Il lungo inverno di Sefron

di Fanriel Kerrigan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


NOTE: questo testo è stato pubblicato ma la pubblicazione è stata ritirata dagli scaffali per mio volere quindi ho riacquistato i diritti sull'opera. Sono qui per raccogliere opinioni su ciò che ho sbagliato al fine di migliorare il lavoro.

Sefron era un piccolo villaggio nascosto nelle nevi gelide delle Terre dell'Est.

Dall'esterno si scorgevano solo le mura grigie, costruite di massiccia pietra dagli antichi per tenere lontani i lupi e gli altri pericoli provenienti dalla Foresta, ma una volta valicato il cancello di ottone massiccio, le piccole e graziose case abbracciavano la vista dei viaggiatori.

Le vie acciottolate di Sefron erano strette e coperte di ghiaccio e neve, e si inerpicavano contorte tra le umili abitazioni dei laboriosi sefroniani, fino al Grande Palazzo d'Ebano, sede del potere.

L'accesso al Palazzo era riservato alle Sette Stelle e alle loro famiglie, e soltanto in occasioni eccezionali, come l'elezione di una nuova Stella , era ammessa anche la popolazione.

Le Sette Stelle erano i condottieri di Sefron, sette anziani saggi che si occupavano della gestione economica, politica e militare della città.

La loro nomina avveniva in via ereditaria oppure, in casi estremamente eccezionali, poteva avvenire per via fiduciaria: l'ordine delle Sette Stelle, doveva rimanere comunque alle sette famiglie prescelte, almeno per la durata di quell'Era.

Il grande palazzo in cui avevano sede era una costruzione meravigliosa e grandiosa, eretta utilizzando materiali che non erano facili da trovare, che provenivano da terre di cui solo le leggende parlavano.

L'ordinamento gerarchico era molto severo, immutato da tempi di cui si era perduta la memoria: il primo capo assoluto dell'ordine era la Settima Stella, e via via a scendere fino alla Prima Stella, colei che aveva il compito minore di riferire al popolo ciò che si era discusso in assemblea.

La Settima Stella era, ai tempi del lungo e crudele inverno di Sefron, Gada lo Stregone, un uomo anziano e burbero, dall'aspetto slanciato ed elegante e dal viso segnato dal freddo e dalle esperienze della vita.

Era l'unico delle Sette Stelle a vivere nel palazzo d'Ebano, assieme al suo unico figlio: Celtern.

Gada non aveva moglie, a Sefron non avevano mai visto nessuna donna assieme a lui, e ciò non faceva che alimentare leggende sull'origine divina di Celtern, che crescendo si rivelava un ragazzo pieno di risorse e di talento, e si vociferava che un giorno avrebbe superato il padre in grandezza.

Ma la verità era assai più triste: la moglie di Gada era morta mettendo al mondo Kohorlberl, ed era questo uno dei motivi che spingeva il padre ad odiare immensamente il figlio.

Già a 10 anni, il giovane era molto alto, robusto e bello, e si ribellava spesso agli insegnamenti del padre, che più tentava di tenerlo a bada, più sentiva che un giorno lo avrebbe perduto.

Celtern avvertiva il rancore del padre verso di lui, pur essendo ancora un bambino, e per questo aveva sviluppato un carattere ribelle e fiero, conservando comunque l'eleganza della stirpe più antica e regale delle terre dell'Est.

Il padre circondava il figlio dei migliore maestri di Sefron, anzi, spesso provenienti anche da terre straniere, per istruirlo sulla strada della giustizia e della virtù, cercando di fare di lui uno stregone maturo, equilibrato, che un giorno avrebbe guidato la città di Sefron al posto suo.

Gada cercava a fatica di nascondere il rancore che nutriva nei confronti del ragazzino, che apprendeva molto velocemente gli insegnamenti che gli erano impartiti, e diventava ogni giorno più bravo, apparentemente senza mai stancarsi troppo.

Accanto a Gada lavorava Conel, la Sesta Stella, seconda in ordine di importanza, ma che spesso si rivelava una risorsa insostituibile, senza la quale alcune crisi, come le epidemie che periodicamente investivano la città, non sarebbero mai potute essere superate.

Conel era un’anziana donna, molto silenziosa, che sceglieva con attenzione le parole da pronunciare, ed era affezionata al burbero Gada, nutrendo comunque un a grande compassione per il piccolo Celtern, quando spesso accadeva che Gada lo punisse, senza nessun motivo apparente.

Nessuno più di lei era mai stato così vicino a Gada dopo la morte di Mayre Midelin, e nessuno meglio di lei poteva capire la sofferenza dell’uomo.

Lei era quasi una madre per Celtern, e cercava di stargli vicina, sempre limitandosi, per non fare infuriare Gada.

 

Accadde una sera, quando nel palazzo delle sette stelle era già calata la notte, e il piccolo Celtern, dopo una giornata di allenamenti e sacrifici, stava a dormire nel suo letto, che la porta d’ebano del palazzo si spalancò, facendo entrare la brezza frizzante della crudele notte di luna piena.

I passi incostanti e appesantiti di Conel, percorrevano affannosi il corridoio, svegliando il ragazzino, che però non si mosse dal letto.

Gada corse incontro a Conel, allarmato dall’incursione improvvisa della donna nel palazzo.

Celtern sentì le loro voci confuse, poi un silenzio meditabondo.

Conel aveva qualcuno con sé, l’aveva portato in braccio sino a lì, dicevano, l’aveva trovato sul ghiaccio del laghetto ad Est, illuminato dai raggi della luna.

Se non fosse stato per la luna che si rifletteva sulla cotta d’argento che indossava, diceva la donna, quasi piangendo, lei non l’avrebbe mai visto.

Gada diceva che il bambino era freddo, ma non era ancora morto, il cuore batteva ancora.

Poi ancora rumore di passi, l’udito affinato di Celtern sentì che stavano portando il nuovo ospite nella sala ospedale del palazzo, poi ci fu il rumore della pesante porta che si chiuse, e alla fine più nulla.

Celtern non dormì più, quella notte, agitato: sentiva che il nuovo ospite non avrebbe portato niente di buono.

Nella notte fredda e buia di Sefron, il ragazzino si alzò, uscì dalla stanza, silenzioso come un gatto, attendendo che tutte le luci del palazzo si spegnessero, percorse tutti i corridoi, nel silenzio, fino alla stanza ospedale.

Aprì la pesante porta d’ebano, facendola scorrere lentamente sui cardini, e per un attimo temette che nella stanza ci fosse qualcuno, ma poi vide che c’era soltanto il buio, tagliato da una lama di luna che andava a colpire il viso del nuovo arrivato.

 

Il bambino era un po’ più piccolo di lui, con i capelli neri, e lunghi, il volto magrissimo, le dita che sembravano ragni che spuntavano dal lenzuolo di seta.

Dormiva, le palpebre erano viola per il freddo, sotto le coperte era nudo, accanto al letto, su una sedia era adagiata la cotta d’argento, che scintillava alla luce della luna.

Celtern si avvicinò, e la toccò, e il metallo gli rimandò una piccola scossa, come di elettricità, scatenando in lui la stessa sensazione di rabbia di quando non gli riuciva un incantesimo.

Guardò malamente il ragazzino che dormiva sotto le coperte, il cui respiro era talmente silenzioso da averlo indotto quasi a crederlo morto, e riprovò a prendere in mano la cotta d’argento, in virtù di quella testardaggine che l’aveva caratterizzato da sempre.

Non riuscì a carpirla, anzi, la scossa fu talmente dolorosa da fargli emettere un gemito sordo, non particolarmente rumoroso, ma che svegliò il bambino addormentato sul letto.

Celtern si girò, spaventato.

E vide che quel ragazzino aveva degli occhi azzurri che sembravano le profondità dei ghiacciai a nord di Sefron, quei ghiacciai in cui una persona è in grado di perdersi per non tornare mai più, e ne fu spaventato.

Lo sapeva che il nuovo ospite non avrebbe mai portato nulla di buono.

Aveva paura di quel viso così magro, di quei capelli neri come la notte più scura, e di quegli occhi, così gelidi, così freddi, quasi non ci fosse in essi alcuna emozione.

-Chi sei?- gli chiese Celtern, cercando di nascondere ogni emozione che provava dentro, e mantenendosi ad una rispettosa distanza dal letto.

-Tai-berl- gli rispose secco il ragazzino, con una voce roca e sommessa, e un tono freddo quasi quanto il suo sguardo di disprezzo.

Celtern pensò al nome. Taiberl. Specchio della fenice. Un nome proveniente dalla lingua degli antichi.

-E tu chi sei?- chiese Taiberl, con un tono che Celtern cominciava a trovare parecchio irritante.

-Sono il padrone di questo palazzo.- rispose stizzito l’altro, che aveva cominciato a camminare nervosamente attorno al letto quasi fosse un lupo che circondasse la preda.

In realtà era lui che si sentiva una preda, con quegli occhi azzurri che non lo lasciavano andare un istante.

Dal corridoio provenivano dei rumori, e Celtern sparì all’istante dalla stanza, rimaterializzandosi nella sua camera.

Aveva il fiato corto, si sentiva le gambe molli, e fuori la luna stava andando verso l’orizzonte, mentre la luce del mattino si avvertiva debole ad Est.

Aveva in mente Taiberl, quegli occhi così crudeli, e quella voce sprezzante.

Non si rendeva conto che la sua vita sarebbe completamente cambiata.

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Capitolo 2
*** II ***


Poche ore dopo sentì la voce tuonante di suo padre alla porta, che lo svegliava, perché altrimenti avrebbe fatto tardi con il maestro di metamorfosi.

Celtern aveva dormito poco e male, dalla sua fuga notturna e dall’incontro con il ragazzino di nome Taiberl.

Aveva fatto un incubo, ma non ricordava bene di cosa si trattasse. Magari se fosse riuscito a ricordarne qualche frammento Conel avrebbe potuto aiutarlo ad interpretarne il significato, e magari non era niente, o magari era una predizione.

Poco importava, dal momento che Taiberl se ne stava in piedi sulla soglia della stanza, e lo fissava.

Era parecchio alto, avrà avuto 7 o 8 anni al massimo, ma ne dimostrava molti di più.

Celtern aveva capito di odiarlo sino dal momento in cui l’aveva visto moribondo sul letto dell’ospedale, ma in quel momento sentiva proprio di non sopportare la sua presenza.

-Che cosa vuoi?- chiese Celtern, infilandosi i calzari.

- Sapere il tuo nome. Non mi hai detto il tuo nome.- rispose Taiberl.

-Celtern.-

- Tu sei “Tempesta nel cuore della notte”.-

Celtern abbassò lo sguardo. Erano in pochi a conoscere il vero significato del suo nome, di cui lui si vergognava profondamente.

A Deman, villaggio gemello di Sefron, Celtern significava “idiota”, ma nella lingua antica, il suo significato era proprio quello enunciato da quel beffando bambinetto insolente.

- Tanto piacere di averti conosciuto , Celtern.- disse Taiberl, prima di andarsene.

Celtern fu di cattivo umore, sin dal primo mattino.

 

-Cosa ci facevi nel lago dell’Est quando la luna era alta nel cielo? Non so cosa ti sarebbe accaduto se Conel non ti avesse trovato.- borbottò Gada a taiberl, al grande tavolo della colazione.

- Io non ricordo, signore.- rispose Taiberl, che a quanto sembrava aveva messo da parte il tono di sfida che usava con Celtern, che intando trangugiava mestamente la colazione, guardando di sbieco il nuovo arrivato.

- Non sei in grado di dirci da dove provieni, il tuo villaggio? Che forse riusciamo a trovare i tuoi genitori.- propose Conel, speranzosa.

Ma Taiberl scosse la testa, e continuò a mangiare.

Celtern continuava a pensare che quel bambino fosse fin troppo strano.

Suo padre sembrava pensarla alla stessa maniera, lo si capiva dal linguaggio del corpo, che suggeriva una certa agitazione, e dal fatto che lo stregone avesse messo da parte la sua consueta abitudine a parlare e l’avesse sostituita con un mdoo alquanto frettoloso di vuotare il piatto.

Gada fu il primo ad alzarsi da tavola, a fare un inchino appena accennato a Taiberl e a Conel, e ad uscire dal palazzo, facendo un piccolo gesto a Celtern.

Il ragazzino lo seguì, sbigottito.

E ancora più stupito rimase quando, sulla scalinata di marmo, suo padre si inginocchiò di fronte a lui.

-Mi raccomando, non deludermi. Come mio unico figlio hai il dovere di diventare forte, lo sai il ruolo che ti spetterà. E ora vai.- gli disse, spingendolo leggermente verso il maestro , che era in piedi in fondo alla scalinata.

Gada guardò Celtern andare via, e poi si girò. Vide Conel che teneva una mano sulla spalla di Taiberl.

-Nella tua infinita saggezza e benevolenza, ti chiedo di tenere questo ragazzo con te, Gada. Io non posso.- disse la donna.

Taiberl si girò a guardare Conel, e poi incrociò lo sguardo indecifrabile di Gada, il quale annuì appena.

- Bene, Taiberl. D’ora in poi ti considererò come mio figlio adottivo. Sarai il fratello di Celtern, farai tutto quello che farà lui. Ma non dimenticarti che non fai e non farai mai parte di questa famiglia.- disse lo stregone, secco.

 

Il villaggio di Sefron era la sede del potere delle Sette Stelle, che dedicavano alle divinità un piccolo tempio, situato all’estremità sud del villaggio.

La divinità che più di tutti era adorata e riverita era Azhan, la Dea di tutti gli Dei, che si raccontava fosse una donna molto capricciosa e volubile, e molto bella, e che fosse unita con il dio della guerra Sef, colui che aveva creato Sefron e aveva dato il potere alla prima Settima Stella Uzron, il nonno di Gada.

Azhan decideva il ciclo delle stagioni, e la bontà del raccolto, e la portata dei corsi d’acqua, decideva persino quanti bambini sarebbero nati entro le mura del villaggio.

Il culto di Azhan, però, era celebrato in tutto il suo splendore a Deman, villaggio gemello di Sefron, che si trovava esattamente dall’altra parte della Grande Foresta che si estendeva oltre le mura di Sefron.

Il potere a Deman era in mano all’ordine delle Gran Sacerdotesse di Azhan, una congregazione di ragazze che votavano interamente la loro vita alla Dea, e ogni loro gesto, e ogni loro respiro, era un tributo alla Dea.

Le bambine venivano scelte dalle Sacerdotesse dell’ordine in base a determinate caratteristiche fisiche e psicologiche, e ad 8 anni venivano strappate alla loro famiglia, ed entravano a fare parte dell’ordine.

Alla morte della Sacerdotessa Suprema, il capo dell’ordine, veniva scelta una bambina per sostituirla, solitamente un’orfana, perché si credeva che le orfane fossero figlie della Dea in persona.

Dana era a Capo dell’Ordine, era una bambina di 12 anni, intelligente e sveglia, ma molto triste.

Il ruolo di Sacerdotessa Suprema la costringeva a lunghe veglie di preghiera, e a lunghe ore da passare con le Allieve a meditare, quando lei era solo una bambina e voleva solo giocare come facevano le sue compagne.

Invece lei doveva rimanere a guardarle, e la sua unica compagnia era Sereth, una ragazza di qualche anno più grande di lei, che sapeva a memoria il nome di ogni filo d’erba di Deman intera.

- Manca un mese o poco più per la visita a Sefron.- disse un giorno Sereth, rammendando un vecchio scialle azzurro, nella speranza di riportarlo al vecchi splendore.

Dana aveva gli occhi chiusi, era inginocchiata in mezzo alla stanza, l’unica luce ad illuminarla era una candela, la cui luce ardeva come fuoco sui suoi capelli rossicci.

Gli occhi della bambina scintillarono nel buio.

-Lo so.- rispose- è una settimana che ogni persona del villaggio non fa che ripetermelo-

- Non è linguaggio che ti si addice, Dana.-

- Io non voglio vedere altri capi a cui obbedire.- concluse Dana, e chiuse nuovamente gli occhi, ricominciando a meditare.

In realtà stava solo pensando. Stava pensando a quanto le mancava la sua vita da bambina, da quanto tempo aveva passato senza giocare, senza pensare a qualcosa di felice.

Tanto lei i genitori non li aveva, e quando camminava per il villaggio nessuno aveva nemmeno il coraggio di guardarla, perché lei era la Sacerdotessa Suprema, l’incarnazione terrena della Dea Azhan.

L’unica persona che aveva al mondo era Sereth, ma era silenziosa e aspra nei discorsi, e non riusciva a darle le risposte di cui aveva bisogno.

Dana era ancora una bambina, fuori, ma dentro di sé, sentiva ribollirle la rabbia per la sorte che il destino le aveva assegnato, perché lei sarebbe stata costretta in quelle mura fino a quando non sarebbe morta.

A servire una padrona che non esisteva, ad alimentare il culto di una Dea che per quanto la riguardava non le aveva mai parlato, o dato un segno.

Ma era tutta questione di tempo: la ragazzina in qualche modo sentiva che quella visita a Sefron, la città d’Ebano, il grande tempio del Dio Della Guerra, l’avrebbe in qualche modo turbata.

 

Taiberl percorreva pensieroso il perimetro di Sefron: c’era qualcosa in città che non gli piaceva, c’era troppa curiosità nei suoi confronti, e tutti gli ponevano domande a cui nemmeno lui aveva risposta.

Era stato accolto, più o meno calorosamente, nella famiglia di Gada, lo stregone capo, attirandosi così le ostilità di Celtern, che giorno dopo giorno si impegnava a rendergli la vita sempre più difficile.

Ciò che provocava rancore in Celtern era che Taiberl aveva un insolita abilità nel maneggiare le armi di combattimento corpo a corpo, infatti era stato battuto più di una volta da colpi sferrati con una tecnica e una precisione fuori dal comune.

Il maestro d’armi si era congratulato con il ragazzo, e Celtern, indispettito e ferito nell’orgoglio era andato a piagnucolare dal padre.

Gada aveva puntualmente fatto sospendere le lezioni a Taiberl, ma non solo quelle per il combattimento corpo a corpo: tutte le lezioni.

Taiberl si consolava dicendosi che facevano tutto questo perché lo temevano, ma la realtà era che si sentiva costantemente circondato da odio e da sguardi furiosi.

Quasi fosse portatore di qualche malattia.

Sentì dei passi alle sue spalle, ma non si voltò.

Si girò all’ultimo momento, brandendo il piccolo gladio che gli era stato donato dal maestro d’armi.

Era la vecchia che l’aveva recuperato dal lago.

- Taiberl, come membro della famiglia reale, ti consiglio di cominciare a prepararti: oggi è un giorno molto speciale, arriva qui la Gran Sacerdotessa di Deman.- gli disse Conel, superba, conquistandosi uno sguardo indispettito da parte del ragazzo.

- Tanto io non faccio parte della famiglia reale.- rispose cupo, riponendo nella fodera il gladio.

- Dai seguimi- allora insistette Conel, posandogli una mano sulla spalla.

Taiberl a capo chino la seguì, sentendosi umiliato ed abbattuto : già da quel giorno aveva deciso che prima o poi sarebbe diventato più grande delle Sette Stelle messe assieme, e si sarebbe vendicato di tutta quella cattiveria nei suoi confronti.

Se altrove gli orfani erano benvoluti, lì a Sefron lui proprio non era il benvenuto, ma gli piaceva credere che i suoi genitori fossero da qualche parte che lo osservavano crescere, aspettando il giorno in cui finalmente gli avrebbero rivelato la sua vera identità.

Seduto all’esterno del palazzo su una panchina di marmo c’era Celtern, che si stava pavoneggiando con dei piccoli giochetti di metamorfosi , facendo ridere o spaventare le ragazzine che gli stavano attorno.

Taiberl gli lanciò un’occhiata glaciale, Celtern lo ignorò.

All’interno del palazzo, invece, c’era il consueto gelo, e Gada era in piedi, immobile di fronte ad un arazzo colorato, con lo sguardo concentrato.

Quando Taiberl gli passò accanto, nemmeno lo guardò.

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Capitolo 3
*** III ***


Il ragazzo si soffermò qualche secondo a guardare l’arazzo che aveva attirato l’attenzione di Gada: era di splendida ed antica fattura, e rappresentava la Dea Azhan addormentata in un giardino di rose, niente di particolare.

Eppure quell’arazzo aveva qualcosa di particolare, qualcosa di magnetico, che all’improvviso prese il sopravvento su Taiberl, lasciandolo incantato a guardare la Dea.

Taiberl si risvegliò dal torpore solo quando Celtern, passandogli accanto, gli diede uno spintone.

-Stai attendo a dove vai.- gli disse, con voce rauca.

-Chi sei tu per dirmelo?- chiese Celtern, altezzoso.

Gada , ancora assorto a contemplare l’arazzo, non mosse un dito, anche se suo figlio aveva la mano posata all’elsa della spada.

Quando Taiberl sfoderò il suo gladio, però, venne scagliato contro la parete, e a causa del contraccolpo si trovò a terra a faccia in giù, con i naso sanguinante che andava a macchiare il pavimento perfettamente lucido.

-Smettetela e andate a prepararvi- disse la Settima Stella, allontanandosi.

Celtern stava sghignazzando, divertito.

Taiberl si rialzò presto e si risistemò gli abiti.

-La pagherai, non so quando, non so come, ma la pagherai.- minacciò suo fratello, e poi si allontanò verso le sue stanze.

Celtern rise.

 

Era una mattina particolarmene gelida, quella in cui Dana si svegliò.

La stanza era più buia del solito, e fuori l’alba nn era ancora sorta. Era stata svegliata dalla voce di Sereth.

Se l’era quasi scordata: quel giorno avrebbe dovuto andare a Sefron, da sola, attraversando la foresta , come iniziazione, per ottenere la fiducia dell’ordine delle Sette Stelle.

Nella sua vita scandita dai rituali quel giorno era eccezionale: era la prima volta in assoluto che vedeva ciò che stava fuori dalle mura di Deman.

La veste rituale, un fine abito azzurro ricamato in oro, era adagiato in fondo al letto. Dana si vestì, e prese con i se i due pugnali corti che le avevano donato quando era ancora molto piccola.

Fuori dalla stanza Sereth la attendeva, con la consueta espressione impaziente.

-Partirete prima che il villaggio si svegli, non mangerete niente. Sarà la forza della dea a guidarvi…- disse la ragazza, sbrigativamente, accompagnadola attraverso le vie strette del piccolo borgo.

Dana scosse la testa, perplessa, senza farsi vedere.

Ai cancelli di Deman, Sereth fece un piccolo inchino, poi ordinò alle guardie di aprire i cancelli.

Dana uscì, senza guardarsi alle spalle. Aveva fame.

Altre ragazze avrebbero dato tutto per essere al suo posto, lei avrebbe dato tutto per essere una ragazza normale e per poter fare colazione quando le pareva.

Dana, guidata dal filo dei suoi pensieri, percorreva leggera il terreno ancora ghiacciato della foresta, addentrandosi nel fitto degli alberi.

Dai rami intrecciati sopra di lei penetravano timidamente i raggi di un sole che stava appena nascendo; attorno a lei sentiva i rumori dei piccoli animaletti del bosco che cominciavano a svegliarsi, ma non ne aveva paura.

Nella foresta ormai non era rimasto più nulla, si raccontava che una volta vi fosse il leggendario Maestro d’Armi Nemen e i suoi banditi della foresta, con i loro lupi, ma ormai erano solo leggende, poiché sembrava che Azhan avesse estirpato tutto il Male che aleggiava attorno ai due Villaggi Gemelli.

Il sentiero per Sefron era indicato da una sottile fila di sassi bianchi, che sembravano attirare gli stessi raggi del sole, e a Dana pareva di vivere dentro ad una leggenda.

Era da parecchie ore in cammino, il viaggio per Sefron era lungo, e la foresta impervia, ricca di rovi che la ragazza tagliava sicura con i suoi due pugnali.

Più di una volta scorse tra le fronde gli occhi luminosi di un gufo o di uno scoiattolo che la osservavano con curiosità, ma senza malizia.

La sacerdotessa stese a terra il suo mantello e si sedette per riposare: era stanca e il sole era ormai alto nel cielo.

Nel giro di un’ora forse sarebbe giunta a Sefron, aveva proseguito molto speditamente, e un po’ di riposo lo meritava.

Chiuse gli occhi.

 

Era tutto diverso. Tutto completamente diverso. Stava sognando, ma era tutto reale e allo stesso tempo sfumato, come plasmato nella nebbia.

Il marmo bianco sotto ai suoi piedi era freddo e cosparso di petali di fiori.

L’aria era tiepida, profumata, misteriosa: non era l’aria umida e puzzolente della foresta.

Non aveva dubbi, stava sognando.

Non poteva muovere le sue braccia e le sue gambe di sogno, ma poteva vedere chiaramente una figura venire verso di lei.

E in quell’incedere grazioso, in quello sguardo fiammeggiante, la riconobbe, era lei, era Azhan, era la divinità di tutte le divinità, la Dea dei Raccolti, il sole dei due villaggi gemelli.

Era a lei che aveva deciso di sacrificare la propria vita.

All’improvviso il cuore della giovane Dana si riempì di timore, e l’unico movimento sensato che riuscì a compiere fu quello di inchinarsi.

Azhan, alta ed imponente, ma esile e piena di bellezza, la guardò e le disse:

-Corri a Sefron, ma non percorrere la via principale. Segui la foresta, fino a che davanti non ti troverai un grande specchio d’acqua ghiacciata. Da lì in poi fai quello che ritieni più giusto.-

Tutto attorno a Dana sembro sciogliersi, stemperarsi nel verde scuro e nel marrone della foresta.

La ragazza si trovò sveglia e sull’attenti, con il cuore che le batteva forte: aveva visto la Dea, aveva udito la sua voce.

Azhan con le sue parole le aveva messo addosso una premura che le permetteva di correre come non aveva mai fatto prima, come se potesse volare.

Le mebra di Dana, seppur deboli e stanche, sembravano non potersi mai fermare. Non era lei che stava correndo: era la Dea che stava guidando i suoi passi.

La sacerdotessa, per la prima volta da quando era entrata a fare parte dall’Ordine, sentì davvero che la sua esistenza aveva un senso, che il suo destino era scritto, e che avrebbe obbedito ad Azhan fino alla morte.

 

La Dea si abbandonò sul suo trono, portandosi distrattamente una mano tra i capelli, fiera di quello che era riuscita a fare.

Finalmente era riuscita ad entrare nella mente di Dana. Ci aveva provato diverse volte, ma la ragazzina sembrava non volerglielo permettere.

In quel momento c’era un’emergenza molto grave in corso, e Azhan si sentiva terribilmente vulnerabile.

L’unica che poteva aiutarla era proprio Dana, che a sua insaputa aveva nel sangue più nobiltà di tutto l’ordine delle Sette Stelle intero.

Uno strumento ottimo.

Gli occhi impenetrabili di Azhan osservavano tutto il suo regno. Poco lontana di lì vi era una bizzarra costruzione in cristallo, al suo interno un uomo.

 

Dana si trovò davanti la superficie ghiacciata di un piccolo specchio d’acqua.

Le uniche ombre in mezzo alla neve bianca erano i tronchi degli alberi , e una spaccatura nel ghiaccio, che attirò subito la sua attenzione.

La ragazzina, leggera, corse a piccoli passi sul ghiaccio, le orecchie attente ad udire che il ghiaccio non scricchiolasse troppo.

La Dea la stava guidando proprio verso il buco nel ghiaccio.

Dana tuffò un braccio nell’acqua gelida, sentì che c’era qualcuno lì sotto.

Con una forza che non credeva di avere sollevò dall’acqua il corpo di un ragazzo, e lo trasse a sé.

La sacerdotessa per lo sforzo ricadde all’indietro,ma si riprese subito.

Esaminò il ragazzo che aveva salvato dall’acqua, e ne verificò le condizioni vitali: il corpo era ancora caldo, respirava, ma aveva perso i sensi.

Doveva essere caduto nell’acqua da qualche minuto.

Portava delle raffinate vesti regali, sicuramente apparteneva alla nobiltà di Sefron.

Eppure i tratti del suo viso erano strani, e sicuramente quel ragazzo non era originario di Sefron: il suo corpo era troppo esile, e la sua carnagione troppo chiara.

Dana si alzò, e prese in braccioil ragazzo, che era leggero come una piuma.

Doveva portarlo al villaggio il prima possibile.

Aggirando la crepa nel ghiaccio per timore che il terreno cedesse sotto di lei, giunse alla terraferma.

 

Taiberl non si era ancora fatto vedere, notò Celtern.

Il ragazzo era accanto a suo padre, il quale stava parlando con Conel.

C’era grande agitazione per l’arrivo della sacerdotessa Suprema.

Gada all’improvviso si girò verso di lui.

-Vai a cercare tuo fratello, chissà dove si sarà cacciato. La ragazzina di Deman arriverà a breve.- gli disse.

Celtern sbuffò poi uscì dal palazzo, facendosi largo tra la folla nelle vie di Sefron.

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