala grande era imbandito un pasto
pantagruelico (ma dove l’aveva sentita quella parola?), e gli alberi brillavano.
I fantasmi passavano attraverso i muri, divertendo i primini, e Pix faceva
dispetti. Ma poco importava. Tanto lui non festeggiava da allora...
L’importuno bussò
nuovamente. Da quando era invecchiato gli era diventato facile perdersi nei
pensieri. Ora che non occupava più il suo tempo a rincorrere animali selvatici
aveva più tempo. Per pensare, ma soprattutto per ricordare.
Si toccò la barba. Era
grigia. Una volta aveva conosciuto una persona che in vecchiaia aveva una bella
barba bianca, non grigia come la sua. E finchè non lo aveva visto accasciato ai
piedi di una torre, quella persona, barba bianca e tutto, era stata in grado di
fare molto più che acchiappare unicorni e seguire tracce nel bosco.
Appunto, ricordare...
La persona fuori della
porta bussò ancora, e ancora. Poi si interruppe.
“Arrivo, arrivo!” grugnì
Hagrid. Che fosse un qualche rompiscatole della scuola venuto a invitarlo alla
festa?
Aprì la porta.
In un primo momento non
riuscì a distinguere bene la persona che aveva davanti.
“Buon Natale, Hagrid”
Il mezzogigante fissava
sbalordito il suo visitatore.
“Non vorrai lasciarmi qui
fuori spero. Nelle mie condizioni non temo nè il freddo nè il buio, ma non mi
sembra molto educato da parte tua”
Hagrid scoppiò a piangere.
Un sorriso si allungò sotto
gli scintillanti occhiali a mezzaluna del visitatore, dentro una lunga barba setosa. Una barba
bianca.
Il bambino, sentendo
suonare alla porta, corse ad aprire. Il fantasma strano gli faceva compagnia, ma
cominciava a sentire la mancanza della mamma e degli zii.
Si trovò di fronte la zia
Luna. “Ciao zia Luna!”
“Ciao Sirius. La mamma è
uscita vero? Mi ha chiesto se posso badare a te mentre lei è via”
“E perchè non torna lei
allora?” domandò innervosito.
“Perchè ha da fare una cosa
importante”
“Ok” borbottò il piccolo, e
si allontanò in corridoio senza aspettare che la donna lo seguisse.
Luna chiuse la porta, poi
si girò di scatto. Le era sembrato di sentire delle voci.
Non aveva perso la vacuità
sognante che la caratterizzava, ma da quando era madre, per quanto riguardava i
bambini, era attentissima.
Che fosse entrato qualcuno
in casa?
Il bambino chiacchierava
vivace e allegro, non sembrava avere paura. Gli rispose la voce di un uomo. Una
voce familiare. Luna si avvicinò alla porta della cucina e la spalancò, per poi
paralizzarsi alla vista del fantasma. Cioè, non che somigliasse più di tanto a
un fantasma... Ma sì! Aveva sentito parlare di quelle bizzarre creature, ma non
le aveva mai viste. I ritornanti. Non erano pericolosi, per fortuna, per quel
che ne sapeva lei. Si trattava di creature indefinite particolarmente sensibili,
che a volte potevano assumere la forma di morti. C’era naturalmente ancora il
dubbio se i ritornanti fossero una forma di possessione, o di incarnazione del
ricordo, o..
“Luna Lovegood!” l’uomo
interruppe le sue riflessioni.
“Proprio io”
“Vi conoscete?” chiese il
bambino, entusiasta. Quel tizio gli era proprio simpatico, e aveva avuto paura
che la zia si arrabbiasse con lui perchè aveva parlato con uno sconosciuto...
Poi la donna ricordò
nettamente. Certo, che conosceva quell’uomo.
Il bambino le salterellò
incontro, sotto lo sguardo intenerito dell’uomo.
“Zia, si chiama come me!
Che forza, eh?”
Le prese la mano con la
consueta delicatezza. Lei gliela strinse di rimando. Lui le toccò i capelli,
tagliati in un caschetto morbido che le sfiorava appena le spalle. Sotto il suo
tocco quei capelli che profumavano a volte di mandorla, a volte di fragole, a
volte di latte e miele, virarono verso una tonalità leggera di rosso. Lei passò
le dita sui lineamenti dell’uomo. Le tremò la mano, a contatto con la barba
appena accennata. E quello sguardo fisso su di lei, quei capelli un po’ lunghi,
dal colore controverso...
“Siamo qui” riuscì a
mormorare lui, la voce spezzata per il terrore di infrangere una qualche muta
regola. Lei gli posò un bacio vicino alla bocca, le labbra di lui tremarono.
“Guarda, lui è là”
L’uomo seguì con lo sguardo
la direzione in cui indicava la donna, e vide un giovane uomo seduto su una
panchina. Aveva accanto una donna, e mentre le parlava giocherellava con i suoi
capelli. Il giovane tirò fuori una bacchetta e fece apparire dal nulla una serie
di scintille che per un istante si inseguirono sull’acqua del lago, per poi
sollevarsi in cielo e ricadere sulla coppia nella forma di decine di petali. I
due si scambiarono un lento bacio, mentre i petali coprivano le loro spalle e i
loro capelli.
L’uomo e la donna si
guardarono, inteneriti, in disparte. L’uomo asciugò delle lacrime dagli occhi di
lei. Erano così scintillanti..
La donna sorrise. Indicò il
cielo notturno. Tra tante stelle spiccava la forma perfettamente tondeggiante
della luna, bianca e.. piena.
Fu il turno dell’uomo, di
piangere.
“Non potevo guardare una
luna piena da quando ero bambino”
“Adesso la puoi guardare, e
puoi farlo insieme a me”
L’uomo la strinse ancora di
più a sè, senza essere capace di distogliere lo sguardo da quella forma che si
stagliava luminosa.
“E può farlo anche Teddy”
“Sì” sussurrò la donna, che
gli posò la fronte sul petto.
L’uomo per la prima volta
si accorse di quanto una luna piena potesse essere.. bella.
Le veela parlottavano tra
loro, intervallando a tratti le chiacchiere a risatine dolci. Erano così
belle... I loro capelli argentei sembravano fluttuare intorno ai loro visi
ovali, le loro mani così delicate.. Si decise. “Buonasera ragazze..” si avvicinò
loro tentando di irretirle con voce suadente. Le donne lo videro. Gridarono e
fuggirono, spaventate.
“Ma chi cavolo era quello?”
si domandarono quando si fermarono lontano, ansanti.
Intanto il ragazzo era
rimasto impalato di fronte al bar. Si diede una manata sulla fronte. “Stupido
Stan! Stupido Stan!” si rimproverò.
Stan Picchetto si
allontanò. Poco dopo davanti a lui si fermò un enorme autobus viola. Il
Nottetempo. Una strega tarchiata salì i gradini mobili. Un bigliettaio attaccò
la solita tiritera. Era un ragazzo normale. Capelli neri, sguardo annoiato.
Eppure gli stava antipatico. Come si permetteva? Aveva preso il posto di Stan
Picchetto. Aveva preso il suo posto! Stan si allontanò calciando un
sasso.
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Capitolo 10 *** Riscatto d'amore ***
CAPITOLO 10
CAPITOLO 10
RISCATTO D’AMORE
Ron non gli staccò mai gli
occhi di dosso. Persino durante la materializzazione al numero 12 di Grimmauld
Place Harry aveva l’impressione di avere lo sguardo dell’amico appuntato
addosso. Quando si ritrovarono sugli scalini della casa Harry si avvide che in
quegli occhi all’apatia era mescolato un imbarazzo inquieto. Hermione suonò il
campanello. Luna doveva essere lì, dato che le aveva inviato un gufo.
Harry guardò Ginny.
Smaniava di abbracciarla, ma qualcosa nello
sguardo che gli lanciò George lo trattenne. La donna si teneva stretta al
fratello più grande, che la teneva vicina a sè con un braccio intorno alle
spalle. In pochi secondi la porta si aprì. Luna aveva un sorriso strano a
contrarle le labbra chiare. Era sporca di farina e aveva una macchia scura sul
grembiule.
“Bentornati. Ciao Harry”
“Ciao Luna”. L’uomo si
accorse con sgomento che la voce gli usciva a stento dalla gola. Da quando era
tornato in sè era rimasto avvolto in un leggero ma piacevole stordimento. Tracce
di sentimento gli veleggiavano intorno lasciategli in eredità da Michael Barry.
E ovviamente, gli rimaneva il ricordo dei momenti che Michael, innamorato di una
donna morta, aveva vissuto in lui. Ricordava anche Freddie Rolling, George
Connor e altri, tutti gli altri. Erano ricordi che a suo tempo avrebbe rimosso.
Non erano suoi e poi.. facevano troppo male.
Però in quel momento la
vacuità che per qualche tempo lo intontiva dopo che tornava in sè, stava
lentamente svanendo. E al suo posto il cuore si andava gonfiando di ansia. Ginny..
povera Ginny...
“Zia, è tornata mamma?”
Sirius si era fiondato nel
corridoio e infilandosi nello spazio tra lo stipite e le gambe di Luna era
riuscito ad uscire sugli scalini.
“Mamma, papà!”
Harry si inginocchiò e lo
abbracciò. Erano due mesi che non vedeva il suo piccolo. L’unico suo figlio che
ancora poteva dire profondamente suo. L’unico che ancora non appartenesse agli
amici, all’amore e al mondo. Non lo aveva mai abbandonato, anche se forse il
bambino lo aveva creduto..
Qualcuno aveva suonato alla
porta. Che seccatura, avrebbe dovuto nascondersi. Chiunque fosse si sarebbe
senz’altro stupito della presenza di un uomo morto più di vent’anni prima.
Visitatori rompiballe. Luna
andò ad aprire. Quando Sirius senior riconobbe le voci all’esterno, dal
corridoio, pensò che se avesse avuto un cuore gli si sarebbe spezzato in due. Se
un fantasma avesse avuto un cuore... perchè a quanto pareva lui era una specie
di fantasma.
Hermione.. Harry.
Il piccolo Sirius junior
era già corso incontro ai nuovi arrivati, ma lui non aveva il coraggio di
presentarglisi davanti con una scadente entrata a effetto. Non aveva ancora
recuperato la forza per restaurare la sua personalità energica e ironica.
Avrebbe aspettato che fossero loro a venire incontro a lui.
“Lo sai papà? Io e zia Luna
abbiamo preparato una bellissima torta al cioccolato! Adesso sta in forno, ma
fra poco la tiriamo fuori, ok? E poi la mangiamo tutti insieme!”
“Certo Sirius”
Harry, che teneva in
braccio il bambino, gli asciugò una macchiolina di cioccolata all’angolo della
bocca e una sulla fronte.
Lui e Sirius camminavano
davanti agli altri. Dietro di loro Luna, che si comportava in modo stranamente
trepidante, e affianco a lei Hermione. Ginny ancora si aggrappava a George. Era
molto pallida. Infine, dietro di loro, Ron si trascinava a una certa distanza
con un’espressione da moccioso capriccioso.
“Papà, c’è una sorpresa per
te!” gli sussurrò esultante Sirius all’orecchio quando Harry stava per abbassare
la maniglia della cucina. “Un’altra oltre alla torta?”
“Harry..” Luna gli aveva
posato una mano sulla spalla. Lui si voltò. “Entra da solo”
Gli altri guardarono la
donna, che sorrise svampita, ma dolce. “Che cosa c’è Luna?”
Harry improvvisamente si
sentiva recalcitrante ad entrare. Luna era troppo seria perchè la cosa fosse
normale. Che cosa lo aspettava nella sua cucina?
“Luna, che c’è in cucina?”
La donna scosse la testa.
“E’ meglio se Harry entra da solo, secondo me. Fidatevi, no?”
Il gruppetto la osservava
in silenzio. Ron fece per entrare lui, impaziente e nervoso, ma Harry lo
trattenne e lui si scrollò della sua presa ritraendosi poi in un angolo. Ginny
lo guardò con astio. Hermione lo guardò dispiaciuta. George non lo guardò
proprio.
“Va bene, adesso entro. Ma
se è uno dei tuoi scherzi Sirius..” si rivolse con tono ammonitore al bambino, e
quello scrollò convinto la testa, negando.
Harry abbassò la maniglia e
spinse la porta contro il muro.
Si aspettava qualcosa come
un secchio d’acqua in testa. Non ricevette nessuna doccia fredda a sorpresa, non
nel senso letterale del termine, almeno.
Richiuse la porta dietro di
sè, tagliando gli altri fuori da quel momento.
Tutte le persone che aveva
ospitato dentro di sè in qualche modo erano tornate a contatto con la vita per
riscattarsi con la stessa. Adesso era il suo turno. Il suo. Il turno di Harry
Potter... e di Sirius Black.
L’uomo era seduto presso il
tavolo, ad attenderlo. Aveva il suo solito sorriso storto un po’ amareggiato.
Cos’era? Una produzione
della sua immaginazione? Un fantasma?
Appoggiandosi al muro,
Harry, annaspante, si avvicinò a quella forma dai contorni vaghi. Somigliava a
un ricordo di quelli che Silente faceva apparire dal pensatoio senza doverci
necessariamente entrare dentro.
Harry aveva paura che al
toccare quell’immagine, essa si sarebbe liquefatta, o magari dispersa in
cristalli d’aria.
Il simulacro di Sirius non
parlava. Sorrideva il suo sorriso, e basta. Forse non poteva, forse non riusciva
a parlare. Proprio come Harry.
L’uomo si staccò dalla
parete e si passò inconsciamente una mano sulla fronte, dove ancora portava il
segno di quando tutto era cominciato.
Si avvicinò alla forma
seduta in casa sua, a quella specie di fantasma anomalo che aveva avuto
l’arroganza di presentarsi a lui per cospargergli mente e cuore di un dolore che
aveva fatto di tutto per allontanare da sè. Il dolore per la scomparsa di Sirius.
Il dolore per la delusione di quando aveva scoperto che lo specchio non lo
avrebbe riportato da lui. Il dolore per non avergli mai dimostrato davvero
quanto lo amava. Il dolore per non essersi mai reso conto di quanto lo amasse.
Poche erano le persone che in vita sua aveva amato in modo così struggente: Ron
e Hermione erano stati i primi. Poi erano venuti Hagrid e Silente e i Weasley.
C’era Ginny, c’erano i suoi figli. E soprattutto c’era quell’uomo, comparso con
terrore e andatosene per un atto d’amore. Sirius. Sirius, che lo aveva
incontrato mentre era divorato dal desiderio di vendetta, e che era morto
riscattando tutto quell’odio con un atto di amore supremo. Il sacrificio.
Harry gli era di fronte.
Sirius gli prese la mano.
Riconobbe quella mano
ruvida e solida.
Harry lo fissò.
“Sei tu”
Le gambe non lo ressero
più. Harry gridò. Non per l’urto con il pavimento. Quello era un grido
catartico. Gridava fuori tutto il dolore. Il dolore non lo avrebbe mai più
tormentato.
Fuori in corridoio qualcuno
picchiava sulla porta. Poi il silenzio, e le voci che si alzavano e qualcuno che
scoppiava a piangere.
Harry e Sirius non udirono
nulla di tutto questo. Erano troppo occupati a piangere loro stessi per loro
stessi, per preoccuparsi delle lacrime degli altri.
Harry aveva poggiato la
fronte sulle gambe di Sirius. Sirius gli aveva posato le mani sulla testa.
Piangevano. Si donavano a vicenda le loro lacrime.
“Mamma, mamma! Papà sta
piangendo!”. Sirius junior era spaventato. Ginny, che non aveva conosciuto
davvero quell’uomo che suo marito aveva tanto amato, sentiva che non era a lei
che apparteneva quel momento. Si chinò e abbracciò suo figlio. Poi, rialzatasi,
lo prese per mano e fece un cenno a George e Luna. I quattro si avviarono su per
le scale, lasciando intimità alle persone che si erano ritrovate oltre la morte.
Ron e Hermione si
abbracciavano, aspettando il momento di entrare. Hermione piangeva. Ron tremava.
“Forse dovremmo andarcene
anche noi” mormorò Hermione, che dopo lo shock iniziale seguito alle spiegazioni
confuse e fantasiose di Luna stava cominciando a sentirsi una specie di
guardona. “Io voglio vederlo. Voglio vedere se è vero” “Dopo. Lo vedremo dopo”.
Si allontanarono anche loro. Ma sul pianerottolo sopra le scale Ron si fermò.
“Cosa c’è?” domandò sua moglie, allarmata dagli occhi sgranati dell’uomo. Ron si
precipitò in camera e afferrò Ginny e George e, tenendo ancora stretta Hermione,
si smaterializzò. Alla Tana.
“Oh, eccoli qua. Chi non
muore si rivede eh? Ma anche chi muore, a quanto pare..” li accolse una voce nel
buio.
Harry e Sirius stavano
ancora nella cucina. Senza muoversi. Stupendosi del contatto che riuscivano a
scambiarsi. Quello non era il simulacro di Sirius, era Sirius. Quello era
proprio Harry, il frutto del suo sacrificio. Sirius aveva dato la vita per Harry.
Sirius aveva dato la vita a Harry.
Harry, a stento
rendendosene conto, mormorò contro la persona che lo aveva fatto nascere per la
seconda volta:
“Papà...”
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Capitolo 11 *** La stazione ***
CAPITOLO 11
CAPITOLO 11
LA STAZIONE
“Eccola”
“E così è per questa che è
successo tutto?”
“Non solo. La sua parte
l’ha fatta anche la cicatrice”
“La solita vecchia storia?”
“Più o meno..”
“Dai, posso sentire anche
io? Non sono mica stupido!”
“No, Sirius, vai a giocare
di là. Non ci vorrà molto”
Ginny passò una mano sulla
testa del bambino, che se ne andò brontolando.
Sirius senior sedeva
accanto a Harry.
Ron ancora non era uscito
dal bagno. Hermione era andata a controllare come stesse.
George, un’espressione tra
il radioso e il nauseato, rimaneva in piedi, vicino al fratello. Vicino a Fred.
Quando Ron, precipitatosi
su per le scale, li aveva trascinati con sè alla Tana, loro non avevano capito.
“Ma che cazzo fai? Non
ti sembra di esserti già comportato abbastanza da coglione?” “E lasciami, George,
aspetta!” “Cosa sei venuto a fare qui, Ronald?” gli aveva chiesto Ginny, con un
tono impressionantemente simile a quello della madre.
“Voglio controllare una
cosa”
L’uomo aveva acceso la
luce. Le finestre si illuminarono. Dopo settimane che rimanevano al buio.
“Oh, vedo che è arrivata
gente!” Una voce dal salotto. Ron si era paralizzato sulla porta. George lo
aveva spinto da una parte, ed era rimasto impalato al suo posto, con la
costernazione a contrargli il viso.
“Ciao fratello” qualcuno
disse con voce commossa. Che fosse stato Gorge o Fred aveva poca importanza.
“Bhè, non sono sicuro che
sia accaduto proprio in questo modo, ma sono quasi certo di sì.”
“Che ne dici di raccontarci
tutto dall’inizio?”
“Posso provarci” rispose
Harry tra l’esitante e il beffardo.
E c’era stato
l’abbraccio. Un abbraccio che fece loro vibrare l’aria all’intorno. Io sono qui,
tu sei qui, noi siamo qui.
“Ma forse dovremmo
aspettare che Ron e Hermione tornino dal bagno”
“Siamo qui, parla pure”
Ron aveva il volto
arrossato e bagnato. Sul volto di Hermione si vedevano le tracce di un trucco
sciupato, di una matita che le aveva tracciato lunghe ditate nere dagli occhi
fino al mento. Aveva provato a sistemarsi il viso alla bell’e meglio, ma erano
delle tracce cancellabili solo con molta pazienza. Per la pazienza c’è bisogno
di tempo, e loro di tempo non ne avevano. O forse non ne volevano avere.
“E così voi sareste i
miei genitori”
“Lo siamo, Ted”
Il giovane si passò una
mano fra i capelli. Tossicchiò rocamente.
“Capirete che mi risulta
un po’ difficile credere che per davvero due persone morte da quando ero piccolo
siano tornate in una forma non meglio definita. Quindi l’unica spiegazione è che
sono diventato completamente matto. E chi glielo dice adesso, a Victoire..”
Harry si alzò in piedi. Era
molto irrequieto. Come avrebbero reagito?
“Verso ottobre cominciai ad
avere delle piccole crisi. Nel senso che soffrivo di improvvisi buchi nella
memoria a lungo termine, e mi confondevo, non so bene come spiegarlo. Hermione
mi è stata molto vicina. Avevamo paura che fossi posseduto”
Tonks gli posò una mano
sulla spalla, esitando giusto un attimo prima di toccarlo, per timore di essere
respinta. Ted guardò quella mano come se fosse qualcosa di spaventoso, ma dentro
di sè, in profondità, avvertiva il calore di una dolcezza che gli era sempre
stata negata. Stupido dire che l’amore di due genitori adottivi può compensare
quello di madre e padre. Si era sempre sentito inferiore, tagliato fuori,
inadeguato, quando per caso entrava in una stanza e vedeva Harry che abbracciava
stretto Albus e James e Lily. Poi naturalmente l’uomo accoglieva anche lui tra
le sue braccia, ma la stretta, del tutto inconsciamente, si allentava un po’.
“Credi quello che senti
vero. Non so come provati che noi siamo reali, ma, Ted, siamo i tuoi genitori.
Siamo coloro a cui sei stato tolto troppo presto. Tu..”
La voce le si strozzò
stridulamente. Mentre tremava, Lupin la strinse a sè.
Poi l’uomo parlò al
figlio con voce ferma, senza farsi impaurire dalle sue stesse lacrime. Tanto
tempo prima aveva fatto la scelta di essere coraggioso, e continuava a esserlo.
“Forse siamo stati
egoisti, Ted. Ma quando siamo andati a combattere, quella notte, abbiamo fatto
la scelta di darti un ideale al nostro posto. Se fossimo rimasti ti avremmo
preparato da mangiare tutti i giorni, saremmo stati con te il tuo primo giorno
di scuola..”
Ted si prese la testa
fra le mani. “..ti avremmo rimproverato se fossi tornato tardi la sera, ti
avremmo portato a vedere lo zoo e avremmo giocato tutti insieme a quiddich. Ma
così, ti abbiamo permesso di avere rispetto per noi. Ti abbiamo dato la prova
del nostro amore col nostro sacrificio. Ti abbiamo dato l’opportunità di capire
ciò che è giusto. A te la scelta. Puoi scegliere se accettarci oppure se
continuare la tua strada senza che noi interferiamo con i tuoi sentimenti”
Ted tese le mani e
strinse quelle di sua madre, con la testa china. Lei, dal canto suo, si gettò su
di lui stringendolo forte al petto.
“Poi, quando mi sono
fermato in quel bar babbano ho avuto un’altra crisi. Ho avuto delle
allucinazioni in cui ero convinto di essere inseguito dai mangiamorte. Sono
scappato. E’ durato per giorni. Non avete idea di quanto sia stato terribile.
Dopo un po’ ho cominciato a confondere passato e presente. Credevo di dover
ancora distruggere gli horcrux. Ho scritto una lettera a Hermione. Solo dopo mi
sono reso conto di quanto quelle parole vi potessero suonare assurde. Poi è
successo. Sono stato posseduto davvero. E io.. ero d’accordo”
Ron si precipitò nuovamente
in bagno.
“Hagrid, perchè mi hai
fatta venire qui? C’è una festa alla scuola, e in effetti non capisco perchè ti
ostini a non venire”
“Professoressa, forza,
deve dare un’occhiata”
La McGranitt,
leggermente irritata, ancora col cappellino a punta in bilico sui capelli
legati, oltrepassò la soglia della capanna di Hagrid.
“Buonasera
professoressa”
Il cappellino cadde.
“Scusami, Harry, spiegati
meglio” lo interruppe Ginny, ignorando l’isterismo del fratello.
“Stavo nascosto, poi mi
sono ritrovato... Vi ho mai raccontato quello che è successo quando sono morto?”
“Come, quando sei morto?”
Harry non aveva mai detto
loro niente. Loro non avevano mai saputo quello che era successo quella lontana
notte nella Foresta proibita.
Cercò lui stesso di
richiamare gli eventi alla memoria.
Rivoli di freddo gli
avevano gelato la pelle. Voleva urlare alla notte, voleva che Ginny sapesse che
era lì, che sapesse dove stava andando. Voleva essere fermato, portato indietro
a casa... Ma era a casa. Hogwarts
era la prima e la migliore casa che avesse conosciuto....
Mi apro alla chiusura....
Aveva premuto il metallo contro le labbra e aveva sussurrato: “Sto per
morire”....
“Ci sei quasi” gli aveva
detto James. “Sei molto vicino. Noi siamo... fieri di te” “Fa male?”
“Morire?”....
“Resterete con me?”
“Fino alla fine” gli aveva risposto James....
Un fuoco ardeva al cento
della radura.... Voldemort, che era in piedi, a capo chino, la Bacchetta di
Sambuco davanti a sè....
“Credevo che sarebbe
venuto” aveva detto Voldemort con la sua voce acuta e chiara, lo sguardo fisso
sulle fiamme danzanti. “Mi aspettavo che venisse” Nessuno aveva fiatato... Si
era tolto il mantello dell’invisibilità e lo aveva infilato sotto la veste
insieme alla bacchetta. Non voleva essere tentato di combattere. “A quanto
pare... mi sbagliavo” aveva concluso Voldemort. “No”....
Poi qualcuno aveva
urlato “HARRY! NO!”....
Voldemort aveva alzato
la bacchetta....
Un lampo di luce
verde.... La stazione di King’s Cross.
I presenti lo fissavano in
silenzio, agghiacciati in posizioni di orripilato stupore e, forse, delusione.
Delusione per il fatto che Harry non avesse mai voluto condividere con loro la
sua avventura più grande. Non lo aveva fatto nell’atto, come non lo aveva fatto
nel ricordo.
“Ecco, io..” Harry
continuò, a disagio. Si era aspettato che qualcuno facesse delle osservazioni su
quanto era accaduto. Invece lo intimoriva di più il silenzio di quelle persone
che con lui avevano condiviso la loro stessa vita.
Ron era tornato dal bagno,
e ascoltava da dietro la porta.
“Io mi ritrovai di nuovo
alla stazione, ma stavolta non dovevo partire. Era come se dovessi venire a
prendere delle persone. C’era molta gente. Alcuni li conoscevo, altri no. Però
tutti erano simili nel fatto che erano stati uccisi da Voldemort”
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Capitolo 12 *** Quello che avrebbe dovuto essere e quello che sarà ***
CAPITOLO 12
CAPITOLO 12
QULLO CHE SAREBBE DOVUTO
ESSERE E QUELLO CHE SARA’
Si scoprì a non voler
ascoltare oltre. E a che sarebbe servito, dopotutto? Erano passati due mesi e
mezzo da quando Harry era scomparso nel nulla. Due mesi e mezzo di ricerche,
paura, calunnie messe a tacere, discussioni, giornalisti invadenti, tentazioni,
dubbi, rattoppamenti. Ed erano passati quarant’anni, o quasi, da quando con il
naso sporco si era seduto nello stesso scompartimento di un bambino solo, tutto
trepidante nel conoscere un mito. Harry aveva la sua stessa età. Ed era famoso.
Era l’incarnazione di tanti desideri sempre preclusi. Un bambino rispettato e
onorato persino dai grandi. Cos’era a differenziarlo da lui? Era stata
un’occasione. Ma un’occasione sarebbe capitata anche a lui, e lui l’avrebbe
colta, e lui sarebbe stato rispettato da tutti. Anche dai grandi.
Presto alla semplice
ammirazione era subentrato un timido sentimento di amicizia. Ma era stato in
breve tempo che il loro legame era stato contaminato dall’invidia, ultimo
residuo di quell’antica ammirazione che l’aveva portato ad avvicinarsi al
celebre Harry Potter. E se anche l’affetto permaneva, gli era risultata sempre
più difficile l’accettazione di quella presenza accanto a sè. Il suo affetto
sarebbe sopravvissuto a qualunque cosa, ne era certo, ma anche l’insofferenza. E
forse le due cose un giorno avrebbero portato all’annullamento di uno di loro
due.
Harry era sempre stato lì,
inconsciamente superbo, inconsciamente dedito solo a sè stesso. Veniva da
chiedersi se i loro sentimenti fossero mai stati davvero puri, e non dettati
dall’egoismo. Era sempre stato lui, Ron, a tornare da Harry. Non era mai
accaduto il contrario. Mai che Harry avesse accettato di non essere l’unico
protagonista di sè stesso. A muovere Harry erano sempre stati soprattutto
rabbia, vendetta, una lealtà dettata più da egoismo e senso del possesso che da
vera dedizione. Aveva mai visto Harry compiere un atto d’amore, di affetto, di
amicizia? La cosa più dolce che gli avesse mai fatto era stata accettare le sue
scuse, una vaga espressione di trionfo sul volto. Gli unici momenti in cui il
cuore di Harry si era aperto era stato quando qualcuno stava per scomparire.
Sirius. Ma quando si era trattato di un semplice sforzo di umiltà, quando si era
trattato di accettare la parità di qualcun altro, mai. No si era mai fatto
avanti.
A che erano serviti tutti i
loro sforzi se Harry in quel momento se ne stava lì, a pretendere nella sua
tranquillità la ragione, il rispetto? In base a cosa pretendeva che lo
perdonassero immediatamente? Forse non si rendeva conto che avevano pensato che
gli fosse successo qualcosa? Che avevano avuto paura per lui? Che avevano avuto
paura che fosse diventato pazzo? Che si fossero dovuti affannare per, salvando
le apparenze, salvare la sua posizione e fare in modo che nessuno interferisse
con le ricerche? Non si rendeva conto che avevano dovuto spiegare a un
bambinetto di dieci anni perchè il papà se n’era andato senza salutare?
Ma dopotutto, a Harry cosa
importava? Da sempre da dietro le quinte tutti loro si sacrificavano per lui, e
eccettuati gesti eclatanti e melodrammatici Harry non aveva fatto mai mostra di
apprezzarlo. Nemmeno di rendersene conto, per Dio.
Ron si allontanò dalla
porta da cui aveva origliato.
Harry continuava a parlare.
Gli altri ascoltavano, in
silenzio.
Harry, ora sei qui, davanti
a me. Dove eri andato? Perchè mi hai lasciato qui sola con un bambino a cui dare
spiegazioni quando ero io ad aspettarmi spiegazioni da te? Non un cenno, niente,
in due mesi, che ci abbia permesso di sapere se stavi bene, se eri vivo. Non mi
hai detto nulla. A me. Non hai detto nulla a Ginevra Weasley. A tua moglie.
Come se l’avessi mai
fatto... Come sempre, mi hai tagliata fuori. Ho sempre partecipato solo del tuo
mondo più superficiale, nonostante tutti i miei tentativi di andare a fondo, di
conoscere la tua intimità. Non me lo hai mai permesso. Quando stavi male l’unico
conforto che mi hai dato l’opportunità di darti è stato il silenzio. La mia
vicinanza silenziosa. A volte avevo paura di farti delle confidenze, temendo che
ti aspettassi che come te mi tenessi tutto dentro. Ma io ti amo. Io ti amo!
Credevo che l’amore sarebbe stato uno scambio, un sostenersi reciproco, ma forse
è stata un’idea troppo ingenua, troppo banale.
Per averti ho aspettato
tanto, sapendo che tuttavia eri così vicino, magari nella stanza accanto a
parlare con Hermione e Ron. E io da sola, cercando di catturare qualche parola,
cogliendo solo risate. Le vostre. Quanto ho aspettato e quanto ho sofferto prima
di potervi unire le mie. Ma con me non sei mai entrato in confidenza come con
loro. Io avevo i tuoi baci, loro il tuo cuore e la tua mente. Quando sei partito
a cercare gli horcrux io ho aspettato, come nei vecchi film le donne aspettavano
ansiose e passive che il loro uomo tornasse dalla guerra. Ma ti rendi conto? Ti
rendi conto? Loro erano con te, e io ho passato ogni mio singolo giorno cercando
disperatamente di sentire qualche notizia su di te alla radio. Ma sentivo solo
il tuo nome, invocato da tante voci. Tante voci, ho sentito, sì, ma non la tua.
Loro erano con te. Mi hai detto di volermi proteggere. Davvero? Magari nemmeno
te ne sei reso conto, ma volermi proteggere è stata la cosa più egoista che tu
abbia mai fatto. O forse pensavi che nella fine, nel momento più importante
della tua vita, io fossi di troppo. Non so... So che mi ami, a tuo modo. Ma so
anche che dopo tutti questi anni, nascosta dietro il mio sorriso e la mia
sicurezza, continuo a sentirmi a disagio quando vi vedo tutti e tre insieme.
Riecco i tuoi capelli neri
neri, leggermente ondulati, ciò che resta della vecchia zazzera indomabile. I
tuoi occhi verdi. Quella piccola ruga sotto gli occhi, il tuo modo di aprire le
labbra quando parli. I tuoi occhi vigili eppure estraniati, in un modo di cui ho
letto tante volte ma che finora ho visto solo in te. Perchè te ne sei andato?
Perchè ci hai tolto tutto questo? Per due mesi sei stato lontano, e già temevo
di stare scordando il tuo volto, già temevo che rivedendoti non avrei saputo
seguire i tuoi gesti e le tue espressioni come fanno gli amici: in quel modo
come se si ascoltasse una musica familiare su cui l’orecchio sa focalizzarsi.
Solo gli amici sanno sintonizzarsi sui movimenti della testa e sulla voce come
su una stazione della radio. Io e Ron siamo i tuoi amici, Harry. Eppure avevo
paura di non riuscirci più. Perchè stavi svanendo così presto? Non avevi il
diritto di strapparti a noi in modo così arrogante. Ti stavi dando a qualcun
altro? E con quale diritto? Tu non hai il diritto di disporre di te stesso,
Harry. Solo una persona completamente sola è completamente libera. Ad un certo
punto della propria vita non abbiamo più il diritto di essere gli unici padroni
di noi stessi, anche se possiamo scegliere chi lo sarà con noi. Io ho scelto Ron,
ho scelto Ginny, tutti loro, e ho scelto anche te. E ho sempre creduto che tu
avessi scelto me.
Non hai la minima idea di
quanto sia stato difficile. Credevo di dimenticarti. Ma tu ricordati una cosa:
se lo avessi fatto sarebbe stato unicamente perchè lo avevi scelto tu. E ormai
temo che sia troppo tardi. Temo che, indipendente da me e da te, presto ti
dimenticherò, presto non saprò sintonizzarmi più bene su di te. E io non ascolto
la radio se il suono è distorto. Ma questa non è più una cosa che dipende da te,
nè da me.
“Zio Ron, dove vai?”
L’uomo dai capelli rossi si
arrestò sull’ultimo gradino delle scale osservano sgomento quel bambinetto
davanti a lui. Era così piccolo, troppo per la sua età. Era un po’ figlio di
tutti loro. L’ultimo bambino.
Lo superò e afferrò il suo
cappotto. Si schiacciò un cappello marrone sui capelli di quel colore notevole,
colore tuttavia negli ultimi anni un po’ sbiadito.
“Esco, ciao Sirius.”
Prima di muoversi lo guardò
ancora. Chissà perchè quel ragazzino era tanto in grado di metterlo in
soggezione. In quello sguardo ingenuo c’era una vitalità vivida che incantava
chiunque. Se lo guardavi dritto negli occhi non potevi fare a meno di provare un
certo turbamento.
“Ciao” ripeté.
Aprì la porta.
La richiuse e Sirius lo
vide allontanarsi dalla finestra appannata per l’umidità.
Per un attimo i rumori
della strada si erano riversati in casa.
“E’ così che è successo
tutto. In verità è molto semplice. Delle persone che sono state uccise da
Voldemort alcune hanno avuto la possibilità di tornare alla vita per un certo
tempo attraverso di me. Credo che fosse dovuto all’azione della pietra della
resurrezione combinata alla mia cicatrice, che istituiva un legame tra me e
Voldemort. La cicatrice ha svolto da catalizzatore e la forte influenza che la
pietra aveva su di me ha fatto in modo che avvenisse il passaggio”
George si staccò dal muro.
“E come mai alcuni, come Sirius e Fred, sono tornati così e non possedendoti?”
“Sai, è sempre stato un mio
recondito desiderio possederti, ragazzo mio” se ne uscì Fred, chinando la
testa in uno spiritoso occhiolino allusivo in direzione di Harry.
Harry sorrise, sollevato.
“Questo non lo so”. Scrollò
le spalle.
“Bene” lo interruppe secca
Ginny. “Hai finito? E’ tutto qui quello che hai da dirci?”
Harry sollevò lo sguardo
sulla moglie. Il pallore che aveva dato un aspetto inconsueto al viso della
donna aveva lasciato spazio a un vago rossore acceso, decisamente più tipico di
lei, energico. Era bello vederla così ardente. Eppure qualcosa non andava.
“Sì, ho finito. Mi dispiace
non potervi dire di più. Fidatevi di me. Abbiate pazienza, come siete riusciti a
fare fin’ora”
Non poterci dire di più.
Fidarsi. Come abbiamo fatto fin’ora. Ma che ne sa lui di quello che abbiamo
fatto fin’ora? Che ne sa di quello che abbiamo passato? Delle litigate con un
Ron sempre più instabile e frustrato? Dell’incapacità di gestire la nostra vita
e la scomparsa di un amico? Che ne sa della paura? Che ne sa della
responsabilità?
Ginny e Hermione si
guardarono fugacemente. Avevano la netta sensazione di aver pensato esattamente
la stessa cosa.
“Non puoi dirci di più.. E
che vuol dire avere pazienza? Vuoi dire che ancora non è finita questa storia?”
gli chiese brusca Ginny. George e Fred la guardarono preoccupati.
“No. C’è ancora gente”
“Ah, ma certo!”esclamò
Ginny, finalmente manifestamente furente. Si liberò dalla stretta di George sul
polso.
“C’è sempre posto in te per
della gente che nemmeno sai chi è.. E per noi, Harry, il posto per noi dov’è?”
Ma perchè Ginny non capiva?
Era il suo dovere. Era la sua coscienza che lo legava a Voldemort, molto più che
la sua cicatrice. Doveva riscattarsi delle persone che per colpa sua e per lui
erano morte. Ma tutto questo lo pensò. Non lo disse.
“Devi assumerti delle
responsabilità, Harry!”
“E’ proprio per questo che
devo farlo! Mi sono assunto una responsabilità seguendo la mia coscienza di
Bambino-che-è-sopravvissuto!”
“E la tua coscienza di
marito? Di amico? Di padre?”
“Voi potevate fare a meno
di me per un po’ di tempo!”
“E hai ragione, perchè in
tutto questo tempo abbiamo dovuto imparare per forza a fare a meno di te!”
“Io vi ho sempre protetto!”
“Già, come può fare un
auror! Ma eri tanto compreso nel tuo ruolo di paladino della giustizia che non
hai mai pensato alle responsabilità emotive nei nostri confronti!”
“Ma hai idea di tutto
quello che ho passato? Ho sempre tenuto tutto dentro, per non caricarvi di
qualcosa di terribilmente grande!”
Ginny uscì dalla porta, in
silenzio. Dopo un’occhiata imbarazzata Fred e George la seguirono. Hermione
esitò. Era affranta. Non osava alzare lo sguardo. Le lacrime le rendevano lucido
il mento. Se ne andò.
Harry era rimasto con
Sirius. Solo con Sirius.
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Capitolo 13 *** Sbronzo ***
CAPITOLO 13
CAPITOLO 13
SBRONZO
Burrobirre. Quante ne
avevano bevute insieme. Eccone una lì, davanti a lui.
A portargliela non era
stata madama Rosmerta. Era stata sua figlia Melinda. Rosmerta si era sposata.
Aveva avuto due figli. Il fratello di Melinda, Michael, si era trasferito in
Italia. Il marito di Rosmerta l’aveva abbandonata per la figlia della padrona di
Mielandia. Anni dopo Rosmerta era morta in un incidente d’auto. Fine della
storia. Tutto finito, stop. Era morta, la gestione del locale era passata alla
figlia e piano piano il suo volto stava venendo dimenticato. La gente finisce
così. Nella morte e nella vita.
Un sorso di Burrobirra.
Giù, giù per la gola. Un lungo sorso, sì, un sorso lungo.
E un altro. La Burrobirra è
finita. Meglio passare a qualcosa di più forte. Le guance sono più calde, e
anche il petto. E’ piacevole.
Melinda porta via i
bicchieri, uno dopo l’altro. Ron si sente sempre più caldo. E’ bello sentirsi
caldi, contro tutto il freddo che c’è fuori.
Fuori è Natale. Fuori si
festeggia il Natale. Strano, anche dentro. Ma lui non festeggia. E’
anticonformista lui. Il pensiero di sè stesso anticonformista è buffo. Lo fa
ridere. E si sente sempre più caldo e più... formicolante, come se avesse tante
bollicine che scoppiano come pop-corn all’altezza del petto. Anche questo
pensiero è buffo e lo fa ridere.
In parte si rende conto di
essere ubriaco. Ma lo irritano tanto gli sguardi degli altri avventori,
piuttosto pochini in verità, che non lo ammette neanche di fronte a sè stesso.
Però dopo qualche altro sorso il pensiero di essere ubriaco la notte di Natale
con Harry mezzo matto a casa e lui al Tre manici di scopa con la figlia di una
Rosmerta morta e sepolta, lo diverte tanto che non si trattiene dal ridere. E
dopo qualche altro sorso ancora, il fatto di essere ubriaco lo rende quasi
orgoglioso, e gli viene voglia di andarlo a dire in giro.
Ron uscì dal locale.
Qualcun altro si alzò e lo seguì. Una donna.
Ron se ne andava per una
Hogsmeade praticamente deserta. Non si curava della neve che gli si scioglieva
sui capelli bagnandoglieli e scendendo in rivoletti gelidi dentro il colletto.
Poi vide qualcuno seduto
sul marciapiedi con l’aria decisamente frastornata. Era Stan Picchetto. Buffo,
pensava fosse morto.. Ma sì che era morto! Ma tanto ormai in giro i morti
viventi non erano più una novità, quindi... Rise.
“Ciao Stan” lo salutò Ron.
Gli si sedette accanto, senza far caso al fatto di essersi seduto dentro una
pozza d’acqua. Il giovane bigliettaio morto lo guardò sbalordito. “Tu non
scappi? Non vedi come sono strano?” “Lo vedo, lo vedo” rispose blando Ron. “Ma
non sei il primo che incontro, ridotto in questo stato” scosse la testa con aria
saputa. “E poi sono ubriaco. Al massimo mi fai ridere” aggiunse. E infatti rise.
“E come sai chi sono?”
“Lavoravi sul Nottetempo. Mica ti ricorderai tutti i tuoi clienti”
“Ah” commentò Stan
Picchetto. “Adesso c’è un altro tizio al mio posto. Non è proprio capace, sai?”
“Può darsi, ragazzo. Non prendo il Nottetempo da un sacco di tempo” si
interruppe e poi riprese con voce alterata. “E’ la prima volta chiamo qualcuno
ragazzo. Devo proprio essere invecchiato” Rise. Si sentiva molto divertente,
quella sera. Lui, Ron Weasley, vecchio. Buffo. Decisamente buffo.
“Ma chi altro hai visto
come me? Mi sono ritrovato così e non so che cosa fare”
“Eh, ragazzo, ci ho visto
un paio di persh.. psh... pershone”
Non riusciva a districare
bene i suoni. Proprio come un ubriaco. Ma lui era ubriaco. Ah ah!
Melinda proprio non aveva
polso. Rosmerta lo avrebbe cacciato dal suo bar molto prima che si riducesse in
quello stato. Lei sì che era una gran fica, con l’età e tutto. Ogni volta che
andava al tre manici gli veniva una voglia di strizzarle quelle...
“Puoi dirmi dove hai visto
queste altre persone?” lo interruppe Stan ansioso.
Ron lo guardò irritato.
“Primo: non provare mai più
a inter..rompere le mie fantashie erotiche, sono stato ciaro?” gli ordinò
minaccioso. Stan annuì, senza capire a cosa si riferisse ma intimorito da quell’omone
dai capelli rossi. “Shecondo, non te lo posso dire. Sono questioni.. personali.
Quindi, arrangiati” Si alzò dal marciapiedi, e barcollò un po’ prima di
recuperare l’equilibrio. La voglia di ridere gli era un po’ passata. Ora gli
veniva voglia di vomitare.
“Serve aiuto, signori?” si
udì pronunciare da una voce femminile secca e vivace.
Una donna bionda si fece
avanti. Portava gli occhiali, e l’elaborata acconciatura era alquanto sgualcita
dal maltempo. Aveva una piccola borsetta squamata, e al suo fianco volavano un
taccuino alato e una penna dall’aria inutilmente costosa.
“Io mi sa di conoscerti”
biascicò Ron strizzando gli occhi.
“Ne sono certa, signor
Weasley. Sono molto lieta di rivederla. Buon Natale. Come sta?” avanzò la donna
con la mano tesa. La sua voce era molto carina, pensò Ron.
“Sto bene, a parte che mi
viene da vomitare e non ci vedo bene. Mi sa che è colpa della neve” “Ne sono
sicura signor Weasley. Ma non mi ha riconosciuta? Sono la sua vecchia amica
Rita” “Rita Skeeter?” precisò Ron sollevando la testa e alzando a toni acuti e
alti la sua voce. “Precisamente. Davvero, sono felice di rivederla. Mi
piacerebbe fare una chiacchierata con lei e il suo amico qui presente” “Ma
certo” “Che ne dice di andarci a mettere in un posto più comodo? Pensavo al
Paiolo magico”
Ron annuì. Passò un braccio
intorno alle spalle di Rita Skeeter e si avviò con aria baldanzosa. Facendo
spallucce, Stan Picchetto, sconsolato, li seguì ingenuamente.
Entrati al Paiolo la donna
li condusse in una stanza appartata, con gli occhi di Tom, il padrone, puntati
addosso. Ma quell’uomo non cambiava mai? In tutti quegli anni era rimasto
identico. Strano che non fosse ancora morto.
“Quindi, signor Weasley,
che ha fatto questi ultimi tempi?” “Niente di speciale, e lei?”
Rita si tolse la giacca.
Sotto era vestita un po’ troppo leggera per quella stagione. Non c’erano sedie,
e Ron si era seduto sul letto spazioso. Rita si sedette accanto a lui. Stan
girovagava per la stanza inquieto.
“Oh, io mi sono concentrata
molto nel mio lavoro. Non è semplice sa? Ma che maleducata sono, non le ho
offerto da bere” “E già, dovrebbe offrirmi qualcosa. Ho proprio voglia di bere
qualcosa”
Rita, tutta un sorriso, si
alzò e prese una bottiglia squadrata dal mini-bar. Ne versò il contenuto in due
bicchieri. Ron se lo scolò senza gustarlo minimamente. La giornalista era
disgustata da quell’uomo, ma niente traspariva all’esterno.
“Ma, signor Weasley..” “Mi
ami pure Ron” Rita sbattè gli occhi affettatamente. “Mi scusi?” L’uomo fece un
evidente sforzo per pronunciare chiaramente quelle parole. “Mi chiami pure Ron”
“Ah, capisco” rispose acidamente la donna.
“Allora, Ron, come mai
tutto solo la notte di Natale?”
“Eh, è una lunga storia.
Non so mica se posso raccontargliela, sa”
“Ma come non si fida di me?
Ci sono stati contrasti in passato, ma non sono più la donna in carriera di una
volta. Sono una signora assennata, adesso”
Ron la guardò. A lungo. Uno
sguardo liquido, da ubriaco. Poi sorrise. Diede una pacca familiare sulla gamba
della Skeeter, che la ritrasse appena.
“Ma sì che mi fido. E poi
oggi è Natale”
“Allora, mi racconta?”
Stan notò che la penna si
era rizzata sul taccuino. Fece per avvertire Ron, ma uno sguardo fulmineo della
donna bastò a zittirlo.
Ron annuì. “Vede, è che
Harry era scomparso, no? Lo sa anche lei. Noi non sapevamo dove era andato,
perchè poi aveva spedito una lettera a Herm e non si capiva niente perchè
sembrava tutto matto, no? Poi lo abbiamo ritrovato ed era posseduto dai morti,
capisce? Però non è che va bene che uno prende e sparisce così per i morti di
Voldemort e poi pretende che gli amici sono tutti contenti ad aspettarlo”
La Skeeter si raddrizzò gli
occhiali e posò una mano inanellata su una di Ron. Gli sorrise suadente. “Me ne
parli, Ron..”
“Ci mancava mio fratello”.
Ginny era decisamente spazientita. Harry si era rinchiuso nella stanza dove una
volta Sirius teneva l’ippogrifo Fierobecco, lui solo con il padrino, e non
permetteva a nessuno di entrare. Hermione aveva avuto una mezza crisi isterica
perchè credeva che Ron se ne fosse andato per colpa di un litigio che aveva
avuto con lei nel bagno. Si rifiutava di spiegare di cosa avessero parlato. Fred
e George facevano comunella e tagliavano tutti fuori dal loro mondo gemellare,
senza preoccuparsi di cosa stava accadendo. Ed era rimasta Ginny, a prendersi
cura di Sirius junior che, ovviamente inconsapevole del crollo intorno a lui,
insisteva per giocare a memory. E Ron era scomparso. Che cercasse di emulare
Harry?
Un gufo picchiettò sulla
finestra, battendo le ali impaziente.
Ginny andò ad aprire, e lo
pagò quando vide che si trattava della consegna quotidiana della Gazzetta del
profeta. Appena guardò la prima pagina inspirò bruscamente e si lasciò sfuggire
un’imprecazione. Sirius la riprese: “Mamma! Non si dicono le parolacce!”
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Capitolo 14 *** Punto di rottura ***
CAPITOLO 14
CAPITOLO 14
PUNTO DI ROTTURA
Ridevano. Erano dietro la
porta, che ridevano. Due uomini. Per assurdo, avevano la stessa età. Ci era
voluta la morte per renderli davvero uguali. Forse in quel modo Sirius era
riuscito davvero ad avere James. Ma Harry era cambiato molto negli ultimi anni.
No davvero, non poteva somigliare a James. Si sentì toccare la vita. Hermione
chinò la testa e vide Sirius junior accanto a sè che la guardava tutto
trafelato. Stupidamente si preoccupò se il bambino aveva capito che stava
origliando alla porta. “Zia, mamma ti vuole di là. In cameretta mia”
Hermione annuì. Il bambino
le fece strada fino alla sua stanza tenendola per mano. Iniziava a rendersi
conto che qualcosa decisamente non andava. Rimase fuori della porta, ed Hermione
la richiuse dietro di sè senza curarsene.
Ginny era accasciata
accanto alla finestra, rossa in viso e livida di rabbia. Erano emozioni molto
forti.Troppo forti.
“Herm, vieni un po’ qui”
L’amica le si sedette
accanto. Era ancora stordita dalla crisi isterica di poco prima, e Ginny,
rendendosene conto, si irritò ulteriormente. Irrazionalmente, certo, ma comunque
la sua irritazione aumentò. “Guarda qua” le gettò in grembo il giornale.
Un articolo di Rita Skeeter,
in prima pagina. Un’intervista, per la precisione. Una foto di Ron,
evidentemente ubriaco, spalla a spalla con il fantasma di Stan Picchetto. E
tante, tante volte il nome di Harry Potter.
Hermione lesse, mentre
accanto a lei Ginny scivolava ad occhi chiusi lungo la parete.
“Ecco come ha festeggiato
il Natale, l’idiota” commentò Ginny. “Ci ha messo nella merda. Harry sicuramente
sarà indiziato per l’assassinio del babbano e di quell’altro tizio, quel Connor.
E dovremo rendere conto della sua posizione presso il Ministero, e del suo ruolo
nella guerra contro Voldemort. E della sua scomparsa. E dei morti viventi. E dei
suoi rapporti con Voldemort. E forse anche dei Doni della morte. Fantastico
vero?”
Ginny si voltò verso
Hermione. La donna era pallida. Troppo pallida. Hermione non era mai stata forte
come lei. Non era mai stata capace di convertire tutti i sentimenti negativi in
rabbia, rendendole possibile sfogarsi. Hermione aveva sempre avuto un’emotività
estremamente volubile e suscettibile. Ecco perchè stava per avere un’altra crisi
isterica. In quegli ultimi anni era diventata sempre più debole. Come l’amore
intenso per Ron l’aveva tenuta in pedi, allo stesso modo non aveva fatto che
infliggerle nuovi colpi.
Ginny le si inginocchiò
davanti, tentando di calmarla.
Si risvegliò in un vicolo
puzzolente di vomito. Il suo vomito. L’unica cosa che gli era ben chiara era
quella strana sensazione allo stomaco, come di un fagotto bagnato e
stropicciato. Non sapeva come fosse finito lì. Non ricordava nulla. Chiese
all’orologio che giorno fosse e quello cinguettò 25 dicembre, Ron. Buon
Natale. 25 dicembre? E come mai non ricordava niente della vigilia? Si era
ubriacato insieme a Harry? E perchè mai avrebbe dovuto abbandonarlo lì? Ah, no.
Harry era sparito. Ah, no. Harry era tornato. L’ultima cosa che si ricordava
della sera prima era Melinda con dell’idromele in mano e un’espressione contrita
sulla faccia. Ah, no, ricordava anche dei pensieri indecenti su Rosmerta e poi,
Stan Picchetto. Bhè, no, Stan Picchetto se lo doveva essere sognato. Ah, no. Non
se l’era sognato. C’era lì sul giornale accanto a lui una foto con loro due
abbracciati insieme...
Rendendosi improvvisamente
conto di cosa ciò volesse dire Ron si rizzò in piedi. Ebbe un capogiro e dovette
appoggiarsi al muretto muffito alle sue spalle. Esaminò il giornale. Era la
copia di quello stesso giorno. Lo stomaco si torse ancora di più nel leggere
l’intervista che Rita Skeeter gli aveva fatto. Un foglietto cadde nell’umido
della stradina. Ron lo raccolse.
Tante grazie.
c’era scritto. E sotto, una firma svolazzante e
affettata:
Rita Skeeter
---
L’intervista
Come mai, signor Ronald Weasley, si trova
ubriaco per le strade di Hogsmeade?
Perchè, eh, sa, è buffo, perchè mi sono
incazzato col mio migliore amico: Harry Potter. E poi ci si è messa pure mia
moglie e ci ho litigato. E quindi sono uscito. Ma non volevo ubriacarmi. Mi ci
sono trovato, ecco.
Cosa l’ha portata all’alterco con Harry Potter e
sua moglie Hermione Granger?
E’ che Harry era scomparso, vede? Io lo cercavo
col deluminatore, questo qui vede? Me lo ha passato Silente quando è morto.
Infatti lui sapeva che mi sarebbe servito. Perchè infatti quando me ne sono
andato con questo ho potuto tornare. Era proprio intelligente Silente. Aveva
previsto proprio tutto. Infatti aveva deciso lui di essere ucciso da Piton, non
è stata colpa di Piton. E quindi, sì, sì, ora ci arrivo. Io l’ho cercato, col
deluminatore, che serve ad arrivare alle persone, no? E l’ho trovato ma era
strano, e anche se era lui, nel suo corpo c’era un altro. Tipo un fricchettone.
E poi quando siamo andati tutti insieme a cercarlo di nuovo era così ma con un
altro. Quando siamo tornati a casa Harry ci ha detto che sia per la pietra della
resurrezione sia per la cicatrice i maghi e i babbani uccisi per colpa di
Voldemort se volevano potevano possederlo per tornare in vita per un po’.
Come hanno funzionato questa pietra e la
cicatrice? Ce lo sa spiegare?
Sì. Praticamente la cicatrice, che sempre ha
messo un legame tra Harry e Voldemort perchè gliel’ha fatta lui quando ha
cercato di ucciderlo che Harry aveva un anno, ha attirato quelli che erano morti
per colpa di Voldemort. Poi con la pietra della resurrezione Harry li ha
riportati in vita attraverso il suo corpo invece che al solito modo con la
pietra della resurrezione, che sennò i morti li fa tipo ombre.
La pietra della resurrezione non sarà mica uno
dei doni della morte?
Proprio così! Ammazza, li conosce? Harry aveva
pure gli altri due, ma la bacchetta non ce l’ha più perchè la data tipo a
Silente, mi pare, ma non sono sicuro perchè mi pare che ha fatto così ma non mi
sono mai fatto spiegare proprio bene. Nella tomba, mi pare. Nella tomba di
Silente. Il mantello dell’invisibilità ce l’ha ancora, da quando ha undici anni
che glielo ha portato Silente. E pure la pietra. Con la pietra infatti credo che
riesce a parlare con la mamma e il papà morti, anche se non ce l’ha mai detto.
Ma, esattamente, che genere di legame istituisce
la cicatrice tra Harry Potter e Colui-che-non-deve-essere-nominato?
Non si è mai capito. Anzi, no che dico! Harry
era uno degli Horcrux di Voldemort. Quindi aveva un pezzetto di anima di
Voldemort dentro, ecco perchè sentiva le voci e sapeva sempre tutto di lui, ma
non era posseduto eh? Ecco perchè quella volta nella Foresta Proibita si è fatto
ammazzare. Così Voldemort ammazzava pure il pezzetto di anima.
Harry Potter è stato ucciso? E’ questo il motivo
della sua scomparsa?
(Weasley ride) Ma no, che non è questo! E’
successo ai tempi della battaglia di Hogwarts, quando Harry ha ucciso Voldemort!
Non lo sa? Quando avevamo diciassette anni!
Ma capisco il suo stupore -dovrebbe vedere la
sua faccia (ride ancora), signora-. Neanche io lo sapevo prima di oggi
pomeriggio! Non ce lo aveva mai detto.
Harry Potter è resuscitato? Mi sembra un po’
improbabile!
Invece è successo, guardi un po’.
(L’intervistato ride in modo incontenibile e siamo costretti a interrompere
momentaneamente la seduta) Grazie per l’acqua. Comunque, dicevo, Harry ci ha
spiegato che con la pietra della resurrezione ha chiamato i suoi genitori e lo
hanno accompagnato da Voldemort. Poi Voldemort lo ha ucciso e Harry si è
ritrovato alla stazione di King’s cross. Ma non era la vera stazione era solo
nella sua testa. Tipo anticamera dell’aldilà. E lì ci ha incontrato Silente, che
era già morto, ecco perchè, ci ha parlato, e ha capito tutto. Poi è tornato in
vita e ha ucciso Voldemort. Non è possibile però è così, che ci vuole fare?
E per tutto questo tempo Harry Potter ha
ospitato nel suo corpo dei defunti? Per questo motivo è scomparso?
Proprio così.
Vuole raccontarmi qualcos’altro che l’ha
turbata, signor Weasley?
No, sì. Mio fratello e Sirius Black e anche Stan
Picchetto sono tornati così. E non si sa come. Adesso Fred e Sirius stanno a
casa di Harry. Harry era tanto contento quando ha visto Sirius. Era il suo
padrino sa? Si volevano molto bene.
Signori lettori, spero di aver fornito un
resoconto esauriente della situazione, e limiterò i miei commenti per riguardo
alla vostra intelligenza, che senz’altro salterà da sola alle conclusioni
opportune. Harry Potter è stato in giovane età posseduto dall’anima di
Voi-sapete-chi. Sappiamo fino a che punto l’influenza del noto mago si sia
spinta? Inoltre, in tempi recenti, dopo aver mostrato svariati segni di
instabilità, come sono riuscita a dedurre da una serie di farfugliamenti confusi
del signor Ronald Weasley, si è prestato alla possessione di defunti maghi e
babbani. Che siano attribuibili a lui i due omicidi di ignota attribuzione, ma
sicuramente riconducibili alla stessa bacchetta, di cui molto si è parlato negli
ultimi giorni? A voi il giudizio finale.
---
Ginny bussò. Le voci si
interruppero. Aprì al porta. “Bisogna fare qualcosa” disse a Harry sbattendogli
bruscamente il giornale sulle gambe. Aveva quel tono di voce calmo che lo
inquietava tanto.
Harry lesse.
“Hermione dov’è?” “George se ne sta
prendendo cura. Si è sentita male.”
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Capitolo 15 *** Emily e Susy ***
CAPITOLO 15
CAPITOLO 15
EMILY E SUSY
Ron si alzò, malfermo sulle
gambe. I vestiti gli si appiccicavano addosso, impiastrati com’erano di fango,
pioggia, rifiuti e vomito. Ron si disgustò da solo, osservando le sue condizioni
in un pezzo di specchio per terra. Poi successe. Appiccò il fuoco a delle
cartacce. Si affrettò a spegnerle calpestandole, sforzandosi di non perdere
l’equilibrio. Dannati postumi. E quel mal di testa fischiante.. che non gli
permetteva di riflettere con completa lucidità.
A volte succedeva. Ecco
perchè i maghi alcolizzati o tossicodipendenti venivano forzatamente isolati
dalla comunità, magica o babbana che fosse: perdevano il controllo dei propri
poteri. Quello era solo l’inizio. Se non avesse cominciato a darsi una regolata,
da allora in poi, si sarebbe seriamente cacciato nei guai. Non voleva certo
finire in quei centri di disintossicazione troppo bianchi e con quel sentore di
vomito indelebile dalla facciata. Gli tremarono le mani. No, per quel giorno la
bacchetta sarebbe rimasta al sicuro in tasca. Si chinò per raccoglierla da un
mucchietto di immondizia in cui era caduta, ma appena la strinse tra le dita,
decine di scintille colorate caddero a pioggia per tutta la lunghezza del
vicolo.
“Che bello! Fallo ancora!”
Ron gelò. Qualcuno lo aveva
visto. Strizzò gli occhi per snebbiare la vista. Una bambina e una giovane donna
forse ancora adolescente lo fissavano dall’imboccatura sulla strada principale.
Quella era Londra. E quelli erano babbani.
La bambina era entusiasta.
Sorrideva speranzosa che l’uomo ripetesse lo spettacolino. La ragazza era
atterrita e stringeva forte contro di sè la bambina. Fissava quello strano uomo
dai capelli rossi, la bocca serrata e gli occhi spalancati. In un altro momento
Ron non si sarebbe fatto molti problemi a far dimenticare alle due ciò che
avevano visto con un incantesimo. Ma era troppo pericoloso. Non aveva il
controllo della sua magia, e poteva accadere qualunque cosa. Non sapeva che
fare. Fece qualche passo in avanti, e la ragazza indietreggiò. Improvvisamente,
agli occhi di Ron, il mondo ondeggiò paurosamente, e cadde. Si accasciò contro
il muro. Le due babbane lo osservavano, la ragazza inquieta ma non più
spaventata, la bambina decisamente meno entusiasmata.
Poi la ragazza parlò: “Hai
delle armi?”
Ron scosse la testa, ancora
stordito. Non gli era mai successo di subire un’umiliazione del genere, ma
nemmeno se ne rendeva pienamente conto. In quel momento più che vergognarsi era
dominato dal pensiero di essere stato visto compiere una magia. Se qualcuno lo
avesse scoperto, o sarebbe stato denunciato, o internato da qualche parte.
Scosse la testa e alzò le mani, per quanto gli fu possibile, per dimostrare di
essere inoffensivo. La ragazza sussurrò qualcosa alla bambina e gli si avvicinò.
Tastò circospetta quel corpo lurido, in cerca della dimostrazione di una
menzogna. Non trovò niente di pericoloso. Si pulì i palmi delle mani sui jeans.
“Mi chiamo Emily” gli disse con un sorriso rassicurante. Ron notò il tono
condiscendente, come si usa con chi non può capire. Non ne fu infastidito. Era
troppo confuso.
“Sono Ronald”. Continuava a
tenere le mani alzate. La ragazza non glielo fece presente. Era pur sempre un
uomo piuttosto nerboruto.
“Bene Ronald. Mi sembra che
tu abbia bisogno di aiuto, o mi sbaglio?”
Ron ragionò. Se rimaneva
con quelle due finchè non si fosse ripreso, avrebbe potuto averle a portata di
bacchetta non appena si fosse presentata l’occasione di incantarle.
Emily dovette notare
qualcosa nel suo sguardo, perchè il suo viso si indurì. Ron scoppiò a piangere.
La ragazza lo aiutò a sostenersi, e insieme si avviarono per le strade babbane
di Londra, sotto gli sguardi scandalizzati di decine di babbani.
Ron non si accorse che la
bambina aveva raccolto la Gazzetta del profeta da terra, nè che osservava
affascinata la foto mobile di lui e Stan Picchetto ubriachi.
Emily condusse Ron fino ad
un palazzo giallo e basso, con l’insegna della caritas che spiccava sulla
facciata. Gli indicò i bagni e gli diede il necessario per ripulirsi e
cambiarsi. Abiti babbani, da babbani poveri. Ron riemerse dal bagno finalmente
senza più emanare odore acido. Era pulito, anche se il malessere dei postumi non
lo abbandonava ancora. In ogni caso aveva riconquistato la limpidezza mentale,
anche se per quel giorno non sarebbe stato dotato di particolare estro.
Emily gli diede un caffè e
gli offrì da mangiare, ricevendo un diniego in risposta, come ovviamente si
aspettava. Alcuni volontari si aggiravano per la mensa, preparandosi per il
pranzo. Arrivò anche uno sparuto gruppetto di scout che si distribuì
ridacchiando tra le varie postazioni. La caritas avrebbe aperto alle 12 e 30.
avevano ancora un’oretta di tempo.
“Si sente meglio Ronald?”
chiese gentilmente Emily. Accanto a lei teneva piegati un grembiule e dei
guanti, e poi una cuffietta trasparente.
“Sto meglio, sì” annuì
l’uomo, tenendo per sè il mal di testa che stava per fargli implodere gli occhi
e la forte tentazione di strapparsi lo stomaco febbricitante con le sue stesse
mani.
“Sono una volontaria della
caritas, come avrà intuito. Se non le dispiace le chiederò i suoi dati e le farò
qualche domanda, per poterle poi dare assistenza. In caso lei si rifiutasse,
sono costretta a salutarla”
Il cuore di Ron cominciò a
battere più forte.
Le labbra di Emily, con il
loro sorriso angelico, erano fermamente rivolte nella sua direzione. La ragazza
aveva sottili capelli neri che le arrivavano poco sotto le spalle, e occhi di un
colore poco definito tra il grigio e il verde, con le punte esterne rivolte
verso il basso. Aveva un colorito pallido che spiccava contro il colore scuro
dei capelli, disordinati intorno al viso piccolo.
“Emily, posso anche
parlarle di me, ma non ho documenti per dimostrare quel che dico”
Il sorriso non venne
turbato, ma qualcosa nella posa delle mani giunte fece intuire a Ron che la
situazione non piaceva affatto alla ragazza.
“Vedremo quel che possiamo
fare, intanto lei cerchi di parlare in tutta sincerità”
Ron si sentì molto adulto.
Una morsa gli prese il cuore al pensiero di dover mentire a quella giovane
dall’aspetto tanto ingenuo e buono.
“Sono Ronald Connor,
irlandese. Sono venuto qui da alcuni amici quando ho perso il lavoro. Li sto
cercando da due settimane, sono stato derubato del mio bagaglio e mi sono
rimasti pochi spiccioli”
“Per ora sapere questo è
sufficiente. Il fatto che lei non possa provare di avere il permesso di
soggiorno è un bel problema, ma vedremo quel che possiamo fare. Rintracciare i
suoi amici in ogni caso è la prima cosa da fare. Anzi, la seconda”
Gli occhi pastello della
giovane brillarono. “E la prima cosa quale sarebbe?”
“Venga con me” Si alzò e
gli tese la mano diafana. Ron la guardò un attimo, troppo stordito per stupirsi
davvero e la seguì.
Si ritrovarono in una
stanza con molti letti. Il dormitorio. La stanza aveva un’atmosfera plumbea e
neutra. Dalle finestre si avvistava il colore delle strade.
“Può spiegarmi questo?” La
ragazza sfilò dai pantaloni un giornale arrotolato. La gazzetta del profeta.
“Non credo” “E quindi nemmeno quel che è avvenuto in quel vicolo. Cos’era,
l’avanguardia dei fuochi d’artificio? Poteva tenerseli per qualche altro giorno
fino a capodanno..” “Nemmeno” confermò Ron. Era terrorizzato.
“Ho preso questa dai suoi
abiti. Cos’è?”
Emily aveva in mano la
bacchetta magica di Ron. In quel momento sopraggiunse la bambina. Si aggrappò ad
Emily scrutando un po’ Ron un po’ il pezzo di legno che la giovane donna
sventolava impaziente. “So che ha usato questa per quel giochetto di prima. Ma
la prego di non giocare con me, signor Weasley”
Emily carezzò la testa
bruna e appuntita della bambina al suo fianco. “Susy, saluta il signore” “Ciao
signore” borbottò la piccola. Poteva avere undici anni, ma si comportava come se
ne avesse un po’ di meno. Aveva un’espressione straordinariamente smarrita e
vaga.
“Signorina Emily, la prego”
“La prego cosa? Comprenderà
che la cosa ha sconvolto me e mia figlia”
Ron strabuzzò gli occhi.
“Sua figlia? Ma quanti anni ha Emily?” “Io ne ho venticinque, e mia figlia
dieci. Ma questa non è una questione che la riguarda. Adesso le farò una domanda
che le potrà anche sembrare folle. Lei è un mago o qualcosa del genere?” chiese
in tono improvvisamente avido, ma anche straordinariamente infantile.
Che altra scelta poteva
avere? “Lo sono. E adesso che ha intenzione di fare?” Ron era improvvisamente
stanco. Emily gli lanciò la bacchetta. “Ci faccia vedere quel che sa fare,
Ronald Weasley” Ron la prese d’istinto, pentendosene immediatamente dopo. Vino
bianco cominciò a sgorgare dalla punta della bacchetta. Possibile che ancora non
si fosse ripreso? Possibile che fosse arrivato a un punto in cui era necessaria
la riabilitazione? Di solito a quell’ora era già in grado di trasfigurare
piccoli animali.
Provò a fermare la perdita.
La fermò, ma in compenso fece diventare le pareti arancioni, e poi verdi, e poi
viola e poi... fece cadere la bacchetta a terra, troppo spaventato. Emily
aggrottò le sopracciglia. “Che cos’era tutto questo? Sta cercando di ingannarci,
forse?”
“No” rispose Ron fremendo.
Era sul punto di scoppiare a piangere. Come un bambino. Come il bambino che non
era più. I bambini non si ubriacano il venerdì sera. I bambini non fanno sesso
con delle sconosciute. I bambini non insultano la moglie. I bambini non amano
con disperazione.
“Io.. per ora non sono in
grado di usarla.”
Emily lo guardò dritto in
faccia. Ron non osò farlo a sua volta. Quella ragazza lo intimidiva. Lo metteva
dritto di fronte alla sua vergogna.
“Allora portami da qualcuno
che può”
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