The Secret's House

di Lapam8842
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***



Capitolo 1
*** 1. ***


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Quattro gennaio 2012


Caro diario,
oggi è un giorno come un altro, di un qualunque anno. Nulla cambierà. E’ pieno inverno e la stagione fredda porta con sé la nebbia, la pioggia, il cielo plumbeo e l’umidità. L’umidità che mi fa increspare i capelli e che mi fa assomigliare al Re Leone della Disney. I miei lunghi capelli corvini, diventano indomabili in questo periodo. Un’altra cosa che odio dell’arrivo del freddo è che il buio cala velocemente, la natura resta ferma… assopita quasi, in attesa di un cambiamento. Il calendario da tavolo è stato sostituito qualche giorno fa. Chissà perché si ripongono così tante speranze, in un semplice cambio d’anno. Io non inizierò nessuna dieta, né comincerò ad andare in palestra e non studierò più del dovuto. Lascerò che tutto sia come prima. L’unica cosa che potrò cambiare saranno i pannolini di mia figlia, Stefania. La mia bambina è nata il 30 marzo 2010, e la notizia che fa scalpore è che non ho la più pallida idea di chi sia il padre. Non ho mai avuto un ragazzo, ma sono diventata donna. Sono una giovane mamma di diciott’anni, irresponsabile e poco presente. Ho fatto tanti sbagli nella mia vita, per quanto sia solo un’adolescente alle prese con gli esami di maturità. Frequento la quinta B del più facoltoso liceo linguistico della zona. Dovrei conoscere tre lingue: inglese, francese e tedesco. Purtroppo l’unica parola che ho appreso studiando tedesco è Fick Dich, e non l’ho imparata stando seduta cinque ore a fissare la lunga lavagna nera, posta in classe, né a fingere di ascoltare le parole del docente. Non sono un’ottima studentessa, ma non disturbo le lezioni scolastiche e grazie alla generose donazioni dei miei genitori, ho promozioni assicurate con voti ottimali, nonostante io non mi impegni affatto. Mi domando se, mamma e papà, con i loro soldi possano comprare la felicità.
Forse se qualche anno fa non avessi fatto quella scoperta, non sarei diventata così. Forse sarei come tutte le altre ragazze della mia età e del mio ceto sociale, avrei un comportamento eccellente, e penserei a non rovinare la reputazione della famiglia. Probabilmente penserei al ballo delle debuttanti, al vestito e ai fronzoli da indossare, al futuro marito, alla casa in cui andrò a vivere, ai bambini che partorirò e che verranno cresciuti da baby-sitters, quando io sarò in giro ad occuparmi dello shopping, del parrucchiere o dell’estetista, senza alzare neanche un mignolo per non rovinare la manicure. Avrei una vita frivola, piatta e superficiale, ma questo è il mondo a cui sono abituata, perché sono figlia di un importante uomo d’affari. Federico, mio padre, è un famoso architetto. Ha iniziato in uno studio striminzito, lontano dalle comodità cittadine, ma la fortuna vuole che abbia incontrato i coniugi Stuart. La famiglia Stuart era arrivata in Italia per passare la luna di miele, ma volendo investire, sono rimasti costruendosi un’abitazione. Le idee di papà sono piaciute e adesso loro abitano in un’immensa villa, appena fuori dalla città, immersa nel verde, con parco da tennis e piscina privata. Conoscerli è stata una grandissima fortuna. Ora abbiamo una bella casa signorile, a due piani, con un piccolo giardino zen, sul davanti, e sul retro un piccolo frutteto. Pensare che prima abitavamo in uno dei tanti appartamenti angusti e spogli nella zona centrale del paese.
Teresa e James, i coniugi Stuart, hanno due gemelli eterozigoti della mia età, che si chiamano Lucia e Steve. Lucia è una ragazza dalla carnagione lattea, con piccole efelidi che le ricoprono il viso, lungo e magro. Ha i capelli scarlatti di un castano ramato, che la fanno sembrare sofisticata ed eterea. Ha gli occhi verde prato, di una nuance delicata e uno sguardo vispo ed attento. E’ la mia migliore amica da sempre. Confidarmi con lei è una cosa spontanea e naturale. Lei sa capirmi come nessun’altro. Steve assomiglia di più a Teresa, la madre. Ha i capelli corvini, lucidi che gli arrivavano fino alle guancie. Spesso ricadono disordinati, ma non tanto da farlo sembrare un vagabondo, sono quel genere di capelli che fanno diventare bello qualsiasi ragazzo, dai profondi occhi di ghiaccio.
Sono tornata da poco dal collegio in cui sono stata richiusa, con mia figlia Stefania. Nessuno è ancora a conoscenza del mio ritorno.








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Capitolo 2
*** 2. ***


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Capitolo 2.

Tredici giugno 2009

Caro diario,

Ieri compievo sedici anni ed è stato tutto un disastro. Mio padre, Federico, ci avrebbe dovuto portare a cena fuori per festeggiare il lieto evento. La scuola è finita la settimana scorsa, e tra qualche giorno mi manderanno in collegio dalle suore, per l’estate. Imparerò l’arte del ricamo, del dipingere su tela e sarò obbligata a suonare uno strumento musicale. Le Sorelle mi faranno rispettare le buone maniere e a tenere un certo tipo di comportamento: quello che si addice alle giovani ragazze del mio ceto sociale, e che si sposeranno presto. Ieri avevo deciso di fare una sorpresa a mio papà: andarlo a trovare in ufficio. Soprattutto perché il suo studio si trova vicino ad una gelateria, che serve coppe di gelato enormi ed elaborate.

Ci saranno stati 40° e l’afa era soffocante e fastidiosa. Stavo camminando lentamente e ad ogni passo, le gambe si incollavano fra loro. Avevo deciso di indossare un vestito di cotone bianco con scollo a barca e spalline di pizzo bianco, che mi coprivano le spalle e si intrecciavano lungo la schiena. Il decolté era fasciato dallo stesso pizzo delle spalline. L’abito ricadeva morbido lungo i fianchi ed arrivava fino alle ginocchia, con una greca finale di macramè. Calzavo un paio di ballerine rosse dello stesso colore della borsa, fatta ad uncinetto, e degli orecchini pendenti. Aveva deciso di raccogliere i capelli in un chignon semplice, fissandoli vicino all’orecchia destra, con un fermaglio a forma di rosa. Sembravo una bambolina di porcellana, da quanto fossi adorabile.

Lo studio di mio padre si trova all’interno di un complesso semi residenziale. Al piano terra ci sono vetrine d’abbigliamento, biancheria per la casa e un negozio di prodotti biologici. Ai piani superiori si trovano uffici privati ed appartamenti residenziali. Avevo deciso di fermarmi nella gelateria, per godere di un po’ di refrigerio dovuto all’aria condizionata, e per mangiarmi una coppa di gelato. Stracciatella, nocciola, crema e zuppa inglese, con l’aggiunta di panna montata, scaglie di cioccolato, granelle alla nocciola e bastoncini di cioccolato. Avrò esagerato un po’, ma avevo camminato molto, sotto un sole cocente e senza un filo di aria, che mi potesse far sentire meglio, e poi era il mio compleanno!!

Quando finii, mi alzai e salutai il proprietario. L’ufficio di mio padre si trovava sopra il parrucchiere, e vi si accedeva salendo la scala elicoidale, posta all’interno dell’edificio. Di fianco al suo immobile, c’era lo studio associato Sandrelli-Stuart. I Sandrelli sono dei dottori commercialisti, che si occupano della gestione contabile delle famiglie In della zona. Non sono riusciti ad avere figli. Io li chiamo “nonni”, perché mi hanno visto crescere, così come hanno visto crescere Lucia, Steve, Marco e Jessica. La signora Sandrelli, è anche il sindaco della città, nonché organizzatrice di eventi mondani. Ha un debole per Lucia, forse perché è la figlia che non ha mai potuto avere?

I genitori di Lucia sono avvocati. Non hanno mai perso una causa, e stranamente i loro casi, vengono risolti nel giro di pochi mesi.. considerando come funziona la giustizia Italiana.

Decisa a non suonare il campanello, entrai dalla porta in noce e salutai la segretaria di papà. Elena è una bellissima ragazza. Alta 1.80 cm, lunghe gambe magre ed un corpo affusolato. Ha i capelli biondi, lisci, lunghi fino a metà schiena. Porta un paio di occhiali grossi e neri, che le nascondono i meravigliosi occhi marroni con pagliette dorate. Avrà 25-26 anni. Purtroppo è diventata vedova, un mese dopo il matrimonio. Suo marito è morto in un incidente stradale. Stava rientrando dal lavoro, guidando la sua Honda Cbr 1000 nera. Una macchina sfrecciava a tutta velocità, nell’altro senso di marcia. Il conducente era ubriaco, ed ha sbandato, travolgendo il povero motociclista. La notizia venne pubblicata su tutte le testate giornalistiche. Elena, da quel giorno, si è incupita. I suoi meravigliosi occhi dorati, sono ormai velati da una patina di tristezza ed amarezza. Il suo sorriso non è più dolce e tenero, divenne finto e di plastica.. un arriso che non voleva far trasparire alcuna emozione. Quel giorno, la giovane sembrava piuttosto sorpresa di vedermi. Si, in effetti non ero mai stata nell’ufficio di mio padre. Mi disse che l’architetto Bellini era in riunione, un incontro molto importante, e che avrei dovuto aspettare in sala d’attesa, come se fossi un qualsiasi cliente. Ma io non ero un acquirente, ero sua figlia, e per giunta, era il mio compleanno! Dovevo assolutamente incontralo. Non appena Elena fu distratta dalla stampante inceppata, mi alzai dal divano di pelle nera, ed aprii la porta del suo ufficio. La scena che mi si presentò davanti mi paralizzò. Mio padre era avvinghiato ad una rossa, sul suo divano. Federico stava esplorando la bocca della signora, con la lingua, e con la mano le stava sfiorando l’abbondante seno. Le note di “Don’t cry” dei Guns n’ Roses rendevano l’atmosfera ancor più inquieta. Come avrei potuto non piangere stanotte, se sentivo il cuore andare in frantumi all’interno del petto? Il muscolo involontario, più importante del corpo umano, non produceva alcun tipo di rumore quando si spezzava in mille frammenti, sebbene il dolore fosse così grave ed acuto, sarebbe stato confortante sentire un suono che ti distrae dalla ferita interiore, che ti duole come se dell’acqua salata ci fosse finita sopra. L’unica cosa che vorresti fare è gridare, talmente forte, da attenuare il peso che ti schiaccia lo sterno, tanto da impedirti di respirare. Provai una sofferenza insopportabile. Non ero più in grado di muovermi né di pensare lucidamente. La mia mente era sterile da quanto fosse priva di idee. Ero paralizzata, con il labbro tremante e prepotenti lacrime solcavano le mie guance, e non sapevo che cosa avrei dovuto fare. Osservavo la scena mentre i due protagonisti principali, non si accorsero di una terza persona all’interno della stanza. Continuavano indifferenti a provocarsi piacere reciproco. Rimasi immobile per un tempo indefinito, mentre la voce di Axl Rose continuava a riecheggiare nello studio, incurante della mia pena. Riuscii a riprendermi ed uscii dall’ufficio sbattendo la porta. Non so se fossero stati i profondi gemiti di piacere a farmi muovere, o il fatto che la giovane stava palpeggiando in zone proibite mio papà, sta di fatto che mi misi a correre più velocemente possibile, con un’imprecisata meta. Sentii chiamare il mio nome, ma non mi fermai sebbene le lacrime, che uscivano a fiotti, mi impedivano di vedere davanti a me. Mi mancava l’aria all’interno dei polmoni, ma dovevo continuare a snodarmi fra le vie cittadine. Avevo bisogno di mietere maggior distanza fra lo studio e me. Non smisi di correre finché non mi sentii al sicuro, all’interno del parco giochi comunale. La milza mi doleva e sentivo la carne greve lungo le gambe, ma era un dolore sopportabile, non paragonabile a quello che provavo dentro di me. Appoggiai la schiena e successivamente mi sedetti vicino ad un gelso centenario in modo da ripararmi dal sole e dall’afa. Non importava quanto cercassi ristoro nelle piccole cose: guardare un merlo che andava alla ricerca di vermi, per imboccare i suoi piccoli; osservare le api che si nutrivano della linfa degli oleandri dai colori pastello; squadrare un bimbo che spingeva l’altro sull’altalena, con l’unico scopo di farlo ridere e divertire, toccando il cielo, sempre più in alto, sempre più vicino alle piccole nuvole bianche ed ovattate. Non avrei trovato consolazione né distrazione ai miei tormenti: mio padre aveva baciato un’altra donna, e molto probabilmente sarebbe stato intenzionato ad approfondire il contatto, se non l’avessi interrotto inavvertitamente.

E se fosse stato solo un incubo? Un sogno giocato dalla mente, come per burlarsi di me, nel giorno del mio sedicesimo compleanno. Perché la psiche umana è contorta e quando cala la notte, ci ritroviamo a riflettere, nel silenzio della stanza, accoccolati a letto nel buoi più profondo, pensando a tutte quelle cose che abbiamo così difficilmente tentato di dimenticare e di non rivivere, o immaginiamo scenari diversi, in cui noi siamo i supereroi indistinti, risolvendo ogni situazione, ogni problema. Percepiamo il tepore delle coperte, o ricerchiamo il refrigerio delle lenzuola e del cuscino, girandolo più volte, per sentir maggior frescura, mentre Morfeo ci abbraccia, e ci fa sognare facendoci compiere viaggi mentali spettacolari e contorti. Possiamo vedere mondi che da svegli non avremo mai potuto immaginare. Possiamo essere in qualsiasi luogo con chiunque. Non avremo paura di incontrare serpenti a sonagli o insetti neri e pelosi, ma non rimarremo mai abbastanza colpiti dalla bellezza dell’aurora boreale o della cascate del Niagara. Probabilmente avevo fatto indigestione ed ero andata a letto senza digerire. Spesso è lo stomaco il responsabile dei sogni cattivi. Rincuorata da tale pensiero mi pizzicai il braccio, per verificare se fossi in una realtà parallela ed avrei ritrovato presto il sorriso, una volta ridestata. Purtroppo non ero intrappolata in un’altra dimensione. Avevo assistito al tradimento di mio padre. Mi abbraccia e piansi debolmente.
 

***


Mi ero addormentata stravolta e sfinita dalla corsa e dalle lacrime. Mi ero appisolata vicino al grosso albero, sopra il muschio umido e profumato. Mi ero svegliata infreddolita e stanca. Una musica assordante proveniva poco più lontano, peggiorando il mio nascente mal di testa. Avevo lo stomaco sottosopra e prima che riuscissi a spostare la testa, mi vomitai addosso, rovinando l’abito nuovo.

All’improvviso notai qualcosa muoversi fra gli arbusti e sentii un fruscio, seguito da un suono di passi. Il cuore mi sobbalzò all’interno del petto e cercai di trattenere il fiato, per ridurre al minimo ogni rumore. Ero attanagliata dalla paura e non pensavo lucidamente. L’unica cosa che ponderavo era di essere stata incosciente, addormentandomi in un parchetto pubblico, senza avvisare nessuno.

La luce di una pila mi arrivò dritta in faccia, abbagliandomi gli occhi. Ero stata scoperta e non avevo più speranze.

“Sabrina, che ci fai qui? Che ti è successo? Sei orribile!”

Era la voce di Bergamaschi Marco, un mio compagno di classe. Un bel ragazzo dal fisico asciutto e muscoloso, dalla carnagione pallida. Capelli biondi e penetranti occhi smeraldini.
Ero felice  di vederlo, sebbene non fossimo amici e a malapena ci rivolgevamo la parola, ma se non altro non era un malintenzionato pronto ad abusare di me.

“Marco, ti dispiacerebbe smetterla di puntarmi la luce addosso? Mi fanno male gli occhi!” lo rimproverai, alzando di poco la voce, cercando di contrastare il baccano che proveniva dietro di lui.

“Scusami. Non pensavo di trovarti qui. Cioè, veramente non credevo di trovare nessuno. Sono completamente ubriaco.” Biascicò sedendosi vicino a me, poggiando la schiena contro il gelso centenario.

L’assurdità era che avrei dovuto essere al ristorante con i miei genitori, per festeggiare il mio sedicesimo compleanno, ed invece mi trovavo in piena notte, in un parco pubblico, con un ragazzo ubriaco, che non godeva della mia simpatica.  
Marco interruppe le mie elucubrazioni mentali, domandandomi in tono dolce, sebbene fosse troppo acuto, se stessi bene. Decisi di rispondere con sincerità, molto probabilmente perché il giorno successivo non si sarebbe ricordato nulla.

“Veramente no, ma non importa. Tu sei ubriaco. Forse è meglio trovare un modo per portarti a casa.”

Il biondo alzò le spalle, con fare noncurante replicando: “Non preoccuparti di me. Tu sembri davvero triste ed io so come poterti aiutare.” Tirò fuori dal borsello di pelle nera, una bottiglia di vodka Keglevic, dal colore verde, e m’incitò a berla. Io scossi la testa e per essere il più chiara possibile dissi di non volerla provare.

Marco mi regalò un mezzo sorriso e mi prese in giro, sussurrando: “Le brave ragazze esistono ancora.” Cercò di farsi più vicino a me, ma io mi allontanai per aumentare la distanza fra noi. Mi metteva a disagio questa situazione. Non potevo fingere di essere la sua nuova migliore amica e mi infastidiva che fossimo da soli.

“Ali, non ti faccio nulla. Stai tranquilla. –mi guardò dritta negli occhi, tentando di giustificarsi o di fare conversazione- Se non vuoi bere non ti obbligherò. Mi piacerebbe solo parlare con te. Domani mattina non mi ricorderò più nulla. Non devi temere. Non dirò a nessuno di averti vista qui. Anzi, a proposito.. posso chiederti che ci fai qui tutta sola? Non hai paura di stare in un posto del genere, al buio, senza nessuno?”

La sua ultima frase mi fece venire i brividi lungo la schiena. Deglutii a fatica, tentando di ritrovare il controllo di me stessa e di calmarmi. Decisi di dire una mezza verità senza entrare troppo nel personale. Non dovevo far trasparire le mie emozioni. Non dovevo mostrarmi debole. Forse Marco avrebbe approfittato di me, per via dell’alcool in circolo nel suo sistema nervoso, che gli aveva inebriato le meningi. 

“Mi sono ritrovata qui oggi pomeriggio. Mi devo essere addormentata. Ero molto stanca.” Annuii mostrandomi il più convincente possibile, senza alcuna esitazione.

Fu allora che Marco mi stupì, asserendo con tono di chi la sapeva lunga: “Oppure sconvolta.. che ti è successo?”

Mi si gelò il sangue all’interno delle vene e il mio cuore perse un battito. Come poteva sapere quel che mi era capitato? E se mi avesse tenuto d’occhio per tutto il pomeriggio, e sapesse esattamente quello che era successo, senza che me ne fossi accorta?

“Non mi è successo niente.” Negai violentemente con il capo, per dare più valore alle mie parole.

“Se vuoi parlarne, sono qui.. – si tolse la giacca e me la mise sulle spalle- Sembra che tu abbia freddo.. e sinceramente, sei veramente conciata male”.

Sbuffai risentita dalle sue parole. Probabilmente avevo la matita nera sbavata sotto gli occhi, i capelli arruffati e sicuramente puzzavo, ma non mi importava. Stavo male. Era come se qualcuno avesse giocato con il mio cuore, strattonandolo, pestandolo, strappandolo solo per capriccio. Mi sembrava di non possedere più un muscolo cardiaco integro, all’interno del petto. Credevo che qualcuno me l’avesse rubato e non me l’avesse più restituito. Stavo male. La mia bussola, posta per indicare la via da prendere, continuava a girare impazzita, senza fermarsi mai. L’ancora di una nave, attanagliata al fondale marino, si era spezzata e il galeone vagava senza meta. Io ero quella chiatta. Non avevo il mio arpione. Avevo perso ogni sicurezza. La terra si era messa a tremare, divorandomi con essa. Le labbra di mio padre si posarono su quelle di una donna diversa da mia madre. Le mani di Federico si insinuarono su un altro corpo. Il profumo di mio papà si mischiò con quello di una nuova giovane. L’uomo che mi aveva messo al mondo si fuse con un’altra signora, diventando un unico corpo. Il solo ricordo mi fece tremare e senza rendermene conto lacrime dal gusto amaro, stavano attraversando il mio volto bagnandolo. I singhiozzi, che da prima cercavo di trattenere, si fecero sempre più forti, echeggiando nella profonda notte stellata, accostandosi ai suoni della festa che si percepiva il lontananza. Singulti isterici come tuoni di un temporale estivo, scoppiato all’improvviso, bagnando distese di prati verdi, vette di montagne ancora imbiancate, granelli di sabbia fine, con gocce che cadono prepotenti come aghi di metallo pungente.

“Mi dispiace molto per qualsiasi cosa ti sia successa. Queste lacrime –mi accarezzò dolcemente il volto con la mano- stanno rovinando il tuo bel viso.”

Riuscì a strapparmi un sorriso e mi sentii rincuorata dalla sua voce suadente. Solo per un attimo, mi sentii meno sola e meno vuota.  

“Sicura che non vuoi bere un goccino?” Marco mi offrì la bottiglia di liquore, incoraggiandomi con i suoi piccoli occhi verdi.

“Non mi aiuterà a dimenticare.” Risposi mesta e più decisa di quanto sembrassi.

Il biondo scrollò le spalle, con indifferenza: “No, ma ti sembrerà di stare meglio. Solo per un po’.”

Ero astemia. Non avevo mai bevuto alcolici e non sapevo che sapore potessero avere. Non conoscevo gli effetti dell’alcol sul sistema nervoso, quindi chiesi dubbiosa ed esitante se fosse stato possibile star meglio.

Marco rispose aggrottando le sopraciglia: “Si. Ti farà ridere per ogni cosa. Ti sentirai leggera e i problemi saranno dissolti nella tua mente. Non penserai più alla tua matrigna a letto con il giardiniere. Dimenticherai le urla isteriche dei tuoi genitori, che riecheggiano in tutta la casa.” 

Confortata dalla sua storia, mi stupii confidandomi con lui: “Oggi è il mio compleanno. Mio papà ha organizzato una cena al mio ristorante preferito per festeggiare. Ero estasiata dal suo gesto. Ho deciso di farli una sorpresa andandolo a trovare nel suo studio, ma purtroppo lui era avvinghiato ad una rossa. Ha rovinato tutto tradendo mia madre. Il loro amore era la cosa che più contava per me. Credevo che fosse eterno. Infinito. Evidentemente mi sbagliavo. Niente è per sempre.” sbottai inacidita, torturandomi i capelli. Trattenevo a stento le lacrime e mi mordevo le labbra per evitare di piangere, cercando di deglutire il più possibile e di concentrarmi sulla respirazione.

Marco sospirò rumorosamente: “L’adolescenza fa schifo.” Bisbigliò in tono vacuo.

Annuii decisa alla sua affermazione. Mi sarebbe piaciuto tornare bambina, spensierata ed ingenua. Avrei voluto liberarmi da questo problema, che mi era crollato addosso, pugnalandomi con decisione alle spalle.
E con questi pensieri nella testa, mi feci coraggio e chiesi di poter dimenticare. Chiesi di poter star bene, anche solo per cinque minuti. Domandai la felicità a piccole gocce.    

Marco mi allungò la bottiglia, non prima di darmi un avvertimento: “Vacci piano. Non voglio che ti rovini anche l’altra parte del vestito.”

Scoppiai in una risata liberatoria. Leggera. Accattivante. Fragorosa. Tanto contagiosa che anche il giovane, seduto accanto a me, non riuscì a trattenersi.

 

***


Quando aprii gli occhi, non riuscii a ricordare cosa fosse successo la sera precedente. Mi guardai intorno, senza capire dove fossi. Le tempie mi pulsavano, segno di un nascente mal di testa. Rammentai di essere scappata dallo studio di papà e di essere finita in uno stupido parco giochi per bambini. Evidentemente stremata dalla corsa e affranta dal dispiacere, ero crollata. Mi ero addormentata su uno scivolo di acciaio, freddo e consunto dal tempo, senza una coperta o un lenzuolo, ma indossavo una giacca di pelle color zaffiro. Di chi poteva essere? Cosa era successo al parco? Presi dalla borsetta il mio cellulare, che purtroppo era scarico. Se i miei genitori mi avessero telefonato? Ero stata fuori tutta la notte e probabilmente erano preoccupati. E se avessero pensato che mi avessero rapito o avessero abusato di me, per poi farmi in piccoli pezzi? Il mio stomaco cominciava a brontolare e mi stava scoppiando la testa dal dolore. Cosa avevo combinato qui, tutta sola? Cosa avrei dovuto fare adesso? Mi guardai l’abito bianco, ingiallito ed incrostato da qualcosa dall’odore spiacevole. Non era il caso di tornare a casa in quelle condizione. Decisi di andare dalla mia migliore amica Lucia. Lei avrebbe fatto miracoli con il mio aspetto fisico, ma purtroppo non sarebbe riuscita a cucire la ferita, lacerante, all’interno del mio petto.








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Capitolo 3
*** 3. ***


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Camminavo pensierosa mentre il sole mi scaldava il viso e le parti scoperte del corpo. Il tepore regalato dai raggi solari, mi faceva star meglio. Mi dava conforto come se fosse un dolce abbraccio, che non lascia spazio per muoversi, che ti incatena dalle spalle in giù, un allacciamento che tolga il fiato e che ti faccia sentire a casa. Una di quelle strette in grado di annientare e dissolvere ogni tipo di paura. “Non si può piangere per sempre” e questa consapevolezza mi fece sentire più sicura di me. Quest’avvenimento mi avrebbe piegato ma non mi avrebbe spezzato. Sarei cambiata ma potevo circolare a testa alta, senza guardarmi le punte dei piedi, perché io non avevo fatto nulla di male. Mi ero trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, ed era colpa di quell’infame destino, non mia. Ero arrivata di fronte al cancello in ferro battuto, indecisa sul da farsi. Cosa avrebbe pensato la mia migliore amica nel vedermi davanti a casa sua, con un vestito rovinato, i capelli spettinati e probabilmente con delle grosse occhiaie che mi segnavano il volto? Lucia mi avrebbe sicuramente aiutato e spinta da tale considerazione suonai il citofono. Mentre aspettavo che qualcuno mi aprisse, pensai di andarmene. Probabilmente non c’era nessuno nella villa, e io sarei dovuta tornare a casa dai miei genitori per rassicurarli. Nel momento in cui decisi di allontanarmi, Lucia aprì la porta di legno chiaro e si sorprese nel vedermi davanti alla sua abitazione.

“Ali, che cosa ti è successo?” si avvicinò cauta alla ringhiera nera, mentre mi osservava minuziosamente da capo a piedi, con un’espressione stupita.

Il suo modo di squadrarmi mi fece innervosire. Lucia era ancora in pigiama, ma aveva un aspetto invidiabile, anche senza trucco. Io non avrei mai retto il confronto, anche nel pieno della forma fisica.

Sbottai improvvisamente colta da un’acidità che non mi apparteneva: “Che hai da guardare? Sono io, Lucia. Fammi entrare ed aiutami a liberarmi da questa robaccia.” tuonai indicando le foglie che si erano incollate ai capelli.

La rossiccia aprì il cancellino pedonale e mi trascinò in casa, cingendomi i fianchi con una mano per sostenermi.
La casa era troppo silenziosa. Dov’erano finiti tutti, compresi la cameriera ed il cuoco? Perché non c’era nessun rumore nell’aria?

“Sei a casa da sola?” chiesi guardandomi attorno, alla ricerca di altre forme di vita.

Lucia scrollò le spalle e sussurrò: “Credo di si. –si strofinò gli occhi prima di proseguire- Mi ha svegliato il campanello.” Concluse sbadigliando teatralmente.

“Mi dispiace averti svegliato. Ma che ore sono?? -cercai con lo sguardo il cucù posto all’ingresso che segnava le 08.30.- Non sapevo fosse così presto. Mi dispiace tanto.” tentai di giustificarmi con un tono di voce cauto e dolce.

“Non ti preoccupare. Il tuo aspetto parla da solo. Vieni –mi porse la mano e salimmo le scale che portavano alla zona notte. – Ti preparo un bagno caldo e ti presto qualche mio vestito, poi faremo colazione insieme e mi racconterai della tua notte brava. Puzzi d’alcool come se non fossi mai stata sobria in vita tua.” Ghignò prima di uscire dal suo bagno personale.

Ho sempre trovato meravigliosa questa stanza: marmo bianco con venature grigie ricopriva le pareti, i pavimenti ed i sanitari. Al centro della camera c’era una ricercatissima vasca da bagno di ghisa con i piedini. Più in fondo c’erano il wc e il bidet e da un lato una doccia in muratura, con piccole piastrelle quadrate bianche e oro, che richiamavano il bordo del legno in massello dei lavandini. Sembrava quasi di essere in un hotel a cinque stelle per il lusso che aleggiava nella stanza, per non parlare dell’ordine e dei pizzi e merletti che ornavano le tende delle finestre e le salviette di lino con frange in macramè bianco.

Guardai il mio riflesso allo specchio in stile barocco con lamelle color oro. Avevo enormi foglie verdi fra i capelli arruffati, il mascara colato lungo le guance, il trucco sciolto, il vestito ricadeva disordinato, sgualcito e sporco, le gambe segnate da fine terra secca e le ballerine sciupate. Ero orribile. Mi doleva il collo, la pancia mi brontolava e le occhiaie mi invecchiavano. Avevo bisogno di un bagno rilassante, restauratore e di profumo, per non pensare più a nulla.

 

***


Il tepore dell’acqua calda mi aveva rilassato. Mi sembrava di essere un’altra persona, più leggera e spensierata da quanto mi sentissi rigenerata. Tentai di ripensare alla sera precedente, ma era come se avessi un blackout totale e la testa annebbiata, da non riuscire a ricordare nulla. Che cosa poteva essere successo? Di chi era la giacca di pelle che avevo indossato? Chi avevo incontrato? E se avessi ucciso qualcuno perché ero offuscata dalla rabbia che provavo per Federico? Magari invece mi ero solo addormentata in un piccolo parco giochi senza aver fatto stupidaggini. Qualcosa dentro di me non mi dava questa sicurezza. Mi sentivo confusa ed irritata.

Lucia bussò alla porta prima di entrare e mi squadrò: “La Sabrina che conosco è tornata! – mi rivolse un sorriso a 32 denti, raggiante- Finalmente sei bellissima.”

“Grazie per avermi accolta. Non sapevo da chi altro andare.” guardai a  terra per non incrociare il suoi occhi smeraldini.

La rossiccia mi stritolò in un abbraccio, e mi lasciai andare incastrando perfettamente il mio corpo al suo. Mi sentivo al sicuro. Non mi aveva rivolto occhiate di disapprovazione né ero stata giudicata.
Lucia sciolse l’abbraccio e mi chiese dolcemente: “Posso truccarti?”

Io annuii. Lucia era una maniaca dell’organizzazione e amava acconciare, truccare, abbinare vestiti ed accessori. Era una fashion stylist provetta. Mentre lei mi truccava io mi persi nei miei pensieri. Guardavo il mio riflesso allo specchio cambiare, diventando una tavolozza estrosa piena di colore. Il trucco è la miglior maschera che possiamo indossare per ostacolare la visuale delle persone, di distinguere un sorriso vero da uno di plastica, impedendo di farci vedere con il viso travolto dalle lacrime o con un’espressione accigliata, formando delle rughe sulla fronte, perché annoiati o pieni di dubbi, proibendo di far studiare ogni nostra minima sfaccettatura. Perché non vogliamo che il nostro vero io traspaia, vogliamo far parte della massa indistinti, senza che nessuno ci noti, perché il giudizio degli altri è temibile e spietato. L’opinione della gente o ci fortifica, o ci annienta. Le mezze misure non esistono e a volte stonano.
 
“Ecco fatto. Ora possiamo scendere per la colazione.” Lucia sorrise al mio riflesso e io annuii, anche se poco convinta dal troppo eyeliner nero messo sulle palpebre superiori. La guardai con occhi gioiosi, mentre scendemmo la scala di legno chiaro.
 
Ci sedemmo in sala da pranzo. Il fratino in olmo massello dominava nella stanza, lungo tre metri per uno di larghezza. Le sedie erano intagliate a mano. Tutto in legno lucido. Era un’ambientazione molto suggestiva. Ricordava le vecchie case francesi, con i muri ricoperti da boiserie, anch’essa di legno massello lucido. La vetrinetta che mi piaceva di più, all’interno aveva delle statuine lucide di porcellana. Era un gruppo di ballerine: una con il vestito e tutù rosa antico, una verde smeraldo, una turchese e una color glicine. Erano le quattro ballerine amiche-rivali. Amiche, perché non potevano fare a meno di esercitarsi insieme, e al contempo rivali, perché dovevano essere le migliori, le più brave per poter ottenere il premio finale: gli applausi del pubblico.
 
“Cappuccino, brioches al cioccolato, spremuta d’arancia e biscotti alla crema. Prendi quello che preferisci. – mi indicò il pacchetto di piccoli dolci, spronandomi ad assaggiarli- immagino che tu non abbia cenato.”

“A dir la verità, non ricordo quello che è successo. Mi sono svegliata sopra lo scivolo del parco giochi.” Dissi massaggiandomi la testa, sforzandomi di ricordare.

Lucia mi accarezzò la mano, con fare rassicurante: “Non ti preoccupare, Sabri. Non c’è bisogno di parlarne, se tu non vuoi.”

Io scansai la mano e alzando la voce risposi: “Io voglio ricordare. Devo ricordare! Tu non hai idea di come io mi senta male, non sapendo… niente. Io non so nulla!” mi alzai di scatto dalla sedia, rovesciandola dietro di me.

“Sabrina, calmati. La tua reazione mi sembra spropositata.” Squittì, restando seduta la mia interlocutrice.

Io alzai ancor di più il tono di voce: “Spropositata? La mia reazione è spropositata? Io devo ricordare e nessuno può aiutarmi a farlo. Sono venuta qua credendo chissà quale cosa. Ho sbagliato. Sarei dovuta tornare a casa mia e parlare con i miei genitori.” trillai isterica.

Lucia si alzò e tenne un tono di voce piatto, ma non per questo non rassicurante: “Sabrina, stai calma. Hai solo avuto una brutta serata. Sei andata al parco ad ubriacarti per festeggiare il tuo compleanno, senza invitare gli amici.” Mi strizzò l’occhio mentre raccolse la sedia e m’invitò a sedermi.

“Grazie Lu, sei stata veramente carina ad accogliermi a casa tua, ma ora devo proprio andare dai miei genitori.”

Non le lasciai il tempo di replicare perché mi fiondai alla porta d’ingresso. Sarei dovuta tornare al parco giochi per cercare di ricordare o trovare qualche indizio che mi avrebbe aiutata a rammentare.
 

***



Ero uscita da casa di Lucia di corsa, ma avevo fatto in tempo a prendere la giacca di pelle blu, senza che la mia migliore amica mi vedesse né mi raggiungesse. Avrei dovuto scusarmi per il mio comportamento poco ortodosso, ma in quel momento ero solo nervosa ed agitata. Non era da me comportarmi come una pazza isterica e Lucia non si meritava un’amica del genere. Mi sarei fatta perdonare ma prima sarei dovuta tornare al parco giochi, nella speranza di capire qualcosa e poi sarei dovuta tornare a casa, ad affrontare i miei genitori. Avrei dovuto decidere se parlare con mamma o tacere, senza sfasciare il loro matrimonio. Sarei stata io il triste messaggero, rovinando indissolubilmente un rapporto che credevo forte e duraturo? Come avrei dovuto comportarmi? Speravo che le famiglie alla “Mulino Bianco” esistessero anche nella realtà e non solo all’interno delle favole, in cui il “vissero felici e contenti” è all’ordine del giorno. Speravo che il principe azzurro sul cavallo bianco, avrebbe trovato anche me, ma se non l’avesse fatto sarebbe andato bene comunque. Anzi, sarebbe stato meglio. Meglio perché io non avrei dovuto occuparmi di un imbranato che non è in grado di farsi una doccia, senza buttare acqua ovunque, o di attaccare semplicemente una lavatrice, senza tingere i capi chiari in fucsia, per aver mischiato i bianchi con i colorati. Mi sarebbe piaciuto condividere la vita con qualcun altro, ma aveva senso farlo se quest’ultimo non era sincero nei miei confronti? Un rapporto fatto di bugie e menzogne, non è un legame vero. L’unione fra due persone è fattibile quando si ha sincerità, onestà, fiducia e rispetto reciproco. L’affetto che ne scaturisce è profondo e ineguagliabile. E’ guardarsi negli occhi e capire quel che l’altro sta pensando, leggendolo dallo sguardo e dai movimenti. Un rapporto magico e speciale si deve creare a quattro mani, e non deve conoscere egoismo e menefreghismo. Deve essere puro e semplice. Le relazioni sono come i libri: vanno sfogliati pagina per pagina, entusiasmandoci a poco a poco alla trama avvincente, gioendo nei momenti spensierati, abbracciandoci negli attimi tristi e sostenendoci nelle difficoltà, senza dimenticare i piccoli dettagli insignificanti che ci arricchiscono con poco.
Abbandonai le riflessioni ed entrai nel parchetto per bambini, dove regnava una quiete invitante. Molto probabilmente, al mattino, nessuno portava i bimbi a giocare. Mi avvicinai allo scivolo grigio e mi ricordai quanto era stato scomodo dormirci sopra. Non sapendo che altro fare, decisi di camminare e di farmi venire un’idea. Magari avrei trovato delle prove guardandomi attorno, più attentamente, ma purtroppo il forte sole, mi infastidiva gli occhi. Mi diressi verso il folto boschetto. Mi sembrava invitante nascondere qualcosa fra le piante centenarie e il percorso avventura con ponti tibetani e teleferiche. Guardai in alto, in direzione delle funi che costituivano il ponte. Se fossi stata ubriaca, come credevo, non sarei mai riuscita a fare un percorso del genere. Spostai lo sguardo alle carrucole poste per scivolare sui cavi d’acciaio. Sarebbe stato più fattibile usare le teleferiche da ubriachi, ma i riflessi ritardati e la scarsa resistenza fisica, non mi avrebbero aiutato. Molto probabilmente ero rimasta a terra. Se fossi arrivata nel pomeriggio, come credo, avrei cercato un posto all’ombra. Le fitte foglie delle piante, riparavano dal sole e creavano frescura. Sorrisi, convinta di essere nel posto giusto. Non ne sapevo nulla di alberi ed arbusti, ma sicuramente avrei potuto cercare riparo in un posto isolato, dove nessuno avrebbe potuto disturbare. Passai in rassegna le varie piante e decisi che quella perfetta era quella più in fondo, vicino alla rete che delimitava il perimetro del parco. Sospirai rassegnata. Avevo trovato l’albero ma nient’altro. Cosa avrei dovuto fare? Passare un’altra notte qui, nella speranza di trovare il proprietario della giacca che avevo in mano?

“Ehi”

Un ragazzo biondo spuntò fuori dal nulla facendomi sussultare con il cuore in gola.

“Scusami. Non volevo spaventarti.”

Marco, il ragazzo più popolare della scuola era davanti a me, e l’unica cosa che riuscivo a pensare era: “Spero non si faccia una canna.” Mentre con la bocca dissi: “Non importa.”

“Vuoi comprare un gelso per il tuo giardino?” chiese con fare strafottente e con un ghigno malizioso.

Gli regalai uno sguardo dubbioso: “Che cos’è un gelso?”

Il biondo scoppiò in una risata fragorosa prima di rispondere: “Sto per sfatare il mito “Bello e stupido”.- indicò l’albero che ero rimasta a fissare- Quello è un gelso. Una tipica pianta asiatica, simbolo di sapienza, prudenza e pazienza. E’ un albero intelligente perché non presenta alcuna gemma finché il pericolo del gelo non cessa e quando fiorisce, lo fa con tale rapidità che i boccioli compaiono quasi contemporaneamente.”

Mi ritrovai a battere le mani per la sua spiegazione: “Bravo, vedo che hai fatto i compiti a casa. Google è una manna dal cielo.”

Il ragazzo si grattò la testa. Sembrava che stesse cercando le parole adatte. “E come avrei fatto a trovare fra tante specie proprio questa?” chiese infine, disegnandosi un sorriso vittorioso sul volto.

Mi stava sfidando ma io non ero intimorita dal suo modo di fare e non abbassai lo sguardo. “Hai avuto semplicemente culo.” Asserii convinta incrociando le braccia al petto.

“Accidenti! Non ti hanno insegnato ad usare la parola “fortuna”? –il suo ghigno mi dava ai nervi- Le brave ragazze non dicono queste brutte parole.” Usò un tono di finto rimprovero e si infilò gli occhiali da sole, prima di proseguire con il suo monologo: “Ti offro da bere, vieni.” Si avvicinò e tentò di prendermi per il braccio. Io protestai cercando di spingerlo lontano. “Non voglio venire con te.” proruppi infine, guardandolo sempre più arrabbiata.

Marco si rassegnò ma non si allontanò: “Ok. Nessun problema. Che ci fai qui?” domandò, cercando nella tasca dei jeans un pacchetto di sigarette.

“Stai scherzando, vero? Non puoi metterti a fumare qui!” lo rimproverai sempre più inacidita dalla sua presenza. Tutte le ragazze della scuola, compresa Lucia, mettevano Marco su di un piedistallo, come se fosse un Adone e riuscire a strappargli un appuntamento era una cosa impossibile. Io non ci vedevo nulla di bello in lui e anzi, non vedevo l’ora che se ne andasse per proseguire le mie indagini.

“Ok. –Il biondo ripose la sigaretta nel pacchetto e mi guardò negli occhi.- Sei veramente autoritaria, Sabrina. Mi piacciono le persone che mi sfidano.” Quello stupido del mio cuore perse un battito e sentii le guance imporporarsi violentemente. Odiavo non avere il controllo del mio corpo e detestavo il suo arriso bianco e perfetto.

“Potrei farti la stessa domanda.” lo guardai torvamente. Non era colpa sua se mi stava antipatico a pelle.

Marco si strinse nelle spalle e rispose con non curanza: “Quando voglio allontanarmi dai problemi, vengo qui. – si mise a sedere con la schiena contro ad un tronco, guardando davanti a sé, senza rivolgere lo sguardo a qualcosa in particolare- Nel boschetto c’è abbastanza calma. Mi aiuta a riflettere e a stare lontano dal mondo.”

Mi sembrava sincero e solo per questo guadagnò un minimo della mia simpatica e mi fece sorridere dolcemente. Avrei scelto anche io un posto come questo per restare sola a pensare. La pace prevaleva all’interno del bosco, donando un senso di calma e tranquillità innaturale. Il profumo del muschio se inalato con lenti respiri inebriava la mente, provocando un senso di equilibrio ed armonia inaspettata. La natura aveva l’effetto di una seduta di yoga, rendendo leggera e priva di preoccupazioni la psiche, sciogliendo i nervi più tesi.

“Ti capisco. Sentire il dolce suono del cinguettio degli uccelli, ti fa sentire al riparo dai rumori cittadini. Clacson isterici per un semaforo divenuto verde, frenate brusche in rotonda, per evitare uno scontro; il rumore del martello pneumatico segno di lavori in corso… La natura ha dei suoni meravigliosi che rilassano come una droga. Per non parlare del connubio di colori. All’alba regnano tinte più tenui, che mettono energia per iniziare la giornata. Il tramonto è una tavolozza variopinta di sfumature che allieta la fine del pomeriggio. La notte è caratterizzata da astri splendenti, posti per illuminare e rassicurare dal buio.”

Marco interruppe il mio sproloquio aggiungendo: “Vogliamo parlare dei profumi? La terra umida dovuta alla pioggia appena caduta sa di… umidità, ma non quella fastidiosa che ti entra nelle ossa. È un profumo invitante, quasi sensuale. Il profumo dell’erba appena tagliata è buonissimo. L’odore delle piante aromatiche? La natura ha un potere eccezionale: quello di renderci vivi.”

Mi misi a sedere vicino a lui, ormai conquistata dalle sue parole: “Marco, hai sfatato perfettamente il mito de “Bello e stupido.”

“Felice di esserci riuscito. E’ difficile trovare persone come te. – Mi guardò intensamente negli occhi.- Ragazze che mi tengano testa e che mi stupiscano. Sono abituato ad essere circondato da giovani che fanno di tutto per attirare la mia attenzione venerandomi. Sono solo interessate alla mia bellezza e alla mia fama, i miei sentimenti non contano. E va bene così. Ho sedici anni, non mi interessa avere una ragazza. Voglio divertirmi. Sono giovane. –si fermò, spostando lo sguardo avanti a sé, interrompendo il contatto visivo.- Non ho mai incontrato persone come te. Mi piacerebbe conoscerti meglio.”

Il mio cuore si agitava impaziente all’interno del petto, rendendomi nervosa. Non avevo mai provato questo genere di fremito e non mi piaceva sentirmi così… così stupida. Non riuscivo ad avere un controllo sul mio corpo né sulle mie emozioni. La cosa che mi infastidiva era avere la gola completamente arsa, non per la sete, ma per l’imbarazzo. Non mi sentivo intelligente senza riuscire a ribattere e le parole non mi sono mai mancate.

“Ti va un aperitivo?” mi chiese, guardandomi dolcemente con quegli occhi verdi, come la natura che ci circondava.  
 Annuii impercettibilmente e mi morsi le labbra per averlo fatto. Perché avevo accettato l’invito di quell’idiota??








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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


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Avevamo camminato fino al centro storico del nostro paese, al bar famoso per i suoi happy hour. Mi ero morsa per tutto il tempo l’interno delle guance, gustando il sapore ferroso del sangue. Non perché amassi farmi del male, ma perché ero arrabbiata con me stessa. Ero scappata da casa di Lucia per indagare ed invece mi ero fatta trascinare dal Dio Greco, per bere un aperitivo. Mi sembrava di essere l’Ugly Betty della situazione, perché mi sentivo una sfigata. Non avevo mai ricevuto così tante occhiatacce in vita mia e non ero mai stata interrotta così tante volte, da qualche ragazza che voleva scambiare quattro chiacchiere con Marco. Molto probabilmente uscire con una Superstar era molto simile a questo.
Ci sedemmo sulle sedie di plastica bianca ed aspettammo il cameriere per le ordinazioni.
Una ragazza dai lunghi capelli castani e dalle gambe chilometriche si avvicinò chiedendoci cosa volevamo.

“Due spritz, grazie.” Proferì Marco, senza lasciar scegliere a me.

Io incrocia le braccia al petto, sorrisi malignamente al biondo e dissi: “No, io prendo un analcolico alla fragola, per favore.”
Marco prese per un braccio la cameriera e la fermò: “Scusa. Facci due spritz. Non ascoltarla.” Annui e le fece un sorriso da prendere a sberle.

Scossi la testa violentemente: “Io ordino quel che mi pare. Un analcolico alla fragola, grazie.”

Stavo perdendo la pazienza ma non ero la sola: “Passo dopo per richiedervi le ordinazioni.” La cameriera sorrise inviperita ad entrambi e entrò nel locale.

“Perché vuoi prendere un noioso analcolico?” proruppe il ragazzo sbuffando.

“Ieri sera devo aver bevuto e non mi ricordo assolutamente niente. Non voglio fare la stessa fine adesso.” Spiegai risentita.

“Dov’eri ieri sera?” domandò con più dolcezza.

“Al parco giochi. Quello dov’eravamo prima.” Risposi in modo piatto e distaccato.

“Ieri sera c’era una festa di compleanno. Però la festeggiata non c’era perché aveva avuto un imprevisto. Ricordo che l’organizzatrice disse che c’era sempre un buon motivo per festeggiare.”

Mi feci più vicina a Marco, abbassando il tono della voce: “Mi sapresti dire chi ha organizzato la festa?”

Marco alzò le spalle: “Era una festa in maschera.”

Insistetti: “Mi basta un dettaglio. Sforzati.”

“Credo avesse i capelli rossicci.”

Cominciai ad agitarmi sulla sedia. Solo una persona aveva i capelli di quel colore, ma non poteva essere lei. Stentavo a crederci. Ero stata a casa sua qualche ora prima e non aveva accennato alla festa. In verità non le avevo lasciato il tempo di parlare, ma l’istinto mi diceva che Lucia era responsabile del mio blackout.

“Ti ricordi che vestito indossava?” domandai, mangiucchiandomi la pelle intorno al pollice.

“No. Ma perché ti interessa tanto?” chiese con un’espressione dubbiosa disegnata sul volto.

“Che altro ti ricordi di ieri sera?” sviai la domanda, postulando in modo insistente.

“Sabrina, so di essere andato a quella festa per divertirmi. Ho bevuto. Per me è normale farlo. Ed è altrettanto normale che abbia la memoria appannata dall’alcool.”

“Ma tu non capisci. Io mi trovavo al parchetto. Tu eri al parchetto. Io non mi ricordo niente e nemmeno tu. Dev’essere successo qualcosa e qualcuno non vuole che ce lo ricordiamo.” Spiegai agitandomi nervosamente sulla sedia, tenendo un tono di voce basso, quasi come un bisbiglio.

Marco drizzò in piedi per l’arrivo della cameriera: “Pronti per ordinare?” chiese sorridendo in modo provocante al biondo.

“Un analcolico alla fragola e uno alla pesca. Grazie.” Marco mi prese la mano, e la cameriera si dileguò non prima di fulminarmi con lo sguardo.

Ritrassi la mano scottata da quel contatto.

“Scusa non avrei dovuto. E’ solo che a volte vorrei… non essere mangiato con gli occhi.”

Scoppiammo in una risata fragorosa.

“Allora signora Fletcher, dovremo indagare sull’altra sera?” mi domandò non più tardi.

“Si. Io penso davvero che ci sia qualcuno che non voglia farci ricordare la notte scorsa.” Affermai convinta, arricciando una ciocca di capelli con il dito.

Marco si guardò intorno notando che la cameriera castana ci stava portando le nostre ordinazioni. “Scusami Sabri.” Si avvicinò a me e mi regalò un perfetto bacio sulla bocca. Un’insieme di emozioni mai provate si impossessò di me, facendomi sentire più leggera e incredibilmente felice. Schiusi di poco le labbra e Marco approfondì il contatto, giocando con la mia lingua. Movimenti lenti e circolari, lingue che si intrecciavano e vorticavano fra loro. Era forse questo l’amore? Provare felicità, terrore, paura, sgomento, imbarazzo, freddo, caldo, il corpo scosso da fremiti, tutt’assieme? Cos’era questa sensazione? Mi sentivo confusa ma felice. Mi sembrava di volare e che il mondo intorno a noi si fosse magicamente dissolto. Eravamo solo noi due, senza nessun’altro. Nessun rumore. Nessun bar. Nessuna cameriera con lunghe gambe affusolate che tenta in tutti i modi di farsi notare da Marco. Sentivo il cuore martellarmi all’interno del petto, come un dolce cinguettio. Era forse questo l’amore o Marco stava solo giocando con me? Aprii gli occhi e mi allontanai da lui. Lo guardai dubbiosa e con gli occhi un po’ lucidi.

“Scusa. Non mi sarei dovuto permettere ma eri irresistibile.” Mi sorrise debolmente mentre si giustificava, portando una mano fra i capelli.

La cameriera ci interruppe: “Analcolico alla fragola e analcolico alla pesca. Una ragazza dentro mi ha detto di darti questo.” Disse porgendo un biglietto a Marco.

Il giovane lo gettò nel portacenere senza aprirlo. “Non credo volesse questo.” Indicai il biglietto ancora piegato.

“Adesso non mi interessa.” Sganai gli occhi per lo stupore. “E cosa ti interessa?” domandai mentre il mio cuore stava accelerando i battiti, sperando che nella sua risposta si celasse la parola TU. Marco non rispose ma si avvicinò, e mi sfiorò le labbra con le sue. Un gesto che non richiedeva parole.







 

Oo__oO

 

Come avrete capito questi capitoli narrano ciò che è successo dal 12 al 13 giugno 2009. Nel prossimo capitolo ci sarà un salto temporale di due mesi e successivamente la storia riprenderà dal 04.01.2012.
Ringrazio le persone che hanno deciso di seguire questa storia e spero che vi possa piacere.
Alla prossima.


 








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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


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17 agosto 2009

 
Caro diario,
oggi avrò una risposta ai miei tormenti. Oggi Marco mi aiuterà e mi starà vicino come non mai. Il mio rapporto con Lucia si è raffreddato dopo le rivelazioni sulla festa al parco e per la mia nascente intesa con Marco. Credo che lei sia gelosa per il nostro rapporto. Non fa altro che ripetermi come le piacerebbe avere un appuntamento con lui e conoscerlo meglio. Soprattutto avere le sue labbra sulle sue e altre cose, che non mi avrei mai voluto sentire. Dopo quei famosi baci, avevo deciso che fra me e Marco non ci sarebbe potuto essere niente, se non la sola e semplice amicizia. Non avevo mai avuto un ragazzo e non me la sentivo di iniziare una relazione con lui. Marco mi faceva sentire protetta e adoravo stare in sua compagnia. Mi faceva ridere. Mi sentivo spontanea e per la prima volta, non avevo paura a dire quello che mi passava per la testa, perché sapevo di potermi fidare di lui. Avevo rivelato a Marco il mio segreto e mi sentivo capita perché lui l’aveva provato sulla sua pelle. Mi aveva raccontato che i suoi, dopo varie liti, erano tornati felici. Avevano ripreso ad uscire e a frequentare locali e ristoranti, come non facevano da tempo. Mi aveva consigliato di non dire a mamma Chiara il tradimento di papà. La vita di coppia era solo la loro e io da figlia, non dovevo immischiarmi di un rapporto nato e cresciuto, prima della mia nascita, anche se non mi sembrava giusto. Io volevo proteggere mia madre, ma Marco sosteneva che era lei l’adulta e il suo compito era proteggere me, non il contrario. Mi spiegò che le mamme sanno sempre come comportarsi, perché hanno molta più esperienza di noi semplici adolescenti. Noi non eravamo sposati, non avevamo figli né un lavoro. Non potevamo sapere come funziona un rapporto di coppia maturo e non potevamo sapere com’era cominciato. C’erano molti se e altrettanti ma e non era giusto intromettersi in affari altrui, anche se mi toccavano così da vicino.

“Marco quante possibilità ho di essere rimasta incinta con un bacio?” chiesi osservando la scatoletta di cartone che conteneva il test di gravidanza. Eravamo chiusi in camera sua e io ero abbastanza agitata, non perché pensassi di essere davvero incinta, ma perché non avevo il ciclo da quasi due mesi e stavo pensando di avere una malattia incurabile. Marco era stato il primo ragazzo che avevo baciato e quindi ero totalmente sicura di non essermi spinta oltre. In realtà, non ne ero certa al 100% perché nonostante mi sforzassi di ricordare la sera al parco, più la mia mente non collaborava.

“Sabri, sarà un semplice ritardo. L’hai detto tu che non sei mai stata regolare. Io non sono femmina, non so come ci si sente. Hai qualche dolore?”

Scossi la testa: “No. E se fossi malata?”

Marco mi abbracciò e il mio corpo si incastrò perfettamente con il suo. Ancora stentavo a credere che Marco, il ragazzo più bello di tutto l’istituto, mi avesse rivolto la parola ed eravamo diventati amici. Qualsiasi ragazza avrebbe voluto essere al mio posto, stretta fra le braccia di un angelo.

“Sabri, io ti sarò sempre accanto, in qualsiasi momento. Non dimenticarlo mai.” Mi regalò un dolce sorriso e i suoi occhi verdi incontrarono i miei castani.

“Allora, come funziona questo test?” chiese dopo aver interrotto il contatto visivo.

“Dice che devo fare la pipì sul tampone ed aspettare qualche minuto.” Riassunsi le istruzioni sulla confezione.

“Ok. Sembra facile. Quando hai finito chiamami. Io sarò dietro la porta.”

“Grazie per avermi invitato qui. Avevo bisogno di stare con qualcuno per fare questo.” Sventolai il tubetto di plastica.

“Sai che per te farei tutto. Tu sei il mio raggio di sole.”

Le guance si imporporarono violentemente per il modo in cui mi aveva definita. Marco all’apparenza era il classico snob, che nascondeva i sentimenti, ma in realtà era un ragazzo molto dolce e protettivo.

“Ok. Allora entro, faccio pipì e ti chiamo.” Sospirai lentamente per darmi forza.

“Tranquilla. Devi solo fare un po’ di urina.”

Perché doveva usare quei paroloni? Non è che se veniva chiamata in un altro modo, cambiava modo di essere. Aprii la porta del bagno e cercai di fare la cosa più naturale del mondo, ma trovai mille difficoltà. Mi sembrava di essere una ginnasta, per le posizioni che stavo assumendo, nella speranza di non far cadere nel wc il test di gravidanza. Dopo mille acrobazie, invitai Marco ad entrare. Si mise seduto sul bidet e mi strinse la mano. L’attesa era estenuante e snervante. Avremo dovuto aspettare cinque minuti, ma mi sembrava che lo scorrere del tempo fosse rallentato. Che stupidaggine: il tempo scorre inevitabilmente, in modo uguale, non può andare né più veloce né più lentamente, sono solo le sensazioni che ci fanno percepire la concezione del tempo. Per esempio mi sembra che sia passata un’infinità da quando ero bambina e giocavo con le Barbie, perché adesso sono una persona completamente diversa e non sono più così ingenua. Quando mi diplomerò e comincerò a pensare al mio futuro, vagliando le varie possibilità, mi sembrerà che il tempo si sia mosso velocemente, senza neanche lasciarmi l’occasione per riprendere fiato. 

“E’ successo qualcosa?” domandai tenendo gli occhi chiusi, mentre mi concentravo sulla respirazione per distrarmi.

“Sto cercando di capire il significato del disegno.” Asserì con voce ferma e determinata.

“Disegno? C’è un disegno? –gli strinsi più forte la mano- Mi stai dicendo che comparirà o un neonato o un bottiglia di whiskey?”

Marco scoppiò in una risata sonora contagiando anche me: “E’ solo una questione di linee.” spiegò in tono serio.

“Linee? Sono parallele o perpendicolari?” chiesi, mettendomi una mano sotto il mento, come per riflettere.

“Fa qualche differenza?” corrugò le sopraciglia, girandosi a fissarmi.

Annuii convinta e gli spiegai la mia teoria: “Se fossero linee perpendicolari sarei incastrata, perché le due rette si incontrerebbero in un punto, mentre se fossero parallele viaggerebbero su due binari diversi, restando vicine senza mai toccarsi.”

“Sono parallele.” Disse con entusiasmo, colpito dal mio ragionamento.

Mi alzai di scatto e cominciai a battere le mani: “Si fa festa!!”

Marco però rimase seduto senza guardarmi.

“Facciamo festa, no?” domandai incerta e con voce spezzata.

Il biondo alzò lo sguardo e m’invitò a tornare seduta, io scossi la testa. Non poteva essere vero. Io non potevo essere incinta. Non avevo mai fatto l’amore con nessuno. Non avevo mai avuto un ragazzo. Non era possibile. Il test si sbagliava.

“Sono incinta?” chiesi con il filo di voce che mi restava, la gola secca e gli occhi umidi. Marco annuì e mi abbracciò forte. Mi avvolse con le sue forti braccia e sentii il calore dei due corpi che si incontravano. Cosa avrei fatto adesso? Come l’avrei spiegato ai miei genitori? Perché io non posso mai essere veramente felice?

“Ho un’idea.”

Marco aveva un’intuizione e l’unica parola che riuscivo a pensare era “Incinta”. Il mio migliore amico proseguì la disamina: “I tuoi genitori saranno delusi ed adirati solo a sapere della gravidanza. Dirò di essere io il padre del figlio che porti in grembo.”

“Ma sei impazzito? Ti ha dato di volta il cervello? Non voglio che tu lo faccia. Sai cosa significherebbe? Ci faranno sposare per rimediare a questo.” Mi indicai la pancia, mentre copiose lacrime continuavano a scorrere sul mio volto.

“Lo so, ma non mi importa. Non voglio che tu ti autodistrugga. Voglio combattere questa guerra con te. Non voglio lasciarti sola e se devo mentire, lo farò per non farti cadere nel baratro.”

Lo guardai negli occhi e gli accarezzai la guancia: “E’ molto dolce da parte tua, ma non posso chiederti di fare una cosa del genere.”

“Non ti sto chiedendo il permesso. Lo farò.”

“Non ci pensare neanche. Non potrei mai rovinarti la vita così.”

“Tu credi che non lo penseranno? Ci vedono sempre insieme. Siamo sempre appiccicati, Sabri.”

Scossi la testa e mi guardai i piedi, per evitare di incrociare i suoi occhi. Le iridi verdi che mi stavano pregando di lasciarlo fare. Quei piccoli smeraldi incastonati al posto degli occhi chiedevano di potermi proteggere. Non avrei mai acconsentito ai suoi piani. Lo volevo accanto, ma non poteva prendersi responsabilità che non aveva. “Non voglio che tu lo faccia. Racconterò loro la verità.”

Marco mi guardò con un’espressione stupita: “Gli racconterai tutto?”

“Si. Non voglio più avere il peso dei segreti. Gli racconterò ogni cosa.”

Marco mi sfiorò la guancia con la mano: “Posso accompagnarti?” mi chiese dolcemente.

Sospirai prima di rispondere: “No. Devo affrontarli da sola.”

“Mi chiamerai?” Annuii senza parlare, uscii dalla stanza e successivamente da quella casa.

L’estate stava per finire, erano solo passati due mesi dal mio sedicesimo compleanno. Le giornate cominciavano ad accorciarsi e il sole fuggiva veloce per lasciare posto alla luna sensuale. Stavo camminando senza fretta e mentre muovevo le gambe, mille pensieri mi volteggiavano con grazia nella mente. Marco era stato così carino da offrirmi il suo aiuto, ma non volevo rovinare la sua vita. Non volevo obbligarlo a fare qualcosa di cui poi si sarebbe pentito. Sapevo che lui mi voleva bene, e che forse nutriva qualcosa in più per me, ma io.. ero così confusa. Lui non si meritava confusione ma certezza. Mi si sarebbe frantumato il cuore a saperlo infelice con me accanto. Voleva aiutarmi, ma sarebbe stata una decisione sciocca. Mi ritrovai davanti alla villa che avevamo comprato contemplando il giardino zen. “Fai un respiro profondo e rilassati. Non è successo nulla. Sei solo incinta.” La mia mente partoriva parole confortanti. Varcai la soglia alla ricerca di rumori per decidere in quale stanza direzionarmi. Mia mamma era seduta sul divano del soggiorno e aveva in mano un bicchiere di cognac liscio. Aveva lo sguardo assente e non mi sentì rincasare.

“Mamma?” La richiamai dubbiosa. Non l’avevo mai vista bere.

Alzò gli occhi e mi riservò un’occhiata vacua, era quasi stupita di vedermi: “Oh ciao Sabri. Sei appena tornata?”

Annuii incerta prima di rispondere: “Si. È successo qualcosa?”

Chiara si strinse nelle spalle e sospirò: “Non so, dimmelo tu.” Alzò di un’ottava il tono della voce.

La guardai dubbiosa corrugando la fronte: “Cosa vorresti dire?”

Mia mamma si alzò con un movimento fulmineo, scaraventando per terra il bicchiere di liquore ambrato.

“Che ci faceva questo –indicò un test di gravidanza.- in camera tua?”

Ero perplessa. Come poteva essere il mio, se ero appena rientrata ed ero certa di averlo ancora in borsa? Mio papà si intromise nella discussione, entrando in salotto: “Che sta succedendo qui?” chiese guardando prima una e poi l’altra.

“Vorrei che tua figlia ci spiegasse il senso di questo.” Gettò ai miei piedi con tale violenza il tampone di plastica.

Federico si avvicinò cauto a mia madre e le accarezzò il braccio: “Sono sicura che c’è una spiegazione. Adesso cerca di calmarti.”

Chiara scostò la mano di papà, arrabbiata: “Calmarmi? Come puoi dirmi di calmarmi se questa poco di buono è incinta?!! Scommetto che è stato quel Marco che vede tutti i giorni. Lucia è una brava ragazza e hai smesso di frequentarla per stare dietro a quel bamboccio ossigenato. Ma cos’hai al posto del cervello? Le scimmiette che si battono le mani? Non mi sono mai vergognata così tanto di avere una figlia. –Mamma si stava torturando i capelli biondi con le mani per il nervosismo, e non riusciva più a controllare il tono della voce, continuando ad gridare con tutto il fiato che possedeva- Vattene. Vattene da qui. Non voglio più vederti. Esci da questa casa o ti metto le mani addosso.” proferì sconvolta dalla rabbia con gli occhi lucidi.

Mio padre mi accompagnò alla porta ed uscì con me in veranda.

“Sono sicuro che poi le passerà. Cerco di farla ragionare e domani mattina torna a casa. Non scappare, ti prego. Non ci abbandonare tesoro.” Disse con tono spezzato dalle nascenti lacrime.

“Papà, io credevo che..” non mi lasciò terminare. “Risolveremo anche questa. Sei solo incinta. Non è nulla di grave. Tu sei sempre la mia bambina. Carne della mia carne, sangue del mio sangue. Farò di tutto per sistemare le cose. Ti voglio bene bambolina d’oro. Non dimenticarlo mai.” Mi posò un dolce bacio sulla guancia e rientrò, lasciandomi sola davanti alla porta.

Un barlume di lucidità mi suggerì di aprire la borsa alla ricerca del test. Il tampone si trovava nella tasca dove l’avevo lasciato. Di chi era quello che aveva mia madre?








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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


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Marco

Il ragazzo biondo stava aspettando con impazienza la telefonata della sua migliore amica Sabrina. Aveva bisogno di sapere se fosse andato tutto bene e se avesse avuto bisogno di lui. Lui sarebbe corso in suo aiuto anche in capo al mondo pur di regalarle un sorriso. L’avrebbe voluta portare al mare o ovunque, solo loro due e la creatura che sarebbe nata, per fuggire lontano dimenticandosi i problemi che sarebbe stata costretta ad affrontare se fosse rimasta. Le avrebbe preso la mano e le avrebbe regalato un morbido abbraccio, per sostenerla e farle sapere che lui, non si sarebbe mai mosso, non l’avrebbe mai lasciata sola, perché il suo posto era al suo fianco. L’aveva capito: sapeva di amarla con tutta l’anima e per lei voleva solo il meglio. Voleva regalarle momenti magici e spensierati, facendole vivere un mondo da favola perché lui, da quando aveva incontrato lei, si sentiva migliore. Avrebbe voluto stampare e ristampare le sue labbra su quelle morbide della mora, ancora e ancora, senza mai porre fine al contatto. Avrebbe assaporato il suo sapore, leggermente fruttato e quando l’avrebbe inalato, la sua mente si sarebbe inebriata portandolo in un mondo fatato. Il cellulare vibrò e Marco corse in  bagno per non farsi vedere: i suoi genitori avevano organizzato una cena e lui avrebbe dovuto aiutarli decidendo il vino da servire in tavola. Lesse il nome che lampeggiava a caratteri cubitali sul display del suo smartphone e non esitò a rispondere, lievemente ansante per la corsa: “Sabri, tutto bene?” chiese cercando di riprendere fiato. La ragazza titubando propose: “Marco, possiamo vederci?” Il giovane si sentì morire e il cuore sembrava volesse uscirgli dal petto andandole incontro: “La mia matrigna ha organizzato una cena. – Un’idea gli balenò in testa e proseguì con maggiore convinzione e più speranza. - Perché non ti arrampichi dal pluviale e entri in camera mia? Mi congederò dicendo di avere mal di testa.
Il ragazzo si rendeva conto che fosse un’insana idea, ma sapeva che Sabrina avrebbe avuto bisogno di sfogarsi e lui, pur di fare la figura del babbeo con i suoi genitori e con gli ospiti, l’avrebbe stretta forte a sé, sostenendola e rassicurandola.
La voce dell’altra parte però, non era del suo stesso avviso. Sabrina lo salutò frettolosamente dicendo che erano più importanti le questioni di famiglia e che lui avrebbe dovuto rispettarle, senza lasciarsi coinvolgere ulteriormente dai suoi guai. Marco tentò di fermarla e convincerla ma la ragazza aveva già riagganciato. Il biondo sentì le certezze frantumarsi sotto i suoi piedi. Lei aveva rifiutato il suo aiuto. Lei l’aveva liquidato velocemente senza far trasparire i suoi sentimenti. Lui si sentiva inutile. Si sentiva male per non essere riuscito a convincerla a correre da lui. Le avrebbe voluto sussurrare parole dolci, tenendola stretta a sé, senza lasciarla più andare. Gli sarebbe piaciuto abbracciarla, incastrando perfettamente i loro corpi, come se fossero stati pezzi di puzzle, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. Lei era naturalmente splendida e lui non aveva lottato abbastanza per lei.
 

 

***



Lucia

La rossiccia si stava arricciando i capelli per averli più voluminosi. Aveva letto su qualche rivista che gli uomini erano attratti dalle chiome curate e morbide. Cosa rappresentava meglio quegli aggettivi se non dei ricci ondulati e fini che le avrebbero incorniciato perfettamente il viso magro e minuto? La ricerca del vestito non era stata semplice: era stata indecisa fino all’ultimo. Alla fine aveva al ballottaggio due abiti differenti fra loro. Il primo aveva un corpetto di raso nero, e una gonna in chiffon floreale. Le dava un tocco di classe e la rendeva femminile, esaltando al punto giusto le sue dolci forme. L’altro era un vestito di cotone blu marino, dalla scollatura a cuore ricamata in pizzo. Quest’ultimo la faceva sembrare più sbarazzina e semplice. Avrebbe sicuramente indossato il primo, perché non voleva sembrare una comune adolescente alle prese con le prime crisi ormonali. Una volta che fu pronta, si spruzzò un lieve profumo dolciastro e si risistemò i boccoli, sorridendo al suo riflesso. Si sentiva bellissima e sicura di sé. Marco non le avrebbe tolto gli occhi di dosso, e per una volta avrebbe vinto lei, su Sabrina Bellini. Lucia Stuart era ed è sempre la numero uno. Nessuno poteva spodestarla dal suo ruolo di Regina della scuola. Qualcuno suonò alla porta, ridestandola dai suoi pensieri. Non aspettava nessuno in particolare. Scese le scale ed andò ad aprire e proprio lì, davanti ai suoi occhi, l’artefice delle sue pene. Sabrina Bellini indossava un paio di jeans sdruciti e una maxi maglietta rosa. Aveva lo sguardo vacuo e gli occhi lucidi, oltre ad essere terribilmente spettinata.

“Tu..?” La guardò stupida e risentita la padrona di casa.

“Che entusiasmo.” Sospirò pesantemente la seconda.

“Si dà il caso che avrei una cena importante.” Sostenne la rossa, alzando lievemente il tono di voce.

Sabrina si strinse nelle spalle e fece per andarsene ma Lucia la stava trattenendo per la maglia.

“Lasciami!” strillò la mora, tentando di divincolarsi dalla prese.

Lucia la strattonò strappandogli un pezzo di maglietta, nel tentativo di trascinarla in casa.

“Ma che fai?” Sabrina le rivolse uno sguardo di fuoco guardandola dritta negli occhi.

“Adesso devo andare a cena dai Bergamaschi, con la mia famiglia. Tu rimani qui, seduta sul divano. Quando tornerò parleremo di quel che ti è successo, ok?” Le rivolse un sorriso dolce, come il tono che aveva usato per rivolgersi alla mora. Lucia sapeva che avrebbe dovuto giocare bene le sue carte, se voleva che Marco si stufasse della sua nuova amica.

“Vai a cena dai Bergamaschi?” domandò la mora stupida dalle sue parole.

Lucia finse di risistemarsi i capelli, ormai perfetti e sorridendo confermò: “Si. Finalmente Marco mi noterà e non potrà staccarmi gli occhi di dosso.” Sapeva che il tono di voce acuto infastidiva Sabrina, ma era certa che l’avrebbe disturbata maggiormente saperla a cena dal suo migliore amico, mentre lei aveva sicuramente bisogno di una persona con cui parlare.

La mora si strinse nelle spalle e finse un sorriso dolce: “Sono sicura che resterà senza parole. Sei bellissima.”

“Lo so, lo so. –approvò ghignando in modo furbo. – Ora devo proprio andare. Il maggiordomo ci sta già aspettando. Non voglio arrivare in ritardo. Il treno passa una volta sola.” La lasciò entrare in casa e richiuse la porta dietro di sé. Il piano stava andando come aveva previsto. Sabrina Bellini sarebbe presto rimasta sola.


 

***


 
Sabrina
 
Lucia mi aveva fatto entrare in casa sua ma mi aveva abbandonato, troppo presa dalla sua entusiasmante cena con il mio migliore amico. Perché era così gelosa di me? Che cosa le avevo fatto? Io non avrei mai voluto diventare amica di Marco Bergamaschi, non l’avevo chiesto io, era capitato. Al cuor non si comanda, come non si può decidere di non ascoltare i sentimenti per essere più razionali. Marco è diventato il mio migliore amico e mi è stato affianco come nessun altro. In due mesi, lui c’è sempre stato ed ha sempre trovato una parola dolce per consolarmi. Lucia era interessata solo ai vestiti, al trucco, ai profumi ed ai ragazzi. Se tu avevi altri interessi, non potevi esserle amica. Purtroppo l’avevo capito troppo tardi, ma le volevo comunque bene. Non potevo spegnere i sentimenti che provavo per lei. Lucia era la ragazza con il sorriso costantemente stampato in faccia, la lingua biforcuta sempre pronta a dire qualcosa e a criticare se possibile, le scelte degli altri. Un rumore proveniente dalle camere da letto mi fece sussultare. Il cuore aveva cominciato a battere all’impazzata e il sangue mi si gelò nelle vene. Qualcuno era entrato in casa ed io ero da sola. Decisi di nascondermi in soggiorno, sotto un tavolino di legno di noce. I ladri non avrebbero mai acceso le luci e non mi avrebbero notato, o per lo meno, non subito. Sentivo il rumore di passi farsi sempre più vicini a dove mi trovavo io. Stavano entrando in sala e mi avrebbero ucciso per non lasciare testimoni scomodi. In quel momento le luci si accesero, lasciando poco spazio all’immaginazione. Cercavo di stare calma e di non provocare nessun tipo di rumore, ma stavo tremando come una foglia, e trattenere il respiro sembrava un’impresa impossibile. L’uomo, perché si doveva trattare di un ragazzo a giudicare dalle Hogan di pelle lucida che indossava, varcò l’ingresso della sala e si stese sul divano accendendo la televisione. Io non avevo mai subito una rapina, ma mi sembrava un comportamento molto strano. Dalla mia posizione, non riuscivo a vedere il volto del malfattore, ma mi sembrava di capire che stesse guardando dei cartoni animati. Non vorrei sembrare inopportuna, ma non mi risultava che i ladri perdevano tempo sdraiandosi sul divano, rimirando i cartoni animati.
L’uomo scoppiò in una fragorosa risata e parlò da solo: “Non ci posso credere. Homer è proprio un cretino. Come farà a credere agli alieni?”
Io sarei dovuta rimanere rannicchiata sotto un tavolino, per non farmi vedere mentre cerco di trattenere il respiro per non farmi sentire, e lui sta guardando i Simpson?
Decisi di uscire dal mio nascondiglio e mi piazzai davanti alla tv.

“Ehi, spostati!” protestò il moro.

“Io credevo che fossero entrati i ladri!” dissi stupita guardando il gemello di Lucia.

Steve portava un paio di occhiali da vista che coprivano i suoi bellissimi occhi cerulei, il viso dolce, pulito e giovanile. Mi guardava con un’espressione corrucciata ed indispettita. Indossava una felpa bianca lucida, con cappuccio e strisce rosse e nere sui bordi, ed un improbabile paio di pantaloni dal cavallo basso rosso Valentino, ovviamente tutto di note marche. 
“Togliti! Sto guardando la tele.” Disse animandosi e mostrando un apparecchio identico a quello di Dana Plato nella prima stagione de “Il mio amico Arnold”.

Sbuffai rumorosamente: “Perché non sei a cena con la tua famiglia?”

Steve seguì il mio esempio soffiando annoiato, incrociando le braccia al petto: “Ho fatto finta di star male. Non avevo voglia di andare ad un’altra inutile cena.”

Lo guardai stupita: “Tutto qui?” Non potevo credere che non avesse neanche la fantasia per invitare bugie migliori.

“Beh?” rispose irritato e scocciato dal mio nascente terzo grado.

Mi strinsi nelle spalle: “Credevo che sapessi altro.”

“Quella stupida di mia sorella non fa altro che parlare di Marco Bergamaschi, e di come si fantastico e bello. Voleva assolutamente farsi notare da lui e ha pregato ai miei di organizzare una cena “esplorativa” –mimò il gesto delle virgolette con le dita- come l’ha definita lei.” Concluse spazientito.

Spalancai la bocca dallo stupore: “Che cosa??” dissi con voce stridula.

Steve annuì: “Ha nella testa quel tipo. Strano che tu non lo sapessi, siete praticamente migliori amiche.” Mi guardò dubbioso, corrugando la fronte.

Alzai le spalle, sospirando e con tono noncurante dissi in un bisbiglio: “Eravamo migliori amiche.”

Il moro mi indicò il divano e mi chiese di sedermi vicino a lui: “I miei torneranno fra due o tre ore. Se non vuoi guardare la tv, che cosa vuoi fare?”

Sbuffai stanca tenendo le braccia lungo il corpo, rassegnata: “E’ stata una giornata infermale. –lo informai.- Vorrei poterla rivedere da capo o cancellarla completamente.” Spiegai tristemente.

“Io non sono il massimo della compagnia, lo so. Sono sempre stato un po’ asociale, ma se tu avessi bisogno di sfogarti, puoi farlo. Sono bravo ad ascoltare.” Steve mi sorrise dolcemente mentre io mi trovai a fissare il metallo e gli elastici che aveva in bocca. Scossi la testa mentre mi avvicinavo al divano per sedermi accanto a lui. Lucia mi aveva abbandonato a casa sua e comunque, una volta a casa, non mi avrebbe ascoltato, elettrizzata com’era dalla cena a casa Bergamaschi. Steve mi stava proponendo un aiuto, e perché non l’avrei dovuto cogliere? Non lo conoscevo bene, ma sapevo che non avrebbe potuto giudicare.

“Mia mamma mi ha cacciato di casa. Sono venuta qui perché non sapevo dove altro andare. –sorrisi amaramente rivolgendogli un’occhiata.- Qual è la tua scusa, invece?” Domandai più per gentilezza che per reale interessamento.

“Te l’ho detto. Sono allergico alle cene, alle feste, ai balli… Non mi piacciono questi eventi. Non sopporto tutti quei lustri per delle manifestazioni con gente con la puzza sotto il naso, che finge di essere elevata socialmente, quando invece non ha niente nel cervello. Comunque, per aver fatto arrabbiare la signora Bellini devi aver combinato un bel casino, e mi sembra strano che tu non avessi un altro posto dove andare.”

Lo guardai stupita per le sue affermazioni: “Ma chi sei? Sherlock Holmes?”

Steve ridacchiò divertito: “Non sono un gran oratore, ma questo non mi impedisce di osservare la gente che mi sta intorno. So che sei molto vicina a Marco Bergamaschi, il ragazzo che vorrebbe conquistare mia sorella. Probabilmente è per quello che non ti ha parlato della cena. Penso sia gelosa di te.”

“Ma io e Marco siamo solo amici. Non c’è nient’altro fra me e lui.” Affermai con voce piatta.

“Magari lei ti reputa una minaccia.”

“Una minaccia? Perché dovrei essere una minaccia?” chiesi dubbiosa alle sue parole.

“Penso che lei veda Marco come un possibile futuro marito.” Spiegò senza mezzi termini.

Scoppiai inavvertitamente a ridere. Trovavo buffo che una ragazza di sedici anni volesse trovare marito così precocemente.
“Quando si mette in testa una cosa, non c’è modo di farle cambiare idea.” Proseguì il moro.

Io annuii: “Si, lo so bene. Non credevo che stesse già pensando ad un marito e che Marco avrebbe rappresentato il suo prototipo di uomo.”

Steve sollevò le spalle con noncuranza: “Non so cosa ci troviate tutte in quel tipo, mi sembra un ragazzo come un altro. Comunque fa attenzione, Sabrina. Lucia farà di tutto per mettersi tra di voi e farvi litigare.”

“Ma non può ostacolare una storia inesistente.”

“Tu dici che è inesistente, e magari da parte tua è così, ma non è come appare all’esterno. Dovresti sapere che nel nostro mondo è l’apparenza quel che conta.”

Non avrei mai detto che Steve fosse un ragazzo così profondo e schietto. Stavo ancora riflettendo sulle sue parole: mia mamma credeva che il bimbo fosse di Marco solo perché ci vedeva sempre insieme e credeva che ci stessimo frequentando in un altro senso. Marco avrebbe voluto aiutarmi, fingendosi papà, perché forse credeva che noi fossimo più che amici?
Steve interruppe il mio dibattito interiore dicendo in tono dolce e gentile: “Scusami. Non volevo turbarti.” E mi afferrò il ginocchio, come se volesse confortarmi.

“No, tranquillo. Stavo solo pensando. Non avrei mai creduto che qualcuno avesse tratto conclusione affrettante senza conoscere la situazione.”

Mi risultava strano parlare in modo così naturale e spontaneo con lui. Le parole uscivano dalla mia bocca senza essere calcolate. Immaginavo fosse più difficile confidarmi con lui, soprattutto perché lui è il fratello gemello di Lucia, e presumevo fosse uguale a lei, almeno caratterialmente, invece sembravano essere due persone completamente diverse. Lucia era la classica ragazza bella anche con il trucco acqua e sapone, perché madre natura era stata generosa nei suoi confronti. Le era stata donata la bellezza di due labbra rosse e carnose, in contrasto con la sua pelle di porcellana. Era bella, anzi bellissima. Solo fisicamente però, perché la stavo conoscendo meglio solo ora, e mi faceva male saperla così gelosa e calcolatrice. Lei era l’esemplare più cocciuto sulla faccia della terra ma sapeva giostrare perfettamente con le parole, passando automaticamente dalla parte della ragione, anche quando aveva torto. Steve aveva un look da imbranato che lo faceva sembrare sfortunato e secchione. Lo rendeva goffo ed impacciato, solitario e timido. La verità era che il suo aspetto fisico non gli rendeva giustizia perché mi sembrava un ragazzo si, riservato, ma onesto e genuino. Cosa che non pensavo per sua sorella.
 

***

 
“Quindi mi stai dicendo che qualcuno ha messo un test di gravidanza in casa sua, diverso da quello che hai in mano in questo momento?” chiese stupefatto il moro.

Annuii: “Proprio così.”

Steve mi riservò un’occhiata dubbiosa: “Ma chi altro sa che tu..?”

“Solo Marco. Ho fatto il test a casa sua.”

Il ragazzo si toccò il mento, come per aiutarlo a riflettere: “Sei certa che nessuno fosse in casa o vi abbia sentiti?”

Scossi la testa: “No, non c’era nessuno. Sarebbe comunque stata una cosa contro Marco, oltre ad essere nociva nei miei confronti.”

Steve ribatté con una tesi piuttosto eloquente: “Tu devi capire che anche chi viene pagato per stare in casa a cucinare o a fare i mestieri, può avercela con noi.”

Li riservai un’occhiata interrogativa e proseguì la sua disamina: “Può essere contro di noi perché rispondiamo male o perché li trattiamo come se fossero oggetti, dimenticandoci le buone maniere e soprattutto il rispetto della persona. Pensaci: quante volte ce la prendiamo con i domestici perché è sparita una maglietta o perché non si trova una determinata collana?”

“Quindi, tu pensi che possa essere colpa di Tilde?” domandai incuriosita dal suo discorso. Mi avevano insegnato che per indicare le domestiche delle nostre famiglie, avremo dovuto chiamarle Tilde, senza preoccuparci se in realtà avevano un altro nome. Lo stesso valeva per i cuochi, che andavano soprannominati Ambrogio.

Steve si adirò: “Non so per quale motivo tutti si ostinino a voler chiamare Tilde la domestica ed Ambrogio il cuoco, ignorando il loro vero nome. E’ una cosa stupida e deleteria. Ti piacerebbe se tu fossi chiamata Lucia solo perché frequenti Lucia?” mi domandò piccato e alterato.

Il mio viso diventò paonazzo per la vergogna. Aveva tremendamente ragione. Trattavamo veramente male le persone che ci offrivano i loro servizi, solo perché retribuite per mantenere la loro famiglia in modo dignitoso.

“Hai perfettamente ragione. Io non immaginavo quanto fosse brutto.”

Steve annui ancora alterato: “Certo che lo è. Loro sono costretti a sapere tutto di noi, e noi non facciamo niente per loro. Siamo così presi da noi stessi da non conoscere il loro vero nome.”

Fu allora che decisi di sfidarlo, per verificare se oltre a predicar razzolava bene: “Come si chiamano i tuoi domestici?”

“Lo chef si chiama Salvatore Esposito. E’ orinario di Napoli, come sua moglie Concetta. Non hanno figli perché la domestica è troppo impegnata ad accontentare i capricci isterici di mia sorella. Le piacerebbe avere un maschio, però ha paura di perdere il posto, e se viene lasciata a casa, la stessa sorte tocca al marito, e entrambi si ritroverebbero su una strada, da un giorno all’altro.”

“Che storia triste. –ammisi fra i sospiri.- Ma come mai tu parli con loro, e nessuno ti dice niente?”

Oltre a trattare male i nostri domestici, non dovevamo rapportarci con loro. Era vietato.

“Quando sei invisibile è difficile che qualcuno si accorga di quel che sta succedendo.”

“Oh andiamo, tu sei un Stuart. Sei il fratello di Lucia. A chi vuoi darla a bere?”

“Hai detto bene, sono uno Stuart e tu mi conosci solo perché sono il gemello un po’ sfigato, secchione, con l’apparecchio e gli occhialoni.”
 



Intanto a casa Bergamaschi la cena era conclusa e i due ragazzi erano in veranda a prendere un po’ di aria fresca. 
Lucia interruppe il silenzio che si era calato fra loro, chiedendo in modo innocente: “Allora Marco, vedi spesso Sabrina ultimamente?” e per apparire più sensuale e dolce, sbatte le ciglia più volte.

Marco non capendo dove volesse andare a parare la giovane rispose educatamente: “Si, è una ragazza molto insicura e sta passando un brutto periodo.”

La rossa appoggiò una mano sul braccio del ragazzo, come per rassicurarlo e sospirò: “Sei così tenero. –lasciò la frase in sospeso per un attimo, ma proseguì in un tono acido diverso da quello dolce appena usato.- Ti prendi cura degli oggetti usati.”

Il ragazzo ritrasse la mano, come se fosse scottato ed infastidito da quel contatto oltre che dalle parole. Cercò di mantenere la calma, perché stava dialogando con una donna, e non poteva scagliarsi addosso a lei, per difendere la sua amica: “Cosa stai insinuando?”

Lucia fece spallucce: “Sai benissimo a cosa mi riferisco. Io so tutto.” Fiatò con un sorriso malizioso.

Marco fece finta di non capire l’allusione rispondendo in tono sicuro e pacato, ma lei non gli l’avrebbe data vinta: “Sei un bravo attore. Se non vuoi che le dica che tu l’hai violentata, sarà meglio che la dimentichi.” Soffiò malignamente, senza staccargli gli occhi di dosso.
Il cuore del biondo accelerò i suoi battiti, in una corsa impazzita e la mente cominciò a girarli intrappolata da quella rivelazione. Non poteva essere vero. Lucia stava mentendo, ne era certo. Incoraggiato da tale pensiero l’affrontò mettendo un dito davanti a sé: “Che vuoi Lucia? Perché non la smetti di raccontare stronzate? In tutta la tua vita non hai fatto altro che dire cattiverie a destra e a sinistra, come se ti piacesse ferire gli altri. Ci provi gusto? Ti piace? Beh, indovina un po’… con me non funziona!”

La giovane si fece più vicina al ragazzo, spostando il braccio e tornando a pochi cm dal suo viso: “Non fingere. So benissimo che ricordi quella sera, come la ricorda Sabrina. Sfortunatamente per voi, io c’ero e ho ripreso tutto. Avevo organizzato una festa al parco e tu sei sparito. Sai benissimo che non si abbandona Lucia Stuart senza un valido motivo…e così sono venuta a cercarti, perché io volevo stare con te.  Purtroppo ti ho trovato in compagnia di Sabrina. Il resto lo lascio alla tua immaginazione.”

“Fammi vedere quel dannato video!” protestò come una furia il ragazzo, e con un impeto di rabbia la spinse a terra.

Lucia scoppiò in una risata minacciosa e tetra: “Sappi che ho centinaia di copie del filmato. Non potrai mai cancellarlo.”

Marco avvicinò il braccio per aiutarla ad alzarsi: “Non ho mai parlato di cancellare. Dammene una copia. Mostrami che tu hai ragione.” 

Lucia afferrò il braccio e si rimise in piedi: “Se ho ragione, tu dovrai dimenticarti di lei. Non dovrai più avere alcun tipo di rapporto e non le dovrai più rivolgere la parola, altrimenti farò vedere il filmato ai vostri genitori e a tutta la città. Sarete costretti ad andarvene e a non tornare più in questa città. Sei pronto a non avere un soldo e a dormire sotto i ponti?”

 “Perché ti impegni a fare tutto questo? Cosa ti abbiamo fatto?”








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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


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Casa Stuart qualche ora dopo
 
“Sveglia!!” Lucia stava scuotendo il braccio del fratello e quello dell’amica. I due si erano addormentati sul divano in soggiorno. Sabrina aveva la testa appoggiata alla spalle di Steve, e il moro sembrava stesse accarezzando la ragazza, perché la mano era sopra la sua testa. Steve aprì gli occhi e borbottò qualcosa di incomprensibile da quanto aveva la bocca impastata. Sabrina si risvegliò dal suo sonno e si pulì la bocca sporca di saliva.

“Sembri un San Bernardo, Sabri!” I presenti scoppiarono a ridere di gusto, ma la madre dei gemelli si avvicinò al figlio toccandogli delicatamente la fronte: “Tesoro, come ti senti?”

 Il giovane sbuffò rumorosamente e disse di star meglio.

Teresa, la madre, annuì: “Non scotti più. – diede un dolce bacio sulla guancia prima di aggiungere un piccolo rimprovero. – Saresti dovuto restare a letto però.”

Il moro protestò: “Ma è maleducazione lasciare gli ospiti in casa da soli.” Si giustificò il ragazzo e tutti di conseguenza, posarono lo sguardo su di me, come se fossi un intruso.

Il signor Stuart prese la parola concentrandosi su di me: “Allora cara, cosa ti è capitato? Come mai hai aspettato che rincasassimo?”

Cercai una risposta decente per potermi giustificare, ma non me ne veniva in mente neanche una. Tutti però stavano aspettando una mia reazione, e io balbettando cercai di perdere tempo: “Ecco, io in verità…”

Lucia interruppe il mio tentativo di parlare: “Le avevo promesso che avremo fatto un pigiama party, ma mi sono dimenticata di avvisarla della cena.”

“Lucia!” trillò la madre con disappunto.

“Lucia!” la richiamò il padre inacidito.

“Ero così impegnata a prepararmi per la serata, che mi sono proprio scordata di disdire il nostro impegno. –si girò a guardar me, e con un tono dolce proseguì.- Spero che tu non sia arrabbiata con me, per il mio pessimo comportamento.”

Io le sorrisi alzandomi dal divano: “Come potrei!” mi avvicinai e l’abbracciai. Lucia sapeva di avermi appena salvata da un terzo grado e non potevo che ringraziarla.

La rossa sciolse l’abbraccio e mi guardò entusiasta: “Benissimo. Quindi vieni, andiamo in camera e diamo inizio al nostro pigiama party!”
Mi prese per mano e mi strattonò fino alla sua stanza, emettendo gridolini divertiti e richiudendo la porta dietro di sé. Lucia entrò nel suo bagno personale e ne riuscì solo dopo un quarto d’ora, struccata e in pigiama. Mi guardava ma era come se non mi vedesse. Aveva uno sguardo vacuo e assorto.

“Tutto bene, Lu?” domandai, cercando di attirare la sua attenzione. La rossa sembrò accorgersi solo ora, stupita quasi dalla mia presenza: “Si, tutto bene. È stata una serata un po’…- esitò con gli occhi che trattenevano a stento le lacrime.- Devo raccontarti una cosa.” Annunciò trattenendo i singhiozzi. Ero senza parole. Non l’avevo mai vista così sconvolta, e non mi aveva dato modo di credere che ci fosse qualcosa che la turbava.

Le afferrai il braccio e cercai di spronarla. Sembrava che, per la prima volta, fosse alla ricerca di parole adatte da pronunciare. Lucia non era un tipo riflessivo, tutto ciò che le passava per la testa, anche le più grandi cattiverie, le sputava fuori dai denti, senza badarci più di tanto. Non aveva mezze misure e mi sembrava che stesse assumendo un comportamento strano. Prese fiato e decise a parlare: “Stava andando tutto bene. Cena bellissima. Credevo di avere Marco in pugno, e per questo ho accettato di uscire con lui in veranda, a prendere un po’ di aria. Pensavo che mi volesse baciare, ed invece ha tentato di abusare di me, perché aveva bevuto durante la cena. Io ero spaventata. Ero in preda al panico. Non sapevo cosa fare.” Si interruppe bruscamente. Le lacrime le stavano solcando il viso, precipitando sulla coperta rosa del letto. Era terrorizzata. L’abbracciai tentando di calmarla, e le chiesi di respirare lentamente perché l’avrebbe aiutata a placare le brutte emozioni. Una volta tranquillizzata proseguì il monologo: “Sono riuscita a  colpirlo, ma prima di rientrare ha detto che io sarei stata sua, e avrei goduto come hai fatto tu, mentre lui ti possedeva sullo scivolo del parco giochi, mesi fa.”


 

***



Avevo appena finito di fare colazione e stavo per salutare e ringraziare la famiglia Stuart per l’ospitalità. Avrei dovuto incontrare Marco per confrontarmi con lui. Io lo conoscevo ed ero certa che non avrebbe mai avuto il coraggio di violentare ed approfittarsi di qualcuno. Lui era una persona dolce ed era un amico fidato. Ero stata a casa sua a fare il test di gravidanza e mi aveva concesso il suo aiuto, offrendosi genitore improvvisato. Lui non avrebbe mai potuto violentarmi. Non era la persona che Lucia voleva farmi credere. Non riuscivo a capire però, per quale motivo lei si sarebbe inventata tutto. Uscii di casa e afferrai il cellulare, promettendo un appuntamento al mio interlocutore. Sarei andata al bar del nostro primo incontro, con la speranza di avere risposte per le mie domande.

 

***



 
Marco era seduto all’interno in un tavolo lontano ed indiscreto. Portava un cappello con visiera blu e un paio di occhiali da sole con lenti nere. A passo deciso, lo raggiunsi e mi sistemai di fronte a lui.

“Lucia è una vipera. Credo che queste –mi indicò una chiavetta usb gialla e una lettera- me le abbia lasciate lei.”

“Hai cercato di violentarla?” domandai a denti stretti, mentre mi sedevo accavallando le gambe.

Marco mi guardò con occhi sgranati per lo stupore: “Violentarla? Lei mi ha minacciato, per non so quale motivo. Mi ha detto che c’è un filmato che dimostra che io ho abusato di te, al parco giochi. Penso che qui dentro –indicò la chiavetta usb- ci sia una copia del video.”

“Lei mi ha detto che tu avevi bevuto, e una volta usciti sul portico, la volevi violentare. Lei è riuscita a liberarsi e tu l’hai minacciata dicendo che le sarebbe piaciuto, come è piaciuto a me.” affermai sollevando di colpo la testa e guardandolo nei profondi occhi verdi.

Lui mi prese la mano e mi fronteggiò: “Io non ho fatto nulla di tutto questo. Non so per quale motivo Lucia voglia farci dividere. Non lo capisco. Io non ricordo davvero se ero al parco la sera del tuo compleanno. Spero che questa chiavetta ci dia qualche risposta.”

Annuii pensando che forse, avesse ragione. Lucia tentava in tutti i modi di farci litigare per poter avere la meglio su di me. Lei voleva stare con Marco, e io mi ero messa in mezzo inconsapevolmente. Il ragazzo estrasse dalla borsa il personal computer e collegò la penna usb.  L’audio delle casse era al massimo e partirono dei gridi di piacere, che fecero girare tutta la gente e in meno di un secondo, avevamo i loro sguardi puntati addosso.

“Scusate, la mia stalker mi manda sempre messaggi subliminari.” Si giustificò beccandosi una gomitata sul fianco.

Marco mi riprese la mano e bisbigliando: “Senti, io ho paura che Lucia abbia ragione. Come potrebbe dire una cosa del genere altrimenti?” mi chiese allibito.

“Noi non sappiamo nulla. E’ inutile parlarne adesso. Guardiamo il filmato e trarremo dopo le nostre conclusioni.”

Il ragazzo riaprì il video, azzerando l’audio. Non si vedevano le due persone, impegnate in una strana ginnastica, ma poco dopo la scena mutò: c’ero io, con il mio vestito bianco, che ciondolavo mentre intrattenevo una discussione con uno sconosciuto. Successivamente comparì Marco e io mi abbandonai stanca, fra le sue braccia. Il filmato si arrestò bruscamente, senza averci chiarito la situazione.

“Non capisco. Eravamo entrambi vestiti.” Proferii ovvia.

“E se ci fossero più filmati?” chiese il biondo.

“Evidentemente esiste un video integrale, ma Lucia vuole giocare con noi, mostrandoci solo pezzi confusi. Solo che non ne capisco il motivo.”
Marco si fece più vicino a me, toccandomi la mano per farmi forza: “Andrà tutto bene.”

Mi cadde l’occhio sulla lettera, un po’ spiegazzata e colsi un piccolo dettaglio: “Marco, qui c’è scritto che tu faresti meglio a non frequentarmi o potrebbe succedere qualcosa di brutto…”

Il ragazzo si strinse nelle spalle e mi guardò negli occhi:”Sabri, sta già succedendo qualcosa di terribile: Lucia ci sta insinuando dei dubbi. Noi non abbiamo certezze. Vuole dividerci.”

“Potremo sempre fingere. Io credo in te. Mi fido di te. Nessuno potrà mai separarci.” Accarezzai i suoi capelli biondi, regalandogli un sorriso dolce e rassicurante.

“Sabrina Bellini, io ti amo. Ti amo con tutto il cuore. Ti amo perché risvegli il mio io più nascosto. Ti amo perché con te, mi sembra di essere sempre ad un passo dalle nuvole e dalle stelle del firmamento. Ti amo e nessuno ci dividerà. Mai. Io non lo permetterò. Abbiamo questo problema e lo risolveremo insieme. Non ci fa bene stare divisi. Io senza di te non sono nessuno.”

Lo fissavo con le labbra tremanti e gli occhi lucidi. Avevo appena ricevuto la più bella ed unica dichiarazione d’amore, ma l’avvertivo tremendamente sbagliata. Sentivo che non era il momento adatto per perdersi in tali frivolezze. L’avrei voluto baciare, ma facendolo Lucia ci avrebbe fatto del male. Marco non doveva pagare per causa mia, o meglio, per causa della gelosia morbosa di una ragazza malata. Avrei spezzato il cuore di Marco, ma l’avrei fatto per metterlo al sicuro. Non c’era altra ragione. Mi alzai lentamente dalla sedia, lo guardai fisso negli occhi e proseguii con la mia farsa gridando: “Sei solo uno stronzo. Non voglio vederti mai più!” sbattei i pugni sul tavolo e me ne andai, chiudendo con violenza la porta dietro di me, lasciando Marco con la bocca aperta.


 

***



 
Casa Bellini, la mattina dopo la notizia
 
Chiara aveva avuto una notte senza sogni, agitata ed inconcludente. Si era alzata di pessimo umore, spossata e con un fastidioso mal di testa, che partiva dalla zona cervicale. Neanche il trucco era riuscito a coprirle le occhiaie violacee intorno agli occhi, e la molletta che raccoglieva con cura i capelli, le sembrava volgare e banale. Sbuffò al suo riflesso e scaraventò a terra il fermaglio. Oggi non sarebbe stata una bella giornata. Come poteva esserlo se sua figlia, la sua unica figlia, era rimasta incinta? Chiara aveva grandi progetti per Sabrina, ma quest’ultima aveva rovinato la sua smania di grandezza. Sabrina aveva danneggiato il suo futuro, concedendosi a qualcuno che non si sarebbe mai preso le proprie responsabilità. Possibile che negli anni 2.000 c’era ancora chi non usava precauzioni? Non soltanto per abbassare il rischio di una gravidanza indesiderata, ma soprattutto per prevenire malattie sessualmente trasmissibili. Chiara era grande abbastanza negli anni ’80, quando i media cominciarono a parlare dell’Aids. Aveva conosciuto suo marito in quegli anni, e non avevano più usato il preservativo, dopo aver fatto le analisi del sangue, una volta sicuri di voler mettere al mondo dei figli. Avrebbero costruito una famiglia numerosa, ma purtroppo erano subentrati problemi di fertilità e avevano intrapreso il lungo e travagliato percorso per adottare un figlio. Sabrina le era stata affidata dal tribunale dei minori. Aveva solo due anni, due splendidi occhi color cioccolato fuso e delle labbra imbronciata e carnose, con dei ricci neri come la pece che le incorniciavano il volto roseo. Non aveva mai visto una bambina tanto bella. Si era innamorata non appena aveva incrociato i suoi grandi occhi. Sabrina era diventata sua figlia e l’avrebbe vista crescere, l’avrebbe viziata, coccolata ed amata come meglio avrebbe potuto. Dopo la sconvolgente notizia, della sera precedente, si sentiva inutile. Superflua. Il suo ruolo da genitore, era stato messo in discussione: aveva fallito; non aveva preservato sua figlia. Non era riuscita a difenderla e ad attutire i pericoli che si sarebbero insediati durante l’adolescenza. Era stata una delusione per sua figlia. Si era messa a gridare, reagendo d’istinto. Non le aveva detto non una parola di conforto. Non l’aveva abbracciata né rassicurata. Era stata dura ed egoista. Aveva pensato solo a se stessa, non considerando i sentimenti della sua unica figlia: la figlia che le era stata affidata e a cui aveva promesso il suo amore più vero. Sperava che sarebbe tornata. Le avrebbe dovuto chiedere scusa per la reazione avventata. Si augurava che l’avrebbe perdonata. Non poteva perdere la sua unica figlia. Qualcuno bussò alla porta del bagno interrompendo le sue elucubrazioni mentali. Suo marito stava varcando la soglia della stanza, titubante ed incerto su come poter iniziare il discorso con la moglie. La vedeva ancora scossa ed agitata. Capiva che stesse affrontando una discussione mentale tutta sua, e provava sentimenti contrastanti: anche lui non era felice della notizia, né sapeva che avesse cominciato ad avere rapporti sessuali, e non capiva come quel Marco Bergamaschi, fosse diventato così speciale da meritarsi le attenzioni della figlia.

“Ti ricordi quando Sabrina, al suo compleanno, non è venuta alla nostra cena ed è rincasata il giorno dopo?” chiese interrompendo il silenzio pesante e pungente, che si era creato fra di loro.

“Come potrei dimenticare una cosa del genere? Sono morta di spavento! E’ lì che sono comparsi i miei primi capelli bianchi, seguiti dalle rughe.” Rispose la donna, agitandosi al ricordo, ancora vivido in lei.

“Ricordi che qualcuno ci ha detto di averla vista ubriaca, al parco, quella notte?” Non c’era bisogno di inserire il soggetto, era chiaro che si riferisse a Sabrina.

Chiara fissò il marito aggrottando le sopracciglia, non capendone il nesso: “Che cosa stai cercando di dirmi, Fede?”

Chiara non li staccò gli occhi di dosso, e spalancò la bocca sorpresa: “Dici che quella sera aveva scoperto di essere incinta ed era disperata?”

 Federico scosse la testa in segno di diniego: “No. Lei era venuta nel mio ufficio, ha alluso la segretaria ed è entrata nel mio studio, trovandomi avvinghiato ad un’altra donna.”

Chiara era allibita. Suo marito era stato talmente stupito da portare altre persone nel suo studio privato.

“Quante volte ti ho detto di cercarti un posto appartato? Nessuno deve sospettare nulla. Noi siamo una coppia rispettabile e monogama, all’apparenza. Neanche nostra figlia doveva essere al corrente del nostro accordo.”

“Sabrina non sa dell’accordo. Mi odia perché quello che ha visto è stato il tradimento nei tuoi confronti. Non sa che fra noi, le cose sono andate male per via del mio problema di fertilità. Non sa che in realtà, non è figlia nostra!”

“Smettila di urlare, Federico! Non avremo messo al mondo Sabrina, ma questo non ci esula dal dovere di essere genitori. In cuor mio, l’ho sempre voluta e l’ho sempre vista come mia. Abbiamo lottato per averla.”

“Tu hai lottato. Tu l’hai voluta. Non hai pensato a me. Non hai pensato al mio dolore nel non poterti dare un figlio tutto nostro. Sabrina non è nostra figlia e mai lo sarà.” Disse tremante dalla rabbia, dal rancore e con uno squarcio all’altezza del petto. Aveva taciuto per più di quattordici anni il dolore, l’angoscia e la rabbia. Lui non poteva donarle una famiglia e questo l’aveva dilaniato, non importava che avessero usato un escamotage, lui non si sentiva un vero uomo. Era un’incapace. Un uomo a metà.

“Credo che sarebbe meglio separarci. Credo che sia meglio per noi e Sabrina, chiedere il divorzio.” Proruppe esagitato e ancora scosso dalle parole che erano scappate senza remore dalla bocca.

Chiara lo guardo frustrata e con gli occhi pieni di lacrime, balbettò ansante, dopo averlo schiaffeggiato in pieno viso: “No, non è la scelta migliore. Noi dobbiamo affrontare le nostre paure e le nostre ansie. Dobbiamo stare insieme per il bene di nostra figlia, che tu lo voglia o no. Faremo ciò che ho deciso. Nostra figlia ha bisogno di noi, insieme!” Riscoprì una forza nuova, e una testardaggine taciuta in tutti quegli anni. Lei aveva lottato per una famiglia e adesso avrebbe combattuto per farla tornare unita.








 

Oo_oO
 

Buongiorno a tutti, e grazie di essere arrivati fino a qui.
Mi piacerebbe conoscere una vostra opinione.
Tengo molto a questa storia e vorrei sapere se:
A. Vi piace
B. Vi trasmette qualcosa
C. La trovate scritta bene
D. Vi incuriosisce

Grazie per il vostro tempo..
alla prossima.


 





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