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Come promesso e minacciato,
sono tornata a scrivere della Terra di Mezzo e dei suoi splendidi personaggi.
Mi ripeterò, ma eccomi qui, umile e devota ammiratrice del Professore, che ha sempre avuto la
brutta abitudine di far morire i miei personaggi preferiti – cosa per cui sono
qui, a scrivere di loro.
Prima di tutto vorrei dirvi
che non è necessario aver letto prima Betulla,
ma consiglierei comunque a tutti di farlo, perché alcuni personaggi e
avvenimenti narrati in Pietra sono
direttamente legati a quella; ma ho cercato di essere esaustiva e chiara anche
per coloro che non hanno letto la precedente fan fiction e che non ne hanno
intenzione.
Ad ogni modo, sono
disponibile per chiarimenti.
Come avevo
fatto per Betulla, mi sono riletta
libri, Appendici e contro-Appendici, scritta date e nomi per non fare disastri,
e così via. Lo spunto per questa storia è nato da quel poco che il Professore
scrive di Gondor dopo la Guerra dell’Anello, e dal profondo amore che ho sempre
nutrito per Thorin Scudodiquercia. Ho fatto due più due, ed è nata questa
cosa.
Ri-citandomi, spero di non fare un completo disastro.
A fine
capitolo troverete ulteriori spiegazioni a domande che, sicuramente, vi
sorgeranno spontanee.
Ultima cosa,
ma non meno importante: gli aggiornamenti. Ho scritto i primi cinque capitoli,
che devo rivedere per bene e capire se posso o meno tagliare, aggiungere,
modificare, e sono parecchio lunghi, come il primo. Spero di mantenere un buon
ritmo di un capitolo ogni due settimane. Ma come per Betulla, state pur certi che la finirò. :)
Buona
lettura!
01.
15 Marzo 3019 T. E.
C’era un caldo pazzesco, quel giorno. Il
sole era tramontato da un paio d’ore e le tenebre stavano ricoprendo Erebor,
illuminata solo dagli incendi e dalle fiaccole degli eserciti combattenti. Il
manipolo di Esterling era instancabile e continuava ad attaccare regolarmente
le schiere difensive della città dei Nani; tutti i bambini e le donne di Dale
erano stati fatti rifugiare all’interno della Montagna Solitaria, e i suoni
della battaglia giungevano ovattati e terribili alle loro orecchie; avevano
fatto in tempo a scappare grazie alla presenza del fiume ben controllato, e
fino a quel momento invalicabile; gli Esterling avevano tentato prima con
catapulte rudimentali ma efficaci, abbattendo alcune torri di vedetta; poi si
erano fatti avanti gli arcieri, posizionati su una collina non poco distante
dalla riva, lanciando una pioggia di dardi infiammati sulla città. L’incubo del
fuoco tornò a tormentare gli abitanti dopo qualche centinaio di anni, memoria
di un Drago che aveva ridotto in cenere metà degli edifici e ucciso altrettanti
cittadini. La battaglia si era poi spostata ai piedi di Erebor, i giganti Nani
di pietra che vigilavano sugli eserciti e parevano un monito contro chiunque
osasse profanare quella casa.
C’era un caldo pazzesco, eppure molti
degli Uomini tremavano per la paura, gocce fredde di sudore che bagnavano il
viso e la schiena. Gran parte di quell’esercito non era formato da milizie
addestrate, ma da pescatori e mercanti che brandivano zappe e archi, piuttosto
che spade e scudi. Eppure il loro re, coraggioso come i suoi predecessori e non
meno valoroso, continuava ad incitarli per non perdersi nella disperazione.
Molti sarebbero morti, quel giorno, ma sarebbero usciti vittoriosi se nessuno
di loro avesse mollato.
I Nani che combattevano al fianco degli
Uomini, d’altra parte, avevano i piedi ben saldi al terreno, stringendo asce e
i denti in attesa che il Nemico si facesse sotto nello scontro corpo a corpo.
Non avrebbero mai creduto che la mano di Sauron si sarebbe estesa fin sopra il
profondo Nord, ma notizie inquietanti provenienti da Sud raccontavano della
presenza del Male, tornata ad infestare la vecchia roccaforte di Dol Guldur.
Avevano, quindi, avuto il tempo di armarsi e preparare il comitato di benvenuto
alle porte della loro città, per evitare che il Nemico osasse anche solo mettere
gli occhi sulla loro Erebor.
Thorin Scudodiquercia, questo, non lo
avrebbe mai permesso, finché il sangue di Durin gli fosse scorso nelle vene.
«Non riusciremo a resistere per molto.»
disse Brand, asciugandosi la fronte con la manica della camicia che fuoriusciva
dall’armatura. «Loro sono troppi e ben armati; noi siamo pochi e già sfiniti!»
«Parla per te, Uomo!» esclamò Dwalin,
sputando per terra. «Quei maledetti non lasceranno il campo di battaglia vivi,
finché i Nani saranno in piedi. E ti assicuro che siamo solidi quanto le rocce
di questa montagna!»
Brand sembrò rilassarsi a quelle parole,
ma gli ennesimi canti di guerra del Nemico e il suono dei tamburi gli fecero
tremare le vene ai polsi.
«Che cantino pure!» esclamò Fili, nipote
del Re dei Nani. «Voglio vedere come canteranno di dolore appena li trafiggerò
con le mie lame!»
Il fratello, armato di arco, mirò
all’Uomo nero che batteva ritmicamente un pezzo di legno contro la percussione.
I canti s’interruppero bruscamente, quando quello cadde a terra senza vita, con
una freccia in gola.
«Ora non cantano più!» fece Kili, con un
ghigno.
«Bel lavoro, scellerato.» lo rimbeccò lo
zio, quando vide l’esercito nemico avanzare con più forza e rabbia di prima.
«Ce li troveremo addosso in un istante, ora. Serrate i ranghi e preparatevi
allo scontro!» concluse Thorin, gridando gli ordini ai suoi Nani e agli Uomini.
«Arcieri in prima fila, presto!»
aggiunse Brand.
La nuova ondata si abbatté su di loro
qualche minuto più tardi, e continuarono a combattere fino al sorgere del sole,
quando gli Esterling si ritirarono verso i loro accampamenti, aspettando il
momento più opportuno per attaccare nuovamente.
La battaglia proseguì per i successivi
due giorni; Uomini e Nani erano esausti e, nonostante le parole di
incoraggiamento, non riuscivano a vederne la fine. Gli Esterling sembravano
moltiplicarsi giorno dopo giorno, quando nuovi arrivi rimpiazzavano i caduti;
loro, invece, diminuivano a vista d’occhio, e nessuno giungeva in loro aiuto.
Gli Elfi Silvani avevano i loro grattacapi da risolvere; e comunque Thorin non
sperava certo che Thranduil decidesse di sacrificare la sua gente per salvarli
– non lo aveva fatto in passato, non vedeva come avrebbe potuto farlo ora.
L’alleanza arretrò visibilmente, e fu allora
che il Re degli Uomini cadde, trafitto al petto da una spada nemica. Thorin
gridò il suo nome, lanciandosi contro l’assassino e uccidendolo con la sua
furia rabbiosa. Si voltò verso il cadavere dell’Uomo e si chinò per sincerarsi
che fosse ancora vivo. Ma ormai non vi era più aria nei suoi polmoni, ma solo
sangue.
«Zio, presto! Dobbiamo rifugiarci nella
montagna!» gridò Kili, cercando di ridestare il Re.
Ma Thorin non voleva muoversi dal suo
posto. Si alzò per fronteggiare le orde di Esterling che avanzavano verso di
lui, perché non avrebbe permesso che il Nemico si facesse beffe del corpo
straziato del capo degli Uomini, che tanto valorosamente aveva combattuto al
suo fianco e dato segno di una profonda amicizia.
«Zio, per Durin! Ordina la ritirata!»
Thorin strinse l’ascia in una mano e la
sua spada Orcrist nell’altra,
digrignando i denti. «Non mi nasconderò come un codardo, e nessuno di noi lo
farà!»
Kili e Fili si scambiarono un’occhiata
perplessa e preoccupata, ma non osarono ribattere al volere del Re. Conoscevano
bene loro zio e sapevano anche che il suo orgoglio era ben più grande del
tesoro di Erebor. Gli si affiancarono, dunque, e combatterono insieme per
difendere la loro casa e il corpo di Brand.
Ma anch’essi, dopo poco tempo, vennero
sopraffatti dalla forza nemica, e i due fratelli non videro in tempo che Thorin
fosse caduto sulle ginocchia, gravemente ferito al fianco. La collera e la
paura che potesse morire li colse, come tanti anni fa durante la Battaglia dei
Cinque Eserciti, e troppo preoccupati per la sua sorte non si accorsero dei due
Uomini neri che erano pronti ad uccidere anche loro.
Thorin tentò di metterli in guardia, ma si
sentì improvvisamente debole e nessun suono fuoriuscì dalle sue labbra. Riuscì
a malapena a vedere la figura sfuocata di un Nano – o presunto tale – che si
frapponeva tra loro e gli Uomini dell’Est. Lo vide agitare la sua ascia con
vigore, finché non decapitò i nemici e si voltò verso di lui. Scorse solo i
contorni di un volto insanguinato, poi il buio.
Il comando fu preso dall’anziano e
saggio Balin, che ordinò a Nani e Uomini di rifugiarsi dietro le porte di
Erebor. L’assedio durò per altri dieci, infiniti e sfiancanti giorni, fin
quando le voci della sconfitta di Sauron iniziarono a circolare tra gli Esterling;
furono momenti di agonia, in cui Nani e Uomini sprecarono tutte le loro energie
per difendere l’unica entrata che li separava dalla morte. Nessuno, al di fuori
dei legittimi proprietari e dei loro alleati, riuscì a varcare le porte di
Erebor. Fu così che, vedendo l’esercito dell’Est entrare nel panico e nella
disperazione, i Nani e gli Uomini fecero l’ultimo sforzo, uscirono dai confini
della montagna e spazzarono via gli ultimi residui del Nemico, che scappò verso
le proprie terre.
Thorin, reggendosi con un braccio sulle
spalle dei nipoti, camminò sotto la luce dell’alba e guardò la desolazione
della valle ai piedi della montagna. L’odore acre della battaglia, intrisa di
fumi e del ferro del sangue, quasi lo nauseò. Quanti coraggiosi soldati erano
morti, mentre lui poteva ancora camminare sulle sue gambe, anche se ancora
malferme! Vide i volti di giovani ragazzi con gli occhi spalancati dal terrore
della morte, teste tagliate e calpestate, lame spezzate. E si chiese se ci
sarebbe mai stata una fine a quegli orrori.
«Mio signore.»
Il Nano si voltò verso il figlio del
defunto Brand, Bard II, e il nuovo Re di Dale. Era provato profondamente da
quella battaglia, ma non vi erano gravi ferite fisiche. Il dolore che gli lesse
negli occhi, infatti, proveniva dal cuore, straziato dalla morte del padre.
Thorin spostò una mano dal braccio di Fili a quello del ragazzo, sull’orlo
delle lacrime. Bard cadde ai suoi piedi e pianse finché non ebbe più forze.
Pianse per la rabbia e la gioia contemporaneamente. Ma quanto avevano dovuto
sacrificare per quella vittoria!
«Fatti forza, ragazzo.» gli disse. «Tuo
padre fu un valoroso Uomo; mi aspetto che anche tu lo sia e renda onore al suo
nome. Sei un Re, ora.»
I giorni successivi trascorsero lenti;
tutti coloro che potevano ancora stare in piedi, furono costretti a lavorare
per sgomberare i cadaveri. Gli Esterling vennero impilati l’uno sull’altro, e
dati alle fiamme; centinaia di fosse, invece, furono scavate per gli Uomini e i
Nani di Dale, e i funerali vennero celebrati quando anche l’ultimo dei caduti
venne tumulato.
Thorin tenne un lungo discorso, che li
commosse tutti. Ma vi era ancora la forza dei Durin nelle sue parole e nel suo
sangue, e promise che insieme avrebbero ricostruito tutto ciò che era andato
distrutto. Poiché l’amicizia tra Nani e Uomini era più salda che mai, e si
sarebbero rialzati insieme dopo quella brutta caduta.
7 Aprile 3019 T. E.
Le cime dei colli innevati brillavano sotto il tenue sole
primaverile. Un vento fresco soffiava da nord, incanalandosi all’interno del
cerchio di rilievi e soffiando attraverso i corridoi della Capitale. L’esercito
del loro Re, Dáin II Piediferro, era appena rientrato in città, dopo i funerali
di Brand e le cerimonie di vittoria ad Erebor. Avevano combattuto valorosamente
al fianco dei loro cugini della Montagna Solitaria, ma purtroppo alcuni di essi
non avevano fatto ritorno sulle proprie salde gambe.
Le alte pareti in pietra della città erano state tempestivamente
tappezzate di decorazioni in ferro e oro, bassirilievi che raccontavano i
momenti salienti della battaglia – dall’assedio alla vittoria, e le numerose
torce sospese sulle loro teste riflettevano su di essi, creando incredibili
giochi di luce. La città dei Colli Ferrosi non era maestosa e luminosa come
Erebor, piuttosto era grigia e tetra per il ferro contenuto nelle montagne; ma
quel giorno era speciale, e persino Re Thorin avrebbe dovuto capitolare alla
maestosità di quel luogo. La grande rampa che girava in ampi cerchi concentrici
scendendo vertiginosamente fino alla grande piazza, e su cui si affacciavano le
gallerie delle abitazioni, le botteghe e gli ingressi alle miniere e alle
fucine, era affollatissima e chiassosa. Neanche durante i giorni di mercato e
di fiera c’era così tanta ressa.
Tra una gomitata e l’altra, una giovane tentò di farsi
spazio tra la calca di Nani accorsi per salutare i guerrieri e per piangere i
caduti. Il fratello minore, troppo piccolo per partire in guerra, le teneva
saldamente la mano, timoroso di perdersi tra tutta quella gente.
«Ancora un piccolo sforzo, Trión, siamo quasi arrivati.» gli
disse, rincuorandolo. Si affacciarono un attimo, per rendersi conto a che
altezza fossero e quando mancasse alla piazza dove si erano riuniti i soldati,
e videro che erano davvero vicini; ancora una decina di piedi e sarebbero
giunti. Gli occhi del piccolo nano si fecero grandi per l’emozione. Non vedeva
l’ora di riabbracciare il padre e i loro fratelli, che da troppo tempo non facevano
ritorno a casa. Ma Trán, la ragazza, aveva il brutto presentimento che non
avrebbe ritrovato tutti i membri della sua famiglia. Il suo pessimismo era
rinomato, tra i pochi che la conoscevano, e anche quando le possibilità che
qualcosa potesse andare storto erano veramente poche, lei riusciva a vedere
nero.
Quando finalmente superarono il muro di Nani, si guardò
frettolosamente intorno, nella speranza di riconoscere il viso di uno dei suoi
fratelli, o del padre. Vagabondarono per parecchi minuti, prima di intravvedere
il maggiore, Tarón, e gli saltò sulle spalle, mentre l’altro gli si era
attaccato ad una gamba.
«Piccole pesti! Finalmente ci ritroviamo!» esclamò il
soldato, abbracciandoli entrambi. «Káir, Káel! Venite qui!»
Gli altri due fratelli si unirono all’abbraccio di gruppo e
Trán si sentì così rincuorata di averli tutti lì, con lei, che pianse per la
gioia. Eppure, mancava ancora una persona per completare quel quadro di
felicità, qualcuno di ben più importante per tutti loro. Quando il padre si
fece avanti, Trán rimase senza parole per il dolore e il sollievo,
contemporaneamente. Il vecchio Nano apparì stanco e con vistose cicatrici
fresche sulle braccia e sul viso; ma ciò che le strinse la bocca dello stomaco
fu una benda nera che gli copriva l’occhio sinistro.
«Padre!» esclamarono i figli minori.
«Cosa ti è accaduto?» gli domandò Trán, accarezzandogli il
viso segnato dalla stanchezza e dai ricordi di guerra.
L’uomo sorrise, scuotendo il capo. «Niente, piccola mia. Ho
solo fatto il mio dovere.»
«Ha salvato la vita al Re di Erebor e ai suoi nipoti.» le
sussurrò Káir, fiero. «Ma non vuole che si venga a sapere.»
«Ma, padre! Sei un eroe di guerra, tutti devono saperlo! Verrai premiato per ciò che hai fatto!»
esclamò Trán, felice e stupita. I fratelli non poterono resistere alla
tentazione di sognare montagne d’oro come ricompensa.
Ma il padre scosse il capo. «No, non voglio ringraziamenti e
onori. Chiunque altro lo avrebbe fatto al mio posto, figli miei.» replicò lui.
«Ora andiamo a casa, sono affamato e fiacco.»
Tarón si rianimò al pensiero del cibo. «A proposito, cosa
c’è per cena?»
«Ho preparato una zuppa di ceci e carote.»
Il più piccolo storse il naso. «La cucina da quando siete
partiti, non ne posso più.»
«Beh, conosciamo tutti le inesistenti doti culinarie della
nostra sorellina; devi ringraziare di non essere morto di fame.» commentò Káel.
«A proposito, quanti maschi hai picchiato, mentre eravamo via?»
«Potresti essere il primo, se non la smetti.» fu la pungente
replica della gemella, che gli assestò un poderoso pugno su un braccio. Se non
fosse stato per l’armatura che ancora indossava, il giovane Nano si sarebbe
ritrovato con un altro livido violaceo.
Il fratello l’avvicinò con un braccio sulle spalle e la
baciò tra i capelli rossi. «Anche tu mi sei mancata. Non i tuoi gesti
d’affetto, però.»
Trán ridacchiò, abbracciandolo forte. Tra tutti loro, Káel
era quello che più le era mancato, e per un ovvia ragione: erano nati a
distanza di pochi minuti l’uno dall’altra ed erano coloro che si sostenevano a
vicenda, in ogni situazione. I Colli Ferrosi non avevano mai conosciuto una
coppia di amici più veri e sinceri dei due.
La ritrovata famiglia avviò lentamente verso la propria
abitazione. Si trovava piuttosto in alto, rispetto alla piazza centrale, su cui
invece troneggiava l’ingresso verso la residenza reale. Era una casa abbastanza
grande, scavata dalle abile mani del loro bis-nonno, e a discapito di quanto si
potesse dire sui Nani e la loro concezione di ordine, era pulita e spaziosa; il
motivo era piuttosto ovvio, se si guardava il loro albero genealogico: il
sangue Elfico che gli scorreva nelle vene, infatti, pur non essendo prevalente
da tre generazioni, aveva comunque lasciato il segno – anche nei rapporti con
il resto dei Nani.
La giovane non si sentiva così felice e leggera da quando le
notizie di quel lontano nemico erano giunte ad oscurare i loro animi. Si fermò
a guardare la sua famiglia, seduta intorno al tavolo della cucina, che
sorseggiava quella zuppa non troppo appetitosa, lasciandosi sfuggire un
luminoso sorriso.
Il resto divenne improvvisamente solo uno sbiadito ricordo.
8 Maggio 3019 T. E.
Vi erano notti in cui, quando chiudeva gli occhi e si
lasciava abbandonare tra le braccia del sonno, riviveva i momenti salienti della
giornata appena trascorsa: le riunioni con il Re e gli alleati, le discussioni
con i propri soldati, le decisioni quotidiane di un Sovrintendente e Signore di
una delle più belle città della Terra di Mezzo.
Vi erano notti in cui, invece, non sognava – o così gli
pareva la mattina seguente, poiché non ricordava neppure un frammento di
immagini. A volte sentiva solo la sensazione piacevole o meno di un sonno
tranquillo o agitato, ma niente che potesse aiutarlo a rammentare ciò che aveva
immaginato.
E infine vi erano notti come quelle, in cui ricordava
perfettamente cosa aveva sognato; notti in cui quegli stessi sogni parevano
talmente realistici da lasciarlo senza fiato, sudato e tremante per l’angoscia.
Poiché erano passati parecchi mesi dall’accaduto di Amon Hen, quando il germe
del Male che si era insinuato in lui aveva preso il sopravvento e lo aveva
portato ad aggredire Frodo, nel vano tentativo di impossessarsi dell’Unico
Anello; ma la sua mente e il cuore faticavano a lasciarsi alle spalle quel passato
che invece tornava a tormentarlo sovente.
Boromir osservò la volta a crociera in pietra di quella
stanza che non era la sua, e sospirò pesantemente. Neppure in quel periodo di
pace, giunto dopo tanta sofferenza e tante morti, il pensiero del Flagello di
Isildur lo lasciava in pace. Eppure non lo sorprendeva affatto: quella, del
resto, era la punizione che si era meritato per il suo deplorevole
comportamento. Rivivere quei momenti, la paura e la tentazione che quel piccolo
ed apparentemente insignificante oggetto gli aveva provocato, era il minimo che
potesse sopportare. Qualcuno glielo aveva anticipato, tempo addietro: “Non dimenticherai, ma convivrai con i sensi
di colpa, tanto che diverranno una scomoda abitudine. Non so se svaniranno una
volta che tutto sarà sistemato, se mai dovesse accadere, ma so solo che il
tempo non cancella, bensì cicatrizza. Una ferita può non dolerti più da anni,
ma le tracce rimangono e ti porteranno inesorabilmente a ricordare. Devi solo
trovare la forza di convivere con essi.”
Abbassò lo sguardo sulla figura minuta che gli dava le
spalle e dormiva accanto a lui, accovacciata in posizione fetale. Quella stessa
persona che lo aveva messo in guardia dai sensi di colpa quando ancora lui era
preda del terrore di quelle voci che continuavano ad annebbiargli la mente.
Boromir spostò il braccio che teneva sotto la testa, per andare a stringere la
donna che gli aveva ridato la vita – letteralmente e moralmente. Brethil si
mosse nel sonno, accovacciandosi istintivamente contro il suo petto, ma non si
svegliò. A differenza sua, dormiva sempre così profondamente da fare invidia.
Solo poche volte si era svegliata di soprassalto, rivivendo la morte di una
delle sue persone più importanti, colui che per lei era stato un secondo padre
e che il destino aveva voluto se ne andasse tra le sue braccia, davanti ai suoi
occhi traumatizzati. Era quasi tragicomico che entrambi soffrissero di incubi
come spauriti bambini dopo un racconto spaventoso prima di andare a dormire.
Boromir inspirò profondamente il suo profumo, e si chiese,
come spesso accadeva nelle ultime settimane, come avesse potuto trovare una
donna come lei, dopo ciò che aveva fatto. Poiché Brethil era stata un dono dei
Valar ed era capitata a lui, proprio a lui. Mai, in quarant’anni di vita spesa
a combattere e ad asciugare la sua spada dal sangue del Nemico, avrebbe pensato
di trovare qualcuno che potesse capirlo più della sua defunta madre o
addirittura di se stesso; né che avrebbe amato
qualcuno al di fuori della propria famiglia e dei suoi amici. Era sempre stato
il migliore nel combattimento, nelle strategie di guerra, nell’incoraggiare i
suoi uomini; ma non era mai stato bravo nel campo sentimentale. Cosa poteva
saperne dell’amore un Uomo le cui mani erano incallite dall’impugnatura della
spada e che passava più tempo a difendere la propria terra? Eppure eccolo lì,
ad imbucarsi ogni notte in quella stanza per ricercare il calore di
quell’abbraccio che parecchie volte lo aveva confortato. Parlavano a lungo in
quegli incontri fugaci, poiché durante il giorno non avevano molto tempo da
trascorrere insieme, privatamente. Del resto, lei era la Prima Guardia del Re,
e in quanto tale doveva stargli accanto in ogni momento della giornata.
Fece scivolare lo sguardo dalla donna alla finestra di fronte
e ciò che vide lo turbò e animò nel contempo. I Campi del Pelennor si
stagliavano a perdita d’occhio e in quella cornice di pietre che gli permetteva
di osservare il territorio vide i grandi cumuli tombali che, ormai, sorgevano
ogni poche centinaia di metri l’uno dall’altro, memorie della grande battaglia
combattuta solo qualche mese prima alle porte della città. Accanto ad essi,
tuttavia, l’agricoltura stava restituendo i frutti di quella terra martoriata e
innaffiata dal sangue di Uomini e Orchi, e il barlume di un futuro più roseo
gli scaldò il cuore. Stavano lavorando duramente, giorno dopo giorno, per
risollevare le perdite di Gondor, e quelli erano i primi, buoni risultati.
Sapeva che sarebbero passati altri numerosi mesi per cicatrizzare tutte le
ferite inferte dal Nemico, ma confidava nel suo Re e nei suoi Uomini; e
l’Ithilien, che era in mano del fratello e dei Raminghi, aiutati anche da
alcuni elfi di Bosco Atro tra cui Legolas, stava già riacquistando
quell’aspetto immacolato di un tempo, e addirittura più incantevole, che
Faramir tanto amava.
Minas Tirith, d’altro canto, era stata suturata dalle ferite
delle catapulte e del fuoco che aveva distrutto mura, edifici e tetti, e ora
appariva più bella che mai; per le strade erano udibili musiche e canti,
insieme al profumo dei fiori che impregnava l’aria ora pulita e non più
fuligginosa. Stendardi con l’Albero Bianco e la corona alata con le sette
stelle adornavano gli angoli della città, agitandosi placidi al vento
dell’Ovest, proveniente dalle montagne. Boromir non ricordava di aver mai visto
la sua patria così splendente e ricca di voglia di vivere.
Quando i primi raggi di sole penetrarono nella stanza,
l’Uomo capì che fosse giunta l’ora di tornare ai suoi alloggi e prepararsi per
la giornata.
Appena si mosse, Brethil si voltò verso di lui, gli occhi
grigi che lo osservavano assonnati. «È già ora di alzarsi?»
«Sì, Éomer e dama Éowyn partiranno tra poche ore.»
La donna si stropicciò le palpebre, sbadigliando e
stiracchiandosi. Si mise a sedere, guardando l’Uomo che recuperava la casacca
blu e la infilava sopra la maglia color panna.
«Ci vedremo tra poco a colazione. Verrai, sì?» Lei annuì, e
lui sorrise. «Molto bene. A dopo, dunque.»
Quando Boromir lasciò la stanza, dopo un fugace bacio sulle
labbra, Brethil lo seguì con lo sguardo dalla finestra, e sorrise. Fece
scivolare via il sonno sciacquandosi la faccia con acqua fredda e si svegliò di
colpo, sentendosi improvvisamente meglio. S’infilò la cotta di maglia che
teneva sotto la camicia, e poi la tonaca blu con i pantaloni. Ogni volta che si
mirava allo specchio così vestita, non poteva frenare il moto di fierezza che
provava nel servire il Re - Aragorn non avrebbe potuto farle regalo migliore.
Poi osservava i quattro profondi graffi cicatrizzati che le deturpavano il viso
e si ricordava che non tutto ciò che aveva fatto in passato fosse degno di
essere ricordato.
Legò in vita la cintura su cui pendeva la sua lhang,Celeboglinn, e fermò il
mantello sulla spalla sinistra, con la vecchia spilla a forma di stella,
memoria del suo passato di Dùnadan.
S’incamminò poi verso la mensa dei soldati, che si trovava al Terzo Cerchio
della città, dove era solita fermarsi per fare colazione. Non sarebbe mai
andata laggiù se non fosse stato per Aragorn. Era schiva come la Raminga di un
tempo, ma egli amava raggiungere i suoi uomini e discorrere con loro nella
tranquillità della mattinata, senza corone né titoli. E i soldati sembravano
gradire l’umiltà del loro nuovo Re, perché lo sentivano davvero parte di loro.
Incrociò il sovrano a pochi metri dall’ingresso del suo
alloggio, nel Quinto Livello, e Aragorn la salutò con un sorriso. «Dimmi, amica
mia, quante volte ti ho chiesto di lasciare da parte il tuo ruolo almeno
durante l’ora della colazione?»
«Hai ben detto, mi hai chiesto, e io non sono tenuta a
rispondere.» Brethil gli si affiancò e camminarono insieme, come ogni mattina.
«Il Re sta francamente diventando ripetitivo, mio signore.»
Aragorn si finse affranto. «Oh, dovrò porre rimedio, dunque.
Ebbene, in qualità di Re il mio diventa un ordine, e non una richiesta. Da
domani voglio che sia semplicemente Brethil, non la Prima Guardia Reale. Almeno
durante la colazione.»
La donna alzò gli occhi al cielo, lasciandosi sfuggire un
sorriso. «E sta anche diventando capriccioso, per giunta.»
«Potrei farti tagliare la lingua per questo, ne sei
consapevole?»
Si scambiarono un’occhiata divertita e proseguirono la loro
lenta discesa della città, in parte ancora addormentata, ma che si stava
risvegliando lentamente con i primi rumori di carri e mercanti che sistemavano
la merce sui banchetti stradali. Chiunque poteva riconoscere il Re in
quell’Uomo quasi anonimo, ed esso salutava chiunque ricambiasse il suo sguardo
con un rispettoso inchino del capo. Poiché era lui che doveva inginocchiarsi
davanti al suo popolo che così strenuamente aveva resistito agli attacchi del
Male, e non viceversa.
Alla mensa trovarono il Sovrintendente, Legolas e Gimli, che
discorrevano con i figli di Elrond, in procinto di partire con il Re di Rohan. Salutarono
i due nuovi arrivati con sorrisi ed inchini del capo, e Brethil prese posto tra
i gemelli.
«Buondì, thêl.»
fece Elladan, l’unico dei due che amava chiamarla sorella. «Dormito bene?»
Brethil spostò lo sguardo da Boromir, intento a parlare con
Aragorn, e si impose di non arrossire. Per quanto lei e l’Uomo non avessero
ancora consumato, il solo pensare che avessero speso insieme l’ennesima notte
la imbarazzava tremendamente. Soprattutto se Elrohir sorrideva sornione e si
divertiva a prendersi gioco di lei.
«Suvvia, amici miei, non tormentatela oltre.» s’intromise
Legolas, anch’esso divertito, eppure incuriosito dalla reazione della donna.
Per quanto avesse trattato con gli Uomini, in passato e nel presente, non si
sarebbe mai abituato alle loro emozioni. E trovava che quello strano fenomeno
per cui il viso diventava rosso per l’imbarazzo, o la rabbia, fosse altamente
adorabile.
Brethil riacquistò un poco della dignità di cui andava
fiera, e si rizzò sulla sedia. «Ti ringrazio per l’aiuto, mastro Elfo, ma
conosco parecchi modi per far smettere questi due. E sono tutti poco
ortodossi.» aggiunse, sfiorando l’elsa della sua spada.
I gemelli risero, e il sole parve illuminare la grande
stanza.
«E così l’allieva vuole superare i maestri?» domandò
Elladan, colpito da tanta audacia.
L’altro si alzò, una mano all’altezza del cuore. «Ebbene,
amica mia, ora non possiamo accontentare la tua sete di vendetta, poiché nostro
padre ci attende. Ma al nostro ritorno avremo modo di chiudere la faccenda.»
Gimli accese la pipa e sbuffò il fumo con entusiasmo. «Un
duello tra due Mezzelfi e la Ragazzina? Legolas, ricordami di svegliarmi per
tempo, quel giorno. Non voglio perdermelo assolutamente!»
La Dúnadan rise, ringraziando mentalmente il Nano per non
aver fatto commenti sessisti, come quelli che soleva udire in casi del genere.
Chiunque, infatti, avrebbe detto che il duello sarebbe stato impari.
Finirono la loro colazione continuando a chiacchierare e a
scherzare, come se i brutti momenti di qualche mese prima non fossero mai
esistiti. Ognuno di loro, finalmente, poteva godersi la meritata pace e le
liete giornate come quelle.
Poi il momento dei saluti giunse, e Brethil si ritrovò
avvolta in un alone di malinconia che le serrò il cuore.
«Ci rivedremo presto, thêl,
ne sono sicuro.»
«Staremo via solo per qualche tempo, poi faremo ritorno a
Minas Tirith. Non possiamo certo pensare di lasciarti!»
Brethil sospirò di sollievo. «La notizia mi rallegra,
davvero. Ma mi mancherete.»
Elrohir l’abbracciò e le diede un dolce bacio tra i capelli
corti e scuri. «Ci mancherai anche tu, ma sarà per poco. Promesso.»
Lei annuì e il viso si distese, sereno.
«Sai, fratello, sono felice.» confessò seriamente Elladan.
«Finalmente la nostra Brethil si è ricordata come si sorride.»
Brethil non si era mai resa conto di quanto difficile fosse
stato sorridere in quegli ultimi due anni della sua vita. Aveva persino temuto
di essersi dimenticata come fare. Ma gli avvenimenti funesti che l’avevano
debilitata, erano stati accompagnati anche da persone splendide come loro, lo
Hobbit e Boromir, cosicché era stato più facile risalire a galla da quel mare
di dolore e problemi che la stavano soffocando.
E non fu mai così felice di avere quella consapevolezza.
Quando Éomer e la sua scorta lasciarono la Città di Pietra,
Aragorn e Brethil si recarono al Primo Livello, per controllare che i lavori
alle mura proseguissero per il verso giusto; l’Elessar diede appuntamento al
suo Sovrintendente nella Sala del Trono, poiché importanti decisioni attendevano
l’attenzione del Re, e desiderava che anche lui fosse presente e lo
consigliasse.
Nel frattempo, Boromir rimase con Legolas e Gimli, che
osservavano gli Hobbit guardarsi intorno senza sapere esattamente come occupare
il loro tempo. Così, l’Uomo mantenne fede ad una promessa fatta a Frodo qualche
settimana prima, quando avevano discusso a lungo e avevano chiarito il loro
passato.
«Se voialtri vi state chiedendo cosa fare e dove andare,
potrei avere qualche risposta per voi. Da troppo tempo vi avevo promesso di
spendere del tempo con voi, ma gli impegni mi hanno tenuto lontano dal
piacere.»
Frodo gli sorrise grato, e Merry e Pipino gli saltarono al
collo per l’entusiasmo di averlo come guida per la più grande e maestosa città
che i loro piedi pelosi avessero mai calpestato. L’unico che parve diffidente
fu Sam, ma Boromir sapeva che per riacquistare la sua fiducia avrebbe dovuto
lavorare sodo. E non era poi neanche tanto sicuro di riuscirci.
«E dimmi, amico mio, cosa vorresti mostrarci?» domandò il
Portatore. Le profonde occhiaie di stanchezza e preoccupazione erano sparite
dai suoi occhi, ma le fatiche che aveva dovuto sopportare durante il suo
periglioso viaggio erano ancora ben visibili: era magro e non riusciva a
prendere peso, nonostante mangiasse come si confà ad un Hobbit che si rispetti
– soprattutto se Baggins. Il suo più fido amico Sam continuava a portargli
cibo, e talvolta si intrufolava nelle cucine per preparare qualcosa di
sostanzioso con lei sue mani; ma spesso e volentieri erano Meriadoc e Peregrino
a mangiare la porzione di Frodo, mandando il buon giardiniere su tutte le
furie.
Eppure, neanche Sam poteva negare che Frodo, in quegli
ultimi tempi, fosse più rilassato. Durante la sera, dopo cena, si allontanava
spesso con Boromir, per chiacchierare a lungo su chissà quali temi; il
giardiniere non poteva accettare un comportamento simile, poiché temeva che
l’Uomo potesse aggredire il suo padrone ancora una volta. Ma doveva ammettere
che in Boromir non vi era più traccia di quell’ombra che, nell’ultimo periodo
del viaggio insieme, lo aveva trasformato in un mostro.
«Vi farò percorrere le strade della mia infanzia. Vi
mostrerò dove sono cresciuto, dove sono caduto, dove ho imparato a leggere e a
scrivere, dove vinsi il mio primo duello. E poi passeremo al ring di
allenamento, accanto all’armeria. Che ne dite di un po’ di pratica, come ai
vecchi tempi? Non vorrei che vi arrugginiste.»
I cugini si scambiarono un’occhiata eccitata, e sguainarono
le loro piccole spade. «Preparati all’umiliazione!» gridarono in coro,
facendoli ridere tutti.
«Sai, Boromir, dovresti seriamente fare attenzione.» lo
ammonì Frodo. «Stai osando sfidare uno scudiero di Rohan e un cavaliere di
Gondor.»
«Ah!» esclamò Gimli. «Lo Hobbit ha ragione, potresti
ritrovarti accidentalmente punto da quegli aghi che agitano come se fossero
delle spade!»
«Messer Nano, ne avremo anche per te, sappilo.» disse
Pipino, ritirando la sua lucente arma. «Ti taglierò personalmente la barba, con
questo coltellaccio!»
Quello si portò istintivamente la mano al mento, borbottando
qualcosa. Avrebbe venduto cara la pelle, prima che qualcuno gli tagliasse via
la barba. Non solo era simbolo del suo rango tra i Nani, ma gli aveva salvato
anche la vita un bel paio di volte.
E poi, la barba gli donava.
*
Capitolo
iniziale in cui succede tutto e niente. Dal prossimo si comincia veramente.
Spero che quello che ho in mente sia di vostro gradimento. Ero molto indecisa
se iniziare a pubblicarla, perché ho in mente a grandi linee cosa succederà, ma
ho ancora numerosi buchi da colmare. Speriamo bene!
Veniamo
alle risposte di domande che probabilmente vi siete posti – o che per lo meno,
io mi sarei posta. :D
Anche
se il libro è vecchio di 76 anni e in teoria non dovrebbe essere una novità, vi
avverto che quello che sto per scrivere nelle note è uno SPOILER con i fiocchi, se qualcuno di voi non ha letto Lo Hobbit o
le Appendici de Il Signore degli Anelli.
Quindi, vi ho avvertiti, occhio. ;)
Come
avrete capito, sia Thorin Scudodiquercia che Dáin II Piediferro non muoiono
rispettivamente nella Battaglia dei Cinque Eserciti e durante la Guerra
dell’Anello (e di conseguenza neppure Fili e Kili). Su Thorin e i nipoti non
credo che ci sia bisogno di spiegazioni – li ho resuscitati per lo stesso
motivo per cui anche Boromir è ancora sulle sue gambe; per quanto riguarda Dáin
ho una ragione ben più pratica: avrei potuto seguire le linee guida del
Professore, cioè lasciarlo morente alle porte di Erebor, ma il suo successore
sarebbe suo figlio, Thorin III Elminpietra; a mio modesto parere, avere due
Thorin sulla stessa scena potrebbe creare troppa confusione, in futuro. Ad ogni
modo, è una Whatif? e tutto è
lecito – o quasi. :P
Oh,
dimenticavo: ho preso un’altra piccola libertà riguardo la velocità di
invecchiamento dei Nani. Nel 3019 Thorin dovrebbe avere la bellezza di 273
anni, un età paragonabile a circa 100 anni umani, dopo una veloce proporzione.
Ma io lo voglio giovane e baldanzoso come nel libro e nel film, a parte qualche
capello bianco in più, quindi facciamo finta che la durata media di vita per un
Nano sia un po’ (molto) più lunga; rimangono mortali, ma invecchiano molto più
lentamente rispetto a ciò che il Professore ha scritto.
Ci
si legge tra circa due settimane – o, a meno che non avvenga qualche miracolo,
anche prima. :)
So bene di avervi detto che
avrei aggiornato dopo due settimane, ma a quanto pare è avvenuto il miracolo
che vi avevo accennato, quindi eccomi qua. Solo... non prendetela a vizio. :P
Prima di tutto vorrei ringraziare
infinitamente chi ha letto il primo capitolo di questa nuova avventura, chi
l’ha già inserita tra preferiti, seguite e ricordate e chi, soprattutto, ha
commentato.
È una gioia immensa
ritrovare utenti di Betulla anche qui,
davvero. Sapere che volete continuare a seguire le gesta di Brethil&Co
mi rende felicissima!
Inoltre vorrei aggiungere
una precisazione che, nel precedente capitolo, ho dimenticato di fare: riguarda
la descrizione dei Colli Ferrosi. Non si trova molto su questo posto, quindi
bisogna andare ad immaginazione. Nelle mie lunghe ricerche ho trovato il forum di un gioco di ruolo;
la descrizione mi è piaciuta, e ho pensato di prendere libero spunto da quella.
Tutti i meriti, quindi, vanno all’autore del post.
Ora, torniamo a noi. Dopo la
premessa iniziale, dove abbiamo fatto un salto prima ad Erebor, poi nel regno
di Dáin ed infine a Minas Tirith, ora si torna alla Montagna Solitaria, e ci
rimarremo un po’.
Brethil e Boromir torneranno
prossimamente, promesso.
Vi lascio alla lettura del
nuovo capitolo – che ha subito mooolti tagli,
aggiunte, e chi più ne ha più ne metta. Inizialmente era lungo 12 pagine, ma mi
stavo addormentando io stessa nel rileggerlo. Ho dovuto lavorarci sopra per un
po’, ma credo che ora sia leggibile.
Almeno, spero. ;)
Buona lettura!
Marta.
Pietra
-sequel di Betulla -
02.
24 Giugno 3019 T. E.
Il suono metallico e possente del martello che batteva il
ferro sull’incudine risuonava incessantemente da ore, nella fucina ormai
deserta. I lavoratori avevano abbandonato le proprie postazioni qualche ora
prima, al suono dell’ultima campana che precedeva la fine del turno di lavoro.
L’ora della cena era passata da parecchio e il forno esalava fumi e un calore
asfissiante, ma il fabbro non pareva accorgersene. Era talmente assorto e con
così innumerevoli anni di lavoro alle spalle, che quella per lui era una
boccata d’aria fresca; amava il suono del ferro incandescente battuto, lo
sfriggere dello stesso quando veniva immerso nell’acqua per essere temprato,
l’odore pungente del metallo fuso; ed era unicamente in quei momenti, infatti,
che poteva tornare ad essere un Nano privo di preoccupazioni e doveri. Aveva
più di 250 anni di battaglie, decisioni e rancori, che l’avevano fatto
invecchiare più in fretta del previsto.
D’altronde, un discendente di Durin non poteva aspirare ad
altro, di quei tempi. Ma nonostante qualche capello bianco in più, rimaneva il
solito burbero Nano di sempre.
Eppure, nonostante i tempi bui che la sua gente, e lui per
primo, avevano trascorso, era stato prima un Principe, e successivamente Re,
amato e giusto. Aveva guidato il suo esercito in innumerevoli battaglie contro
Orchi e Mannari, rischiando seriamente di morire nella Battaglia dei Cinque
Eserciti, se non fosse stato per i suoi nipoti; aveva recuperato il tesoro che
apparteneva di diritto al popolo dei Nani della Montagna Solitaria, e con esso
anche la gemma più preziosa tra tutte, simbolo della famiglia Reale –
l’Archepietra; aveva guidato la ricostruzione della loro città, in modo che
risorgesse più splendente che mai; poi la Guerra dell’Anello era giunta fin
sopra il lontano Nord, solo qualche mese prima, quando i Nani si erano opposti
a Sauron ed esso aveva inviato loro un esercito di Esterling. Dopo tre,
estenuanti giorni di combattimento, Nani e Uomini di Dale avevano dovuto
ripiegare verso Erebor, assediati per giorni, finché fioche ma eccitate notizie
di una vittoria a Sud giunsero a rallegrare i loro animi e ad incupire quelli
del Nemico.
Ora Erebor era il Regno Nanico più ricco della Terra di
Mezzo, a cui molti tra Uomini, Nani ed addirittura Elfi si rivolgevano per il
commercio, o semplicemente per visitare quel fasto fatto di pietra e gemme
preziose. E Thorin, essendo un Nano ed in quanto tale profondamente orgoglioso
del suo operato e del suo popolo, non poteva che gioirne.
Si passò un braccio sulla fronte sporca e sudata, e sospirò
di soddisfazione nel guardare il risultato del suo lavoro: il nuovo paio di
asce che stava fabbricando per Fili e Kili era quasi concluso: erano
incredibilmente leggere, grazie al rivestimento di mithril che le rendeva
maneggevoli, indistruttibili e letali; mancavano solo qualche finitura nelle
decorazioni e i manici che avrebbe saldato nei giorni successivi.
Si avvicinò alla porta della fucina dopo aver ritirato gli
attrezzi, infilò la sudicia camicia un tempo bianca ma ora sporca dalle ceneri,
e si diresse verso le sue stanze, per un bagno rigenerante prima della cena.
Non aveva pensato al cibo fino ad allora, e si rese conto di quanto fosse
affamato.
Ad attenderlo all’ingresso trovò uno dei suoi più cari amici
e consiglieri, Balin, che lo salutò con un inchino e un sorriso. «Vedo che
anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro,
piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi
piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla
fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una
pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben
oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora
tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con
interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle,
con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.
Cosa avrebbe potuto volere il Re degli Uomini dell’Ovest da
lui?
Aprì il documento frettolosamente, rischiando di strapparlo
a causa delle sue rudi mani. Ciò che lesse lo stupì incredibilmente, e un
profondo senso di orgoglio lo invase, facendolo sorridere. «Pare che i nostri servigi
architettonici siano richiesti al Sud, mio caro amico.»
«Ciò che avevo immaginato. E dimmi, come risponderà il Re?»
Thorin arrotolò la lettera, stringendo la carta con ardore;
e Balin, nel notare il guizzo di entusiasmo negli occhi chiari dell’altro, capì
l’implicita risposta.
Il giorno dopo mandò a chiamare i suoi compagni più vicini
nella Sala Grande, dove preferiva tenere le riunioni e gli incontri con gli
emissari esteri. E al momento della decisione, la gioia della notizia non tardò
a coinvolgere chiunque, soprattutto i più giovani.
«Andremo a Minas Tirith?» esclamò Kili, balzando davanti
allo zio come un bambino eccitato davanti al suo regalo di compleanno. «Hai
sentito, Fili? Andremo finalmente a Gondor!»
«Evviva il Re! Evviva lo zio!» gridò il fratello entusiasta,
abbracciandolo. Nonostante fossero passati parecchi anni da quando quei due
erano giovani ed esuberanti, e ora fossero adulti, ancora faticavano a
comportarsi come tali.
«Partiremo tra un mese.» Thorin si alzò dal suo seggio,
posando le mani sul pesante tavolo in pietra e sedando gli animi accesi dei
nipoti con voce decisa. «E non sarà un viaggio di piacere. Gli Uomini di Gondor
richiedono il nostro lavoro per ricostruire le mura del Rammas Echor, il
Cancello di Minas Tirith e una città intera, Osgiliath; e noi glielo daremo al
giusto prezzo. Esigo il massimo delle vostre capacità, nessuno escluso.»
«E non ti deluderemo certo.» Fu Dwalin a parlare, i piedi
ben saldati a terra come la pietra su cui stava.
Thorin annuì in cenno di assenso, e continuò. «Tu e Balin
richiamerete quanti più Nani di talento possibile, in forze e volenterosi;
conto sul vostro buon metro di giudizio. Ori, voglio che ti occupi della
catalogazione del materiale di cui abbiamo bisogno e dei mezzi di trasporto
dalle cave fino a Gondor; e spedisci due aquile: una al Re, chiedendo Uomini
per aiutarci; credo che abbiano collezionato numerosi prigionieri dopo la
Guerra che potrebbero fare al caso nostro; una ai Nani dei Colli Ferrosi, per
invitarli ad unirsi a noi. E incarica nuovi minatori affinché vadano a Khazad-dûm
e si uniscano all’estrazione del mithril.»
I tre si chinarono e si allontanarono per iniziare ad eseguire i loro compiti.
«Quanto a voi due, occupatevi dell’armamentario. Saremo lenti, durante il
viaggio, e la strada verso Sud è lunga ed ancora pericolosa; organizzate una
scorta per gli operai e il materiale.»
I due fratelli imitarono gli altri tre, chinando il capo e
dirigendosi verso la Sala dell’Addestramento, per arruolare nuovi soldati.
Thorin si sedette, stringendo i braccioli del seggio con
eccitazione. Dopo la Guerra dell’Anello, i Nani avevano dovuto ricostruire
parte del maestoso portale d’ingresso, andato distrutto a causa delle
catapulte. Ma era stato un lavoro che aveva richiesto poco più di due mesi,
grazie alla celerità e alla bravura della sua gente. Era da tanto che gli
Uomini non chiedevano un aiuto così ingente ai Nani, e fu ben felice che lo
avessero fatto in quel frangente. Aveva trascorso troppo tempo senza lavorare
al di fuori dei confini di Erebor e finalmente aveva la possibilità di sentirsi
nuovamente utile. Prima di essere un Re, infatti, era soprattutto un fabbro, e
solo quando lavorava i metalli si sentiva realmente vivo.
Non c’era nient’altro che potesse farlo sentire così –
neanche i tesori di famiglia che tanto amava.
Trascorsero poco più di due giorni prima che Erebor
ricevette risposta dai vicini ed alleati Nani, e meno di due settimane alla
visita di un piccolo gruppo di emissari. Dáin II Piediferro inviò tre dei suoi,
incaricati di mettere a punto i compiti degli uni e degli altri, e di dividere
spese e materiali. Uno di essi era Rulin, il più importante carpentiere dei
Colli Ferrosi, che giunse con due dei suoi migliori apprendisti, Uren e Ulfgar,
fratelli. I tre oltrepassarono l’imponente ingresso di Erebor e camminarono su
un lungo ponte che dava sul vuoto – per quello che potevano vedere
affacciandosi alla balaustra; da quel nero buio spuntavano colonne di pietra
larghe quanto dieci Troll di caverna, che salivano fino alle alte volte
trapuntate di fiaccole. Nonostante Rulin avesse visto le bellezze di Moria nei
suoi periodi di gloria, quello era uno spettacolo che lo lasciò attonito –
sebbene la sua vista fosse dimezzata da una benda che gli copriva l’occhio
sinistro. Raggiunse la Sala del Trono dopo un lunghissimo corridoio largo e
arioso, che s’insinuava verso il cuore della Montagna Solitaria.
Thorin lo accolse caldamente nella sua dimora, alzandosi nel
momento in cui le porte si aprirono per far entrare gli ospiti; ma si accorse
subito che ci fosse qualcosa in quel Nano che stonava eppure risultava
familiare; era più alto della norma e ben tarchiato, ma sul suo viso, deturpato
da quella benda, non vi era traccia di barba, a differenza degli altri due che,
essendo pur giovani, facevano concorrenza al nipote Kili; inoltre le orecchie
che spuntavano dai lunghi e folti capelli ramati parevano a punta, come quelli
degli Hobbit.
O peggio, degli Elfi.
E così, mentre sedeva sul trono adornato dell’Archepietra,
simbolo della casata dei Durin, Thorin studiò il Nano che gli stava di fronte,
a pochi gradini di distanza.
«E ho personalmente ridisegnato il Palazzo del Governatore
di Dale dopo l’ultima apparizione del Drago. Gli Uomini paiono ancora molto
felici di ciò che feci costruire ben settantotto anni fa.» stava dicendo il
carpentiere, mal celando il suo orgoglio.
«Non ne dubito. Conosco l’edificio di cui parli e ricordo
con quale maestria ogni concio venne tagliato e decorato. Ma se la memoria non
m’inganna, esse mi parvero... diverse,
a tratti così delicate che mi sorse il dubbio fossero di fattura Nanica.»
«Posso garantire che ogni pietra fu lavorata dalle mani
callose dei miei carpentieri; ma i vostri occhi sono ben attenti, mio signore.
Ho lavorato a lungo con e per gli Elfi di Bosco Atro e di Forraspaccata*,
poiché una parte del sangue della mia famiglia proviene da lì.»
Un mormorio di disagio e sorpresa si sollevò per la sala, e
Thorin strinse gli occhi, una mano che carezzava distrattamente la barba lunga
ed intrecciata. Un Nano con sangue Elfico nelle vene era un pensiero così
blasfemo da far rivoltare lo stomaco anche al più pacifico. Era ridicolo anche
solo pronunciarlo a mezza voce!
Ma il Re si sforzò di nascondere il suo sconcerto sotto la
consueta maschera di indifferenza, e zittì i presenti con il gesto di una sola
mano. Solo chi lo conosceva bene poteva dire quanto fosse ripugnato da quella
novità, ben visibile dalle rughe contrite che gli si formarono nel mezzo della
fronte. «Ecco spiegato il tuo aspetto e il tuo stile architettonico, dunque. Ti
prego, raccontami un po’ della tua storia, poiché durante queste lunghe Ere
pochi sono stati i Nani che si siano uniti ad Elfi.»
Rulin non si fece intimorire da quello sguardo indagatore e
dai bisbigli che continuava a sentire. «La mia famiglia ha una lunga tradizione
di carpenteria, e siamo conosciuti in numerose città, fin nella lontana Brea.
Mio tris-nonno Rurik si recò a Forraspaccata in giovane età, poiché anche gli
Elfi erano a conoscenza della sua bravura, e avevano richiesto l’aiuto del suo
cantiere. Quando giunse alla Casa di Elrond, egli incontrò un’Elfa e si
innamorò. Il suo nome è Ainariël, dai luminosi capelli rossi, ed era
incuriosita dalle maniere di mio trisnonno, che benché provasse a comportarsi
gentilmente, risultava grezzo e divertente ai suoi occhi. Ed egli fu così
fortunato che, quando tornò a casa, l’aveva al suo fianco come moglie.» Rulin
alzò il mento, fiero delle sue origini. «Capisco che vi sentiate offesi per
questa notizia, perché sono ben consapevole dei rapporti tra Nani ed Elfi; in
particolare con la tua famiglia, Thorin Scudodiquercia. Ma i tempi stanno lentamente
cambiando, e mi è giunta voce che Gimli, figlio di Glóin, venga chiamato “Amico
degli Elfi”, a causa di una profonda amicizia con il principe Legolas e una
devota ammirazione per Dama Galadriel.»
«Suo padre sarà ben lieto della notizia, allora.» mormorò a
denti stretti Dwalin, infastidito.
Thorin fece finta di ignorare il sarcasmo dell’amico, ma non
si preoccupò che l’ospite potesse averlo sentito. «Sei l’unico mezzosangue
esistente o ci sono altri simili a te?»
Il disprezzo nella sua voce nel pronunciare
quell’appellativo fece ribollire il sangue nelle vene di Rulin, ma il suo lato
Elfico e pacato gli suggerì di lasciar perdere qualsiasi tentativo di scontro
da parte del Re. «Sono l’unico, insieme ai miei figli. Ma non preoccuparti, mio
signore, non è una malattia contagiosa.»
Il Re abbozzò un sorriso privo di divertimento. «Ebbene,
come hai ben detto, i rapporti tra la nostra gente e gli Elfi non sono mai
stati dei migliori, né credo lo saranno mai, nonostante qualche sporadico
avvenimento come questi di cui hai parlato. Ad ogni modo, qualunque siano le
tue origini, sei il benvenuto ad Erebor e tra le fila dei nostri operai. Tu e i
tuoi apprendisti verrete scortati alle vostre stanze, e vi attendo per la cena.
Sarei ben felice se vi uniste a noi.»
I tre annuirono e, dopo averlo salutato con rispetto, Thorin
abbandonò l’espressione di falsa cordialità che aveva costruito in quei minuti
di conversazione. «Un’unione come quella dovrebbe essere bandita e punita con
l’esilio.»
«Non essere troppo duro, amico mio. Quel Nano ha ben detto:
i tempi stanno cambiando.»
Dwalin, sconcertato da quelle parole, quasi sputò la birra
che aveva iniziato a sorseggiare. «Nano? Hai davvero il coraggio di chiamarlo Nano? Non insultare la nostra gente,
fratello. Tu ed io siamo Nani, fin dall’inizio dei tempi. Non quel ridicolo
omuncolo più alto della media e senza un filo di barba. Nano!» aggiunse, in un borbottio, riprendendo a bere, come che il
sorseggiare birra potesse fargli dimenticare quell’affronto.
Balin non replicò, poiché sapeva di essere in minoranza. E,
comunque, le sue ragioni non sarebbero state ascoltate. Anche lui era stato
profondamente adirato con gli Elfi, poiché se essi si fossero trovati al loro
posto, vittime di un Drago infuriato, loro non avrebbero voltato le spalle nel
momento del bisogno. Ma gli anni avevano portato anche saggezza, e aveva capito
che serbare rancore fosse solo una perdita di tempo.
E gli faceva perdere i capelli.
17 Luglio 3019 T. E.
Non ricordava
di aver mai lasciato la porta di casa per andare all’avventura. Gli unici
luoghi che aveva visitato nella sua giovane vita erano stati quelli circondati
dal cerchio di colli che davano il nome alla sua città; mai aveva oltrepassato
i loro confini, neppure in compagnia della sua famiglia.
Eppure eccola
lì, due giorni dopo l’arrivo del messaggio del padre che dava indicazioni ai
figli su come e quando raggiungerlo nell’antico Regno dei Nani a nord di Dale.
Trán aveva sempre sognato la Montagna Solitaria, che pareva imponente solo
osservandola da così lontano; ma mai avrebbe immaginato di trovarsi ai suoi
piedi e sentirsi la formica più insignificante. Perché quella era veramente una
montagna, veramente solitaria, ed era enorme. Trán alzò il naso verso l’alto,
ma non riuscì a vederne la fine, poiché un banco di nuvole la nascondeva. Per
quanto poteva saperne lei, quella vetta avrebbe potuto raggiungere il cielo.
«Davanti a te,
i Guardiani di Erebor!» esclamò Káel, non appena passarono una collina e
l’ingresso della Città dei Nani fu visibile. Nessuno di loro fiatò per parecchi
minuti, inebetiti ed affascinati da quei giganti di pietra che vegliavano
silenziosi e temibili sulle porte di Erebor. E per quanto quella vista non fu
una novità per i fratelli, che parecchie battaglie avevano combattuto proprio
davanti a quelle statue, ogni volta che vi posavano lo sguardo non riuscivano a
trattenere un brivido di eccitazione. Quello era il Regno del Re Sotto la
Montagna, il più potente tra i Reami dei Nani, e quel portale dava solo l’idea
delle meraviglie che si nascondevano dietro di esso.
Scesero dai
loro stanchi pony e preferirono compiere l’ultimo tratto del loro viaggio a
piedi. I segni della battaglia, tuttavia, erano evidenti man mano che si
avvicinavano, e l’eccitazione ed il clamore dei fratelli scemò velocemente; la
loro memoria era ancora intrisa del sangue che avevano visto versare, della
morte che quasi li aveva presi, dell’orrore delle battaglie.
Trán questo non
poteva capirlo, ma lo immaginava. Avrebbe voluto essere al loro fianco, a
combattere con loro; non perché amasse l’arte della guerra, né perché
desiderava morire. Ma perché amava il suo popolo e la sua terra, e sarebbe
morta per difenderla, anche se era una donna e anche se non sapeva maneggiare
al meglio una spada.
Abbandonarono i
pony, liberandoli dei loro pochi averi, e sorpassarono l’entrata di Erebor con
gli occhi spalancati nel vano tentativo di assorbire il più piccolo dettaglio
di quello spettacolo. Vennero salutati con un cenno del capo da tutti i Nani
che incontrarono lungo il percorso; molti di essi, infatti, stavano terminando
gli ultimi lavori all’ingresso, per riportarlo agli antichi splendori.
Ma ciò che Trán
aveva visto fuori, fu nulla comparato a quello che vide dopo. Le labbra le si
schiusero per la meraviglia e sentì chiaramente il cuore perdere qualche
battito nel posare gli occhi sull’immenso spazio che le si aprì davanti. Il
vuoto assoluto regnava in quella montagna, ma percorribile da una intricata
rete di passerelle, ponti, scale e piattaforme; e una foresta di pilastri
intagliati in ogni loro angolo in forme rette e regolari, aperture di edifici
scavati lungo le pareti della roccia, e luce. Tanta luce, per essere sotto
terra. Trán non aveva mai visto tanta bellezza in un unico battito di ciglia, e
la commosse.
Il gemello le
strinse un braccio, sorridente. «È magnifica, vero?» L’unica risposta che
ottenne fu un cenno di assenso con il capo. Poche volte la sorella era rimasta
senza parole, poiché voleva sempre avere l’ultima. Per lui, e i loro fratelli,
dunque, quello era un giorno memorabile.
«Abbiamo idea
di dove dovremmo dirigerci?» domandò Káir, mentre attraversavano l’ennesimo
ponte.
Il più piccolo
della famiglia si avvicinò al parapetto placcato d’oro per sbirciare il vuoto,
ma Trán lo prese per mano, allontanandolo.
«Dobbiamo
andare al quinto livello sotto terra, prendere il primo corridoio sulla destra
e cercare le abitazioni degli ospiti.» fece il maggiore.
«Uh, sembra
facile a dirsi.» commentò Káel.
Trán sospirò,
in un misto di meraviglia e rassegnazione. «Eppure mi sembra difficile, guardando
la vastità di questo posto. Ho la netta sensazione che ci perderemo.»
«Ecco, signori
miei, un’altra dimostrazione del pessimismo di Trán!» esclamò teatrale il
gemello.
«Non sono
pessimista, sono realista.»
«Definisci realista, sorellina.»
«Una persona
che sta realmente per picchiarti,
fratellino.»
Gli altri
scoppiarono a ridere, e lei con loro.
«Bah, comunque
non conterei sul senso dell’orientamento di nostro fratello.» continuò Káir,
che si beccò uno scappellotto dal diretto interessato. «Dicevo solo che magari
sarebbe saggio chiedere informazioni, no?»
L’orgoglio di Tarón
fu messo a dura prova. «Solo se necessario. E sono sicuro che non vi sarà
bisogno di chiedere aiuto a chicchessia.»
Percorsero poca
strada prima di rendersi conto che, effettivamente, si erano persi.
«Dicevi?»
domandò Káel, con un bel sorriso ironico sulle labbra.
«Oh, per l’amor
di Mahal, smettila e portami rispetto, una buona volta!» si lagnò il maggiore.
«Lo farei,
davvero... se tu mi dessi un solo valido motivo per farlo!»
Trán riuscì a
contare fino a tre, prima che i due fratelli iniziassero a darsele di santa
ragione, e fu costretta a separarli aiutata da Káir, non senza qualche
difficoltà. «Neppure un bambino è così infantile come voi.»
I due chinarono
il capo, guardandosi in cagnesco. Da quando la loro madre era morta, spettava a
Trán prendere quella posizione vacante, e ci riusciva anche bene, a dirla
tutta. Era sempre stata ferma nelle sue sgridate, e non voleva assolutamente
che qualcuno dei suoi fratelli arrivasse alle mani per risolvere i problemi.
Dovevano stare uniti, perché erano soli in quel mondo. Eppure Káel e Tarón
erano due teste calde, insieme, e non perdevano occasione di punzecchiarsi.
«Per Durin, che
succede qui?» domandò una voce estranea. Si voltarono tutti e cinque,
arrossendo per l’imbarazzo di essere stati colti in fallo da un Nano.
Tarón si
sistemò la casacca, facendo un passo avanti. «Discutevamo sulla direzione da
prendere.»
«Ci siamo
persi, in realtà.» aggiunse Káir, che si lasciò scivolare addosso il grugnito
di disappunto del fratello maggiore.
Il Nano, che
portava un buffo cappello con due punte rivolte verso il basso sui lati, parve
sorridere. «Oh, novelli visitatori di Erebor, benvenuti! Permettetemi di
presentarmi: io sono Bofur, al vostro servizio!» disse, inchinandosi
profondamente. I ragazzi si presentarono uno dopo l’altro e il Nano sorrise
apertamente. «Dove siete diretti, se posso chiedere?»
«Cerchiamo
nostro padre.» fece Káel. «Egli è il carpentiere ufficiale di Re Dáin.»
Gli occhi vispi
dell’altro Nano si fecero incuriositi. «Oh, ho sentito parlare di lui. Ma
questa, ragazzi miei, non è esattamente la strada che dovreste imboccare. Di
qui si va alle officine e alle fucine.»
Trán si fece
attenta tutta d’un tratto e osservò l’imboccatura del corridoio, anche quando
Bofur si mosse per accompagnarli lungo la giusta via. Durante il percorso, il
Nano indicò loro alcuni punti interessanti della città da prendere come
riferimento per non perdersi più. «E lì, proprio in quello sperone di roccia,
c’è la mia bottega di giocattoli.»
«Sei un
giocattolaio?» domandò Trión.
«Oh, sì.
Costruisco giocattoli con la stessa velocità con cui i minatori estraggono
l’oro!» Il più piccolo sorrise vispamente, e Bofur ridacchiò. «D’accordo, uno
di questi giorni ti ci porterò. Ma ora non posso, mio fratello mi attende per
il pranzo. Seguite quel ponte e il corridoio poco più avanti; non vi sarà
difficile trovare la vostra abitazione. I carpentieri vivono insieme in una
grande sala coperta d’oro e argento.»
Dopo averlo
ringraziato innumerevoli volte, l’allegra compagnia si diresse verso la loro
temporanea abitazione e non poterono frenare lo stupore di fronte all’ennesima
meraviglia architettonica. Il soffitto della stanza era così alto e così riccamente
rivestito che credevano fosse quella la Sala del Trono. Piccoli alloggi
spuntavano come funghi in quel grande spazio, e fu in uno di questi che
trovarono il padre. Uren e Ulfgar, che conoscevano bene i figli del loro
maestro, li salutarono con caldi abbracci, e dopo aver posato le proprie cose
nei rispettivi giacigli, si riunirono tutti per il pranzo. Discussero a lungo
di quella città mastodontica, del lavoro che avrebbero dovuto compiere nella
terra degli Uomini e del Re di Erebor. I figli furono parecchio dispiaciuti nel
sentire i racconti del padre sulle malelingue che riusciva ad udire nelle
bocche di tutti, soprattutto tra i potenti, ma non ci badarono più di tanto.
Erano abituati a quel genere di comportamento, e anzi, si sarebbero sorpresi se
fosse accaduto il contrario.
Il pomeriggio
trascorse lentamente, perché Rulin doveva occuparsi del suo compito insieme
agli apprendisti che avrebbero lavorato con lui ad Osgiliath, mentre i figli
furono liberi di girovagare liberamente, a condizione di non allontanarsi
troppo e di non rischiare di perdersi. Ovviamente, nessuno di loro disse dei
problemi che avevano trovato al loro arrivo.
Trán era in
compagnia del gemello e di Trión, che era decisissimo ad andare a trovare Bofur
il giocattolaio, ma nel momento in cui riconobbe il corridoio che portava alla
fucina, si allontanò velocemente senza che gli altri due se ne accorgessero.
Aveva sempre sentito parlare della vastità di quelle officine, calde come
l’alito di un drago, sede degli operati migliori di tutta la Terra di Mezzo.
Così, sola in quel lungo corridoio, camminò fino ad un vicolo cieco, su cui si
apriva una pesante porta in ferro. Lesse l’insegna in rune naniche e sorrise.
Entrò con cautela, stringendo gli occhi che si fecero immediatamente secchi a
contatto con l’aria arida della ferriera. Non vi era nessuno, a quell’ora della
sera, ma poté comunque udire un unico martello sbattere ritmicamente contro
l’incudine. Scese una ripida scala e si guardò intorno con curiosità. Il forte
odore del carbone e del ferro fuso era così piacevole, alle sue narici, che
inspirò profondamente. Appena raggiunse il livello più basso della forgia,
camminò tra i tavoli in pietra, dove un innumerevole quantità di attrezzi e
armi era stata abbandonata in attesa del giorno successivo. Cercò la sorgente
del rumore che aveva accompagnato i suoi passi fino a quel momento, ma si
accorse che, chiunque stesse lavorando lì, aveva smesso.
«Ti sei persa,
mia signora?»
Trán soffocò un
gemito di sorpresa e si voltò alle sue spalle, per incontrare un paio di
profondi occhi azzurri, resi ancora più chiari dalla sporcizia del carbone su
quel viso severo e bello. Scosse il capo ed abbassò lo sguardo, timidamente.
«Al contrario, sono venuta di proposito. Chiedo perdono se ti ho disturbato.»
«Nessun
disturbo; ma non è usuale trovare qualcuno che girovaga per questo posto, a
quest’ora della sera. Soprattutto se si parla di una giovane Nana che rischia
di sporcarsi gli abiti puliti.»
«Sono abiti già
sporchi, hanno visto una settimana di viaggio.» Arrossì nello stesso istante in
cui si rese conto delle sue parole. Chissà che odore terribile doveva avere, per Mahal!
«Una settimana
di viaggio? E da dove provieni, se mi è permesso saperlo?»
Trán parve
sospettosa del Nano; era imponente, dallo sguardo severo e avanti con gli anni.
Ma si ricordò delle sue buone maniere, e rispose ugualmente. «Dai Colli
Ferrosi, mio signore. Sono giunta stamane, con i miei fratelli.»
Senza
accorgersene avevano iniziato a passeggiare, diretti verso un’altra uscita, a
tre livelli di differenza da dove era entrata. Ma non se ne curò, perché il
Nano al suo fianco sembrava affabile e sicuramente le avrebbe mostrato il modo
per ritrovare la via. Non era la tipica persona che amava passeggiare con
perfetti sconosciuti, ma il suo istinto le diceva di fidarsi – almeno una
volta. Come non avrebbe potuto fidarsi, d’altronde, di quegli occhi azzurri?
«Avete parenti
qui?»
«Nostro padre è
carpentiere al servizio di Re Dáin.»
«Il mezzo Nano?»
Trán non si
fece sfuggire il tono sorpreso e quasi sdegnato nella sua voce profonda. Così
tornò seria. «No, il Nano, come me e
te.»
L’altro udì il
cambiamento di umore della giovane, ma non si fece intimorire. «Eppure, con
sangue Elfico.»
«Sì, ma pur sempre
un Nano, nato da Nani, tra i Nani.» rispose, con orgoglio. Non le piaceva
quando qualcuno insinuava cattiverie sul loro conto, soprattutto su quello del
suo buon padre, solo per la presenza di un Elfa nel loro albero genealogico. Lo
trovava ridicolo, e irritante, anche se sarebbe dovuta essere abituata.
«Hai già
incontrato il Re Thorin?» le domandò lo sconosciuto, che aprì la porta della
forgia. Un’aria fresca li accarezzò entrambi, e sospirarono di sollievo.
«No, e non
credo che lo incontreremo.» Trán non riuscì a nascondere il fastidio nelle sue
parole. «E non credo che voglia farlo.» Quello le domandò il motivo solo con
un’occhiata incuriosita. «I miei fratelli mi hanno parlato di una personalità
altera e regale, incredibilmente valorosa in battaglia e di animo buono. Ma da
quando sono giunta, credo che abbiano preso un abbaglio. Ci odia, e senza
motivo. Mio padre mi ha detto di aver visto il disprezzo nei suoi occhi quando
si presentò, e di aver udito molte offese provenire dalle bocche dei suoi
consiglieri.»
«Credo che
abbia a che vedere con il vostro albero genealogico.»
«Sì, ma non
riesco a capire perché ci si ostini ad accusare noi per qualcosa che fece il Re
di Bosco Atro tanti anni fa. Io non ero che una ragazzina, all’epoca.»
Il Nano inspirò
profondamente, nel tentativo di pensare e trovare le parole adatte per parlare.
Ma, forse, stava solo cercando di ritrovare la calma che i brutti ricordi gli
avevano fatto passare. «Re Thorin ha tanti buoni motivi per odiare gli Elfi e i
loro discendenti. Non lo biasimerei per questo.» Si sentì trafitto da quello
sguardo offeso e ferito, e si affrettò a rimediare. «Ma sono sicuro che non ha
niente contro la tua famiglia, in particolare.»
Si scrutarono
qualche secondo e la Nana sospirò, lasciando cadere il discorso. Quando Trán si
accorse che l’avesse riportata all’ingresso del corridoio da cui era giunta, lo
ringraziò, sebbene non gli avesse esplicitamente chiesto di riportarla a casa.
«È stato un
piacere discorrere con te, figlia di Rulin. Ma ora devo andare.»
La Nana sentì
le guance andarle in fiamme nel momento in cui lui, con gentilezza, le prese
una mano e se la portò all’altezza delle labbra, per baciarne fugacemente il
dorso. E lei non riuscì a distogliere lo sguardo dal suo, che non aveva smesso
di osservarla neppure durante l’inchino.
«Il piacere è
stato mio.»
Le labbra dello
sconosciuto si piegarono in quello che parve un sorriso e si allontanò. Fu solo
allora che Trán ragionò sul fatto che non conoscesse il suo nome. Ma quando
decise di domandarglielo, quello era già sparito. Tornò sui suoi passi, per
raggiungere Káel e Trión, e si rese conto di sorridere come un’adolescente
quando il gemello, vedendola, le chiese il perché di tanta felicità.
Trán non
rispose, ma il suo sorriso si allargò ulteriormente.
19 Luglio 3019 T. E.
«Sai,
sorellina, dovresti seriamente prendere lezioni di cucina, invece della scherma.»
Trán sollevò
uno sguardo ferito sul gemello, che annusava con perplessità la zuppa di ceci
che aveva preparato per pranzo. Non fu una sorpresa, però, notare che anche il
resto dei fratelli era parecchio restio ad assaggiarne anche solo un cucchiaio.
«Non l’ho avvelenata; anche se, col senno di poi, avrei voluto farlo.»
Káir scosse il
capo. «Oh, no, lo sappiamo bene. È proprio questo il tuo talento!»
«Sapete,
potreste prepararlo voi il pranzo, di quando in quando.» ribatté seccata la
Nana, sedendosi a tavola e assaggiando la sua zuppa. Effettivamente, lo doveva
ammettere, dava il voltastomaco. Dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo
per non lasciarsi sfuggire una smorfia, mentre mandava giù il primo sorso.
Káel la osservò
attentamente. «Dimmi, Káir, ti sembra che stia diventando verde?»
«No, ma sono
sicuro che in qualche secondo rigetterà tutto.»
«Avanti,
ragazzi, mangiate e non fate storie.» li rimbeccò il padre. «Non può essere
così... terribile.» aggiunse, dopo
averne ingoiato un cucchiaio.
Trán alzò le
braccia al cielo, arrendendosi. «D’accordo, basta così. Sfamatevi a pane e
carne cruda, perché io non cucinerò più per voi.»
Si ritirò nella
sua stanza, lasciandosi alle spalle le lamentele della sua famiglia, e vi
rimase qualche minuto per calmarsi. Sapeva bene di non essere una buona padrona
di casa, né che aveva ereditato la bravura culinaria della madre. Ce la stava
mettendo davvero tutta per prendere il suo posto, ma più sentiva di sforzarsi,
più il risultato era disastroso. E si sentiva un’incapace.
Prese un fodero
che teneva sotto il letto e si diresse verso le fucine. Vi era tornata per le
due sere precedenti, inconsciamente sperando di ritrovare quel Nano sconosciuto
che non faceva altro se non tornarle alla mente; ma lui non si era fatto vivo,
così quando quella sera tornò lì fu solo per affilare la spada che suo padre le
aveva regalato parecchi anni prima. Come i fratelli amavano ricordarle, era una
pessimista nata e aveva la brutta sensazione che avrebbe avuto bisogno di una
lama più affilata di quella, durante il lungo viaggio che li attendeva verso
Gondor.
Così prese posto
ad un rullo, premette i piedi sulla pedaliera e vi passò sopra prima un lato e
poi l’altro della spada. Il suono del metallo che sfregava contro la pietra la
fece rabbrividire, e nel silenzio della sera risuonò tre volte più forte nella
grande e alta sala delle fornaci.
Non si accorse
della presenza alle sue spalle che rimase ad osservarla per parecchi minuti,
prima di farsi avanti.
«Una spada non
è un giocattolo per una ragazzina.»
Trán si morsicò
la lingua pur di non gridare; ma il balzo che quella voce le provocò, le fece
cadere l’arma dalle mani. Imprecò a denti stretti e quello le riservò
un’occhiata di rimprovero. Possibile che dovesse sempre comparirle alle spalle?
Il Nano si
chinò a raccoglierla e la esaminò con curiosità. «È di ottima fattura, maneggevole
e resistente. A quale dei tuoi fratelli l’hai rubata?»
Trán divenne
rossa. «È mia, non l’ho rubata a nessuno.»
Gli occhi
azzurri dello sconosciuto sgranarono impercettibilmente. Quella ragazzina, ora,
aveva tutta la sua attenzione. «Tua? Mi vuoi dire che sai come usarla?»
«Certo.»
Lui parve
compiaciuto da quel tono orgoglioso e le restituì l’arma. «Spero che la stia
affilando solo per mero vezzo, e che non ne avrai bisogno.»
«Lo spero anche
io, mio signore.» mormorò lei, arrossendo ancor di più. «Anche perché, detto in
tutta franchezza, ho solo duellato con i miei fratelli. Non ho molta esperienza
e non so cosa farei se mi trovassi in pericolo.»
«Se mai dovesse
succedere, sono sicuro che i tuoi fratelli ti difenderanno a dovere.»
Titubante e in
imbarazzo nel sentire ancora quegli occhi cristallini su di sé, Trán riprese ad
affilare il metallo. Quello, d’altra parte, rimase in silenzio con le braccia
conserte sul petto.
«Dove sei stato
in questi giorni?» gli domandò, incuriosita. Sapeva di non avere alcun diritto
di chiederglielo; del resto, non si conoscevano che da pochi minuti, se sommava
il loro primo incontro. Ma non poté fermarsi dal domandare.
Lui sembrò
ponderare la risposta. «Ho avuto alcuni compiti da assolvere, e che mi hanno
tenuto lontano dal piacere della forgia. La partenza è vicina e bisogna
prepararsi.»
«E cosa ha da
fare un semplice fabbro fino a tarda notte?»
«Un semplice fabbro?» ripeté il Nano. Si
ritrovò a ridere prima ancora che se ne accorgesse. «Mia signora, c’è sempre
qualcosa da fare.» le disse, quando si rese conto che la sua ilarità non venne
condivisa.
Trán parve
perplessa da quella risposta, e soprattutto da quell’atteggiamento. Strinse gli
occhi, sospettosa. «L’altra volta non ho ben capito il tuo nome.»
«Questo perché
non l’ho detto. E mi pare che neanche tu lo abbia fatto.»
Si morsicò le
labbra, rendendosi conto della sua maleducazione. «Ebbene, io sono Trán, figlia
di Rulin.»
Voleva dare un
nome a quel volto altero, incorniciato da lunghi capelli neri striati di bianco
in qualche ciocca, e una barba folta e ritirata in una piccola treccia. C’era
qualcosa di regale, in quel Nano anonimo; qualcosa che la portava a chinare il
capo quando lui la guardava con intensità, ad annuire ad ogni parola che quella
voce bassa ma potente pronunciava. E aveva due grossi anelli alle dita, per non
parlare dei fermagli sulle punte delle trecce, in oro e piccole gemme
scintillanti. Qualcosa che difficilmente un semplice fabbro avrebbe potuto
permettersi.
Ma la presentazione
che tanto stava attendendo non giunse.
Qualcuno arrivò
velocemente ad interromperli, e il Nano si voltò verso il nuovo arrivato, che
era più basso e dai capelli e la barba candidi come la neve. Parve sorpreso nel
vedere una femmina in sua compagnia, così si chinò gentilmente. «Perdonate
l’intrusione. Mia signora, permettimi di presentarmi: Balin, al tuo servizio.»
Lei ricambiò la
cortesia e ascoltò ciò che aveva da dire al suo amico.
«Dáin richiede
la tua presenza; tuo cugino vorrebbe discutere sul prezzo da trattare con gli
Uomini, alla fine dell’operato.»
Trán dovette
far trascorrere qualche secondo prima di ricollegare il suo Re con la parola cugino. Guardò il Nano con cui aveva
parlato e sgranò gli occhi. Ci mancò poco che la spada le cadesse nuovamente di
mano. E capì il perché di quella segretezza nel confidarle il suo nome; il
perché della risata quando lo aveva apostrofato come un fabbro qualunque; e
soprattutto, perché avesse difeso il Re di Erebor come il migliore dei suoi
sudditi.
Lui era il Re di Erebor.
Quel Nano
altero e dai lineamenti eleganti che aveva di fronte era Thorin Scudodiquercia,
Re Sotto la Montagna. E lei si sentì un’incredibile stupida per non averlo
capito prima, e terribilmente ferita. Strinse i denti e fissò con astio il Re dei
Nani, mentre parlava con Balin. Non solo era lui la fonte delle preoccupazioni
del padre, e colui che alimentava l’odio verso gli Elfi, ma si era preso gioco
di lei, nascondendo la sua identità e ascoltando ciò che aveva da dire contro
di lui senza cambiare espressione del viso. E dire che aveva creduto fosse un
Nano così a modo e gentile, tanto da chiacchierare con lei e mostrarle la via
di casa!
Quando Thorin
si voltò per congedarsi e chiederle scusa per non essersi presentato prima a
dovere, lei si era già allontanata. Fece solo in tempo a vedere la porta della
fucina richiudersi alle sue spalle con un colpo secco.
*Forraspaccata, Gran Burrone
per chi non fosse familiare con questo nome.
*
Bene,
immagino che tutti abbiate indovinato chi fosse il misterioso Nano prima della
fine del capitolo. Mi sono chiesta se Trán non lo abbia scoperto troppo presto,
ma leggendo i prossimi capitoli mi sono detta che sì, è meglio che lo abbia
scoperto prima della partenza. Il perché lo capirete. :)
Spero
vivamente che i brevi momenti con la famiglia di (mezzi) Nani vi piacciano...
personalmente trovo Káel e Káir adorabili rompipalle. Sarà dura per Trán
riuscire a non ammazzarli entro la fine della storia. ;)
Inoltre,
ecco cosa gli Uomini di Gondor vogliono dai Nani, e come le vicende di Thorin,
Gondor e la famiglia di Rulin si intrecceranno. Nelle Appendici si dice che
Gimli abbia richiamato parte della sua gente per riforgiare i cancelli di Minas
Tirith in mithril e per aiutare gli
Uomini a ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto – non Osgiliath, però,
quella è una mia idea – diventando poi signore delle Caverne Scintillanti di
Aglarond. Spero che questa mia variante vi soddisfi. :)
A
presto, e grazie in anticipo a tutti coloro che leggeranno!
Dopo l’ennesimo taglia e
cuci dei capitoli successivi, ne ho ricavato uno in più di lunghezza ragionevole,
che vede l’inizio del viaggio dei Nani verso sud.
Ci sarà un po’ di movimento,
lungo la strada, quindi... asce alla mano!
Grazie davvero a tutti
coloro che stanno seguendo questa follia, siete una gioia. :)
Buona lettura,
Marta.
Pietra
-sequel di Betulla -
03.
24 Luglio 3019 T. E.
C’era un incredibile via vai di Nani che entravano ed
uscivano da Erebor, quel giorno. Il dì della partenza verso Gondor era
finalmente giunto, insieme alla gioia e all’entusiasmo incontenibile di
chiunque si fosse apprestato a partire con il Re. Lavorare per gli Uomini era
un’occasione importante, che suggellava per l’ennesima volta la stima che
legava le due razze. Nonostante ci fossero stati screzi in passato, come Thorin
ben ricordava, Gondor era un regno che meritava il suo rispetto. E la richiesta
era giunta da un Nano della sua casa, figlio di un suo caro amico e parente, e
non poteva rimanere inascoltata. Inoltre, non lasciava Erebor nelle mani di un
sottoposto qualsiasi, ma era ben consapevole che Dís, sua sorella, avrebbe
fatto un ottimo lavoro mentre era in viaggio.
Sul suo pony nero, affiancato da Balin e Dwalin, Thorin
guidava la comitiva di Nani proveniente da Moria e dai Colli Ferrosi e che lo
avrebbe seguito fino ad Osgiliath, e successivamente a Minas Tirith. Non tutti,
infatti, avrebbero lavorato nella città decaduta, ma alcuni, lui compreso,
avrebbero dato i loro servigi direttamente al Re Elessar nella Capitale. Parte
del ferro e del mithril, con gli attrezzi, partivano con loro, ma il viaggio
sarebbe stato lungo e per niente facile: la prima tappa sarebbe stata
l’attraversamento della Via Silvana di Bosco Atro affinché raggiungessero
l’Anduin e salissero sulle imbarcazioni messe a disposizione dagli Elfi Silvani;
e poiché il figlio di Re Thranduil faceva parte di quella Compagnia che stava
tentando di rimettere in sesto Gondor, i Nani avevano il pieno permesso per
attraversare il Reame Boscoso. Da lì alle Cascate di Rauros avrebbero impiegato
poco più di una settimana di viaggio; poi avrebbero trascinato il materiale giù
per i colli di Amon Hen seguendo il lungo fiume e sperando che i sentieri non
fossero troppo accidentati; l’ultimo tratto del viaggio avrebbe visto il gruppo
di Nani dividersi: alcuni avrebbero seguito il materiale sulle zattere che i
prigionieri di Gondor avrebbero costruito per loro in quei giorni, mentre la
scorta del Re avrebbe proseguito verso Osgiliath, lungo la sponda Est del
fiume. Lì, dopo circa tre settimane di viaggio, avrebbero incontrato il
Sovrintendente di Gondor e Signore della Città, che lo attendeva con Gimli, l’Amico degli Elfi.
Thorin storse il naso al pensiero di quell’appellativo e lanciò
una rapida occhiata a Rulin che, affiancato da quelli che dovevano essere i
figli, teneva per le briglie il pony di famiglia, su cui sedeva la ragazzetta con
cui aveva parlato solo qualche giorno addietro. Non lo avrebbe mai ammesso a
voce alta, ma aveva trovato piacevole discorrere con lei, sebbene fosse stato
per pochi minuti e, soprattutto, gli avesse detto indirettamente che fosse
un’arrogante spocchioso. Aveva un temperamento acceso, proprio come il suo, e
solo sua sorella Dís avrebbe potuto competere. Ma si erano lasciati malamente,
quella sera alle officine. Non era quello il modo in cui avrebbe dovuto
scoprire chi fosse in realtà – anche se non riusciva a trovarne uno
alternativo.
Ma non si soffermò ad osservare quell’insolita famiglia,
poiché suo cugino Dáin II Piediferro, un affabile chiacchierone, gli si
affiancò per sommergerlo di domande e notizie sui loro parenti.
«E nonostante tutto, mio figlio è stato in grado di
respingere quei brutti Orchi con la forza bruta della sua sola ascia!» stava
dicendo il Signore dei Colli Ferrosi. «Più passano i giorni e più mi sento
soddisfatto del nome che scelsi per lui alla sua nascita. Thorin III, non
poteva essere più appropriato!»
Il Re Sotto la Montagna sorrise. «Avrà anche il mio nome, ma
il suo coraggio e la sua bravura sono frutto del tuo operato.»
«Oh, dici bene, e questo lo so.» Dáin gonfiò il petto,
orgoglioso. «Ma dimmi, cugino mio, quando avrò il piacere di conoscere tuo
figlio? Stai diventando vecchio, ormai, non hai intenzione di reclamare un
erede prima che sia troppo tardi?»
«Il mio erede è mio nipote Fili. Non ho intenzione di
sposarmi e di mettere su famiglia.»
«E come potrebbe, del resto? Uno scorbutico come nostro zio
non potrebbe avvicinare neppure la Nana più sorda e cieca della Terra di
Mezzo!» esclamò Kili, che si beccò uno scappellotto dal diretto interessato.
Fili lo osservò bonariamente. «Te lo sei meritato, fratello,
non fare quella faccia.»
«Solo per aver detto ciò che pensano tutti?»
Balin scambiò un’occhiata ironica con Dwalin, che incrociò
le braccia in attesa della tempesta.
Thorin, infatti, corrugò la fronte e strinse gli occhi
chiari – segno che il limite della pazienza era quasi superato. «Ah, sì? E
dimmi, cosa dicono tutti?»
«Bel colpo, Kili. Ora che dirai? Che ha più probabilità un
Orco di sposare un’Elfa, piuttosto che lui una donna?»
L’arciere scoppiò a ridere nel momento in cui Thorin si
sfogò anche sull’altro nipote. I cinque Nani lo osservarono spronare il suo
pony, per allontanarsi dal gruppo e trovare un po’ di silenzio. Non era adirato
per le parole dei due giovani, poiché conosceva la loro lingua lunga e priva di
inibizioni; né si preoccupò che lo avessero deriso di fronte a numerose ed
importanti personalità. Ciò che lo faceva infuriare era proprio l’argomento.
Le donne.
Il matrimonio.
Fin da quando era giovane il padre aveva trascorso anni
della sua vita a sprecare il fiato, per cercare di convincerlo a prender moglie
e a dare alla luce un erede. Era il nipote del Re, del resto, e non sarebbe
stato difficile trovare una Nana che volesse diventare sua moglie. Ma a lui non
importava. Lui voleva fare il fabbro, voleva difendere il suo popolo e pensare
di governarlo saggiamente, un giorno. Le donne erano una distrazione, e
portavano solo problemi.
Inoltre non aveva mai incontrato alcuna femmina che fosse
degna di essere sua moglie: non solo non erano appetibili fisicamente, così
simili ai maschi per modi e aspetto, ma mancavano persino di carattere. A cosa
gli serviva una donna al fianco, se questa preferiva essere la sua ombra,
invece che sostenerlo come si confà ad una futura regina? Un Nano amava una
sola volta nella vita, e sarebbe stato per sempre. E lui non voleva sprecare la
sua unica occasione con una compagna qualunque.
Cavalcò accanto a Rulin, che camminava vicino alla ragazza
dai capelli rossi sul pony, affiancato dai figli incredibilmente alti per
essere dei Nani, e il carpentiere lo salutò con inchino.
«Mio signore, buon giorno.»
«E speriamo lo sia, ne avremo bisogno.»
Rulin abbozzò un sorriso. «Permettimi di presentarti i miei
figli: lui è il maggiore, Tarón, e il piccolo sulle sue spalle è Trión; egli è
Káir, mentre loro sono i gemelli, Trán e Káel. Sono tutti ottimi fabbri e
combattenti, anche la ragazza – essendo cresciuta tra uomini. I miei figli
hanno combattuto con me per difendere Erebor, e il maggiore mi accompagnò anche
durante la Battaglia dei Cinque Eserciti.» disse il carpentiere, con orgoglio.
Thorin appuntò mentalmente quell’informazione, poiché
ricordava di aver intravisto un paio di teste rosse tra i Nani, tanto tempo
addietro; ma nonostante la notizia, rimaneva il fatto che avessero il tanto
odiato sangue Elfico nelle vene, ed era un dato di fatto che non poteva
ignorare.
«Figli miei, egli è il Re di Erebor, sire Thorin
Scudodiquercia. Dovremmo ringraziarlo adeguatamente per l’ospitalità che ci ha
riservato durante queste settimane.»
Non gli sfuggì il disinteresse della femmina, che preferiva
giocare con le briglie del suo destriero, piuttosto che spostare l’attenzione
su di lui. Thorin chinò lievemente il capo, privo della corona, e venne imitato
dai ragazzi, che parvero entusiasti di incontrarlo personalmente. Káir avrebbe
voluto dirgli che avrebbe dovuto ringraziare l’uomo che aveva di fronte per il
solo fatto che potesse ancora camminare sulle sue gambe, ma il padre capì i
suoi pensieri e lo ammonì con un’occhiata severa.
«Ogni amico e suddito di Re Dáin è benvenuto nel mio regno,
soprattutto se ha combattuto valorosamente per difendere il nostro popolo.»
disse Thorin.
Trán tenne ostinatamente lo sguardo ovunque tranne che su di
lui. Si sentiva umiliata per ciò che le aveva tenuto nascosto, e adirata per
quello che il padre le diceva sul suo conto. Neanche il Re in persona avrebbe
potuto prendersi il lusso di infangare il buon nome della sua famiglia. Neanche
si rese conto di parlare. «Io non chiamerei ospitalità
l’essere insultato per il sangue che ti scorre nelle vene, padre.» disse
infatti, come se il Re non fosse che a pochi piedi da loro – e come se avesse
scordato la sua gentilezza di qualche giorno prima.
«Trán...» la rimbeccò il gemello, tirandole un colpo alla
gamba per zittirla.
Thorin rizzò la schiena, punto nell’orgoglio da quel tono
calmo ma evidentemente ostile. Sapeva bene a cosa si stesse riferendo la
ragazzina, poiché lei stessa glielo aveva fatto presente indirettamente, ma
fece finta di niente. «Qualcuno della mia gente vi ha arrecato offesa?»
«Abbiamo l’udito fine, se capisci cosa intendo, mio
signore.»
«Dunque vi porgo le mie più sentite scuse, a nome di
chiunque vi abbia oltraggiato.» Il Nano notò le nocche della giovane sbiancare
per la stretta delle sue delicate mani sulle briglie, così come un colorito
acceso le imporporò le guance. Ma non era certo l’imbarazzo che ricordava di
averle visto in viso quando l’aveva salutata, bensì rabbia.
Nonostante questo, però, continuò a rimanere calma. Rise,
senza ironia. «Non sforzarti di fingere dispiacere, mio signore. Sarai un bravo
combattente e un ottimo fabbro, ma la recitazione non è un’arte che fa per te.»
Il padre arrossì per l’audacia della figlia, e borbottò
qualcosa in segno di scusa. Ma anche egli, a quanto pareva, non era un bravo
attore, poiché ciò che lei aveva espresso a voce alta era anche il suo
pensiero.
E Thorin, questo, lo aveva capito bene, e non lo accettò. «Mi
occuperò personalmente di sistemare l’ordine e le buone maniere nel caso
qualcuno o qualcosa dovesse infastidire te e la tua famiglia; ma non osare mai più
insultare il mio nome e il mio onore, ragazza.»
Balin, che aveva udito la conversazione a distanza, si
accorse dello sforzo che il suo amico stava facendo pur di non sbottare in
qualche esclamazione poco signoresca e regale. Era sicuro che qualche decennio prima
sarebbe esploso senza riguardi, forte del suo orgoglio Nanico; ma anche Thorin
era cresciuto e diventato più saggio di un tempo. Eppure, temette, quella
ragazzina stava giocando con il fuoco. E questa volta non si trattava di un
Drago rosso seduto sul suo tesoro.
«Finché tu o chiunque altro non insulterà il nostro,
ovviamente. E ti ringrazio, messer Nano, ma io e la mia famiglia sappiamo
difenderci meglio di quanto non creda. Lo facciamo da tre generazioni, ormai.»
Messer Nano?
Thorin inspirò pesantemente, infastidito oltre modo. Aveva
tentato di essere cortese, nei limiti dei suoi pregiudizi e ricordando la
timidezza che gli aveva mostrato durante i loro incontri, ma quella ragazzina
senza neanche un filo di barba e dalle ridicole orecchie appuntite aveva
apertamente calpestato il suo ego.
«Mio signore, ti chiedo di scusare l’audacia di mia sorella.»
s’intromise Tarón, chinandosi e lanciandole un’occhiata di rimprovero. «È una
ragazza impulsiva e permalosa, non voleva certo offenderti. Inoltre, siamo
abituati a determinati commenti riguardo la nostra famiglia e, detto in tutta
sincerità, non ci recano offesa da tempo. Ci siamo abituati.»
Il Re tirò le briglie del pony, facendolo girare per
allontanarsi. Annuì, senza aggiungere altro, deciso a non sprecare ulteriori
parole con quella femmina dal sangue diluito, e accelerò il passo del pony, seguito
da Balin, che le rivolse un mesto e timido sorriso, a cui lei non rispose.
«Ma che ti è saltato in mente?» esclamò il maggiore dei
fratelli.
Lei si strinse nelle spalle. «Ho solo detto ciò che penso. E
non mi pare di essere stata scortese. Potevi evitare di baciargli i piedi in
quel modo, Tarón; possiedi anche tu una dignità.»
«È esattamente questo il motivo, abbiamo una dignità.» replicò il Nano. «E neanche io voglio che
venga calpestata; non dalle cattiverie, né dai battibecchi. Impara ad essere superiore
a chi ti insulta, Trán. È la migliore arma che hai e che abbiamo.»
Káel, nonostante tutto, ridacchiò. «Per la barba di Durin,
non hai ancora imparato a pensare prima di dare fiato alla bocca, sorella!»
I nipoti del Re, che avevano anch’essi origliato qualche
parola della discussione e incuriositi da tanto temperamento, si accostarono i
giovani Nani nel momento in cui il padre si allontanò per parlare con uno dei
suoi allievi.
«Buon giorno, mastri Nani. Signorina. Io sono Kili...»
«... e io Fili.»
«Al vostro servizio!» terminarono in coro.
I figli di Rulin si presentarono uno dopo l’altro, tranne Trán
che, come sempre, parve sospettosa. Il gemello parlò per lei. «Lei è Trán,
nostra sorella. Ed è la pecora nera del gruppo, visto che è l’unica femmina della
famiglia – oltre che è pessima nei rapporti sociali, ma questo lo avrete notato
anche voi.»
Fili ammiccò, osservandola con curiosità. Un paio di
fossette gli si formarono sulle guance barbute. «Mi pare che avessi un ottimo
uso della parola, qualche minuto fa, dama Trán.»
«Non sono molto aperta con gli sconosciuti, chiedo perdono.»
Quella risposta per poco non fece cappottare Kili dal suo
pony; il fratello sogghignò. «E dimmi, come puoi avere amici se chiunque,
all’inizio, è uno sconosciuto?»
Lei rimase in silenzio per qualche secondo, poi abbassò lo
sguardo, in difficoltà. «Non ho molti amici. Ho solo i miei fratelli.»
Il tono di sconfitta con cui parlò, ben lungi da quello
calmo eppure battagliero di poco prima, lasciò i due nipoti del Re quasi
sconcertati.
«Non essere così melodrammatica, sorellina.» disse Káir, per
minimizzare. «Hai un brutto caratteraccio, ma nessuno ti può biasimare per
questo.» Gli altri risero, e così anche Fili e Kili nel vederle un sorriso in
viso.
«Non mi pare di avervi mai visti in questi giorni.» disse il
Nano biondo, mentre il gruppo si metteva in marcia.
«E non passereste inosservati, con il colore dei vostri
capelli e la vostra altezza.»
«Dovete aver preso sicuramente da vostra madre.»
«A proposito, è di razza Elfica anche lei?»
Rimasero in apnea sommersi da tutte quelle parole. Ma i due
non parevano prendersi gioco di loro, e anzi, sembravano sinceramente
interessati di fare la loro conoscenza. A differenza dello zio, Kili e Fili
erano troppo giovani per poter capire il dolore del tradimento e dell’abbandono
di quella razza che avrebbe dovuto essergli amica, cosicché i loro pregiudizi
nei confronti delle Orecchie a Punta era fondato solo sui racconti dei Nani più
anziani.
«Ebbene, siamo giunti solo nell’ultima settimana prima della
partenza e non abbiamo avuto molto tempo per passeggiare attraverso i corridoi
di un palazzo enorme e che ci è sconosciuto.» disse Tarón. «Erebor è molto
diversa dai Colli Ferrosi e purtroppo non abbiamo avuto una guida adatta.»
«Questo perché non ci siamo incontrati prima!» esclamò Kili,
pimpante. «La prossima volta che soggiornerete nella nostra casa, sarei ben
felice di mostrarvi le bellezze di Erebor.»
«E io verrò con voi.» aggiunse Fili. «Non mi fiderei del
senso dell’orientamento di mio fratello; dopo tutti questi anni riesce ancora a
perdere la strada verso la sua stanza.»
«Il più delle volte è per causa della troppa birra.» precisò
l’altro.
Trán, nonostante tutto, non poté fermare un sorriso. Il suo
fratello più stretto annuì. «Ebbene, saremo lieti di visitare Erebor con
entrambi. E di ricambiare il favore, se doveste farci visita ai Colli Ferrosi.»
I due parvero soddisfatti della risposta e l’allegria gli si
allargò vistosamente sulle labbra.
Kili schioccò la lingua. «Allora, cosa dicevamo a proposito
dei vostri capelli?»
«Mi pare che Tauriel, l’Elfo femmina che incontrammo a Bosco
Atro, avesse i capelli rossi; magari è una vostra lontana parente. Ricordo
bene, Kili?»
Il moro parve arrossire, stupendo tutti. Mormorò qualcosa in
segno di assenso, ma evitò con abilità l’argomento, che a quanto pareva gli era
particolarmente spinoso.
«Ah! Purtroppo non hai indovinato, messer Kili.» fece il
minore dei fratelli, Trión. «Mia madre non aveva i capelli rossi, bensì una nostra
lontana nonna. E non era un Elfo.»
Non ci fu bisogno di spiegazioni per quel modo di parlare al
passato della madre; era evidente che avesse abbandonato la Terra di Mezzo
troppo presto.
«E avete sempre vissuto ai Colli Ferrosi?»
«Sì, sempre.» Quella volta fu la ragazza a rispondere. «E
sempre tra i Nani, se la cosa vi stupisce.»
«Oh, la cosa non ci stupisce affatto.» si affrettò a dire
Fili, ben capendo il tono irritato della giovane. «Siete Nani, del resto. No?»
Káel sorrise, fieramente. «A tutti gli effetti, mastro Fili!»
Ed era vero. Nonostante fossero leggermente più alti della
media e più simili a giovani Uomini, non avevano mai messo in dubbio le loro
origini. Erano nati da due Nani, avevano vissuto con la loro razza, e sarebbero
morti tra loro – a discapito di ciò che Thorin Scudodiquercia o chi per lui
insinuava sul loro conto e su quello dei loro avi.
«Vi dispiace se cavalchiamo con voi per il resto della
giornata?» domandò Kili. «Mi pare di avervi visti in battaglia, ad Erebor.»
«E ci piace discorrere con qualche viso nuovo, ogni tanto.»
Trán guardò i fratelli in una tacita richiesta di aiuto,
poiché i nipoti del Re si stavano rivolgendo a lei, in realtà, come se
sapessero che avrebbero dovuto chiedere il suo permesso per rimanere. Ma nessun
appoggio giunse da quei mascalzoni dei suoi consanguinei. Lanciò un’ultima,
veloce occhiata al Re di Erebor, che cavalcava ritto e fiero più avanti, in
testa ai suoi uomini e affiancato dai compagni più stretti. Si ritrovò a
stringere le labbra, indecisa; ma non poteva negare che quei due giovani Nani
che avevano deciso di intavolare una discussione con loro fossero decisamente
più affabili del Re. Che fine avesse fatto il Nano cortese con cui aveva parlato,
però, non seppe dirlo.
Così si rivolse con un timido sorriso e annuì. «Ci farebbe
piacere, invece.»
E lo diceva sul serio.
5 Agosto 3019 T. E.
La brezza del
fiume che sorgeva nelle Montagne Grigie li fece respirare nuovamente, dopo aver
percorso l’Antica Via Silvana. La foresta di Thranduil non appariva più tetra
come un tempo, avevano notato con sollievo i Nani che l’avevano attraversata
parecchi anni prima, quando erano diretti alla riconquista di Erebor; il Re
degli Elfi, aiutato dalle forze di Lórien, aveva allontanato e sconfitto il
male, ed erano giunte voci che quell’immensa vastità di alberi avesse preso il
nuovo nome di Eryn Lasgalen, Bosco di
Foglieverdi. Ma i Nani non erano famosi per riuscire ad apprezzare la
vegetazione, soprattutto se i proprietari erano gli Elfi; fu quindi un sollievo
abbandonare la foresta e trovarsi in aperta campagna. L’antica strada,
costruita dai loro avi per scopi commerciali tantissimi anni addietro,
proseguiva verso il vecchio passaggio sull’Anduin; un tempo lì vi era un ponte
in pietra, che permetteva un comodo attraversamento del letto del fiume, e che
faceva proseguire la via verso il Passo Alto. Ora non rimaneva che un semplice
guado e qualche pietra in rovina.
Ad attenderli
vi erano un gruppo di Elfi, che si era reso disponibile a costruire delle
resistenti e confortevoli imbarcazioni per discendere il fiume con facilità.
Nessuno di loro era un amante delle barche, ma era il metodo più veloce e
sicuro che avessero a disposizione per raggiungere Gondor. Sarebbe stato un
viaggio di una settimana, al massimo, fino al raggiungimento delle Cascate di
Rauros, e nel frattempo avrebbero trovato il modo di riposarsi dopo la prima
tappa di marcia.
Molti di loro
non avevano mai navigato un fiume, quindi fu un’esperienza interessante, e a
tratti spaventosa, per la maggior parte. Soprattutto quando i flutti prendevano
un po’ di velocità per qualche ripido pendio, e loro imprecavano antichi
insulti in Khuzdul, pregando Mahal che li facesse arrivare a destinazione sani
e salvi.
La terza notte
di viaggio si accamparono lungo la sponda occidentale dell’Anduin. Il Bosco di
Lórien era visibile anche nella notte: una macchia nera che si estendeva fino
alle pendici delle Montagne Nebbiose. L’idea di avere il Regno Elfico più potente
della Terra di Mezzo a portata di vista li rassicurò e li inquietò
contemporaneamente; ma era la lontana sagoma di Dol Guldur, visibile sotto i
raggi lunari dall’altra parte del fiume, a turbarli di più. Il Male aveva
abbandonato quelle terre, ormai, ma i ricordi dell’oscurità che regnava sovrana
solo qualche mese prima era ancora accesa nei loro animi. Quella notte, Thorin
ordinò di raddoppiare il turno di guardia, e molti si trovarono ad essere
d’accordo con la sua cautela.
Trán, in
particolare, continuava a guardarsi intorno, stando attenta al benché minimo ed
estraneo movimento. Il gemello seguitava a dirle che fosse paranoica e che
attirasse la sfortuna su di sé, ma lei non vi badò più di tanto. Per fortuna,
Fili e Kili erano di tutt’altro avviso e, dopo aver cenato in compagnia dello
zio e dei loro compagni, si avvicinarono ai loro nuovi amici, per chiacchierare
un po’ prima di dormire. In quei giorni non avevano trascorso parecchio tempo
insieme, poiché viaggiavano su imbarcazioni diverse; ma ogni volta che si
presentava l’occasione, i due fratelli amavano unirsi a loro, sotto lo sguardo
perplesso e parecchio infastidito di Thorin.
Il Re non aveva
più avuto occasione di parlare con la ragazzina, poiché questa faceva di tutto
per evitarlo: sfuggiva il suo sguardo, si allontanava quando lui provava ad
avvicinarsi con la scusa di parlare ai nipoti; e le poche volte che scambiavano
due parole non era certo per chiacchierare civilmente. Così Thorin aveva deciso
che non avrebbe sprecato ulteriore tempo né fiato, dietro a quella nanerottola
insolente. Ciò che più gli dava sui nervi era il fatto che Fili e Kili, d’altra
parte, la trovassero estremamente piacevole. Cosa ci fosse di piacevole in una impertinente
dal sangue macchiato ancora non riusciva a capirlo. L’unica cosa di vagamente
interessante, suo malgrado, era l’aspetto. Perché, nonostante non fosse una
comune Nana e la sua bellezza non potesse essere calibrata per le regole della
sua razza, Trán era seducente quanto il suo infinito orgoglio.
Cacciò via quei
pensieri, e riuscì a sdraiarsi e a prendere sonno solo quando i nipoti
tornarono nei giacigli accanto al suo. Sembravano allegri e spensierati, e ciò
gli mise ancor di più malumore.
Dall’altra
parte dell’accampamento, Trán rimase sveglia ad osservare il cielo e le stelle.
Non lo aveva mai fatto, prima di allora; ma da quando si era messa in viaggio
per quell’avventura, ogni notte non faceva altro. Si perdeva nella vastità del
cielo, ricamato di puntini luminosi, e il suo divertimento maggiore era
riuscire a riconoscere qualche forma familiare tra quelle stelle.
«Sorellina,
perché non dormi? Dev’essere tardi.» le sussurrò Káel, che sonnecchiava a
pancia in giù, accanto a lei.
«Sono
irrequieta.» mormorò. «E il cielo aiuta a calmarmi.»
Il fratello si
voltò sulla schiena, e la osservò. «Vuoi dirmi cosa ti turba?»
Si strinse
nelle spalle, non sapendo cosa rispondere. C’erano parecchie cose che la
stavano impensierendo, ultimamente. Soprattutto la fastidiosa sensazione di
essere spiati. E poi, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, c’era
la presenza ingombrante del Re di Erebor, che continuava ad importunarla anche
durante il sonno. Sentiva la sua voce che pareva gentile e sinceramente
interessata a lei; ma poi tramutava improvvisamente, e allora iniziava ad
insultare lei e la sua famiglia. Le mattine seguenti, ovviamente, non riusciva
a guardarlo in viso senza la voglia di dargli un pugno.
«Non è niente
in particolare, davvero.»
«Sei una
pessima bugiarda.» Káel ridacchiò, allungando una mano ed accarezzandola.
«Vieni qui, tra le mie braccia. Qualunque cosa ti turbi, riuscirò a scacciarla
via.»
Trán sorrise, e
si stava per muovere quando entrambi si misero sull’attenti. Udirono
indistintamente un fruscio e quello che pareva il rumore di parecchi piedi che
pestavano il terreno, sulla riva opposta. Káel appiattì un orecchio sul
pavimento di foglie e rimase in ascolto, mentre la Nana aguzzava la vista e
osservava attentamente la sponda orientale.
«Sono parecchi,
ma non troppi. Dovremmo riuscire a contrastarli facilmente.» disse Káel.
Lei annuì.
«Dici che sono Orchi?»
«No, sono più
leggeri. Sono Uomini.»
Un movimento
alla loro sinistra li fece sussultare. Ma si trattava di Káir, che si era
svegliato per il loro continuo chiacchiericcio e pareva parecchio irritato.
«Ragazzi, stavo sognando! Che avete da pettegolare?»
Trán non gli
rispose, rivolgendosi al gemello. «Bisogna avvertire i Re, ci pensi tu? Io
sveglio nostro padre.»
Káel era già
corso verso le tende reali e poco dopo tutto l’accampamento si ritrovò in
subbuglio e sotto attacco. Un paio di frecce infuocate avevano attraversato il
fiume e ora l’erba sotto i loro piedi bruciava. Molti corsero alla riva, per
raccogliere acqua e spegnere l’incendio, mentre gli altri si armavano per la
difesa. Purtroppo, tra loro, c’erano pochi arcieri, cosicché dovettero
ritirarsi dalla sponda verso l’interno, per cercare protezione dalle lunghe
gittate degli archi nemici.
Trán prese per
mano il fratello minore, non prima di aver assicurato la sua spada alla destra.
Ringraziò mentalmente il suo pessimismo, che le aveva permesso di portarsi
l’arma in viaggio, e si allontanò dalla tenda, vicino agli altri Nani. La luna
venne oscurata da un banco di nuvole, e per un attimo l’unica fonte di luce
erano le fiammelle dell’incendio. Non videro, quindi, le zattere cariche di
Uomini che, silenziosamente, si avvicinarono alla riva. Quando se ne accorsero
era, ovviamente, troppo tardi.
La Nana si
raggelò sul posto nel vedere la battaglia improvvisa infuriare tutto intorno a
lei. I fratelli le gridarono di allontanarsi e di non compiere sciocchezze, ma
lei era terrorizzata e non riuscì a muoversi. Non si era mai trovata nel bel
mezzo di un combattimento e guardò la sua spada con sconcerto. Non aveva la
minima idea di come muovere il braccio, perché in quel momento era convinta di
non averne uno. Tutte le ore spese ad allenarsi con i fratelli parvero svanire
nel buio della notte, perché dimenticò ogni singolo insegnamento.
Si guardò
intorno e riconobbe il padre, poco distante, che nonostante la vista dimezzata
sembrava un giovane guerriero nel pieno delle forze; vide i fratelli che lo
circondavano come le migliori guardie del Re; e Kili, che dava libero sfogo
alle sue precise frecce, mentre Fili combatteva poco più in là con due spade.
Tra loro sbucava l’imponente figura di Thorin, che brandiva la leggendaria
Orcrist nella mano destra e si difendeva con il suo famoso scudo di quercia con
l’altra. Trán rimase a guardarlo, mentre uccideva con facilità assurda tre
Uomini uno dopo l’altro, e si riscosse solo quando udì Trión strillare. Un Uomo,
dal viso coperto, si stava dirigendo verso di loro, con una spada già
insanguinata pronta a colpirli. Trán non riuscì a muoversi, paralizzata dal
terrore; e sarebbero stati entrambi uccisi se non fosse che lo stesso
assalitore cadde colpito da una freccia sul petto.
Poco dopo i
corni degli Elfi, giunti in loro soccorso, risuonarono per la campagna. I Nani
si sorpresero di quell’aiuto inaspettato, e combatterono insieme contro il
comune nemico, che venne sconfitto ora con facilità. L’incendio venne spento e
la luna tornò a brillare sopra le loro teste. Ci fu silenzio per parecchi
minuti; Nani ed Elfi rimasero ad osservarsi, i primi increduli e imbarazzati
nell’aver avuto bisogno del loro aiuto per sbarazzarsi degli aggressori. Ma un
Elfo biondo e altero si fece avanti, insieme ad altri due che molto gli
somigliavano. Guardò Thorin, che mosse solo qualche passo verso di loro e puntò
la spada contro il terreno, ma non la ritirò.
«Inaspettato
giunge il vostro arrivo.» disse il Nano, sollevando il mento.
L’Elfo portò
una mano al petto. «E con un buon tempismo, aggiungerei, Thorin Scudodiquercia,
Re Sotto la Montagna.»
«Gli Elfi
sembrano sempre conoscere il mio nome, ma non mi pare di averti mai incontrato.»
«Io sono Haldir,
Capitano dei Galadhrim e Protettore dei confini del Reame di Lothlórien. E loro
sono i miei fratelli, Rúmil e Orophin.» fece l’Elfo. «Dama Galadriel ci aveva
informati che sareste passati per questa via, e che avremmo dovuto prestarvi
soccorso.»
Un brusio di
sgomento si sollevò per il campo, ma nessuno osò chiedere come quella
fattucchiera che sapeva leggere la mente potesse prevedere un evento simile.
L’unico che non
si fece intimidire fu proprio Thorin, che sedò ogni chiacchiericcio. «Non avevamo
bisogno dell’aiuto degli Elfi, Capitano dei Galadhrim. Avremmo potuto difenderci
anche senza il vostro aiuto.»
Haldir gli si
avvicinò fino a farlo sentire basso come un fungo, e lo osservò intensamente. «Bada
a come utilizzi la tua lingua, Thorin figlio di Thráin. Poiché in futuro dovrai
renderne conto e pagherai le conseguenze del tuo orgoglio e della tua
testardaggine. E anzi, qualcosa mi dice che stai già subendo i risultati del
tuo comportamento.» Lasciandolo perplesso con quell’enigma, l’Elfo lo sorpassò,
fermandosi su un cadavere.
Dwalin, che lo
teneva come trofeo con un piede sul busto, lo fece girare tirandogli un calcio e
rivelandone lo stemma sulla sua armatura.
«Uomini di
Rhûn. Credevo che gli Esterling si fossero arresi.» fece Dáin, sorpreso.
«Ci sono ancora
forze del Male in azione, nel lontano Est.» fu la risposta di Haldir, che
guardò verso quella direzione. «Dol Guldur è stata disinfestata con le nostre
mani, ma il Male proviene da ben più lontano. Si sposterà velocemente a Sud,
ora che sa che il Re degli Uomini lo regna e sta ancora cercando di risollevarne
le sorti. Dovrete parlare con l’Elessar appena ne avrete la possibilità. Gondor
non è ancora al sicuro.»
Thorin, che
aveva rimuginato sulle parole dell’Elfo fino a quel momento, si voltò. Dall’espressione
del suo viso sembrava volesse fronteggiarlo, ma chinò il capo. «Sai per caso se
il fiume fino alle Cascate sia pericoloso?»
«Dovrete stare
attenti, sì. Ora che sanno che siete in marcia, rallentati da ciò che
trasportate e non equipaggiati per un vero scontro, potrebbero attaccarvi
ovunque, in qualsiasi momento. Accampatevi il più lontano possibile dalla riva,
durante la notte, o se potete evitate di fermarvi. Le barche che vi trasportano
sono buone abbastanza anche per dormirci sopra.» Poi spostò lo sguardo sui
figli di Rulin, che si sentirono chiamati in causa dai suoi occhi chiari ed
arrossirono. «Hai occhi e orecchie fini, tra la tua gente, Re Thorin. Fanne
buon uso.»
Il Nano guardò
il gruppo di fratelli e fermò lo sguardo su Trán, che abbassò il suo con la
scusa di accarezzare i capelli al piccolo Trión. Strinse le labbra, ma annuì.
«Ebbene, seguiremo il tuo consiglio. E a nome di tutti, ti ringrazio per il
vostro aiuto.»
Haldir chinò il
capo. «Non è usanza degli Elfi di Lórien prestare soccorso a coloro che tanto
ci odiano; ma abbiamo avuto prova di Nani che sanno andare oltre le divergenze
ed i vecchi rancori. Quindi non ringraziarci, poiché è questo ciò che fanno gli
amici nel momento del bisogno.»
Thorin avrebbe
voluto ribattere, ma Balin lo interruppe con una mano sul braccio. «Sappiate
che il sentimento è reciproco.» disse, con un profondo inchino, tanto che la
barba bianca toccò per terra.
Il Capitano
degli Galadhrim sparì tra gli alberi con i suoi simili poco dopo, e il silenzio
tornò a regnare sovrano.
Il Re Sotto la
Montagna non dovette gridare troppo forte per farsi sentire da tutti. «Qualche
ferito?» Il brusio di qualcuno che parlava di lievi escoriazioni fu interrotto
nuovamente dalla sua voce. «Oin, occupati di curare chi ne ha bisogno.» Quello
annuì, inchinandosi e correndo a prendere il necessario. Il Re continuò. «Chi
di voi è stato il primo a dare l’allarme?»
Trán e Káel
persero più di un battito nel sentirsi chiamati nuovamente in causa. Il
fratello la prese per mano e mosse qualche passo verso il Nano, che li osservò
con impassibilità.
Thorin fece
scivolare lo sguardo su di lei, che non osava guardarlo, come sempre. «Ebbene,
vi sono grato a nome di tutti per la vostra acutezza. A quanto pare, avere
sangue Elfico nelle vene può essere un vantaggio.»
Fu solo in quel
momento che Trán alzò gli occhi sul Nano. Egli notò la mascella contrita, ma fu
soddisfatto di aver richiamato finalmente la sua attenzione. «Da questo momento
in poi, se mio cugino Dáin lo permetterà, voglio che almeno uno di voi e dei
vostri fratelli stia di guardia durante la notte e durante il viaggio.
Ovviamente, se accetterete, non dimenticherò il vostro servizio.» Vide
nell’espressione della ragazza il desiderio di ribattere seccamente, ma ebbe la
buona decenza di tacere; non parlava facilmente con una persona, e non lo
avrebbe fatto con un pubblico di Nani in religioso silenzio.
«Posso iniziare
da subito, sire Thorin.» disse Káel, portandosi una mano al petto, mentre anche
gli altri suoi fratelli gli si affiancavano. «Sarebbe un onore per la mia
famiglia.»
Thorin si voltò
verso il cugino, che annuì. «Molto bene. Gli altri tornino a dormire.»
Trán scostò lo
sguardo altrove quando notò il Re avvicinarsi a lei, le mani giunte dietro la
schiena.
Thorin si fermò
a pochi passi di distanza, osservando il fiume, che ora pareva una minaccia. «Hai
visto bene ad affilarla prima di partire.» le disse, rivolgendo lo sguardo
sulla spada e prendendola gentilmente dalle sue mani. La osservò sotto la luce
della luna e lei arrossì per le parole che le rivolse poco dopo. «Hai fatto un
buon lavoro; ma è inutilizzata, a quanto pare.»
«Se il motivo di
questa discussione è prenderti gioco di me per le mie scarse qualità combattive,
allora...»
«Ti sei
spaventata, è normale. Non ti biasimo per questo, le donne non sono fatte per
la guerra. Volevo ringraziarti, invece.» la interruppe bruscamente il Nano,
mentre il volto gli si induriva per l’insolenza di quella ragazzetta. «Volevo
ringraziarti per aver salvato le vite dei miei uomini, anche se lo hai fatto senza
l’uso di un’arma.» Gliela restituì e lei la riprese, con malcelata stizza.
«Lo hai già
fatto poco prima, e a nome di tutti. È sufficiente.»
Thorin aggrottò
la fronte e la bloccò per un braccio quando lei fece per ritirarsi. «Ti ho
offesa così tanto da parlarmi come se non avessi di fronte un sovrano, ragazzina?»
le domandò, gli occhi chiari in fiamme per la rabbia. «Non ti permetto di
rivolgerti a me con questo tono.»
«Tu non sei il mio re.» scandì lei, a denti
stretti. «E se per offesa, mio
signore, intendi aver nascosto la propria identità per sapere cosa una Nana
discendente di un Elfo avesse da dire di te, e considerare la mia famiglia una
disgrazia che ogni tanto potrebbe tornare utile durante le ronde notturne...
ebbene, sì, mi hai profondamente offesa, sire Thorin. E dovrai fare molto più
di un ringraziamento per riguadagnare la mia stima, se ciò ti interessa. Ora,
gradirei andare a dormire.» disse, riferendosi chiaramente alla mano che la
teneva ancora saldamente stretta per un braccio.
«Nella mia
posizione chiunque avrebbe agito ugualmente. Un re deve usare ogni mezzo per
scovare i propri nemici.»
«Nemici? Parli
di nemici quando la mia famiglia ha rischiato di morire più d’una volta pur di
combattere al tuo fianco? E solo Mahal sa che lo farebbe ancora ed ancora,
nonostante il tuo disprezzo!» Trán si divincolò dalla sua presa, ma solo perché
lui glielo permise. «Sì, sono offesa con te, Re di Erebor; e fintanto che
continuerai con la tua arroganza e la tua cecità, allora la mia opinione su di
te non cambierà. Con permesso, mi ritiro.»
Thorin la
osservò allontanarsi a passo spedito, spinta da una terribile voglia di correre
e scappare lontano da lui. Sospirò con pesantezza, avvicinandosi alla riva del
fiume e scavalcando un cadavere, osservando il cielo. Era stato meschino ad
usare la ragazza per sentire con le proprie orecchie il parere della sua
famiglia su di lui, eppure quei limitati momenti in cui avevano chiacchierato
era stato sinceramente incuriosito da lei. Aveva lasciato da parte ciò che
rappresentava e l’aveva dimenticato per quei pochi minuti, assorbito dalla sua
nuova conoscenza; poiché non erano molte le donne di carattere che aveva
incontrato, e quella ragazzetta sembrava averne abbastanza per un esercito.
Ma era
impertinente, e non sapeva mostrare rispetto neppure ad un Re. Se lei si
sentiva offesa, lui era oltremodo oltraggiato dal suo comportamento.
Tornò alla sua
branda, silenzioso e pensieroso, tanto da non sentire i nipoti che si stavano
vantando del numero di nemici abbattuti. Si sdraiò dando loro le spalle,
fissando il buio.
Quella notte
nessuno riuscì a chiudere occhio.
*
Quanti
scommettono che o Trán o Thorin non giungeranno alla fine della storia illesi,
per mano dell’altro? :D
E
dunque, si delinea anche la figura del pericolo che minaccia Gondor, ma... non
è certo tutto qui. Ovviamente, perché sono sadica. Mwahah!
Ne
approfitto per utilizzare questo spazietto per informarvi dell’esistenza di un
fan-movie in fase di pre-produzione sulla caduta di Gondolin
(per chi non sapesse di cosa sto parlando, leggete il Silmarillion. (; Ma
leggetelo a prescindere. XD). Il film s’intitola Storm OverGondolin
(informazioni su http://www.stormovergondolin.com/,
dentro troverete anche collegamenti a twitter e facebook), e signori e signore, io faccio parte del team. :) Sono una dei conceptual
designer, e mi sono già messa a lavoro. Vi chiedo la cortesia di far girare la
voce, perché necessitiamo di fan e di supporto (morale e non).
Prima di lasciarvi al nuovo capitolo, vorrei
fare un piccolo appunto che riguarda ciò che leggerete, per evitare
fraintendimenti e perplessità.
La prima parte si sposterà nuovamente a Gondor,
perché avevo voglia di scribacchiare qualcosa sui nostri Uomini preferiti e di
non lasciare tutta la scena ai Nani. E dato che li volevo fuori dalle mura di
Minas Tirith, anche per introdurre un altro paio di personaggi che saranno una
spina nel fianco, ho avuto un’idea.
L’appunto è questo: la foresta Drúadana è stata
donata da Aragorn ai suoi abitanti durante il cammino delle spoglie di Théoden verso
Rohan, liquidati con una frase veloce e di passaggio.
Citando il libro: “Senza fretta e con serenità traversarono l'Anórien, e giunsero al Bosco
Grigio presso Amon Dîn; e là udirono come dei tamburi rullare sulle colline,
pur senza vedere alcun essere vivente. Allora Aragorn fece squillare le trombe
e gli araldi gridarono: «Mirate, il Re Elessar è venuto! La Foresta di Drúedan
egli dona a Ghân-buri-Ghân ed alla sua gente; che appartenga loro per sempre, e
che nessun mortale vi entri senza il loro permesso!». Allora i tamburi
rullarono a lungo, e poi tacquero.”
Dato che il cammino verso Edoras, da Minas
Tirith, cioè la Grande Via Ovest, circonda la foresta e non vi entra
direttamente, ho pensato di cambiare un pochino gli avvenimenti – e di
posticipare la donazione di qualche settimana.
E intanto i Nani proseguono la discesa verso
Sud... buona lettura!
Pietra
-sequel di Betulla -
04.
6 Agosto 3019 T. E.
Alzò gli occhi al cielo e sospirò
accaldata, accarezzando il manto bruno di Nerian, il suo cavallo di Rohan.
L’aria afosa dell’estate non pareva soffiare via, anche a causa di quel velo
leggero di nubi che manteneva la calura su di loro. Non indossava la pesante
divisa che Aragorn le aveva regalato, ma i suoi soliti abiti di Dúnadan, più
leggeri e confortevoli per una galoppata verso la foresta Drúedana, dove
sperava di ritrovare un po’ di frescura. Aveva accolto la decisione del suo Re
con entusiasmo, poiché i Woses, o
Uomini Selvaggi, avevano accompagnato i Rohirrim durante la Guerra dell’Anello,
affinché portassero l’aiuto necessario a Gondor, ed Aragorn aveva deciso di
dare loro la riconoscenza dovuta. Con lui, oltre lei e Boromir, vi erano anche
il Secondo Capitano e la sua Prima Lancia, rispettivamente Ecthirion e Mardil,
due cavalieri fidati e devoti al loro Re e al loro Sovrintendente. Legolas e
Gimli chiudevano il gruppo, insieme ad un piccolo manipolo di soldati.
Si fermarono sul limitare della foresta
di pini, e l’Elessar parlò. «Miei fedeli compagni, che oggi mi seguite nel
regno di Ghân-buri-Ghân, vi chiedo di lasciar indietro le dicerie su questi
Uomini, poiché essi sono nostri amici e hanno combattuto per secoli il Male che
gli Orchi hanno portato. Essi sono pochi e molto cauti; conoscono questa
foresta meglio di chiunque altro, ma non ci attaccheranno se non gli daremo
ragione per farlo. Siamo qui per ringraziarli del loro aiuto e per dare loro la
pace che meritano. Procediamo dunque con cautela e serenità, ma vi consiglio di
mantenere le bocche chiuse.»
Gimli grugnì. «Odio le foreste e ciò che
c’è dentro.»
Si mossero poco dopo, spronando i loro
cavalli ad un’andatura lenta. I loro zoccoli sembravano leggeri a contatto con
gli aghi dei pini, ed il profumo delle conifere le inebriò i sensi. Brethil
chiuse gli occhi per qualche secondo, riappacificando i tumulti e i turbamenti
del suo animo con la tranquillità del bosco, e non si accorse di Boromir, che
cavalcava al suo fianco, intento a scrutarla con la coda dell’occhio e un lieve
sorriso sulle labbra. Il Sovrintendente era felice nel vederla rilassata,
poiché temeva che la vita di città, la vita di corte, non fosse ciò che si
aspettava. Gli uomini che li seguivano alle loro spalle erano un esempio vivente
di quanto l’ambiente maschile di Minas Tirith potesse essere troppo angusto per
una donna. Ma lì, circondata dalla natura e dal silenzio, Brethil sembrava a
casa, e per un attimo dimenticò chi fosse e quale ruolo ricoprisse.
Legolas, che aveva avuto la medesima
idea, però riaprì gli occhi e tese le orecchie. Non si erano addentrati troppo
in profondità tra gli alberi, ma lo percepì quasi subito. Dapprima fu un rumore
irrilevante per gli umani, che si confondeva con il cinguettio di qualche
uccello e il fruscio del vento tra i rami; ma poi quel tamburellare ritmico si
fece più sicuro e forte, e anche i soldati iniziarono ad udirlo, allarmandosi.
Gimli sussultò. «Che diavoleria è
questa? Mi sembra di essere tornato a Moria, con quei dannati tamburi. Solo che
qui è tutto troppo... verde.» Marcò
bene il disprezzo sull’ultima parola.
«Questo, amico mio, è il loro modo di
comunicare a distanza.» fece Boromir, rallentando l’andatura ed affiancandosi
ai due. «Si sono accorti della nostra presenza e stanno decidendo come
comportarsi. Sono molto schivi.»
«Non mi pare un buon segno.» mormorò il
Nano, stringendo la presa sulla sua ascia.
«Sai, potresti essere scambiato per uno
di loro, a ben vedere.» fece Legolas, che aveva catturato con lo sguardo un
ometto basso e tarchiato, dai corti e neri capelli e gli occhi piccoli ed
incassati che li controllavano attentamente. Era nascosto dietro un cespuglio,
poco più avanti, e teneva tra le mani un arco, con una freccia incoccata. «Sono
brutti e diffidenti come te.»
Boromir trattenne a stento una risata, e
Brethil scosse mestamente il capo, sorridendo. I tamburi si fecero più chiari e
il rullio terminò quando Aragorn, in testa al gruppo, si fermò in una piccola
radura baciata dai tenui raggi del sole che filtravano attraverso il velo di
nuvole. Davanti a lui stava un Uomo, basso e tozzo dalla scompigliata barba
scura, e Brethil spalancò gli occhi grigi nel constatare che fosse praticamente
nudo, tranne che per una gonnella fatta di erba e foglie.
Aragorn smontò da cavallo, imitato dagli
altri, e si chinò con una mano sul petto. Tutti furono ben consapevoli di
essere circondati dagli Uomini Selvaggi, poiché il rullo dei tamburi pareva
giungere da ogni direzione, sebbene nessuno riuscì a vederli.
Gimli tirò una gomitata all’Elfo.
«Dovrai pormi delle scuse sincere per avermi paragonato ad uno di quelli, oppure
te le strapperò dalla bocca a suon di calci.» Legolas, in risposta, sorrise.
«Io conoscere te.» fece la voce
gutturale del Drúedan, che incrociò le braccia grasse al petto villoso. «Tu Re di
Uomini.»
Aragorn annuì. «E tu sei Ghân-buri-Ghân,
il capo dei Drúedain, immagino.»
«Aye.
Perché tu qui con soldati?»
«Essi sono i miei più fidati amici, e
giungiamo da Minas Tirith per omaggiare te e la tua gente per l’aiuto che deste
qualche mese fa. Se non fosse stato per voi, le éored di Rohan non sarebbero giunte in tempo e illese per difendere
le nostre mura.»
«Voi sconfitto gorgûn. Noi odiare gorgûn.»
Brethil corrugò la fronte e Boromir, al
suo fianco, le sussurrò la traduzione. «Orchetti. Li detestano con tutto il
cuore.»
«È vero.» Continuò Aragorn, la cui espressione
si distese, serena. «Ma con Rohan è giunto anche il vostro desiderio di essere
lasciati in pace e di vivere in questa foresta in tranquillità. Ebbene io, Re
Elessar, dono la Foresta di Drúedan a te e alla tua gente, affinché appartenga
a voi e voi soltanto. Nessun mortale potrà entrarvi senza il vostro permesso. E
vi prometto che farò tutto ciò che è in mio potere per tenere lontano i gorgûn da questi confini.»
Il viso calloso di Ghân si tramutò in
una smorfia, che ricordava vagamente un sorriso, e si chinò profondamente. «Noi
non avere amici, ma rispettare te e tuo popolo.» disse, in uno stentato
Linguaggio Corrente. «Tu nemico di gorgûn,
tu alleato. E io ringraziare te per dono, Re di Uomini. Tu non bisognare di
permesso. Tu essere benvenuto in mia foresta.» I tamburi rullarono a lungo,
finché quello sparì tra la vegetazione dopo un ultimo inchino, e con esso anche
quella musica inquietante.
Gimli si guardò intorno, girandosi su se
stesso per assicurarsi di essere nuovamente soli. Poi, poggiando un braccio sull’ascia,
brontolò. «Beh, possiamo andarcene ora, no?»
Non capì se l’occhiata di Aragorn fu di
rimprovero o di divertimento, ma non gli importò. Prima si allontanavano da
quell’ammasso di erba e tronchi, prima avrebbe dimenticato il rumore dei
tamburi – che era sicuro, avrebbe infastidito i suoi sogni per le notti
successive.
«In realtà, vorrei fermarmi qualche
tempo nel Bosco Grigio.» fu la tranquilla replica dell’Elfo.
Il Nano sbuffò. «E dimmi, cosa c’è di
così diverso ed interessante in un altro bosco del tutto simile a questo? Dopo
che ne hai visto uno, li hai visti tutti.»
Ridacchiando, montarono a cavallo e
procedettero lungo la direzione opposta dalla quale erano giunti. Il Bosco
Grigio era proprio sul limitare degli alberi dei Drúedain, e Boromir tornò
indietro negli anni, quando era un ragazzo e spendeva interi pomeriggi con il
fratello tra quegli alberi di pini, per cacciare o semplicemente per sdraiarsi
e raccontarsi antiche storie e leggende. Pensò che gli sarebbe piaciuto
riprendere quelle attività rilassanti con Brethil, per allontanarsi dalla
realtà e spendere un po’ del loro tempo insieme. Ma sapeva anche che i compiti
e i doveri che attendevano entrambi, una volta tornati a Minas Tirith,
difficilmente gli avrebbero permesso tanto lusso. Così assecondò il desiderio
di Legolas, approfittando di quella mattinata di tranquillità.
«Verrai con noi?» domandò al suo Re e
amico.
Aragorn annuì. «Sì, ho bisogno di
trascorrere qualche ora con i miei vecchi compagni. Mancano cinque importanti
membri della Compagnia, ma mi accontenterò di voi tre.» aggiunse, ridendo.
«Miei signori.» li richiamò Ecthirion,
visibilmente in disaccordo. «Suggerirei di tornare alla Cittadella il prima
possibile. Abbiamo molto su cui discutere. Ed è quasi ora di pranzo, non
abbiamo cibo con noi.»
«A quello posso rimediare io.»
Gli Uomini si voltarono verso Brethil,
che aveva parlato. Lei alzò le sopracciglia, domandando tacitamente quale fosse
il problema, e i suoi amici sorrisero.
«Non andrai a caccia, se è quello che
stai pensando.» replicò duramente Ecthirion, che pareva godere nel contrastarla
in qualsiasi cosa che dicesse o facesse.
Brethil ghignò. «Se la vista del sangue
di un coniglio ti spaventa, o non sai accendere un fuoco per cucinare, non
preoccuparti. Ho una vita di esperienza alle spalle.»
Il Secondo Capitano di Gondor strinse
gli occhi chiari e i pugni, le cui nocche sbiancarono visibilmente. Fece per
replicare, ma Boromir s’intromise. «Avremo l’intera giornata di domani per
discutere, amico mio. Noi tutti necessitiamo di una pausa, e oggi mi sembra
l’occasione perfetta.»
«Ebbene, con il dovuto rispetto, non
starò qui a farmi insultare da una donna, né rinuncerò ad un comodo pranzo ad
un tavolo, piuttosto che su un tappeto di foglie. Con permesso, sire, io
tornerei in città.»
Il Re chinò il capo. «Mi rattrista non
avere la tua presenza, ma sei libero di andare e di portare con te chiunque
voglia seguirti. Non ho bisogno della scorta, questi alberi sono ben sorvegliati.»
Indispettito dal comportamento del suo
sovrano, che pareva accettare qualsiasi stranezza da parte di quei suoi
compagni stranieri, chinò a sua volta il capo, e si allontanò con Mardil e il
manipolo di soldati al loro seguito.
«Grazie ai Valar, che ci hanno
liberato.» mormorò Brethil, tra i denti.
«Non mi piace quel tipo.»
Boromir sospirò. «La tua schiettezza non
smetterà di sorprendermi, Gimli. Ma nonostante possa sembrare una persona dura,
egli è un bravo combattente e morirebbe per il suo signore.»
«Preferirebbe vedere me morta, oserei dire.»
«Brethil...»
La donna non aggiunse altro, spronando
al trotto il suo Nerian per allontanarsi dal gruppo, ma sia Boromir che Aragorn
sapevano cosa le stesse passando per la testa ora. Così come erano ben consci
del cattivo sangue che scorreva tra i due. Ecthirion era l’emblema del soldato
che non accettava una donna tra i suoi ranghi; che questa, poi, coprisse una
posizione più alta della sua e dovesse sottostare ai suoi ordini, ancora non
riusciva a concepirlo. La detestava, e non faceva niente per nasconderlo.
Così rimasero solo loro, vecchi compagni
di avventure, e cavalcarono lentamente tra gli alberi. Una leggera corrente
rinfrescò i loro visi ed inspirarono a pieni polmoni il profumo della foresta. Si
fermarono una mezzora dopo, legando i cavalli su un tronco caduto da tempo e
preparando un piccolo cerchio di pietre per accendere il fuoco. Brethil e
Legolas presero il loro arco e si addentrarono tra gli alberi, alla ricerca di
qualcosa di commestibile da mangiare, mentre gli altri tre cercavano legna da
ardere.
Non dovettero attendere troppo prima di
trovare qualcosa. La donna si appiattì contro un tronco appena notò un
movimento tra i cespugli; Legolas, più avanti, fece lo stesso. Quello,
l’avevano capito entrambi, doveva essere un animale che li avrebbe sfamati abbondantemente
tutti e cinque. Un paio di corna sbucarono dalla vegetazione e riconobbero un
capriolo, ignaro della loro presenza ed intento a ruminare un po’ di erba.
Scoccarono le frecce nello stesso momento, e l’animale cadde su un fianco.
L’Elfo lo prese con facilità e se lo caricò in spalla, mentre lei toglieva
fuori un pugnale, pronta a scuoiarlo.
«Contiamo di sfamare un esercito, per
caso?» domandò Gimli, quando li vide tornare con l’abbondante selvaggina.
Legolas sorrise. «No, ma conosco il tuo
stomaco e so per certo che non ha fondo. Non so come faremo a farlo bastare per
tutti.»
«Ah! Tanto tu non mangi, la tua porzione
sarà la mia.»
Brethil scorticò l’animale, cercando di
ricordarsi quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che l’aveva fatto. Vivere
in città l’aveva abituata a troppi agi, ma non avrebbe mai dimenticato come
prepararsi un pasto con le proprie mani. Boromir non riuscì a toglierle gli
occhi di dosso, tornando indietro nel tempo, quando avevano vissuto insieme
all’aperto e lei cucinava per lui, ancora indebolito per le ferite inferte
dagli Uruk-hai. Sembravano trascorsi secoli, da quei giorni.
Il capriolo venne tagliato in diverse
parti e Boromir si preoccupò di infilzarle in qualche sottile stecca di legno.
«Come ai vecchi tempi.» fece Aragorn,
accendendo il fuoco con pochi e decisi colpi di pietra focaia.
Brethil gli si inginocchiò accanto,
aggiungendo delle foglie secche per alimentarlo, e sorrise, inspirando l’odore
del fumo. «Sì, come ai vecchi tempi.»
Così, seduti attorno al fuoco,
cucinarono il proprio pranzo e si persero in chiacchierate spensierate, come
non facevano da tempo. Il ricordo della guerra venne scacciato, così come i
pensieri e i problemi che riguardavano il Regno, vennero dimenticati per
qualche ora. A discapito delle paure del Nano, si scoprirono parecchio
affamati, e del capriolo non rimase che la testa e le ossa. Persino l’Elfo lo
trovò gustoso.
«Certamente è meglio del lembas.» borbottò Gimli, che si era
acceso la pipa, insieme ad Aragorn. Riposarono contro i tronchi degli alberi,
fumando in silenzio, mentre il piccolo falò scemava lentamente per mancanza di
alimentazione.
Brethil, sdraiata sul tappeto di foglie,
piegò una gamba e chiuse gli occhi, concentrandosi sui rumori della foresta.
Per un periodo di tempo che non seppe calcolare, fu come se il suo animo fosse
ben lontano da lì. Rivide anni e anni spesi a vivere tra la natura, a difesa
delle terre a Nord della Terra di Mezzo, quando dovevano muovere l’accampamento
ogni notte per non lasciare tracce visibili, quando dormiva poche ore perché
doveva montare la guardia, o quando non dormiva affatto perché il Nemico era
nei paraggi. C’erano giorni in cui mangiavano abbondantemente perché riuscivano
a catturare qualche cervo o un cinghiale; altre in cui dovevano dividersi
qualche smilzo coniglio, troppo sfortunato da trovarsi nel luogo e nel momento
sbagliato.
Non si accorse di un movimento alla sua
sinistra, né che Aragorn, Legolas e Gimli si fossero allontanati suoi loro
destrieri per lasciarli in pace. Boromir le si sdraiò accanto, di fianco, il
capo mollemente appoggiato sul palmo di una mano. La osservò per minuti interi,
ricacciando indietro il desiderio di accarezzarla e quindi di svegliarla da
quel momento di pace che era riuscita a ritagliarsi. Ma poi lei aprì gli occhi
grigi, che trovarono subito i suoi, e gli sorrise; qualsiasi contegno si fosse
dato durante tutta quella giornata, sparì in quell’esatto istante, e si chinò per
baciarla.
E come ogni volta che le sue labbra
incontravano le sue e percepiva le dita di lei addentrarsi tra i capelli,
Boromir si sentiva l’uomo più vivo di tutta la terra. Baciò le lunghe
cicatrici, ricordo di un passato fatto di scelte difficili e dolorose, e la
sentì ridacchiare per il contatto della barba sulla pelle delicata.
«Se dama Brethil vuole ridere, allora
l’accontenterò subito.» le sussurrò, solennemente. Brethil non capì cosa
intendesse finché non avvertì le mani di lui solleticarle i fianchi. Cercò di
divincolarsi da quel diavolo di Uomo che la stava facendo lacrimare per
l’ilarità, ma sfortunatamente per lei non ci riuscì. Era parecchio che non si
divertivano così, insieme e da soli; quando lui s’intrufolava nella sua stanza
per addormentarsi con lei, solitamente erano troppo stanchi per lasciarsi
andare a comportamenti fanciulleschi come quelli – e non avevano alcuna
intenzione di svegliare mezza cerchia con le loro risate. Ma Boromir era più
che felice di vederle il sorriso sulle labbra, in quell’espressione di felicità
così rara in quel viso serio e dilaniato dalle preoccupazioni e non. E se
qualche mese prima le avessero detto che finalmente si sarebbe ricordata come
ridere, avrebbe sì riso, ma per la ridicolosità del pensiero.
Il suono di qualcuno che si schiariva la
gola con qualche colpo di tosse, li riportò alla realtà, e videro Gimli, in
sella con Legolas, che voltava loro la faccia – ma Brethil avrebbe scommesso
tutto l’oro del mondo che fosse rosso per l’imbarazzo, peggio del suo sangue.
«È ora di tornare, purtroppo.» fece
Aragorn, che sorrideva serenamente alla vista dei due. Lui, più di tutti, aveva
temuto per l’umore della sua cara amica, e sapere che al suo fianco Boromir
riusciva a farla tornare una ragazza spensierata, non poteva che calmarlo.
Boromir fu il primo ad alzarsi,
porgendole una mano per aiutarla. Lei l’accettò riluttante, sentendosi ancora
inadeguata a quelle forme di gentilezza che non le si addicevano e che lui
continuava a mostrarle. Non era certo una damigella che non era capace di
rimettersi in piedi senza l’aiuto di un uomo perché rischiava di inciampare sui
propri vestiti, lei!
Si rimisero a cavallo, diretti verso
Minas Tirith, e il sole aveva già iniziato ad increspare il cielo di sfumature
rosse e arancioni. Brethil si chiese quando a lungo avrebbe dovuto aspettare,
prima di trascorrere un’altra giornata come quella.
8 Agosto 3019 T. E.
I giorni e
le notti successive all’attacco trascorsero tranquillamente, sebbene il timore
di un’altra sorpresa li fece dormire poco e male. Nonostante gli screzi, era
stato deciso di seguire il consiglio degli Elfi e di accamparsi lontano dalle
rive dell’Anduin, mentre a turno i figli di Rulin montavano la guardia, attenti
al minimo rumore che esulasse dal russare di tutti quei Nani.
Quella mattina,
Káel era stato incaricato di viaggiare con la scorta dei Re, e per la sua gioia
Fili e Kili gli stettero accanto tutto il giorno, dandosi il cambio ai remi.
Era tremendamente noioso starsene seduti su quella barca dondolante, e fortuna
che fosse grande abbastanza da potersi alzare per sgranchirsi le gambe.
«Siete mai
stati in questa parte della Terra di Mezzo?» domandò il Nano ai due fratelli.
Fili scosse
il capo. «Mai spinti più a sud degli Ered Luin e di Imladris, che io ricordi.»
«Siete
stati nella Valle Nascosta?»
«Oh, sì. Rimanemmo
lì un paio di settimane. E non fu così male, a dir la verità.» fece Kili.
«Non fu
male?» esclamò Dwalin, seduto poco più avanti, mentre remava con vigore. «Non
avrei resistito un giorno di più a mangiare quelle dannatissime foglie che gli
Elfi si ostinano a chiamare cibo!»
Káel rise
di cuore. «Gli Elfi mangiano erba? Sul serio?»
«E cosa ti
aspettavi? Che mangiassero tacchini arrosto?» replicò Dwalin. «Non sia mai che
si rovinino il palato delicato.»
Il Re Sotto
la Montagna, che aveva taciuto fino a quel momento con la mente rivolta
altrove, parlò con curiosità. «Dimmi, non sai cosa è comune trovare sulle
tavole dei tuoi avi, ragazzo?»
Il giovane
si strinse nelle spalle. «Non ho mai avuto contatti con degli Elfi, prima
dell’altra notte. Né mi sono mai chiesto cosa mangino. Per quanto ne so, per me
potrebbero anche vivere d’aria.»
Kili e Fili
scoppiarono a ridere, battendogli delle forti pacche sulle spalle, che
rischiarono di cappottarlo in acqua. Persino Thorin si ritrovò a sorridere. Tra
tutti i componenti di quella strana famiglia, Káel era quello che più gli
andasse a genio: gli ricordava i suoi nipoti, in qualche oscuro modo. Era
vitale, voglioso di lavorare e di difendere la sua famiglia. E soprattutto,
rispettoso nei suoi confronti, a differenza della gemella. E anche ora,
nonostante lo avesse provocato volutamente, aveva replicato con tranquillità, chiudendo
qualsiasi possibile disputa con una risata.
Thorin, in
piedi accanto a Dwalin, gli si avvicinò cautamente, incrociando le mani dietro
la schiena e osservandolo con la coda dell’occhio.
«Vedi
niente all’orizzonte?» gli domandò, indicando la riva orientale con lo sguardo.
Quello
scosse il capo. «No, la vegetazione è fitta. Ma ho la sensazione che si stiano
spostando con noi, anche se più lentamente.»
«Credi che
vogliano attaccarci di nuovo, zio?» domandò Kili, che si sporse sulla
balaustra, nella vana speranza di captare qualche movimento tra gli alberi.
«Non lo so.
È probabile che la voce del nostro aiuto a Gondor si sia sparsa e non vogliano
permetterci di raggiungere gli Uomini. Ma se avessero voluto lo avrebbero già
fatto.»
Káel annuì.
«Volevano solo farci sapere che loro sono lì, da qualche parte.»
«Qualcosa
si muove, a Est di queste terre.» disse seriamente Balin, sospirando e
lisciandosi la lunga barba bianca. «Mi domando se arriveremo in tempo per
avvisare Gondor del pericolo.»
«E io mi chiedo
cosa troveremo una volta giunti.» replicò Thorin. «Le forze di Mordor si sono
scagliate con più forza lì, che altrove. Gondor sarà sguarnita di difese.»
«Lo sono
anche gli Esterling.» fece Dáin, che sedeva più avanti, ma aveva ascoltato la
conversazione. «O devo ricordarvi cosa abbiamo fatto a quelle dannate chiappe,
solo qualche mese fa?»
«In ogni
caso, ci sono guerrieri tra noi.» fece Fili, orgogliosamente. «Se Gondor avrà
bisogno di un aiuto militare, allora giungiamo nel momento migliore.»
«Spero non
ce ne sia bisogno.» rispose Thorin. «Sono stanco della guerra.»
«La
vecchiaia si fa sentire, infine.» sussurrò Kili al fratello. Si ammutolì quando
percepì lo sguardo penetrante dello zio e chinò il capo. Fu seriamente
intimorito dal pensiero che potesse afferrarlo per la collottola e buttarlo in
acqua senza troppi pensieri.
Il viaggio
proseguì in silenzio, interrotto di quando in quando dalle voci dei più
giovani. Si fermarono per una pausa a mezzodì, e tutti si ritrovarono affamati.
Káel rimase
in compagnia dei nipoti del Re, in attesa che qualcuno preparasse il pranzo;
quando Trán gli si avvicinò con una ciotola fumante e gliela porse, riconsiderò
la sua fame. La prese, titubante, e l’annusò.
«L’ha
preparata nostro padre, se è di quello che ti stai preoccupando.» sbottò lei.
«Ecco
spiegato il buon profumo!» Stando attento a non versare il suo pranzo, la fermò
per un braccio, ridente. «Suvvia, non offenderti! Non è mai stato un segreto
che tu sei una pessima cuoca. Ma sei una brava sorella, in fondo.»
«E tu un orribile
fratello.»
Káel le
baciò sonoramente una guancia, sapendo per certo che non lo pensasse sul serio.
«Sei
davvero così incapace in cucina?» domandò Kili, con curiosità. «Ciò non è
onorevole, per una donna.»
Lei aprì e
chiuse la bocca più volte, diventando paonazza dall’imbarazzo. Nessuno, oltre
la sua famiglia, era a conoscenza delle sue terribili abilità culinarie, e il
fatto che fossero i nipoti del Re di Erebor a prendersi gioco di lei, le fece
venir voglia di sparire immediatamente. Per non parlare del fatto che persino
Thorin, sebbene facesse finta di non udirli, sembrava ridersela sotto i baffi
con soddisfazione.
«Io so cucinare.» borbottò lei, incrociando
le braccia al petto, indispettita. «Sono gli altri che non sanno apprezzare il
mio cibo.» Quasi non fece in tempo a finire la frase, che il resto dei fratelli
era scoppiato a ridere fino alle lacrime. Trán non poté far altro che alzare
gli occhi al cielo, tirare un pugno amorevole sulla spalla del fratello più
vicino, che rantolò dal dolore per la mezzora successiva, e ritirarsi in
disparte.
«Oh,
andiamo, amico.» fece Fili, ancora ridente, rivolgendosi a Káel. «Non vorrai
farci credere che quel pugno ti abbia davvero fatto male?»
«Fossi in
te non mi giocherei le fortune che hai in tasca.» replicò il Nano,
massaggiandosi la parte lesa. «La mia adorata sorellina possiede la mano più
pesante che abbia mai incontrato. Non saprà cucinare, ma sa come dare pugni...
è un maschiaccio, delle volte!»
«Ti ho sentito,
fratello. Ne vuoi un altro?» gli gridò la ragazza.
Fili e Kili
ridacchiarono di fronte alla sfrontatezza della giovane Nana, ma soprattutto
per il rapporto che c’era tra quei due. Nonostante i diverbi e quei gesti
d’affetto, era palese quanto si amassero.
«Voi due ci
assomigliate molto.» fece il maggiore.
«Ah, sì?»
Kili sembrò perplesso. «Io, però, non mi rivedo nella parte della femmina.»
Fili scosse
il capo, stringendogli un braccio intorno al collo. «Idiota!»
E mentre
gli eredi al trono di Erebor si azzuffavano, rotolando come cani per terra,
Thorin fu accarezzato dal desiderio di alzarsi, afferrarli per le orecchie e
farli volare giù per il fiume. Ma decise di riposare un poco i suoi nervi, così
lasciò che quei due si ammazzassero da soli e fare il lavoro per lui. I Nani
consumarono il proprio pranzo allegramente, poiché la luce del sole dava loro
la vaga sensazione di essere al sicuro dal nemico. Se qualcuno avesse voluto
attaccarli, lo avrebbero scorto più facilmente e non li avrebbero certo presi
alla sprovvista. Anche il più stolto dei nemici avrebbe evitato di dare la
possibilità a dei Nani di attrezzarsi per un attacco. Ripartirono poco dopo,
cancellando ogni traccia della loro sosta, e il pomeriggio trascorse
placidamente sulle acque dell’Anduin. Thorin non aveva mai disceso il fiume
così a sud, ma dal conteggio dei giorni trascorsi in acqua, il giorno dopo
avrebbero dovuto sorpassare gli Argonath e raggiungere il Nen Hithoel, il lago che
precedeva le Cascate di Rauros. Da quel punto in poi avrebbero proseguito a
piedi – o, per chi li aveva caricati sulle barche, in groppa ai pony.
La sera
calò velocemente, anche a causa delle nuvole che oscurarono la limpidezza del
cielo, e Thorin si ritrovò irrequieto fino a tarda notte. Non sapeva cosa lo
stesse impensierendo, ma non riuscì ad addormentarsi. Si mise a sedere sul suo
giaciglio, osservando la quiete intorno a sé. I suoi compagni sembravano non
curarsi delle sue preoccupazioni, e russavano bellamente alla faccia della sua
stanchezza. Si mise in piedi, sgranchendosi le gambe, e camminando attraverso
gli alberi e la folta vegetazione, diretto verso la riva. Sapeva di trovare una
delle nuove sentinelle dal sangue
mescolato, e avrebbe chiesto a lui di tranquillizzare le sue preoccupazioni.
Solo, non si aspettava che toccasse a lei
montare la guardia.
Trán lo udì
arrivare, ma non ebbe il coraggio di voltarsi. In qualche strano modo, lo aveva
riconosciuto dalla cadenza dei suoi passi. Ad ogni modo, non vi badò troppo.
C’era qualcosa, quella sera, che la stava allarmando, proprio come la notte
dell’attacco.
Thorin le
si fermò accanto, le braccia incrociate dietro la schiena, mentre ne osservava il
profilo con la coda dell’occhio. Sembrava profondamente intenta a scrutare ed
ascoltare, ma aveva ben capito che stesse anche fingendo di non averlo notato.
Lo ignorava, e a quanto pare era il suo passatempo preferito.
«Sono
ancora lì, vero?» le sussurrò, spostando ora lo sguardo verso la riva opposta.
Lei annuì. «Sì,
ma non si muovono. Sembrano osservarci.»
Thorin
inspirò pesantemente. Avrebbe tanto voluto capire che mossa stessero giocando
quei disgraziati. Ma soprattutto avrebbe voluto fargli capire che non aveva
alcuna intenzione di perdere tempo, scherzando con loro. La sua attenzione si
focalizzò nuovamente sulla Nana, che aveva mosso qualche passo verso l’acqua e
ora corrugava la fronte, con perplessità. «C’è qualche problema? Si muovono?»
le domandò, affiancandola e tentando di vedere ciò che lei riusciva.
Ma Trán non
gli rispose, quasi non lo sentì. Perché i suoi sensi, ora, erano focalizzati su
un arciere, nascosto dietro un cespuglio, che aveva incoccato una freccia e
mirava verso di loro. Con l’assenza della luce lunare pensava che nessuno lo
avrebbe visto; ma Trán, invece, lo aveva scorto, eccome. Prima ancora che
quello potesse scoccare, spintonò via il Re, che per lo stupore barcollò e
cadde rovinosamente sul pavimento di foglie secche e sulla terra. Non capì cosa
fosse successo, ma ogni intenzione di sfogare la propria ira nei confronti di
quel gesto improvviso ed impudente svanì nel momento in cui la vide
inginocchiata, mentre si stringeva un braccio insanguinato con una mano.
L’afferrò
per quello sano e la trascinò via, tra gli alberi, portando entrambi al sicuro
da qualsiasi freccia. Trán non aveva emesso un lamento, ma poté dire
dall’espressione dei suoi occhi che stesse soffrendo parecchio. Thorin si chinò
su di lei, esaminando la ferita e poi la punta della freccia, che a prima
occhiata non sembrava avvelenata. Senza una parola, l’afferrò per la vita e
l’aiutò a raggiungere l’accampamento, dove svegliò Oin con un colpo del piede,
affinché la medicasse al più presto. Pochi minuti dopo gran parte dei Nani si
ritrovò sull’attenti, temendo che gli Esterling potessero aver attraversato il
fiume una volta ancora.
Si avvicinò
a Dwalin, che stringeva in mano la sua ascia. «Che è successo?»
Thorin gli
indicò la ragazza con un cenno del capo. «Era di guardia e a quanto pare un
arciere aveva voglia di giocare al tiro al bersaglio.»
«È ferita.»
constatò l’amico, notando il cerchio preoccupato di persone che la circondò.
Thorin sospirò pesantemente, avvicinandosi anch’esso. La combriccola si fece da
parte appena si accorse di lui, che se ne stava in piedi con le braccia
incrociate al petto e uno sguardo furioso in viso.
«Sei per
caso impazzita da voler giocare a fare l’eroina?» la riprese.
Trán non si
aspettava di certo un ringraziamento, ma quello era troppo anche per l’arroganza
di quel Nano. «Scusami tanto se mi sono presa una freccia al tuo posto, mio
signore!» sbottò lei, rossa per l’affronto. Dovette morsicarsi la lingua con
forza pur di non scoppiare in lacrime, sia per il dolore che per l’offesa. Ori
era premuroso e delicato, ma accidenti, quanto bruciava!
Thorin si
accorse dei suoi occhi lucidi, nonostante le tenui fiamme dei falò. Così
strinse le labbra, e tentò una via più pacifica. Del resto, quell’ingrata gli
aveva salvato la vita. «Quella freccia avrebbe potuto ucciderti.»
«E di
grazia, al grande Thorin Scudodiquercia cosa potrebbe mai importare della mia incolumità?»
domandò lei, con malcelato sarcasmo, non volendo credere che lui fosse davvero
preoccupato per la sua sorte.
«Sei sotto
la mia protezione.»
«No, sono
sotto la protezione del mio Re, sire
Dáin II Piediferro, e della mia famiglia.»
«Trán,
basta così.» la rimproverò il padre.
Thorin
quasi gli troncò le parole in gola. «Dal momento in cui tu e i tuoi fratelli
siete a mia disposizione per la
difesa del mio popolo, è mio compito difenderti.» Sentì
molteplici occhi su di sé e sospirò pesantemente. «E ti ringrazio.»
La Nana
sbatté più volte le palpebre, e tentennò. Voltò lo sguardo altrove, quando
parlò. «Non c’è alcun bisogno di farlo. E comunque quella freccia non avrebbe
ucciso né te, né me; ti ho solo evitato una seccatura.»
Thorin si
passò stancamente una mano sul volto, sfiorando la lunga treccia della barba
nera. «Sei talmente orgogliosa e testarda da non saper accettare neppure dei
ringraziamenti, Trán dei Colli Ferrosi?»
Con uno
colpetto al fianco, Káel le intimò di scusarsi. Trán alzò gli occhi al cielo,
ma si rese conto di essere stata nuovamente impertinente, e senza motivo, così
chinò il capo. «Chiedo perdono, mio signore.»
Il suo
sguardo era duro, ma il tono con cui parlò era ben diverso. «Allora smettila, e
accetta i miei ringraziamenti. Non lo faccio spesso.» Non seppe il perché, ma
si pentì di aver detto quelle parole nel momento in cui la Nana tornò ad
osservarlo, stupita e apparentemente in imbarazzo. Si sentì scavare l’anima da
quegli occhi chiari, e fu una sensazione che non gli piacque. Si schiarì la
gola, spostando lo sguardo su Oin. «La ferita?»
Quello
scosse il capo. «Niente di grave, mio signore. È profonda, ma non si infetterà.
Ti rimarrà solo una brutta cicatrice come ricordo, ragazza mia.» le disse in
tono rassicurante. La vista dell’ago per i punti, però, non le parve così
confortante.
«Una
cicatrice, ma un grande onore.» disse Balin, che comparve al fianco del suo Re e
le sorrise, strizzandole un occhio. «Per quanto letale o meno quel colpo fosse,
hai messo comunque la vita di Thorin prima della tua.»
Trán parlò
prima ancora di rendersene conto. «Ciò che la mia famiglia mi ha insegnato mi
dice che lo farei ancora una volta, se necessario.»
Spiò la
reazione di Thorin, che inspirò nuovamente con pesantezza. «No, non lo rifarai,
perché se mai dovessi metterti in pericolo ancora una volta, ti punirò
personalmente. Non voglio altre seccature che possano rallentare il viaggio.»
Sebbene
quelle parole fossero dure e non mostravano alcun segno di riconoscenza, per
una volta, Trán decise di non offendersi, poiché vide un’ombra di gratitudine
sotto quell’espressione dura. Ma non durò molto, perché le voltò le spalle e
tornò al suo giaciglio, con il chiaro intento di provare a dormire. Non ebbe
molto successo, però. Continuava a rivedere il movimento improvviso di quella
Nana mentre lo spingeva quasi con facilità, aiutata dalla sorpresa, e
l’immagine sofferente di lei mentre stringeva il braccio ferito. Probabilmente
aveva ragione a dire che quella freccia non lo avrebbe ucciso, magari non lo
avrebbe neppure colpito; ma fu quel gesto che lo impensierì. La Nana aveva
seriamente rischiato la vita; per quanto poteva saperne, il dardo avrebbe
potuto essere avvelenato, e nessuno di loro possedeva le doti per curarla. E
lui non sopportava l’idea che una femmina lo avesse salvato da un pericolo senza
pensarci due volte. Quello stesso Elfo in miniatura che continuava ad
affrontarlo a viso aperto, senza peli sulla lingua. Sentì l’ego andargli
nuovamente in frantumi, e sempre a causa sua; ma quella volta non riuscì ad
adirarsi.
Un’ora dopo
l’alba, si rimisero in movimento, per l’ultima parte del loro viaggio lungo il
fiume. Erano stanchi di quel movimento ondulatorio che faceva passar loro ogni
appetito e gli lasciava la sgradevole sensazione di essere ancora in acqua
anche quando si sdraiavano sulla terraferma. I Nani non erano nati per essere
marinai, bensì per avere la salda pietra sotto ai piedi, e in quei giorni ne
ebbero la conferma.
«Mi sento
lo stomaco molle come un budino.» borbottò Dwalin, più irritato che mai. «Non
voglio vedere acqua per i prossimi cent’anni.»
«Beh,
questo è un male.» commentò Balin, sembrando serio. Thorin lo osservò con la
coda dell’occhio e poté scorgere il divertimento nei suoi occhi. «È un male per
il tuo igiene, e soprattutto per il mio naso. Anzi, dovresti seriamente
prendere in considerazione l’ipotesi di fare un bagno. Puzzi come un maiale!»
I fratelli
si guardarono per qualche secondo, impassibili. Poi scoppiarono a ridere.
Trán, che
sedeva poco più indietro accanto ad Oin, incaricato di disinfettarle la ferita
quando questa riprendeva a sanguinare, si dovette mordere un labbro pur di non ridere
con loro.
«E
comunque, non scherzavo.» aggiunse Balin. «Alla prossima sosta, se non lo farai
tu, provvederò personalmente alla tua igiene. E sappi che non sarò delicato.»
«Che c’è,
vuoi anche lavarmi il fondoschiena come faceva nostra madre quando eravamo
neonati?»
L’inquietante
immagine di un piccolo e tatuato Dwalin a sedere all’aria, sotto le amorevoli
cure della madre, disgustò un po’ tutti, e non fecero niente per nasconderlo.
Balin
ridacchiò. «Suvvia, fratello, modera la tua lingua. C’è una signorina, con noi!»
Molti di
loro si voltarono verso Trán, che arrossì e chinò il capo. «Non badate a me,
davvero.»
Dwalin
simulò un’esclamazione divertita in un grugnito. «Mi ero quasi scordato della
tua presenza, ragazza. Figurati se bado a te.»
Non seppe
dire se fosse un bene o un male, ma considerato il fatto ch’era circondata da
alcuni Nani che avrebbero preferito spaccare le pietre con le unghie piuttosto
che avvicinarsi a qualcuno che avesse sangue Elfico, poté dire che la sua
discrezione fu ben accetta.
I mormorii
ed i battibecchi si smorzarono immediatamente, quando due imponenti sagome
iniziarono a fare capolino tra gli alberi, in lontananza. E appena virarono a
sinistra e il fiume proseguì dritto fino a perdita d’occhio, li videro in tutto
il suo splendore. Gli Argonath si ergevano fieri e maestosi davanti a loro, un
braccio disteso in avanti per intimare l’alt a chiunque osasse attraversare
quegli invisibili confini. Persino loro, Nani che conoscevano bene come
scolpire la roccia in imponenti colonne e sculture, rimasero senza parole di
fronte a quello spettacolo.
«Gli
Argonath, o le colonne dei Re.» disse solennemente Thorin, che si alzò con
reverenza.
Trán,
distogliendo per un momento lo sguardo dalle statue per spostarlo su di lui,
pensò che fosse imponente come gli Uomini che rappresentavano; inoltre, non
conosceva la storia di quei giganteschi monumenti, né ne aveva mai sentito
parlare. Fu ben felice, quindi, di sentirlo mentre la raccontava ai suoi nipoti
e a chiunque avesse voglia di ascoltarlo.
«Anticamente,
segnavano il confine settentrionale di Gondor, quando ancora Rohan non
esisteva. Rappresentano Isildur ed il figlio Anárion, che incutono timore al
nemico e gli intimano di non oltrepassarli, poiché le difese di Gondor alle
loro spalle li annienterebbero. Fu Rómendacil II ad ordinarne la costruzione,
dopo la vittoria contro gli Esterling. Sono in piedi da secoli, e resistono
alle guerre, proprio come i regni che difendono. E speriamo che coloro che ci
stanno seguendo, rimangano indietro con essi.»
«I Nani
all’ingresso di Erebor sono più maestosi.» fece Kili, poco convincente; ma,
tenendo il naso all’insù per osservare quei giganti di pietra, si rese conto di
non dire propriamente la verità.
«Altroché
se sono maestosi, fratellino.» mormorò Fili, sorridendo. «Chissà che vista
dev’esserci, lassù.»
«Vi
dovrebbe essere un punto panoramico, non troppo lontano dal luogo dove
attraccheremo.» fece Balin.
«Se ti
riferisci al Seggio della Vista, è esattamente dal nostro lato del fiume.»
disse Thorin. «Ma non perderei tempo sui colli di Amon Hen, a meno che non si
faccia troppo tardi per trovare un accampamento migliore.»
Dáin sbuffò
il fumo della pipa, senza che l’allontanasse dalle labbra. «Sarebbe saggio,
invece, fermarsi lì. Avremmo una vista migliore, e quindi una migliore difesa,
in caso di attacco.»
«Non lo
faranno, stanotte. Il lago è una lunga attraversata, e se avessero voluto
attaccarci per bene lo avrebbero già fatto quando il fiume era più stretto.
Conto di lasciare i colli prima del tramonto.»
Ma Thorin
aveva fatto male i propri calcoli, poiché raggiunsero la piccola area
d’attracco sul lato occidentale del lago proprio quando il sole aveva iniziato
la sua discesa sull’orizzonte. I colli di Amon Hen non erano troppo estesi,
sulla carta, ma erano ricoperti da una fitta vegetazione di alberi, radici e
cespugli, e difficilmente sarebbero riusciti a trasportare le barche, ciò che
contenevano e i pony fino all’uscita prima del tramonto. Il Re, così, dovette
arrendersi all’evidenza, e acconsentì ad accamparsi lì, dove si erano fermati.
Nessuno di loro poteva sapere che in quello stesso luogo, solo qualche mese
prima, la Compagnia dell’Anello si era materialmente sciolta, che alcuni di
essi avevano combattuto contro un numeroso manipolo di Uruk-hai e qualcuno
aveva seriamente rischiato di morire nell’impresa. Solo i discendenti di Ainariël
parvero percepire il sangue che intingeva quella porzione di terra.
Thorin e Dwalin andarono in
esplorazione, alla ricerca del Seggio della Vista, e quando lo raggiunsero
rimasero lì, in silenzio, ad osservare quella parte di Terra di Mezzo che
nessuno di loro aveva mai veduto.
«Rohan è davanti ai nostri
occhi.»
Il Nano tatuato si poggiò
sull’ascia, abbozzando un sorriso. «E chi l’avrebbe mai detto che saremmo
giunti fin qui, un giorno?» Sentì una mano stringersi sulla spalla e vide
l’amico sereno come non lo era da tempo.
«Sono felice che tu sia con me.»
mormorò il Re. Fili e Kili giunsero in quel momento, ridenti e stanchi per la
corsa, e Thorin ringraziò Mahal che anche loro fossero con lui.
«Ehi, guarda fratellino.» fece il
maggiore dei due in un sorriso, circondando il collo dell’altro e
abbracciandolo. «Guarda che meraviglia!»
E lo era sul serio.
La vasta valle dell’Entalluvio si
perdeva a vista d’occhio, dondolando su numerose colline e tagliata da corsi
d’acqua che parevano fili di ragnatele sotto la luce del tramonto; e la cresta
dei Monti Bianchi, che ne segnava i confini a Sud, era ora una sagoma lontana e
scura. I due fratelli si sedettero sul bordo più alto del cerchio di pietre,
lasciando l’imponente seggio per lo zio. Thorin vi prese posto, rilassandosi e
chiudendo gli occhi. Tornò con la mente alla sua amata Erebor, al trono
incastonato dall’Archepietra che lo aveva accolto innumerevoli volte. Quella
punta di nostalgia di casa stava iniziando ad impensierirlo, e non erano ancora
giunti a destinazione. Aveva dovuto attendere infiniti anni prima di
riprendersi ciò che gli spettava, aveva rischiato di morire per farlo, e in
confronto alla sua lunga vita, non erano che passati pochi decenni da quando
Erebor era tornata ad essere la sua casa. Il pensiero di averla lasciata alle
spalle, ancora una volta, gli procurò più dolore di quanto s’immaginasse. Ma
quello era un viaggio che avrebbe dovuto percorrere.
Lui voleva farlo.
Erebor non sarebbe andata da nessuna
parte, nel frattempo.
Aggiorno con qualche anticipo rispetto alla tabella
di marcia che mi ero prefissata, perché ho scritto l’undicesimo capitolo, la
scorsa notte, e ne sono più che soddisfatta.
Perché sì, io mi gaso quando scrivo di complotti
e strategie di guerra nella Terra di Mezzo, più che di romanticismo!
Sapeste... eheheh.
Quindi, per festeggiare, eccovi il quinto – che,
ad essere onesta, è uno di quelli che, invece, non mi piace più di tanto. A voi
l’ardua sentenza!
Cheers!
Marta.
Pietra
-sequel di Betulla -
05.
25 Agosto 3019 T. E.
L’aria fresca proveniente dal fiume che, placidamente,
scorreva alla loro sinistra, era piacevole sulla pelle accaldata per l’ennesima
giornata di viaggio. Si erano fermati da un paio d’ore ma, nonostante la
stanchezza, nessuno aveva ancora intenzione di dormire. Il pericolo degli
Esterling sembrava passato e l’eccitazione del vicino confine di Gondor, che
avrebbero passato il giorno dopo, non li faceva riposare; un’aria gioiosa
aleggiava nell’accampamento dei Nani. Attorno ai numerosi falò, molti
chiacchieravano e ridevano, altri bevevano birra a fiumi e, un po’ alticci,
iniziavano a cantare.
L’unico che non pareva divertirsi poi tanto era Dwalin, che
lanciò irritato il suo boccale di birra, ormai vuoto. Era la quarta volta di
fila che perdeva una partita ai dadi e aveva già detto addio ad un terzo delle
monete che teneva nel suo personale sacchetto.
Balin, d’altro canto, si sfregò le mani, incassando la
posta. «Avanti, fratello, dovresti essere felice che ti abbia alleggerito le
tasche di qualche grammo!»
L’altro grugnì qualcosa in risposta, si alzò e andò a
sedersi accanto al suo migliore amico. Thorin fumava silenziosamente la pipa,
osservando con poco interesse ciò che gli accadeva intorno.
«Dove sono finiti quei due rompiscatole dei tuoi nipoti? C’è
troppa calma, qui intorno.» fece Dwalin, stendendo le gambe e accendendosi la
pipa a sua volta.
Thorin sbuffò il fumo, spostando lo sguardo poco più avanti,
in un altro cerchio di persone. L’amico seguì lo sguardo del Re.
«Pare che si siano sinceramente affezionati a loro. Neanche
tu sei riuscito a fermarli.»
«Non sono cieco, e quello che vedo non mi piace. Mi irrita oltremodo
che spendano così tanto tempo con loro, piuttosto che stare al mio fianco.» La
voce del Re era risentita e un po’ invidiosa; quei due giovanotti erano tutta
la famiglia che gli rimaneva, insieme alla madre, e non avrebbe permesso che
gli venisse portata via senza che lui facesse qualcosa per impedirlo. Eppure
quell’allegra combriccola stava dando dimostrazione di coraggio e rispetto, e
non poteva più aggrapparsi al fatto che il sangue Elfico scorresse nelle loro
vene per discreditarli, poiché pochi dei suoi compagni gli avrebbero dato
l’appoggio necessario.
«Qualche settimana fa avrei preferito tagliarmi la lingua,
prima di dire una cosa simile, ma... mi piacciono.» fece Dwalin, stupendo se
stesso e l’amico. «Beh, almeno i due chiamati Káel e Káir.»
Thorin non rispose, continuando ad osservare i nipoti e i
Nani dai capelli rossi. Fili e Kili li raggiunsero poco dopo, ridenti, felici e
un po’ brilli.
«Zio, questa dovresti davvero sentirla!» esclamò Kili,
sedendosi con un tonfo accanto al Re. «Avanti, Fili, canta per il Re!»
Quando il diretto interessato, ubriaco dalla testa ai piedi,
iniziò a cantare di un Troll che abbracciava una roccia scambiandola per suo
padre, neppure Dwalin riuscì a trattenere le risate. Thorin si passò una mano
sul viso, non sapendo bene se ridere o tirargli la prima cosa che gli capitasse
sotto tiro per farlo star zitto – e dire che quello fosse il suo primo erede al
trono!
Quando Fili terminò con le ultime strofe, chiunque era
scoppiato a ridere e anche chi non aveva udito la performance del Nano, si unì
all’ilarità.
Fili si chinò, ringraziando per gli applausi e barcollando
nel tentativo di rimanere in piedi. «Grazie, compagni miei! Grazie! Ma parte
del merito va anche ai miei amici dai buffi capelli rossi, senza i quali non
avrei potuto comporre gran parte di questa splendida canzone – e che sono anche
più ubriachi di me, a ben vedere.»
Un brusio si sollevò velocemente, ma nessuno osò dir male di
loro. Era grazie a loro, infatti, che gli Esterling non li avevano colti di sorpresa
nel sonno e che il Re Sotto la Montagna era vivo; e Thorin stesso aveva
raccomandato a chiunque di tenere a freno la lingua e di mantenere per sé i
commenti maligni sul conto della famiglia; eppure il Re si stava rendendo conto
che, da quando i nipoti avevano messo gli occhi addosso a quel gruppo, e in
particolar modo alla ragazza, e li avessero presentati ai loro amici più cari,
quelli che lui si ostinava a chiamare Mezzi-Nani
stavano acquistando favori e simpatie, giorno dopo giorno. Persino il timido
Ori, dopo il giorno della ferita al braccio, trovava il coraggio di avvicinarli
e parlargli. E più i suoi Nani si divertivano in loro compagnia, più il suo
umore sprofondava sotto terra.
E la situazione lo stava irritando ed incuriosendo più di
quanto avesse voluto.
«Zio, c’è qualche problema?» domandò Kili, notando lo
sguardo ostile del Re, perso in chissà quali tormentati pensieri.
Thorin si voltò verso il nipote e abbozzò un sorriso, per
rassicurarlo. «Vorrei che tu e tuo fratello cavalcaste con me, domani. Voglio
attraversare i confini di Gondor al fianco dei miei nipoti. E non voglio nessun
Nano dai capelli rossi con noi, sono stato chiaro?»
L’arciere annuì, senza controbattere, poiché sapeva che non
avrebbe ottenuto niente con l’ostinazione. Eppure continuava a non capire il
comportamento dello zio. Aveva tentato più volte di comprendere il perché
odiasse tanto la razza Elfica, e non poteva certo biasimarlo se ripensava a
come il Re di Bosco Atro si fosse comportato nei loro confronti, nel momento
del bisogno. Ma trovava inutile e infantile riversare il proprio risentimento
su qualcuno che neanche aveva mai messo piede nella terra degli Elfi, prima di
allora. Ovviamente, quel pensiero fece bene a tenerlo per sé.
Teneva cara la vita e il suo collo, per vederselo staccare a
suon di ascia dallo zio.
Il giorno dopo si misero in marcia di buona lena, qualche
ora dopo il sorgere del sole. I canti dei Nani proseguirono, raccontando di
Uomini e di quelle terre così lontane ed affascinanti. Trán non era mai stata
così distante da casa e per un attimo, quando scorse l’affluente dell’Anduin
che separava Rohan da Gondor, si voltò oltre le sue spalle, guardando nella
direzione in cui ci sarebbe dovuta essere la sua casa. Sospirò e sorrise,
tornando ad osservare le belle praterie di Rohan, che si stagliavano a perdita
d’occhio. Aveva sempre sognato di vedere il mondo fuori le mura dei Colli
Ferrosi, ed ora eccola lì, in viaggio da parecchie settimane, diretta verso il
lontano Reame degli Uomini. Avrebbe voluto spronare il suo pony e andare al
galoppo, sfiorando l’erba alta e gialla con la mano e godendo appieno del vento
fresco che le soffiava tra i capelli intrecciati.
Come se il gemello le avesse letto la mente, diede una
pesante pacca sul posteriore del pony che cavalcavano entrambi, e questo iniziò
a galoppare; sordi ai rimproveri di Rulin e del maggiore dei figli, risero come
facevano da bambini. Presto molti Nani vennero incuriositi da quel gran baccano
e Fili e Kili, senza perdere tempo, si unirono ai due, dimentichi degli
avvertimenti dello zio.
«Offro una pinta di birra a chi arriva per primo al fiume!
Al mio via, pronti?» gridò Fili.
Ma gli altri tre, udendo un tale premio, spronarono
immediatamente i loro pony e quello, preso alla sprovvista, si vide subito
indietro. Neanche la voce autoritaria di Thorin servì a fermarli, poiché ormai
erano già lontani.
«Lascia che si divertano.» fece Balin, sorridendo bonario
nel guardare le sagome dei quattro diventare sempre più piccole. «Non vedevo i
tuoi nipoti divertirsi così tanto da quando messer Bilbo lasciò la nostra
casa.»
L’altro sospirò pesantemente, contrariato. «Sono adulti, al
servizio del Re e miei eredi. Devono dimostrare maturità.»
«E sanno farlo quando è necessario, Thorin. Non dimenticare
il loro valore, se per una volta loro si dimenticano dei loro compiti per
svagarsi un poco. Dovresti farlo anche tu, sai?»
Dwalin scoppiò a ridere. «Fratello, questa era buona...
anzi, ottima! Solo la tua fervida immaginazione potrebbe pensare a Thorin, sul
suo pony, che ride e galoppa come un ragazzino!»
Thorin alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo e
ritrovandosi suo malgrado a ridere al solo pensiero. Il volto serio si distese
un poco, al ricordo di quando, tanto tempo addietro, era anche più
indisciplinato dei suoi nipoti messi insieme. Ma la sua giovinezza era stata
stroncata sul periodo più bello, poiché la guerra gliel’aveva strappata senza
esitazioni. Aveva dovuto abbandonare i giochi da ragazzo troppo presto, per
acquisire la fermezza e la serietà che non lo avrebbero più abbandonato in
futuro.
Che ne era rimasto di quel giovane Nano pieno di vita e
desideroso di avventure, Balin se lo era sempre domandato; eppure, era sicuro
che fosse ancora lì, nascosto sotto quella corazza di testardaggine, orgoglio e
serietà che ormai lo distinguevano. Doveva solo trovare qualcosa, o qualcuno,
che lo aiutasse a ritrovare quella parte di sé che aveva dimenticato.
Centinaia di piedi più avanti, i quattro gareggianti avevano
quasi raggiunto il confine. Purtroppo per i gemelli, il cui pony doveva
sopportare il peso di entrambi, videro la vittoria svanire dopo pochi secondi,
e i nipoti del Re raggiunsero per primi l’acqua fredda del fiume. Ovviamente
iniziò la disputa su chi fosse arrivato davanti e chi no. La decisione di Trán
di prendere le difese del minore non fu saggia, perché Fili, sentendosi
tradito, la sollevò di peso dal pony con incredibile facilità, e il chiaro
intento di farle saggiare la temperatura dell’acqua; e con sua somma sorpresa
ed indignazione, Kili e il fratello non fecero niente per salvarla.
Quando Thorin e il suo seguito giunse al confine, qualche
decina di minuti più tardi, si fermò per osservarli e rimproverarli con lo
sguardo. «Risalite in sella e non stancate i vostri pony inutilmente. Davanti a
noi abbiamo ancora più di una settimana di viaggio.»
Trán non ricordava di aver riso così tanto da parecchio
tempo. Era difficile per lei crearsi nuove amicizie, perché era spesso
taciturna e scontrosa contro chi non conosceva. Eppure Fili e Kili avevano
fatto, e stavano facendo, di tutto pur di entrare nelle sue grazie; ormai, per
loro, essere suoi amici era diventata una questione personale e non si
sarebbero arresi tanto facilmente.
Tamponò i lunghi capelli rossi e intrecciati con l’orlo
della gonna, ma anch’essa era bagnata e l’unica cosa che ottenne fu un sonoro
starnuto, al quale ne seguirono altri.
«Non dirmi che ti sei presa un raffreddore?» domandò Kili,
divertito eppure preoccupato.
«Tu, ingrato! Avresti dovuto difendermi!» lo rimbeccò lei.
Fili rise, battendole compassionevoli pacche sulle spalla.
«Sei proprio un fuscello, ragazza!»
Lei gli restituì un’occhiataccia, ma si era divertita e
sperò con tutto il cuore che momenti come quelli non fossero unici; inoltre,
non sarebbero stati un paio di starnuti a metterla di malumore, quanto
l’occhiata dura del Re Sotto la Montagna, che pareva volerla incenerire con la
forza del solo sguardo.
Ma Thorin, in realtà, non era adirato con lei. Balin aveva
ragione nel fargli notare quanto i nipoti fossero lieti in compagnia di quei
Nani dai capelli rossi, e forse sarebbe dovuto essergli ed esserle grato.
Inoltre, ricordava il sorriso sulle labbra della ragazza, ed era qualcosa che
sembrava molto raro in quel viso. Si avvicinò, con l’incredibile intento di
sincerarsi delle sue condizioni di salute, dopo l’ennesimo starnuto, e di darle
qualcosa con cui asciugarsi; ma il fratello lo aveva preceduto. La vide
accettare con un sorriso radioso la sua tunica color ruggine, ma la sua ilarità
svanì quando incontrò il suo sguardo. Rimasero ad osservarsi in silenzio,
finché fu Thorin che, spronato il pony, affiancò i nipoti ancora ridenti, per
raccontare loro antiche storie sugli Uomini di quelle terre e allontanare i
suoi pensieri dagli intrusi che si stavano intrufolando tra le loro vite.
9 Settembre 3019 T. E.
Boromir sarebbe partito in poche ore per Osgiliath, dove un
carico di attrezzi e mithril
provenienti da Erebor e Moria era in arrivo in pochi giorni, insieme ad un
cospicuo numero di lavoratori e, soprattutto, alla scorta del Re Sotto la
Montagna. Sotto consiglio di Gimli, Boromir aveva spedito delle aquile nel
profondo Nord, per richiedere l’aiuto e il fine lavoro dei Nani di Erebor e dei
Colli Ferrosi nella ricostruzione della vecchia città distrutta, e Thorin era
atteso finalmente in città.
«Quando tornerai?»
L’Uomo si avvicinò alla sua donna, una mano che accarezzava
automaticamente il Corno di Gondor che lei aveva fatto riparare. «Un paio di
settimane. Dopo che avrò accolto i Nani rimarrò in città per controllare che
l’inizio dei lavori proceda nel migliore dei modi. Non dirmi che ti mancherò?»
le domandò, con un guizzo di divertimento negli occhi, che si spense nel
momento in cui lei gli disse che no, non le sarebbe mancato.
«Non avrò tempo di sentire la tua mancanza.» Brethil si alzò
dalla panca in pietra su cui sedeva, fermandosi a pochi passi da lui. «Il Re mi
darà parecchio lavoro per mantenere la mia mente occupata e lontana da
Osgiliath, con tante interessanti ed avvincenti riunioni col Consiglio.
Inoltre, dovrò probabilmente accompagnarlo in qualche battuta di caccia agli
Orchi, il che mi terrà lontana da brutti pensieri.»
Boromir drizzò le spalle. «Ebbene, saremo in due ad avere
del lavoro da compiere. Neanche tu, brutto
pensiero, mi mancherai. Ho vissuto più di quarant’anni senza la tua
presenza, sopravvivrò una manciata di giorni.»
La donna rise di quell’orgoglio mascolino ferito,
rifugiandosi tra le sue braccia. Erano in un giardino nascosto alla vista dei
curiosi, cosicché potessero lasciarsi andare a dimostrazioni d’affetto senza
che nessuno li vedesse. Alzò lo sguardo su di lui, che pareva contrariato, e si
alzò sulle punte dei piedi per baciargli lievemente le labbra. «Non ti dirò che
invidierò persino i Nani più bassi che ti incontreranno e che discorreranno con
te, poiché il tuo egocentrismo potrebbe lasciarmi senza fiato.»
Il Sovrintendente sembrò gradire quella frase e ammiccò.
«Avrei in mente qualcos’altro per toglierti il respiro, in realtà.» E così
dicendo la strinse con possessività, riappropriandosi di quella piccola e
tagliente lingua con un bacio prepotente.
E sì che rimasero senza fiato entrambi.
Boromir le carezzò il viso sfregiato, il tocco lieve e
ancora imbranato di chi aveva brandito armi per una vita e invece non aveva mai
osato sfiorare una donna. Lei gli strinse la mano nella sua, e sorrise.
«Torna presto, mi raccomando. Minas Tirith e il Re hanno
bisogno del suo Sovrintendente.»
«E il capo della Guardia Reale no?»
Lo spinse via, ridendo all’incredibile faccia tosta
dell’Uomo.
Aspettò che se ne andasse a consumare un pasto caldo prima
della partenza, qualche minuto più tardi, per riflettere su quelli che
sarebbero stati i giorni successivi; un senso di disagio la fece sospirare
profondamente. Nonostante vivesse a Minas Tirith da qualche mese e Gondor fosse
realmente la sua casa, ancora non riusciva a sentirsi tranquilla e a suo agio.
Tutte le amicizie che si era creata e che aveva consolidato nelle settimane
precedenti la fine della Guerra, erano ora partite verso le proprie dimore:
Elladan e Elrohir avevano fatto ritorno a Imladris dopo il matrimonio di
Aragorn ed Arwen, e poco dopo la scorta funebre di Re Théoden era partita da
Gondor, insieme ad Éomer, Gandalf e gli Hobbit. Ora persino Boromir la lasciava
lì, in quella grande città di pietra, e infagottata in quella bella divisa che
il Re le aveva donato. Fu solo per la consapevolezza che il Ramingo sarebbe
stato al suo fianco gran parte del giorno a rincuorarla e a non farla cadere
nello sconforto totale. Non le importava quali fossero le chiacchiere che
sentiva sul suo conto – una Prima Guardia del Re donna! – ma si stava stancando
delle occhiate che i soldati più anziani le riservavano. Aveva dato più volte
prova del suo valore in battaglia, e allora perché temevano che non sapesse
fare il suo lavoro?
Decise di raggiungere gli altri nella Sala Grande, dopo che
fu passata nella sua stanza per prendere Celeboglinn
e appenderla al fianco; al tavolo trovò Boromir, Gimli e Legolas, che avevano
quasi finito di mangiare una bistecca arrosto e qualche fetta di pane
imburrata, ed erano già pronti per partire, e il Re, che la salutò con un
caloroso sorriso. Brethil scambiò uno sguardo con il Sovrintendente, ma non si
sorrisero né fecero nient’altro che potesse far partire ulteriori dicerie sul
suo e sul loro conto. Solo Aragorn e la stramba coppia di amici era testimone
del forte sentimento che li univa, e ciò bastava per il momento. Avrebbero
voluto sposarsi presto, ma prima vi erano questioni ben più importanti di cui
occuparsi, rispetto ad una cerimonia matrimoniale.
Come, per esempio, sedare il primo focolare di rivolta tra
le dell’Harad, nel Sud. Nonostante la sconfitta di Sauron, gli Haradrim non
sembravano volersi arrendere; ma di questa questione Aragorn si sarebbe
occupato in quelle settimane, dopo che la delegazione del Re dei Nani fosse
giunta a Minas Tirith tra qualche giorno. Anche Éomer lo avrebbe presto
raggiunto nuovamente a Gondor per discutere di un’eventuale azione preventiva.
Perché Rohan avrebbe sempre risposto alle richieste di aiuto del suo vicino ed
alleato.
«Aragorn, prima di recarmi alle stalle avrei bisogno di
parlarti. È
giunta l’ora di partire.» disse Boromir, che si alzò.
«Ancora non capisco cosa sia tutta questa fretta.» borbottò
Gimli. «La mia gente non arriverà prima di dopo domani sera, e io rischio
seriamente di soffocarmi, continuando ad ingoiare pezzi di pane senza
masticarli per la fretta di terminare questo pranzo in tempo!»
«Rischi di soffocarti ogni volta che mangi, Nano. Qualcuno
avrebbe dovuto insegnarti che dovresti anche respirare, tra un boccone e
l’altro.»
«E tu dovresti imparare a mangiare, invece, Orecchie a
Punta. Continuando di questo passo finirai per diventare scarno peggio di
quella creatura immonda che si chiamava Gollum.»
Brethil s’oscurò in viso nel sentire quel nome, e non fece
caso all’occhiataccia che Aragorn riservò all’amico. Quello divenne rosso come
quando beveva un po’ troppo e, rendendosi conto della gaffe, borbottò qualche
scusa anche quando si ficcò un morso di mela tra i denti.
Tra un colpo di tosse e l’altro, il Sovrintendente guadagnò
nuovamente l’attenzione del suo sovrano e amico. «Aragorn.»
Il Re annuì. «Andiamo fuori e camminiamo un poco insieme,
Boromir.»
I due lasciarono momentaneamente la Sala e si avviarono
verso il giardino, dove l’Alberello Bianco era in fiore, finché il più giovane
dei due prese parola.
«Vorrei chiederti un favore prima di partire, se posso.»
«Sei un amico, Boromir, uno dei migliori che abbia mai avuto
in tutta la mia lunga vita. Chiedi, e vedrò cosa posso fare per te.»
«Ebbene, è la prima volta che lascio Minas Tirith da quando
tu sei giunto a Gondor, e con te Brethil.»
Aragorn sorrise, capendo bene dove l’altro volesse arrivare.
«Boromir, non vorrai chiedermi di badare a lei, quando dovrebbe essere il
contrario, spero?» gli domandò, divertito.
L’altro, che apparentemente si sentì letto come un libro
aperto, voltò lo sguardo dalla parte opposta, trovando più interessante fissare
il movimento di una bandiera piuttosto che guardare negli occhi il compagno.
«Mi chiedevo se potessi starle accanto, invece. E non solo come Re e Guardia
Reale. Nonostante stia cercando di farla sentire a suo agio, nella nostra bella
capitale, posso percepire ancora parte della sua inadeguatezza. E non sono uno
stupido, sento cosa alcuni dei nostri Uomini dicono sul suo conto.»
«Non devi preoccuparti delle malelingue, Boromir, poiché
verranno messe a tacere quando dimostrerà ancora una volta il suo valore e il
significato della divisa che indossa.» Aragorn sorrise, stringendogli un
braccio con affetto. «Quanto al fatto di starle accanto... l’ho persa per più
di un anno, non credi che ora voglia trascorrere quanto più tempo mi sia
possibile con lei? Brethil è parte integrante della mia famiglia, così come lo
sei tu e il resto della Compagnia. E ora avrà anche la vicinanza di una donna
che sarà ben felice di discorrere con lei. Sia Brethil che Arwen hanno bisogno
di una presenza femminile, in tutta questa mascolinità.»
Boromir si rilassò all’idea che la donna potesse stringere
amicizia con la Regina – anche se l’idea gli riusciva difficile da immaginare.
«Grazie, Aragorn. Ti prometto che mi impegnerò fino alle mie ultime forze per
ripagarti di tutto questo. Osgiliath risplenderà come un tempo e sarà lo
specchio del tuo reame.»
«Ne sono sicuro. Però non farlo per me, ma per te stesso e
per il nostro popolo.»
I due si abbracciarono con forza; poi Boromir mandò a
chiamare Gimli e Legolas, che lo seguirono fino alle stalle per preparare i
cavalli e partire verso la città sul fiume. Il Nano era quantomeno euforico di
rivedere suo padre e il Re, e ormai contava le ore che lo separavano dal suo
lavoro preferito. L’artigiano.
«Vedrai, Elfo! Vedrai la maestria dei Nani nel lavorare la
pietra e i metalli!»
Legolas sorrise. «Spero di poterlo fare, mastro Gimli. A
meno che i tuoi consanguinei non mi strappino via gli occhi temendo che possa
rubarvi il segreto del mestiere. Se la memoria non mi inganna, la tua famiglia
ebbe qualche screzio con la mia, tanti anni fa.»
«Sciocchezze!» esclamò l’altro. «Neanche conoscendo tutte le
tecniche che ci tramandiamo dalla notte dei tempi, un Elfo potrebbe essere in
grado di emulare l’operato di un Nano!»
L’altro si voltò verso l’Uomo, fingendosi turbato. «Temo che
Osgiliath sarà invasa da così tanto orgoglio e testardaggine che le pietre di
quella città difficilmente crolleranno di nuovo.»
«E spero che così sia, Legolas. Il mio cuore non reggerebbe
l’ennesima disfatta di quella città, e nemmeno il mio popolo.»
I tre montarono i propri cavalli, e Gimli si chiese cosa
avrebbero pensato i suoi parenti se lo avessero visto galoppare insieme ad un
Orecchie a Punta. Ma quel pensiero svanì velocemente quando un problema ben più
urgente gli occupò la mente: reggersi all’Elfo per non cadere.
Boromir lanciò un’ultima occhiata verso il cancello che
portava al Secondo Cerchio, e vide Brethil in piedi sull’uscio. Si fissarono
per secondi interminabili, lasciandosi scappare un lieve sorriso. Ma nonostante
non fossero quel tipo di coppia che si lasciava andare ad effusioni in
pubblico, e che soprattutto non poteva permettersi tanto lusso, bastavano pochi
sguardi, pochi gesti come quelli per capirsi. Sarebbero trascorse due settimane
e forse più senza che potessero godere della presenza dell’altro, ma nessuno
dei due stava partendo in guerra.
E ciò era confortante.
L’Uomo spronò il suo destriero e Legolas lo seguì
immediatamente. Sparirono dietro un angolo dopo qualche metro e Brethil tornò
ai suoi doveri.
10 Settembre 3019 T. E.
Raggiunsero nel tardo pomeriggio quella parte dell’Anduin che si
allargava, per far spazio all’isola di Cair Andros. Essa era un punto
strategico importantissimo, per Gondor, e il ponte naturale più utilizzato per
attraversare il fiume e raggiungere gli avamposti dell’Ithilien sulla sponda
orientale. Le torri di vedetta, che circondavano l’isola, culminavano in alte
guglie, la cui cima sventolava il vessillo del Re Elessar. Al passaggio della
carovana di Nani, gli Uomini fecero squillare le trombe e gli araldi, per dar
loro il benvenuto, e i loro animi si rasserenarono; lì, all’ombra delle
minacciose vette di Mordor, che non erano mai state così vicine da quando
avevano calpestato la terra di Gondor, i Nani si accamparono per la notte,
mentre il sole spariva proprio dietro la catena montuosa che barricava il regno
del caduto Sauron.
Trán rabbrividì nel guardare le sagome scure di quelle cime che
nascondevano gli orrori più grandi che la sua mente potesse immaginare. Fu scossa
dalla mano rassicurante del fratello minore, che la strinse con affetto e la
condusse dalla sua famiglia. Poiché l’ora non era tarda, dopo aver acceso i
fuochi per riscaldarsi, molti Nani ne approfittarono per darsi una rinfrescata
e rilassarsi un poco nelle acque limpide del fiume. Trán si avvicinò alla riva,
saggiando la temperatura dell’acqua con un dito. Al suo fianco Káel e Káir
erano già in calzoni e tunica intima, dandosi spintoni per decidere chi dei due
sarebbe dovuto entrare prima. E visto che entrambi parevano molto cavallereschi
da lasciare l’onore all’altro, ci pensarono Fili e Kili a decidere per loro.
Con un bel calcio ciascuno, finirono dritti in acqua, maledicendoli in Khuzdul
mentre quelli si sbellicavano dalle risate. Trán non fece in tempo ad avvertire
i nipoti del Re di un altro pericolo alle loro spalle, che Dwalin li afferrò
per la collottola e gli fece raggiungere gli altri due pochi istanti dopo.
Il burbero Nano lanciò un’occhiata incuriosita alla ragazza, che era
caduta sulle ginocchia dalle troppe risate, e scosse il capo. «Cosa c’è, ne
vuoi anche tu?» Il suo viso si distorse in quello che poteva essere un sorriso,
quando si accorse che la giovane Nana impallidì e scosse veementemente il capo.
Temeva davvero che potesse lanciarla in acqua come un sasso qualunque? Così, in
un borbottio, s’affrettò ad aggiungere un “Stavo
scherzando, sciocca ragazza.”
Trán si lasciò scappare un sorriso. Sapeva quanto poco l’avesse amata
quel Nano, sin dall’inizio del viaggio. Lui e il suo migliore amico non
potevano essere più simili, per certi versi – e il disprezzo verso gli Elfi lo
condividevano entrambi. Ma da quando Trán aveva compiuto quel coraggioso gesto per salvare
l’incolumità di Thorin – e distruggere contemporaneamente il suo ego – Dwalin
aveva abbassato l’ascia di guerra; e se prima si limitava ad ignorarla e a
borbottare qualche improperio diretto a lei o alla sua famiglia, ora pareva
addirittura che le rivolgesse la parola. Per quel poco che sapeva e aveva
potuto vedere di lui, Trán era sicura che fosse un privilegio alquanto unico.
Rimase seduta sulla riva, con quell’alto e temibile Nano in piedi a
qualche passo di distanza, mentre osservavano quei quattro disgraziati che
tentavano in tutti modi di affogarsi l’uno con l’altro.
«Quelli dovrebbero ricostruire una città.» brontolò Dwalin, scuotendo
mestamente il capo, riferendosi al loro comportamento infantile.
«E gli Uomini ci osservano.» aggiunse Trán, aguzzando la vista e
scorgendo le sentinelle attirate dal loro baccano.
Dwalin incrociò le braccia al petto, sbuffando. «Non ci vuole certo il
tuo udito e la tua vista per capire cosa stanno dicendo. Se il buongiorno si vede dal mattino...» Non si aspettava certo che
le sue parole potessero farla ridere ancora una volta e corrugò la fronte,
perplesso. L’ultima cosa che voleva era di fare il simpatico, poiché era
davvero preoccupato per la reputazione rispettosa dei Nani e che quei quattro
contribuivano giorno dopo giorno a far crollare. Si voltò per incontrare lo
sguardo severo di Thorin, più a sud rispetto a loro, e alzò le spalle, per
fargli capire che quella ragazzina un po’ matta lo era sul serio.
«Trán, dai! Vieni a nuotare con noi!» esclamò Kili, agitando un
braccio prima di sparire sott’acqua per mano di Káel.
Lei scosse il capo e si strinse le gambe al petto, arrossendo. Non
aveva nessuna intenzione di rimanere in sottoveste con tutti quei maschi e
rischiare la vita per le sue scarse capacità di nuotatrice.
«Trán! Allora?»
«Non so nuotare.» mormorò colma di vergogna, più a se stessa che a
loro – e che, ovviamente, non la udirono e le gridarono di parlare a voce più
alta. Lo ripeté un paio di volte, finché perse la pazienza e sbottò. «Mahal! Ma ublûrzârm! Mimrakhigirâlhdhargîthmênu!*»
Molti Nani ammutolirono e lei, che odiava essere al centro
dell’attenzione – soprattutto se aveva appena gridato al mondo di non saper
nuotare – nascose il viso tra le ginocchia, per celare tutto l’imbarazzo che
stava provando. Coloro che avevano imparato a conoscerla come la ragazza calma
e paziente, rimasero parecchio colpiti dal suo tono – e soprattutto, dal fatto
che avesse parlato in Khuzdul. I quattro disgraziati, ovviamente, avevano
ripreso a ridere, tralasciando il piccolo particolare che li avesse insultati
chiamandoli piccoli e puzzolenti troll.
Persino Thorin, che si stava riposando seduto contro una roccia, accanto a
Balin, non poté fare a meno di sogghignare.
Kili nuotò vicino alla riva, sorridendole sornione. «Ti insegno io.
Sarò un ottimo maestro.»
La voce della ragazza giunse ovattata, nascosta com’era tra gambe e
braccia. «Scordatelo.»
«Perché no? Non ti fidi di me?» Il Nano capì al volo la risposta nel
vedere lo sguardo eloquente che gli regalò.
«Ho trascorso fin troppo tempo galleggiando su una barca, e mi è
bastato per capire che l’acqua alta non mi piace e che non sono un pesce.»
«Parole sante.» brontolò Dwalin. Abbassò lo sguardo sulla Nana,
umiliata davanti a decine di orecchie ed occhi, e fu quasi tentato di batterle
una manona sulla testa indiavolata, in un inspiegabile gesto di compassione. Ma
sbuffò e preferì allontanarsi alla volta di Thorin, e lì rimase finché non si
fece notte e cenarono.
La famiglia di Rulin si ritirò attorno al loro piccolo focolare, e
mangiarono la carne di coniglio avanzata da pranzo. Era diventata un po’
stopposa, ma nessuno si lamentò. Del resto, non c’era più gusto nell’incolpare
la loro sorella, dato che manteneva sempre le sue promesse e non avrebbe più
cucinato per loro.
«Trán.»
La ragazza abbassò lo sguardo sul gemello, che dopo la cena si era sdraiato
sulle sue gambe ed era intento ad osservare il cielo stellato.
«Secondo te nostra madre è da qualche parte, lassù?»
Gli altri fratelli, che stavano chiacchierando tra una boccata di fumo
e l’altra, fecero calare il silenzio. Il loro lutto era ancora forte e neanche
gli anni avrebbero potuto cancellare il dolore che provavano nel sapere che non
l’avrebbero più rivista. Rulin chinò il capo, chiudendo il suo unico occhio
sano e riportando alla mente i tempi della sua gioventù, quando l’aveva
incontrata per la prima volta ed aveva capito che sarebbe stata lei l’unica
Nana che avrebbe mai amato.
«No, non lo credo.» Trán si lasciò scivolare le occhiate dei fratelli,
che la guardavano come se avesse detto una blasfemia. Il minore, in
particolare, aveva abbassato con delusione lo sguardo dalle stelle a lei, come
se l’immagine che si era creato della madre, lassù tra gli astri del cielo, si
fosse sgretolata come un castello di sabbia. «Lei riposa qui.» gli disse,
portando una mano alla sinistra del suo petto, mentre l’altra gli accarezzava i
lunghi capelli rossi. «È nel tuo cuore, nel mio e in quello di chiunque l’abbia
amata.»
Káel le strinse la mano. «Sto iniziando a dimenticare il suo viso. E
anche il suono della sua voce.»
Una stretta di dolore le fece mancare il respiro e si morsicò un
labbro, pur di non piangere. Anche lei, in cuor suo, aveva iniziato a non
vederla più. L’immagine di quel volto sereno ed amabile sbiadiva di giorno in
giorno, e lei non poteva fare niente per impedirlo. Si sentiva in colpa, per
questo, chiedendosi se non l’avesse guardata abbastanza quando ancora ne aveva
la possibilità.
Káel si rese conto di aver parlato troppo e di aver riportato a galla
qualcosa che stavano cercando di seppellire tutti, e si diede mentalmente dello
stupido. Così, aggiunse in tono più leggero: «Ma ricordo bene la pesantezza
della sua mano... tu, sorellina mia, me la rimembri ogni volta.» Lei ridacchiò,
senza riuscire a fermare qualche lacrima che Káel si affrettò ad asciugare.
«Scusami, non volevo rattristarti.»
Trán si chinò per baciargli la fronte e lo abbracciò con tutte le
forze che aveva. Gli altri sorrisero e ripresero a chiacchierare.
Un’ora dopo i Nani iniziarono a preparare i giacigli per la notte, ma
lei non aveva sonno. Continuava a guardare le stelle, ripensando alle parole di
Káel. Attese che le chiacchiere chiassose venissero presto rimpiazzate dal
russare dei Nani addormentati, e si alzò per allontanarsi un poco e rimanere
sola con i suoi pensieri. Il fiume scorreva poco lontano, ma abbastanza distante
da non udire più i concerti dei loro nasi. Si chinò sulla riva, osservando il
suo riflesso sull’acqua calma dell’Anduin. Accarezzò la pelle del volto,
sperando di ritrovare nei suoi lineamenti qualche ricordo della madre, ben
sapendo che di suo aveva solo il colore degli occhi e nient’altro. Sobbalzò
quando accanto al suo viso ne vide un altro, ben più inaspettato di un Orco.
Thorin si fermò accanto a lei, in piedi nella sua consueta postura da altezzoso
Re, con le mani dietro la schiena. «È così difficile farti dormire?»
Lei si alzò, chinando il capo e scuotendo il tessuto della gonna,
sporco di terra. «Potrei farti la stessa domanda, sire Thorin.» Quando
finalmente decise di guardarlo, lui pareva assorto nei suoi pensieri, mentre
osservava il cielo stellato. Nonostante la tenue luce della luna e le ombre
marcate sul suo volto, Thorin le apparve bello e regale, più del solito; e
forse, si disse, perché la sua espressione non aveva niente di quel rancore e
quel disprezzo che solitamente gli increspava fronte e labbra. Il Re di Erebor
sembrava sereno e lei si sentì un’emerita idiota. Volle, però, saltare a piè
pari il motivo.
«Cosa ti turba?»
Quella domanda giunse inaspettata quanto la sua visita. «Il passato.»
Thorin la osservò con curiosità. Era esattamente quella la risposta
che avrebbe dato ad una simile domanda qualche anno prima. Il passato era ciò
che lo aveva turbato per tutta la vita, ciò che gli aveva permesso di diventare
il Nano che era quel giorno; la paura di ricadere negli errori di suo nonno, il
timore di non riuscire a reclamare ciò che era di sua proprietà e di non
restituire al suo popolo una vita migliore, nella loro casa. Il passato lo
aveva fatto invecchiare più velocemente del previsto, ma ormai era parte di sé
ed era riuscito a superarlo egregiamente. Avrebbe voluto dirglielo, per
rasserenarla; ma trovava ancora strano parlare con lei, e lasciarsi andare a
confidenze non era esattamente il motivo per cui si era avvicinato. Non era
neanche pronto a farlo, in realtà; non ancora.
«Molte volte è quello il suo compito, turbare. La maturità di una persona sta nel riuscire a superarlo,
qualsiasi sia il proprio passato.»
«Allora sono ben lungi dall’essere matura.»
«Su quello non ho dubbi.» Sorrise provocatorio nel vedere
l’espressione oltraggiata della ragazza. Guardò il fiume, pensieroso. «E così
non sai nuotare... hai paura dell’acqua?»
Trán arrossì furiosamente e si affrettò a dargli le spalle,
indispettita. «Non ho paura dell’acqua.» disse, a denti stretti. «Ho paura di
non riuscire a respirare.»
«Hai mai provato?» La vide scuotere il capo dopo qualche secondo di
titubanza. «Un passo per superare il tuo passato è affrontare le tue paure.»
Stette in silenzio qualche secondo, indeciso se continuare. «Vorresti
provarci?»
Trán credette di non aver udito bene. Così si voltò a guardarlo,
sollevando le sopracciglia in una tacita domanda. Come, prego?
Il Nano si schiarì la gola, improvvisamente secca. «Mi chiedevo, se
avessi qualcuno pronto a sorreggerti, vorresti imparare a nuotare?» Incatenò i
suoi occhi chiari in quelli di lei, sgranati per la sorpresa, e notò che stesse
trattenendo il fiato. Era quello l’effetto che le faceva? Paura? Ribrezzo?
Sarebbe presto scoppiata a ridere per quel suo inaspettato slancio di
gentilezza o gli avrebbe risposto con la sua estrema e pungente calma?
«Non...» Trán s’inumidì le labbra, impacciata. Si maledì mentalmente
per la momentanea imbecillità. «Non credo che Kili sarebbe un buon maestro, mio
signore. Con il rispetto e l’affetto che provo per tuo nipote, s’intenda.» Trán
fu quasi più sorpresa di lui nel rendersi conto delle sue parole. Provava
davvero affetto per Kili, e di conseguenza per il fratello? Lei, che non aveva
mai avuto legami di amicizia al di fuori della sua famiglia, poteva davvero
voler bene a quei due scalmanati eredi al trono di Erebor? E loro? Loro cosa
provavano per lei?
Thorin non riuscì a nascondere un sospiro. Se fosse di sollievo o di
irritazione, lei non seppe dirlo. «Per una volta ci troviamo d’accordo.»
Osservò il fiume e poi, nervosamente, il lontano accampamento addormentato.
«Infatti, mi domandavo, dato che nessuno di noi due riesce a dormire...» Si
schiarì ancora una volta la gola. Perché era dannatamente così secca?
«Ora?» chiese lei, sorpresa, capendo la sconclusionata domanda del
Nano. «Tu? A me?»
Non seppe cosa lo trattenne dal riderle in faccia, così come non seppe
dire se fosse più penosa la sua non-formulata domanda, o la serie confusa della
Nana. «Ecco, non tenterei di affogarti, come farebbe mio nipote.»
Trán ridacchiò, senza ironia. «Mi riesce difficile crederlo, sire
Thorin, visto il cattivo sangue che scorre tra noi.»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Cercavo solo di essere cortese.»
Le sue parole vennero quasi troncate da quelle della Nana. «Non credo
sia una buona idea.»
Thorin inspirò pesantemente, iniziando a pentirsi di quel patetico
tentativo di approccio. Insomma, persino Dwalin era riuscito a scambiarci due
parole, perché a lui risultava così difficile e lei era così restìa?
«Insomma, sarei una pessima allieva.»
La osservò chinare vergognosamente lo sguardo e si ritrovò
inspiegabilmente a sorridere. «Questo vorrei che lo decidessi da solo. Ma se
non vuoi, sei libera di non farlo.»
Trán si mordicchiò l’interno di una guancia, indecisa e, soprattutto,
presa in contropiede. Non riusciva a capire da dove saltasse fuori quella
proposta, né volle indagare oltre. Forse si stava rendendo conto che i loro
diverbi non avevano ragione di esistere; forse stava lasciando in un angolo il
suo orgoglio e la sua arroganza per mostrarle il vero volto del Re di Erebor; o
forse era un modo come un altro per prendersi gioco di lei, facendosi forte
delle sue debolezze – e magari voleva affogarla sul serio. Si convinse che
fosse proprio quest’ultimo il motivo di tanta gentilezza, ma la sua voce tradì
i suoi pensieri nel momento in cui lui stava per allontanarsi e lasciar
perdere.
«Vorrei imparare.»
Thorin fermò i suoi passi e socchiuse le labbra, sorpreso. Annuì con
lentezza, studiando quel viso ancora riluttante, ma incuriosito. Con un gentile
gesto della mano le indicò una sporgenza rocciosa, dove si sarebbe potuta
spogliare di stivali e abito, e rimanere nella sua tunica intima. Era
consapevole che, se anche si fosse spogliata accanto a lui, Thorin avrebbe
fatto di tutto pur di non metterla in imbarazzo; perché anche ora che lei si
stava dirigendo a passo tremante verso il suo spogliatoio naturale, lui le dava
le spalle. Lo sbirciò qualche secondo, mentre si toglieva la pesante giacca
blu, ma decise di non guardare oltre, sentendo le guance andare a fuoco nel
vederlo sfilarsi anche la maglia dello stesso colore. Trán si poggiò contro la
fredda parete della roccia e respirò profondamente, cercando di riordinare le
idee e gli avvenimenti degli ultimi dieci minuti. Forse non si era mai alzata
dal suo giaciglio e stava sognando ad occhi aperti. O doveva considerarlo un
incubo?
Capì che fosse tutto vero quando sfiorò la superficie dell’acqua con
un piede e rabbrividì in un istante. Se non fosse morta per affogamento, ci
avrebbe pensato la temperatura gelida a fare il suo sporco lavoro. Percepì
qualche piccola increspatura data dai movimenti di Thorin, che evidentemente
era già entrato in acqua e ora la stava attendendo. Trán prese un respiro
profondo e sperò di riuscire a muovere più di due passi senza perdere l’uso
delle gambe. Oltre al fatto che, prima di lasciarsi andare, controllava che il
piede non sprofondasse nel vuoto e che l’acqua non raggiungesse livelli
preoccupanti per il suo naso. Quando sbucò dal suo nascondiglio e vide il Nano
che si rinfrescava il viso, Trán percepì tutto il sangue fluirle al viso. Prima
di quelle settimane, non aveva mai visto un altro Nano vestito solo dei suoi
indumenti intimi, a meno che non si trattasse dei fratelli; e quando i Nani si
erano fatti il bagno fregandosene allegramente della presenza di poche femmine,
lei aveva fatto di tutto pur di non guardare; ma Thorin... lui era tutta
un’altra storia. La tunica aderiva come una seconda pelle alla linea marcata
dei suoi muscoli, un fisico ben diverso da quello della maggior parte dei Nani,
e fu solo allora che si rese conto che anche lei avrebbe lasciato ben poco
all’immaginazione, in pochi istanti. Si fermò ad osservarlo e fu tentata dal
tornare indietro e scappare accanto al fuoco; ma prima che potesse muovere un
muscolo, Thorin l’aveva già scorta e la esortò ad avvicinarsi. Trán si strinse
le braccia al petto, sia per il freddo che per nascondere la curva dei seni;
egli, di rimando, scosse il capo.
«Non è mia intenzione metterti a disagio.» le disse, tenendo gli occhi
fissi sui suoi e porgendole una mano. «Sei pronta?»
Trán scosse il capo, ma accettò timidamente la mano di lui. Sentì
l’altra che le si poggiò su un fianco e nonostante il freddo dell’acqua e la
presenza dei loro leggeri indumenti, poté chiaramente percepire il calore del
suo corpo prestante contro le sue spalle.
«Chiudi gli occhi e non pensare; ti sostengo.» le mormorò,
sollevandola sul pelo dell’acqua per schiena e gambe. La sentì irrigidirsi e
trattenere il respiro, e s’impose di non sorridere. «Rilassati, non ti
succederà niente. Immagina di essere sul tuo letto.»
«Il mio letto non è così bagnato.»
«Immagino che tua madre non dicesse lo stesso quando eri piccola.»
Accusò l’occhiataccia con un ghigno e lei inspirò profondamente,
sentendosi ridicola come mai in vita sua. Ma seguì il consiglio del Nano, e
poco dopo la sentì rilassarsi tra le sue braccia. La sensazione dell’acqua che
le lambiva il corpo era piacevole, decisamente piacevole. Si fece guidare con
lentezza sulla superficie del fiume calmo e Thorin si perse qualche istante ad
osservarla meglio: lì, con gli occhi chiusi e il viso disteso e sereno, la
trovò bella. E non che non fosse stato un pensiero che non gli avesse
accarezzato la mente più volte, in quelle settimane, anzi; aveva cacciato via
quei pensieri ogni momento che lei gli rispondeva con audacia, ma si era reso
conto che anche quando lei era sul limite di perdere la pazienza fosse
attraente. Perché Trán, figlia di Rulin, che tanto somigliava ad un giovane
Elfo cresciuto troppo poco, era fiera ed orgogliosa come lui, e questo era un
tratto del suo carattere che lo mandava in bestia e lo affascinava, non certo
senza una vena di timore.
Sorrise sinceramente quando scostò con lentezza le mani da quel corpo
che ora galleggiava senza rendersene conto. «Apri gli occhi e guardami.»
Lei lo fece senza obiettare, ma le venne un colpo quando vide le
braccia robuste incrociate sul petto, e non sotto di lei a sorreggerla. Per lo
spavento rischiò di sprofondare sott’acqua, se non fosse stato per lui che la
sorresse in tempo. Trán gli si aggrappò alla tunica, rilassandosi nel sentire
nuovamente il terreno melmoso sotto i piedi, e rise e si vergognò
contemporaneamente. Mosse un passo indietro, rabbrividendo per il freddo e per
il contatto con quel corpo imponente. «Da quanto non mi sorreggevi più?»
«Hai sentito differenza quando l’ho fatto?»
Trán lo rimproverò con lo sguardo per averle risposto con un’altra
domanda. «No, non me ne sono accorta.»
«Bene; allora ricominciamo.»
La Nana annuì prima ancora che se ne rendesse conto. E la loro notte
galleggiò placidamente sul fiume per l’ora successiva.
*Mahal! Non
so nuotare! Voi piccoli e puzzolenti troll!
*
E
dunque Thorin si improvvisa bagnino... ma non lasciatevi ingannare, quei due
sono ancora ben lungi dal trovare una tregua. :P
Un
grazie a chiunque si è fermato a leggere, a preferire, ricordare, seguire... e
commentare. :)
Buon pomeriggio, miei adorati lettori e
carissime lettrici!
Molti
incontri, tanto per citare
il romanzo, ci saranno in questo capitolo. Ma le presentazioni non finiranno
qui. :)
Un gigante grazie
a tutti coloro che leggono, commentano, preferiscono, seguono e ricordano. :)
Buona lettura!
Marta.
Pietra
-sequel di Betulla -
06.
12 Settembre 3019 T. E.
La carovana di viaggiatori era ormai visibile anche ad
occhio umano. Si muovevano con calma, ma i loro pesanti piedi e gli zoccoli dei
pony sollevavano ugualmente un gran polverone. In prima linea cavalcava il Re,
affiancato dai suoi migliori amici e dai nipoti. Nonostante fossero passati
parecchi anni per la vita di un Nano, e neanche un battito di ciglia per un
Elfo come lui, Legolas notò che Thorin non fosse cambiato poi tanto dall’ultima
volta che si erano visti. Non aveva perso quel suo portamento regale e
dignitoso che lo avevano contraddistinto in quella combriccola di Nani che era
piombata a Bosco Atro, e se ben ricordava, non lo aveva perso neppure quando lo
aveva minacciato con il suo arco.
Legolas sorrise, per nulla preoccupato dall’inevitabile scontro
con il Nano. Sapeva che non sarebbe stato felice di rivederlo, neppure dopo
tutto quel tempo; esso era infatti capace di serbare rancore fino alla fine dei
suoi giorni, ma aveva letto anche una profonda saggezza in quegli occhi chiari
e stanchi, e sperò con tutto il cuore che gli risparmiasse i suoi modi burberi
e arroganti.
Raggiunse Gimli e Boromir, saltando da una rovina all’altra
con agilità e leggerezza, e li trovò in quella che doveva essere stata una
delle piazze principali della città, dove una fontana rotonda in disuso ne
segnava il centro.
«Allora? Sono vicini? Stanno arrivando?» domandò Gimli,
stringendo la sua ascia tra le mani callose e reprimendo a stento il suo
entusiasmo.
«La tua attesa verrà presto ripagata, amico mio. Giungeranno
in città in meno di un’ora. Thorin guida il gruppo, e tuo padre gli è accanto,
insieme a Dáin II.»
Gli occhi del Nano brillarono di contentezza e rise, come
non faceva da tempo. Rimasero in attesa, finché Legolas montò nuovamente il suo
bianco cavallo, affiancando Boromir sul proprio, mentre Gimli rimase con i
piedi ben saldi a terra. I tre si mossero verso l’entrata nord, al Cancello di
Condir, seguiti dai soldati incaricati di tenere alto lo stendardo di Gondor, e
andando incontro ai loro ospiti. Quando i cancelli si aprirono, il suono delle
trombe li accolse e così i canti degli Uomini che diedero loro il benvenuto
nella loro vecchia capitale. Boromir si ritrovò a respirare profondamente,
orgoglioso.
Thorin fu il primo a smontare dal suo pony e si chinò
davanti a lui, credendolo il Re di Gondor. Ma egli sorrise e, smontato
anch’esso, si chinò a sua volta.
«Sono io che devo inchinarmi ad un Re, sire Thorin.» disse
l’Uomo, portandosi una mano sul cuore. «Benvenuto a Gondor, nella bella
Osgiliath. Io sono Boromir, figlio di Denethor II, Sovrintendente di Gondor,
Capitano della Torre Bianca e di Gondor, e Signore di questa città.»
Il Nano alzò lo sguardo sull’Uomo. «Ebbene, sei regale
quanto un re, Boromir, figlio di Denethor II, poiché sebbene non abbia una
corona in testa, credevo di avere Re Elessar dinnanzi ai miei occhi. Ed egli
deve riporre grande fiducia in te, a ben vedere dai titoli che seguono il tuo
nome.»
«Il Re avrebbe voluto accogliervi qui, con me, ma lo
incontrerete a Minas Tirith. Le difese dei confini lo tengono occupato.
Purtroppo anche mio fratello, Principe dell’Ithilien, non è potuto essere
presente, ma sarà felice di guidarti tra gli alberi della sua foresta
domattina, se lo desideri.»
Thorin annuì, e spostò lo sguardo verso il Nano dalla barba
ramata, ancora in ginocchio ai piedi del suo sovrano. «Gimli, figlio di Glóin, fierezza
della nostra stirpe! Vieni qui e abbraccia un vecchio amico.»
Il padre si fece avanti e osservò con orgoglio il figlio,
che ricambiava il gesto d’affetto del Re. «Ebbene, partisti quasi nove mesi
addietro, e rieccoti qui, sulle tue gambe! Che Durin ti benedica, figlio mio!»
I due risero, commossi dopo la lunga lontananza e
consapevoli entrambi dei pericoli che avevano corso durante quel periodo. Poi,
Gimli si voltò verso Legolas e, puntellando l’ascia sul terreno, lo indicò ai
Nani. «Mi rincresce doverlo ammetterlo, padre, ma queste corte gambe non
camminerebbero più se non fosse stato anche per i miei compagni di viaggio. La
mia ascia ha saggiato molto sangue nemico, ma anche l’archetto di quest’Elfo si
è dato da fare.»
I suoi amici e parenti spostarono lo sguardo scettico su
Legolas che, sceso anch’esso da cavallo, si portò una mano alle labbra, al
petto ed infine verso loro, nel tipico saluto Elfico. Sopportò con deferenza lo
sguardo pesante del Re dei Nani, che non diede il tempo a Gimli di terminare le
presentazioni.
«Legolas, figlio di Thranduil, Principe di Bosco Atro. Come
dimenticarti.» disse, mal celando il sarcasmo. «Mi stupisce che sia arrivato
fino in fondo alla missione, Elfo, giacché credevo fosse abitudine della tua
razza voltare le spalle agli amici al minimo segno di pericolo.»
Quello sorrise pacatamente, ripensando che, con il
temperamento di qualche anno prima gli avrebbe risposto con una freccia puntata
su quel naso grande e aquilino che il Nano si ritrovava in mezzo alla faccia.
«E io sono felice di averti sorpreso, sire Thorin. Mi rincresce solo che la tua
memoria rimanga ostinatamente ferma sul passato.»
«La mia memoria funziona perfettamente.» sbottò il Re.
«Non lo metto in dubbio, ma a quanto pare neppure gli anni
ti hanno portato la saggezza che dovresti avere.»
Thorin mosse un passo verso l’Elfo, stringendo un pugno.
«Non mi farò insultare dal figlio di un codardo.»
«Signori, per favore.» fece Balin, sollevando le mani in
segno di resa. «Siamo in tempo di pace, non roviniamoci questo momento con
vecchi asti, che superammo a tempo debito; tu e Re Thranduil chiariste molto
tempo fa il rapporto tra le nostre razze. E hai forse già dimenticato del
nostro fortuito incontro durante il viaggio, Thorin?»
Passarono secondi di tensione, dettati dagli sguardi
impenetrabili dei due contendenti. Poi Gimli, resosi conto dell’aria pesante
che era improvvisamente calata tra loro come le nuvole che solevano provenire
da Mordor, tentò di salvare la situazione. «E comunque, vorrei far presente che
qualsiasi cosa l’Elfo vi dirà sul numero di nemici che uccise, non credetegli.
A meno che non sia io a vincere.»
«Chiaro!» rise Legolas, che gli batté una mano sulla spalla.
Il cielo tornò limpido e tutti, Boromir compreso, tornarono a respirare
regolarmente.
«Vogliate seguirmi verso il banchetto di benvenuto, signori
miei.» fece il Sovrintendente, muovendo una mano verso la piazza, dove gli
Uomini avevano apparecchiato un lungo tavolo ricco di carni arrosto, patate e
frutta. La sola vista e il solo odore di quel ben di dio fece brontolare gli
stomaci dei Nani, che si scoprirono improvvisamente affamati.
Prima di sedersi a tavola, Thorin terminò le presentazioni e
prese posto accanto al Signore della Città. Il sole era alto nel cielo quando
iniziarono a banchettare. Discussero molto sulla guerra che avevano dovuto
combattere solo pochi mesi prima, e si scambiarono i racconti delle battaglie
che li avevano visti protagonisti, da una parte e dall’altra. Thorin, udendo
ciò che era accaduto alla Città Bianca, ringraziò il lavoro dei Nani per la
solidità della roccia e della montagna su cui si erano rifugiati, per non aver
subito la stessa sorte.
Ma gli animi erano lieti e rilassati, ora che erano giunti a
Gondor dopo il lungo viaggio, cosicché i dialoghi si spostarono su racconti più
sereni. E qualcuno di loro cantò anche, dopo qualche coppa di buon vino in più.
Boromir brindò ai Nani e alla loro gentilezza, ringraziandoli più volte per
essere accorsi in loro aiuto. E Thorin alzò a sua volta il calice, poiché
l’amicizia tra Nani e Uomini era ben salda e il loro onore gli ordinava di
rispondere alle richieste del loro giusto Re, così come era sicuro avrebbero
fatto anch’essi nel momento del bisogno. Non ci fu bisogno di lanciare
l’ennesima occhiata di disprezzo all’Elfo, per fargli intendere che era quello
il modo in cui gli alleati si comportavano solitamente.
Terminato il pranzo, Boromir lasciò i suoi ospiti a
riposare, poiché erano stanchi. Solo Gimli e Legolas, strattonato dall’amico,
rimasero in compagnia di Balin e del padre. Kili, d’altronde, conoscendo
l’abilità degli Elfi con l’arco e le frecce e ricordandosi quella del figlio di
Thranduil, gli domandò se un giorno avessero potuto allenarsi insieme.
«Sai che lo zio ti ucciderà, per questo?» gli domandò il
fratello.
L’altro annuì, con un sorrisino divertito sulle labbra. «Oh,
sì. Ma per quel momento sarò allenato abbastanza bene da sapermi difendere.
Giusto, Elfo?»
«Ma certo, mastro Nano. E anzi, ti costruirò un arco se ti
dimostrerai all’altezza dei miei insegnamenti.»
Fili ridacchiò. «Ora è sicuro: se rimpiazzerai il suo arco,
lo zio ti ammazzerà, ti riporterà dalla terra dei morti e ti ammazzerà di nuovo,
solo per il gusto di farlo.»
Thorin, nella sua lunga vita, non aveva mai visto una tale
bellezza architettonica per mano di Uomini. Nonostante fosse in completa
rovina, riuscì a percepire la maestosità di quegli archi distrutti, di quelle
torri crollate, di quelle pietre spaccate un tempo finemente lavorate. Sfiorò
la superficie di un muro e ne assorbì l’energia e la sua storia: raccontava di
musica, di orgoglio, di battaglie combattute fino all’ultimo Uomo. Thorin sentì
il peso di quell’incarico sulle spalle e il desiderio di riportare quella città
ai suoi fasti originali, o addirittura oltre, si fece pressante e si sentì
pervadere dall’adrenalina. Solo l’attesa prima di una battaglia e la sensazione
di stringere l’ascia tra le mani, equivaleva a quella del martello che batteva
sull’incudine, poiché lavorare la pietra e i metalli, per un Nano, era motivo
di orgoglio, era qualcosa scritto nel suo sangue dal momento della sua nascita.
Camminò ancora un poco, osservando le rovine al chiaro di
luna e scorgendo la bianca sagoma di Minas Tirith che sorgeva dal Mindolluin. Avrebbe
dovuto attendere un paio di giorni prima di raggiungere la Capitale di Gondor
e, guardando la Città di Pietra che pareva maestosa anche da una grande
distanza, si sentì fremere di eccitazione. Non ne aveva mai parlato con
nessuno, ma da quando aveva letto e immaginato la grande città degli Uomini,
aveva sperato di poterla visitare, un giorno. Purtroppo, o per fortuna, gli
affari del Nord lo avevano tenuto lontano dal suo desiderio.
Thorin tornò in direzione dell’accampamento. Gli Uomini
avevano sistemato il suo letto e quello dei suoi amici in quella che un tempo
doveva essere l’armeria; dell’edificio rimanevano solo quattro mura e qualche
colonna al suo interno, ma il primo piano era crollato tempo addietro, e così
il tetto – che era stato rimpiazzato da una tenda sfoggiante lo stemma di
Gondor. Così, mani dietro la schiena e viso pensoso, attraversò Osgiliath, ma
si fermò a metà strada quando scorse la famiglia dai capelli rossi; erano seduti
su alcuni capitelli rovesciati sul lastricato in rovina, e si accorse che fossero
in compagnia. Si fermò a pochi passi di distanza, nascosto dietro una colonna,
sentendo la rabbia e la voglia di rivalsa insinuarsi nel suo cuore, non appena
si rese conto di chi fosse l’altro.
Legolas era calmo e sereno, e nonostante Thorin fosse sicuro
che l’avesse sentito arrivare, non fece niente per fargli capire di averlo
scorto. Continuava a parlare con i Nani, e trovò strano che stessero usando la
lingua corrente per conversare, invece che l’Elfico. D’altronde, avrebbero
dovuto conoscere la lingua dei loro avi.
«Sì, ebbi la fortuna di incontrare la vostra lontana parente.
Ainariël la Gemma Rossa, viene chiamata. Venne nel regno di mio padre qualche
tempo fa, e soggiornò da noi per parecchi mesi. Le somigli molto, dama Trán.»
aggiunse l’Elfo.
Nonostante la fioca luce notturna, Thorin la vide arrossire.
«Temo che il mio sangue si sia mischiato troppe volte, per
aver ereditato i suoi lineamenti.» fece lei in risposta. «Ma non ho mai avuto
l’onore di conoscerla, quindi non posso dirti se menti o no.»
«In tal caso fidati di me, non mento.»
La Nana sorrise, e nessuno parlò per parecchi minuti.
Rimasero in silenzio, così Thorin, che non avrebbe potuto muoversi senza essere
scoperto finché uno dei due non avesse ripreso a parlare. Poi finalmente Legolas
spezzò il silenzio, ma il Re decise di restare, giacché l’argomento della
discussione si fece interessante.
«Come ben sapete, Nani ed Elfi non sono due razze nate per
andare d’accordo; eppure la Gemma Rossa e il vostro lontano parente si
innamorarono, si sposarono e crebbero una famiglia insieme. Potete ben
immaginare cosa ne derivò, tra Elfi e Nani. Le malelingue non si risparmiarono
certo, e dovettero sopportare offese di ogni tipo. Immagino che, nonostante il
tempo, ciò non sia cambiato.»
Fu sempre Trán a prendere parola, con sommo stupore di
Thorin; aveva ben capito che fosse poco loquace in presenza di persone che non
conosceva bene; ma quello che aveva davanti era un Elfo, era ovvio che lo considerasse parte della
famiglia.
Lei scosse il capo, sorridendo tristemente. «Le tre
generazioni che seguirono quell’unione hanno dovuto sopportare ben peggio,
credo. Il frutto di un amore simile è blasfemia, e delle volte pare che sia
colpa mia, dei miei fratelli e di mio padre se gli Elfi – beh, se tuo padre non si presentò in battaglia
quando noi ne necessitavamo – e addirittura, avete tentato di appropriarvi del
tesoro di Erebor. Sire Thorin è un Nano e in quanto tale orgoglioso e
possessivo nei confronti delle sue ricchezze. Raramente i Nani chiedono aiuto
in battaglia, quindi puoi ben capire cosa significò per lui rivolgersi a voi.
La vostra risposta negativa incrinò il suo orgoglio e ancora oggi ne pagate le
conseguenze. In più, Erebor e ciò che vi era dentro gli fu tolto ingiustamente,
e quando si vide non uno, bensì due eserciti che la reclamavano, andò
giustamente su tutte le furie.»
«Le scelte di un capo a volte sono dolorose e difficili, mio
padre questo lo sa bene. E anche quella volta ponderò a lungo la sua decisione,
prima di agire. Non fu per il risentimento di non aver ricevuto i gioielli che
commissionò a Re Thráin, che pagò ma che non vide mai; la sua decisione giunse
perché capì che neanche il suo esercito avrebbe potuto fermare il Drago –
sarebbe stata una carneficina, e preferì evitarla. Ma l’azione di uno non deve
implicare necessariamente quelle degli altri. È ciò che i Nani non comprendono
ancora.»
«O non vogliono comprendere. Non vi è peggior sordo di chi
non vuol udire, purtroppo.» replicò Káel.
La gemella si strinse le gambe al petto, poggiando il mento
sulle ginocchia. «Io non biasimo sire Thorin per il suo rancore, né posso
obbligare lui e la sua gente ad accettare il mio sangue Elfico. Vorrei solo
essere rispettata, così come la mia famiglia rispetta loro. E poi, anche se siamo
più alti della norma e non abbiamo l’aspetto di un Nano purosangue, è a questa
razza che apparteniamo. Sono nata dentro il ventre di una montagna da due Nani,
ho lavorato il ferro, mio padre e i miei fratelli hanno combattuto davanti alle
porte di Erebor. Cosa c’è che non fa di me una Nana? Con tutto il rispetto per
la tua razza, beninteso.»
Legolas rise. «Nessuna offesa. E detto tra noi, sono felice
per te che non somigli ad una Nana, Trán. O si farebbe fatica a distinguerti da
un maschio.» aggiunse a voce bassa, per non farsi udire dall’ospite
indesiderato che origliava a pochi piedi di distanza. I fratelli risero, e con loro
anche lei.
Thorin non riuscì a decifrare ciò che provò nel sentirla
parlare così di lui, come se lo conoscesse da una vita; poiché nonostante il
loro rapporto fosse ambiguo e sul filo di una lama, non si erano mai fermati a
parlare di ciò che avevano dovuto vivere nel passato. Eppure rifletté sulle sue
parole e le trovò sagge, inadatte ad una bocca così giovane – e soprattutto,
terribilmente veritiere. Come aveva fatto una Nana-per-metà a capire il dolore e l’affronto che lo avevano
colpito in quegli anni a causa degli Elfi? Cosa poteva saperne, lei,
dell’orgoglio Nanico e dell’amore per il proprio tesoro che gli era stato portato
via senza motivo e con un incredibile spargimento di sangue e sofferenza?
«Come avete fatto?» domandò Káir, curioso. «Intendo, come
avete fatto tu e il Nano a diventare così amici?»
L’Elfo sorrise, ripensando a tutti i pericoli e le gioie che
avevano condiviso insieme – e i bisticci infiniti. «Avevamo un motivo per
combattere la stessa guerra. Arriva un momento, nella tua vita, in cui capisci
che devi mettere da parte tutti i rancori e l’orgoglio che ti hanno avvelenato
l’anima, se vuoi compiere qualcosa di buono. Non nego che sia stato difficile
convivere, nei mesi passati, anzi! Ma dovevamo guardarci le spalle in ogni
istante, o farci forza nel dolore. Il tempo è la risposta per ottenere la
fiducia dell’altro.»
Thorin sospirò pesantemente. Neanche il tempo gli avrebbe
fatto cambiare idea sugli Elfi, di quello ne era sicuro. Nonostante avesse
firmato una tregua con il padre di quel damerino dalle orecchie a punta, la sua
opinione sarebbe rimasta tale e quale finché sarebbe morto.
«Ti hanno mai detto che spiare è per le comari di paese, mio
Re?» domandò Dwalin, che nonostante avesse parlato a bassa voce, fu udito
chiaramente dai conversanti.
Thorin lanciò un’occhiata verso il gruppo, che guardava
sospettoso nella sua direzione. Maledì a denti stretti il tempismo dell’amico
e, preso per un braccio, lo trascinò lontano.
«Non spiavo. Ho udito il mio nome e ho pensato che fosse
bene capire perché lo avessero fatto.»
L’occhiata dell’amico non sembrò convinta, ma Thorin non
aggiunse altro in sua difesa. Poiché non vi era alcun motivo di difendersi.
«Ebbene,» fece Dwalin. «stavano complottando con l’Elfo per
toglierti di torno, o si lamentavano del buio delle montagne paragonato alle
verdi foreste?»
Thorin, raggiunto il suo giaciglio, si sedette pesantemente,
poggiando gli avambracci sulle ginocchia. Fili e Kili erano già profondamente
addormentati sulle brande accanto alla sua e russavano come se non ci fosse
stato un domani. «Discutevano sul da farsi, niente di interessante, infine.»,
mentì.
Si sdraiò, dopo aver tolto la pesante giacca imbottita di
una sottile cotta di maglia e gli stivali; osservò il movimento placido della
tenda sopra la sua testa, e lo stemma di quel Regno gli parve più brillante che
mai sotto la luce della luna.
Ripensò alle parole della ragazza, ancora irritato e
incredulo per ciò che aveva udito. Ma in cuor suo, in un angolo remoto del suo
cuore, sentì un flebile fastidio che gli stava bruciando l’anima lentamente e
discretamente; poiché capì di cosa si trattasse e si ritrovò a stringere i
pugni con forza. L’aveva sentita parlare in sua difesa, pronta a capire i
motivi che lo avevano portato a detestare incontrollabilmente gli Elfi e la
loro stirpe; eppure mai, durante quel lungo viaggio, aveva dato prova di comprensione
nei suoi confronti; anzi! E mentre quasi tutti coloro della sua ristretta
cerchia di amici avevano accettato il fatto che fossero con loro, lui era
rimasto ostinatamente distante da qualsiasi forma di dialogo; l’unico di quel
gruppo con cui aveva scambiato volentieri più di due parole, senza insultarsi,
era il gemello della ragazza. Neanche dopo quella notte spesa a galleggiare
sull’Anduin, a stretto contatto l’uno con l’altra, era servita ad avvicinarli;
col senno di poi si era chiesto se non fosse stato stupido ed avventato, da
parte sua. Voleva solo togliersi quel peso che sentiva nei suoi confronti, per
averlo protetto.
Aveva capito perché lei fosse così restia e distante nei
suoi confronti, e ciò non poteva che mandargli in ebollizione il sangue nelle
vene.
Lei attendeva delle scuse, e lui e il suo orgoglio non erano
pronti a dargliele.
Si girò su un fianco, chiudendo gli occhi e tentando di
prendere sonno; eppure, la sola idea che potesse provare gelosia per non aver
ricevuto la giusta considerazione gli impedì di dormire per parecchio. Non che
ne necessitasse come l’aria per respirare; non aveva bisogno della comprensione
di una persona che non aveva vissuto gli orrori e il dolore che invece lui e la
sua gente avevano dovuto patire. Ma lui era il Re ed esigeva rispetto.
Kili, poco distante, russò con più forza. Subito dopo si udì
un tonfo e, appena si voltò per capire cosa fosse successo, trovò il nipote a
terra, ancora rintronato dal sonno, mentre l’altro si rimetteva a letto.
«Scusa zio, dovevo
farlo. Ha svegliato persino me!» fece Fili, dopo uno sbadiglio. «Buona notte.»
Thorin non nascose un sorriso. «Bada a non fare la stessa
fine. Dormi b–»
Non fece in tempo a finire la frase, che Kili era già
saltato sulla branda del fratello, per fargliela pagare. Ogni possibilità di
trovare riposo, quella notte, sembrava ormai lontana.
Quando finalmente riuscì ad addormentarsi in un sonno senza
sogni, mancavano ormai poche ore all’alba.
13 Settembre 3019 T. E.
I lavori iniziarono presto. C’era talmente tanto da compiere
che Dáin II, guardandosi intorno, quasi non seppe neppure da dove cominciare. Osgiliath
era un mucchio di rovine, e sebbene gli Uomini avessero dato inizio ai lavori
mentre loro erano ancora in viaggio, era consapevole che i prossimi mesi
sarebbero stati sfiancanti. Ma la mole dell’incarico non lo spaventava certo, e
anzi: lo eccitava oltremodo.
Così, affiancato da Dwalin, che non aspettava altro, svegliò
tutti i suoi lavoratori a suon di calci e secchiate d’acqua. Presto
l’accampamento fu sommerso da un brusio di lamenti in Khuzdul, troppo poco
eleganti per essere tradotti.
«Avanti, Nani dei Colli Ferrosi e della Montagna Solitaria!
Fate colazione, prendete energie e poi al lavoro!» gridò, salito su una pietra
che usò come piedistallo. «Voglio che metà di voi si rechi all’imbocco del
fiume a Sud, per aiutare gli Uomini nel trasporto della pietra; impilate il
materiale fuori le mura. L’altra metà con me, prepariamo le officine di lavoro.
Rulin, voglio che tu, i tuoi apprendisti e i tuoi figli Tarón e Káir facciate
un giro di ricognizione, prendiate rilievi e iniziate a disegnare il progetto.
Mi aspetto grandi cose da voi.»
Il Nano si inchinò al cospetto del suo Re, drizzando poi
orgogliosamente la schiena. «Non ti deluderemo, sire Dáin. Non lo abbiamo mai
fatto.»
L’altro gli diede una poderosa pacca sulla spalla e sorrise.
«Lo so bene, amico mio. Al lavoro, dunque!»
Thorin, che stava in piedi poco distante con le braccia
conserte, lanciò una rapida occhiata ai figli del carpentiere, fieri del loro
padre e dell’alta considerazione che Dáin avesse di lui. Spostò immediatamente
la sua attenzione verso gli Uomini, quando si accorse che un paio di occhi
azzurri lo osservavano con soddisfazione; con quello sguardo, il primo che gli
rivolgeva dopo tanti giorni, Trán sembrava volergli dire: hai visto dove è in grado di arrivare un Nano-per-metà?
Si sedettero al banchetto allestito il giorno precedente, e
fecero colazione con abbondante frutta, pane, burro e marmellate. Alla vista
dei funghi, Kili sorrise.
«Ah, se solo Bilbo fosse qui! Tutto questo gli sarebbe
piaciuto.»
«Meglio che non ci sia lo Hobbit, invece.» replicò Dwalin,
addentando una mela. «O Bombur, se capite cosa intendo.»
Fili e Kili scoppiarono a ridere, e così tutti coloro che
conoscevano il loro grasso amico.
Thorin si voltò verso Gimli. «Così anche tu hai avuto il
piacere di conoscere la razza degli Hobbit?»
«Oh, sì. Quei piccoli mascalzoni!» Il Nano dalla barba
ramata si lasciò sfuggire un sorriso. «Merry e Pipino sono tremendi quando si
tratta di cibo. Non so questo Bilbo di cui parlate, ma vi assicuro che mangiano
per un intero esercito.»
«Posso assicurarti, mio caro amico, che il Bilbo di cui si
discute – almeno quando era più giovane – fu in grado di svuotare l’intera
dispensa da solo, quando s’intrufolò nel regno di mio padre.» fece Legolas. «Anche
se sono sicuro che non fu così avaro da mangiare da solo.»
Thorin sentì addosso lo sguardo dell’Elfo, che sorrideva
come se sapesse. Scosse il capo,
ripensando a quei giorni che gli parevano così lontani. Se non fosse stato
grazie a quello Hobbit che aveva la capacità di comparire e sparire nel giro di
un battito di ciglia, loro sarebbero probabilmente morti. E, a quanto pare, era
stato proprio per opera di quella piccola gente che la Terra di Mezzo ora era
salva dal pericolo del Male.
«E dove sono questi Hobbit di cui parlate?» domandò Kili.
«Mi piacerebbe conoscerne altri.»
Boromir sospirò, con un po’ di rammarico. «Ahimè, sono tornati
verso la loro bella e lontana terra. Solo i Valar sanno quanto quei piccoletti
mi manchino!»
«Capisco cosa provi in questo momento, messer Boromir.» fece
il Re Sotto la Montagna. «Perché è esattamente ciò che sento anche io. Mi
vergogno di quello che dissi allo Hobbit la prima volta che lo incontrai, e
anche le successive. Lo sminuii, perché non credevo nelle sue capacità. Ma mi
sorprese in più di un’occasione, e capii che la vera forza non sta nella
portata del braccio, ma in quella della mente e del cuore. Se tutti gli Hobbit
della Contea sono come coloro che abbiamo avuto la fortuna di incontrare,
allora la Terra di Mezzo dovrebbe esserne invasa.»
Boromir annuì con un sorriso e decise che, prima di partire
con la scorta di Thorin verso il fratello, avrebbe scritto un messaggio ai suoi
vecchi e lontani amici.
E mentre il Re e i suoi più stretti compagni si preparavano
per la visita di piacere alla foresta di Faramir, Legolas si avvicinò
silenziosamente a Trán. Si accorse di lui solo quando se lo trovò seduto
accanto, mentre lei era intenta a ricucire una maglia del fratello.
«Vorresti venire con me e Gimli nell’Ithilien? O i tuoi
doveri ti chiamano?»
«Io, Káel e Trión andremo a Minas Tirith, non lavoreremo
qui. Ma ti ringrazio, messer Legolas, non posso comunque unirmi a voi.»
«Perché no?»
«Perché solo le persone importanti sono state invitate.»
Trán si strinse nelle spalle. «E che io sappia, non sono né la dama di corte,
né la nipote del Re.»
«Non ti reputi importante? Mi deludi, figlia di Rulin. Egli
è il carpentiere di fiducia di Re Dáin II.»
Lei ridacchiò, scuotendo il capo. «Non sarei ben accetta
comunque. Re Thorin non ne sarebbe felice.»
«Non puoi saperlo. I suoi nipoti, comunque, lo sarebbero. E
anche io.»
Trán guardò con sospetto l’Elfo, ma non fece in tempo ad
aggiungere altro, poiché i fratelli più esuberanti che avesse mai incontrato le
balzarono davanti, rischiando di farla pungere con l’ago per lo spavento.
«Dunque, sei pronta per la gita?» chiesero in coro.
La Nana scambiò un’occhiata con Legolas, che rise.
«Devo prima chiedere il permesso a mio padre.»
Fili le strizzò un occhio. «Il tuo vecchio è sistemato, Kili
ha appena finito di parlarci. Allora, cosa rispondi?»
Rulin, che aveva osservato la scena dalla sua postazione di
lavoro, sorrise alla figlia e le fece cenno di andare e divertirsi un po’. Era preoccupato
per l’umore instabile della sua bambina, che era diventata taciturna e scortese
dopo la morte della madre; ma aveva anche notato che l’amicizia che stava
nascendo tra lei e i nipoti di Re Thorin le stava giovando al viso, che era
tornato quello spensierato di un tempo.
«D’accordo, mi avete convinta. Verrò con voi.» si arrese,
infine, alzando le braccia al cielo. «Ma ad una condizione. Káel ci
accompagnerà, e anche Trión; non posso lasciarlo solo.»
«E sia! Ci stanno già aspettando.» disse Fili. «Ora, prendi
le tue cose e vieni con noi. Si parte tra mezzora.»
Trán non seppe definire con esattezza a quali cose si stessero riferendo, ma afferrò
la sua piccola sacca a tracolla e ci infilò un paio di mele e la borraccia
d’acqua. Li seguì verso l’accampamento dello zio, dove trovarono il gemello e
il fratellino, Gimli e Boromir in compagnia del Re, Balin e Dwalin.
Quest’ultimo non badò troppo alla presenza della ragazza, sebbene non gli
disturbasse più come all’inizio, dopo l’inconveniente della freccia; ma il
fratello, invece, parve ben felice di averla tra loro e la salutò con un
caloroso sorriso.
Thorin non interruppe la discussione intavolata con i suoi
amici, ma fissò insistentemente la ragazza. Trán gli concesse solo qualche
secondo del suo sguardo, per poi riversare la sua attenzione su Trión.
Detestava essere ignorato, soprattutto da qualcuno che invece aveva la sua
piena attenzione; si avvicinò a Kili, le mani intrecciate dietro la schiena, e
abbassò lo sguardo sul nipote quando gli fu accanto. «Esattamente, cosa ci fa lei
qui?»
«Viene con noi. Insieme ai fratelli.»
La candida risposta del ragazzo lo fece sospirare. «Mi era
parso di capirlo. Allora, perché è
qui?»
Kili riconobbe quel tono di voce irritato e temette per la
sua incolumità quando gli rispose. «Perché io e Fili glielo abbiamo domandato.
E anche l’Elfo. Spero non sia un problema, zio. Pensavo che le cose andassero
meglio tra voi, dopo che... beh, vi ho visti l’altra notte... in acqua, mezzi
nu–»
A quelle ultime parole, Thorin lo fulminò con i soli occhi e
Kili avrebbe preferito rimangiarsi la lingua pur di non aver parlato; neppure
Smaug sarebbe stato in grado di incenerirlo così. «Kili, devo ricordarti cosa
dissi a te e a tuo fratello riguardo gli Elfi? E in particolar modo quell’Elfo?»
«Sì, che sono persone di cui non ci si può fidare e che
dobbiamo girargli alla larga.» ripeté il giovane Nano. «Ma zio, Legolas è
diverso da quello che incontrammo anni fa. È cambiato, così come lo sei tu e lo
sono io.»
«Gli Elfi non cambiano. Hanno un’eternità per farlo, ma non
cambiano.» scandì bene l’altro. «Non mi ripeterò una seconda volta: non voglio
che tu e tuo fratello lo frequentiate.»
«E... Trán? I suoi fratelli? Loro possiamo frequentarli?»
Thorin sospirò. La osservò con la coda dell’occhio mentre
chiacchierava con un impacciato Gimli. «Mi ricordo dei fratelli in battaglia,
sono abili combattenti e meritano il mio rispetto. E anche lei, nonostante
tutto.» aggiunse, in un borbottio. Kili sorrise gioioso e Thorin non poté che
scuotere il capo.
Quando il nipote si allontanò, Balin prese il suo posto. «Non
posso credere che lo abbia detto sul serio.» lo rimproverò. «Nonostante tutto? Thorin, devi davvero spiegarmi
quale sia il problema.»
«Il problema, amico mio, è che non mi piace il suo
atteggiamento. Non mi porta il necessario rispetto, e lei non avrà il mio. E nonostante
si sia rivelata utile durante il viaggio da Erebor, ella è infima perché mi sta
rubando ciò che amo di più.»
«A parte l’orgoglio, non mi pare stia rubando alcunché. Suvvia,
non fare lo sciocco, mio Re. Non perderai mai Fili e Kili per colpa di
un’innocente ragazza, anzi: più tu impedirai loro di stare in sua compagnia,
più loro s’intestardiranno. Allora sì che rischieresti di perderli.» Balin gli
sorrise, stringendo una mano sulla spalla contratta del Nano. «Ma dimmi, amico
mio, poiché credo di aver perso qualche passaggio: cosa ha visto Kili, la notte
scorsa?»
Thorin alzò gli occhi al cielo e non rispose, preferendo
allontanarsi da quelle domande scomode e cacciando indietro lo strano imbarazzo
che iniziava a provare nell’essere stato scoperto. Era stato davvero avventato
ad offrirle il suo aiuto, quella notte; era stato spinto da una debolezza che
non provava da tempo, quella che lo spingeva a preoccuparsi delle persone a lui
care; quella che lo rendeva uno zio affettuoso e desideroso di insegnare ai
suoi nipoti tutto ciò che sapeva. Ma lei cos’era? Non certo una nipote, né una
lontana parente. Era solo un’estranea; una scorbutica e permalosa estranea.
Voleva cercare di riparare qualsiasi cosa si fosse incrinato tra loro, e non
sapeva neppure lui il perché. Ma non aveva funzionato e, si promise
mentalmente, di non infilarsi più in situazioni ambigue come quella.
Quella ragazzina non meritava le sue attenzioni.
*
E
finalmente in Nani sono giunti a Gondor! Ora iniziano le danze, ho tante
sorprese in serbo per loro – e per voi. ;)
Grazie
a chiunque si sia fermato... siete la mia gioia. :)