A volte non te lo aspetti, ma...

di HeartSoul97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un non troppo normale martedì ***
Capitolo 2: *** Ricevo una lettera misteriosa ***
Capitolo 3: *** Aiuto...! ***
Capitolo 4: *** La porta della memoria ***
Capitolo 5: *** Fiore di liquirizia ***
Capitolo 6: *** Capitombolo ***
Capitolo 7: *** Profumo ***
Capitolo 8: *** Il concerto ***
Capitolo 9: *** Nido di vespe ***
Capitolo 10: *** Tango e tremori ***
Capitolo 11: *** Sindrome di Stoccolma ***
Capitolo 12: *** Ripetizioni ***
Capitolo 13: *** Nella testa di un altro ***
Capitolo 14: *** Camden Town ***
Capitolo 15: *** La festa ***
Capitolo 16: *** A penny for your thoughts ***
Capitolo 17: *** The Way it Was ***
Capitolo 18: *** Calamite e fiori nella neve ***
Capitolo 19: *** Schizophrenic playboy ***
Capitolo 20: *** Il primo giorno d'estate - epilogo ***



Capitolo 1
*** Un non troppo normale martedì ***


                                                      A volte non te lo aspetti, ma...


***Premessa***

Non ho idea di come funzioni esattamente il sistema scolastico inglese, ergo lo farò funzionare come quello italiano.

 
1. Un non troppo normale martedì
                                                                                                                                                                                                                             Butterfly grown in the smoky haze
                                                                                                                                                                                will learn to sing it in a bitter phrase. 

   
Quando mi sveglio, sento subito che qualcosa non va. La luce. C’è troppa luce. Guardo immediatamente l’orologio. Dieci minuti alle otto, ovvero esattamente venticinque minuti al suono della campanella.
«Merda» impreco, correndo verso il bagno.
In meno di dieci minuti mi sono data un’aggiustatina e mi sono vestita. Prendo lo zaino, infilo la porta ed esco: non ho tempo né per la colazione né per controllare se ho preso tutto, come faccio ogni mattina. Anzi, se corro forse riesco anche a non arrivare in ritardo.
Purtroppo oggi il destino ce l’ha con me, e arrivo con ben dieci minuti di ritardo, beccandomi anche un’occhiataccia della White. Non oso pensare cosa stiano pensando i miei compagni: arrivo trafelata, affannata per la corsa e, probabilmente, anche sudata. Mi dirigo a testa bassa verso il mio banco, mentre la White riprende l’appello bruscamente interrotto dal mio arrivo.
«Che ti è successo, Alex?» mi chiede Momo, che siede vicino a me. Lei è la mia migliore amica. Ci conosciamo da quando avevamo sei anni, e non riuscirei mai a separarmi da lei.
«Storia lunga, con sveglia rotta e genitori menefreghisti inclusi» borbotto in risposta. Certo che mamma e papà potevano pure avvertirmi!
Le prime due ore sono un supplizio, fare storia con quella donna è più noioso di guardare di continuo un criceto che gira sulla ruota. Hai già le ragnatele sulla faccia alla fine della prima ora. La White ha una parlata monotona, continua, come una pentola sul fuoco, ma le sue corde vocali possono produrre un acuto spaventoso se vede un alunno disattento, o che si sgranchisce le dita quando la penna incespica sul foglio per prendere appunti.
Anche l’ora dopo, di inglese, non è proprio il massimo. Il prof Richardson è anche una persona divertente, ma resta il fatto che è un professore. Ci dà sempre molti libri da leggere, compito che svolgo con piacere. Richardson è spaventoso solo quando si arrabbia o entra in classe già arrabbiato. Oggi è uno di quei giorni, a quanto pare, perché ha il volto paonazzo e le sopracciglia aggrottate, e la vena sulla tempia gli pulsa in una maniera che si vede perfino dall’ultimo banco. Saranno stati quelli della C a farlo arrabbiare? Chi lo sa, di solito è colpa loro. Sta di fatto che il prof è intrattabile e irascibile per tutta l’ora.
Veniamo avvolti dalla ricreazione con sollievo. Mark e Jessica, i gemelli, stanno ringraziando il Signore di avergli risparmiato l’interrogazione di Richardson. Passo i miei dieci minuti di libertà insieme a Momo, parliamo di quello che faremo a pomeriggio, oltre ai compiti. Io non ho programmi particolari; la mia amica deve andare a fare la sua amata acquagym. È il suo sport preferito.
Quando suona la campanella, comincio a tremare di paura per quello che dovrò fare. 
Ginnastica. La materia che odio di più in assoluto, per tre motivi: uno, Miss Fischietto, come la chiamo io, è in assoluto la prof più rompiscatole del mondo che ci fa fare esercizi assurdi; due, sono dannatamente goffa; tre, condividiamo la palestra con la classe del mio più acerrimo nemico, nonché vicino di casa.
«Ehi, Watson, abbiamo scordato la sveglia stamattina?» Parli del diavolo, spuntano le corna. A parlare è stato proprio lui: Jake O’Brian, il rubacuori più popolare della scuola, nonché mio peggior nemico da quando lo conobbi, in terza elementare. Avevo quasi otto anni, eravamo nella stessa classe, e lui ogni giorno si mangiava la mia merendina e metteva le lucertole nel mio astuccio. Un incubo. E poi si è anche trasferito nell’appartamento accanto al mio. Doppio incubo.
Di madre italiana e padre irlandese, è un ragazzo la cui bellezza è direttamente proporzionale al suo essere stronzo. Alto un metro e ottantacinque, dal fisico asciutto e scolpito, capelli nerissimi e volontariamente spettinati ad incorniciare un volto regolare dalla carnagione un po’ scura, sul quale due occhi azzurri splendono come diamanti in una caverna.
Gli scocco un’occhiata irritata, ma visto che non mi viene in mente niente da rispondergli, lo ignoro e me ne vado negli spogliatoi.
Con la coda dell’occhio noto che le ragazze della mia classe entrano negli spogliatoi praticamente camminando all’indietro. Ma dico, un po’ di contegno. Non siate così palesi, nel mangiarvelo con gli occhi.
Sospiro, maledicendo la mia precisione nell’aver messo la tuta nello zaino ieri sera. La odio. La odio perché mi sento impacciata e più goffa del solito. E perché mette in evidenza la ciccia così abilmente nascosta dai jeans. E i fianchi troppo larghi. Mi odio.
Dopo aver messo quell’affare, vado da Miss Fischietto. Vuole che facciamo una corsetta, e poi saltelli. Ma che cavolo, solo noi dobbiamo sembrare dei perfetti idioti mentre facciamo ginnastica?
«Sopporta, Alex!» mi dice Momo, comprensiva, sentendo il mio sonoro sbuffo.
Momo è una ragazza davvero bella. È alta e magra, ha i capelli biondo miele e gli occhi nocciola. La invidio da morire, eppure le voglio un bene infinito. I ragazzi fanno la fila per uscire con lei, ma lei se ne frega. Davvero non la capisco. Al posto suo, io ringrazierei gli dei tutti i giorni.
Guardo con odio le mie compagne che hanno avuto la brillante idea di giustificarsi. Ovviamente non si sono giustificate perché non possono fare ginnastica (cosa che oltretutto non ha mai fatto nessuno) ma per guardare quello sbruffone mentre gioca a basket. Sì, okay, è un bel ragazzo, e ci tende pure a evidenziarlo, con quella maglietta aderentissima, ma sotto la bella faccia c’è un gran pezzo di merda.
Proprio mentre sto rimuginando, vedo un pallone da basket arrivarmi addosso, e faccio appena in tempo a proteggere i miei preziosi occhiali che ricevo una botta incredibile ai polsi.
«Ops, scusa Watson, non ti avevo visto!» dice qualcuno, accompagnando la frase con una sonora risata di scherno.
Incasso il colpo e faccio finta di niente. In realtà mi sto incavolando parecchio. Ma tanto che ci posso fare? Sfigati si nasce, e io lo sono nata. È una cosa che non posso cambiare.
Per tutta la lezione di ginnastica, cioè due ore, mi piovono addosso palloni di ogni sorta. Il mio sopportometro è al limite. Per chi non lo sapesse, il sopportometro è il mio misuratore di sopportazione: quando è al limite, come adesso, siamo vicini alla fase di esplosione.
Stiamo tornando negli spogliatoi, è finita l’ora. Mi tocca ingoiare quel rospo amaro che sono le ultime frecciatine di quel cretino. Il sopportometro sale… e ancora… e ancora.
DLING! Il sopportometro è pieno! Ringraziamo che è l’ultima ora.
Mentre usciamo da scuola, qualcuno mi da uno spintone – e sono pronta a scommettere che non è stato casuale.
«Hai finito di rompere il cazzo alla gente, razza di cafone di merda che non sei altro?!» sono in modalità Esplosione, è sempre così, divento l’apoteosi dello scaricatore di porto.
«Whoa, Watson. Certo che sei energica, per essere una tappetta» dice Jake, ghignando.
«Hai altro fiato da sprecare, o posso avere la grazia di tornarmene a casa?»
«Grazia? Non mi pare che tu ne abbia» risponde, con quell’odioso sorrisetto sghembo.
Ha per caso degli istinti suicidi? Perché oggi non lo so se ci torna vivo, a casa sua!
«Allora vuoi proprio morire, eh?» gli dico, aggressiva.
«Chissà, forse sì» dice, continuando a ridere. Ma si è bevuto il cervello?
Momo, perché abiti dall’altra parte della città? mi chiedo, implorando mentalmente l’aiuto della mia amica.
Mi avvio verso casa con lui appresso, insolente.
«Perché mi segui?» gli chiedo.
«Ti devo ricordare anche che abitiamo nello stesso palazzo, Watson? Stai messa parecchio male, per avere diciassette anni!»
Toglietemelo da torno, o faccio una pazzia!
«Se chiudessi quella boccaccia che ti ritrovi…»
«Tu la chiami boccaccia, ma sono davvero poche le ragazze che la disdegnano»
«Non mi interessano i particolari della tua vita sentimentale»
«E scommetto che anche a te piacerebbe…»
«Non dire cose disgustose come questa, Jake. Non ti bacerei neppure se fossi l’ultimo uomo rimasto su questa Terra. Preferisco l’estinzione».
«Così mi offendi»
«Era quella l’idea».
Mi guarda mettendo il broncio e poi fa gli occhi da cucciolo.
«Non ci casco, cretino» sibilo. Conosco fin troppo bene quell’espressione, che convince tutte le ragazze della scuola a perdonarlo per qualsiasi cosa.
«Ma che palle» sbuffa, cambiando espressione, «sei l’unica che non ci casca. Tutte le altre ci cascano, quando faccio così»
«Povere idiote. Non si accorgono neppure quando fingi» commento.
«Ma così è più divertente» dice, ritirando fuori quel sorrisetto sghembo che adesso sembra più un ghigno dispettoso. Per tutto il resto della strada continuiamo a battibeccare in questo modo, anche se ogni tanto rimaniamo zitti a fissarci in cagnesco.
«Perché ogni giorno che passa diventi più idiota?» gli chiedo, mentre giungiamo al nostro palazzo.
Entriamo nell’atrio.
«Non sono stupido, so benissimo che sei pazza di me»
«Bella battuta, ma preferirei giocare a mosca cieca in autostrada piuttosto che innamorarmi di te» dico chiamando l’ascensore.
«Ehi, vacci piano. Non mi pare di fare così schifo…»
«È quello che ogni maschio pensa di se stesso». Entriamo in ascensore e pigio il pulsante del terzo piano.
«A giudicare dagli sguardi delle tue compagne di classe, non direi di avere torto».
Siamo sul pianerottolo. Prendo le chiavi di casa dal mio zaino e lui tira fuori le sue dalla tasca della giacca.
«Jake, ti rendi conto che questo discorso non ha né capo né coda?»
«E allora? È divertente parlare con…» fa una pausa, «con gli sfigati».
«Vaffanculo, Jake O’Brian» sibilo entrando dentro casa mia e sbattendo la porta.
È più forte di me, non riesco ad andare d’accordo con lui. E poi, onestamente, se sono io stessa a chiamarmi “sfigata”, mi va bene, ma che me lo dice questo cafone non mi va per niente giù!
In cucina trovo un biglietto di scuse della mamma per non avermi svegliato stamattina. E mi raccomanda di mangiare bene e a pomeriggio di passare in libreria a comprare un libro per il compleanno di papà, i soldi me li aveva lasciati lei. Vorrà dire che passerò in libreria, una passeggiata non fa male a nessuno. Specie se si è in una giornata come questa, che vela tutto il paesaggio di una malinconia sottile. Forse è per questo che amo Febbraio.
Dopo aver pranzato più o meno con quel che ho trovato, tiro fuori la mole di compiti che mi tocca fare. Mannaggia ai professori, hanno rinnovato quell’antico e sadico piacere che provano nell’affibbiarci continuamente roba da fare. Specialmente Matematica e Inglese, non fanno che caricarci. Pazienza, dopotutto studiare è il sacrosanto dovere di ogni bravo studente.
Ma nonostante ciò, riesco a finire i compiti abbastanza presto da leggermi almeno un altro capitolo del mio libro preferito del momento, ovvero Il grande Gatsby.
Esco poco dopo le quattro. La libreria si trova sulla Harley Street, a un tiro di schioppo da casa mia, sulla Devonshire Street.
Mi è sempre piaciuto passeggiare per la città. Vedere gli autobus passare per le strade, le persone che camminano frettolose, tristi, contente, sovrappensiero. Per me è un piacere unico. È per questo che prendo poco l’autobus, altrimenti non potrei notare tutte queste cose.
Chissà perché mentre cammino sento una sorta di pizzicorino sulla nuca, come se qualcuno mi stesse osservando, o addirittura seguendo.
La Mary’s Bookshop è un po’ piccola. Mentre apro la porta, lo squillo allegro di un campanello avvisa della mia presenza.
Io e Mary, la proprietaria, ci conosciamo da molto tempo. È un’amica di mia zia Sophie, che quando ero piccola mi portava spesso qui. Poi mi faceva scegliere un libro e me lo comprava. È morta l’anno scorso in un incidente.
«Ciao, Alex! Come stai? È da tanto che non ci vediamo!». Mary mi saluta raggiante. È una donna sulla quarantina, ma ancora molto bella. Sebbene qualche filo grigio cominci già a striare i folti capelli biondi, e qualche ruga sia apparsa sulla sua fronte, gli occhi sono rimasti gli stessi, azzurri e luminosi come dieci anni fa.
«Sto bene, Mary. Se ci dessero meno compiti, mi farei vedere più spesso!». Non voglio lamentarmi, ma è l’unica spiegazione che le posso dare.
«Oh, bambina, non è possibile che vi carichino come muli. Non è giusto». Si aggiusta gli occhiali sul naso.
«Questo è il dovere dello studente, Mary» le dico, rifilandole la stessa cosa che mi sono detta prima.
«Comunque, a parte la scuola, a casa tutto bene? Mamma e papà?»
«Stanno bene, benissimo. A proposito di papà, stavo cercando un libro per lui, tra un po’  è il suo compleanno».
Mary mi sorride e mi guida attraverso gli scaffali.
«Abbiamo ricevuto questo libro circa una settimana fa, ha ricevuto parecchie lodi da parte della critica» dice, mostrandomi un volume piuttosto massiccio.
«Joyland, di Stephen King». Leggo la trama. Sembra interessante. E poi a papà piacciono i libri di Stephen King.
«Va bene, lo prendo. Me lo impacchetti?».
Aspetto che fa il pacco, pago e infilo il libro nel mio solito e coloratissimo borsone extra-large. È estremamente utile, specie se devi nascondere un regalo.
In verità vado un po’ di fretta, e non solo perché devo tornare a casa entro le sei. Voglio andare a trovare una persona.
Prendo il primo autobus che mi porta in Bulstrode Street, poi proseguo a piedi fino al posto che mi interessa. È un garage, ma prima che riesco a raggiungerlo scivolo sul ghiaccio del marciapiede e do una sonora botta sul fondoschiena. Bene, che bella giornata.
Mi rialzo dolorante massaggiandomi l’osso sacro. L’importante è che nessuno mi abbia vista, cadere sul ghiaccio è proprio da sfigati… oh, aspetta, io sono una sfigata. Quasi mi viene da ridere. Anche se la strana sensazione che qualcuno mi stia seguendo non è del tutto svanita, visto che sento ancora la nuca che pizzica.
Dal garage non proviene alcun rumore. Spero di non essere arrivata tardi, aver fatto tanta strada per niente…
Mi affaccio alla porta, e vedo i ragazzi che stanno riponendo gli strumenti. Il bassista fa caso a me, e fa un cenno al chitarrista. Il ragazzo si gira e mi sorride.
Vi starete chiedendo chi sia. Non è mio fratello e neanche il mio ragazzo (figuriamoci!). È Sean, un amico.
«Alex! Ma dai! Pensavo ti avessero rapita gli alieni. Sono due settimane che non ti fai viva!». Continua a sorridermi e mi invita a entrare. Gli altri ragazzi gli danno pacche sulle spalle mentre si avviano verso le proprie abitazioni. 
Sean ha una band, e fin dalla quarta elementare il suo sogno era di diventare un famoso chitarrista, come Jimi Hendrix, Slash o Kurt Cobain. Suona la chitarra, ma non sa cantare molto bene. O meglio, questo è quello che dice di sé: in realtà ha una voce splendida.
«Non mi ha rapita nessuno, Sean. Come vedi sono viva e vegeta, magari solo un po’ stanca» sorrido anch’io. Mi fa molto piacere venire a trovarlo, peccato che posso venire qui solo poche volte.
Il ragazzo rimette la chitarra nella sua custodia. È una Gibson Les Paul in mogano. I suoi genitori gliela hanno regalata per il suo quattordicesimo compleanno; quel giorno era talmente felice che sembrava niente potesse abbatterlo, finché non gli ho detto che avevo scelto una scuola superiore diversa dalla sua. Dopo aver fatto elementari e medie insieme, l’inseparabile trio (io, Sean e Momo) si era sciolto per metà, ma io e Momo siamo rimaste in contatto con lui.
Sean si mette il giubbotto e si calca un cappello sui capelli marroni un po’ lunghi. I suoi occhi sono rimasti gli stessi da quel lontano giorno di seconda elementare quando abbiamo cominciato a giocare insieme, di quel castano scuro che gli conferiva un’aria incredibilmente dolce.
Quando usciamo dal garage, chiude la serranda e ricominciamo a parlare.
«Allora, Alex, come stai?»
«Non c’è male. Piuttosto, come stai te. E io ho provato anche a contattarti via SMS, qualche volta, ma non mi hai mai risposto»
«Come, non ti ho mai risposto? I tuoi messaggi non mi sono mai arrivati! Mi chiedo perché… ah, già, ho cambiato numero, probabilmente mi sono dimenticato di dirtelo. E comunque va tutto bene, i ragazzi sono sempre in gran forma».
«Ah, ti conosco da dieci anni e ti sei dimenticato di dirmi una cosa del genere? Mi fa piacere!» gli dico scherzando. Ci stiamo avviando verso casa sua, riconosco la strada. Controllo l’ora, sono quasi le cinque e mezza. Dovrei farcela, a tornare a casa in tempo.
«Dai, mi è passato di mente…».
Poi faccio la fatidica domanda, una domanda che faccio più per cortesia che per vero interesse.
«E Ingrid come sta?»
«Mi ha lasciato». Rimango spiazzata da questa risposta.
«Ah. Mi dispiace» farfuglio, anche se non è proprio vero.
«Dici? A me no. Era chiaro che le cose non funzionavano. È stato meglio così, non la sopportavo più» dice, e poi si mette a ridere. Che strano ragazzo.
Continuiamo a parlare del più e del meno per un bel po’. Sean mi aggiorna su tutte le novità riguardo alla sua band, i Radioactive Flame.
«Vieni al concerto, sabato?» mi chiede, quando siamo davanti a casa sua.
«Fai il concerto? Fantastico! Dove lo fate? Devo chiedere a mamma il permesso, però…»
«Be’, non è proprio un concerto. Diciamo che siamo al posto di un’altra band che non può venire, perciò facciamo da intrattenimento per il pubblico. Ci esibiamo al pub sulla Crawford Street, il Black Moon. E se i tuoi non ti danno il permesso, ci parlo io con Susan e Dave» e mi fa l’occhiolino. «In ogni caso è la prima volta che suoniamo in pubblico, perciò abbiamo provato delle canzoni davvero fantastiche, qualcuna di qualche band famosa e ne abbiamo un paio scritte da noi. Non vedo l’ora. E porta anche Momo. Adesso ti do il mio numero, così stasera mi invii un messaggio e mi dici se potete venire».
Ci scambiamo di nuovo i numeri di telefono, poi devo salutarlo di corsa perché rischio di perdere l’autobus. È sempre bello scambiare quattro chiacchiere con Sean. Mi ha fatto dimenticare tutto quello che è successo durante la giornata. Rifletto su queste cose mentre mi avvio verso la fermata dell’autobus più vicina.
Il problema sorge quando arrivo davanti al portone di casa mia e mi accorgo che sono quasi le sei e un quarto. Ci ho messo più tempo del previsto, mamma e papà saranno sicuramente infuriati.
La fortuna non è dalla mia parte, visto che mentre aspetto l’ascensore arriva anche il mio amabile vicino di casa. Bella compagnia.
«Che fai, Watson, rientri anche tardi? Come sei trasgressiva, oggi» comincia di nuovo a prendermi in giro.
Mantengo la calma solo perché mi ripeto di continuo che tutti i nodi vengono al pettine, prima o poi.
«Anche tu sei in ritardo, in fin dei conti. Angela sarà preoccupata» ghigno. Sto giocando la sua stessa carta.
«A differenza tua, io posso rientrare quando voglio»
«E allora perché stavi correndo?». È vero. È entrato nell’androne trafelato, come se avesse fatto una lunga corsa. Fregato.
Quando arriviamo sul pianerottolo, prendiamo le nostre chiavi insieme, un po’ come stamattina. E, incastrata sotto la fessura della porta, trovo una lettera imbustata. Non c’è nome, solo il mio indirizzo. Chissà di chi è?
«Be’… ‘notte» dico, aprendo la porta e infilando in tasca la lettera. Mentre entro, prima di chiudere la porta, sento quel cretino declamare:
«“Buonanotte, buonanotte! Lasciarti è dolore così dolce che direi buonanotte fino a giorno!”».
Pure Shakespeare mi citava!
 
 
 
***
Angolino autrice
Ciao a tutti! Sono tornata (tremate, gente!).
Prima di tutto, ringrazio tutti coloro che hanno avuto il fegato di arrivare fin quaggiù. Davvero, non ho mai incontrato gente più coraggiosa di voi. E ringrazio anticipatamente chiunque lascerà un commento, negativo o positivo che sia. Servono a dare sempre il meglio.
È la mia seconda storia a più capitoli, e la prima a tema del tutto romantico. Perciò, necessito di aiuto! E voi potete aiutarmi. Siate interattivi. Vi chiedo umilmente di darmi consigli su cosa potrebbe avvenire, su un qualche nome, sull’aspetto della nostra protagonista (più o meno ho già un’idea, ma potrei cambiarla), su una giornata o un evento. Vi sarò immensamente riconoscente.
Tra parentesi, nella mia città esiste un pub che si chiama La Luna Nera, quindi l’idea per il nome del locale l’ho presa da lì.
Le frasi che troverete all’inizio di ogni capitolo, quelle scritte in corsivo, sono un po’ particolari. Alcune le ho scritte da me, inventate sul momento, altre invece sono i titoli dei capitoli di un manga che ho a casa. Non so se devo mettere il copyright o che altro. Comunque, pazienza.
E lo ammetto: per i primi capitoli andrò un po’ a tentoni. L’idea ce l’ho, però è difficile… argh!
Smetto di scocciare e mi preparo al lancio dei pomodori.
Alla prossima e spero di non avervi ripugnato,
Heart

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Capitolo 2
*** Ricevo una lettera misteriosa ***


2. Ricevo una lettera misteriosa
                                                                                                                                                                                                                                                   È colpa della farfalla
                                                                                                                                                                                                   se attira il predatore?

Appena chiudo la porta, so di essere nei guai.
«ALEXANDRA RACHEL HEATHER SCARLETT WATSON!»
Oh-oh. Quando mia madre dice il mio nome per intero, sono guai. Mi stampo sulla faccia l’espressione più contrita che riesco a fare e mi presento in cucina.
Mamma è in piedi davanti al tavolo, con le mani sui fianchi e il grembiule sporco di sugo. Papà è seduto, e sembra arrabbiato, ma sotto gli occhialetti tondi alla John Lennon noto un’espressione divertita.
«Scusa, mamma, ma l’autobus ha fatto tardi…»  
«Niente scuse, ragazza! Non mi interessa quello che hai da dire!».
A questo punto gioco la mia carta.
«Volevo andare a trovare Sean, così ho fatto un po’ tardi…».
Lo sguardo di mamma si addolcisce. Lei adora quel ragazzo.
«Ah, è così? Allora va bene. Solo, la prossima volta fa’ uno squillo, okay?» e mi guarda con aria furbetta. È dalla seconda media che è convinta che Sean sia il mio ragazzo, o che quantomeno sia innamorato di me. È una delle tante cose impossibili che mia madre è in grado di pensare, come per esempio che io sia bellissima, che tutti mi amino e che il mio vicino sia una persona davvero amabile.
Poso la borsa in camera mia e mi metto a mangiare con aria colpevole. Mentre papà sorseggia il suo porridge, non fa altro che ridacchiare. Ad un certo punto ha proprio bisogno di andare via dalla cucina, cercando di trattenere le risate.
«Ma che ha?» chiedo a mamma.
«Ah, non ne ho idea. Vallo a capire, tuo padre!» mi risponde scontrosa, e inizia a sparecchiare. È il momento per chiedere del concerto.
«Va bene se sabato vado al Black Moon? Sai, Sean fa il concerto…». Mamma storce il naso, ma appena sente la parola “Sean” sorride.
«Ma certo, cara. Vai pure e divertiti!».
È così facile convincere mia madre…
Corro in camera e telefono a Momo.
«Ehi»
«Ciao. Novità?» chiedo.
«No, solo che sono stanca morta»
«Ah. Che fai?»
«La teenager». La sua risposta mi fa ridere. Quando dice così vuol dire che sta sdraiata sul suo letto a pancia in giù, con i piedi per aria. La chiama “posa da teenager” perché in tutti i film americani le ragazze si mettono in quella posizione per stare al telefono.
«Bene. Io ho qualche novità da raccontare. Sono andata a trovare Sean, oggi, e…»
«Ah, e così vai a trovare Sean senza dirmi niente? Brava! Non è che è il tuo ragazzo e non me lo vuoi dire?»
«Ma no, che stai dicendo? Figurati! Non te l’ho detto perché è stata una decisione improvvisa. Sai, dovevo andare in libreria e ho colto l’occasione».
«Uhm… vabbè. Quindi cosa ti ha detto Sean?»
«Che sabato fa il concerto al Black Moon, e ci ha chiesto se vogliamo andare anche noi»
«Chi fa il concerto?»
«Sean e la sua band, scema!»
«Davvero? Allora okay. Gli invio un messaggio…»
«Non ti scomodare, ha cambiato numero».
«Ah, allora glielo invii tu?»
«Sì». Poi, con la coda dell’occhio, mi ricordo della lettera infilata sotto la porta, che adesso è sulla mia scrivania.
«Ho ricevuto una lettera misteriosa»
«In che senso, misteriosa?»
«Che non c’è scritto chi è il mittente, ma solo il destinatario»
«Che c’è scritto?»
«Non lo so, non l’ho ancora aperta»
«Bene, allora non farlo. Portala a scuola domani, così la leggo anch’io».
«Quanto sei curiosa! Va bene, ‘notte»
«’Notte».
Sento il click della chiamata che viene chiusa. Non faccio in tempo nemmeno a scrivere il messaggio che è Sean a telefonarmi.
«Ehi»
«Oh, ciao. Non mi aspettavo che mi telefonassi» gli dico, sinceramente sorpresa.
«Be’, devo dirti una cosa. Hai presente il concerto?»
«Sì, ne ho parlato con Momo un minuto fa…»
«Bene, adesso dimenticalo. Concerto annullato».
Sgrano gli occhi.
«Cosa? E perché?»
«Due imprevisti: uno, la band che non poteva suonare adesso può suonare. Due, Matt, il bassista, si è schiacciato la mano nella portiera della macchina e si è semi fratturato due dita. Per un po’ non potrà suonare»
«Oh. Mi dispiace»
«Il proprietario del locale però ci ha detto che quando c’è bisogno chiamerà noi. Non ci spero molto… scommetto che l’ha detto per cortesia. E noi che abbiamo provato con così tanto impegno…»
«Dai, non dire così. Ci sarà un’altra occasione…»
«Speriamo. Piuttosto, sabato non c’è il concerto, non ho le prove… che si fa? Usciamo tutti insieme, come ai vecchi tempi?»
«Sì! Che bella idea. Che giorno è sabato?»
«È 14».
Oddio. 14 Febbraio. Il giorno che odio di più in assoluto. Perché? Perché è San Valentino Mentecatto!
Però adesso che ci penso ogni 14 Febbraio io, Sean e Momo ce ne andiamo in giro tutti insieme. Solo l’anno scorso c’eravamo solo io e Momo, perché Sean era con Ingrid.
«Allora onoriamo il nostro status di single con un’uscita di gruppo?» gli dico scherzosa.
«Come sempre!» Poi aggiunge: «Okay, io vado. Buonanotte, Alex».
«’Notte, Sean».
E stavolta vado a dormire anch’io, ma non prima di aver preparato lo zaino, aver dato un’ultima occhiata alla lettera e aver inviato a Momo un messaggio.
Concerto annullato. Domani ti spiego.
Sono molto breve, con i messaggi.
 
Quando mi sveglio fuori è ancora buio. L’orologio mi avverte che sono le cinque del mattino.
Ho dormito malissimo, ed è tutta colpa di quel cretino patentato del mio vicino. Semplicemente, ho sognato (era un incubo, badate bene) di innamorarmi di lui, ed è stato semplicemente disgustoso.
Com’è che si dice? Che i sogni sono i nostri più grandi desideri o le nostre maggiori paure.
Quindi, secondo questa teoria, io desidero innamorarmi di lui?
Io, innamorarmi di quel bastardo senza cuore che non fa che giocare con i sentimenti delle persone che ha accanto? Neanche fra un milione di anni. Sicuramente è qualcosa che temo con tutto il mio cuore.
Per ripetere quello che ho detto a Jake proprio ieri, preferirei giocare a mosca cieca in autostrada, piuttosto che innamorarmi di lui.
Sta di fatto che ormai non posso più dormire, quindi accendo la lampadina e mi metto a leggere. Leggo finché l’orologio non segna le sei e mezza. Ho finito Il grande Gatsby.
Mi trascino verso la doccia, sto cinque minuti sotto il getto gelato (non c’è niente di meglio di una doccia fredda per svegliarsi), mi vesto, mi asciugo i capelli e vado a fare colazione. A quanto pare mamma e papà si sono svegliati presto, perché il profumo di bacon e uova appena cotti mi fa brontolare lo stomaco.
Mangio con tutta la calma del mondo, mi lavo i denti e esco di casa. Sono le 7.30 precise.
Alle 8.05 sono davanti scuola, calma fuori ma ancora sconvolta per l’incubo. Incubo che sembra ancora più vivo quando il mio amabile vicino di casa entra dal cancello della scuola neanche dopo cinque minuti che sono arrivata io.
Non ho tempo di rimuginare, perché un tornado biondo miele mi si scaraventa addosso.
«Aaaaaalex!»  
«Ciao anche a te»
«Perché concerto annullato? E la lettera? Non l’hai aperta, vero?» e continua così per altri cinque minuti.
«Calma. Il concerto è annullato perché il bassista si è fratturato due dita e la band che doveva essere sostituita ha detto che non c’era più bisogno. La lettera è nel mio zaino e no, ancora non l’ho aperta».
Momo mi guardò contrariata.
«Mi dispiace per il concerto, ma mi meraviglio della tua indifferenza a questa lettera. Voglio dire, qualcuno ti scrive una lettera, ma non dice il suo nome, e tu cosa fai? Niente, nemmeno la apri. Magari arrivassero a me!»
«Certo, come se non ti arrivassero una decina di lettere d’amore al giorno»
«Sì, ma quelle sono tutte firmate» mi dice, e mette su il broncio.
Io scoppio a ridere, mentre suona la campanella.
Prime tre ore: Biologia, Algebra e Informatica. Tre materie in cui me la cavo a stento (non ci capisco niente né di computer, né di biologia, né di matematica).
A ricreazione mi decido ad aprire la lettera, sotto insistenza di un’ impaziente Momo.
Alex,
ormai ho perso la testa per te. E il bello è che non so il motivo, visto che non ci siamo mai realmente parlati. Ma… non so… penso di non piacerti. Io però mi sono innamorato del tuo carattere assolutamente forte. Perché tu sei forte, Alex Watson. Anche se sembri fragile come una foglia secca.
Tutto qui. A seguire, uno scarabocchio che dovrebbe essere un’iniziale, ma non si capisce cosa sia di preciso, perché c’è una macchia di qualcosa che sembra acqua.
Momo mi guarda a bocca aperta.
«Alex, hai il colore di una melanzana»
La guardo con gli occhi sbarrati.
«Secondo te di chi è? L’iniziale sembra una J»
«A me pare più una L. In ogni caso, sono sicura che è uno scherzo» dico, ridacchiando nervosamente.
E poi dovrei offendermi. Che vuol dire, che sembro fragile?
Sto stringendo spasmodicamente il cartone del mio succo di frutta. Se non sto attenta, rischio di romperlo proprio e di sporcarmi tutti i vestiti. Allento la presa.
Ma è ovvio che non serve che allenti la presa, perché vedo Momo strabuzzare gli occhi e cadere verso di me, rovesciando il suo succo di frutta (nel bicchiere, Momo è molto pignola su queste cose) addosso a me.
Per un attimo vedo una tremolante chiazza arancione venirmi addosso, le mani non servono molto a ripararmi.
SPLASH!
Sono troppo sorpresa per parlare. Rimango a bocca aperta, come un pesce, mentre Momo si scusa.
«Oddio… mi dispiace… non l’ho fatto apposta, qualcuno mi ha spinta…» piagnucola.
«Lo so che non l’hai fatto apposta, non fa niente. Non fa niente» le dico, mentre tutti quelli che stanno in corridoio prima mi fissano, e poi scoppiano a ridere. Certo, se fosse successo a loro, anch’io avrei riso.
Anche la mia lettera è andata. Sembra quasi che pianga, mentre le parole gocciolano inchiostro mischiato a succo di albicocca.
Però in corridoio c’è qualcuno che ride ancora di più. Non ho bisogno di vederlo in faccia per sapere chi sia.
«TUUU!» mi avvento su O’Brian con il mio succo di pesca in mano, decisa a rovesciarlo addosso a quello sciagurato ragazzo. Però, neanche a dirlo, sono a due metri da lui quando scivolo e casco rovinosamente a terra, sbattendo esattamente là dove ho sbattuto ieri, quando sono scivolata sul ghiaccio. Ma la domanda è: come ho fatto a scivolare? Risposta: perché quelle cretine delle bidelle hanno dimenticato di mettere quel bel cartello giallo con su scritto “ATTENZIONE: PAVIMENTO BAGNATO”!
Adesso sì che si stanno sbellicando tutti. Mi rialzo dolorante e fuggo in bagno.
Momo mi segue, farfugliando scuse, ma non mi interessa. La colpa non è sua, è di quel deficiente.
Allo specchio, analizzo i danni. Ho i capelli bagnati di succo di albicocca, ma non è molto; per di più, avendo i capelli praticamente color carota, non si nota tanto quel poco che c’è.
La mia bella felpa verde è rovinata. Mamma darà di matto quando la vedrà: il succo di frutta non si smacchia facilmente.
I jeans stanno messi meglio, giusto qualche gocciolina. Alla fine, il grosso del danno è sulla felpa e sulla mia faccia.
Comincio a tamponarmi la faccia e la felpa con la carta asciuga mani, e penso alla figuraccia che ho fatto. Non tanto per il succo di frutta quanto per la caduta. Quella sì che mi brucia. Nel giro di mezza giornata lo saprà tutta la scuola. Pazienza, ci sono abituata, alle figuracce.
Quando torno in classe ridacchiano tutti, ma li ignoro e seguo le lezioni, come al solito. All’apparenza, i loro commenti per me valgono come i commenti di un critico culinario su un’opera d’arte. In altre parole, sono insignificanti. La verità è che vorrei che il pavimento si apra e mi faccia sprofondare sottoterra.
Specie vorrei evitare le frecciatine di Amber, quell’americana smorfiosa che si sente la migliore.
«Watson, hai i capelli sporchi di succo… oh, aspetta, è il tuo colore naturale!» e se ne va ridacchiando. Deve ringraziare che nella nostra classe io sono l’unica con i capelli rossi, o non l’avrebbe passata liscia.
Ma ovviamente la giornata non è ancora finita.
Quando suona l’ultima campanella saluto Momo e mi avvio verso la strada di casa, ma prima che me ne renda conto sono per terra. Non so neanche come, credo solo di aver sentito una spinta. Certo che ci si diverta proprio, a farmi cadere.
«Insomma, la vuoi finire? Hai proprio rotto il ca…» mi blocco all’improvviso. Perché quello che sto aggredendo da brava camionista non è quel cretino patentato. È un ragazzo biondo bello come il Sole, con gli occhi celesti come il cielo a primavera, che mi guarda un po’ spaesato.
 
 

 
***
Angolino autrice
Bentornati tutti, complimenti sinceri per essere arrivati qui.
Cominciamo a capire un po’ di cose (o forse no. Penso che il prossimo sarà migliore).
Adesso, ho bisogno di voi: Alex ha i capelli rossi, il mio dubbio è se “dipingerla” con gli occhi verdi o con gli occhi di un azzurro slavato, la tipica ragazza inglese. Il prossimo capitolo sarà ricco di colpi di scena, anche. Molti colpi di scena.
Un commento sarebbe cosa assai gradita, ma siete liberi di fare ciò che volete. Io non vi costringo a fare niente.
Grazie per l’attenzione
Heart

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Capitolo 3
*** Aiuto...! ***


3. Aiuto…!
                                                                                                                                                                                                                                     Anche con i suoi occhi composti,
                                                                                                                                                                                                                   non riesce a vedere se stessa.
 


Esistono ragazzi di cui dici “uh, che figo” e altri che non sono fighi, ma sono proprio belli. Nel vero senso della parola. E oggi ho avuto la (s)fortuna di incontrarne uno. Non che mi dispiaccia, solo che avrei voluto non averlo aggredito.
«Ah, scusami, non ce l’avevo con te. È solo che c’è una persona che mi fa cadere apposta…» farfuglio, cercando di scusarmi, mentre sento le guance incendiarsi.
«No, sono io che ti devo chiedere scusa. Sono inciampato e ti sono venuto addosso, mi dispiace» dice, con una voce meravigliosa e, devo ammettere, parecchio sexy. Il suo accento è marcato, non credo sia inglese.
Poi mi tende la mano.
«Comunque io sono Ludvig, Ludvig Ohlsson»
«Alex Watson, piacere».
Lui si illumina.
«Watson, come John Watson?».
Io mi illumino a mia volta come una lampadina. Di solito mi chiedono “Watson, come l’attrice?”. Io non ho niente contro Emma Watson, però è ovvio che mi paragonano a lei. Non è il massimo, visto che mi fa sentire uno schifo. E per una volta qualcuno mi accosta al fedele assistente di Sherlock Holmes.
«Sì» e cerco di sorridere. Non penso di esserci riuscita.
Anche lui mi sorride, e io mi sento sciogliere come neve al sole. Le mie gambe sono di gelatina. Il suo volto è di una bellezza devastante. Di sicuro non è inglese. Glielo chiedo.
«Non sei inglese, vero?»
«No, sono svedese. Mi sono trasferito da poco in Inghilterra».
«Ah. Quindi frequenterai questo liceo?»  dico, cercando di ridurre quel sorriso da ebete che mi sta spuntando in faccia.
«Sì. Magari è un po’ tardi, ma mi hanno accettato lo stesso. In ogni caso, piacere di averti conosciuta» mi dice, sorridendomi di nuovo.
«È stato un piacere per me» dico, e poi lo saluto, mentre prende una strada diversa dalla mia.
Mi sento un’idiota.
 
Per fortuna Jake non viene a importunarmi mentre torno a casa, quindi posso anche non farmi rovinare la giornata da lui. Ho tutto il tempo di pensare a un paio di meravigliosi occhi azzurri.
O meglio, anch’io ho gli occhi azzurri. E anche Jake. Ma non sono lo stesso tipo di azzurro. I miei sono slavati, abbastanza comuni in Inghilterra. Insomma, niente di speciale. Con i capelli rossi e gli occhi azzurri, sono lo stereotipo della ragazza inglese.
Gli occhi di Jake sono più “irlandesi”. Azzurri, ma tendenti al grigio. Belli ma minacciosi.
Quelli di Ludvig non sono neanche azzurri, sono proprio blu. Mozzafiato. Non credevo che potessero esistere occhi del genere. Voglio chiedergli se sono lenti a contatto.
Oddio, ma sono stupida! Mi sono dimenticata di chiedergli in che classe sarà. Sicuramente, data la mia fortuna, non nella mia. Pazienza, di sicuro lo vedrò in giro per i corridoi.
Arrivo a casa canticchiando. Cucino canticchiando. Faccio i compiti canticchiando. Preparo anche la cena canticchiando, e i miei sono parecchio stupiti del fatto che io mi stia dando da fare. Continuo a canticchiare anche mentre mamma mi striglia per il succo di frutta sulla felpa. Metto il mio CD preferito (West Rider Pauper Lunatic Asylum dei Kasabian) e canticchio mentre lo ascolto. Intanto, su un foglio di carta, disegno tanti cuoricini con una L dentro.
Sembro una dodicenne innamorata.
Quando me ne accorgo, smetto di canticchiare e straccio il foglio con inumana ferocia. Ma che diamine sto facendo?
E allora inizio l’auto-interrogatorio. Mi piace Ludvig? Certo che no. Non lo conosco. È stato il suo aspetto e il suo carisma che mi ha attratta. È affascinante, dopotutto. Ma no, non mi piace.
Non è che per caso è figlio di una Veela*?
Urge una chiacchierata con Momo.
 
Il giorno dopo, a scuola, allungo il collo per cercare Ludvig, ma non lo vedo da nessuna parte. Non me ne importa troppo, ma ci sono rimasta un po’ male. Ne parlo con Momo, a ricreazione.
«Sai che ieri sono caduta di nuovo?»
«Davvero?»
«Sì. Ma non è stato il Cretino a farmi cadere. Un tizio è inciampato e mi è venuto addosso».
«Ma dai! Che tipo era? Uno di scuola?»
«Non lo so. Cioè, dopo gliel’ho chiesto, e mi ha detto che si è appena trasferito. E non puoi capire com’è» dico, facendo la misteriosa. Stuzzicare la curiosità di Momo è troppo divertente.
«Chi era? Dai, dimmelo…»
«Se ti dicessi che era un ragazzo bello come il sole, riccio, biondo, occhi blu, fisico piuttosto atletico e voce sexy mi crederesti?»
«No» dice lei ridendo.
«Faresti meglio a farlo, perché è andata così»
Lei sgrana gli occhi.
«Ma dai, non è possibile. Sono cose da manga. Da libro. Non succedono per davvero».
«A me è successo. E se ti dicessi che ho passato il resto della giornata a canticchiare e ridacchiare da sola, mi crederesti?»
«Be’, è logico. L’avrei fatto anch’io. Insomma, come si chiama il tuo Apollo?». Scoppio a ridere. Solo Momo è in grado di dire cose del genere.
«Si chiama Ludvig Ohlsson, è svedese ed è davvero molto figo. Anzi, non è figo. È… indovina, te l’ho detta tante volte, la mia teoria».
«È bello?»
«Più di quanto immagini».
Abbiamo appena finito di parlare che sentiamo dei gridolini eccitati. Amber e le sue due scagnoche (scagnozze-oche) ci passano davanti ridacchiando.
«Avete visto il ragazzo nuovo? Caspita, che figo! E accanto a un figo, ci deve essere una bella ragazza…» poi, guardando nella nostra direzione, fa: «Sicuramente loro non sono comprese nel gruppo di “belle ragazze”» e ci guarda beffarda, cercando di capire l’effetto delle sue parole. Io reagisco con un’espressione annoiata.
Ma con mia grande sorpresa, è Momo a rispondere.
«Se per “bella ragazza” intendi “troia”, sono fiera di non far parte di quel gruppo». Poi si gira e se ne va, e io la seguo.
«Sei stata grande!» le dico, quando siamo fuori portata d’orecchio.
«Diciamo che mi ero rotta» risponde lei, facendo spallucce.
«In ogni caso, avevi ragione: questo tizio deve essere bello» aggiunge.
«Perché, pensavi che ti stessi mentendo?» dico, offesa.
«No. Solo pensavo te lo fossi immaginato. Con tutto quello che è successo ieri…»
«Grazie per la fiducia»
«Non te la prendere… stavo solo scherzando!». Lo so che scherzava. Però mi fingo offesa.
O meglio, vorrei farlo ma qualcuno arriva a salutare.
«Ciao Alex»
Mi giro e di nuovo mi sento nebbia a mezzogiorno.
«Oh, ciao, Ludvig. Lei è Momo, una mia amica» dico, facendo le presentazioni. Devo lanciare un’occhiataccia a Momo per far sì che la sua mascella non caschi. È rimasta a bocca aperta.
«Piacere, Ludvig» fa lui, stringendole la mano. Lei ha in volto l’espressione angelica di chi ha raggiunto il paradiso, il Nirvana, il Valhalla, chiamatelo come vi pare.
Ma poi continua a rivolgersi a me.
«Scusa ancora per ieri… magari potrei offrirti qualcosa, per sdebitarmi? Che ne dici?»
«Oh… ehm…ugh…» sono talmente imbarazzata che dalla mia gola non escono parole sensate ma solo strani versi gutturali. Cerco con lo sguardo Momo, che sembra che mi dica “Sì, per favore, di’ di sì, che è meglio… per favore, di’ di sì o ti ammazzo”. Il suo sguardo vale più di mille parole.
«Va… va bene, facciamo oggi pomeriggio?». Sempre che Richardson non ci riempia di compiti.
«Okay. Basta che mi dici dove vederci… non sono ancora molto pratico, di questa città. Conosco pochi posti, scusami».
«Ma figurati… Ah, prima che mi scordi… in che sezione sei?»
«D. Oh, e dimenticavo…». Si caccia una matita e un foglietto di carta dalla tasca e inizia a scrivere qualcosa. È mancino.
«Questo è il mio numero. Se c’è qualcosa… chiamami» dice, mettendomi il pezzo di carta in mano.
Poi si gira e se ne va.
«E brava… brava la mia Alex… guarda che pesce che hai pescato…» fa Momo, dopo un po’.
«Ma cosa dici?»
«Eh eh…» e continua a ridacchiare. Non la capirò mai.
Sta di fatto che adesso devo prepararmi psicologicamente a quest’uscita. Non vorrei che la mia faccia assuma un’espressione ebete ogni volta che mi guarda negli occhi.
Ripeto, non mi piace Ludvig. Però non si può negare in nessun modo che sia bello. E che mi fa un certo effetto, ma credo che lo faccia a qualsiasi essere vivente di sesso femminile che lo incontri. Insomma.
Sta di fatto che mi impongo la calma. È solo un ragazzo. Bellissimo, ma è solo un ragazzo. Come Sean. Come Jake. Come uno qualsiasi dei bradipi della mia classe. Insomma, non posso dare di matto ogni volta che lo vedo.
Per le ultime due ore non ascolto una beata ceppa di quello che dicono i professori. Torno a casa frastornata, mangio a malapena, e non so come sto facendo i compiti. Però per mia fortuna sono pochi.
E poi mi chiama.
«Pronto?» esordisco, cercando di non sembrare troppo stordita.
«Ciao, sono Ludvig. Senti, dove vuoi che ci vediamo?»
«Dove sei adesso?»
«A casa mia, sulla Cleveland Street»
Cleveland Street. Un punto di riferimento sulla Cleveland…
«All’incrocio tra la Cleveland e la Howland Street c’è un’edicola. Aspettami lì» dico, e nel frattempo cerco di cambiarmi e pettinarmi. Non è proprio semplicissimo.
«Okay. Allora ti aspetto lì».
Appena chiude, scaravento il telefono sul letto e continuo a prepararmi. Poi chiamo mia madre, le dico che esco e non so se torno per cena. Ma la chiamerò anche più tardi per farglielo sapere.
Esco di casa quasi correndo, prendo il primo autobus che vedo e aspetto di arrivare.
Lo scorgo vicino all’edicola che mi saluta con una mano.
«Ciao»
«Ciao, e scusa se ti ho fatto correre. Mi dispiace»
«Figurati».
Lo porto un po’ in giro per Londra. Si scusa svariate volte perché gli sto facendo da guida turistica, ma a me va bene. Amo la mia città, mi piace mostrarla a chi non la conosce.
Attraverso una serie di autobus riesco a portarlo in Tottenham Court Road, in Piccadilly Circus e a Covent Garden. Ma lui rimane assolutamente affascinato da Leicester Square.
Lui mi offre la cena vicino alla piazza. Cominciamo a chiacchierare dei nostri hobby e interessi.
«Che musica ti piace?» gli chiedo.
«Mah, un po’ di tutto. Principalmente rock. O metal»
«Idem. Ti piace leggere?»
«Abbastanza. Quando ho tempo, posso finire un libro in un giorno».
Poi le solite domande: libri preferiti, canzoni preferite, artisti preferiti, scrittori preferiti, ecc. Alla fine scopro che ci piacciono gli stessi libri (almeno gli stessi generi) solo che lui preferisce il giallo al classico. In musica… è un argomento su cui non sono troppo ferrata, faccio confusione con le band che conosco poco, ma comunque ci intendiamo. È piacevole parlare con lui. Se solo non fosse così maledettamente bello, sarebbe anche meglio.
«Fai sport?» la domanda sorge istintiva sulle mie labbra. Perché con un fisico come il suo di certo non ci si nasce.
«Diciamo che ho un hobby».
«Che hobby?» gli chiedo. Sta stuzzicando la mia curiosità. Non avrà pace finché non me lo dirà.
«Non te lo dico»
«E perché?»
«Perché rideresti»
«Ti giuro che non riderò, prometto»
Lui mi guarda esitante. Cerca di capire se lo sto prendendo in giro oppure no.
«E va bene. Io…»
«Tu…?»
«Io ballo». Lo dice talmente a bassa voce che non capisco.
«Cosa?»
«Io ballo. Ballo il tango, per la precisione. Da quando avevo undici anni». Adesso guarda a terra, con le guance imporporate.
Non capisco cosa c’è da ridere. Io lo trovo molto interessante, invece.
«Be’, non c’è nulla di male. Insomma, c’è chi corre per un’ora e mezza dietro a una palla e tu balli. Non capisco qual è il problema».
«Diciamo che me ne sono dovuto andare dalla mia vecchia scuola, per questo. Mi prendevano in giro».
Caspiterina. Come si fa a prendere in giro un ragazzo come lui?
«Uno svedese che balla il tango… in effetti è strano, ma non credo che ci sia nulla di male. Perché ti prendevano in giro?»
«Perché mi dicevano che ballare era “da femmina”. Ero tentato di cambiare sport, ma non l’ho fatto. Non mi sono lasciato influenzare dalle loro parole».
«Come è nata la tua passione per il ballo?» gli chiedo, affascinata.
«Quando avevo sette o otto anni, in TV hanno fatto vedere un saggio di tango di una qualche accademia. Sono rimasto incantato dai ballerini, perché erano eleganti, ma virili. E ricordo di aver pensato: “Anch’io voglio diventare così”. Solo che ero troppo piccolo. A undici anni mi sono segnato a scuola di danza. A quattordici, ho scelto il tango. Quindi è come se facessi tango da tre anni. Devo ancora perfezionare la mia tecnica. È per questo che sono venuto qui. A Londra c’è una delle migliori scuole di tango d’Europa».  
Ma dai. Abito qui da quando sono nata e non lo sapevo.
«E io che pensavo che le migliori scuole di tango fossero, che so, in Spagna o in Argentina»
«In effetti è così, ma diciamo che sia la Spagna che l’Argentina sono un po’ troppo lontane».
Poi ripenso a quello che mi ha detto, che lo prendevano in giro.
«Secondo me sei da ammirare. Hai addirittura cambiato Paese per inseguire il tuo sogno. È incredibile» gli dico, sinceramente colpita.
Colpita e affondata, dato il modo in cui mi sorride.
«E tu fai sport?»
Quasi gli scoppio a ridere in faccia.
«Io, sport? Proprio no! Sono negata»
Finiamo di parlare di sport. Ludvig paga il conto. Poi mi accorgo dell’ora e mi prende un colpo.
«Cavoli, è tardissimo! Devo proprio andare» dico.
«Aspetta, ti accompagno…»
«Ma no, figurati, vado da sola, o potresti perderti!» gli dico serissima.
«Sicura? È molto tardi, non è meglio che…».
«Ma no, vai pure. Non c’è bisogno. Ci vediamo domani» dico, salutandolo alla svelta, prima che passi il mio autobus.
Sull’autobus, invio un messaggio a mia madre.
Ho fatto tardi, sto tornando a casa. Speriamo di evitare la scenata dell’altro ieri. Anche perché stavolta non ho nessuno Sean da usare come scusa.
A proposito di Sean, devo dire a mamma che non c’è più il concerto. Me lo segno sulle note del telefono.
Intanto l’autobus mi ha portata sulla Devonshire Street. Solo che sono lontanissima da casa mia. Provo a dirlo al conducente.
«Mi scusi, non è che potrebbe portarmi un po’ più avanti…»
«Ma vai a piedi!». Mi intima di scendere e riparte sgommando. Io rimango stupefatta da tanta maleducazione. Poi penso a quello che sto pensando (suona male, ma è così) e mi sento Effie*. Mi viene da ridere.
Comincio a camminare. È tardi, e adesso la mia strada ha un aspetto sinistro. Non mi fido. Sento dei passi alle mie spalle. Provo a contarli. Due persone, più o meno. Cammino più veloce.
Poi trovo un vicolo che mi pare sia una scorciatoia per casa mia. Lo seguo.
Mi rendo conto di aver sbagliato strada solo quando mi ritrovo in uno spiazzo chiuso.
E poi li sento. Sono cinque. E mi hanno intrappolata.
Mi giro verso di loro cercando di non sembrare spaventata. Ma a quanto pare non mi riesce, perché si mettono a ridere.
«Oh, guardate, il nostro uccellino è spaventato. Così sarà sicuramente più divertente» dice uno.
Sento afferrarmi da dietro. E poi mi ricordo le nozioni del corso base di difesa personale.
Gli schiaccio il piede. Il tizio allenta la presa sulle mie braccia, e gli do una gomitata nello stomaco. Poi mi giro, dandogli un pugno in faccia. Gli spacco il naso, e lui si allontana sanguinante, ululando come un animale ferito.
Gli altri quattro tizi mi si buttano addosso. Mollo calci e pugni a destra e manca, ma non serve a molto, riesco solo a farli arrabbiare di più. E io comincio a stancarmi. Non ce la faccio. Sono troppi. Mi rassegno ad accettare l’idea di smetterla e lasciargli campo libero per qualsiasi cosa vogliano farmi. Non riesco nemmeno a urlare. Ho paura.
Intanto ne ho messi KO due. Ma ce ne sono ancora tre, e non molleranno mai.
Involontariamente, comincio a piangere. Loro ridono. Sono sopra di me. Mi rannicchio e cerco di sgusciare via, ma non posso. Sono di più, e sono molto più robusti di me. Sono pronta al peggio.
O almeno lo ero, perché qualcuno comincia a fare il lavoro al posto mio. Con qualche mossa di non so quale arte marziale li mette KO tutti e tre in cinque minuti. Io chiudo gli occhi. Ho paura. E se anche questo tizio vuole aggredirmi?
Sento che mi si avvicina.
«Ehi, va tutto bene. Sta’ tranquilla, okay?».
Alzo lo sguardo per capire chi è. E quello che vedo mi lascia allibita.
 
 

 
***
Angolino autrice
Bonjour, salve a tutti. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e scusatemi se ci ho messo così tanto ad aggiornare.
Una cosa: a parte le vie e i posti famosi come Piccadilly Circus, ci sono cose su Londra che ho inventato e che inventerò. Quindi, non preoccupatevi.
La nota delle Veela*: le Veela sono dei personaggi di Harry Potter, totalmente inesistenti nel film e appaiono per poco anche nei libri. Appaiono solo nel Calice di Fuoco; le Veela sono donne splendide, bellissime, che ammaliano facilmente gli uomini e gli fanno fare cose stupide, come buttarsi da uno stadio. Però in realtà sono dei mostri orrendi, un po’ come le sirene.
La nota di Effie*: Effie Trinket è un personaggio della saga di Hunger Games a cui l’educazione sta molto a cuore. Scusate per tutte queste citazioni ma davvero non ho saputo resistere.
Comunque, devo ringraziare delle persone: grazie a WriterSarah che ha messo questa storia tra le ricordate, grazie a Angie97 che l’ha messa tra le preferite (quale onore!) e grazie alle fantastiche Ciel__, BreakinCrystal e 4Swarovski4 che hanno recensito e messo tra le seguite. Grazie a tutte voi!
Heart

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Capitolo 4
*** La porta della memoria ***


4. La porta della memoria                                                                                               
                                                                                                                                                                                                                                 La farfalla e l’ape in cerca del nettare                                         
                                                                                                                                                                                                   si imbattono l’una nell’altra


È Jake.
Per un attimo sono troppo stupita per parlare. Mi accorgo adesso che me ne sto raggomitolata a terra e tremo come una foglia. Lui si accovaccia accanto a me. Per un tempo interminabile, non dico niente. Poi le mie corde vocali ricordano la loro funzione.
«Grazie».
Lui sbuffa, guardandosi intorno. Ma certo. Che smacco, farsi vedere in giro con me, Alex Watson, la più sfigata della città!
Che stronzo. Lo odio.
«Perché l’hai fatto?» gli chiedo. Avrebbe potuto fregarsene. Tanto non gliene frega niente, di me.
«Ma sei scema? Secondo te se vedo dei tizi che stanno aggredendo una ragazza mi giro e vado avanti?»
Mi stringo nelle spalle. Sto tremando sempre di più, ma non so perché.
Lui si alza e mi tende la mano.
«Va tutto bene. Sta’ tranquilla. Adesso andiamo a casa, Alex».
Lentamente, molto lentamente, mi rialzo, ma non riesco a muovere un passo. Ho le gambe paralizzate dalla paura.
«Ehi. Stai calma. Adesso ci sono io, ok?» e fa una cosa che mi stupisce ancora di più. Mi abbraccia.
Io non protesto. Semplicemente, mi sciolgo anch’io e scoppio silenziosamente a piangere.
Sento il suo corpo che trasmette calore al mio, che all’improvviso è gelido. E, mi scoccia ammetterlo, ma è una bella sensazione. Se lui non fosse intervenuto… non ho idea di cosa sarebbe adesso di me.
Poi mi ricordo. Io odio questo individuo. È uno stronzo, un cretino idiota… ma perché lo odio?
Al momento, la risposta non mi sembra importante. Mi faccio guidare docilmente verso casa mentre lui continua a rassicurarmi.
«Ecco, guarda, Alex. Siamo quasi arrivati. Non è successo niente, e adesso va tutto bene».
Siamo sul pianerottolo davanti ai nostri appartamenti.. Adesso le lacrime sono asciutte. E allora mi ricordo.
«Guai a te se dici a qualcuno che ho pianto… intesi?». Cerco di risultare minacciosa, ma mi sento solo patetica.
«Va bene, Alex. Buonanotte» dice, entrando in casa sua.
Io rimango lì a guardare la porta chiusa. Perché mi ha risposto così? Mi aspettavo per lo meno un ghigno e una battuta dispettosa.
Entro in casa, ma mamma non mi fa la predica, anzi mi fa il terzo grado su Ludvig, ma io sono troppo stanca per parlare.
Entro in camera mia, e penso che dovrei dirlo a Momo. Ma non voglio, e non capisco perché.
Mi butto sul letto, stanca morta. Mi addormento in pochi secondi.
 
Mi risveglio di colpo a metà della notte, con gli occhi spalancati a fissare il buio. Ma non ho fatto un incubo. Semplicemente, mi sono resa conto di qualcosa a cui non avevo fatto caso.
Perché Jake non mi ha chiamata Watson, mentre andavamo a casa. Mi ha chiamata Alex.
 
Il giorno dopo, a scuola, vorrei parlare con Momo, ma non c’è. Perciò passo la giornata a rimuginare. Mi ri-pongo la domanda che mi sono fatta ieri, e cioè: perché odio Jake?
Con infinita sorpresa scopro che non so perché, di preciso. Anzi, mi sembra di odiarlo senza motivo. Sono una persona orribile.
Ah, ecco, forse ho capito perché. Diciamo che ho tralasciato qualcosina su Jake.
Una volta, io e lui eravamo amici. Alle elementari, ogni estate, siccome Sean e Momo andavano sempre in vacanza e io ero costretta a rimanere in città a causa del lavoro di mio padre, io giocavo con il mio vicino.
E all’improvviso spalanco la mia porta della memoria.
Le innumerevoli partite ad acchiapparella e nascondino. Gli scherzi con l’acqua. Le risate. I balli. I canti. E l’immenso bene che volevo a quel ragazzo. Il mio compagno di giochi per l’estate.
Perché d’estate Jake diventa un’altra persona. Abbandona quella maschera da “figo” che si è costruito e torna ad essere se stesso. Andavo così d’accordo con lui. Perché adesso lo odio? Perché adesso è davvero un bel ragazzo e non mi considera più? Perché d’estate non me lo ritrovo più davanti alla porta con una palla in mano alle dieci di mattina?
O perché ancora provo rancore per quel bel primo giorno d’estate?
 
Comincio a pormi tutti questi interrogativi. E scopro che non so davvero darmi una risposta. Solo pormi altre domande.
È meglio che smetta di rimuginare, o impazzirò.
Quando torno a casa, invio subito un messaggio a Momo. Insomma, vorrei parlarle. Sentire lei cosa ne pensa. Perché io sono davvero confusa.
Due ore dopo, Momo ancora non mi risponde. La chiamo.
«Pdondo?» fa una voce piuttosto… attappata.
«Momo, sono Alex. Ma che hai?»
«Mi sodo beccada l’indfluendza».
Oh mamma. Momo ha una salute praticamente di ferro. Non si ammala mai.
«Come hai fatto?»
«Sono addata in giro con i capelli bagnadi».
«Ah…»
«Il doddore dice che non posso addare in giro per un po’. Almeno fino a lunedì».
Sgrano gli occhi.
«Quindi sabato non potrai venire?»
«Do. Diverdidevi anghe per me»
«Va bene. Ma appena stai bene organizziamo un’altra uscita di gruppo, ok?»
La sento ridere, un po’ gracchiante.
«Certo». Poi attacchiamo.
E adesso che faccio? Prima di tutto devo inviare un messaggio a Sean.
Momo sta male, quindi sabato dice che non verrà.
Lui mi risponde dopo un po’.
Mi dispiace… ma non voglio rimandare, mi deprimerei.
Sorrido.
Idem.
Prendo l’iPod e comincio a scorrere i vari album. Voglio qualcosa che mi carichi ma allo stesso tempo mi faccia riflettere un po’. Alla fine opto per Black Holes and Revelations dei Muse.
Mi piazzo al centro della camera, tengo un pugno chiuso vicino alla bocca e faccio finta che sia un microfono, mentre improvviso un ballo. È troppo divertente.
Mi lascio trascinare dalla musica, mi perdo dentro di me.
Ed è durante la mia canzone preferita dell’album, durante Invincible, che ricordo.
 
Era il primo giorno d’estate. Di vera estate, dopo aver finito gli esami di terza media. Sean e Momo erano partiti entrambi il giorno prima. Io ero nel palazzo, sulle scale, seduta fianco a fianco con Jake. Guardavamo le macchine passare veloci vicino al cancello. Stavo bene, finché lui non disse quelle parole, quelle parole che mi hanno ferita a morte.
«Questa è l’ultima estate che passeremo insieme».
Mi girai di scatto, con un’espressione sorpresa e ferita.
«E perché?»
Lui faticava a guardarmi in faccia. Anzi, guardava per terra, come se le sue scarpe da ginnastica fossero diventate interessanti all’improvviso.
«Perché, vedi… al liceo ti giudicano in base agli amici che ti fai… con chi passi il tuo tempo… e tu, be’, non sei il massimo della popolarità…»
Mi si infiammarono le guance.
«Mi stai dicendo che sono una sfigata?».
Lui abbassò ancora di più lo sguardo, mentre le guance gli diventavano color pomodoro.
Sentii affiorare le lacrime, ma non gliela diedi vinta. Non avrei pianto, mai e poi mai.
«Ecco… non so come dirtelo…»
«Non c’è bisogno» dissi, alzandomi dalle scale. «Solo, non ti offendere se ti mando a quel paese». E me ne tornai in casa mia. Solo quando fui al sicuro nella mia camera permisi a una sola, grossa lacrima di scendermi sulla guancia.
Quello fu l’ultimo giorno d’estate che passammo insieme.
Durante quei tre mesi, lui bussò alla mia porta un’infinità di volte, per scusarsi. Ma io non gli ho mai aperto. Non ce la facevo. Perché se pensavo a lui, mi venivano in mente quelle parole, e una rabbia incredibile offuscava i miei pensieri.
Fu l’estate più triste della mia vita.
A ripensarci ora, sono stata stupida. Ma probabilmente, se mi succedesse adesso, reagirei allo stesso modo. Perché non sono cambiata affatto, in questi anni.
 
Mi risveglio dallo stato di trance in cui mi ha trasportato questo ricordo. L’iPod tace. È finito il disco.
Mia madre mi chiama per cena, ma le rispondo di non avere fame. Ricordare mi ha fatto più male di quanto pensassi.
Cerco una musica che mi annienti, che scacci via i brutti pensieri. Che mi faccia solo stare bene.
Scovo un album dei Beatles. Ah, i magici Beatles. Questi sì che mi fanno sentire meglio.
Quando vado a dormire, quasi un’ora dopo, sto un po’ meglio.
 
Oggi è sabato. Il santo sabato. Ma oggi è anche qualcos’altro.
Me ne accorgo quando arrivo a scuola, per la precisione me ne accorgo a ricreazione.
Coppiette che si scambiano bacini nei corridoi. Altri che si baciano in modo decisamente diverso nei posti più isolati. Scambi di regalini e cioccolatini. Sorrisi. Dichiarazioni. È San Valentino.
Sono tutti talmente raggianti che mi fanno venire da vomitare.
Incontro Ludvig in corridoio e parliamo un po’. Con la coda dell’occhio, noto Amber verde d’invidia. Le sta bene, così la smette di importunarci.
Incrocio anche Jake, ma mi limito a scoccargli un’occhiata minacciosa. Spero per lui che abbia mantenuto la bocca chiusa. Non glielo chiedo perché vedo che lo stuolo di gatte morte sospiranti che gli va dietro occupa già tutto il corridoio, dovrei fare la fila per parlargli. E non posso perdere tempo prezioso con quel cretino.
Ti ha salvata, dice una voce suadente al mio orecchio.
Non ascoltarla! È un cretino, dice un’altra.
È come se avessi due mini-versioni di me (una vestita da angelo e una da diavolo) sulle spalle. Una che mi suggerisce di perdonarlo e trattarlo come una persona normale, l’altra che mi dice di continuare così e trattarlo male.
Che faccio?
 
Quando torno a casa, cerco di pranzare veloce. Oggi è sabato, quindi i miei sono a casa.
«Allora, oggi c’è il concerto di Sean?» mi chiede mamma.
Cavoli, mi sono dimenticata di dirle che non c’è più nessun concerto!
«No, il concerto è stato annullato. Oggi saremmo dovuti uscire io, Momo e Sean, ma Momo si è beccata l’influenza».
Un sorrisetto malizioso spunta sulla faccia di mia madre.
«Quindi uscite solo voi due. Tu e Sean. Soli. A San Valentino».
Roteo gli occhi.
«Smettila, mamma. Siamo solo amici».
Continua a ridacchiare furbescamente.
«Meglio che vai a prepararti, allora. Non vorrai fare tardi al tuo appuntamento!»
Sbuffo sonoramente. Solo mia madre è in grado di essere così irritante.
Riguardo al prepararsi, però, ha ragione. Devo sbrigarmi. E non ho la più pallida idea di cosa mettere.
Insomma, non posso uscire con i vestiti che ho usato per andare a scuola. E anche se Sean è il mio migliore amico, e nient’altro, ci tengo a essere… non dico carina, ma quantomeno guardabile.
Mezz’ora dopo sono seduta per terra davanti all’armadio, con tutti, ma proprio tutti, i miei vestiti sparsi per terra.
Alla fine opto per jeans e felpa. Con il freddo che fa, non credo di poter scegliere qualcos’altro.
Poi mi tocca correre, perché se rimango ancora qui faccio tardi.
 
Mi vedo con Sean al locale dove avrebbe dovuto suonare, il Black Moon.
«Ciao»
«Scusami, sono in ritardo… è tanto che aspetti?» gli chiedo, ansante.
«No, sono appena arrivato… ero in ritardo anch’io» fa lui, ridendo. Ha la custodia della chitarra sulle spalle.
Cominciamo a passeggiare. Di solito andiamo al karaoke, ma senza Momo sarebbe sicuramente meno divertente, perciò ci limitiamo a passeggiare senza uno scopo preciso.
«Come sta Matt, il bassista?»
«Se la cava. Però non credo che sarà in forma per il concerto, quindi ho…»
«Concerto? Siete riusciti a trovarvi un posto?»
«Sì, sempre lì. Ma stavolta non sostituiamo nessuno. Semplicemente, il proprietario del locale ha ascoltato una nostra canzone, gli è piaciuta, e ci ha chiesto di tornare»
«Quando?»
«Tra una, massimo due settimane. Per questo sono preoccupato. Matt non si è ancora ripreso del tutto, perciò ho cercato qualcun altro che potesse sostituirlo, almeno per quella sera. Mi dispiace, ma il concerto è importante. E non crederai mai chi si è presentato per prendere il posto di Matt».
«Chi?»
«Una persona che conosciamo entrambi. Abbiamo fatto scuola insieme. E abita proprio accanto a te».
Sgrano gli occhi.
«O’ Brian?»
«Sì. Da non crederci, eh? Per quanto io faccia fatica a sopportarlo, è davvero un mago con il basso. Non si direbbe, ma è così».
Quindi al concerto ci sarà anche lui…
Sean vede che ho fatto una strana faccia e prova a cambiare argomento. Tento di essere allegra, ma non so se ci riesco.
Andiamo al pub a prendere un bicchiere di birra.
«Ai single» dice.
«Ai single» gli faccio eco, alzando il bicchiere. Poi facciamo tintinnare i bicchieri e beviamo la nostra birra.
Devo ammettere che mi sento un po’ in imbarazzo. Vedere tutte quelle coppiette che si sbaciucchiano per strada non è proprio divertente. Anzi, è il massimo della depressione.
E senza pensare che probabilmente la maggior parte di loro, se bada a noi, si starà chiedendo perché non ci baciamo o non ci teniamo per mano. Mi sento stranamente triste.
Sean non è il mio ragazzo e mai lo sarà. È come un fratello, per me. Non riuscirei a mettermi con lui.
«Allora?»
Sobbalzo. Mi ero persa nei miei pensieri.
«Scusa. Dicevi?»
«Dicevo, vogliamo andare a Leicester?»
«Va bene».
Arrivati lì, ci sediamo su una delle panchine della piazza. Ripenso a Ludvig, e a quanto fosse entusiasta del suo giro per Londra. Provo a immaginarmelo mentre balla il tango, ma davvero non ci riesco, non so perché.
Adesso basta, però. Prima Jake. Poi Sean. E adesso Ludvig. Pensare a tutti questi ragazzi mi fa girare la testa.
«Oggi sei pensierosa, Alex».
Sobbalzo ancora. Mi ha colta nuovamente di sorpresa.
«Be’, diciamo che è stata un settimana difficile…».
Rimaniamo zitti un altro po’. Poi mi accoccolo vicino a lui, mentre si fa sempre più buio. Gli appoggio la testa sulla spalla, temendo il momento in cui dovrò lasciarlo per tornare a casa. Le strade mi fanno paura, dall’altro giorno.
Sollevo un po’ lo sguardo, e mi accorgo che Sean ha le guance imporporate, ma non dice nulla.
«Cosa posso fare per risollevarti il morale?» mi chiede dopo un po’.
«Eh?» questa è la mia intelligente risposta.
«Potrei raccontarti una barzelletta? Suonare una canzone? O cantare per te?». Mi guarda negli occhi, è serissimo. Forse sembro davvero troppo depressa. Depressa per non so quale motivo, aggiungerei.
«Canta. E suona». Forse chiedo troppo, ma ho davvero bisogno della sua voce, di quella voce dolce che sembra dire “ehi, Alex, sono qui con te”.
Tira fuori la chitarra dalla custodia e si mette in posizione. Oggi ha con sé la sua fedele chitarra acustica.
«Che canzone desidera, Milady?»
Cerco di trattenermi, ma scoppio a ridere lo stesso. È il modo in cui lo dice che è terribilmente buffo.
«Mi stupisca, ciambellano»  gli dico.
E allora lui attacca a suonare una canzone che non c’entra proprio niente, perciò rido ancora di più.
Parte con le prime note di Sweet Home Alabama, e smetto di ridere solo perché voglio sentirlo cantare. Tanto in piazza non è rimasto nessuno, ci siamo solo io e lui.
Gli viene abbastanza bene, anche perché ha un’estensione vocale piuttosto ampia. Certo, è comunque strano sentirlo cantare questa canzone.
Io mi alzo in piedi e comincio a ballare e battere le mani a tempo. Lui sorride mentre canta, ma non si distrae mai. È incredibile.
Quando finisce di suonare, gli faccio un applauso.
«Bravo!».
Mi è tornato il buonumore. E tutto questo grazie a Sean.
 
Cominciamo ad avviarci verso casa. Non vorrei chiederglielo, ma vorrei che mi accompagnasse. Peccato che abita dall’altra parte rispetto a casa mia.
Siamo alla stazione degli autobus, e io comincio ad avere paura. Paura di quando lui andrà a casa sua e io sarò sola.
Vediamo l’autobus avvicinarsi in lontananza.
Sean mi guarda dritto negli occhi, e sento che sta per dirmi qualcosa. Che cosa?
Non faccio in tempo a scoprirlo, perché una voce mi saluta.
«Ciao a tutti e due!».
Non ci posso credere, è di nuovo Jake.
«Ciao» rispondo, cercando di non sembrare troppo fredda. Ancora non so come mi devo comportare con lui.
Sean lo squadra in cagnesco. Non gli è mai piaciuto, ma non può trattenersi dal trattarlo come si deve. Dopotutto, la salvezza del concerto dipende da lui, sempre che Matt non si riprenda.
Continuano a squadrarsi. Mi sento un tantino fuori luogo.
«Ehm… ragazzi? Io vorrei tornare a casa…»
«Ti accompagno» fa Sean.
«No, ti accompagno io. Dopotutto, sono il tuo vicino di casa».
L’autobus di Sean si ferma, e lui è costretto alla resa. Ma prima di salire sull’autobus, mi guarda con un’espressione strana negli occhi. Come se… stesse rimpiangendo qualcosa.
 
 
 

***
Angolino autrice
Boonjour! Innanzitutto, spero che il capitolo vi sia piaciuto. E poi mi devo scusare per il fatto che ci ho messo tanto a scriverlo, ma seriamente speravo di riuscire ad aggiornare prima… ugh, ho perso la cognizione del tempo.
Un’altra cosa: per le varie sfumature di azzurro degli occhi che ho detto nello scorso capitolo, vi faccio degli esempi. Gli occhi di Jake hanno più o meno lo stesso colore degli occhi di Amy Lee (la cantante degli Evanescence), solo un po’ più tendenti all’azzurro. Gli occhi di Alex sono dello stesso colore di quelli dell’attrice Elizabeth Debicki, e quelli di Ludvig ricordano un po’ quelli di Di Caprio e un po’quelli di Jesse Eisenberg (l’attore che interpreta Daniel Atlas in Now You See Me, per chi lo avesse visto). 
Un’altra cosa: io di chitarre so pochissimo, ho fatto qualche ricerca… però non sono sicura che Sweet Home Alabama si possa suonare con la chitarra acustica. Alcuni dicono di sì, altri di no. Se è così, mi dispiace. Quindi, se siete musicisti, perdonate il mio gigantesco sfondone musicale, ma davvero ci capisco pochissimo.
Scemate mie a parte, voglio ringraziare chiunque abbia messo tra seguite, ricordate, preferite e chi recensisce, quindi grazie a: Angie97, Sotto un cielo di stelle, Fatadz, WriterSarah, BreakinCrystal, cardie9980, Ciel__, MiryPappi, Sara_H e ventola! Grazie di tutto, ragazze.
E grazie ai lettori anonimi, che non si fanno vedere ma io so che ci sono.
Au revoir!
Heart

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Capitolo 5
*** Fiore di liquirizia ***


5. Fiore di liquirizia
                                                                                                                                                                                                 Il cane di Pavlov 
                                                                                                                                                               non può ignorare quel suono        
 


«Ma insomma!» sbotto, non appena l’autobus di Sean riparte. «Guarda che poteva accompagnarmi lui!».
«Ma io sono il tuo vicino di casa» mi risponde Jake.
«E allora?»
«E allora ho tutti i diritti di accompagnarti».
Sospiro. Ragionare con lui è come provare a ragionare con un muro.
«Cosa ci fai qui, Jake?».
Il buio non mi permette di esserne sicura, ma mi sembra che sia arrossito.
«Facevo una passeggiata».
«Sì, e io sono una fata»
«Ma è vero!»
«Diciamo che faccio finta di crederti».
Arriva anche il nostro autobus e saliamo, mentre ci facciamo guidare per la città. Nessuno dei due parla.
Stavolta non c’è lo stesso autista dell’altra volta, perciò quando scendiamo siamo vicini a casa. Involontariamente, però, comincio a tremare e a guardarmi intorno di continuo.
Jake deve avere una specie di radar per capire cosa penso, perché mi si avvicina, cercando di rassicurarmi.
«Tranquilla, Alex. Non succederà più».
Gli scocco un’occhiata che non saprei definire. Arrabbiata e sollevata allo stesso tempo.
«Spero per te che tu non l’abbia detto a nessuno»
«Ma certo che non l’ho detto a nessuno, ti pare? Guarda che era una cosa seria. Sono meno idiota di quello che pensi, sai?»
«Ma dai, non l’avrei mai detto» rispondo.
«Piuttosto, perché hai ricominciato a chiamarmi Alex? Finora mi hai sempre chiamata con il mio cognome» gli dico, rendendomi conto troppo tardi che è una domanda stupida.
«Be’, ci conosciamo da tempo, siamo vicini di casa, per quale oscuro motivo dovrei continuare a chiamarti Watson?»
«Ah, non so. Forse perché sono troppo sfigata per essere chiamata con il mio nome?» gli dico, piccata.
Lui non risponde e abbassa lo sguardo. Probabilmente capisce il mio riferimento a quell’estate.
Si vergogna? Improbabile. Non lo ha mai fatto prima, perché dovrebbe farlo adesso?
Anche in ascensore non parliamo molto. Io mi sento a disagio, e lui anche. A malapena ci salutiamo prima di entrare in casa. Insomma, non è proprio il massimo.
Sono confusa. Confusa da morire. Che mi succede?
 
Domenica passa in fretta. Io rimango a casa a fare i compiti mentre mamma e papà vanno a fare compere. Sono piuttosto felice che non mi chiedano di ieri sera. Non ho molta voglia di parlare.
Più tardi telefono a Momo. Sta un po’ meglio, ma dice che non potrà tornare a scuola neanche domani. Accidenti, dovevo proprio parlare con lei.
Mentre i miei sono in giro, passo il mio pomeriggio in uno stato di semi-coscienza sdraiata sul letto, incapace di pensare o di muovermi. Fisso semplicemente il soffitto senza uno scopo preciso.
Ripenso un po’ alle scorse estati, quando Jake era un ragazzo normale. Molto carino, ma normale. E mi ricordo che suonava il basso, me lo aveva detto, ma non ha mai voluto che lo sentissi suonare. Ricordo che era un Music Man Stingray, solo questo.
Le immagini del Jake non ancora “figo” mi vengono in mente tutte insieme, con una violenza che fa male.
Perché è finita così? Che male c’era, nel rimanere amici? Perché non gli ho mai più aperto la porta?
Perché sono stupida, semplicemente. Perché il mio orgoglio non me lo ha permesso. E adesso me ne pento.
Se solo fossi stata meno orgogliosa, forse a quest’ora saremmo ancora amici. Magari riusciremmo ad avere una conversazione senza battibecchi. Forse lui sarebbe un mio normalissimo amico come lo è Sean.
Gli ho chiuso la porta in faccia, e mi sono persa tutti questi “forse”. Non so cosa pensare.
Mi sento triste per un cretino. Davvero, sto impazzendo, e non va bene, nella maniera più assoluta.
 
Il lunedì sono ancora piuttosto frastornata. Non so cosa pensare, semplicemente. O cosa fare. Come reagire. Era molto meglio quando Jake mi chiamava “Watson” e mi faceva i dispetti, almeno lì sapevo come reagire. Adesso, con questo Jake gentile che mi chiama per nome non so come comportarmi.
La ricreazione diventa un inferno. Non c’è Momo a distrarmi, e continuo a ritornare sugli stessi pensieri. Ma per mia fortuna un qualche angelo custode mi viene in aiuto.
«Ciao, Alex! Hai passato un buon weekend?» mi chiede Ludvig, sorridendomi.
Lui è un'altra persona che mi fa stare bene. È di una positività coinvolgente e contagiosa. Sorrido anche io.
«Ciao, Ludvig. Insomma, non è stato uno dei migliori weekend, ma non mi lamento. Tu cosa hai fatto?»
«Mi sono esercitato. Sai, la scuola di danza». Camminiamo un po’ insieme per il corridoio. Sono piuttosto lusingata del fatto che Ludvig parli con me, e non con Amber e compagnia bella.
«Sai, più ci penso e meno riesco a immaginarti mentre balli. Non so perché, ma proprio non ci riesco»
«Me lo dicono spesso» ridacchia. Cavoli, è bello anche mentre ridacchia.
 «Se vuoi un giorno di questi puoi venire a vedere. Siccome tra un po’ ci sarà un piccolo saggio a cui parteciperò, stiamo facendo le prove nel teatro a Londra. Uno piccolo, perché è solo per una festa»
«Che teatro?» gli chiedo, curiosa.
«Al Blue Theatre. Se vuoi… io faccio le prove fino a tardi».
All’improvviso ho un’immensa voglia di vederlo ballare. Di certo non è uno spettacolo che si vede tutti i giorni.
«Va bene. Sono stata già un paio di volte a quel teatro, verrò. Ci sei anche oggi?»
«No, oggi no. Però domani sì»
«Allora vengo domani»
«Okay. Io sono lì dalle sei in poi». Suona la campanella. «Ci vediamo». Lui mi sorride e poi se ne va.
Involontariamente, sorrido anch’io.
Ludvig ha il magico potere di rendere più leggere le persone solo con la sua presenza. Come Sean. Tra Sean e Ludvig ci sarebbe una bella amicizia… oppure odio allo stato puro.
Sta di fatto che non vedo l’ora che sia domani.
 
A pomeriggio richiamo Momo. Sta molto meglio, ma domani sarà comunque assente. Il raffreddore le è un po’ passato.
«Non è che lo fai apposta per non venire a scuola?» la punzecchio.
«Secondo te rimarrei a casa di mia volontà quando c’è uno come Ludvig – è solo un esempio, ovviamente – che gira per i corridoi della scuola? Dovrei essere impazzita per fare una cosa del genere!»
Scoppiamo a ridere.
«Eh be’, mi pare ovvio!»
«Logico». Me la vedo ancora davanti, quando ha visto Ludvig l’altro giorno, con la mascella sul pavimento. Dovessi scordare un giorno il mio stesso nome, non mi dimenticherò mai quell’immagine.
«Quindi quando potrai tornare a scuola?»
«Non so. Dopodomani, credo»
«Va bene. Ciao, e cerca di guarire!»
«Ciao!».
Quindi potrò parlare con Momo solo mercoledì (il telefono non è sicuro).
Uffa.
Penso di chiamare Sean, ma neanche lui va bene. Proprio no, visto che detesta Jake quanto me.
Allora l’unica cosa che mi resta da fare è aspettare. Aspettare e aspettare.
 
Martedì, ginnastica, come al solito. Però, strano ma vero, Jake non mi dice niente per tutte e due le ore. A volte mi giro verso di lui e lo becco a fissarmi, allora distoglie lo sguardo. Che significa? Si sta trattenendo dal prendermi in giro? E perché, se non si è mai risparmiato?
 
A pomeriggio mi sbrigo a fare i compiti e ottengo il permesso di uscire di sera per andare a vedere Ludvig. Sono piuttosto emozionata.
Sono già le sei e mezza quando vado a prendere il mio autobus, che mi porta vicinissima al Blue Theatre. Entro con circospezione. Stasera non sono previsti spettacoli, perciò il tizio alla biglietteria mi scocca un’occhiata truce ma non dice niente (per fortuna).
Il teatro è piccolo e ha solo due sale, una delle quali ha la porta chiusa a chiave. Ne deduco che sia l’altra, quella che mi interessa. Perciò mi faccio coraggio e apro la porta.
 
La sala non è molto grande, il palco neppure. Le poltroncine sono foderate di velluto rosso, il pavimento lucido fa fare rumore alle mie scarpe mentre cammino e la porta di chiude con un dolce tunf. Fa anche un caldo pazzesco, perché a quanto pare il riscaldamento è acceso, e sono costretta a togliermi almeno il giaccone.
Sul palco qualcuno sta regolando uno stereo. Alle prime file, due persone assistono, e vicino alle scalette laterali che conducono al palco sosta una ragazza carina con i capelli raccolti e un corto vestito nero.
Solo dopo un po’ mi accorgo che quello sul palco è Ludvig. È riuscito a regolare lo stereo, si mette al centro del palco e aspetta. Poi comincia a danzare.
Ho avuto poche volte in vita mia l’occasione di assistere ad una danza. Adesso Ludvig sta ballando da solo, ed è semplicemente spettacolare. È… bellissimo. Ma non perché è un bel ragazzo. È bellissimo perché è bellissima la passione che mette nel ballo. Riesco a percepirla persino io, che sono più goffa di un ippopotamo. Ed è una sensazione meravigliosa.
Dopo un po’ anche la ragazza entra in scena. E allora inizia il tango, quello vero.
 
Ho sempre cercato di associare un colore a tutte le danze. Il valzer è un viola delicato. La salsa è un arancione brillante. La baciata è rosa fragola. La danza classica è bianca. L’hip hop è verde smeraldo. La danza del ventre è giallo sole.
E il tango… il tango è rosso sangue. Rosso acceso, il rosso della passione, rosso come i fiori di liquirizia, ardenti come fiamme.
È questo che sento, mentre Ludvig e la ragazza ballano. Il mondo si tinge di rosso, offuscato dalla passione che entrambi mettono in quel ballo. Ed è ammaliante. Seducente. Affascinante. Persuasivo.
Perdo me stessa, mentre mi lascio trascinare da quella danza che ha stregato milioni di persone.
La rifanno due, tre volte. Poi smettono. La ragazza se ne va, i due tizi seduti lì davanti dicono qualcosa a Ludvig e poi se ne vanno anche loro. Lui va dietro le quinte e riemerge poco dopo, con i suoi abiti normali (aveva una specie di tuta, non saprei come definirla) e un borsone in spalla. Le luci del palco si spengono.
Si avvia verso la porta, mi vede e sorride. Non gli ho detto che sarei venuta. Sembra piuttosto felice di vedermi.
«Ciao. Non mi avevi detto che saresti venuta»
«Ciao. No, non te l’avevo detto. Ti ho fatto una sorpresa, diciamo così».
Usciamo dal teatro. Sono quasi le nove.
«Allora, adesso riesci a immaginarmi mentre ballo?»
«Adesso sì. Sei bravissimo. E mi sono emozionata, sai? Perché metti una tale passione, nel ballare… che fa davvero venire i brividi».
Lui arrossisce. Diamine, è ancora più carino quando fa il timido.
«Grazie».
Io gli rispondo con un sorriso.
«Piuttosto, chi erano quelli seduti in prima fila?»
«I nostri insegnanti. Miei e di Carmen, la ragazza che ballava con me».
«Ah». Mi sento improvvisamente a disagio.
«Carmen balla con me perché è la ragazza più brava del nostro corso. E gli insegnanti dicono che io sia il ragazzo più bravo – avrei qualche dubbio in proposito – perciò balliamo insieme. Non capisco perché abbiano scelto me e non qualcuno come Benjamin, o Luke, che stanno qui da molto più tempo. Voglio dire, io quella ragazza la conosco pochissimo. È complicato ballare con una persona che si conosce poco».
«Ti accompagno a casa». Io annuisco e lo guido per la città.
Rimaniamo zitti per un po’, almeno finché lui non riprende la parola.
«Sono contento che tu sia venuta, sai? Pensavo che non lo avresti fatto».
«Non me lo sarei perso per niente al mondo».
Ci sorridiamo. Ludvig è una persona non troppo difficile da capire. È piacevole stare con lui.
Perché tutti i ragazzi non sono così?
«Cosa ti tormenta, Alex?» mi chiede, serio, ma con il suo irresistibile accento svedese.
Lo guardo stupita. Se ne è accorto, che sono pensierosa?
«Ma che dici?»
«Sei un libro aperto, Alex. È semplice capire quando hai qualcosa che ti tormenta. Anche l’altro giorno, a scuola, sembravi parecchio pensierosa».
Possibile che sia così facile decifrare il mio stato d’animo? Mia madre dice che sono incomprensibile.
«Be’, ecco…»
«No, tranquilla. Non sei costretta a dirmi niente. Solo, non pensare troppo. Fai quello che ti senti di fare. Se non sai proprio come reagire… sii istintiva. Fa’ quello che il tuo istinto ti dice di fare».
Lo guardo piena di gratitudine. Forse adesso riuscirò a capire come agire.
«Grazie, Ludvig».
Arriviamo a casa mia e ci salutiamo, poi lui torna indietro.
Entrata in casa, mi butto a peso morto sul letto, e non penso a nient’altro. Insomma, credo di aver capito. Ma tra il dire e il fare…
Mi addormento con il replay del tango di Ludvig nella mente.







***
Angolino autrice
Boonjour, miei cari. Sono tornata.
Il capitolo è un po’ più corto del solito, ma preparatevi ai successivi che saranno belli lunghi. Spero che vi sia piaciuto. Per la frasetta dell’inizio: Ivan Pavlov era uno scienziato russo che ha fatto vari esperimenti con i cani (innocui, ovviamente). Per saperne di più, cercate su Wikipedia (mi dispiace, ma non ho molto tempo).
Intanto vi auguro un sincero buon continuo di vacanze.
Poi ringrazio sinceramente chi ha messo tra seguite, preferite, ricordate e chi recensisce, quindi grazie a Angie97, Sotto un cielo di stelle, WriterSarah, Fatadz, accio Black, BreakinCrystal, cardie9980, Ciel__, Fiore di loto92, Gisella, ljamspooh, loveyasnokey, maredinverno, MiryPappi, RayaFee, Sara_H e ventola. Grazie mille davvero!
E grazie anche ai lettori anonimi.
Alla prossima!
Heart

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Capitolo 6
*** Capitombolo ***


6. Capitombolo
                                                                                                              Per quanto una farfalla sia bella, agli occhi del fiore di cui si nutre
                                                                                                                                                                                 è solo un insetto predatore.
 

Oggi Momo è tornata a scuola, e sono davvero molto contenta. Non è proprio in formissima, ma…
Devo riuscire a parlarle di Jake. Di quello che mi sta tornando in mente, perché Momo sa tutto. A lei l’ho detto. A Sean, mai. Chissà perché.
«Allora, che mi sono persa, in questi giorni?» mi chiede a ricreazione.
«Be’, sono successe un po’ di cose…». Le racconto dei tizi che mi hanno aggredita l’altro giorno mentre tornavo a casa e del salvataggio di Jake. Del fatto che mi sono tornati in mente tutti i giorni trascorsi insieme e che non so come devo comportarmi con lui. Inoltre le racconto dell’uscita con Ludvig, di Ludvig che balla il tango e di San Valentino passato con Sean. E Jake che ci è venuto a rompere mentre tornavamo a casa.
Momo non mi interrompe mai e mi fissa serissima. È quasi inquietante. Io parlo ininterrottamente per quasi dieci minuti – quasi tutta la ricreazione, in pratica.
«Vuoi un consiglio?» mi fa, quando smetto di blaterare.
«Sì»
«Prova a perdonarlo. Magari le cose cambieranno, non trovi?».
All’inizio l’idea mi alletta parecchio. Provare ad aggiustare le cose. Essere amici, come ai vecchi tempi. Mi crogiolo per un po’ in quell’immagine meravigliosa, dove va tutto bene. Dove non importa la popolarità per essere amici.
Ma ormai è troppo tardi. Troppi silenzi, troppo rancore, troppe cose non dette, troppe lacrime. Perché sì, ho anche pianto per quel deficiente.
«Vorrei, vorrei davvero. Ma non posso. Cosa potrei fare, adesso? Sono passati tre anni. E in tre anni le persone cambiano. A lui non importa un fico secco di me»
«Dici? Secondo me non è così. A lui importa eccome, di te. Più di quanto immagini».
La guardo senza capire.
«Piuttosto, che mi dici di Ludvig?»
Io arrossisco immediatamente.
«Cosa dovrei dirti? Posso considerarlo un amico, ecco tutto»
Lei mi guarda con un’espressione da ma-per-favore.
«Sì, certo. Siete usciti insieme due volte. Una volta ti ha offerto la cena…»
«Era solo un pezzetto di pizza!» protesto debolmente. La campanella suona, ma noi la snobbiamo allegramente.
«Non mi interrompere. Una volta ti ha offerto la cena, e potrebbe davvero essere solo un modo per scusarsi del fatto che ti è inciampato addosso» sguardo eloquente. «Un’altra volta ti ha proposto di andare a vederlo mentre esercita la sua più grande passione. E stavolta ti accompagna anche a casa. Ti ha dato dei consigli. Ti sorride ogni volta che ti vede. Quando l’ho conosciuto, mi ha guardata per una frazione di secondo e poi si è rivolto subito a te. E non hai idea del modo in cui ti stava guardando, fidati».
«Sciocchezze»
«Certo, se sono sciocchezze io sono la fata turchina».
«Mi sa che stai ancora un po’ male, o le medicine sono allucinogene. Dovresti dirlo al medico, sai?»
«Spiritosa. Torniamo in classe, che è meglio».
Momo ha sicuramente torto. Qualsiasi cosa stia insinuando, ha torto.
 
Mercoledì finisce in un attimo, e subito arriva giovedì. Si sente profumo di weekend.
A ricreazione provo a mettermi d’accordo con Momo per uscire tutti insieme – io, lei e Sean.
«Usciamo sabato, no? Come al solito»
«Sempre che Sean non abbia da fare»
«Già… oggi pomeriggio lo chiamo».
Fine della conversazione. Nessuna delle due ha molta voglia di parlare in questi giorni.
 
A pomeriggio sento Sean, almeno per messaggio.
Ehi. Sabato ci sei per un’uscita come ai vecchi tempi? Io, te e Momo?
Mi risponde dopo pochi minuti.
Mi dispiace, ma non posso… ho le prove, il concerto si avvicina.
Rimango sorpresa.
Fantastico! Quando?
Sabato prossimo al solito posto alle otto di sera, mi risponde quasi immediatamente.
Okay, allora esercitati bene, mi raccomando!
Non mi risponde, e penso che mi mancherà, sabato.
 
Gli ultimi giorni della settimana passano senza eventi degni di nota.
Sabato io e Momo usciamo, andiamo in libreria (tappa fissa), chiacchieriamo e spettegoliamo un po’. Insomma, niente di troppo diverso dal solito. Almeno finché lei non mi chiede, di punto in bianco:
«Allora, cosa vuoi fare con Jake?»
«Te l’ho già detto. Lo tratterò come al solito. Il semplice fatto che mi sono ricordata i momenti piacevoli passati con lui non vuol dire affatto che… che voglia tornare a essergli amica». Però neanche io sono troppo convinta di quello che sto dicendo.
«Non mi sembri così convinta» appunto.
«Ecco…»
«E dillo, che in realtà ti dispiace di quello che è successo! Dillo, che vorresti guardarlo senza provare rancore!»
«Tu non capisci».
«Certo, io non capisco mai niente, vero? Sei TU che non capisci. Basta così poco per aggiustare tutto! È così semplice!». Non ho mai visto Momo così arrabbiata.
«Non è semplice come dici tu! Non lo è neanche un po’!»
«E cosa ci sarebbe di difficile, sentiamo?».
Io ammutolisco. Non so cosa c’è di difficile, il fatto è che è difficile. Non è che posso mettermi a parlare con Jake all’improvviso come se non fosse mai successo nulla.
«Pensaci. Non dico che dovete fare pace per forza. Ma tu pensaci».
Chiudiamo l’argomento Jake e ce ne torniamo a casa.
 
Anche la nuova settimana passa senza eventi troppo degni di nota, almeno fino a mercoledì.
Ho riflettuto a lungo sulle parole di Momo. Perché non provare, dopotutto? Tanto, anche se non riuscissi, non perderei molto.
Così mercoledì mi decido. A ricreazione, vado a cercare Jake, e lo trovo che parlotta con alcuni suoi amici vicino alle scale. Aspetto un po’. I suoi amici se ne vanno e lui rimane lì, a guardare la folla che sale e scende. Le scale della nostra scuola, infatti, sono piuttosto larghe e danno sull’atrio, che già è ampio di suo. Da lì si ha un’ottima visuale di quello che succede.
Mi avvicino cautamente.
«Ehm… Jake?»
Lui mi guarda con un’espressione strana… un misto tra stupita e felice. Che però si trasforma subito in beffarda.
«Allora, Watson? Che c’è? Ti sei accorta che non puoi fare a meno del sottoscritto?»
«Va’ al diavolo»
«Sei venuta fin qui per questo? Non dovevi disturbarti!»
Mi fa infuriare!
«Ma sta’ un po’ zitto! Per una volta che provo a…» mi blocco. No, non posso dirgli che stavo seriamente pensando di fare la pace, è fuori discussione, è troppo imbarazzante!
«”Provi a” cosa, Watson? Non ti sento!»
«Vaffanculo!» me ne vado. Cosa mi sarà mai passato per la testa? Fare pace? Sarebbe più semplice far volare un asino.
«Ehi, buona».
Mi giro di scatto, furiosa.
«Ma non mi rompere mai più! Non chiamarmi mai più!».
Se che la gente nell’atrio ci sta guardando, e parecchio male, anche. Ma non me ne frega niente. Mi muovo verso il primo gradino, decisa a scendere, ma Jake mi raggiunge e mi afferra un polso.
«Smettila! Mi fai male!» provo a divincolarmi.
«No, non la smetto. Adesso tu mi spieghi»
«E cosa dovrei dirti, di grazia?»
«Quello che non hai finito di dirmi prima»
«No». Continuo a divincolarmi finché, con un ultimo strattone, libero il polso dalla sua presa d’acciaio.
Sento di stare per cadere, ma c’è qualcuno dietro di me che attutisce la mia caduta… solo che cade lui (o lei) stesso.
Sento solo due “Ah!” sorpresi, poi una serie di tonfi. È calato il silenzio.
Mi giro e vedo chi ho fatto precipitare dalle scale.
Un ragazzo, quello che pare messo un po’ meglio, sta aiutando una ragazza a rialzarsi. Lui zoppica un po’, ma lei non si regge proprio in piedi, e appena la riconosco ho un brivido.
Imogen Lawrence. In assoluto la ragazza più bella di tutta la scuola, più bella perfino di Momo. Capelli biondi chiarissimi, grandi occhi verdi, sorriso disarmante, fisico perfetto. So di essere nei guai non appena i professori fanno la loro comparsa.
«Cosa succede, qui?» chiede la White, guardandosi intorno.
«Oh, miei cari! Cosa vi è successo?»
Il ragazzo la guarda senza dire una parola. Poi indica me e Jake.
«Ehi, aspetta un attimo…» provo a protestare, ma Imogen mi interrompe.
«Rob, non essere sciocco. Professoressa, non è colpa loro. Stavano litigando, e a quanto pare Alex, giusto?, è inciampata e mi è venuta addosso. Io ho perso l’equilibrio e sono caduta, trascinando con me Robert. È tutto un equivoco».
Non è solo bella, ha anche un cuore d’oro. Le sono grata. Non ho idea di cosa avrebbe potuto farci la White.
«Oh, è andata così? Un incidente, quindi. Ma devo comunque trovare una punizione per quei due, visto che litigavano violentemente, a quanto pare, e hanno fatto del male a due persone che non c’entravano niente. Molto male. Vediamo…»
Io abbasso lo sguardo, in attesa del verdetto. Ma un’altra voce interrompe la White.
«Aspettate! Cos’è successo?».
La voce appartiene alla Costance, la professoressa di… non lo so di preciso cosa insegni. Sta di fatto che sta sempre in giro per i corridoi, quindi suppongo che insegni qualcosa. Forse fa i corsi pomeridiani, non so.
Gli viene raccontata tutta la storia. Fumante di rabbia, la Costance si rivolge a me e all’altro cretino.
«Complimenti a entrambi! Avete fatto cadere dalle scale i nostri due più promettenti allievi di ballo! Proprio a poco tempo dalla gara! Ma bene!». Poi si accascia a terra in lacrime.
«Finalmente… quest’anno avevamo un’occasione di vincere… e voi l’avete fatta andare in fumo, perduta per sempre!»
«Prof, se vuole posso ancora ballare…» disse Imogen, con poca convinzione.
«Non essere sciocca, mia cara. Si vede da subito che hai la caviglia slogata. Se ti facessi ballare potresti procurarti danni permanenti. E anche tu, Robert… ti sei fatto male, non puoi ballare».
Nel corridoio c’è la pace assoluta. La campanella è suonata da un pezzo, ma nessuno è tornato in classe.
«Be’? Che fate ancora qui? Tornate in classe, non c’è niente da vedere!» dice bruscamente la White.
Io e Jake tentiamo di scivolare via, ma la White la pensa diversamente.
«Non mi pare di aver detto che voi due poteste andare».
Sospiriamo all’unisono e ci avviciniamo.
Com’era la Prima Legge di Murphy? Ah, già, “Se qualcosa può andare storto, lo farà di sicuro”. Ecco qui, precisa precisa.
«Voi-due» dice la Costance, indicandoci con il dito affusolato. «come avete intenzione di rimediare?»
«Ehm…» farfuglio. La verità è che non ne ho idea. Mica posso inventare una medicina che rimetta in sesto tutti e due in un baleno.
«A quanto pare i ragazzi non ne hanno idea. Tu cosa pensi, Verity?» chiede poi alla White. La voce le sta diventando stridula.
«Lucy, mia cara, non perdere la calma. Vuoi il mio consiglio? Occhio per occhio, dente per dente. Spero che tu abbia capito. E ora, se non ti dispiace, ho una classe che mi aspetta». Si gira e se ne va.
La Costance torna a guardarci.
«Bene. Allora, ci vediamo in palestra alle 14.30 precise. Non fate tardi, nessuno dei due».
Eh…?
«Come… come dice, professoressa?» gli chiedo, con un terribile sospetto.
Lei alza un sopracciglio.
«Pensavo fosse chiaro. Occhio per occhio, dente per dente».
Jake si fa avanti.
«Mi scusi, ma continuo a non capire».
Lei ci guarda lentamente negli occhi.
«Vuol dire che da oggi in poi voi due vi allenerete tutti i giorni per partecipare alla gara di ballo che si terrà tra un mese e una settimana al posto della signorina Lawrence e del signor Evans, pensavo fosse ovvio».
Cosa…?
 








***
Angolino autrice
Buonasera a tutti, gente. Ecco un nuovo capitolo, in anticipo sui tempi (su insistenza di una certa BreakinCrystal… non è vero, cara?). È un po’ corto, ma spero che lo abbiate apprezzato lo stesso.
Nuovi guai per Alex e Jake, che saranno costretti a collaborare, sì. Secondo voi ce la faranno? O manderanno tutto all’aria per i loro problemi personali? Datemi le vostre opinioni e i vostri consigli, ce sono sempre ben accetti!
Come al solito ringrazio chi recensisce, chi ha messo tra seguite, preferite e ricordate, quindi grazie a Angie97, darkromance, ljamspooh, Sotto un cielo di stelle, WriterSarah, Fatadz, accio Black, BreakinCrystal, cardie9980, cate 94, Ciel__, Fiore di loto92, Gisella, loveyasnokey, maredinverno, MiryPappi, RayaFee, RobertaLu, Sara_H e ventola. Grazie mille davvero!
Al prossimo capitolo (che non credo arriverà prima di mercoledì)!
Heart

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Capitolo 7
*** Profumo ***


7. Profumo
                                                                                                                                                             È il fiore che attrae la farfalla    
                                                                                                                                                   o è la farfalla ad attrarre il fiore?
 
Che cosa? Io dovrei mettermi a ballare con quel cretino? Non se ne parla neanche!
Però capisco di non essere nella condizione di poter protestare, così mi limito ad accettare.
«Quindi ripeto, alle 14.30, in palestra, puntuali. Tutti i giorni»
Jake tenta comunque di protestare, ma la Costance lo zittisce.
«Non puoi, O’Brian. Quel che hai fatto è molto grave. Ci vediamo oggi pomeriggio. E mi raccomando» aggiunge, allontanandosi «mettetevi abiti comodi».
Io rimango basita. Poi  comincio a prendermela con Jake.
«Ma bravo! Complimenti vivissimi, proprio! Adesso mi tocca ballare!»
«Guarda che è anche colpa tua se siamo finiti in questa situazione». I suoi occhi grigiazzurri mandano lampi minacciosi, mentre mi si avvicina.
«Se mi avessi semplicemente detto ciò che dovevi dirmi… - mi scosta una ciocca di capelli dal viso – forse non sarebbe successo niente di tutto ciò, non credi?» . Per qualche stupido motivo arrossisco, e scosto la sua mano con rabbia.
«Guarda che è solo colpa tua, non mia! Se non avessi cominciato a prendermi in giro…»
«Non dire… no, hai ragione, è colpa mia. È sempre stata colpa mia…» e si allontana per il corridoio, borbottando frasi sconnesse. Ma che cappero è successo?
Cosa dovrei pensare, adesso?
 
Quando torno in classe Richardson mi scocca un’occhiataccia, ma non dice niente. La White deve averlo informato.
Momo mi chiede spiegazioni su un foglietto di carta.
Che è successo?
Ho cercato di fare pace con quel cretino, come mi hai detto tu, e l’unica cosa che ho ottenuto è stato un appuntamento per le prove di ballo, visto che abbiamo fatto precipitare Imogen Lawrence e un altro tizio giù per le scale, guarda caso i due ballerini preferiti della Costance.
Momo sgrana gli occhi.
Come farai? Dovrai ballare con lui, non potrai evitarlo!
Lo so, non dirmelo…
Richardson ci guarda male, e smettiamo immediatamente di scrivere.
 
Quando finiscono le lezioni, mi trovo costretta a tornare a casa quasi volando. Non ho neanche il tempo di pranzare, posso solo infilare una maglietta sgualcita e un paio di leggings nel borsone da jogging di papà (trovato in giro) che devo subito uscire di casa. Mi toccherà fare i compiti dopo cena.
Quando arrivo a scuola sono le 14.30 precise. In palestra trovo Jake, la Costance, e…
«Ludvig? Cosa ci fai qui?» lo guardo sbalordita. Lui prova a rispondermi, ma la prof è più veloce.
«Si dà il caso che il signor Ohlsson sia un ottimo ballerino, e siccome uno dei pezzi che avevamo provato con la signorina Lawrence e il signor Evans era a tre, lo avevamo invitato a partecipare. E lui ha accettato volentieri. Dopo l’incidente di stamattina, l’unica cosa che cambiava erano i due “protagonisti”, perciò il ruolo del signor Ohlsson è rimasto invariato» disse la Costance, parlando a macchinetta.
«In ogni caso, sono piuttosto contenta che vi conosciate già. È estremamente difficile ballare con gli estranei».
Erano praticamente le stesse parole che mi aveva detto Ludvig quando era andata a vederlo, al Blue Theatre.
«Scusi se glielo chiedo adesso, ma… che danza sarebbe, quella che dovremmo ballare?»
Lei mi guarda stupita.
«Pensavo lo sapesse. Balli caraibici, è ovvio!».
Io la guardo con gli occhi sbarrati.
«La gara prevede quattro pezzi di balli differenti. Avevamo scelto una bachata, una salsa, un merengue e, per far onore al signor Ohlsson, un tango, anche se non è un ballo caraibico, ma non importa. L’importante è che non si porti ballo da sala».
Non riesco a dire niente. Mi rivolgo a Ludvig.
«Sai ballare anche tutte queste cose?»
«Sì, anche se ballerò solo il tango». È piuttosto imbarazzato.
Jake scuote la testa.
«No, io non so proprio ballare, mi dispiace. Sarebbe una totale perdita di tempo, con me. Sono negato per il ballo». Ma dai? Il signore “non-so-cosa-sia-la-modestia” che ammette di non saper fare qualcosa? L’Apocalisse è vicina!
Poi però penso a una cosa. Se anche Ludvig ballerà, la Costance lo costringerà ad assistere alle prove. Ergo: la reincarnazione di Billy Elliot (anche se non è mai esistito per davvero) che guarda la persona più goffa del mondo (cioè me) mentre balla? No, no no! Non ci avevo pensato, cavoli! Vorrei sprofondare!
La voce stridula della Costance interrompe i miei angosciosi pensieri.
«Ragazzi, andatevi a cambiare. Le prove dureranno fino alle 16, per i primi tempi. Poi starete un po’ di più».
In realtà è una nana malefica, me lo sento.
Sta di fatto che non posso ritirarmi, quindi filo negli spogliatoi e mi cambio, maledicendo la cortezza della mia maglietta.
Quando torno in palestra la prof comincia a spiegarci qualcosa dei balli caraibici. E più la ascolto, più sgrano gli occhi.
Io dovrei ballare spalmata addosso a Jake?
Perché sì, da quello che dice la prof, i balli caraibici sono balli di coppia popolari, come il tango. E sebbene il tango sia più “elegante”, basato sulla sensualità, i balli caraibici (soprattutto il merengue) prevedono un ballo corpo a corpo. Del tutto.
Penso di poter svenire da un momento all’altro, mentre noto una sorta di sorrisetto divertito sulla faccia di Jake.
La Costance ci mette in posizione e ci mostra i vari passi della salsa, aiutata da Ludvig. Io cerco di non arrossire troppo.
Però i passi che ci fa provare non sono troppo difficili, almeno non per me.
Poi sento un dolore acuto.
«Ahi! Mi hai pestato il piede!» strillo, allontanandomi di scatto da Jake e massaggiandomi il piede. La Costance mi ha fatto indossare delle strane scarpette bianche.
La prof emette una risata a metà tra il nervoso e il divertito.
«È normale che succeda. Dovete trovare al più presto un modo per andare sulla stessa frequenza, come una radio. Facciamo cambio.
«O’Brian, con me. Watson, con Ohlsson». Mi trattengo a stento dal mettermi sull’attenti e dire “Sì, signor capitano”. Cavoli, sembra il generale di un esercito.
Ballare con Ludvig mi mette addosso un’agitazione ancora maggiore. Voglio dire, lo posso considerare un amico, ma è comunque piuttosto imbarazzante essergli così vicina. Posso perfino sentire il suo odore.
Ha un odore semplicemente delizioso, mi distrae. Sa di menta e limone. Buono. Tanto buono da farmi venire l’acquolina.
Sbaglio il passo che stavo provando, e mi tocca farlo di nuovo. Ma mi distraggo di continuo. Sembro una maniaca, potrei vivere del profumo di Ludvig.
Non pensavo che i ragazzi avessero quest’odore. Insomma, pensavo che puzzassero di continuo di sudore, panni sporchi e scarpe da ginnastica usate. E invece…
Adesso però la curiosità si fa sentire. E Sean che profumo ha? E Jake? Anche se quello di Jake non sarà più un mistero, a breve. Mi basterà farci caso appena la prof decide di scambiarci.
La Costance ci sta insegnando un nuovo passo. Non è difficile, e termina con una giravolta che mi spedisce dritta dritta tra le braccia di Ludvig. Non dovrei dirlo, ma è una bella sensazione.
Adesso ho la possibilità di guardare il suo volto da vicino. È piuttosto regolare, e, non l’avevo notato, ma ha delle ciglia davvero lunghe.
Facciamo di nuovo cambio, e riproviamo lo stesso passo che abbiamo fatto adesso. Le braccia di Jake sono forti e rassicuranti. Quando torniamo in posizione, mi concentro sul suo odore.
Non riesco a capire di cosa si tratta. È buono, mi stuzzica la gola. Ma non saprei dire che cos’è di preciso.
Ci ripenso solo dopo, mentre mi cambio negli spogliatoi. Sono esausta e sudatissima, e di certo il mio, di odore, non è affatto gradevole. È stato più faticoso del previsto, ma sono sicura che ciò dipenda anche dal fatto di essere estremamente fuori forma. Non faccio del serio esercizio fisico da… da mai.
In ogni caso, riesco a identificare l’odore di Jake solo adesso. Sapeva di erba tagliata e un frutto esotico, che mangio solo d’estate e anche piuttosto raramente, visto che il clima londinese non è proprio l’ideale… sapeva di albicocca.
 
I giorni successivi sono estenuanti.
La Costance ci fa esercitare di continuo, e ci insegna anche il merengue e la bachata. Quando balliamo il merengue ho il volto in fiamme. Stare appiccicata così ad un ragazzo è incredibilmente imbarazzante.
«Il merengue è una delle più antiche forme di danza caraibica. Il movimento fondamentale del ballo è il “Cuban Motion”, ovvero il movimento dei fianchi che accompagna i passi di entrambi i ballerini. Il movimento delle gambe è costante per tutta la durata del pezzo. Molti preferiscono che nel ballo non si inseriscano delle figure, perché prevedono l’allontanamento dei ballerini, e ciò contrasta con la natura stessa del merengue, che è un ballo corpo a corpo e, in quanto tale, richiede un contatto permanente e totale dei ballerini. La dama deve sentire sul suo corpo i movimenti del partner e assecondarlo.
Il merengue è un ballo popolare, tuttavia i partners dovrebbero concentrarsi l’uno sull’altra, creando un sentimento di sensualità attraverso movimenti ravvicinati, rotazioni intricate, e un sottile gioco in cui ci si stuzzica reciprocamente». La prof continua a ciarlare così ma mi perdo velocemente.
La bachata non è difficile. La prof ci insegna sulle note di Obsésion degli Aventura, ovvero la canzone che ha reso la bachata popolare in tutto il mondo. Mi sorprendo a canticchiarla anche mentre sono a casa. Per ora, è il ballo che preferisco. Così malinconico, dolce e melodico… non a caso è chiamato “Musica de Amargue”, ovvero “musica da amarezza” in spagnolo. Veniva ballata e cantata nei quartieri poveri e nei locali malfamati frequentati dalle prostitute, e i testi esprimevano situazioni difficili che si vivevano in quel contesto sociale. E la tristezza incisa in quelle parole spagnole di cui non capisco il significato è di una tale struggente bellezza da farmi venire i brividi.
 
Oggi è sabato e, udite udite, c’è il concerto di Sean. Torno a casa con tutta la tranquillità del mondo (oggi la prof ci ha esonerati dalle prove, incredibile) e faccio i compiti. Mentre aspetto che si facciano le sette (mi sono messa d’accordo con Sean e Momo per vederci un po’ prima) accendo la radio e metto sul mio canale radio di musica preferito. Nel frattempo, penso a questa bizzarra situazione che si è creata.
Jake si comporta in modo strano. Cerca di evitarmi e poi si arrabbia se non lo saluto. A scuola mi prende in giro e quando siamo soli mi parla in modo abbastanza normale. Fa battutine sarcastiche sul mio modo di ballare quando anche lui non è un granché. Lo odio, oppure il destino me lo sta facendo odiare. Non capisco perché.
Mi concentro sulla musica che sto ascoltando.
La voce è di una donna, mi sembra Pink, ma non ne sono sicura. Questa canzone non l’ho mai sentita.
… But I hate you, I really hate you, so much I think it must be true love, true love…
Sento quella frase e cambio con rabbia il canale radio.
Un’altra donna dalla voce molto diversa, più sottile. Anche questa mi è ignota.
My head is a jungle, jungle…
Queste parole descrivono esattamente il mio stato d’animo. Cosa diamine sta succedendo nella mia testa?
 
Arrivo al Black Moon che sono le sette e mezza passate. Tutta colpa di mia madre, visto che mi ha fatto un sermone infinito riguardo all’alcol e ai locali vari.
Dentro c’è un sacco di gente, e mi fanno un timbro su una mano. La gente siede ai tavoli a chiacchierare, c’è chi mangia, chi scherza, chi ride, chi piange. Un turbinio confuso di colori ed emozioni.
Il piccolo palco è addossato ad una parete del locale, che è decisamente enorme. Non me lo ricordavo così.
Dietro al palco trovo Sean e la sua band, seduti per terra, ma di Jake, per fortuna, nessuna traccia. Strano che non me l’abbia detto.
Anche Momo è lì, sta cercando di rassicurare Sean, che trema vistosamente.
«Ehi» saluto.
«Finalmente, ce l’hai fatta. Temevo non venissi più» mi fa Momo.
Guardo interrogativa Sean, e alzo un sopracciglio.
«Che succede?»
«È nervoso. Ha paura, penso sia normale» risponde Momo.
«Non ho paura» la interrompe il ragazzo. «Solo che… e se non piacciamo alla gente? Se ci fischiano? In quel caso potrei rintanarmi nella vecchia soffitta ammuffita di mio nonno e rimanere lì per tutta la vita».
Mi accuccio davanti a lui, guardandolo fisso negli occhi.  
«Intanto, fatti dare un’aggiustatina» dico. Lui chiude pazientemente gli occhi, mentre gli scosto le ciocche di capelli dalla fronte. Cerco di dargli un’aria più… rock. Più abbinata alla camicia blu a quadri che indossa, quella che gli ho regalato l’anno scorso. Quando finisco, riapre gli occhi.
«Sean, non potranno mai fischiarvi. Sei – siete – bravissimi. E vi siete impegnati così tanto. Figurati se vi possono fischiare. Basta che tu sia te stesso, e andrà tutto bene»
«Non è così facile…»
«Sì che lo è. Adesso tu muovi quel culo, Sali su quel palco e fai vedere a tutta questa gente chi è Sean Hamilton. E quanto è bravo e ama la musica»
«Non ce la farò mai»
«Invece sì» ribatto. «Guarda da quella parte della sala. Io sarò lì, insieme a Momo, okay? Se non te la senti, guarda verso di noi. Fai come se stessi cantando a noi».
«È sottilmente egoista, da parte tua. E poi, non ricopiare le frasi di Cinna*» mi dice, sorridendo debolmente.
«Be’, ma Cinna aveva ragione. E in questo momento non mi importa un bel niente del plagio né dell’egoismo. Ti ricordi l’altro giorno, a Leicester? Quando hai suonato Sweet Home Alabama?» gli chiedo. Lui annuisce. «Bene, allora fai come quel giorno, intesi? ».
«Ci proverò» dice, e sorride con più convinzione. «Grazie». Poi fa un cenno ai ragazzi di alzarsi, e prendono gli strumenti. Il microfono e la batteria sono già sul palco, dove il proprietario del locale li sta annunciando.
Il bassista è tornato, e sembra in ottima forma.
«Prima che sali… Matt è già guarito?» chiedo a Sean.
«Sì. Semplicemente, l’aveva fatta più tragica di quello che realmente era».
Mentre sale sul palco, io e Momo andiamo a prendere posto al lato della sala.
La band sale sul palco e si mettono in posizione, controllano gli strumenti, finché Sean non afferra il microfono. Per un attimo, i suoi occhi marroni guizzano verso il posto dove siamo io e Momo, e sorrido incoraggiante.
«Buonasera a tutti, gente! Noi siamo i Radioactive Flame!»

 
***
Angolino autrice
Buonsalve a tutti. Innanzitutto, chiedo perdono per aver aggiornato così tardi, ma ho avuto una serie di impegni e non ho potuto scrivere né aggiornare, mi dispiace.
Allora, piaciuto il capitolo? A me sinceramente non troppo, ma ci tenevo ad aggiornare, perciò non ho voluto rivederlo. Spero che vi siate rilassati e divertiti.
Ah, Cinna* è un altro personaggio di Hunger Games… scusate!
Quindi ringrazio come al solito chi recensisce, segue, preferisce e ricorda, quindi grazie a Angie97, darkromance, ljamspooh, Sotto un cielo di stelle, Buio_2000, Fatadz, WriterSarah, accio Black, BreakinCrystal, cardie9980, cate 94, Ciel__, Fiore di loto92, fra_love, gatta12, Gisella, loveyasnokey, maka97, maredinverno, MiryPappi, RayaFee, RobertaLu, Sara_H e ventola! Grazie di tutto! E grazie anche a mojitobrescia.it per le informazioni sui balli caraibici...
Alla prossima!
Heart

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Capitolo 8
*** Il concerto ***


8. Il concerto
                                                                                                                                           La farfalla intesse una canzone
                                                                                                                                               che parla per lei

  
«Buonasera a tutti, gente! Noi siamo i Radioactive Flame!».
La voce di Sean riecheggia nel locale. Si sente qualche applauso e qualche urlo.
«Vorremmo iniziare» continua «con la canzone che ci ha ispirati per il nome della band. Per voi, Radioactive degli Imagine Dragons!». Quelli che conoscono la canzone si mettono a urlare come forsennati. Visto che la conosco anch’io, li imito.
Sean, sul palco, da un’aggiustata alla chitarra e parte la canzone.
La conosco bene, perché il video è sottilmente inquietante e c’è Alexandra Daddario, attrice che adoro.
I ragazzi stanno facendo un buon lavoro, con l’inizio di soli strumenti. E poi Sean comincia a cantare.
 
I’m waking up to ash and dust
I wipe my brow and I sweat my rust
I’m breathing in the chemicals…
I’m breaking in, shaping up, checking out on the
prison bus
This is it, the apocalypse
Whoa
 
Sebbene la voce di Sean sia un po’ diversa da quella malinconica e a tratti alta di Dan Reynolds, non gli viene affatto male. Ma forse io sono di parte perché amo la canzone.
 
I’m waking up, I feel it in my bones
Love to make my systems go
Welcome to the new age, to the new age
Welcome to the new age, to the new age
Whoa, whoa, I’m radioactive, radioactive
Whoa, whoa, I’m radioactive, radioactive.
I raise my flags, don my clothes,
It’s a revolution I suppose
We’ll paint it red to fit right in
Whoa
I’m breaking in, shaping up, checking out on the
prison bus
This is it, the apocalypse…
Whoa
 
Adesso c’è di nuovo il ritornello. Quando provo a cantarla io non ci arrivo con la voce, ma a Sean sì. Come diamine fa?
 
All systems go, sun hasn’t died
Deep in my bones, straight from inside…
I’m waking up, I feel it in my bones…
 
La canzone finisce prima che me ne renda davvero conto. Il locale si riempie di applausi, e anche da qui vedo gli occhi di Sean luccicare. Ha alcune ciocche di capelli incollate alla fronte, per quanto è emozionato.
Prende di nuovo il microfono.
«La prossima canzone, invece… l’abbiamo scritta noi. Siamo molto emozionati all’idea di proporvela. Si intitola The Radioactive Flame».
Il testo è un trionfo di note alte e basse. Parla di quattro ragazzi, quattro amici, che decidono di metter su una band. E anche se è dura, loro sanno che ce la faranno, perché si sentono come un’unica grande fiamma, una fiamma radioattiva, affascinante e devastante al tempo stesso.
La voce di Sean è diversa da prima. Non cerca più di imitare quella di Dan Reynolds. Adesso ha assunto una tonalità forte e decisa, a tratti insicura, a seconda delle note e delle parole. È un insieme di emozioni e parole.
No one can stop us, because we are a radioactive flame,
a radioactive flame.
 
Quando finisce, ho la pelle d’oca, mentre intorno a me gli applausi sono sempre più forti.
Sean sembra brillare di luce propria, e annuncia il titolo della prossima canzone: Unintended, dei Muse.
 
You could be my unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I’ll always love…
You could be the one who listens
To my deepest inquisitions
You could be the one I’ll always love.
I’ll be there as soon as I can
But I’m busy mending broken
Pieces of the life I had before.
 
Senza che me ne accorga, una lacrima mi scivola lungo la guancia.
 
First there was the one who challenged
All my dreams and all my balance
She could never be as good as you…
You could be my unintended
Choice to live my life extended
You should be the one I’ll always love.
I’ll be there as soon as I can
But I’m busy mending broken
Pieces of the life I had before.
 
L’intero Black Moon è ammutolito. Vedo ragazze che si asciugano le guance con le mani o con l’orlo delle magliette, finché non scoppia una salva di applausi. Mi ritrovo a sorridere e piangere contemporaneamente.
Sean non ha la voce di Matthew Bellamy, ma con questa canzone basta il testo a emozionare. E non importa se non è cantata perfettamente.
Sul palco lo vedo tremare. Poi Daniel, il batterista, annuncia la canzone Thick as Thieves, dei Kasabian.
 
There we were, thick as thieves
Frightened my shadows and the autumn leaves
We wore stolen hats, fitted soles,
Aided my lies amongst the media foes…
And hey oh, where did it go?
When did we lose our sight?
And it’s a nice show, the ones we perform
Performing it day and night, night.
See the lights upon my face,
Walking in circles with the human race
And all the little people they want to be free
But I can’t get there ‘cause I’ve got you holding me back…
 
È… sono senza parole. È la sua tonalità. È perfetta.
 
I gave you all the high skies but you gave me night
I gave you all the high skies but you gave me night…
 
«La prossima canzone» dice Sean, quando finisce «l’abbiamo sempre scritta noi. Si chiama Fire and Powder».
Stavolta la canzone è dinamica ed energica. Parla di violenza, di guerra, di quando tutto ciò che rimane è fuoco e polvere. Ma la seconda strofa parla anche di amori proibiti e passioni nascoste. Del fuoco e della polvere di chi si ama di nascosto.
 
But after all this, all that remains
Is just fire and powder.
 
Che strano, mettere nella stessa canzone amore e guerra. Cose opposte con la stessa conseguenza, e in effetti non ha tutti i torti. Non ci avevo mai pensato.
Della canzone seguente Sean non dice neanche il titolo, ma basta qualche accordo a farmi riconoscere Wonderwall. Insomma, chi non conosce questa canzone? È famosissima.
 
Because maybe
You’re gonna be the one who saves me
And after all
You’re my wonderwall.
 
La voce di Liam Gallagher mi echeggia nella mente, sovrapposta a quella di Sean. Mi accorgo che ha cambiato qualcosa – non saprei identificare cosa, ma qualcosa ha cambiato. Sta di fatto che è comunque perfetta.
La prossima è Goodbye Kiss sempre dei Kasabian. Mi chiedo perché abbia scelto queste canzoni. A prescindere dal fatto che gli vengono bene… perché proprio queste?
 
Doomed from the start
We met with a goodbye kiss, I broke my wrist
It all kicked off, I had no choice
You said that you didn’t mind ‘cause love’s hard to find.
Maybe the days we had are gone, living in silence for too long
Open your eyes and what do you see?
No more laughs, no more photographs…
Turning slowly, looking back, see
No words can save this, you’re broken and I’m pissed
Run along like I’m supposed to, be the man I ought to
Rock and roll sent us insane, I hope someday that we will meet again…
 
Di nuovo ammiro la voce di Sean, simile a quella di Tom Meighan eppure con qualcosa di assai diverso… non so. Non sono un’esperta di musica.
Vengono indetti cinque minuti di pausa, e qualcuno ne approfitta per fare una telefonata o bere un bicchiere d’acqua. I Radioactive Flame scendono dal palco, e io e Momo decidiamo di sentire come sta Sean.
Mentre ci avviamo verso il palco, ascoltiamo il chiacchiericcio della gente.
«Ma hai visto il cantante quanto è carino? Se non sbaglio si chiama Sean… viene nella nostra scuola… che dici, se gli chiedo il numero di telefono o il contatto di Facebook me lo dà?» sta dicendo una ragazza ad un’altra che gli sta vicina. Le lancio uno sguardo che ucciderebbe un elefante e non dice nient’altro.
Insomma, Sean è il mio migliore amico, ma mi dà fastidio. Tanto. E mi sento in colpa, insomma, chi sono io per decidere con chi dovrebbe avere una relazione? Non sarò mica… gelosa?
Quando lo raggiungiamo è raggiante.
«Eccovi! Come stiamo andando?» mi chiede, con un sorrisone a trentadue denti.
«Bene, la gente è impazzita, siete bravissimi! Per essere dei semplici intrattenitori, stasera, state andando alla grande!» gli rispondo, sorridendo anch’io.
«E il bello deve ancora venire» dice, con fare misterioso. Ma non posso chiedergli spiegazioni perché i cinque minuti sono finiti, e mi tocca tornare al mio posto, mentre la band torna sul palco.
«Spero che vi stiate divertendo. Adesso canteremo un’altra canzone, scritta da me e da Daniel» il batterista fa un brevissimo assolo in segno di saluto. «Si chiama What if».
Una delusione d’amore. Di questo parla la canzone, dolce e malinconica, triste e bella. O meglio, un amore non corrisposto.
 
what if you loved me too?
 
Sono un po’ presa dai miei pensieri, e riesco a memorizzare solo questo verso, ma la canzone è bellissima. Non credevo che Sean fosse in grado di scrivere cose così belle. Si è basato su esperienze reali personali, di Daniel o si è calato nel “personaggio”?  Chissà.
La canzone dopo la conosco bene. È How you remind me dei Nickelback.
 
Never made it as a wise man
I couldn’t cut it as a poor man stealing
Tired of living like a blind man
I’m sick of sight without a sense of feeling
And this is how you remind me
This is how you remind me
Of what I really am
This is how you remind me
Of what I really am
It’s not like you to say sorry
I was waiting on a different story
This time I’m mistaken
For handing you a heart worth breaking
And I’ve been wrong, I’ve been down,
Been to the bottom of every bottle
These five words in my head
Scream “are we having fun yet?”
 
Questa canzone mi emoziona. È bellissima e gli viene bene. La prossima volta che dice di avere una brutta voce, lo picchio.
 
It’s not like you didn’t know that
I said I love you and I swear I still do
And it must have been so bad
Cause living with me must have damn killed you
And this is how, you remind me
Of what I really am
This is how, you remind me
Of what I really am
It’s not like you to say sorry
I was waiting on a different story
This time I’m mistaken
For handing you a heart worth breaking
And I’ve been wrong, I’ve been down,
Been to the bottom of every bottle
These five words in my head
Scream “are we having fun yet?”
 
È incredibile, ha pescato tutte canzoni che mi piacciono. Quando finisce, gli applausi non si risparmiano, ma il locale è già meno affollato. Non ho voglia di controllare che ore sono, però.
«La prossima canzone l’ho scritta da solo. Per voi, Too friends to be lovers» annuncia Sean.
Questa canzone mi lascia un po’ perplessa. Voglio dire, il testo è davvero stupendo, ma la domanda che sorge è sempre la stessa: ha scritto ciò che prova davvero, in questa canzone? Oppure si è immedesimato in qualcuno che ha vissuto una cosa del genere? Non lo so e forse non voglio neppure saperlo davvero.
Non è che a Sean piace Momo, ma siccome sono molto amici non vuole dichiararsi per non rovinare la propria amicizia?
Be’, a giudicare dall’emozione che sta mettendo adesso, non la giudicherei un’opzione così improbabile. Urge una chiacchierata, così potrò aiutarlo. Starebbero bene, insieme.
Sorrido furbescamente, guardando Momo di soppiatto. Non sfuggirà a Cupido!
Sul palco, l’altro chitarrista, Adam, annuncia il prossimo titolo: I walk beside you, dei Dream Theater.
 
There’s a story in your eyes
I can see the hurt behind your smile
For every sign I recognize
Another one escapes me
Let me know what plagues your mind
Let me be the one to know you best
Be the one to hold you up
When you feel like you’re sinking
Tell me once again
What’s beneath the pain you’re feeling
Don’t abandon me
Or think you can’t be saved
I walk beside you
Wherever you are
Whatever it takes
No matter how far
Through all the may come
And all the may go
I walk beside you
I walk beside you
 
Oddio, sto piangendo di nuovo. Ma perché? Perché questa canzone mi emoziona così tanto?
Per un attimo ho l’impressione che Sean mi stia guardando, ma quando osservo meglio lui guarda fisso davanti a sé.
 
Summon up your ghost from me
Rest your tired thoughts upon my hands
Step inside this sacred place
When all your dreams seem broken
Resonate inside this temple
Let me be the one who understands
Be the one who carry you
When you can walk no further
Tell me once again
What’s below the surface bleeding
If you’ve lost the way,
I will take you there
I walk beside you
Wherever you are
Whatever it takes
No matter how far
Through all the may come
And all the may come
I walk beside you
I walk beside you
 
Oh, when everything is wrong
Oh, where hopelessness surrounds you
Oh, the sun will rise again
The tide you swim against
Will carry you back home
So don’t give up
Don’t give in
 
I walk beside you
Wherever you are
Whatever it takes
No matter how far
Through all the may come
And all the may come
I walk beside you
I walk beside you
 
Credo che il testo dica tutto. A mio parere è una delle canzoni d’amore, o d’amicizia, più belle che ci siano.
Poi partono con una canzone che non avevo mai sentito. Stavolta la annuncia Matt. L’hanno scritta loro, si chiama You’re brighter than Sirius.
Cavoli, stavolta canta anche Adam. Ha una voce niente male, e la canzone è… speciale. Voglio dire, sembra dedicata ad una ragazza speciale. Il titolo mi fa pensare… una ragazza più luminosa di Sirio. E Sirio è la stella più luminosa del firmamento, dopo la Stella Polare. Perciò… deve essere dedicata a una ragazza speciale. Per qualche strano motivo, mi sento triste.
 
…Baby, when you smile,
You’re brighter than Sirius.
 
Oddio, mi viene di nuovo da piangere. Non pensavo che quei quattro ragazzi lassù fossero in grado di scrivere una cosa come questa.
La canzone dopo non viene annunciata, ma io riconosco comunque In between dei Linkin Park.
 
Let me apologize to begin with
Let me apologize for what I’m about to say
But trying to be genuine was harder than it seemed
But somehow I caught up in between
Let me apologize to begin with
Let me apologize for what I’m about to say
But trying to be someone else was harder than it seemed
And somehow I caught up in between
Between my pride and my promise
Between my lies and how the truth gets in the way
And things I want to say to you get lost before they come
The only thing that’s worse than one is none.
Let me apologize to begin with
Let me apologize for what I’m about to say
But trying to regain your trust was harder than it seemed
But somehow I caught up in between
Between my pride and my promise
Between my lies and how the truth gets in the way
The things I want to say to you get lost before they come
The only thing that’s worse than one is none
The only thing that’s worse than one is none…
 
Questa canzone mi ricorda qualcosa. Qualcosa che non dovrei dimenticare, ma.. boh, non lo so. Mi confonde. È bellissima, però.
 
And I cannot explain to you
And anything I say or do or plan
Fear is not afraid of you
But guilt’s a language you can understand
I cannot explain to you
And anything I say or do
I hope the actions speak the words they can
For my pride and my promise
For my lies and how the truth gets in the way
The things I want to say to you get lost before they come
The only thing that’s worse is
Pride and my promise
Between my lies and how the truth gets in the way
The things I want to say to you get lost before they come
The only thing that’s worse than one is none
The only thing that’s worse than one is none
The only thing that’s worse than one is none.
 
Un coro di applausi si leva dal pubblico, ma io non me ne accorgo. Era una lacrima quella che ho visto luccicare sulla guancia di Sean a circa metà canzone?
 
«E per finire» annuncia Adam «La canzone di cui andiamo più orgogliosi». I ragazzi si lanciano sguardi d’intesa e si sorridono, incoraggiandosi l’un l’altro.
«A book on a shelf, dei Radioactive Flame!»
Il testo della canzone è semplice. Non parla d’amore, parla di un vecchio libro polveroso lasciato sullo scaffale di una casa vuota. Un libro che narra di avventura, azione, amicizia e anche amore. Un libro su uno scaffale. La seconda parte, però, è diversa. Parla di un ragazzo che si sente come quel libro, che contiene mille meraviglie ma è solo e come abbandonato su uno scaffale.
 
And then I told myself,
“I’m not a book on a shelf”…
 
Sento addosso una tristezza incredibile.
Poi riesco a capire. Capisco cosa mi ha lasciata perplessa di tutta la serata.
Perché a parte qualche eccezione, Sean ha cantato soprattutto canzoni d’amore.
 
I ragazzi accolgono l’applauso finale. Ma non scendono dal palco. Sean prende il microfono.
«Prima che ve ne andiate… vorrei che mi ascoltaste, un’ultima volta. Vorrei dedicare due canzoni ad una ragazza… una ragazza che mi sta a cuore. Che mi è sempre stata vicina. E vorrei dedicarle queste parole».
«Dicci chi è!» urla un ragazzo dall’ultima fila.
Sean arrossisce un sacco.
«No. Però sono per lei. E se lei capisce, va bene. Ma non dirò chi è».
Adesso sono curiosa anch’io. Allora ci avevo visto giusto? Sean è innamorato? Provo a decifrare il suo sguardo per vedere se guarda Momo, ma i suoi occhi sono tutti per la chitarra, che è di nuovo la sua acustica. Si accomoda su uno sgabello, e mi rendo conto che non suonerà tutta la band, ma solo lui.
Comincia a suonare i primi accordi. Ma certo, Jason Mraz. È I’m yours, giusto.
 
Well you done done me and you bet I felt it
I try to beat you, but you’re so hot that I melted
I fell right through the cracks
Now I’m trying to get back
Before the cool done run out I’ll be giving it my best test
And nothing’s gonna stop me but divine intervention
I reckon it’s again my turn
To win some or learn some
But I won’t hesitate no more, no more
It cannot wait, I’m yours
 
Open up your mind and see like me
Open up your plans and damn you’re free
I look into your heart and you’ll find love, love, love, love
Listen to the music of the moment people dance and sing
We’re just one big family
And it’s our God forsaken right to be loved, loved, loved, loved, loved
So I won’t hesitate no more, no more
It cannot wait, I’m sure
There’s no need to complicate, our time is short
This is our fate, I’m yours
 
I’ve been spending way too long checking my tongue in the mirror
And bending over backwards just to try and see it clearer
But my breath fogged up the glass
And so I drew a new face and I laughed
I guess what I’m singing is there ain’t no better reason
To rid yourself of vanities and just go with the seasons
It’s what we aim to do
Our name is our virtue
But I won’t hesitate no more, no more
It cannot wait, I’m yours
 
Open up your mind and see like me
Open up your plans and damn you’re free
Look into your heart and you’ll find the sky is yours
So please don’t, please don’t
There’s no need to complicate
‘cause our time is short
This o’, this o’, this is our faith
I’m yours…
 
Sean suona l’ultima nota e gli applausi non si risparmiano. Vorrei davvero sapere chi è la misteriosa ragazza. E se fosse davvero Momo…?
«Questa era la prima. Adesso, la seconda, You’re beautiful di James Blunt».
Cavoli. So che questa canzone è difficile da suonare, ma mi fido di Sean. Se ha deciso di cantarla e suonarla è perché lo sa fare.
 
My life is brilliant
My love is pure
I saw an angel
Of that I’m sure
She smiled at me on the subway
She was with another man
But I won’t lose no sleep on that,
‘cause I’ve got a plan.
 
You’re beautiful, you’re beautiful,
You’re beautiful,  it’s true.
I saw your face in a crowded place
And I don’t know what to do
‘cause I’ll never be with you.
 
Yeah, she caught my eye
As we walked on by
She could see from my face that I was
Fucking high.
And I don’t think that I’ll see her again,
But we shared a moment that will last ‘till the end.
 
You’re beautiful, you’re beautiful,
You’re beautiful, it’s true.
I saw your face in a crowded place
And I don’t know what to do
‘cause I’ll never be with you.
 
You’re beautiful, you’re beautiful,
You’re beautiful, it’s true.
There must be an angel with a smile on her face
When she thought up that I should be with you.
But it’s time to face the truth,
I will never be with you.
 
«Questa era l’ultima. Ed è per dirle che è bellissima. Però a differenza del ragazzo della canzone, io l’ho rivisto, il mio angelo, e sono suo amico. Forse sono più fortunato» dice, scatenando una risata.
È suo amico… allora è davvero Momo! Sarebbe incredibile.
«Questa sera è tutto, ragazzi! Grazie per averci ascoltati!» dice Matt al pubblico. Sean gli toglie il microfono di mano.
«Erano qui per voi i Radioactive Flame! Alla batteria… Daniel!» applauso, e il sopracitato fa un piccolo assolo. «Al basso… Matt!» altro applauso, e anche lui saluta con un piccolo pezzo. «Alla chitarra… Adam!». Mentre l’applauso esplode, anche Adam dice la sua. Poi toglie il microfono di mano a Sean e dice: «E voce e chitarra… Sean!». Il locale sembra esplodere. Anche io urlo e batto le mani finché non me le sento insensibili.
«Non merito tutto questo…» prova a protestare, ma Adam lo interrompe.
«Se non ci fossi stato tu, i Radioactive Flame neanche esistevano!».
La folla si avvia verso l’uscita. Io provo ad andare nella direzione opposta, verso il palco, facendomi largo a gomitate tra la gente, insieme a Momo.
 
 
***Extra***

Sean pov

Fa’ che capisca, per favore… penso, mentre comincio a suonare i Linkin Park. Riuscirà a capire quello che voglio dirle? Riuscirò a scusarmi con lei per quelle parole che non le ho mai detto?
Ho scelto questa canzone apposta. Per lei. Per far sì che capisca. La guardo, ma appena posa lo sguardo su di me, mi fingo molto concentrato sulla folla. Non deve capire guardandomi, deve capire ascoltandomi.
Eppure, quando suono quel pezzo, quella piccola strofa, non posso fare a meno di pensarci. Io sono in grado di farglielo capire? I miei gesti confermano ciò che provo? E se mi sbaglio, se sto fallendo? Mi sfugge una lacrima.
Ma guardati, piangi, come una femminuccia. Il mio ego interiore mi ammonisce, e cerco di nascondermi. Spero che non se ne sia accorto nessuno.
 
Dopo che finisco di suonare You’re beautiful, la guardo di soppiatto. Avrà capito? Se la conosco bene, no. Non si rende conto delle cose che la riguardano finché non ci va a sbattere il muso. Forse è anche questo che mi piace di lei, la sua ingenuità, insieme a un migliaio di altre cose. Ci ho messo anni a capirle tutte, e stasera sono tutte qui, nelle mie canzoni. Sono tutte per lei. Ancora non se n’è accorta, ma capirà. Credo. Spero.
So come la guardano gli altri ragazzi, quando andiamo in giro per la città. E io, non vorrei dirlo, ma voglio che sia solo mia. Voglio essere l’unico ad avere il diritto di guardarla in quel modo, e invece non l’ho mai fatto, perché sono suo amico, perché sono timido… Ma va', è meglio che la smetta con queste cazzate. In realtà sono un semplice vigliacco.
Forse dovrei semplicemente dirglielo. Così, creare l’atmosfera giusta e dirglielo. O magari baciarla, ma non credo sia una buona idea, si spaventerebbe e basta. In ogni caso, è più semplice a dirsi che a farsi.
Oppure sono io che mi sto facendo troppi problemi? Forse dovrei smettere di pensare, sì. Quella è un’ottima idea.
Sembra strano che un ragazzo pensi tanto, eh? Di solito sono le ragazze quelle sempre preoccupate e che si fanno un mucchio di problemi inesistenti… Ma in fondo è grazie a questo mio continuo arrovellarmi su questi pensieri che sono riuscito a scrivere le canzoni, almeno quelle per lei. Quindi alla fine è utile.
La folla si dirige all’uscita, ma vedo due persone andare controcorrente e venire verso il palco. Scuoto la testa e sorrido, mentre loro mi vengono incontro.
 
 
 

 
***
Angolino autrice

Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Ho aggiornato! Gioite :’)
Alex: guarda che gioisci solo tu.
Autrice: ma stai zitta, che è meglio.
Piaciuto il capitolo? Spero che non vi siate annoiate/i, ma… richiesta assurda… spero che abbiate letto i testi delle canzoni con attenzione, eheh.
E vi è piaciuto il piccolo extra dentro la tormentata (e dura) testaccia di Sean? Volevo metterlo, per cambiare aria, almeno un po’. Però se non vi piace, o non vi piace la semplice idea che ci sia, lo tolgo, non è significativo. È un extra. Se vi piace, nei prossimi capitoli lo metterò anche su altri personaggi.
Allora, che altro dire? Spero che continuerete a seguirmi. Siete già tantissimi (mio dio! Vi amo!) e perciò vi ringrazierò uno per uno, adesso. Quindi grazie mille a Angie97, darkromance, Jadel, ljamspooh, Sotto un cielo di stelle,  Buio_2000, Fatadz, WriterSarah, accio Black, afrodite31, cardie9980, cate 94, Ciel__, Clockwise (probabilmente l’extra non ti piacerà, ma tu non mi hai dato una risposta chiara e ho fatto di testa mia u.u), Fiore di loto92, Frafry94, fra_love, gatta12, loveyasnokey, maka97, maredinverno, MiryPappi, Nikky47, RayaFee, RobertaLu, rosaRosa, Sara_H e ventola!   
Il prossimo capitolo arriverà a data da definirsi…
Alla prossima!
Heart

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Capitolo 9
*** Nido di vespe ***


9. Nido di vespe
                                                                                                           Gli occhi della farfalla non vedono
                                                                                                                            la differenza tra gelosia e amore

 
La luce che entra dalla finestra della mia camera mi ferisce gli occhi e sono costretta a battere le palpebre un paio di volte. Domenica.
Ricordo poco di cosa è successo ieri, dopo il concerto: solo che io e Momo ci siamo complimentate con Sean e ce ne siamo tornate a casa. O meglio: Sean e Momo volevano accompagnarmi a casa, ma un ben noto vicino di casa è spuntato dal nulla. Proprio a fagiolo, visto che non avevo alcuna voglia di fare da terzo incomodo. Ed ecco che Jake spunta come un fungo, con le guance arrossate per il freddo, che senza dire una parola mi agguanta un braccio e mi trascina verso casa. Io sono troppo stupita per protestare. Chi lo capisce è bravo.
Ho l’impressione che mi segua, ma forse sono solo paranoica.
Sta di fatto che siamo tornati a casa insieme, battibeccando a bassa voce per non disturbare nessuno, insultandoci a vicenda per quello che ci tocca fare e sul modo di ballare l’uno dell’altra. Ricordo che ad un certo punto si è offeso sul serio e non ha più spiccicato parola… solo che non ricordo perché. Forse ci sono andata giù pesante con gli insulti. Solo che… insomma, lui me ne dice di tutti i colori, perché io dovrei farmi scrupoli?
Arrivati a casa mi ha salutata con un laconico “buonanotte”. Tutto qui.
Mi alzo e ciabatto verso il bagno. Quando mi guardo allo specchio mi sfugge un gemito. I miei poveri capelli indefiniti sono un’unica matassa rossa. Passo mezz’ora a tentare di districare nodi e intrecci vari; poi perdo la pazienza e, con uno sbuffo esasperato, mi fiondo sotto la doccia per non pensarci più.
Per me la doccia è sempre un momento di riflessione. Posso starmene tranquilla sotto il getto caldo a rimuginare o a cantare, secondo i casi. Oggi opto per il cantare.
Quando esco, circa un quarto d’ora dopo, sto ancora cantando My Immortal degli Evanescence, mischiata a Love Love Love degli Of Monsters And Men. Il risultato fa abbastanza schifo.
Mi asciugo i capelli come capita, infilo la mia tutona da casalinga disperata e strascico i piedi fino in cucina. Sono quasi le undici del mattino.
«Buongiorno» dico con una sbadiglio. Papà mi fa giusto un cenno con la testa: è troppo preso dalla lettura del giornale. Mamma mi allunga una tazzina di caffè, che afferro come se ne dipendesse la mia vita… il che non è esattamente sbagliato. Senza caffè di mattina non connetto.
Mamma mi squadra dalla testa ai piedi.
«Non mi piace quella tuta, Alexandra. Va’ a metterti qualcos’altro»
«E perché mai, scusa?» ribatto, restia a cambiare la mia comodissima e usatissima tuta.
«Be’, non vorrai farmi fare brutta figura con zia Ann…».
Impallidisco e comincio a sudare freddo.
«Gli… gli zii verranno qui? Oggi?» balbetto.
«Ma sì, te lo avevo già detto! Solo che tu non mi ascolti mai…».
Non sento cosa dice dopo. Semplicemente mi fiondo in camera mia e infilo alla svelta un paio di jeans e una camicia blu – che mi sta da schifo, come tutte le camicie, ma è una necessità - : in cinque minuti sono “presentabile” e mi dirigo seraficamente in cucina. Vi chiederete perché tanto affanno per una visita degli zii. Be’, perché voi non conoscete mia cugina.
E’ un anno più piccola di me; ha gli occhi azzurri come i miei e i capelli del mio stesso colore, ma le somiglianze finiscono qui. Lei è alta e sottile come un giunco, non ha neppure una minuscola lentiggine sul viso pallido come porcellana (mentre io ho rinunciato da un pezzo a tentare di contarle), i suoi capelli sono lisci come l’olio (non assurdi come i miei) ed è molto più carina di me. È da quando è diventata “popolare” che non fa che criticarmi e prendermi in giro su tutto. Cioè, all’inizio non ci facevo neppure caso, ma adesso è seccante.
«A che ora arriveranno?» chiedo, serenissima.
«Oh, non preoccuparti. Arriveranno per l’ora del tè» risponde tranquilla mia madre. Io trattengo a stento un insulto. Voglio dire, io mi sarei sbrigata solo per sapere che ho ancora tutto il pomeriggio? Mamma, ti odio!
«Ma tesoro, io te l’avevo detto, se tu mi stessi a sentire…» e riattacca la solfa. Stacco le orecchie dopo circa sessanta secondi, e lascio la mia mente libera di vagare.
Mi lascio ammaliare da immagini e sensazioni profonde e suggestive, come l’intensità degli occhi di Sean, il delizioso profumo di menta e limone di Ludvig e le braccia forti e rassicuranti di Jake…
Jake?! E adesso perché penso a Jake e, soprattutto, a Sean? Sean è tabù. A Sean piace Momo. Ma Jake… lui dovrebbe essere l’ultimo dei miei pensieri, almeno per ciò che non riguarda il ballo.
Già, il ballo! Quella è l’unica cosa davvero importante. Il ballo.
Rivedo i passi, focalizzandoli nella mia mente come fotografie, la voce della Costance che ripete come un mantra: il ballo è seduzione, gioco di sguardi e di movimenti…
Lo squillo fastidioso del telefono interrompe i miei pensieri. Risponde mia madre, ma dopo pochi attimi mi passa l’apparecchio.
«È per te» dice semplicemente.
«Pronto?» faccio con voce incerta.
«Watson, sono la professoressa Costance».
Ma questa legge pure nel pensiero?
«Ah… buongiorno» rispondo.
«Buongiorno anche a te. Watson, ti ho chiamata per dirti che domani, a lezione, devi portare un paio di scarpe da ballo. Tacco tra i cinque e i sette centimetri, a rocchetto…» e mi rifila una sfilza di particolari che scordo in meno di un secondo.
«Aspetti, aspetti un attimo» la interrompo. «Mi sta chiedendo di comprare delle scarpe con il tacco?»
«Sì, Watson. Non mi pare una richiesta molto strana. Anzi, avrei dovuto fartela una settimana fa» dice con un tono stupito.
«E se io non sapessi muovermi, sui tacchi?» pigolo debolmente.
«Imparerai» è la semplice, quanto secca, risposta.
«E se facessi la figura di una balenottera arenata?» quasi piango.
«In quel caso… chiameremo la Protezione Animali! Oh oh oh!» e con quest’ultima risata stile Babbo Natale malvagio chiude la telefonata.
Ah ah ah, che ridere! Ma quanto è simpatica questa donna…
Io sono troppo sconvolta per dire una sola parola. Guardo mia madre che mi sta dicendo qualcosa, solo che non capisco cosa. Mi costringe a bere un bicchiere d’acqua e mi riprendo un poco, ma riesco solo a balbettare parole sconnesse come «scarpe» «tacchi» e «Protezione Animali».
Mamma pare capire lo stesso. Meno male che c’è lei.
Due minuti, ed è pronta per uscire.
«Forza, andiamo a prendere queste scarpe da ballo».
 
Torniamo parecchio tardi. Non mi dilungo sulla mia visita al centro commerciale, che può essere descritta con una sola parola: incubo.
Detesto fare shopping, e ancora di più con mia madre. Trova sempre qualcosa da ridire… ma per fortuna non si può trovare molto da ridire su un paio di scarpe da ballo.
Sono comode, nere, con il tacco giusto. Spero che vadano bene.
È quasi l’ora del tè, i miei zii arriveranno a momenti… e infatti suona il citofono.
«Ma guarda, Alex! Da quanto tempo!» a vocetta acuta di mia cugina mi perfora i timpani non appena apro la porta di casa.
«Ciao, Lauren» dico mestamente.
Ci prendiamo il tè (anche se io non lo bevo, non mi piace) e, mentre i miei genitori e i miei zii chiacchierano, io sono costretta a sorbirmi Lauren.
«Vedo con piacere che non hai ancora imparato a vestirti» dice la serpe.
Parla lei, che si veste con i colori degli evidenziatori!
«E tu sei spiritosa come sempre» ribatto piccata.
Lauren sorride compiaciuta.
«Sono proprio spiritosa, vero? Lucas me lo diceva sempre… ma non mi diceva mai che ero bella!» mette il broncio. «Invece Andrew me lo dice tutti i giorni, è bellissimo e sono già tre volte che mi ha portata a ballare e mi ha pagato da bere! E pensare che stiamo insieme solo da due settimane!».
Dio, se sei così misericordioso, risparmiami. Risparmiami questa noia! Salvami dalle grinfie di mia cugina!
E invece no, mi tocca ascoltare il sermone riguardo a quanto il suo nuovo ragazzo sia perfetto bellissimo meraviglioso e blablabla, ormai non la sto neanche più a sentire, tanto dice sempre le stesse cose (il suddetto sermone era lo stesso che aveva fatto per Lucas, il suo ex).
E dopotutto, non credo che le importi se la ascolti o no; le bastano dei convincenti monosillabi quali “ah”, “uh”, “wow”, eccetera, l’importante è che la si faccia parlare di quanto sia meravigliosa la sua persona e la sua vita e tutto il resto.
Nel frattempo, indago in me stessa. Mi sento così strana. Lunatica lo sono sempre stata, ma adesso… posso passare dall’allegria all’abisso più nero di tristezza in meno di un secondo. E quegli innumerevoli momenti di panico nervoso in cui non so cosa dire, o che faccia fare. E quella sensazione, quel calore dolce e terribile all’altezza della stomaco? Le gambe di gelatina incapaci di sostenere il peso del corpo, il calore che sale al viso ogni minuto, la risatina involontaria, la gola riarsa quando più devo parlare?
I casi sono due: o sono malata, oppure…
«Insomma, mi stai ascoltando sì o no?» la vocetta di mia cugina interrompe il flusso dei miei pensieri. La guardo scocciata mentre lei riprende il dettagliatissimo resoconto del suo primissimo bacio con Andrew. Grazie mille, Lauren, di aver interrotto l’indagine del mio io interiore! Te ne sono davvero grata!
Inoltre, a me cosa dovrebbe importare delle sue vicende romantiche? Che ne parlasse con le sue amiche! Che c’entro io?
Va bene, lo ammetto, sono un po’ invidiosa. È logico che lo sia: io ho un anno più di lei e ancora non ho avuto un ragazzo, figuriamoci averne baciato uno!
Ci mettiamo al tavolo e ceniamo, da brava famigliola da serie TV. Ed ecco il momento che temo più di tutti.
«Allora, Alex, sul fronte ragazzi?» ghigna.
Ecco. Lei lo sa che è questo il mio punto debole.
Non so che rispondere, ho le guance in fiamme.
«Nessuna novità» sibilo.
«Oh, dai, non essere timida! A me lo puoi dire!» il suo sorriso serpentino si allarga.
Odio mia cugina.
Ma accade qualcosa di inaspettato: qualcuno suona il campanello.
Ammutoliamo tutti. Chi mai può essere, a quest’ora?
«Alex, tesoro, vai a vedere chi è» dice mia madre.
Mi alzo e cammino quasi in punta di piedi, con Lauren, curiosa, che mi segue.
Ma faccio un errore madornale, ovvero non guardo dallo spioncino. E chi mi appare davanti, in tutto il suo scultoreo splendore, non appena apro la porta?
«Jake? Che diamine ci fai qui?» e le mie guance si infiammano quando faccio vagare lo sguardo dal suo viso alle sue spalle fino ai muscoli delle braccia.
Lui alza un sopracciglio.
«Volevo solo sapere…»
«Ciao Jake» lo interrompe Lauren. È appoggiata allo stipite della porta con disinvoltura, e gli rivolge un sorriso smagliante.
«Ciao Lauren» le risponde, sfoderando la sua arma micidiale, il motivo del suo successo con le ragazze: quel sorriso da spaccone, un sorriso da cacciatore, da vincitore, il sorriso di chi conosce il suo fascino e sa usarlo al meglio. Il sorriso che fa sentire le ginocchia di burro e per il quale la quasi totalità delle ragazze della mia scuola ucciderebbero (no, non sto esagerando. L’anno scorso per un sorriso di questo cretino due ragazze sono quasi finite in ospedale, a forza di azzuffarsi).
Ma… ehi, e da quando Jake e mia cugina si conoscono?  
Vorrei poterlo chiedere, ma non ci riesco. Forse è meglio che non lo sappia. Ho paura, ma non saprei dire di cosa.
«Come va, tutto bene?» chiede Lauren, sbattendo le ciglia. Quasi la sento fare le fusa.
Povero Andrew, mi ritrovo a pensare, che razza di ragazza ti sei trovato.
«Mai stato meglio» risponde con voce calda, roca, mentre i suoi occhi grigiazzurri mandano lampi pericolosi… mia cugina ridacchia civettuola.
È ora di rompere l’atmosfera.
«Insomma, cosa ci fai qui?» dico brusca, riportando Jake sul pianeta Terra.
«Volevo solo chiederti se la Costance ha chiamato anche te» risponde con un’alzata di spalle.
Devo mandare via Lauren prima che Jake cominci a parlare a sproposito del ballo, o mi prenderà in giro a vita.
«Lauren, per favore, torna in casa e avverti che sto chiacchierando» le dico, ferma e risoluta. Devo pur far valere la mia autorità di diciassettenne ogni tanto, no?
«Ma non mi va» dice, mettendo il broncio.
«E tu vacci e basta».
Con uno sbuffo esagerato si volta e rientra in casa ancheggiando.
«Odi così tanto tua cugina?» mi chiede.
«Non sono affari tuoi. E tanto per la cronaca, sì, la Costance ha chiamato anche me»
«E anche a te ha chiesto di comprare delle scarpe da ballo?»
«Già».
Jake scoppia a ridere.
«Cosa c’è?» chiedo, stupita e alquanto infastidita.
«Niente, mi sto immaginando te che balli con delle scarpe da ballo… Assurdo!»
«Potrei ridere anche io, se potessi immaginare te che balli con delle scarpe da vecchio» rispondo acida.
«Non sono affatto da vecchio» dice serissimo.
«Uh-uh» rispondo, scettica. Accidenti, mi sento le vene piene di fiele. Rimaniamo in silenzio per un po’.
«Sai Alex, non c’è bisogno di essere gelosa» dice con una nota divertita.
«E chi sarebbe gelosa, scusa?» dico, ma evito di guardarlo in faccia. Anzi, il pavimento è diventato all’improvviso interessantissimo.
«Oh, sì che lo sei»
«Certo, nei tuoi sogni!»
«Oppure nei tuoi?» chiede, la sua voce è troppo vicina. Alzo la testa di scatto e trovo i suoi occhi indecifrabili a pochi centimetri dai miei. Mi tiro indietro con la faccia in fiamme, cerco di fuggire il suo sguardo indagatore.
«Tu sei fuori».
Non mi risponde. Fa solo un mezzo sorriso, quasi come a dire “ma a chi vuoi darla a bere?”.
Il silenzio diventa imbarazzante e più spesso di un muro.
Pensa, di’ qualcosa! La vocina urgente nella mia testa mi sta facendo impazzire. Nonostante vorrei chiedergli un sacco di cose, ho la gola riarsa.
Ma inaspettatamente è lui a spezzare il silenzio.
«Cosa ne pensi di Ohlsson?» mi chiede, con lo sguardo rivolto al soffitto. Sembra quasi… malinconico. E assurdamente mi ritrovo a pensare che è questa la sua vera bellezza.
Ma è la domanda a spiazzarmi.
«Cosa ne penso…?».
«Sì, cosa pensi di lui?» mi guarda serissimo.
«Be’, è un bravo ragazzo» dico debolmente. Non posso certo dirgli che lo considero una specie di creatura ultraterrena.
«E basta? Nient’altro?»
«Siamo amici»
«Solo amici? E non… niente, lascia perdere» dice amareggiato.
«Ma…»
«Ho detto lascia perdere. A domani». Semplicemente si gira e se ne va.
E mi liquida così, lasciandomi con un palmo di naso.
Personalmente, penso che abbia bisogno di un bravo psicologo, o di uno psicanalista.


Rientro piano in casa. I miei chiacchierano ancora, come se non fosse successo niente. Lauren è in trepidante attesa e mi fa il terzo grado su Jake, su che cosa vuole e se mi piace. Io riesco a non picchiarla solo perché la conversazione con quel ragazzo mi ha prosciugato tutte le energie.
Che diamine vuol dire quel “e non”? “E non” cosa?
Non faccio che rimuginare su questa frase a metà. Mia cugina parla e parla, ma davvero non la sento: ho altre cose a cui pensare, in primis allo strano comportamento di Jake e poi allo scombussolamento che provo quando lo vedo. Insomma, non è normale.


Quando cominciamo a salutarci, Lauren sta ancora parlando. Riesco a captare solo un “spero che ci rivedremo presto”. Sì, nei miei peggiori incubi.
Congediamo tutti con un sorriso, caldo e sincero da parte di mamma e papà, forzato e falso da parte mia. Ma poco prima che le porte dell’ascensore si chiudano, Lauren sporge fuori la testa e mi dice:
«Ricordati quello che ho detto! Pensaci su!».
Peccato che non mi sia minimamente accorta del fatto che mi abbia detto qualcosa che sembra avere una qualche importanza.
Vado a dormire con la testa che ronza peggio di un nido di vespe e, per qualche strano motivo, i miei sogni sono popolati dall’immagine di un mare in tempesta.


La giornata scolastica, tra le solite lezioni soporifere e interessantissimi discorsi che non mi saranno mai utili in una vita futura, finisce in un attimo. Ovviamente chiacchierare con Momo durante la maggior parte delle lezioni ha contribuito.
Le riferisco dello strano comportamento di Jake, bisognosa più che mai del consiglio di un’amica. E invece rimango piuttosto delusa.
«Non saprei. Ci devo pensare».
Tutto qui. Momo che ha sempre la risposta pronta, che riesce sempre a trovare un modo per tirami su… niente di niente.  
Dopo le lezioni corro fino a casa per prendere le cose che mi servono (ovviamente il borsone da jogging di papà adesso è mio), poi mi fiondo verso la porta. E rimango bloccata sulla soglia, perché lì, ad aspettarmi, c’è Jake.
«Accipicchia quanto sei lenta» esordisce.
«Eh?» la mia intelligentissima risposta è questa. Che storia è mai questa, e adesso cosa vuole?
«Ho detto che sei lenta» ripete. Ha scambiato la mia confusione con incomprensione – mi tratta pure da tonta!
«Ho capito. Solo che non capisco cosa ci fai qui» rispondo sinceramente.
E adesso fa qualcosa che mi spiazza ancora di più, sempre che la luce non mi stia giocando qualche brutto scherzo: diventa rosso come un pomodoro e mi dà una risposta che non è affatto una risposta.
«Allora, andiamo sì o no?» dice e, senza aspettare che risponda, comincia a scendere le scale. Penso di avere un punto interrogativo stampato in faccia.
Camminiamo mentre il silenzio diventa imbarazzante e improvvisamente la strada mi sembra lunghissima. Rimpiango anche la voce della Costance che mi riprende ad ogni passo sbagliato.
Però non possiamo rimanere così, come dei baccalà. Riattacco con le domande.
«Insomma, come mai…?» la voce mi muore in gola, ma spero che abbia comunque capito cosa volessi chiedergli.
E invece fa il finto tonto.
«”come mai” cosa, Watson?» mi chiede, alzando un sopracciglio. Dio, lo detesto quando fa così.
«Oh, andiamo, sai cosa voglio dire»
«No, non lo so. Spiegamelo tu» continua il supremo cretinoide, con un sorrisetto.
«Si può sapere come mai hai voluto che facessimo la strada insieme?» dico, mentre sento le guance infiammarsi.
«Oh, io non ho voluto niente. È stato un caso, proprio»
«Che bugiardo»
«Io? Mai detta una bugia. Sono un angioletto» dice, con un’espressione talmente innocente che quasi mi sembra di vedere l’aureola.
«Sì, come no…»
Nel frattempo siamo arrivati a scuola, ritrovandoci i cancelli chiusi. Citofoniamo e la bidella viene ad aprirci sogghignando - ovviamente la Costance le ha detto tutto del ballo e compagnia bella. Che vergogna.
Quando arriviamo in palestra, c’è qualcuno in più oltre alla Costance e Ludvig: una ragazza bassina, mora, con i tratti tipici del sud e del Mediterraneo, tranne per gli occhi verdi stretti e allungati, da gatta. Mi stringe la mano.
«Sono Carmen»
«Alex».
Ah, probabilmente è la Carmen che ho visto al Blue Theatre quando sono andata a vedere Ludvig. Gli faccio un cenno con la testa e lui annuisce, ci ho azzeccato.
«Bene. Ragazzi, avete portato le scarpe?» chiede la Costance.
Noi le tiriamo fuori e, dopo un attento esame da parte della Costance, di Carmen e di Ludvig, ce le approva, e la nostra lezione di tango ha inizio.

**Extra**


Momo – Come vetro


Sospiro. È passata un’altra giornata. Un’altra giornata con la mente occupata da lui.
Mi ossessiona. Non ce la faccio più. E soprattutto posso solo pensarlo, visto che non sarà mai mio, perché a lui piace lei. Insomma, io guardo lui, lui guarda lei e lei guarda l’altro. Che strano scherzo del destino.
Sono anni che provo a non incantarmi più, a smettere di specchiarmi nei suoi occhi. Ho provato con altri ragazzi, ho baciato altre labbra pensando, sperando, quasi credendo che fossero le sue. Pensavo che sarei impazzita.
Perché io già lo sapevo. Lui me lo ha detto anni fa di essere innamorato di lei. E lei, che può averlo… a malapena lo guarda, tutta presa dall’altro e da cosa succede con lui. Comincio ad invidiarla, quasi ad odiarla, e detesto me stessa per questo. Non riesco a reggere il confronto, non ce la faccio proprio.
Mi sento così stupida, falsa, ipocrita. La incoraggio ma, sotto sotto, vorrei che non ce la facesse.
Meschina. Ecco cosa sono. Una falsa amica. Una persona che farebbe meglio a sparire, prima di fare del male a qualcuno.
Potessi almeno parlarne con qualcuno! Il problema è che me ne vergogno. Non so se riuscirei a parlarne.
Se solo lui potesse saperlo… sicuramente mi biasimerebbe. Però sono sicura che sarebbe in grado anche di consolarmi. O meglio, lo farebbe se con me avesse lo stesso rapporto che ha con lei. Ma purtroppo il caso ha voluto per me una felicità sfuggente. Sono felice quando lo vedo, sono triste perché i suoi occhi sono sempre rivolti a lei e mai a me. Io sono sempre l’amica, quella con cui sfogarsi quando le cose non vanno. E a me non sta più bene. Perché, ogni tanto, non prova a guardare me? Perché non si accorge del mio sguardo? Quando smetterà di trattarmi come un’amica e proverà a guardarmi come una ragazza?
Forse mai.
Probabilmente rimarrò sempre a guardarlo da lontano, a sognarlo, senza potermi avvicinare di un passo per paura di trasformarmi in una delle schegge di vetro di una finestra di illusioni distrutte.
 




 

***
Angolo autrice
Autrice: *si nasconde*
Alex: e fai bene a nasconderti.
Jake: già, fai proprio bene.
Ludvig: quanti mesi sono passati? Due?
Autrice: Zitti, zitti, state zitti! Io ci ho provato! Solo che mi si è danneggiato il file e ho dovuto ricominciare tutto daccapo!
Momo: questo è vero.
Autrice: Oh, Momo, santa ragazza! Almeno tu sei dalla mia parte!
Momo: no, non sono dalla tua parte. Ti sono grata per l’extra eccetera, ma io sono, come si dice, super partes.
Autrice: Eh, pure la latinista mi fai… in ogni caso, siete una massa di ingrati! Fuori dai piedi!
Porta che sbatte

Bando alle ciance e alle banalità, ora. Voglio solo chiedervi sinceramente scusa. A tutti, perché sono due mesi che non aggiorno, mi sento davvero un verme. Perdonatemi. Spero che la cara Clockwise accetti le mie scuse, visto che sono due mesi che mi rinfaccia il mio mancato aggiornamento.
Troverò più tempo per scrivere, giuro.
Nel frattempo, spero che vi siate divertiti e incuriositi, e che vi sia piaciuto l’extra nella testa di Momo, personaggio per ora assai poco approfondito.
Ed ora, i ringraziamenti!
Innanzitutto, grazie ai lettori anonimi nascosti nel sito che hanno letto, magari non hanno apprezzato, ma almeno hanno dato un’occhiata; poi un immenso grazie va a rosaRosa, che con pazienza infinita si è letta tutta la storia e l’ha recensita, capitolo per capitolo. E grazie anche a fra_love, che ha recensito lo scorso capitolo; a Fatadz, per le sue recensioni con una vena di saggezza (?); a Ciel__, che mi fa morire; a Clockwise, per avermi rotto le scatole (scherzo, lo sai che ti voglio bene, no?); e infine grazie a chi ha messo “A volte non te lo aspetti, ma…” tra preferite, seguite e ricordate, quindi grazie a Angie97, anonimacuorefreddo, darkromance, ehiseike, Jadel, ljamspooh, Sotto un cielo di stelle, Fatadz, fatimu93, WriterSarah, 4Swarovski4, afrodite31, cardie9980, cate 94, Ciel__, Clockwise, fedezzina99, Fiore di loto92, Frafry94, fra_love, gatta12, loveyasnokey, maka97, maredinverno, MiryPappi, Nikky47, ocean 5AM, RayaFee, RobertaLu, rodney, rosaRosa, salma_elf, Sara_H, sessia, StellaDelMattino, ventola (ragazze, aumentate sempre di più! Vi adoro, sappiatelo).
Ho finito di scocciare.
Spero che ci rivedremo al prossimo capitolo!
-H
 

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Capitolo 10
*** Tango e tremori ***


10. Tango e tremori
                                                                                                                                                                                        Perfino una farfalla non sa volare,
                                                                                                                                                                           nel buio più completo




Infilo le scarpe con una certa titubanza.
Con mia grandissima sorpresa scopro di poterci camminare tranquillamente, non sono così terribili come pensavo.
Anche se la Costance ci fa mettere seduti al lato della palestra.
«Bene, ragazzi. Osservate. Adesso il signor Ohlsson e la signorina Montoya vi faranno vedere un pezzetto. Giusto per capire qualcosa». È allegra come una bambina a cui hanno appena detto che il suo negozio di caramelle preferito offre prodotti gratis.
La prof accende lo stereo, e una musica abbastanza nota si diffonde nell’aria. Dov’è che l’ho già sentita? In un film, forse…?
Carmen e Ludvig ballano, e sono semplicemente meravigliosi. Anziché essere spaventata dal pensiero di doverlo fare, sono meravigliata da loro. Quasi mi dimentico che devo farlo anch’io.
Lui è serio e concentrato, è come se la inseguisse passo dopo passo, e lei lo stuzzicasse di continuo, lo lasciasse avvicinare per scappare via dopo pochi secondi. Anzi, Carmen sembra addirittura divertirsi – oppure è un’ottima attrice.
La vedo sorridere furbescamente non appena Ludvig le si avvicina, convinto di averla raggiunta, e invece lei si allontana ridendo, e lui la insegue e lei scappa e lui prova ancora e lei fugge, in un gioco di movimenti in cui si stuzzicano, si sfiorano, si allontanano e si avvicinano, e si fidano dell’altro, in qualche modo. Sono in perfetta armonia, non sembrano neanche due persone diverse, è come se fossero un’unica cosa. Ho la pelle d’oca.
I passi non sembrano difficili, a parte qualche figura che sono convinta di non poter fare per un semplice problema di peso. Per il resto… sono sicuramente complicati, ma perlomeno non mi sembrano impossibili. Sto sperando che non lo siano.
Stupidamente penso che imparerò a fare quel giochetto con le gambe che mi piace un sacco e che mi incanto a guardare ogni volta che vedo una ballerina di tango. Come se ora fosse importante pensare a una cosa del genere, è completamente fuori luogo.
Appena finiscono, non mi trattengo dall’applaudire. E strano ma vero, anche Jake sembra sbalordito. Ottima cosa, è molto più difficile lavorare con qualcuno che non ha voglia di imparare niente.
Carmen fa un piccolo inchino e Ludvig arrossisce imbarazzato. Adesso riconosco anche la canzone: è quella del tango di Take the Lead, ecco dove l’ho sentita.
«Bene, grazie mille. Adesso…»  la Costance è dietro di me, ma non me ne accorgo… finché il mondo non si tinge di nero.
«Ma cosa…?» esclamo, tastandomi il volto con le mani. Una spessa benda mi impedisce di vedere.
«Dovete acquistare fiducia l’uno nell’altra. Perciò… ho pensato di darvi una mano» la prof sembra compiaciuta.
«E per questo dovrei non vedere niente? Oh, grazie mille!» rispondo sarcastica. La verità è che mi sto facendo prendere dal panico. Non vedere è più terribile di quanto immaginassi.
«Adesso tocca a te, O’Brian. Dovete fare in modo di imparare a fidarvi»
«E cosa dovrei fare?» chiede, riluttante.
«Mettiti così…» sento dei passi e mi giro per vedere, dimentica di non poterlo fare. Maledizione, è frustrante.
«E ora…». Diamine, perché questa donna lascia le frasi a metà?
Mi sento afferrare per un polso e devo controllarmi per non tirarmi indietro. Sento che la mia mano poggia su quella di un altro.
«Adesso, O’Brian, guidala per tutta la palestra».
Mi rilasso un attimo, anche se sapere di stare praticamente tenendo per mano Jake, alias lo stronzo vicino di casa, mi scombussola un po’.
Si rivela più difficile del previsto, almeno all’inizio. I miei passi sono molto insicuri, anche se so che non posso cadere, c’è Jake a sostenermi. Volto di continuo la testa, disperata per l’assenza di luce, voglio capire cosa sto facendo, dove sto andando, mentre la Costance mi dice di rilassarmi e lasciarmi guidare, semplicemente. Ma non è facile.
Inciampo sui miei stessi piedi ma, dopo attimi di puro terrore, Jake mi afferra al volo. Le ginocchia mi tremano come gelatina.
Continuo a lasciarmi guidare, ma non riesco a fidarmi. Avanzo lentamente, saggiando l’aria con l’altra mano, per paura di incontrare qualche ostacolo non previsto.
Poi… Jake lascia la mia mano, e allora sì che mi prende il panico, almeno finché non mi sento avvolgere da un delicato profumo di menta e limone. Ludvig.
Con delicatezza prende la mia mano e mi guida ancora un po’. Questo gioco comincia a piacermi. E poi, non avendo la vista, gli altri sensi sono più vigili, le percezioni più nette. Tutto è amplificato: il rumore ritmico dei miei tacchi sul pavimento della palestra, l’odore di menta e limone, la pelle morbida sotto la mia mano. Un turbine di sensazioni nelle quali perdersi è tutt’altro che spiacevole.
Sento la mano di Ludvig che scivola via dalla mia e, involontariamente, la stringo, non voglio che la lasci. Vagare da sola con una benda sugli occhi non è nel mio stile, ecco.
«Va tutto bene, fidati di me» mi sussurra. Quasi senza che me ne accorga, non tiene più la mia mano. Mi blocco a metà di un passo, incerta su ciò che devo fare. Non riesco a muovermi. In che direzione devo andare?
Un altro odore arriva presto alle mie narici. Faccio solo un po’ di fatica a riconoscerlo. Albicocca ed erba tagliata. È di nuovo Jake. La Costance ha per caso deciso di farmi impazzire…?
La presa di Jake non è affatto delicata come quella di Ludvig. È più… non so… possessiva. Sembra quasi che sia arrabbiato.
Cammino un altro po’; poi arriva di nuovo Ludvig, e il suo odore di menta.
Erba tagliata.
Limone.
Albicocca.
Menta.
Erba tagliata.
Limone.
Albicocca.
Mi gira la testa, tutte queste sensazioni diverse mi confondono. Però passo dopo passo inizio a fidarmi di chi tiene la mia mano. Con Ludvig è un po’ più facile lasciarsi andare: è lui stesso a trasmettere fiducia, in qualche modo. Mi rasserena.
Jake… sarà che ormai fidarmi di lui mi risulta possibile quanto vivere su Marte. Non voglio fidarmi, neanche per questa stupida competizione. Ho paura di farmi di nuovo male.
Intanto la Costance ciancia, come se qualcuno la stesse davvero ascoltando. Ah, la presunzione dei professori…
«Nel tango, più che in qualsiasi altro ballo, i partner devono fidarsi. Devono guidare e essere guidati, è tutto basato sulla fiducia, anche il passo più semplice. La dama deve affidarsi al suo compagno, deve diventare il suo sostegno. Senza fiducia, non si può ballare». Poi aggiunge, giuliva: «Perciò ho pensato che questo esercizio fosse il modo migliore per imparare a fidarvi l’uno dell’altra. Impegnatevi, su!» inveisce, evidentemente notando la mia riluttanza a farmi guidare da Jake.
Pian piano, però, comincio a camminare più spedita. Muoversi con una benda sugli occhi non è facile, ve lo assicuro – ma mi sento più tranquilla.
L’odore di menta e limone mi avvolge e Ludvig, tenendo stretta la mia mano, me la porta in alto e la fa girare, costringendomi a fare una piccola piroetta. Mi sfugge una risata.
Mi sento come quando ero piccola, quando papà metteva la musica e ci mettevamo a ballare sulle note di Lucy in The Sky With Diamonds e lui mi faceva fare tante giravolte e la mamma si preoccupava che poi, con la testa che girava come una trottola, sarei andata a sbattere da qualche parte.
Quest’ondata di ricordi d’infanzia mi travolge mentre Ludvig mi fa piroettare per la palestra, con la Costance che lo elogia dicendo che l’aveva preceduta perché stava per chiederci di fare una cosa del genere. Ad un certo punto, mentre giro su me stessa, perdo l’equilibrio e la mia guida mi afferra al volo, mentre io scoppio a ridere. E forse, anzi molto probabilmente, mi sto autosuggestionando, ma mi sembra di sentire sulla pelle lo sguardo di fuoco di Jake.
Questa “questione di fiducia” comincia a divertirmi, e non mi sento più spaventata dall’assenza di luce. Anzi, credo che sia anche più facile e più immediato acquisire fiducia in qualcuno, se ti manca qualcosa. Non penso che mi sarebbe risultato altrettanto semplice lasciarmi andare se la Costance non mi avesse bendato. Purtroppo, devo dirle che ha fatto una mossa saggia.
«Bene ragazzi, benissimo. Adesso iniziamo qualche passo» dice, decisamente soddisfatta.
La prof ci fa mettere in posizione. Sfilo la benda e per un istante la luce mi acceca.
«Bene. Adesso imparerai una salida basica, gli otto passi fondamentali del tango. Quando lui si muove indietro, tu vai avanti; se lui muove il piede sinistro, tu muovi il destro e viceversa. Quanto a te, signorino» aggiunge poi, rivolgendosi a Jake «osserva bene ciò che fa il signor Ohlsson. Tanto poi tocca a te».
La prof ci fa mettere in posizione, facendoci stringere in una sorta di abbraccio. La mia mano sinistra tiene la destra di Ludvig, mentre la mia destra è posata sulla sua schiena e la sua sinistra intorno alla mia vita. Sento le guance infiammarsi, la pressione delle sue dita sulla mia schiena è delicatissima, eppure mi sembra che attraversi il tessuto e arrivi fino alla pelle, infuocata. Siamo talmente vicini che ho paura perfino di respirare, mentre Ludvig mi guarda con i suoi occhi che sembrano un pezzo di cielo.
«Pronta? Non è difficile. Seguimi e ce la farai, tranquilla». Mi rivolge un sorriso rassicurante, e, di riflesso, sorrido anch’io, ignorando i battiti del mio cuore impazzito.
Gli otto passi non sono tanto difficili. A parte un certo impaccio all’ inizio… il trucco sta nel seguire Ludvig. Affidarsi, semplice. Lo seguo, lascio che lui mi guidi con il suo corpo. Ad ogni passo sento i muscoli della sua schiena tendersi un po’ sotto la mia mano, il suo cuore battere regolare vicino al mio.
Proviamo la salida basica non so quante volte, prima che la prof si decida a capire che la so ballare senza troppi problemi e faccia provare Jake.
Ludvig, paziente, gli mostra i passi uno alla volta, e Jake lo segue, dapprima un po’ spaesato e insicuro, poi sempre più preciso.
Poi proviamo insieme. Ci vuole un po’ perché riusciamo a fare una sequenza senza intoppi, ma il risultato è soddisfacente. Solo che siamo entrambi in imbarazzo, così vicini. Respiriamo piano, quasi timorosi di dare fastidio, io fuggo il suo sguardo penetrante che mi fa sentire così… esposta. Sembra che solo guardandomi mi legga dentro, mentre io non riesco mai a capire cosa diamine gli passi per la testa.
Ma perché con Ludvig non c’è questa sensazione? È tutto così semplice, con lui. Non ci sono ombre nei suoi occhi azzurri. Non c’è alcun altro significato nelle sue parole. Perché diamine Jake è così tremendamente complicato?
Anche i suoi passi, sebbene identici a quelli di Ludvig, sono del tutto diversi. Non hanno niente della delicata eleganza di quelli dello svedese. Per certi versi sono più impetuosi, forse anche più passionali, non lo so, sta di fatto che mi confonde di nuovo, e mi sembra di impazzire.
Mi sento troppo vicina, voglio scappare e allo stesso tempo penso che potrei rimanere qui a ripetere la salida basica per l’eternità. Una marea di percezioni a cui non avevo mai fatto caso mi travolge, oltre al suo profumo di albicocca. Sento i suoi muscoli sforzarsi, il suo respiro, per quanto leggero, vicino a me, il suo cuore all’unisono con il mio, forse più veloce, accelera ancora, e il tocco di fuoco delle sue mani, che improvvisamente mi stringono un po’ di più, e uno sciame di api assassine si mette a ballare nel mio stomaco, mentre il cuore mi balza in gola, battendo forsennatamente, e le mie gambe assumono la consistenza di un wafer. Ha intenzione di uccidermi, per caso? Perché sto andando in iperventilazione e il mio cuore sta per avere un infarto.
Mi concentro sui miei passi prima di sbagliare. Anzi, mi lascio guidare, come ho fatto fino ad ora con Ludvig, e non vedo perché con Jake dovrebbe essere diverso.
La Costance ci rimprovera di essere troppo lontani, e sento le mie viscere chiudersi in una morsa d’acciaio quando ci fa stringere un po’.
Perché, perché a me doveva succedere tutto questo?
Continuiamo a provare la salida per tutto il pomeriggio, e non so se il mio cuore reggerà fino a casa. Sostenere lo sguardo turchino di Ludvig e successivamente quello tempestoso di Jake non è semplice, è un esame arduo. E soprattutto il mio personale sciame di api sta diventando una mandria di ippopotami travestiti da api, ma con il pungiglione vero.
Ovviamente finisco per sbagliare. La Costance sbotta un po’, poi accusa la mia stanchezza e ci spedisce a casa, mentre io ringrazio il cielo. Se possibile, vorrei scendere dalla giostra delle emozioni, per oggi.
Mi cambio ed esco dallo spogliatoio. Di Jake, nemmeno l’ombra. Prima mi aspetta davanti alla porta di casa, poi se ne va senza salutare. E poi dicono che siamo noi ragazze quelle lunatiche.
Faccio per tornarmene a casa, quando una voce mi blocca.
«Ehi, Alex» dice Ludvig, correndo verso di me.
«Ciao» rispondo sorpresa, prima di rendermi conto di aver dato una risposta piuttosto sciocca. Insomma, l’ho visto fino a cinque minuti fa.
«Allora, come ti sembra ballare, adesso?» mi chiede, camminando accanto a me. Involontariamente, adeguo il mio passo al suo.
Faccio spallucce per rispondere alla sua domanda. «Non c’è male. Insomma, mi sto abituando al pensiero di doverlo fare, non posso ritirarmi».
«Be’, tecnicamente puoi»
«Ma praticamente no». Rimaniamo un po’ in silenzio, finché aggiungo: «Io non sono fatta per ballare».
Ludvig mi sorride. «Staremo a vedere. E comunque, se vuoi ripetizioni, io sono sempre disponibile» scherza.
Ma in effetti allenarsi anche quando non c’è la Costance non mi pare una cattiva idea.
«Guarda che ne approfitto, eh»
«Ho tutto il weekend libero»
«Sicuro? Guarda che ci conto»
«Mai stato più serio di così». E in effetti è serio.
Il sole del pomeriggio incontra i suoi ricci biondi, illuminandoli di una miriade di riflessi dorati. Mi sembra di avere davanti un angelo, e le mie ginocchia cedono per un attimo.
Mi sorride in un modo che non gli ho visto fare mai.
«Allora sabato ci alleniamo un po’, okay? Ci vediamo alla palestra della scuola, come al solito. Tanto non la usa nessuno».
«Va benissimo, e… grazie per il tuo aiuto» rispondo.
Siamo arrivati alla fermata dell’autobus di Ludvig, ci salutiamo e torno a casa fischiettando e ridendo da sola come un’imbecille.
 
Il mio buonumore, ovviamente, doveva essere guastato in qualche modo, in primis da Jake. Infatti me lo ritrovo davanti alla porta di casa sua, a braccia incrociate. Mi rifila un’occhiataccia che farebbe scappare chiunque.
Io faccio finta di non notarlo, tirando seraficamente le chiavi di casa fuori dalla borsa. La verità è che le mani mi tremano talmente tanto che non riesco a beccare il buco della serratura con la chiave.
Jake si schiarisce rumorosamente la gola, e io lo guardo scocciata.
«Be’, che vuoi?» gli chiedo sgarbatamente. L’unico da biasimare è lui, poteva aspettarmi.
«Niente»
«Allora perché sei qui?»
«Si dà il caso che io ci abiti, qui».
Questo ragazzo mi fa cascare le braccia. Non riesco sinceramente a capire cosa diamine voglia da me.
«E allora entra dentro casa e non scocciarmi»
«Perché ci hai messo tanto a tornare?» mi interrompe. I suoi occhi, nella penombra del pianerottolo, sembrano quasi neri.
Sento le guance infiammarsi.
«Non vedo perché dovrebbe interessarti»
«E tu spiegati»
«Ma chi sei, mia madre? Comunque, non sono affari tuoi». Per qualche strano motivo sono riluttante a riferirgli della proposta di Ludvig.
Lui sbuffa sonoramente, ma ha capito che non mi caccerà una parola di bocca. Perciò apre la porta di casa sua e se ne va, mormorando un furioso “a domani”.
Io resto lì con un palmo di naso e la curiosa sensazione di essermi persa qualcosa.
 

Faccio i miei compiti in bilico tra la felicità di poter passare un pomeriggio con Ludvig e la rabbia per il comportamento di Jake. Devo chiedere consiglio a Momo, anche se ultimamente mi pare proprio strana. Sento quasi che la nostra amicizia non sia più così salda come un tempo. Una volta ci intendevamo al volo, senza problemi, ma adesso… non so, è come se si fosse logorato il filo invisibile che ci ha sempre tenute unite. Urge una chiacchierata a quattr’occhi – non per parlare di Jake, né di Ludvig, ma solo per noi due. Come ai vecchi tempi.
Sembro una vecchietta nostalgica quando penso ai “vecchi tempi”, ma è la verità. Il tempo passa per tutti.



Altra cosa che guasta il mio buonumore: oggi è il Giorno della Bilancia. Il maledetto giorno in cui vado lì, davanti alla mia acerrima nemica (dopo Jake, si intende), e vedo il verdetto della quantità di massa corporea che mi porto addosso tutti i giorni.
È un mese circa che non salgo su questa pedana maledetta, che segnava… be’, un po’ troppo.
Salgo controvoglia, guardo giù… e sgrano gli occhi.
Ho perso quasi un chilo!
Uno stupidissimo sorriso mi affiora alle labbra. Sia lodato il cielo! Come diavolo avrò fatto non lo so, ma… non perdevo peso da secoli.
Il cattivo umore passa in un istante. Al diavolo Jake e i suoi problemi. È solo la parentesi inutile di una bella giornata. Non devo assolutamente occuparmi di quel che fa quel lunatico: sono stufa di farmi condizionare da lui. Diamine, ho perso peso e mi si prospetta un weekend in compagnia di Ludvig, alias uno dei ragazzi più belli e simpatici  che conosca. Perché dovrei preoccuparmi di un essere idiota come Jake?


 
                                                                                         ***
Il giorno dopo, a scuola, Momo è parecchio cupa. Non l’ho mai vista così, e mi rattrista.
A ricreazione le chiedo cosa non va.
«Niente, Alex. Va tutto bene» dice, poco convinta.
Alzo un sopracciglio, scettica.
«Sì, e io sono Napoleone».
«Ah-ah».
«Seriamente, cosa ti è successo?» chiedo preoccupata. Non è da Momo essere così.
«Ma niente, davvero. Andiamo in classe, che tra un po’ suona» e si avvia per il corridoio.
Mi assale una paura ingiustificata. Sento che sto perdendo la mia migliore amica, e non riesco a capire perché.
«Aspetta!» la agguanto per un braccio, costringendola a voltarsi. Mi piazzo davanti a lei con le mani sui fianchi. «Adesso mi spieghi cosa c’è che non va» dico, guardandola negli occhi.
La sua espressione è tristissima.
«Alex, io… mi sento così meschina…» dice con voce rotta. I suoi occhi diventano lucidi, e in un attimo una lacrimuccia le scivola lungo la guancia. Rimango stupita per un attimo, non mi aspettavo che piangesse.
«Dai, non fare così» dico, abbracciandola. Lei continua a singhiozzare, e io la stringo un po’. Non la vedevo piangere così da un bel po’.
«Scusami Alex, scusami tanto, mi dispiace…» snocciola fra le lacrime.
«Cosa ti è successo, me lo vuoi dire?»
«Non posso»
«Ma siamo amiche. Puoi dirmi tutto»
«Non questa volta. Mi sento così in colpa…» e riprende a singhiozzare. Io la smetto con le domande. So solo che la mia migliore amica ha bisogno di me.
Ci sciogliamo dall’abbraccio.
«Quando vorrai dirmi il problema, io ti ascolterò, okay?» le dico. Sta venendo da piangere anche a me. 
Lei annuisce, asciugandosi la faccia con una manica, e rientriamo in classe mentre la campanella annuncia la ripresa delle lezioni.
Il prof di matematica entra in classe con un’espressione tetra, come al solito. Per questo fatto qualcuno ha cominciato a chiamarlo Il Vampiro, ma nessuno si aspettava di averlo qui in classe, oggi. Dato che oggi Miss Fischietto, per qualche strano miracolo, è assente, evidentemente lui ci fa da supplente.
«Ho corretto i vostri compiti di fisica di un po’ di tempo fa» esordisce, con un tono di voce che manderebbe Dracula a nascondersi fra le sottane della mamma. Iniziamo tutti quanti a sudare freddo, mentre qualcuno si fa il segno della croce. Io mi ripeto di stare tranquilla, ma le mie mani tremano talmente tanto che non riesco a tenere in mano la penna.
Consegna i compiti con un’espressione da boia, e tutti i condannati al patibolo sanno che non ritorneranno vivi da quella cattedra. Il compito è andato male praticamente a tutti.
Per di più sono in ordine alfabetico, quindi io sono tra gli ultimi. Momo deve ripetermi di calmarmi svariate volte, mentre la sua sufficienza campeggia sul foglio.
Quando mi chiama, sento i piedi farsi di piombo ad ogni passo verso quel luogo maledetto. Altro che Sauron, questo qui è anche peggio.
Quando vedo il voto, mi manca l’aria e devo appoggiarmi da qualche parte per non cadere. Che fosse andato male lo sapevo, ma non così male.
E adesso chi glielo dice a mamma?
Torno al mio posto, tenendomi la testa fra le mani. Non è colpa mia se sbaglio di continuo i calcoli. Solo che i miei non me lo perdoneranno mai.
L’unica cosa di cui potevo vantarmi era di non aver insufficienze, e adesso è svanita pure quella sicurezza.
E se a mamma non lo dicessi affatto…?
Magari mi sentirei un po’ in colpa, ma sinceramente io ci tengo alla pellaccia. Non voglio morire giovane!
Sì, così va bene. Non dirò niente. Farò finta che non ne so niente.
E se dovesse spuntare fuori?
Nah, figuriamoci. Non spunterà mai fuori. Magari mi si abbasserà la media, ma potrò sempre dire che… boh. Mi inventerò una scusa. Ci sono! Dirò che non ne sapevo niente.
Non sono mai stata brava a mentire, ma è giunto il momento di imparare.
Riprendo a respirare normalmente. La mamma non ne saprà niente e io lo dimenticherò, come si fa con un qualsiasi votaccio.
Quando restituisco il compito il Vampiro mi guarda compiaciuto, aspettando una mia disperata reazione. E invece io sono la serenità stessa, quasi gli sorrido. Così impari, Sauron! I tuoi votacci non mi spaventano! Tiè!

 
 
 
 
***
Angolo autrice
*Autrice si prepara al lancio dei pomodori*
Salve a tutti, chiedo umilmente scusa a tutti coloro che seguono questa storia per la luuuunga, lunghissima assenza. Avrei voluto aggiornare molto prima, ma purtroppo non ne ho avuto l’occasione.
Mi dispiace anche che il capitolo non sia granché. Spero di rifarmi con i prossimi. Inoltre, non ho aggiunto l’extra, perché non è il momento adatto – potrebbe esserlo, ma non lo è.
Spero che il prossimo capitolo richiederà un tempo minore – e spero che continuiate a portare pazienza e seguire questo piccolo “progetto”.
Vi ringrazio infinitamente per aver continuato a seguirmi.
-H

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Capitolo 11
*** Sindrome di Stoccolma ***


11. Sindrome di Stoccolma
                                                                                                                                                                    
La farfalla non riesce a odiare l’ape,
                                                                                                                                                 neanche dopo che le ha rubato il nettare.

 

Oggi proviamo ancora il tango e quello strano gioco di fiducia. Quando vedo Ludvig non posso fare a meno di sorridere e pensare al prossimo sabato.
Jake mi rivolge occhiate furiose ogni volta che sorrido. Si può sapere che problemi ha questo ragazzo?
È una di quelle persone che hanno scritto in faccia “se-non-sono-contento-io-non-devi-esserlo-neanche-tu”, come se lui fosse il centro del mondo.
Anche Ludvig sembra irrequieto, grazie al signorino. Però la cosa bella è che non si nota tanto, all’esterno: è evidente che questo ragazzo ha più pazienza di Gandhi. Soltanto stando a contatto con lui si capisce che è infastidito: la sua presa sulla mia mano è, per certi versi, più nervosa.

Sinceramente, io con quel cretino ho chiuso. Non vedo perché lui dovrebbe influenzarmi in ogni cosa, come la luna con le maree. Io sono tranquilla (più o meno…), allora perché dovrei diventare un fascio di nervi a causa sua?


L’esercizio di fiducia è fonte di nuove scoperte. Imparo a riconoscere i miei due partner di ballo dal loro semplice passo: Jake ha un passo un po’ pesante, Ludvig è aggraziato come un gatto, neanche lo sento, la sua presenza è smascherata solo dal profumo di menta e limone.
A proposito di profumi, non riesco a riconoscere quello di Jake. È cambiato un po’ – a dire la verità riconosco solo l’erba tagliata, l’albicocca non c’è più. Sento qualcosa di simile a… muschio? Potrebbe essere.
La Costance ci fa riprovare la salida basica, prima di metterci al lavoro su altri passi.
I tempestosi occhi grigiazzurri di Jake mi fissano impassibili, mentre ci stringiamo nell’abbraccio del tango.
Eppure in fondo a quegli occhi brucia qualcosa, c’è un fuoco acceso, io lo so. Solo che non voglio sapere a cosa è dovuto.
Mi sento… non so, accusata. Ingiustamente accusata, dice il mio inconscio, ma la mia coscienza non sa perché, o forse lo sa ma preferisce ignorarlo.


Ballare comincia a piacermi un po’. Pochissimo, ma comincio a divertirmi. È come se tutte le ansie, i problemi, le paure svanissero in un attimo. L’effetto collaterale è che nascono nuove paure, o quantomeno sensazioni di paura irrazionale e ingiustificata. Quella paura che ti assale all’improvviso facendoti balbettare, mentre il cuore ti balza in gola battendo senza controllo e le gambe sembrano aver dimenticato la loro funzione. Una paura che però è carica di qualcos’altro, ma cos’è? Adrenalina? Minaccia? O forse… attesa?


Soltanto alla fine della lezione la Costance dice le parole fatali.
«Watson, mi sembri ancora un po’ incerta. Domani proviamo la salida con la benda. Vediamo cosa esce fuori. Ti fai distrarre un po’ troppo da ciò che hai davanti agli occhi».
Divento rossa come un peperone. Si è forse accorta che mi perdo troppo spesso in quegli occhi di cielo? O che mi sento sotto pressione se guardo quegli occhi di tempesta?


A sera chiamo Momo. Dopo quello che è successo stamattina, devo starle vicina, ma aspetterò che sia lei a dirmi il suo problema, quando e come vorrà.
«Penso di aver capito cos’ha il tuo vicino di casa» dice con tono di mistero, dopo un po’.
«Ah sì? Dica, dottoressa» la incito.
«Non prendermi in giro. Comunque il tuo amico è afflitto da una grave forma di gelosia» sentenzia.
Rimango interdetta.
«Gelosia?»
«Sì, hai presente? Quando vorresti che una persona non stia con un’altra ma solo con te…?».
Ammutolisco.
«Alex, ci sei?» mi chiede Momo.
«E Jake di chi sarebbe geloso, scusa? Di me? Non ci credo neanche se lo vedo»
«Sì, proprio di te. Ho una mia teoria. Lui ha un conflitto interiore per cui lui vuole stare con te ma qualcosa glielo impedisce, ovvero ciò che ha troncato la vostra amicizia. E inoltre, siccome è pure un bastardo egoista, nella sua testolina bacata se lui non può stare con te allora qualsiasi altro ragazzo che incontri è una sorta di antagonista e non può stare con te, neanche parlarti. Della serie: o io, o nessuno» conclude Momo la psicologa.
«Mi pare un ragionamento troppo complicato e inverosimile per uno come Jake. Geloso di me? Ma figuriamoci!»
«Non vedo altra soluzione. Se ti viene in mente qualcosa di diverso, avvertimi».
«Be’, potrebbe anche sembrare questa la soluzione, ma sono sicura che non è così. Insomma, da lui la prova che non conto niente l’ho già avuta, no? E allora perché dovrebbe essere geloso?».
Silenzio all’altro capo del filo.
«Non lo so».


Quella notte rifletto sulle parole di Momo. Geloso? Jake? È impossibile. Se fosse geloso, non si comporterebbe così, giusto?
Ma qual è il problema?
Mi vengono in mente all’improvviso un paio di vividi occhi azzurri. Ludvig? Possibile che il problema sia lui?
“Cosa ne pensi di Ohlsson?”
Ripenso alle sue parole. È preoccupato, ma di cosa, che mi piaccia Ludvig?
Arrossisco. È ovvio che mi piace. Cioè, abbastanza. Nel senso, insomma, è uno dei ragazzi più simpatici che conosca, dopo Sean.
A proposito di Sean! Devo dare una svegliata a quei due, o non riusciranno mai a capire che si piacciono. Devo assolutamente escogitare un piano!
 
L’indomani chiedo a Momo, con finta noncuranza, dei suoi programmi per sabato. Propongo di uscire un po’ con Sean – dopotutto, ancora non le ho detto della proposta di Ludvig.
Ma lei ammutolisce e non mi risponde.
Solo a ricreazione riesco a parlarle di nuovo come si deve – o quantomeno ci provo, visto che veniamo interrotte.
«Salve» ci fa una vocetta odiosa. Amber e la sua cricca si avvicinano e io temo qualcosa, ma non so cosa.
Mi metto subito sulla difensiva.
«Che c’è?» chiedo, ostile. La bionda fa una smorfia e alza le mani in segno di resa.
«Non sono qui per litigare. Voglio solo dirvi che siete invitate al mio diciottesimo compleanno, tra due settimane. Un incontro amichevole e senza ostilità».
Gatta ci cova. Non credo ad una sola parola.
«E perché dovrei credere che ci vuoi alla tua festa? Non ci hai mai sopportate, Amber» dice Momo, anticipandomi.
«Be’, ad un certo punto si deve pur crescere un po’, no? E poi, sto invitando mezza scuola. Sinceramente non mi interessa chi verrà oppure no. Voglio solo fare una festa, e se sono circondata dalle mie amiche» dice, rivolgendo uno sorriso alle sue scagnozze «non mi importa che ci sia anche qualcuno che non sopporto. Avete tempo fino a venerdì per dirmi se ci sarete oppure no. Ciao ciao» ci saluta con la mano come una bambina impertinente. Le sue parole mi hanno scioccata. Se sta fingendo, è un’ottima attrice. Se diceva sul serio… mi stupisce, e neanche poco.
Momo mi guarda attonita quanto me.
«Ci credi?» le chiedo.
«Credo che fosse sincera. Non le importa assolutamente niente se ci siamo anche noi oppure no»
«E se volesse giocarci qualche brutto tiro?»
«Andiamo, Alex. Non siamo più delle bambine. È ora di smetterla di pensare che gli altri ci faranno sempre e solo del male, no?».
Spalanco gli occhi e un pensiero sguscia sotto la porta blindata della mia mente.
Momo mi guarda interrogativa. «Che c’è?»
«Niente. Penso solo che hai ragione. Che male c’è ad andare? Tentar non nuoce. Al massimo, chiamiamo qualcuno e ce ne andiamo» dico con voce apatica. Non me ne importa niente di Amber. È a qualcun altro, ora come ora, che sto pensando.
«Bene. Allora andiamoci. Sono sicura che sarà divertente, vedrai».


Le altre ore di scuola passano come acqua, e le parole di Momo non fanno che ronzarmi in testa. Davvero dovrei? Dovrei smettere di pensare che possa farmi di nuovo del male? Ma non ci riesco. Vorrei, davvero, ma non posso. Ci sono ferite che non guariscono mai, che anche quando si cicatrizzano continuano a fare male.


Torno a casa di corsa, cercando di liberarmi di quelle parole. Prendo le mie cose con furia, arrabbiata con me stessa, perché non riesco a credere a quelle parole. Può davvero essere così?
Uscendo, mi blocco sulla soglia di casa mia. Jake è lì. Ad aspettarmi. Come due giorni fa. Oppure è un’allucinazione?
«No!» esclamo, in preda ad una crisi isterica. Non è possibile che penso a lui e subito mi si materializza davanti. «Smettila! Lo so che me lo sto immaginando! Tu non puoi essere qui -» mi prendo la testa tra le mani.
«Stai bene?» chiede, alzando un sopracciglio con aria divertita. «Sono qui in carne ed ossa, per tua informazione. Andiamo? O devi dare di matto un altro po’?» .
Rimango senza parole. È qui, seriamente, e io sto davvero dando di matto. E tutto per colpa di una frase.
«Scusa. Stavo pensando…» a te, sto per aggiungere, ma mi fermo in tempo. Non posso dargliela vinta.
Però lui pare capire lo stesso, e mi sorride. Odio quando fa così e, per tutta risposta, gli lancio un’occhiataccia.
Ci avviamo affiancati verso la scuola, senza parlare. Lo guardo di sottecchi. I suoi occhi sono velati di tristezza, cosa che li rende ancora più grigi.
Qualcosa dentro di me si spezza, a quello sguardo. Mi fa male vederlo così. Non posso vederlo così – nonostante tutto, non riesco a odiarlo, non riesco a essere felice se lui è triste. Non ci riesco, mi dispiace, è più forte di me. Sembro una matta, vero? Sebbene mi abbia fatto soffrire, non riesco ad odiarlo. Il mio primo impulso, in questo momento, è di abbracciarlo, cercare di scaldare quei freddi occhi grigi, donargli un po’ del mio calore, quasi a dirgli ehi, sono qui con te. Sindrome di Stoccolma? Può darsi.   


Arriviamo a scuola e, dopo esserci riscaldati, ci mettiamo a provare. Il tempo stringe, e la Costance è sempre più nervosa.
Impietosa, mi costringe a mettere la benda. L’unico risultato è che divento ansiosa e rigida, e calmarmi diventa impossibile. Non riesco a fare bene la sequenza, incespico o mi blocco ogni secondo, con il risultato di agitarmi ancora di più. Sono sicura che Ludvig mi odierà a morte per questo.
Ho troppi pensieri per la testa, ecco tutto. Mi distraggono. E ho paura di non riuscire a fare neanche questa cavolata, con l’unico risultato che non ci riesco davvero.
«Sta’ calma». La voce tranquilla e sicura di Ludvig mi costringe a distendere i nervi. Faccio dei grandi respiri, cercando di soffiare via l’agitazione. Mannaggia alla Costance e al suo nervosismo!
Ad ogni respiro, mi riempio dell’odore di menta e limone che mi avvolge, lo faccio girare per il mio corpo, come un balsamo curativo, e mi tranquillizza. 
Finalmente, dopo svariati tentativi, riesco a fare la sequenza, ed è tutto merito dello svedese. Adesso però mi tocca ripeterla con Jake.
Sono contenta di non poterlo guardare negli occhi, perché penso che mi incasinerei ancora di più. Tuttavia, non riesco a dimenticare quella profonda tristezza che li riempiva.
Riprovo ancora quella magnifica sensazione, quella di avere tutti i sensi amplificati. I suoni, gli odori… tutto è ingigantito, senza la vista.


Torno a casa insieme a Jake. Come all’andata, siamo troppo imbarazzati per parlare. Io rimugino sulle parole di Momo e lui sta sulle sue, pensieroso. Sembra non essersi neanche accorto di me – in un certo senso, è meglio così.
A casa mia non c’è nessuno. Decido di mettere un po’ di musica e faccio un po’ di compiti.
Metto un album che non sento da secoli, sebbene non sia molto vecchio. Con quella musica di sottofondo, posso concentrarmi tranquillamente.
Solo dopo un po’ alzo la testa dal libro, paralizzata dalle parole della canzone che sta girando in questo momento.

«There’s an old voice in my head
that’s holding me back
Well tell her that I miss our little talks
Soon it will all be over, and buried with our past
We used to play outside when we were young
and full of life and full of love
Some days I don’t know if I am wrong or right
Your mind is playing tricks on you, my dear»



Quella specie di dialogo, quel botta e risposta tra due voci – una maschile e una femminile – mi colpisce come una freccia. Sembra quasi che siamo io e Jake a parlare. Io ho seppellito il passato, ma lui si ricorda di quando eravamo pieni di vita e pieni di amore?

«You’re gone, gone, gone away,
I watched you disappear.
All that’s left is a ghost of you.
Now we’re torn, torn, torn apart,
there’s nothing we can do
just let me go, we’ll meet again soon.
Now wait, wait, wait for me, please hang around
I’ll see you when I fall asleep»


Sei andato via, ti ho visto sparire, di te è rimasto solo un fantasma. Adesso siamo lacerati, non c’è niente che possiamo fare, ma è vero? Non c’è niente? Oppure non vogliamo fare niente, per il nostro stupido orgoglio?
Mi prendo la testa fra le mani. Che devo fare? Non posso, non voglio, dimenticare. Ne abbiamo passate troppe insieme, Jake mi è rimasto nel cuore, come rimane la resina di un albero tra le dita dopo che hai passato la mano sulla sua corteccia. E anche dopo che l’hai lavata via, la sua presenza rimane lì, non vuole che te ne dimentichi.
Prima che me ne possa accorgere, sto piangendo. Mi scaccio le lacrime dagli occhi con il dorso della mano, con rabbia, ma non si fermano, prepotenti, continuano a rotolarmi giù per le guance. Sto attenta a non farmi sfuggire neanche un singhiozzo. Mi rannicchio per terra con il viso sulle ginocchia. Voglio tornare indietro. Voglio che la terra si apra sotto di me e mi faccia sparire. Sono stata una stupida, e lo sono tuttora, perché, nonostante gli anni, non è cambiato assolutamente niente.


Quando i miei arrivano a casa, cerco di essere sorridente e allegra. Spero non si capisca che ho pianto, perché ho ancora gli occhi gonfi e rossi.
Tuttavia, mamma e papà non sembrano farci caso. Anzi, sembrano molto agitati e mi rivolgono occhiatacce. Comincio a chiedermi il perché.
A cena, l’atmosfera è così tesa da poterla tagliare con un coltello.
«Abbiamo parlato con il tuo professore di fisica» dice mamma, gelida.
«Ah sì? M-mi fa piacere» replico balbettando.
Papà mi guarda e sembra capire. Il suo sguardo, da furioso, si fa dolce.
«Che ne dici di un po’ di ripetizioni?» mi fa.
«Non sarebbe male» rispondo, sollevata.
«Angela mi ha detto che Jake è bravissimo in fisica» dice mamma, lanciandomi un’occhiata eloquente.
Oh no. Jake no, no e poi no. Già ci devo stare appiccicata (letteralmente) tutti i giorni, già sto impazzendo per colpa sua, e adesso dovrei farci anche ripetizioni?
«Anche Momo è brava. Potrebbe aiutarmi lei» provo a difendermi.
«Sì, ma abita troppo lontano. Jake, invece, è davanti a te» insiste lei.
Provo a discuterne un altro po’, ma mia madre è irremovibile. Solo dopo cena papà mi dice che già si era messa d’accordo con Angela e Jake per farmi fare fisica questo sabato!  


 


**Extra**


Jake – Il neo

Faccio l’ennesimo sospiro. Mi devo calmare, mi devo calmare, mi devo calmare.
Argh! Non ci riesco. Il solo pensiero di quei due appiccicati a ballare il tango mi fa venire da vomitare.
Eppure non dovrebbe importarmene troppo. Ballano insieme: e allora? Ci ballo anche io, con lei. E allora perché mi urta?
Non mi piace come la guarda, non mi piace come la stringe, non mi piace, non mi piace, non mi piace.
E lei, stupida, che lo guarda come… come… ah! Non trovo un paragone adatto a descrivere l’espressione che fa.
A me neanche mi guarda in faccia e a lui sorride addirittura. Stupida! Stupida! Stupida!
Ma poi, perché mi interessa così tanto? Non riesco proprio a capacitarmene.
Insomma, sono stato io a decidere di troncare ogni rapporto, con lei. Ho chiuso a chiave il cassetto “Alex” già da parecchi anni. E quella chiave l’ho gettata via. Possibile che quel cassetto si sia aperto lo stesso? Come ha fatto ad aprirsi, senza chiave?
È un po’ come quel neo che quando sei piccolo guardi di continuo, perché ha qualcosa di particolare – la forma, la posizione. Ne sei ossessionato, stai lì a fissarlo ogni volta che puoi.
Poi cresci un po’, e te ne dimentichi completamente, rimane soltanto un’immagine nebulosa che non ti interessa definire meglio, oppure continui a cercarlo senza accorgerti di averlo sotto il naso.
E poi arriva quel giorno in cui ti guardi allo specchio e ti rendi conto che quel neo è ancora lì, non se ne è andato, anche se eri convinto che fosse sparito. È ancora lì a ricordarti di quando passavi le ore a osservarlo, a cercare di capire perché diamine ci fosse proprio quel neo e non un altro.  
Così è Alex. Fino a qualche anno fa, non potevo stare senza di lei. Era una sorta di ancora, un salvagente a cui mi aggrappavo con tutte le mie forze. Era l’unica persona in grado di smascherarmi. Era l’unica persona con cui mi fosse concesso essere me stesso, dopo la mia famiglia. Con lei qualsiasi cosa diventava spontanea, genuina, non forzata. Mi ricordo benissimo di tutte le marachelle che combinavamo, in quel condominio, di tutti i giochi e le partite a pallone che abbiamo fatto. I suoi sorrisi sinceri erano il regalo più bello che quei tre mesi di bel tempo potevano offrirmi.
E poi è arrivata quella maledetta estate.
Ripensandoci ora, mi chiedo come diamine abbia fatto a dirle quelle parole terribili. Come ho fatto anche solo a pensare che lei avrebbe potuto accettare una situazione del genere. Non riesco neanche a capire perché le ho parlato in quel modo. Ricordo solo che non le ho parlato per tutto il resto delle vacanze, e faceva male, male da morire. Stare senza di lei d’estate era come essere senza ossigeno. Non potevo respirare, stavo affondando e nessun salvagente era stato lanciato per salvarmi, la mia ancora non era stata gettata. Nulla aveva più senso, senza di lei. Il sole, il caldo, sembrava tutto così… spento. Vuoto, senza quelle risate a riempire le giornate.
Poi, semplicemente, ho lasciato correre.
Come quando ti ferisci. Dapprima la ferita è lì, aperta, che ti urla il suo dolore. Poi pian piano è come se si spegnesse, fino a diventare una sottile striscia di pelle biancastra e insensibile.
Dopo quei tre mesi, ero la cicatrice della ferita che mi ero inferto da solo quando avevo fatto del male a lei.
Ho cominciato dapprima a ignorarla, poi a renderla oggetto di continui dispetti e battute. Mi rendo conto adesso di quanto sia stato crudele trattarla così per tutti questi anni, ma allora ero distrutto. Ero il residuo di quella guerra estiva combattuta senza di lei, l’unica cosa che mi interessava era prendere lo scudo e nascondermi lì sotto, leccandomi le ferite. Quando la tua unica vera amica decide di odiarti, non è che ci sia molto altro da fare.
E va bene, lo ammetto, è stata colpa mia. Non avrei dovuto parlarle così, non ho scusanti, e non ne ho neanche per come mi sono comportato dopo.
All’inizio era per proteggermi. Poi è diventata un po’ un’abitudine, quella di stuzzicarla, era divertente. A pensarci adesso, mi faccio schifo da solo.
E poi, chissà perché, è rispuntato il mio neo.


 
Let tomorrow wait another day.





***
Angolo autrice


Salve a tutti!
Come salutare il primo giorno di vera estate se non con un nuovo capitolo, fresco fresco, appena sfornato?
Piaciuto l’extra nella testolina bacata di quell’egocentrico di Jake? Sinceramente, l’ho scritto un sacco di tempo fa. L’ho riguardato, ho tagliato un pezzo e l’ho messo, senza pensarci troppo. Scusate se il capitolo è un po’ corto, ma credo che il prossimo sarà più lungo. Inoltre, sarà fonte di grande ansia per la nostra Alex… spero di riuscire ad aggiornare quanto prima possibile!
Per questo capitolo si ringraziano vivamente gli Of Monsters & Men, che con la loro “Little Talks” hanno ispirato un bel pezzo di questo capitolo. Si ringrazia Wikipedia per le informazioni sulla sindrome di Stoccolma. Un altro grande grazie va ai Kasabian, che ho incontrato dal vivo lunedì, per i quali sono ancora fuori di testa, e il loro disco “48:13”, in particolare la traccia “s.p.s.”, dalla quale ho preso la frasetta finale del capitolo. L’ho aggiunta perché mi piaceva, sebbene non abbia una collocazione precisa nella storia.
Infine, il grazie più grande a tutti coloro che hanno messo questa storia tra preferite, seguite e ricordate, a chi ha cominciato a seguirla per la prima volta, a chi mi segue dai primi capitoli, a chi lascia le sue preziose recensioni.
Grazie di cuore. Ci risentiamo presto!
-H

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Capitolo 12
*** Ripetizioni ***


12. Ripetizioni
                                                                                                                                                                 Chi è già stato punto da un’ape
                                                                                                                                        alla seconda puntura potrebbe anche morire.


Il giovedì passa tranquillo. Insomma, le solite cose, a scuola. Solo lo strano comportamento di Momo è preoccupante.
«Usciamo sabato?» le chiedo, a ricreazione.
«Eh?» era assorta nei suoi pensieri. «Oh, sì, certo».
«Solita ora, solito posto?»
«Ovvio»
«Avverti tu Sean?»
«Va bene».
Mi risponde, ma dalla sua faccia capisco che sta pensando a tutt’altro. È distratta, ma non ha intenzione di dirmi da cosa. Non insisto.
«Comunque… per la festa di Amber… a me va bene» azzardo dopo un po’.
Lei mi guarda scettica e quasi divertita.
«Ma dai? Pensavo che ci avresti ripensato»
«Ehm… ho cambiato idea». Le sue parole, l’altro giorno, sono state fatali.
Lei fa un gran sorriso – un po’ forzato, a dire il vero, ma faccio finta di non accorgermene.
«Ottimo. Avevo davvero una gran voglia di andarci. Ma da sola sarebbe stato un incubo!».

In palestra, appena arrivo, c’è uno stato di grande confusione. La Costance va di qua e di là con un sacco di scartoffie in mano e il cellulare attaccato all’orecchio. Appena mi vede, copre il ricevitore con la mano.
«Oh! Eccoti qui. Dove si è cacciato O’Brian? Vi devo dire una cosa importante». Poi riattacca a parlare, ma non presto attenzione a quello che dice.
Piuttosto, perché mai dovrei sapere dov’è quel cretino? Non sono mica la sua balia!
«Ciao».
Mi giro con un sobbalzo, e Ludvig mi sorride.
«Oh, ciao. Non ti avevo visto».
«Sai per caso cosa sta succedendo?» chiede dopo un po’.
Scuoto la testa. Me lo sto chiedendo anch’io.
«Okay. Senti… per sabato…» inizia, titubante. Mi illumino come una lampadina e dentro di me una banda canta l’inno nazionale.
«Sì?»
«A che ora? Vuoi che passi a prenderti oppure ci vediamo direttamente qui?»
«Ehm… va bene qui. Riguardo all’ora…» la fugace immagine del mio votaccio in fisica mi ricorda di un altro appuntamento.
«Ecco, sarebbe meglio non troppo presto. Ho… un altro impegno. Quindi… quando vuoi, ma non troppo presto. Telefonami, se puoi. Va bene?». Lo guardo speranzosa. Non posso evitare le mie ripetizioni – un altro voto del genere e i miei mi chiuderanno dentro casa per sempre.
«Okay. E poi, se ti va, quando finiamo… potremmo andare a fare una passeggiata, no?». Il suo viso si accende di un vago rossore – ma può essere che la fioca luce della palestra mi stia giocando un qualche scherzo.
Per qualche strano motivo, il mio cuore comincia a battere come impazzito, e una strana domanda fa capolino nella mia mente.
Mi sta chiedendo un appuntamento?
Il mio alter ego interiore scuote fermamente la testa. No che non è un appuntamento, siamo solo due amici che passano del tempo insieme. Credo.
«Ma certo» rispondo, sorridendo.

La Costance chiude il telefono e interrompe la nostra chiacchierata. Jake ancora non c’è.
«Allora…» non fa in tempo a finire che il cellulare le squilla di nuovo. Alza gli occhi al cielo e va a rispondere.
«Pronto? Sì… che cosa? Come sarebbe a dire? Ah… va bene… sì, sì. Però domani non accetterò scuse, chiaro, O’Brian?».
La Costance chiude la linea con rabbia. Immagino già quello che sta per dire.
«Oggi O’Brian non ci sarà. Dice di aver avuto un problema. Pazienza, proverete solo voi».
Mi ricordo all’improvviso che doveva dirci qualcosa.
«Prof… non doveva dirci qualcosa?»
«Ah, sì!» la prof si batte una mano sulla fronte «mi stavo dimenticando. Grazie, Watson. Allora, gli organizzatori della competizione che avrebbe dovuto tenersi tra tre settimane circa hanno deciso di posticipare la suddetta gara, ma ancora non hanno deciso la data. Il che è un bene per noi, perché così abbiamo più tempo, ma vorrà dire che dovremo aumentare un po’ il ritmo e la prossima settimana dobbiamo riprendere gli altri balli, perché potrebbero anche averla spostata di un giorno – in ogni caso mi terranno aggiornata. Oggi e domani, invece, continuiamo con il tango. Ah, Watson, ricordami che domani dobbiamo cominciare a pensare ad un vestito».
Sgrano gli occhi. Vestito? Vorrebbe dire uno di quegli abitini succinti che stanno bene solo alle modelle? Dio, no! Questo non posso accettarlo!
«Vestito? Non posso ballare in leggings?» provo a protestare.
La Costance scoppia a ridere.
«Certo che no. Con Imogen avevamo avuto un’idea, ma… non so, ne riparliamo domani».
Mi sento umiliata e offesa. Provo ancora a protestare, ma la prof è irremovibile.
«Basta, Watson. Ti ricordo che se tu e O’Brian non aveste fatto quel che avete fatto ora non sareste qui».
Poi batte le mani e ci spiega i prossimi passi.


Nel corso del pomeriggio imparo un po’ di passi, e spero di ricordarmeli tutti. Imparo la caminata, il balanceo e la Costance mi spiega una strana figura chiamata pivot.
Sono complicati, nel senso che mi sbaglio spesso. A parte il balanceo, che anche un neonato saprebbe fare, la caminata è difficile, specie per me che sono goffa di natura. Ludvig, invece, è aggraziato come un gatto, sembra sempre sfiorare il pavimento. Non capisco come diavolo fa. E poi, il pivot è terribile. La prima volta che lo faccio, quasi casco – bisogna avere un grande equilibrio.

Finalmente la prof ci lascia andare. Imbocco la via dell’uscita, ma mi ferma.
«Watson, fammi un favore. So che abiti vicino O’Brian. Se lo vedi, puoi dirgli quello che abbiamo fatto oggi? E dirgli anche di cercare su Internet quello che abbiamo fatto. Almeno può provare a capirci qualcosa. A domani».
Fantastico. Adesso devo anche fare da postino per quel deficiente che non si è presentato. Il che vuol dire che domani perderemo un sacco di tempo. Ottimo.
Comincio a sentirmi straordinariamente nervosa per questa gara. Solo adesso ho realizzato che dovrò ballare con altri ballerini davanti ad una giuria e fare una figuraccia perché tanto non vinceremo mai, io non sono Imogen, non sono bravissima. Ho troppo poco tempo. Non imparerò mai tutto.
«Ehi, tutto bene?» Ludvig mi ha raggiunta, e ha un’espressione preoccupata.
«Certo» dico, sforzandomi di sorridere, e mi avvio verso casa.


Arrivo al portone del mio condominio, lo apro e rimango di stucco. Jake è lì, sulle scale, appoggiato al muro con i gomiti sulle ginocchia. E non sta facendo assolutamente niente.
Dentro di me sento montare la rabbia.
«Ehi, tu!» lo apostrofo «si può sapere perché cavolo non c’eri, in palestra?».
Jake fa un sorriso sghembo.
«Hai sentito la mia mancanza, Watson?».
Alzo gli occhi al cielo.
«La Costance ha chiesto di te. Mi ha chiesto di riferirti che oggi siamo andati molto avanti e devi cercarti un po’ di cose su Internet. Niente scuse». Gli riferisco i passi che abbiamo fatto.
«E io dovrei impararli? Da solo?»
«No. Devi solo guardarli e, domani, provare a ricordarli. Ah, e la competizione è stata posticipata, ma non sappiamo a quando. Perciò vedi di non mancare». Mi dirigo verso l’ascensore. Anche Jake si alza dalla sua postazione.
«E va bene» dice, stiracchiandosi le braccia. Poi entriamo nell’ascensore e rimaniamo in silenzio, mentre saliamo. Il tragitto sembra infinito. Sospiro di sollievo non appena ci fermiamo.
Mi dirigo subito verso la mia porta, tirando fuori le chiavi.
«E tanto per la cronaca» aggiungo, mentre entro dentro «io non sentirò mai la tua mancanza, Jake». Sbatto la porta.
Che bugiarda, penso.


 
Venerdì passa in fretta. Le lezioni finiscono in un attimo – cosa strana, Momo non c’è. A ricreazione le invio un messaggio, ma non ho risposta.
Non appena usciamo controllo il telefono. Niente. Momo non risponde. Decido di chiamarla stasera. La chiamerei anche prima, ma purtroppo devo rispettare il mio impegno.
E anche oggi Jake si fa trovare sul pianerottolo, ma non faccio domande. È la sua espressione che mi lascia interdetta.
Non è triste. È… ferito. L’occhiata che mi lancia è colma di dolore.
Sono stata io a causarlo?
La domanda sorge spontanea nella mia testa. È colpa mia? Forse le parole che ho detto ieri erano crudeli. E un’altra domanda si affaccia nella mia mente.
Forse che anche a lui faccia male?
Scuoto la testa. No, lui non ci pensa più. Si è dimenticato di quello che è successo. Non stava così per quello. Forse ha litigato con qualcuno, forse qualche ragazza l’ha respinto, non lo so. Ma di sicuro non è per quello.


La Costance, anche oggi, non si risparmia. Ci fa ripetere quello che avevamo imparato prima e quello che ci ha spiegato ieri, mentre Ludvig spiega a Jake, passo per passo, ogni figura. Poi ci insegna un’altra salida, la cruzada, che per quanto riguarda me è uguale alla basica, invece Jake deve fare uno strano incrocio.
Inoltre, la Costance ci mostra la baldosa e la cadencia. Questi sono un po’ più complicati, ed è difficile seguirli.
Alla fine facciamo un breve ripasso generale – salida basica, balanceo, caminata, baldosa, cadencia, salida cruzada e pivot. Spero di riuscire a ricordarle tutte.
Poco prima di andar via, la Costance tocca l’argomento fatale.
«Per i vestiti» inizia, schiarendosi la voce «avevamo già deciso con Imogen e Robert, ma credo che cambieremo un po’ di cose. Innanzitutto, dovremmo trovarne uno che vada bene per tutti e quattro i balli, perché non ci sarà abbastanza tempo per cambiarvi, e poi devono essere abbinati. Però, per il tango ho intenzione di fare uno strappo alla regola e farvi cambiare. Chiederò cinque minuti, e quello sarà il tempo a vostra disposizione, chiaro?».
«Perché il tango dovrebbe essere diverso?» chiede Jake, imbronciato.
La prof pareva aspettarsi quella domanda, perché fa un sorriso a trentadue denti, neanche fosse una bambina la mattina di Natale.
«Perché il tango che ballerete sarà con tre ballerini, una cosa speciale, e quindi volevo un vestito che andasse bene a tutti e tre. Imogen aveva scelto questo per bachata, salsa e merengue e quest’altro per il tango» si avvicina a me tenendo una rivista.
Sulla pagina, segnata con una “X” a penna, c’è mostrato una abitino verde smeraldo dal collo alto ma con la schiena completamente scoperta e la gonna cortissima. Arrossisco. Non fa decisamente per me.
La prof volta le pagine e me ne mostra un’altra, sempre marchiata con la “X” e la scritta “tango”, dove campeggia un semplice e alquanto sobrio abito rosso.
Sospiro. Non sembrano fatti per me.
«Vuoi cambiarli? Tanto avremmo dovuto fare l’ordine questa settimana. Hai tempo fino a lunedì».
«Posso tenere la rivista?».
La prof annuisce.


Quella sera, dopo i compiti, do una rapida occhiata alla rivista. Gli abiti mi sembrano così… succinti. Non mi staranno mai bene. E soprattutto costano tantissimo.
Alla fine, però, riesco a trovare qualcosa anch’io. Con la mano tremante, faccio una piccola “X” su un sobrio vestito nero con lo spacco laterale per il tango e un più allegro abito azzurro per gli altri balli. Non sono sicura che siano perfetti, però mi piacciono. E non sono esagerati.
Finita l’operazione abito, chiamo Momo.
«Pronto?»
«Ciao, Momo. Come stai? Perché non sei venuta, oggi?»
«Ehm… non mi sentivo tanto bene. Ho un po’ di mal di testa».
«Ah». Chissà perché ero convinta che avesse a che fare con quello che non vuole dirmi.
«Che avete fatto oggi?» mi chiede, ma non sembra troppo interessata.
«Solite cose. E ho appena scelto il vestito per la gara di ballo».
Adesso Momo pare rianimarsi.
«Che cosa? Ma volevo sceglierlo insieme a te!»
«Tranquilla, ho la rivista e comunque ho tempo fino a lunedì. Domani, se vuoi, puoi darci un’occhiata».
«Oh, certo che ci darò un’occhiata! Tanto domani pomeriggio ci vediamo, no? Ah, a proposito, Sean ha detto che ci sarà».
Mi mordo un labbro. Detesto mentire, ma ne va del mio piano.
«Certo».


Quando spengo la luce per andare a dormire, rimango sdraiata sul letto con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto. Non riesco a dormire. Penso a Momo che non vuole dirmi qual è il suo problema. Sean incastrato tra le sue prove e la sua scuola. Jake che mi aspetta davanti alla porta ma non si decide a parlarmi come si deve. E Ludvig che mi ha chiesto di uscire…
Ehi, Terra chiama Alex! Non ti ha chiesto di uscire. Vuole solo impegnarsi il sabato sera, tutto qui. Non farti strane illusioni, chiaro?
La mia voce interiore mi ammonisce, ma ormai è troppo tardi. Ludvig… mi attrae, non c’è niente da fare. È gentile, simpatico, premuroso. Ma sa anche essere divertente. Insomma, è… perfetto. Mi piace, sì. Mi piace proprio.
Lo conosci appena!
Oh, sta’ zitto, alter ego.

A mezzanotte mi sveglio di soprassalto con uno strano presentimento. Mi alzo e reprimo un brivido quando i miei piedi nudi toccano il pavimento gelido. Mi avvicino alla finestra e scosto la tenda, sbattendo le palpebre per scacciare il sonno. Guardo fuori. Il mio presentimento era giusto. Nevica.

La mattinata di sabato, a scuola,  è più pesante del solito. Sembra che i nostri benevoli carnefici abbiano deciso di interrogarci tutti lo stesso giorno. Riesco a evitare per un pelo l’interrogazione di matematica. E per di più fa un freddo cane.
Non faccio altro che andare con la testa al mio pomeriggio con Ludvig, sospirando e fantasticando.
Poi, ovviamente, arriva l’alquanto sgradevole prospettiva delle ripetizioni con Jake. Me le stavo di nuovo dimenticando.
Momo mi guarda stranita mentre sospiro e prendo appunti, ma non fa domande. Meglio così. Detesto mentire… ma è una bugia a fin di bene.
A ricreazione anche Momo controlla la rivista, indicando vari abiti che, secondo lei, sono carini – indica quasi tutti quelli che avevo scartato per primi. Non si rende conto che non mi stanno bene. Sono troppo… non so, non fanno per me. Forse per lei sì, ma non per me.
«Ma questo è carino!» protesta, ogni volta che le dico di no.
«Hai ragione, è carino, ma non fa per me».
Mette il broncio e io sorrido. Questa è la vecchia Momo.
«Se ti stessi a sentire, nessuno di questi abiti sembra fatto per te, ma uno ti serve, no? E comunque, ti starebbero bene» rincara la dose.
«No, fidati. Non mi starebbero bene per niente».
Momo sospira, alzando gli occhi al cielo.
«Fosse per te, ti vestiresti come mia nonna. Andiamo, che male c’è?» insiste, continuando ad indicare l’abito scartato.
«C’è che mi sentirei in imbarazzo, con quello addosso»
«Cos’ha di imbarazzante? È carinissimo!»
«Ma mi sentirei praticamente nuda! Devo forse ricordarti che devo ballare spalmata addosso a due ragazzi?» aggiungo, abbassando la voce.
«E allora?»
«E allora mi vergogno!». Momo alza di nuovo gli occhi al cielo, ma smette di insistere. Lo sa che con la mia timidezza non si riesce mai a vincere.

A pranzo mi mantengo leggera – più perché l’agitazione mi ha chiuso lo stomaco che per altri motivi. Entro un’ora dovrò bussare a quella porta dall’altra parte del pianerottolo ed entrare nella tana del lupo.
Sono agitata – e forse non dovrei esserlo, sono solo stupide ripetizioni di fisica – ma sono anche stranamente emozionata.
Alle tre del pomeriggio precise prendo il libro di fisica, il quaderno e l’astuccio e busso alla porta di casa di Jake.
Che è già aperta.
Entro in casa sua in punta di piedi, quasi timorosa. Mi sembra di stare profanando un tempio. Non ero mai stata a casa di un ragazzo, men che mai a casa di Jake. Mi chiedo se c’è qualche differenza tra una casa dove c’è una ragazza e una dove c’è un ragazzo. Probabilmente non tante.
E’ una casa accogliente, quasi del tutto speculare alla nostra. Nel piccolo salottino campeggia un divano color panna. Grandi quadri sono appesi alle pareti, e da uno stereo si diffonde una dolce musica in una lingua sconosciuta.
Jake spunta fuori dal corridoio con i capelli arruffati e l’aria confusa.
«Posso? Ti ho svegliato?» gli chiedo, pentendomene subito dopo, ma Jake fa un cenno con la mano. Possibile che faccia il pisolino pomeridiano? Sarebbe davvero incredibile.
«No, tranquilla. Siediti pure» dice, facendo strada verso la cucina.
Io mi siedo esitante sul bordo di una sedia, neanche fosse piena di spilli.
«Vuoi un caffè?» mi chiede, dopo aver armeggiato con la caffettiera – all’italiana – per un po’.
«No, grazie»
«Sicura? Guarda che ne ho fatto abbastanza per entrambi, eh».
Nel mentre che aspettiamo il caffè, il silenzio diventa pesante e imbarazzante. Dopo anni di distanza, un riavvicinamento così repentino, tra il ballo e adesso questa storia, mi – ci – mette a disagio. La musica è l’unica cosa che accarezza l’aria.
Sospiriamo sollevati tutti e due quando finalmente si diffonde il profumo del caffè. Ignorando il mio rifiuto di poco prima, Jake mi mette davanti una tazzina fumante, che io bevo in maniera automatica. Lui mi lancia uno sguardo come se avessi solo confermato ciò che si aspettava.
Finito il caffè, cominciamo a lavorare.
«Allora, che cosa devo spiegarti?»
«Tutto» dico, rassegnata.
«Come tutto? Tutto cosa?» chiede lui con gli occhi sbarrati.
«Tutto il programma»



«Ci risiamo!» sbuffa, guardando il foglio da sopra la mia spalla. «La velocità del moto circolare uniforme è diametro per pi greco diviso periodo, non due pi greco diviso periodo. Quella è la velocità angolare. Neanche queste cose elementari sai?» chiede, esasperato.
Gli scocco un’occhiataccia. È vero, sono una somara, ma lui non ha il diritto di dirmelo così!
Mi assegna un altro esercizio. È semplice, lo faccio tranquillamente, ma mi blocco a metà, colta da un pensiero improvviso, mentre la dolce melodia dello stereo continua a risuonarmi in testa.
Lui mi guarda interrogativo.
«Che c’è? Non riesci a farlo?»
Guardo i suoi intelligenti occhi grigiazzurri.
«No… solo, mi stavo chiedendo se tu sapessi parlare l’italiano».
Sembra sorpreso. Poi annuisce.
«Mia madre mi ha insegnato l’italiano e mio padre il suo dialetto irlandese, e contemporaneamente imparavo l’inglese accademico. I miei non mi hanno lasciato decidere, però alla fine è stato utile» dice, facendo spallucce.
«La canzone…» inizio facendo un cenno con la mano verso il salotto «…è in italiano?».
«Sì» sospira.
«Potresti dirmi cosa dice?».
All’improvviso il suo sguardo è ostile.
«Perché?»
«Non lo so. Perché è bella, tutto qui» dico, reagendo a quell’improvviso cambiamento di umore.
Jake sospira. Non ha bisogno di ascoltare la canzone – sembra quasi che la conosca a memoria, e probabilmente è così.
«Era d’estate e tu eri con me
era d’estate tanto tempo fa
ora per ora noi vivevamo
giorni e notti felici
senza domani

«Era d’autunno e tu eri con me
era d’autunno poco tempo fa
ora per ora senza un sorriso
si spegneva l’estate negli occhi tuoi

«Era d’estate e tu eri con me
era d’estate poco tempo fa                                                                                     
e sul tuo viso lacrime chiare                                              
mi dicevano solo addio
».                                                            
Jake abbassa la testa. La porta della memoria si apre di nuovo, ma stavolta non posso sopportarlo.
Scappo via.
Rientro dentro casa mia correndo. Per fortuna, i miei non ci sono. Mi accascio contro la porta d’ingresso, le guance bagnate di lacrime, mentre ripenso alle parole della canzone.
Basta. Non ne posso più di canzoni profetiche, che mi ricordano i miei errori. Voglio solo dimenticarmi di quell’estate, okay? Non chiedo altro. Solo questo.

Rimango accasciata lì per un tempo che mi sembra interminabile, anche se passano solo pochi minuti.
«Alex…». Quel sussurro mi fa sobbalzare. Riconosco la voce di Jake. Tuttavia, rimango in silenzio.
«Alex, mi dispiace. Non hai idea di quanto mi dispiaccia. Puoi perdonarmi? Per tutto quanto?».
Quelle parole sussurrate da dietro una porta mi commuovono, e riprendo a piangere, attenta a non lasciarmi sfuggire alcun singhiozzo.
Dopo un po’ lo sento sospirare a alzarsi. Pochi secondi, e sento la sua porta sbattere.
Solo allora permetto ad un unico singhiozzo di uscire dalla mia gola.


Nel tempo che segue, cerco di dimenticare quanto successo. Faccio finta che non sia mai accaduto. Mi asciugo la faccia e provo a sorridere allo specchio, ma ho gli occhi talmente gonfi che sembro una ranocchia. Ridacchio tra me.
Faccio una doccia breve, più per scacciare via i pensieri dalla testa che per altri motivi.
E poi, mi aspetta il resto della giornata in compagnia di Ludvig. Devo esserne felice, e in effetti lo sono, ma non abbastanza. Ciò che è successo a casa di Jake mi ha prosciugato ogni energia, ma non è ora di piangere.
Metto i miei abiti da ballo e guardo con sospetto prima il borsone e poi il cassetto aperto.
Cosa mi metto?
Devo pur sempre uscire, dopo le prove. Devo uscire e per giunta con un ragazzo. Non dico di dovermi agghindare ma ehi, ci tengo a sembrare… non dico carina, ma per lo meno guardabile.
Esamino disperata il mio cassetto che avrebbe bisogno di una rinnovata. Lì dentro ci sono abiti davvero vecchi, residui storici che stanno lì da quando andavo ancora alle medie. Dovrei fare una cernita, buttare un po’ di roba e andare in centro a fare shopping…
Ma non posso pensarci adesso!
Dopo un quarto d’ora di esame, scelgo un maglioncino azzurro con lo scollo a barca e un semplice paio di blu jeans. Non sto mica andando ad una cerimonia, è solo un appuntamento… be’, tecnicamente non è neanche un appuntamento.
Oh, al diavolo!
Infilo rabbiosamente gli abiti incriminati nella borsa e, proprio mentre la chiudo, il mio cellulare squilla. È Ludvig. Mi affretto a rispondere.
«Pronto?»
«Ciao, sono io. Volevo solo dirti che sto arrivando, okay?»
«Ah, okay. Arrivo subito». Chiudo il telefono e corro ad infilarmi le scarpe.
Poi realizzo che ho ancora i capelli bagnati.
Imprecando, gli do un’asciugata veloce con il phon, con l’unico risultato che si gonfiano e sembro un po’ un barboncino, ma non ho abbastanza tempo per farli sembrare quantomeno decenti.
Dopodiché afferro la borsa ed esco di volata.



Corro verso l’entrata della palestra, sono in ritardissimo. Mi fiondo negli spogliatoi, poso la borsa, infilo le scarpe da ballo e torno su, già riscaldata per ballare, grazie alla mia corsetta.
Vedo Ludvig rannicchiato a terra con la schiena appoggiata al muro e mi avvicino.
«Ciao» dico.
Non ottengo risposta.
Mi schiarisco la voce – niente.
Mi rannicchio davanti a lui.
«Terra chiama Ludvig!» esclamo, sventolando una mano.
Lui sobbalza e alza gli occhi dal libro che ha poggiato sulle ginocchia. Nei suoi occhi vedo sorpresa, e una miriade di altre cose che probabilmente fanno parte del libro.
«Scusa… non ti avevo proprio vista, stavo leggendo…» dice, un po’ trasognato.
Faccio spallucce. «Piuttosto, che libro è?» gli chiedo.
Mi fa vedere la copertina e leggo: Män som hatar kvinnor.
Devo avere una faccia abbastanza interrogativa perché Ludvig mi anticipa.
«È svedese. Probabilmente qui è più conosciuto come Men who hate women oppure The Girl with the Dragon Tattoo»
«Ah, ho capito. È un poliziesco, giusto? E com’è?» chiedo, curiosa.
«Fortissimo». Piazza un segnalibro tra le pagine e chiude il libro con un colpo secco.
«Bene, adesso ci alleniamo».
Ludvig posa il libro sul tavolino dove di solito siede la Costance e si stiracchia le braccia e le gambe.
Lo osservo di sottecchi – le spalle larghe, la vita e i fianchi stretti, le gambe lunghe. È davvero alto. Non ci avevo fatto caso.
Incrocia il mio sguardo e sorride, mentre io arrossisco.
Si è accorto che lo stavo guardando?
Cielo, spero di no. Faccio finta di niente e mi stiracchio anche io le braccia, cercando di imitarlo. Poi mi avvicino al centro della palestra e aspetto pazientemente che mi raggiunga, un po’ imbarazzata perché non so di preciso cosa fare.
«Allora…» Ludvig si avvicina a me con le mani sui fianchi, guardando per terra. Poi alza la testa.
«Solo tango? O vuoi rivedere anche gli altri balli?».
Un po’ di ripasso non farebbe male, ma… la fugace immagine del merengue mi fa cambiare idea. Non me la sento di stargli appiccicata addosso in quel modo.
«Solo tango»
«Guarda che non mordo mica» dice sorridendo, come se mi avesse letto nel pensiero, ma io scuoto comunque la testa.
«Okay».
Allarga le braccia e ci mettiamo in posizione. Abrazo.
«Più dritta con la schiena» mi sussurra Ludvig in un orecchio. Sentire il suo respiro così vicino mi fa arrossire. Non riesco ad abituarmi a stargli così vicina.
Faccio quel che mi ha detto, e dopo un po’ cominciamo ad ondeggiare. Non conosco questo passo.
«Cunita» dice lui, rispondendo alla mia muta domanda.
«La prof non te l’ha spiegata, ma è importante. In effetti, ci sono molte cose che non ha detto».
«Ah sì? E cos’altro non mi ha detto?»
«Per esempio, non ti ha detto cos’è davvero l’abrazo, e cos’è il tango» mi sussurra, con aria di mistero.
«Come no? Il tango è un ballo. L’abrazo è una figura. No?» sussurro a mia volta.
«L’abbraccio implica e racchiude in sé realmente tutto il tango. Il tango è un abbraccio, è un modo di camminare abbracciato ad una persona, avendo cura di camminare sempre allo stesso tempo. Potersi comprendere e conversare in questa camminata è l’intesa di due persone che si muovono insieme».
Contravvenendo alle regole del tango, tira indietro la testa per guardarmi in faccia.
«Carlos Gavito la pensava così. Sei ancora sicura che il tango sia solo un ballo e l’abbraccio solo una figura?».
I suoi occhi blu brillano nella penombra della palestra. Mi sento a disagio, non riesco a sostenere il suo sguardo.
«Non proprio. E quella frase è bellissima» mi lascio sfuggire.
Ludvig sorride e ritorna in posizione.
Iniziamo con un po’ di caminata. Cerco di essere più sciolta rispetto a ieri, ma niente da fare – se sono goffa, sono goffa. Non sarò mai aggraziata.
«Sono troppo goffa» sussurro involontariamente.
«Stai andando benissimo, tranquilla» mi rassicura.
Dopo un po’ riprendiamo le varie figure, iniziando dal balanceo. È facile. Basta che ricordi con quale piede iniziare e poi continuare.
Più complicata è la baldosa. È più compatta, meno lenta. Ludvig mi spiega che viene usata più per la milonga che per il tango argentino classico.
Poi passiamo alla salida basica e quella cruzada. Ludvig batte il tempo nel mio orecchio – un, due, tre, quattro-cinque, sei, sette, otto. Otto tempi. Dopo un po’ prendo il ritmo e mi unisco a lui nella conta. Il profumo di menta e limone di avvolge.
«Non muovere troppo i fianchi» sussurra. Non mi ero accorta di star muovendo i fianchi. Il fatto che lui lo abbia notato mi fa distrarre e perdo il ritmo. E ci tocca ricominciare.
Dopo un bel po’ di salida, facciamo la cadencia – la figura più difficile, per ora.
I primi passi sono okay. È solo quando devo incrociare che sbaglio.
Dopo la tredicesima volta che devo ricominciare, mi sciolgo dall’abbraccio, frustrata.
«Non ci riesco, punto».
«Sì che ci riesci. Devi solo ricordare come si fa e smettere di pensare»
«Lo dici come se fosse facile»
«È facile. Svuota la mente. Pensa solo al fatto che tu sei qui per ballare. Non pensare a quello che devi fare».
Lo guardo disperata.
«Sono troppe figure. Non riesco a ricordarle. È lì il problema».
Ludvig sospira. Poi accende lo stereo che giace abbandonato sul tavolino della Costance e mi costringe a rimettermi in posizione.
«Un ballerino
non deve mai pensare
a ciò che sta per fare
perché si balla la musica
non le figure.
Egli deve solo sentire la musica.
I nostri piedi
sono come i pennelli di un pittore.
Con essi dipingiamo la musica
».
Lo ascolto senza respirare. Senza neanche accorgermi che mi ha fatto fare una perfetta cadencia e che adesso siamo perfettamente face to face, come vuole questo passo.
Ludvig sorride.
«Visto che ce la puoi fare, se smetti di pensare?».
Dopo un attimo di esitazione, sorrido anche io.
Per l’ennesima volta, mi chiedo perché con lui tutto sia più… semplice, spontaneo. Perché diamine invece quell’italo-irlandese dei miei stivali sia sempre così problematico.


Proviamo per un’altra ora, rivedendo tutto, stavolta con la musica. E devo ammettere che la musica aiuta. Basta seguirla. Non andare fuori tempo. E ovviamente anche Ludvig mi aiuta a non sbagliare.
Ci sciogliamo dall’abbraccio, ma nessuno dei due vuole smettere di ballare. Dopo un po’ lui mi fa un sorriso sghembo – non mi aveva mai sorriso così, in una maniera così furbesca, quasi giocherellona.
«Vogliamo fare uno scherzetto alla Costance?».
Lo guardo interrogativa.
«Che scherzetto?»
«Vieni qui».
Ci piazziamo l’una davanti all’altro e riprendiamo l’abrazo.
«Adesso alza il ginocchio destro»
Cosa?
«Come, scusa?».
«Fidati».
Sono un po’ scettica, ma decido di fidarmi. Non ho molta scelta – anche perché ho come l’impressione che tanto la Costance me lo farà fare comunque.
Perciò faccio come mi ha detto.
«Solleva la gamba destra e distendi l’altra. Come se dovessi ruotare su te stessa».
E va bene, anche se ancora non mi convince.
Ludvig sembra sapere quello che sta facendo, come se l’avesse già fatto centinaia di volte, e forse è proprio così. Anche lui ha divaricato un po’ le gambe, poggiando il peso sulla sinistra, con il ginocchio un po’ piegato e la gamba destra distesa.
È leggermente faticoso stare così.
«Adesso agganciati».
Cosa?
«Non capisco»
«Ginocchio contro il mio fianco. Piede dietro il mio ginocchio».
Obbedisco. Mi sento un po’ in imbarazzo.
«Okay, brava. E non ti preoccupare – ti tengo io, non puoi cadere».
«E adesso?»
«Adesso sganciati». Se mi devo sganciare dopo neanche tre secondi, perché tutta questa fatica?
Torniamo nella posizione iniziale.
«Ti ricordi come devi fare?» chiede, serio.
«Sì». Ancora non capisco dove vuole andare a parare.
«Bene. Allora rifacciamolo un’altra volta».
Ci vuole molto di meno, perché adesso so cosa fare. In un attimo mi ritrovo agganciata a lui come prima.
«Perfetto». Mi fa sganciare di nuovo. Chi lo capisce è bravo.
«Pronta? Adesso facciamo un po’ di giri. Al secondo agganciati, okay? E ricordati di aiutarti con la punta del piede a terra per girare».
Aspetta, che?
Non faccio in tempo a protestare.
Ludvig mi avvicina a sé e cominciamo a piroettare velocemente.
«Vai!». È solo un sussurro, ma mi basta. Automaticamente, sollevo la gamba e mi aggancio come prima, mentre continuiamo a piroettare. Per aiutarmi, mi puntello a terra con la punta del piede sinistro.
Un altro paio di piroette e ci fermiamo. Lo guardo negli occhi e mi sfugge una risata.
«Forte, vero?»
«Devo ammetterlo, è stato divertente, anche se avevo una paura matta» ammetto.
Rimaniamo in silenzio per un po’. Gli unici suoni sono i nostri respiri, un po’pesanti per la fatica, la musica dello stereo e i nostri cuori che corrono all’unisono.
«Possiamo rifarlo?» azzardo.
Ludvig sorride.
«Va bene».
Quindi ci rimettiamo in posizione per bene ma stavolta, quando Ludvig attacca a girare, non ho bisogno del suo sussurro per capire quando agganciarmi. È incredibilmente divertente.
Quando mi sgancio, rimaniamo fermi nell’abbraccio iniziale. Lo so che dovrei staccarmi, ma ehi, sto così bene qui, avvolta da un buon profumo di menta e limone, mi sento così… protetta, sicura. Vorrei poter rimanere così per sempre.
Solo dopo realizzo che forse Ludvig non la pensa allo stesso modo, e mi stacco di soprassalto.
«Scusami… io…» comincio a balbettare, ma mi interrompe.
«Non fa niente» dice sorridendo.


«Penso che per oggi possa bastare» dice Ludvig dopo un po’.
Io annuisco. Sono stanchissima.
Vado negli spogliatoi e cerco di togliermi il sudore di dosso. Meno male che ho portato un asciugamano.
Infilo i miei jeans e il mio maglioncino, poi controllo il cellulare.
Cinque messaggi e dieci chiamate perse, tutte di Momo. Mi ero completamente dimenticata di dirle che oggi non ci saremmo potute vedere.
La chiamo subito.
«Insomma Alex, dove cavolo ti sei cacciata?» mi accoglie la assai poco amichevole voce di Momo dall’altro capo del filo.
«Scusami, scusami tanto, ma oggi non riesco proprio a venire»
«Come sarebbe a dire?»
«Sì, ho… un impegno, ecco. Scusami»
«Asp-» chiudo il telefono prima che possa farmi altre domande. Mi sento già abbastanza in colpa così, se dovessi dare altre spiegazioni finirei per confessare.
Vado davanti allo specchio sul lavandino del bagno e cerco di aggiustarmi i capelli, senza troppi risultati.
Al diavolo.
Alzando gli occhi al cielo, torno in palestra.

Ludvig è già lì ad aspettarmi. Appena mi vede, raccoglie la sua borsa.
«Andiamo?»
Io annuisco. Usciti da scuola, prendiamo il primo autobus per Piccadilly Circus.

All’inizio nessuno dei due parla – forse siamo imbarazzati. C’è talmente silenzio, tra noi, che dopo un po’ si sente il mio stomaco brontolare.
Arrossisco all’istante.
«Hai fame, per caso?»
«Da morire»
«Allora troviamo un posto dove mangiare un boccone. Anche io ho fame».
Lo guardo con gli occhi spalancati.
«Che c’è?»
«Si vede proprio che sei straniero…»
«Perché?»
«Qui per “trovare un posto dove mangiare un boccone” dovresti spendere un patrimonio. Non a caso i londinesi preferiscono i take-away».
«Oh…» Ludvig pare imbarazzato.
Io sorrido.
«Dai, ti sto prendendo un po’ in giro. Conosco un posticino economico. È una catena biologica. Di solito se ne trova uno ogni dieci metri».
Mi giro un po’ intorno. Dall’altra parte, verso Regent Street, vedo l’insegna colorata del Pret a Manger.
«Andiamo, è di là».
Faccio strada – e anche un po’ da guida turistica, ma mi fa piacere.
Il ristorante è quasi pieno. Mi avvicino al banco dei panini.
«Come funziona qui?»
«Allora, prendi il panino che preferisci, prendi se vuoi anche un dolce, quello che vuoi, poi vai alla cassa e paghi. Tutto qui. Ci sono anche i tramezzini. Di là i dolci al cucchiaio, ma ci sono anche le barrette con le nocciole o le brownies – in poche parole, c’è di tutto»
Io prendo il mio solito panino con Caesar salad, pollo e bacon e una bottiglia d’acqua. Ludvig prende un tramezzino al salmone e dell’acqua.
«Ma il salmone non è tipo ovunque in Svezia?» chiedo.
«Sì, ma mai quanto in Norvegia».
Ci avviciniamo alla cassa con i nostri acquisti e la cassiera ci fa un unico scontrino. Faccio per prendere il portafoglio ma Ludvig mi blocca.
«Faccio io».
Lo guardo imbronciata mentre ci sediamo all’unico tavolino per due rimasto libero.
«Non mi piace farmi pagare la cena. Poi mi sento in debito».
«Era un gesto gentile. Ma mi fa piacere sapere che sei una donna indipendente» sorride, e io arrossisco per quella che deve essere la decima volta in un’unica giornata. Non è un complimento da tutti i giorni.
Cominciamo a mangiare i nostri panini in silenzio, e sempre in silenzio li finiamo.
Però anziché alzarci e andarcene subito, rimaniamo seduti a chiacchierare.
«Raccontami di te» mi fa Ludvig.
Gli lancio un’occhiata interrogativa.
«In che senso?»
«Non saprei… dimmi della tua famiglia, di quello che vuoi» mi dice, sorridendo.
«Ma… non saprei cosa dirti. Comincia tu» arrossisco.
«E va bene».
Incrocia le braccia sul tavolino.
«Sono nato a Stoccolma, il mio segno è Acquario e amo il cibo svedese, nonché la mia Svezia. Mio padre si chiama Christer Ohlsson, è nato a Stoccolma, ma non è del tutto svedese. Mio nonno era di Malmö, sempre in Svezia, ma mia nonna era di Oslo, norvegese doc. Mia madre è Katrin Stretz ed è tedesca, di Düsseldorf. Anche i miei nonni materni erano di lì. In breve, io e mia sorella siamo il risultato di uno strano cocktail nordico» ridacchia.
E si vede, penso, ma lo tengo per me.
«Hai una sorella?» chiedo invece.
«Sì. Si chiama Annika, ha dieci anni ed è una vera peste. Non farti ingannare dal faccino d’angelo»
Vale anche per te, Ludvig?
«Ma se tuo padre è di Stoccolma e tua madre di Düsseldorf… come hanno fatto a incontrarsi?»
«Sul lavoro. Sono entrambi giornalisti. Nel 1989 lei era in Svezia per un reportage su un affare economico a cui stava lavorando anche mio padre. E così si sono incontrati».
Wow. Com’è strana la vita, a volte.
Ludvig fa una pausa.
«Tutto qui. Adesso tocca a te. E scusa se ti ho raccontato tutto questo, ma ho voglia di chiacchierare» dice dopo un po’ con un sorriso.
«Mah, non ho molto da dire. Sono nata a Londra, sono Bilancia e figlia unica. Mia madre si chiama Susan McDouglas ed è di Glasgow, quindi sono un po’ scozzese. Ho una cugina di nome Lauren, figlia di Ann, la sorella di mamma. Mio padre è Dave Watson ed è nato qui, a Londra. È il fratello di mia zia Sophie che è… era… una persona fantastica». Abbasso lo sguardo. Parlare di mia zia mi fa ancora male. Cerco di sciogliere il nodo che già si è formato nella mia gola.
Ludvig pare capire.
«Mi dispiace»
«Già, anche a me».
Rimaniamo in silenzio per un po’.
«Puoi raccontarmi qualcosa di lei, se ti va. Ma non voglio impicciarmi».
Lo guardo, riflettendo. Ma sì, ho bisogno di sfogarmi un po’.
«Zia Sophie era fantastica. Era una persona in grado di farsi benvolere da tutti, perché era speciale. Aveva sempre una parola gentile per chi incontrava, una di quelle persone che si svegliano con il sorriso sulla faccia. Era sempre allegra e ottimista. Amava leggere, amava viaggiare, amava la sua vita. Non si è mai sposata. Aveva un compagno che ho incontrato in molte occasioni e che ho imparato a conoscere ed apprezzare. Si amavano molto, ma nessuno dei due pensava al matrimonio». Faccio una pausa e bevo un bicchiere d’acqua, più che altro per scrollarmi di dosso la sensazione di stare per piangere.
«Devo tutto a mia zia. C’è stato un periodo della mia vita in cui mia madre… beh, non è stata molto presente, perciò passavo molto tempo con lei. Ha fatto nascere in me l’amore per i libri e il rispetto per la mia vita. Sognavo di poter diventare come lei, era un vero modello per me. E poi… c’è stato l’incidente. Nessuno se lo aspettava. Era il mio compleanno. Nella macchina hanno trovato una lettera per me».
Mi interrompo qui. Non ce la posso fare.
Mi asciugo al volo una lacrima con il dorso della mano
«Non so perché te lo sto raccontando. Magari anche io ho solo voglia di chiacchierare» ridacchio.
Ludvig fa un sorriso triste.
«Scusami. Ti ho resa triste. Come posso farmi perdonare?»
«Non è colpa tua. Non farci caso».
Ludvig si mordicchia il labbro mentre io caccio via le lacrime, una dopo l’altra.
«Se ti può consolare… ho perso i miei nonni da poco. Capisco come ti senti».
Mi ci vuole un altro po’ per smettere di piangere. È il secondo pianto della giornata. Direi che basta.
«E dimmi, allora» dico, cercando di essere allegra «perché sei venuto qui a Londra, in mezzo alla pioggia? Non ci credo che è solo per la scuola di ballo».
Mi sorride. Sgamato.
«Per via del lavoro dei miei genitori. Reportage su un affare top secret».
«Wow. Mi piacciono gli affari top secret»
«Anche a me. Fanno molto poliziesco. Ma non posso indagare, purtroppo» ridacchia.
«Una volta mi hai detto che alla tua vecchia scuola, in Svezia, avevi dei problemi. Che tipo di problemi?».
Si rabbuia. Ho toccato un tasto sbagliato.
«Ero continuamente oggetto di scherzi e prese in giro. Non solo per via del mio hobby, ma anche per via del mio aspetto» si morde il labbro, come se avesse detto troppo.
Stavolta non capisco davvero. Perché prendere in giro una persona solo perché è così bella da sembrare una creatura ultraterrena?
«In che senso, per via del tuo aspetto?».
Stavolta tocca a lui arrossire.
«Be’, diciamo che allora era molto diverso».
Gli rivolgo uno sguardo interrogativo.
Ludvig si mette a rovistare alla ricerca del suo portafoglio e tira fuori una fototessera.
«Questo sono io in seconda media» dice, porgendomela.
Guardo la fotografia e cerco di paragonarla al ragazzo che ho davanti. Mi pare impossibile che quel ragazzino paffutello, occhialuto e pieno di brufoli che sorride – un sorriso circondato di ferro – alla telecamera sia l’angelo biondo che mi trovo davanti.
«Impossibile. Tu non porti gli occhiali»
«La magia delle lenti a contatto. Anche se quando posso evito di metterle»
«Ma non hai neanche un brufolo…»
«Ti ho detto che mia madre è una fissata con le creme antiacne?»
«Ma hai dei denti perfetti…»
«E secondo te perché?»
«E poi, non sei affatto così paffutello!»
«Per quello devo ringraziare la danza. E la crescita».
Alzo lo sguardo dalla fotografia, sbalordita. In effetti, un po’ di somiglianza c’è. Per esempio, la fossetta sulla guancia quando sorride.
Istintivamente, mi avvicino a lui per cercare altre somiglianze con la foto. Il naso perfetto c’è. Anche la forma degli occhi mi pare la stessa, sebbene quegli occhialoni della fotografia nascondano molto.
Lo sguardo mi porta su una sottile cicatrice perfettamente perpendicolare al suo sopracciglio, in linea con il naso. Una minuscola imperfezione su quel viso perfetto. Sospiro di sollievo. È la prova che anche lui è un essere umano.
«Che c’è?»
«Niente. Ho la prova che anche tu sei umano»
«Cioè?».
Non rispondo. Semplicemente, allungo una mano fino a sfiorare la cicatrice con l’indice. Ludvig, istintivamente, chiude gli occhi.
«Come te la sei fatta?»
«Sono caduto». Riapre gli occhi.
«Anche tu hai qualche segreto da condividere, Alex?».
Alex. Il modo in cui pronuncia il mio nome mi provoca strani brividi.
«Forse. Ma ce ne vorrà per farmi parlare. Mi pare di aver già detto troppo»
«Dovrò provare a convincerti, allora».
«Non ti sforzare. Per oggi, non cederò»
«Mi arrendo. Ma solo per oggi» ridacchia.
Sorrido. Mi trovo bene qui con lui.
Do un’occhiata all’orologio.
«È ancora abbastanza presto. Vuoi andare da qualche parte in particolare?» gli chiedo.
Fa spallucce. «Guidami tu».
Sorrido. Ci alziamo dal tavolino e faccio strada verso St. James’s Park.

Non so di preciso perché voglio andare lì – specie di notte e con la neve, ma… non lo so, è un bel posto. Mi piace.
A piedi è una bella passeggiata, ma va bene così. Sull’autobus, Londra non è la stessa cosa.
Mentre camminiamo, continuiamo a parlare del più e del meno.
Arriviamo al parco dopo circa mezz’ora, e cominciamo a costeggiare il laghetto che percorre tutto il parco fino a Buckingham Palace.
Un pensiero mi coglie all’improvviso.
«Ludvig» comincio «ricordi il giorno che ci siamo incontrati – o meglio, scontrati?»
«Sì»
«Bene, il giorno dopo sei venuto da me scusandoti e mi hai dato il tuo numero di telefono per farti perdonare, no? E allora come hai fatto quel pomeriggio a chiamarmi tu, se io non ti avevo dato il mio numero?».
Ludvig mi guarda, arrossisce e scoppia a ridere.
«Quante altre cose hai intenzione di farmi rivelare ancora, Alex?»
Alzo un sopracciglio.
«Perché?»
«Vuoi davvero sapere come ho avuto il tuo numero?»
«Sinceramente… sì. Sei un hacker? Hai frugato tra gli utenti del mio operatore telefonico per arrivare a me? Devo preoccuparmi e cominciare a stare in guarda dagli sconosciuti?»
Ludvig riprende a ridere.
«No, non sono un hacker – non mi chiamo mica Lisbeth Salander*. E non sono neanche un mago con il computer, a malapena lo so usare. Però, riguardo agli sconosciuti, ti consiglierei di stare attenta».
Stavolta è serio.
«Insomma, vuoi rispondermi o no?»
«Dipende. Vuoi provare a indovinare?»
«No. Mi arrendo» alzo le mani.
«Va bene. Ma non mi dimenticherò che mi stai facendo svuotare il sacco» fa una pausa. «L’ho chiesto alla tua amica, Momo». Sgrano gli occhi. Momo?
«Se te lo stai chiedendo, l’ho incontrata per il corridoio e gliel’ho chiesto. Avrei dovuto dirtelo, ma pensavo che lo avesse fatto lei».
Sono senza parole. Non me lo immaginavo per niente.
«Non ci credo» scoppio a ridere.
«Invece è andata proprio così».
Ridiamo sulla faccenda ancora un altro po’, finché una figura bianca nell’acqua non attira la mia attenzione.
«Guarda, un cigno!» esclamo. Sembro davvero una bambina, ma la verità è che amo i cigni. Mi fanno pensare a mia zia Sophie.
Mi sporgo per osservarlo meglio. È proprio un cigno, che nuota placido bagnato dai raggi della luna.
So benissimo che a St James’s ci sono i cigni – se è per questo, ci sono anche le anatre, i germani reali, gli scoiattoli e un’altra specie di uccelli dalle zampe strane. E di notte ci sono i gufi.
Però mi emoziona sempre vedere uno di questi grandi uccelli bianchi.
«È bellissimo, non è vero?» mi giro verso Ludvig. Ma lui non sta guardando il cigno. Sta guardando me, uno scintillio strano, particolare, nei suoi profondi occhi blu.
Percepisco qualcosa nell’aria, tesa e densa di una promessa, o di una minaccia. Il mio cuore salta i battiti a forza di correre.
«Che c’è?» chiedo, trattenendo il respiro.
Ludvig scuote la testa.
«Niente, un… pensiero improvviso»
«È un segreto?».
Sorride.
«Sì»
«E non ti va di rivelarmelo?»
«Forse. Ma non oggi. Mi pare di aver già detto troppo» dice, ripetendo le mie parole di prima.
«Ehi! Quelle sono le mie parole!».
Inizio a rincorrerlo per tutto il parco. Ridiamo come due bambini e i passanti ci guardano male, ma non importa. Mi sento bene.


Ci fermiamo solo quando siamo troppo stanchi per correre ancora.
«Non ho più l’età» ansimo, tenendo le mani sulle ginocchia.
«Però è stato divertente». Ludvig sorride, guardandomi.
«Vero».
Ci dirigiamo verso la stazione di Charing Cross – siamo usciti dal parco da dove siamo entrati, quindi è vicinissima.
«Dov’è che abiti?» gli chiedo.
«Cleveland Street».
«Ah, già. A un tiro di schioppo da casa mia. Allora prendiamo la Bakerloo e scendiamo a Regent’s Park?»
«Okay».
La metro è strapiena come al solito – turisti e londinesi si mescolano rimanendo sempre però distinguibili gli uni dagli altri.
Appena si liberano due posti vicini, ci sediamo e riprendiamo a chiacchierare.
L’atmosfera magica che si era creata al parco non c’è più. Da un lato sono sollevata, perché ero assolutamente terrorizzata, ma dall’altro sono un po’ delusa.
Usciti dalla stazione a Regent’s Park ci salutiamo e prendiamo strade diverse. Fischietto allegra mentre mi dirigo verso casa.





Angolino autrice

Ehilà, gente! Sono tornata!
Scusate per il capitolo mastodontico, ma ero ispirata. È un po’ lunghino, in effetti, ma io sono piuttosto soddisfatta. E scusate se non c’è l’extra, ma pensavo di dedicare il prossimo capitolo agli extra, perché ci sono molti personaggi che vorrebbero dire la loro in merito ad un’unica situazione, e se mettessi gli extra in un unico capitolo ne uscirebbe fuori qualcosa di gigantesco e supererebbe il capitolo stesso, ma la protagonista è Alex, perciò devo lasciarle il suo spazio, pertanto… siccome già questo capitolo di per sé è enorme, niente extra e il prossimo sarà un capitolo speciale dedicato solo agli extra. So che siete curiosi… ma state tranquilli. Tanto gli extra sono praticamente pronti, perciò non dovrete aspettare molto – una settimana massimo.
Si ringrazia vivamente Franco Battiato e la sua meravigliosa Era d’estate, perno ispiratore di mezzo capitolo.
E anche la bellissima Londra, che ho finalmente visitato. Ho lasciato un pezzo di me in quella città.
Si ringrazia Carlos Gavito e le sue sagge parole sul tango - anche la poesia è sua.
Note:
Lisbeth Salander* è la protagonista della trilogia Millennium, ovvero Uomini che odiano le donne, il libro che sta leggendo Ludvig. La suddetta Lisbeth è un hacker, se non si fosse capito.
Per capire meglio il passo che Ludvig ha fatto fare ad Alex, vi suggerisco vivamente di andare su Youtube e vedere il video al link qui sotto. Se andate al minuto 00:59/01:00, più o meno, c’è il famoso passo.
Qui c’è il video: https://www.youtube.com/watch?v=6lAKlYTQVKY
Per il resto, spero che il capitolo vi sia piaciuto e, come al solito, ringrazio di cuore chi recensisce, chi ha messo tra preferite, seguite e ricordate.
Senza di voi, la storia non sarebbe arrivata fin qui.
E chiudo con un piccolo sondaggio (per puro piacere personale): chi preferite tra Ludvig e Jake?
Voglio sapere chi è il più ambito dalle fan!
Ludvig: Ehi! Non sono un premio!
Jake: E io neanche!
Autrice: sì, sì, come volete.
Alla prossima!
-H





 

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Capitolo 13
*** Nella testa di un altro ***


Come già anticipato, questo capitolo contiene esclusivamente degli extra – entriamo nelle menti degli altri personaggi. Rivedremo Alex nel prossimo capitolo. Buona lettura!



13. Nella testa di un altro
                                                                                                                                                                               Sulla terra marcia può sbocciare un bel fiore?
                                                                                                                                               Il fungo su cui si è abbattuto il fulmine può crescere?

 

Ludvig – Diversa

La guardo un’ultima volta mentre si allontana verso casa sua, fischiettando un allegro motivetto. Mi viene da sorridere.
Ripenso a quando l’ho incontrata per la prima volta, quello strano giorno. Era il mio primissimo giorno a scuola, e ho incontrato lei.
Stavo ripensando alla mia amata Svezia, alla mia scuola e agli idioti che la frequentavano, senza badare bene a dove camminassi. Dovevo averla urtata senza accorgermene, tanto ero assorto nei miei pensieri.
Poi eravamo caduti, e lei stava imprecando. Quando mi ha visto ha sgranato gli occhi e ha cominciato a balbettare scuse mentre le sue guance si chiazzavano di rosso.
Era davvero carina, con quel mare di lentiggini sul naso e sulle guance e i capelli rosso fuoco. Poi quel giovedì siamo usciti – un po’ era perché mi sentivo in colpa, un po’ perché volevo conoscerla. Mi era sembrata diversa dalle altre ragazze che avevo conosciuto finora, e in effetti è così. È diversa.
È una persona spontanea, genuina, senza peli sulla lingua. Il fatto che sia così schietta mi piace. Sono stufo di persone che non dicono quello che pensano davvero.
È divertente senza sforzarsi di esserlo e senza scivolare nel ridicolo. È se stessa, e credo che non cambierebbe mai per fare un favore a qualcuno. E mi piace.
Sì, mi piace. Uscire con lei oggi è stata davvero una buona idea.
Non è un granché come ballerina, ma di certo non è importante. Lei va bene così – goffa e impacciata in alcune situazioni, bellissima e perfetta in altre. Come un cigno. A terra, impacciato e goffo, in acqua, bellissimo ed elegante. Ci sta. È lei il cigno.
A St James’s si era creata un’atmosfera magica. È lì che ho realizzato che mi piace. Era così bella, in quel momento, illuminata dai raggi della luna riflessi nel lago.
Avrei voluto baciarla.
Ma non l’ho fatto. E se non le piaccio? Se è uscita con me solo perché glielo avevo chiesto?
Oh, ti prego. Basta fare la ragazzina complessata, per favore. Sei un uomo o cosa?
Sbuffo.
Avrò diritto anche io a farmi i problemi mentali, o no?
E poi… e poi c’è quell’ O’Brian. Non ho ancora capito che ruolo abbia in tutto questo. Sento solo che mi odia, questo è chiaro, ma non ho capito perché. È per via di Alex?
Ma li ho visti, non fanno che battibeccare. Anzi, Alex sembra non sopportarlo proprio, mentre tutte le altre ragazze della scuola sembrano innamorate perse di lui. L’avevo detto che lei era diversa.
E se… se O’Brian fosse innamorato di lei? Potrebbe essere. Ma allora io come mi devo comportare?
Non ho intenzione di cedere, non per primo. Lui non ha più diritti su Alex di quanti ne abbia io. Anche se la conosce da più tempo, anche se la conosce meglio… non m’importa. Lei mi piace. Se piace anche a lui, be’… nessuno mi impedisce di provarci comunque. Neanche O’Brian.
Poi, se è lei che non mi vuole, allora la situazione è diversa – ha tutto il diritto di scegliere, e non ho alcuna intenzione di imporle la mia presenza. Spero solo di poter rimanere amici, nel caso in cui non mi voglia tra i piedi. Per ora, mi accontento di poter ballare con lei.


 

Jake – Until it’s gone

«Alex, mi dispiace. Non hai idea di quanto mi dispiaccia. Puoi perdonarmi? Per tutto quanto?»

Ho messo a nudo la mia anima, in quel momento. E lei non mi ha risposto.
Sono ancora qui da allora, con la testa fra le mani. Non so cosa fare. È evidente che lei non mi perdonerà mai. Ha detto chiaramente che non sente la mia mancanza, no? E quindi pensavo che lei… non che se ne fosse dimenticata, ma che almeno non le importasse più. Invece quella canzone, quella stupida canzone, mi ha dimostrato il contrario, ha distrutto in un attimo quel sottile, ma alquanto precario, equilibrio che si era creato tra noi. Io non badavo troppo a lei e lei non badava troppo a me. Ma poi con questa storia del ballo l’equilibrio ha cominciato a vacillare. Stiamo troppo a contatto, troppe cose stanno tornando a galla, sentimenti sopiti, anche. Era la mia migliore amica. Vorrei che tornasse a esserlo, ma ormai è troppo tardi, e troppo tardi mi sono reso conto di quanto significasse per me.
Forse, chissà, se fosse andata avanti la nostra amicizia sarebbe potuta diventare qualcos’altro, come prima o poi succede a quasi tutte le amicizie tra un ragazzo e una ragazza. È uno stupido cliché, ma i cliché esistono perché si avverano, no?
Non riesco a togliermi dalla testa questo pensiero.
L’ho persa.
Ormai è così. L’ho persa, ho perso la sua fiducia, la sua amicizia, la sua stima. E mi odia.
Com’è che fa il nuovo singolo dei Linkin Park? Ah, sì. You don’t know what you’ve got until it’s gone.
Quanto sono vere quelle parole. Non ho saputo cosa avessi finché non l’ho persa per sempre.
Ma non posso proprio rimediare? Io vorrei rimediare, davvero. Ma se lei non me ne dà la possibilità, come posso fare?
E poi c’è quello svedese del cavolo che sta sempre in mezzo. So anche che oggi si sarebbero visti.
La mia anima ribolle di rabbia. Neanche la conosce! E se la conosce, non la conosce bene quanto la conosco io. E anche lei… razza di stupida!
E se fosse un farabutto?
Il pensiero mi gela all’istante il sangue nelle vene. Se fosse in pericolo… non voglio neanche pensarci. Ricordo ancora quando l’ho trovata in un vicolo, sola, contro tutti quegli uomini che si prendevano gioco di lei e non osavo immaginare cosa le avrebbero fatto se non fossi intervenuto. Eppure lei continuava strenuamente a difendersi, Alex è un leone, non si fa sconfiggere facilmente, è una delle qualità che più apprezzo di lei.
Appena l’ho vista a terra, non ci ho visto più. Vederla tremare di paura mi ha spezzato qualcosa dentro. Non voglio vedere quell’espressione sul suo viso, mai più.
E se per colpa di quello dovesse succederle qualcosa…
Di nuovo rabbia. Se l’uomo potesse emettere fumo tutto le volte che è arrabbiato, in questo momento sembrerei una ciminiera.
Calma e sangue freddo. Certo, come se fosse facile stare calmi in un situazione del genere. Sta’ a vedere che l’unica volta che non la seguo quando esce le succede qualcosa di brutto.
Comincio a passeggiare su e giù per la mia stanza, lanciando occhiate assassine da tutte le parti.
Se in quel momento ci fosse stato Ohlsson, se la sarebbe passata parecchio male.
Alex sa difendersi. Non ha bisogno del tuo aiuto, cantilena una voce fastidiosa nella mia testa.
Saprà anche difendersi, ma è pur sempre una ragazza.
Basta, non ce la faccio più. Io esco a cercarla. Se vedo che sta bene, torno a casa. Se non è così…
Lei è la mia Alex. E non deve succederle niente di male.

Mi infilo la giacca ed apro la porta.
Dall’altra parte del pianerottolo, Alex, sana e salva, mi guarda con aria interrogativa.
«Cosa stai facendo?».


 
 

Momo – Trying not to love you

Io e Sean camminiamo affiancati, senza parlare. Vorrei uccidere Alex. Mi aveva detto che ci sarebbe stata anche lei e invece non c’è. Mi chiamato poco dopo che ero uscita dicendo che lei aveva da fare. Certo.
Ma Sean voleva parlare con lei, lo so bene. Aveva deciso di dirglielo, finalmente. Dopo tre anni che la guarda da lontano, ha infine deciso di dichiararsi.
Non so cosa pensare. Stavo forse sperando che cambiasse idea? Ma no, questo era impossibile. Sean neanche mi vede, per lui esiste solo Alex.
«Andiamo a Leicester?» mi chiede all’improvviso. Trasalisco, colta di sorpresa. Temo che mi si legga in faccia a cosa stavo pensando.
«Certo. Come vuoi». Ingoio le lacrime che già minacciano di affiorare, guardando il suo viso triste. Cerco di mantenere un’espressione distaccata e impassibile.
Dura fino al bordo della panchina di Leicester Square dove ci mettiamo seduti a chiacchierare.
«Proprio non lo sai cosa aveva da fare?» mi chiede per l’ennesima volta.
Scuoto la testa e lui fa un verso a metà tra uno sbuffo e un sospiro.
«Pensavo che fosse arrivata l’occasione giusta… Ero sicuro…». Quelle parole mi trafiggono come piccoli coltelli, ma reprimo il singhiozzo che preme per uscire dalla mia gola. Ormai mi risulta facile.
Rimaniamo in silenzio per un po’.
«Momo…» sento la sua voce triste, preoccupata. «C’è qualcosa che non va?». Il suo sguardo è pieno di apprensione. Sono un libro aperto, l’ho sempre saputo.
«Sean» lo interrompo «tu lo sai come ci si sente. Se ti piace una persona, secondo te bisogna dirglielo?» dico, titubante.
Lui alza un sopracciglio.
«Secondo te? È quello che avrei voluto fare oggi. È ovvio che bisogna dire ciò che si prova. Ma perché mi fai queste domande?».
«Perché è ovvio, secondo te?» chiedo ancora, ignorando la sua domanda.
«Perché tenersi tutto dentro fa solo male. E non risolve niente. Hai presente la canzone dei Nickelback?»
Scuoto la testa. È un gruppo che non conosco molto bene.
«Fa così:
‘Cause trying not to love you, only goes so far
Trying not to need you, is tearing me apart
Can’t see the silver lining, from down here on the floor
And I just keep on trying, but I don’t know what for
‘Cause trying not to love you
Only makes me love you more
».
La sua voce melodiosa mi avvolge e mi trascina con sé. Le parole della canzone mi entrano in testa e rimangono lì, mi spronano a farmi avanti. Se quelle parole sono vere, io continuerò a soffrire. E io sono stanca, stanca di tutto questo.
«Quindi devo dirglielo, giusto?».
«Esatto. Non devi tenerti tutto dentro, Momo» conclude lui, sorridendomi.
Valuto brevemente se devo lasciar cadere l’argomento o cogliere l’occasione, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. Prendo il coraggio a due mani, ora sono in ballo e devo ballare.
«Okay». Faccio una pausa. «Mi piaci, Sean» dico d’un fiato, trattenendo il respiro. L’ho detto davvero.
Si volta di scatto verso di me, gli occhi spalancati dalla sorpresa.
Divento rossa per l’imbarazzo e distolgo lo sguardo, alzandomi dalla panchina.
Sta per dire qualcosa, ma lo blocco con un gesto della mano.
«Aspetta, aspetta. Non dire niente. Ti chiedo solo… per una volta, anziché guardarmi come un’amica, una confidente, puoi provare a guardarmi come una ragazza?». La voce mi si spezza e mi sfugge una lacrima.
Non aspetto che mi risponda, o peggio, che mi respinga. Vado via prima che possa farlo.


«Momo, aspetta…!».
 
 



Sean – Zenzero e cannella

«Momo, aspetta!» grido, correndole dietro, mentre lei si affretta verso la fermata della metro di Leicester.
Non mi aspettavo una cosa del genere – proprio non ci avevo mai pensato. Eppure, qualche angolino recondito della mia mente lo sospettava, o quantomeno ci stava… cosa, sperando? Ma non è possibile.
Il fatto è che a me piace Alex.
Ne sei sicuro, Sean?
Quella voce si insinua nella mia testa, scardinando le mie convinzioni e facendo nascere un dubbio. Davvero mi piace Alex?
Certo che mi piace lei. Mi piacciono i suoi capelli rossi e ardenti come fuoco, le lentiggini sul naso, la sua risata.
Però… Momo…
Le corro ancora dietro, e riesco ad afferrarle una mano proprio mentre sta per scendere le scale della metro.
«Aspetta…» la imploro, ma lei scuote la testa, le guance rigate di lacrime.
«Lasciami andare, ti prego. Scusami» sussurra, cercando di liberarsi, ma io la trattengo, attirandola a me e abbracciandola forte. Momo comincia a singhiozzare, rannicchiata contro il mio petto.
Rimane così per un po’, tremante di freddo e scossa dai singhiozzi, finché con un filo di voce sussurra qualcosa.
«Non avrei voluto dirtelo così, Sean, mi dispiace. È solo che… quella canzone… io non sapevo cosa fare…» e riprende a singhiozzare.
«Ssh. È tutto a posto» le accarezzo goffamente la testa. Non so di preciso come debba comportarmi, ma sono abbastanza consapevole che niente sarà più come prima.
Dopo un po’ prova a liberarsi dalla mia stretta, ma non la lascio andare. Se possibile, l’avvicino ancora di più a me, sebbene non capisca esattamente il perché. Forse è solo il suo profumo, inebriante e irresistibile, che mi attrae inconsapevolmente, quell’aroma delicato e al tempo stesso intenso di zenzero e cannella…
Spalanco gli occhi e il mio cuore salta un battito. Zenzero e cannella?
È da mesi ormai che faccio sempre lo stesso sogno, ogni notte. Sto correndo, e davanti a me c’è una ragazza – è indistinta, non la vedo bene, come se fosse offuscata da qualcosa, mi limito a inseguirla, spinto dal puro e semplice desiderio che sia mia.
Ma non riesco a guardarla o a parlarle, l’unica cosa che percepisco di lei è la sua risata – squillante, argentina, meravigliosa – e il suo profumo di zenzero e cannella, come una scia che mi guida verso di lei.
Ho sempre pensato che si trattasse di Alex, quell’inebriante profumo non poteva che essere il suo.
E invece, per tutto questo tempo, si trattava di Momo. Momo, alla quale ho confidato tutto, che mi ha incoraggiato quando perdevo le speranze… è Momo che vedo nei miei sogni, quel profumo di zenzero e cannella non lascia spazio a dubbi.
Cioè, prima ero sicuramente innamorato di Alex – su questo non ci piove. Ma poi, inconsapevolmente, Momo ha cominciato a piacermi, e adesso tutto ciò che provavo per Alex lo provo per Momo. E non me ne sono mai accorto.
Fino ad ora.
Ma lei non lo sa, adesso io so di chi ho davvero bisogno – non di Alex, che resterà sempre una grande amica, ma di lei. E vederla piangere tra le mie braccia – per colpa mia, soprattutto – mi sta spezzando il cuore.
Adesso ho capito. E sono stanco di aspettare, perché ho finalmente raggiunto l’ombra dei miei sogni e non la lascerò fuggire di nuovo. Così, tremante, avvicino il mio viso al suo e la bacio.
E in questo momento non esiste più niente – non c’è la strada, non c’è Leicester, non c’è la gente, non c’è neppure la neve, che ha ricominciato a cadere fitta. Ci siamo solo noi due, le mie dita tra i suoi capelli, le sue labbra salate di lacrime contro le mie, il suo respiro un po’ affannato, e quel profumo che mi avvolge, delizioso e irresistibile, esattamente come lei.
 
 



Momo – Sogno

«Non capisco» sussurro quando, dopo un bel po’, ci separiamo.
«Cosa?» mi chiede dolcemente, scostandomi una ciocca di capelli, incatenando il suo sguardo al mio.
«Io… Io pensavo che tu… Alex…»
«Lo pensavo anch’io. Ma mi sono reso conto di essermi sbagliato». Sean mi sorride e mi bacia di nuovo, e il mio cuore fa un salto, cominciando a battere all’impazzata.
Mi sembra di essere in un sogno, e per questo ho paura di risvegliarmi, perché la delusione sarebbe troppo amara. Scaccio con forza quei pensieri dalla mia testa, in questo momento contiamo solo noi due, labbra contro labbra, le sue mani sulla mia vita che mi tengono stretta, come se non volesse lasciarmi più andare via.
E cavolo, bacia da Dio.
 

 
 




Angolino autrice
Rieccomi qua! Una settimana, come promesso. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Finalmente, dopo scarabocchi e cancellature, quei ragazzacci mi hanno permesso di entrare nelle loro alquanto tormentate testoline. Che dire, spero che sia stato interessante. Scusate se è un po’ corto.
Non so quando arriverà il prossimo capitolo, ma non perdete la speranza! Mi farò viva… prima o poi.
Infine, ringrazio tantissimo tutti coloro che recensiscono/ricordano/seguono/preferiscono, siete voi a mandarmi avanti. E siete davvero tantissimi/e, grazie di cuore!
Alla prossima!
-H

P.S: si ringraziano i Linkin Park e il loro nuovo singolo che mi piace tantissimo. E i Nickelback e la splendida Trying not to love you, che avrò ascoltato almeno una decina di volte negli ultimi tempi.
P.P.S: ho intenzione di fare un piccolo spin-off di questa storia, ma per ora è solo un’idea. Però… se vi interessa… ogni tanto date un’occhiata al mio profilo.

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Capitolo 14
*** Camden Town ***


14. Camden Town
                                                                                                                                                   
                                                                                                                                                                                                              Per quanto un miele sia buono,
                                                                                                                                                                                               prima o poi ci si stufa.

 


Non penso di essere mai stata più felice in vita mia, lo riconosco. È stata la serata migliore che avessi mai potuto trascorrere, e la cosa migliore è che Jake è stato per tutto il tempo fuori dalla mia testa.
Ma a volte può accadere l’imprevedibile, basta un ronzio qualsiasi per ripensare all’ape che si era dimenticata.
E il mio ronzio, in questo caso, è ritrovarmi il suddetto ragazzo davanti alla porta di casa, vestito di tutto punto e con un’espressione davvero poco amichevole.
«Cosa stai facendo?» gli chiedo, con aria interrogativa.
Anche contro la mia volontà, ad essere sincera. Dopo quel che è successo questo pomeriggio, vorrei non aver mai più a che fare con Jake, mai più.
L’espressione minacciosa di poco prima si trasforma in qualcosa di molto più imbarazzato e confuso.
«Ehm… io…» balbetta.
Da quando Jake balbetta? Il Jake che conosco io è troppo sicuro di sé per balbettare.
«Stavo andando a buttare la spazzatura» dice, ma in una maniera che mi fa pensare ad una bugia.
Lo guardo.
«Quale spazzatura? Non vedo sacchetti».
La confusione sul suo viso si fa palese. La spazzatura non c’entra niente, a quanto pare.
Ma perché mi interessa?
Infatti. Entra dentro casa e lascia questo allocco qui fuori. Smettila di dargli altre possibilità di ferirti, porca miseria!
«In ogni caso, non sono affari tuoi» borbotta alla fine. Mi guarda in cagnesco.
«E com’è andata con lo svedese, Ohlsson o come cavolo si chiama?».
Arrossisco di imbarazzo e di rabbia. E lui che ne sa, che sono uscita con Ludvig?
«Mi pare che questi non siano affari tuoi, Jake» sibilo.
«Forse hai ragione, sai? Ma mi pare davvero un evento fuori dal comune che tu sia riuscita ad uscire con qualcuno». Le sue parole sono di scherno, ma nei suoi occhi non ce n’è traccia. Ma che cavolo gli passa per la testa?
La mia faccia si accende come un semaforo. Sono davvero stufa e arcistufa di sentire le sue prese in giro. In effetti è colpa mia, che gliene ho dato l’occasione.
Prendo che chiavi dalla borsa e provo a entrare in tutta fretta dentro casa mia. Non voglio più sentirlo parlare, questo cretino patentato!
Mi blocco solo al suono della sua voce, quando pronuncia il mio nome.
«Alex…». Lo dice come se mi stesse implorando. Come ha fatto oggi pomeriggio, da dietro la porta. Mi volto verso di lui.
Voglio solo che mi lasci in pace, perché non capisci?
«Mi dispiace. Sono un cretino. Ma io…».
Nei suoi occhi c’è davvero una supplica. C’è dolore. Tuttavia, non lo faccio finire di parlare, perché mi fiondo dentro casa e gli sbatto la porta in faccia.
Se avessi finito di ascoltarlo, probabilmente lo avrei perdonato. E sarebbe stato un altro, madornale errore.
Non può comportarsi così. Prima mi offende e poi mi guarda in quel modo. Sono sicura che lo fa apposta, per farmi sentire in colpa.
Dentro casa c’è un silenzio irreale, probabilmente i miei sono a letto da un po’: infatti è quasi mezzanotte.
Raggiungo la mia camera cercando di fare meno rumore possibile, mi cambio e mi butto sul letto, chiudendo gli occhi. Ma per quanto sia stanca, non riesco a dormire, i miei pensieri non me lo permettono.
La voce implorante di Jake non me lo permette.
C’è una parte di me che vorrebbe dimenticare tutto e ricominciare daccapo, con lui. Ma c’è un’altra parte che scuote la testa inorridita. È impensabile una cosa del genere. O no?
Non è il momento di pensarci. Dormi.
Forse dovrei smettere di fare sempre il bastian contrario. Che male ci sarebbe?
Poi ci pensi. Adesso dormi.
Tornare indietro…  a quando l’amicizia non scendeva a compromessi…
Dormi!
 

Svegliarsi dopo una notte insonne è come essere rimasti svegli per tutta la notte, e proprio per questo mi sveglio molto prima del solito.
Quando entro in cucina, i miei mi osservano incuriositi.
«Già in piedi?».
Mugugno una risposta qualsiasi.
«Com’è andata ieri?».
Sento un vago rossore invadermi le guance.
«Cosa?»
«Le ripetizioni. Di fisica. Te ne sei già dimenticata?».
«Oh. Ah, sì, benissimo. Ho capito perché ho sbagliato nel compito». Non è del tutto una bugia. In fin dei conti mi ha aiutato, sebbene anche questo mi procuri un ricordo spiacevole.
«E poi dove sei andata? Non ti abbiamo sentita rientrare».
«Ehm… sono uscita con Sean e Momo, non te l’avevo detto?».
«Perché sei rientrata così tardi?»
«Perché… mi sono fermata a chiacchierare e ho perso la cognizione del tempo».
La mamma mi squadra di sottecchi. Spero che abbia finito l’interrogatorio.
Dalla mia camera, sento il mio telefono squillare. La suoneria è quella dei messaggi.
Cerco di sbrigarmi a finire la colazione – un po’ per controllare il telefono, un po’ per eludere altre domande.
«Ottime le uova di stamattina, mamma» dico ancora con la bocca piena, alzandomi e correndo verso la mia stanza.
Il cellulare segna due messaggi, il primo è di Momo.
Alex! Grandi novità. Anche se tu non me la racconti giusta. Chiamami appena puoi, oppure vieni da me. Please!
Sorrido. Spero che il mio piano abbia funzionato.
L’altro messaggio è di Ludvig.
Ciao, Alex. Come va? Stavo pensando ad una cosa… se da lunedì rimaniamo un po’ di più in palestra e ci esercitiamo? Solo se lo vuoi, naturalmente. E mi devi un segreto.
A leggere quel messaggio mi sento stranamente emozionata, e sorrido come una scema.
Mi arrovello alla ricerca di qualcosa da rispondere.
Mi fa piacere che mi aiuti, L. Ma non basta a farmi rivelare i miei segreti.
Premo “invia” con il sorriso sulle labbra, sentendomi sempre più scema ogni minuto che passa. È vero, mi sto comportando da civetta, ma avrò diritto anch’io a divertirmi ogni tanto, no?
Ludvig mi risponde dopo poco.
Questo non vale, A. Giochi sporco. Credo che tu sia l’unica persona sulla faccia della terra ad aver visto quella fototessera.
Rido.
Colpa tua che me l’hai mostrata. E poi sei un bugiardo. Almeno i tuoi genitori l’avranno vista, no?
Aspetta la sua risposta, che arriva dopo qualche minuto.
Non sono bravo ad eludere le domande. E per la cronaca, per “persona” intendo ragazza.
Arrossisco.
Dovrei considerarlo un privilegio, L.?
Non mi risponde. E poi dice che non è bravo ad eludere le domande!
Sto già per disperare quando sento il bip dei messaggi.
Oh, certo che lo è. Ma anche io voglio avere il privilegio di conoscere un tuo segreto.
Rido, ma dopo un po’ il sorriso mi sparisce dalla faccia. Ho già giocato a questo gioco. Con una persona che vorrei dimenticare, per la precisione.
Aspetta e spera. Ma chi lo sa, magari riesci a farmi cambiare idea…
Stai pur certa che ci proverò.

Okay. Queste parole mi mandano ufficialmente fuori di testa.
Non gli rispondo, perché non saprei proprio cosa dire. Al contrario, cerco di rispondere anche alla povera Momo.
Sono curiosa! Devi dirmi tutto.
La sua risposta arriva poco dopo.
Non per telefono. Forse domani a scuola, oggi ho un impegno… e comunque non me la racconti giusta, signorina! Dove sei stata ieri?
Mi mordo il labbro, indecisa se rispondere o meno.
Segreto per segreto, Momo. Domani a scuola.
D’accordo. Ma sappi che se non ti presenti ti vengo a prendere io.
Fidati, sono troppo curiosa per non presentarmi.

Inviato l’ultimo messaggio, mi alzo controvoglia dal letto e vado a farmi una doccia. Oggi, per fortuna, niente visite di cugine rompiscatole.
La giornata passa velocemente, ma a pomeriggio sono comunque annoiata. Momo non c’è, Sean non so proprio dove sia… cosa posso fare?
Dopo un po’ mi decido e vado a fare una passeggiata. Esco di casa di soppiatto e mi dirigo lentamente verso Regent’s Park.
Una folla di ricordi si fa strada nella mia mente mentre passeggio nel parco. I ricordi di due dei giorni più belli della mia vita. In uno c’è zia Sophie che mi tiene sulle sue spalle mentre corre. Nell’altro… nell’altro, come quasi tutti i miei migliori ricordi estivi, c’è Jake.
Scaccio dalla mente quelle immagini. Non sono venuta qui a deprimermi rivangando i vecchi tempi. Volevo solo prendere un po’ d’aria.
Mi addentro nel parco, e riconosco la quercia che mi sta davanti – non so perché, ma la riconosco, la rivedo come se fosse stato ieri che mi sono sdraiata sull’erba lì vicino. Come se fosse stata marchiata a fuoco.
Vorrei tanto fare come in quel giorno d’estate. Ma davanti a me c’è solo un tappeto di bianca, fredda neve.
Rimango lì vicino alla quercia, perdendomi nei ricordi. Il mio respiro crea nuvolette bianche nell’aria gelida.
Soltanto quando sento dei passi mi risveglio, e con meraviglia vedo Jake camminare distrattamente verso la stessa quercia, con negli occhi la stessa malinconia che sento nei miei.
Cerco di andarmene senza essere vista, ma purtroppo fallisco.
Jake si arresta di botto.
«Alex…».
Sento gli occhi lucidi. Voglio andare via.
Cerco di ignorarlo e provo ad allontanarmi, ma lui è più veloce di me e mi prende per un braccio.
«Ti prego… aspetta. Ti prego».
Mi costringe a girarmi e io faccio di tutto per non guardarlo, perché già è abbastanza faticoso ricacciare indietro le lacrime.
«Alex, ti prego. Mi dispiace. Mi dispiace. Lo so che detto adesso non conta niente per te, ma voglio solo che tu lo sappia, okay? Mi dispiace. E continuerò a dirlo anche per tutto il resto della mia vita, se vuoi».
«È troppo tardi, Jake. Non basta un “mi dispiace”, per la miseria, non basta!» sbotto, perdendo il controllo. «Voglio solo che mi lasci in pace, va bene? Per favore». Sento le lacrime bagnarmi le guance gelate, e la vista mi si offusca.
Jake ha lasciato la presa sul mio braccio, con un’espressione confusa e arrabbiata e ferita e dispiaciuta insieme.
Mi giro e me ne vado, ma stavolta lui non mi ferma.


Il resto della giornata passa in uno stato di apatia. Anche la mattina dopo.
Non sento niente. Non provo niente. Non sono niente.
Mi risveglio solo quando Momo si decide a raccontarmi cos’è successo sabato, a ricreazione.
«Ecco, vedi, siamo usciti, e tu non c’eri, e Sean era un sacco triste perché tu gli piaci da un sacco di tempo e voleva dichiararsi, e…»
«Aspetta, che?» la interrompo, sgranando gli occhi. Io sarei quella che piace a Sean?
Momo mi guarda senza capire, ma poi fa una faccia esasperata.
«Oh, ti prego, non dirmi che non te ne eri neanche accorta! Anche Susan ci aveva fatto caso. Susan! Tua madre!» dice.
«Be’, ehm, mi dispiace… ma non ci fatto caso, mai…» dico, confusa. Povero Sean!
«Scuse accettate. Insomma, ti dicevo, Sean era triste perché tu non c’eri, e io non riuscivo a tirarlo su, e mi stava venendo da piangere perché invece a ma Sean piace da una vita, ma lui non mi vedeva neanche, per lui c’eri solo tu, e io ci sono stata male per un sacco di tempo…»
«Come, ti piaceva Sean? Era per questo che stavi così male?»
«Sì, e io mi sentivo una persona orribile perché a lui piacevi tu e a me piaceva lui, e insomma ho cominciato a sperare che gli spezzassi il cuore, e se ci ripenso mi chiedo come possa essere stata così cattiva…» gli occhi le si riempiono di lacrime.
«Oh, no, non piangere! Guarda che non sei stata una persona orribile. Sei solo innamorata, Momo! È ovvio che volevi che Sean prestasse più attenzione a te che a me» dico, comprensiva, e la abbraccio.
«Va bene. Grazie per aver capito. Però smettila di interrompermi!»
«Okay, va’ avanti!»
«Insomma, io ero triste e lui se n’è accorto e mi ha cantato una canzone e quindi mi sono detta o la va o la spacca e gli ho detto quello che provavo, però volevo andarmene perché ero sicura che mi avrebbe respinta, ma lui mi ha bloccata e mi ha abbracciata e io piangevo e poi mi ha baciata» dice tutto d’un fiato.
«Non ci credo!»
«Neanche io ci stavo credendo, ma poi mi ha detto una cosa carinissima – e qui Momo arrossisce – e mi ha baciata di nuovo». Abbassa lo sguardo, gli occhi luccicanti di felicità e le guance rosse. La guardo con tenerezza. Sì, ce la vedo bene, con Sean.
«E com’è stato?» non posso fare a meno di chiedere, curiosa e, lo ammetto, un po’ invidiosa.
«È stato… be’, sai… un bacio».
Non mi è molto d’aiuto. Che ne so io di com’è un bacio?
«Quindi?»
«Ehm… di più non saprei dirti!»
«Ma almeno bacia bene?»
«Altroché!» esclama Momo, e torniamo in classe ridendo.
«E adesso?»
«”E adesso” cosa?»
«Be’, sai… uscite insieme, o cosa?».
Momo fa una faccia da palloncino bucato.
«Il punto è che non lo so. Non so cosa siamo. Un bacio non fa di me la sua ragazza. Ma certo non posso chiederglielo».
«Eh no! Devi assolutamente chiarire, oppure ci parlo io!»
«Va bene, ci parlerò. Ci devo parlare».
Prendiamo le nostre cose per la lezione, ma ovviamente non ascoltiamo una singola parola.
«Adesso tocca a te, signorina. Non credere che mi sia dimenticata che mi hai dato buca, per quanto gli effetti possano essere stati benefici. Dove sei stata?»
«A casa» rispondo debolmente.
Momo emette un verso a metà tra uno sbuffo e una risata, che diventa un colpo di tosse quando il prof ci guarda.
«Tu! A casa! Il sabato sera! Non ci credo neanche se lo vedo. E comunque Dave mi ha detto che non eri rientrata».
«Hai chiamato a casa mia?»
«Sì. Ieri. Ma mi hanno detto che non c’eri».
Ah. Probabilmente ha chiamato mentre ero al parco. Nuova malinconia si impossessa di me.
«Insomma, racconta! Dov’eri?» chiede.
Con voce tremante le confesso che quel pomeriggio avevo ripetizioni di ballo con Ludvig. Tralascio il mio pomeriggio con Jake, o il fatto che sono praticamente scappata da casa sua – non so perché, ma voglio tenerli per me. Le racconto del tango, della cena, del parco, ma ovviamente non rivelo niente di quanto mi ha detto Ludvig. Anzi, comincio a rimproverarla per aver cospirato contro di me.
«Tu sei una cospiratrice! Almeno potevi dirmelo che gli avevi dato il mio numero, no?».
Momo fa una faccia furbetta.
«Te l’avrei detto, ma tu non l’hai mai chiesto. E poi è stato così gentile, ed è davvero bellissimo…»
«Guarda che lo dico a Sean…» ridacchio.
Momo mi guarda offesa, ma non sul serio.
«Ma che c’entra! Dico che L. è bello perché è bello, oggettivamente parlando. E in corridoio è stato così gentile e mi ha sorriso e non ho potuto dirgli di no. In fondo un po’ vi conoscevate, no? Ero abbastanza sicura di non star dando il tuo numero ad un maniaco serial killer. Puoi fidarti del mio giudizio. E poi mi è parso così… interessato a te. Insomma, sappi che io approvo completamente, nel caso in cui...»
«No, tranquilla, dubito che possa accadere una cosa del genere» la interrompo frettolosamente, ricordando in un lampo l’atmosfera che si era creata al laghetto, e il modo in cui lui mi guardava con i suoi occhi di un blu impossibile.
«Dicevo così, tanto per… e poi sareste carini insieme»
«Ma smettila!» la rimprovero.
Il prof Richardson ci guarda con un’espressione da se-non-la-smettete-vi-mando-giù-dal-preside, e finalmente ci azzittiamo.
Momo riprende la parola solo a lezione finita.
«Parliamo di cose serie, ora. Che ti metti alla festa di Amber?».
Cavolo.


 
Quel pomeriggio passa in fretta. Io e Ludvig facciamo vedere alla Costance quel passo che mi ha insegnato sabato e lei ne rimane talmente contenta che obbliga Jake ad impararlo.
Non so perché, ma con Jake è più faticoso. E imbarazzante. E mi mette a disagio, perché non ci parliamo e neanche mi saluta e questo mi fa male.
Lo hai voluto tu, cretina.
Vero. Però… mi dispiace. Non avrei voluto che finisse così. Quasi mi mancano le sue prese in giro.


A fine lezione, la Costance ci fa sedere sul pavimento della palestra e accende lo stereo.
«Ho pensato alla gara. La musica degli altri pezzi è quella scelta dalla giuria, perché saranno tutte le coppie in pista, ma il tango è singolo e ha una sua valutazione. Quindi possiamo scegliere noi la nostra musica. E io ho pensato a questa, che amo molto». Quasi si commuove premendo on.
Basta poco per riconoscere la canzone.
Quel violino che stilla dolore da ogni nota, intenso e drammatico, il pianoforte che lo segue, e poi le voci. Dio, quanto amo quelle voci, le voci maschili del Tango de Roxanne.
C’è quel pezzo che mi fa sempre impressione. Quello che racconta il problema in due parole.
His eyes upon your face
His hand upon your hand
His lips caress your skin
It’s more than I can stand!
Why does my heart cry?
Feelings I can’t fight…
You are free to leave me
but just don’t deceive me
And please, believe me
when I say I love you…

Mi viene la pelle d’oca. C’è così tanta passione, c’è così tanto amore, c’è così tanta tristezza. Christian che ama Satine, Satine che ama Christian ma il Duca vuole impedirglielo. E la fine…
Quante volte l’avrò visto Moulin Rouge!, una decina? Non mi stanco mai. È troppo bello.
La canzone finisce prima che me ne renda conto. No, non è finita, è solo il pezzo dove il violino sembra trasmettere tutta la suspense, tutto il dilemma della ballerina. È meraviglioso.
Sono contenta che la Costance abbia pensato a questa canzone, ma io non potrei mai ballarla, la rovinerei.
«Che ve ne pare? Avete visto Moulin Rouge!, sì?» chiede subito la Costance, non appena la canzone finisce.
Io annuisco energicamente, Ludvig fa solo un cenno con il capo e Jake fa una faccia interrogativa.
«Non dirmi che non l’hai mai visto?» chiede la prof, allibita.
«No. Non mi piacciono i film d’amore». Non ha peli sulla lingua, il ragazzo!
La prof assume un’espressione minacciosa.
«Vedilo. È il tuo compito per casa».
«Non dobbiamo mica riprodurre il tango del film, vero?» chiedo, terrorizzata.
«Ma no, certo che no» si affretta a rispondere.
«E allora perché devo vederlo?» protesta ancora il cretino patentato.
«Perché ti servirà a capire la musica. Come pensi di ballare, se non fai tue quelle parole?».
«Mi creda, prof, sono già più mie di quanto immagina» replica, amaro.
Che vuol dire?
Lascio che la mia occhiata interrogativa vada su di lui, ma non incrocia mai il mio sguardo.
Non capisco.
Cerco di scaldare l’atmosfera ghiacciata causata da quelle parole, perché neanche la Costance sa cosa replicare.
«Perché ha scelto questa canzone?»
«Perché trovo che quel film sia davvero bello, e perché siccome siete tre ballerini mi pareva un’idea carina associare la canzone al ballo… anche perché le voci maschili sono due» dice. In effetti, non fa una piega.
«E poi, dovrai ballare con entrambi, Watson. Mi pare di avertelo detto. Ideerò una coreografia dove sia messo in evidenza l’amore dei due ballerini per la ballerina, come Christian e il Duca amano Satine. L’indecisione di lei e, ovviamente, i due litiganti. Oh, sarà fantastica» le luccicano gli occhi, mentre si avvicina alla porta per andarsene.
Amore? Ma quale amore e amore! Nessuno dei due mi “ama”. Spero solo che siano bravi attori.
Be’, Jake lo è di certo.
Raggiungo la prof sulla soglia.
«A me pare un’idea un po’ azzardata…» provo a protestare, ma lei mi zittisce.
«Certo che no. Perché la pensi così?»
«Be’, ecco… io non mi sento né Satine né tanto meno Nicole Kidman»
«E con ciò?»
«E con ciò a malapena so ballare, se mi mette in imbarazzo…»
«Non devi provare imbarazzo. Hai due splendidi uomini che litigano per te. Devi sentirti come Satine»
«Ma io non mi sento Satine. Mi sento solo… io. A disagio. E imbarazzata».
«Non dovresti. Puoi provarci? Per lo spettacolo? Per Imogen e Robert?». Non aspetta la mia risposta, perché se ne va.
Gioca sporco. Ricordarmi il fatto che sono qui perché ho fatto precipitare dalle scale i ballerini designati non mi aiuta di certo a scaricare la tensione.


Come ho promesso a Ludvig, rimango un altro po’ con lui e ci esercitiamo. Riprendiamo anche gli altri balli, sebbene mi mettano in imbarazzo, ma purtroppo devo ripassarli. Per forza.
Però è divertente ballare con lui. Forse perché non ha quello sguardo di ghiaccio apatico, chi lo sa.
Torno a casa, quella sera, felice e rilassata. Non siamo usciti – devo correre o mia madre mi ucciderà – però va bene lo stesso. È bello stare con lui.
Tento di fare un po’ di compiti, ma quasi mi addormento sul libro. Ho bisogno di dormire, cavolo.
Verso le undici mi arriva un messaggio da Momo.
Scusa l’ora. Urge shopping per la festa, perché non ho proprio niente da mettermi. Camden venerdì?
Ci penso un attimo. Sì, se avverto la Costance potrebbe anche darmi il pomeriggio libero.
Andata.
Premo invia.
Sono troppo stanca per lavorare ancora, quindi mi butto sul letto e sprofondo in un sonno senza sogni.


 
La settimana passa in fretta. Sono un po’ preoccupata per Jake, se devo essere sincera, perché… boh, è strano. Sembra come se stia rimuginando su un tarlo che lo rode da dentro, e non sorride. I suoi occhi sono più grigi e tristi che mai.
La Costance mi ha dato l’okay per venerdì, a patto che resti a esercitarmi con Ludvig gli altri giorni. E che nel weekend veda Jake per ballare anche un po’ con lui.
«È fuori discussione», ho protestato, ma niente.
«Anche lui deve allenarsi». E l’argomento è stato chiuso lì, perciò domenica devo trascinare Jake in palestra ad esercitarsi con me.


Oggi è giovedì, l’ultima sessione con Ludvig per questa settimana. Ieri mi ha fatto fare qualche passo con la benda che abbiamo usato tempo fa per gli esercizi di fiducia. Dice che mi aiuta a concentrarmi solo sui passi e sulla musica, senza lasciarmi distrarre dall’ambiente esterno. Quando mi ha detto così sono arrossita. Non è colpa mia se lui ha quegli occhioni blu. Dovrebbe essere illegale quel colore.
Ballare con la benda è, per certi versi, più semplice. E anche più divertente, ma credo che sia perché ormai mi fido ciecamente di lui. Sono sicura che non mi farebbe mai cadere.
Ha provato a farmi sputare qualche segreto, ma io sono una roccia. Non mi lascio incantare da quello sguardo… o almeno ci provo.



Venerdì.
I colori di Camden Town mi abbagliano. Le facciate rosse, verdi e gialle degli edifici sulla strada principale sono così vividi da far male agli occhi.
«Da dove iniziamo?» comincia a chiedere Momo, sbirciando in tutti i negozietti. Adora questo posto, e sono perfettamente della stessa opinione.
Nella rigida, precisa Londra, Camden è una boccata d’aria fresca. La periferia-non-periferia, la chiama mia madre.
Ci inoltriamo nel vecchio ospedale dei cavalli, che adesso è un mercatino che vende di tutto – dalla cucina indiana ai vestiti gotici, dal kebab ai libri usati. C’è di tutto.
Mangiamo qualcosa ad una bancarella e poi ci avventuriamo nelle boutique, senza fermarci a guardare se ci sono vestiti gotici o vintage.
«Oooh! Guarda!» Momo si dirige di corsa verso un corto abitino nero che di certo può stare bene solo a lei.
«Non sentirai freddo?» chiedo, ma non mi ascolta.
«Non è un amore? Quanto costa… okay, me lo posso permettere. Mi entrerà?» entra alla ricerca della commessa, parecchio contenta di vedere una cliente, e le indica un camerino.
«Come sto?» mi chiede, riemergendo dopo poco.
Le sta d’incanto, e glielo dico.
«Però non metterlo quando c’è Sean, o gli farai venire un colpo!» rido.
Alla cassa è più felice di pagare di quanto lo è la commessa che ha venduto il vestito. Anzi, Momo è così raggiante che credo che lo avrebbe comprato anche se le avessi detto che le stava malissimo.
Però le sta bene, quindi tanto meglio.
Poi cerchiamo un regalino per Amber, riuscendo nell’impresa in poco tempo – non ci interessa molto cosa le piace. In fondo, a caval donato non si guarda in bocca!
Il difficile arriva ora.
Momo mi trascina per negozi e negozietti, cercando di capire cosa potrebbe piacermi, ma io non so che fare. Provo qualcosa, ma mi sembra che mi stia tutto così male!
Solo poco prima di andarcene entriamo in un ultimo negozio.
Vende abiti dai colori scuri, molto gotici. Adoro questo genere di vestiti, ma non potrei mai comprarmeli (grazie mamma). Eppure, in qualche modo Momo mi convince a provare una maglietta.
Le spalline si allacciano dietro il collo e sono in un tessuto stile tartan nero e rosso, coperto davanti da una sorta di bustino con i lacci, molto gotico. La schiena è quasi completamente scoperta.  
Quando esco dal camerino, Momo trattiene il respiro.
«Ti sta a meraviglia, credimi» dice infine.
Non mi convince. Non so, non credo che faccia per me.
«Dici?»
«Assolutamente sì!»
«Non mi convince… mi sento ridicola».
Momo alza gli occhi al cielo.
«È una festa. Le feste esistono perché così puoi metterti quello che ti pare e nessuno lo giudicherà strano o fuori dal comune o ridicolo».
«E se sento freddo?»
«Secondo te Amber lascerà il riscaldamento spento? E poi saremo così tante persone che farà caldo, semmai. Non freddo».
«È per questo che hai comprato quel vestito?»
«Certo! E l’avrei comprato in ogni caso, per tua informazione».
Mentre mi cambio di nuovo, penso a cosa fare. La compro? Non la compro?
L’indecisione – mia antica nemica – mi attanaglia la mente. Che faccio?
Momo mi direbbe di comprarla, ma io non mi sento a mio agio. Però mi piace e la comprerei, solo che…
Esco dal negozio a mani vuote, e Momo non la smette di dirmi di tornare indietro.
«Ma no. Mi sono ricordata che a casa avrò sicuramente qualcosa da mettere»
«Certo. E io ci credo. Ma sappi che se questa è una scusa per non venire, vengo a casa tua e ti trascino lì! Anche se sei in pigiama!».
Con le minacce di Momo non c’è da scherzare.
«Non è un modo per eludere la festa, scherzi? Però…»
«Non fa niente». Chiude gli occhi. Quando li riapre, è raggiante come prima. «Vengo un po’ prima di andare, okay? Così ti trucco. Niente scuse». La scintilla malvagia dei suoi occhi mi fa talmente paura che non protesto neanche.



Il fatidico giorno è arrivato.   
La mattina sembra scivolare via come sabbia tra le dita. Inoltre, quando lo chiedo a Ludvig, mi dice che lui non ci sarà perché ha le prove al Blue Theatre.
L’unico volto amico della festa sarà quello di Momo, e devo ringraziare il fatto che questo sabato Sean si vede con la band, altrimenti mi avrebbe dato buca alla grande.
Verso le tre, comincio sconsolata a rovistare nei cassetti alla ricerca di qualcosa di decente da mettermi.



 
 
 
***
Angolo autrice
Buonsalve a tutti! Sono tornata, con molto ritardo e assai poca ispirazione. Il capitolo fa un po’ schifo, se devo essere sincera, ma meglio di niente. E scusate se non c'è l'extra...
Secondo voi, cosa succederà a questa benedetta festa? Eh eh, lo saprete nel prossimo capitolo… che ho progettato secoli fa, quindi devo solo dargli un’aggiustata.  
Jake si è scusato, ma Alex non vuole starlo a sentire. Anzi, si allontana sempre più da lui, ma… ci riuscirà? Lo saprete nel prossimo capitolo!
Come al solito ringrazio tutti coloro che recensiscono, seguono, ricordano e preferiscono. Vi adoro, siete tantissimi e mi spronate a fare del mio meglio. Grazie!
Dunque, al prossimo capitolo!
-H


 

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Capitolo 15
*** La festa ***


15. La festa
                                                                                                                                                                                                      Amare è restare
                                                                                                                                                                                                anche quando la vita ti urla di correre.



Sono passate quasi tre ore, e ancora non ho niente da mettermi. E devo essere lì per le otto. Non ce la farò mai.
Continuo a fissare la mia camera, in attesa del colpo di genio che però non arriva. Veramente, prima che mi decida a fare qualcosa l’unica cosa che arriva è un messaggio sul mio cellulare.
Sto arrivando.
Sospiro di sollievo.
Mezz’ora dopo il campanello suona e Momo fa capolino dalla porta della mia stanza.
Guardo disperata il mucchio di vestiti sparsi a terra. Jeans, camicie, gonne, vestiti: tutto ciò che fino a tre ore prima era ben riposto nel mio armadio è sparso a terra. Ma proprio tutto, anche roba che pensavo di aver buttato anni fa.
Cerco con lo sguardo l’aiuto di Momo che mi fissa sconcertata. Lei, ovviamente, è già pronta e perfetta nel suo corto e attillato abito nero.
«Aiutami» imploro.
«Stai calma, non farti prendere dal panico. È una festa, mica una serata di gala»
«Non è una festa, è un diciottesimo compleanno. Il diciottesimo compleanno di una persona che mi odia, sottolineerei» ribatto.
«Oh, insomma, rilassati! Ecco, ti do una mano: questo no, questo no…» Momo scarta un sacco di roba, soppesandola con occhio critico.
«Non ci siamo…» sospira. Poi sorride furbescamente.
«Ma tranquilla, arriva Super Momo ad aiutarti!» dice, tirando fuori da una busta che non avevo affatto notato la maglietta che avevo provato ieri a Camden e che, per motivi ignoti anche alla sottoscritta, non ho comprato.
«Ma non dovevi…» dico, accarezzando il tessuto.
«Non dirmi “non dovevi”. Dimmi solo “grazie”» dice, con un sorrisone a trentadue denti.
«Grazie» mormoro.
La metto sul lato del letto non ancora invaso dai vestiti. E poi un pensiero mi colpisce all’improvviso, terrificante.
«Con cosa la abbino?».
«Uhm…» esamina attentamente i miei vestiti. «Jeans neri».
Mi costringe a cambiarmi e, quando mi vede, spalanca gli occhi.
Lo prendo come un segno negativo.
«Ecco, mi sta da schifo, vero? Basta, io non ci vengo più, se tu vuoi andare vai, io non ci vengo a fare una figuraccia!» mi nascondo la faccia tra le mani.
«Assolutamente no, il contrario! Sei una favola! Guardati!». Mi trascina davanti allo specchio nell’anta dell’armadio e mi tira via a forza le mani dalla faccia.
Ecco cosa vedo io: una zucca vestita per andare a un funerale, faccia troppo paffuta, qualche chilo decisamente di troppo, occhi di un azzurro smorto, lenticchie in faccia, dentoni da coniglio, naso un po’ troppo a patata. E occhiali.
Glielo riferisco afflitta.
«Oh, ancora con questa storia! Non-sei-grassa, quante volte ancora devo ripetertelo? Hai un peso perfettamente normale, chiaro? Solo perché hai qualche curva non puoi definirti grassa! E poi non è vero che hai la faccia paffuta, è normale. Il tuo naso è grazioso, hai una dentatura perfetta (a che diamine sarebbe servito l’apparecchio, se no?) e le lentiggini a te stanno benissimo! E poi: hai gli occhi azzurri, cosa vuoi di più? Basta solo farli risaltare! Togliti quegli occhiali e mettiti le lenti a contatto!»
«Ma ci metto un sacco…»protesto debolmente.
«Sbrigati e basta. E in ogni caso, non sembri una zucca: i tuoi capelli sono stupendi, fanno invidia, forse sono un po’ troppi – vai da un parrucchiere! – ma ti assicuro che con l’acconciatura giusta…».
Posso quasi vedere gli ingranaggi del suo cervello muoversi vorticosamente alla ricerca di idee. Quando Momo si mette in testa una cosa, non la ferma nessuno!
Poi si illumina come una lampadina.
«Ci sono!».
Io vado in bagno a cercare di mettermi quelle piccole invenzioni infernali che sono le lenti a contatto, e lei mi segue, portando la sua pochette rosa confetto con sé.
Dopo una buona mezz’ora di imprecazioni, ringhi e lacrime, le lenti sono nei miei occhi, e non vedo praticamente niente.
Momo mi asciuga impazientemente la faccia con un pezzo di carta.
Poi inizia a truccarmi con mani esperte, concentrata, tingendomi le palpebre di colori scuri. Tocco finale, rossetto rosso come il sangue.
Lega la mia matassa rossa in uno chignon disordinato, con qualche ricciolo che sbuca qua e là, e mi piazza davanti allo specchio.
Ha fatto un capolavoro. I miei occhi sembrano più luminosi e con una forma più allungata, il rossetto fa sembrare la pelle più bianca, cosparsa appena di lentiggini (abilmente seminascoste da un sottilissimo velo di fondotinta). Ma con lo chignon (fermato da un grazioso fermaglio ricoperto di strass) mi sento molto a mio agio, riflette un pochino la mia personalità disordinata.
Non sembro io, ma allo stesso tempo lo sono senza dubbio. Una versione diversa di me.
E mi piace.
Sorrido involontariamente. Sì, sono pronta per la festa.


Ci tocca praticamente correre, visto che usciamo da casa con un quarto d’ora di ritardo sulla tabella di marcia e, nonostante ci accompagnino i miei con la macchina, ci vorrà almeno un’altra mezz’ora per arrivare a casa di Amber, perciò arriveremo tardi.
Dubito però che la festeggiata ne sarà particolarmente triste.
Dopo mezz’ora di macchina circa ci ritroviamo su un vialone alberato su cui si affacciano solamente ville. È facile riconoscere quella di Amber: tutte le luci sono accese e si sente la musica perfino da qui.
Il vialetto d’ingresso è circondato da palloncini dorati con il numero “18” stampato in bianco, e se ne ritrovano a mazzi anche nel resto della casa, quando entriamo, accolti da un’Amber allegra e, a mio parere, un po’ alticcia.
«Prego! Entrate pure».
Entriamo in un ampio salone adibito a pista da ballo, dove due divani verde oliva sono addossati alle pareti. Lo stereo diffonde musica da discoteca a volume altissimo, mentre un tavolo ospita un sostanzioso buffet. Dalla cucina, Amber ci offre un bicchiere pieno di birra ghiacciata, che bevo lentamente.
Non c’è molta gente, per ora. In un angolo scorgo Jake che chiacchiera con dei suoi amici.
Io chiacchiero con Momo, cercando di far sparire quella sensazione di disagio che sento da quando sono entrata. Non sono abituata alle feste, ho sempre cercato di evitarle.
Dopo un po’ comincia ad arrivare gente, e in poco più di un’ora la casa è piena. Amber ha richiesto attenzione e ha scartato i regali, servendo poi la torta – un capolavoro di fragole e cioccolato. Penso allo specchio e non la mangio.
Lo so che è un comportamento stupido, ma è sempre meglio limitare i danni, no?
Amber ci invita tutti a ballare e infatti tutti ci mettiamo a ballare, anche se io vengo praticamente trascinata da Momo. Eppure, forse è la birra – a quell’unico bicchiere ne sono susseguiti… due? Tre? Non me lo ricordo – ma mi sto divertendo, dopo tutto. Peccato che Ludvig non sia qui. E Momo aveva ragione: non fa assolutamente freddo, anzi, fa caldissimo.
Ad un certo punto vado a sbattere contro qualcosa e mi giro per scusarmi, incrociando lo sguardo grigiazzurro di Jake.
«Scusa»
«Ciao, Alex» dice. Poi nota la mia maglietta e assume una strana espressione.
«Che c’è? Sono ridicola, vero?».
«No. Sei solo… diversa» mi risponde, guardandomi negli occhi.
Mi sento in dovere di ricambiare.
«Stai molto bene anche tu» dico ad alta voce, cercando di sovrastare la musica, e lui mi sorride.
In effetti sta davvero bene, perché quella camicia bianca fa risaltare moltissimo la sua carnagione scura, la quale a sua volta fa risaltare gli occhi chiari. È davvero uno scherzo della natura. Un bellissimo scherzo della natura.
«I tuoi mi hanno chiesto di accompagnarti a casa, dopo la festa. Va bene?».
Non ho potere decisionale, in questo. Però è carino che mi chieda se mi va bene.
«Non lo so… Momo, tu come torni a casa?»
«Vengono i miei… ti avrei comunque accompagnata, ma…» le leggo l’esitazione negli occhi. So benissimo che lei spera che io trovi il modo di riappacificarmi con Jake.
«Non ti preoccupare. Mi accompagna Jake. Hai la macchina?»
«Sì. È un po’ malandata, ma funziona» sorride.
Per un attimo tutto sembra tornare come prima. Era da tempo che non avevo una conversazione normale con questo ragazzo.
Sembra che lo pensi anche lui, perché smette di sorridere e se ne va con un laconico “ci si vede dopo”.
La leggerezza di quell’attimo svanisce anche per me, e decido di annegare il dispiacere in un altro bicchiere di birra.
«Dovresti dargli un’altra possibilità» sentenzia Momo quando entriamo in cucina, lontano dalla musica.
«Vorrei, ma…» ma non ci riesco. Ecco cosa devo dire. È passato troppo tempo. Troppe parole non dette, troppo silenzio.
«No, Alex. Il problema non è questo. È che tu non sai fare altro che scappare. Stai scappando, e lui lo sa, come lo so anch’io, come forse lo sai anche tu solo che non riesci ad accettarlo. Sono tutte scuse».
È davvero arrabbiata con me, non l’ho mai vista così.
«Non sto scappando» replico, ma forse non ci credo troppo neanche io.
Sto scappando?
Forse sì. Dopotutto, è la cosa che mi riesce meglio.
Momo si irrigidisce. Nei suoi occhi è sceso un gelo assoluto.
«Va bene. Fai come vuoi. Continua pure a scappare. L’unica a rimetterci sarai tu. Non aspettarti che comprenda». Poi gira i tacchi e se ne va, mentre io sono troppo stupita per dire una parola.


Non so che ore sono, né quanto tempo è passato. Mi sembra di aver passato tutta la vita poggiata al muro del salone, guardando gli altri senza vederli davvero – chi si bacia, chi balla, chi ride, chi fa tutte e tre le cose contemporaneamente. Che abbia bevuto troppa birra? Probabile, visto che non riesco proprio a ricordare quanti bicchieri ho mandato giù. Ricordo di aver ballato, ma poi… non lo so. Come sono finita sul muro?
Non sono ubriaca.
Vedo che la gente diminuisce a mano a mano che il tempo passa. Non ho pensato a portarmi un orologio e il cellulare è da qualche parte nella borsa che ho lasciato in camera di Amber. Spero di ritrovare tutto.
Scruto le pareti alla ricerca di un quadrante, ma sembra che non ne facciano uso. Come se non sapere l’ora sia perfettamente normale. E allora perché hanno inventato gli orologi?
Dopo un po’ – non so dire quanto – della cifra di gente invitata da Amber siamo rimasti in circa venti, o forse un po’ di meno. Potrei contarli, se la smettessero di ballarmi nelle pupille. So per certo che Jake è ancora qui, o mi avrebbe chiamata.
La testa mi gira anche se è incredibilmente leggera. In bocca, il sapore della birra è più intenso. I capelli mi si sono sciolti, a furia di ballare, e il mio fermaglio è riposto nella borsa.
Non ho mai bevuto così tanto in vita mia. Sono sicura di non essere completamente fuori – sono lucida – ma mi sento proprio su di giri. Fantastico. Non sto pensando a niente.
«Giochiamo al gioco della bottiglia!» grida qualcuno.
In dieci minuti, o almeno credo, barcollanti e ubriachi, ci raduniamo in cerchio sul tappeto del salotto. Una bottiglia vuota di birra viene posta al centro del cerchio.
Non ricordo quando è stata l’ultima volta che ho giocato a questo gioco… forse non ci ho mai giocato, boh. Sono un po’ nervosa.
Il primo giro risparmia me ma non Momo, che si vede costretta a baciare un imbarazzatissimo Eddie (uno della classe accanto alla nostra, non credo di averci mai parlato). Lei non sembra troppo interessata al gioco, ma non c’è niente di meglio da fare. Se devo essere sincera, sembra la più sobria di tutti.
La loro performance viene salutata da una serie di fischi e battiti di mani. Ridiamo tutti.
I giri continuano, pian piano tutti vengono puntati, a parte me e pochi altri. Ora che ci faccio caso, neanche Jake è stato “sorteggiato”, con grande dispiacere di alcune ragazze.
È Amber a dettare legge, in questo gioco. La bottiglia sceglie i due malcapitati, ma è lei a decidere cosa devono fare. Spero davvero di finire il gioco indenne.
Dopo non so quanto tempo, la bottiglia punta il collo verso Jake. Applausi e fischi: chi sarà la fortunata?
Vedo ragazze che incrociano le dita, puntando i loro sguardi famelici sul suddetto ragazzo. Mi vengono i brividi. Poveretta colei che la bottiglia punterà, perché si ritroverà tutte le altre contro!
Amber ruota la bottiglia e a me sembra che giri lentissimamente. Tutte le ragazze trattengono il respiro, perciò i cori di “oooh” sono smorzati.
Quando finalmente smette di ruotare, noto sgomenta che punta dritto verso di me.
Non è possibile.
Non ci credo che è stato un caso. Devono aver truccato la bottiglia. Non ci credo! È uno scherzo? Dov’è la telecamera?
Le ragazze hanno un’espressione assassina negli occhi, mentre Momo mi guarda comprensiva. La nostra piccola lite non comprendeva una cosa del genere, quindi la pace è assicurata, giusto?
Amber si decide a dettare le regole della “penitenza”, confabulando con le sue amiche per un attimo.
«Allora, Jake e Alex» ci guarda maliziosamente, non è così ubriaca come sembra, facendo segno di alzarci e uscire dal cerchio.
«La punizione è…» punta il suo sguardo felino su Jake.
«Falle venire voglia di baciarti!». Una serie di fischi esplode nel cerchio, insieme a qualche battito di mani e i ringhi delle ragazze.
Io sono impietrita. Come sarebbe a dire? Io non bacerò mai Jake. Mai e poi mai. Neanche se il mondo dovesse finire domani.
Cerco una faccia da fare, ma che espressione assumere in questa situazione?
La birra me lo fa dimenticare.
Sono abbastanza determinata a non cedere, però.
Lentamente, Jake mi mette una mano sulla vita e mi attira a sé. Il cuore comincia a martellarmi nel petto come se volesse scappare via. Sono assolutamente terrorizzata.
C’è una piccola parte di me – quella ancora non annebbiata dai fumi dell’alcol, la parte ancora lucida – che mi urla di divincolarmi e scappare prima che sia troppo tardi. Tuttavia, sono convinta che lui non mi lascerebbe mai andare. Inoltre, la birra fa il suo effetto e sul terrore prevale la curiosità.
Jake mi mette l’altra mano sotto al mento, in modo da farmi alzare la testa e guardarlo negli occhi. Nel suo sguardo – liquido, le pupille un po’ dilatate – c’è malizia, ma anche un pizzico di dolcezza.
Avvicina lentamente il suo volto al mio, tenendomi ancora stretta per la vita, le nostre labbra che quasi si sfiorano, e io, seguendo un istinto che non conosco bene, chiudo gli occhi con l’assurda certezza che di qui a pochi istanti mi bacerà.
Eppure, il bacio non arriva.
Apro gli occhi confusa. Il volto di Jake è ancora vicinissimo al mio, il suo profumo di erba tagliata e quell’altro non so che di mascolino mi avvolge, ma le sue labbra semichiuse si distendono in un sorriso luciferino che neanche Belzebù potrebbe riprodurre e prima che abbia il tempo di dire o fare qualcosa si avventa sul mio collo, lasciandoci una scia di baci incandescenti.
Trattengo il respiro.
Lentamente – dolce tortura – risale verso il mio orecchio, con cura, senza fretta. Chiudo di nuovo gli occhi.
Senza che me ne accorga, mi mette una mano sulla nuca, intrecciando le sue dita ai miei capelli.
Resisto ancora a quei baci infuocati, ma non so se ne sarò in grado ancora per molto.
Dopo quella che sembra un’eternità, Jake finalmente mi libera, tornando a guardarmi negli occhi. Ma stavolta non c’è traccia della malizia di prima. C’è dolcezza e una sorta di malinconia.
Si avvicina a me e sussurra, in modo che nessun altro lo senta.
«Si può rimpiangere ciò che non si è mai avuto, Alex?».
Quelle parole – delirio di alcol o dolorosa consapevolezza? – mi trafiggono come spilli, peggio dei suoi occhi più grigi che mai, pieni di rimpianto e senza speranza, eppure così dannatamente vivi.
Agisco senza pensare, prima che la coscienza mi imponga di non farlo.
Poggio le mie mani sul suo viso – la sua corta barbetta ispida mi punge i palmi - , attirandolo verso di me, mentre mi alzo in punta di piedi, e nonostante i ragazzi intorno a noi che fischiano, nonostante le risate, nonostante i “te l’avevo detto!” – avevano scommesso? - , nonostante sia perfettamente e dolorosamente consapevole che ciò non cambierà le cose, nonostante lui sia il mio vicino di casa, nonostante mi abbia fatto impazzire, nonostante abbia passato tutto questo tempo ad odiarlo per avermi spezzato il cuore, lo bacio.
E allora non mi importa più niente, né del passato, né del futuro, né se domani questo bacio sarà stato importante o no. Importa solo il presente, la sensazione di fuoco del suo braccio intorno alla mia vita, delle sue dita tra i miei capelli, il suo profumo che mi avvolge. Nient’altro.

Disperato. È questo l’aggettivo che darei al suo – nostro – bacio. Come un qualcosa che si desidera da tempo e che non si è mai ottenuta, ma che inaspettatamente è arrivata lo stesso. Almeno per me è così.
Smette di baciarmi solo quando la gente in cerchio comincia a protestare. Stiamo rubando troppo tempo.
Torno al mio posto rossa come un peperone, eppure non riesco a smettere di pensarci. Chissà perché, la birra è più buona sulle sue labbra.
Il gioco continua, ma non riesco a fare a meno di posare lo sguardo su Jake. Chissà se lui ha provato le mie stesse sensazioni oppure ero solo “una delle tante”. Non sono sicura di volerlo sapere.
Quando la bottiglia indica Jake per la seconda volta e lo vedo baciarsi appassionatamente con quella smorfiosetta di Sarah (una delle scagnozze di Amber) mi sento male. Un peso smisurato sul petto, gelo totale, dolore. Mi sento come se dovessi vomitare e distolgo lo sguardo.
La scenetta si ripete altre due o tre volte prima che mi decida ad alzarmi. Momo mi guarda preoccupata e io le sorrido mormorando una scusa a proposito del bagno. In realtà, mi piazzo in corridoio, nascosta a sguardi indiscreti, e appoggio la testa al muro, sforzandomi di non piangere e di farmi passare quella brutta sensazione.
Lo sapevi che tanto finiva così. Era solo uno stupido gioco, che ti aspettavi?
Quel grillo parlante nella mia coscienza non la smette di blaterare e io vorrei tanto avere un martello con cui azzittirlo all’istante, come Pinocchio.
Cosa pensavi, di essere diversa? Fa così con tutte. Lui non voleva baciarti. Voleva solo dimostrare che neanche tu sai resistergli, per quanto ti ostini a provarci. Mettici una pietra sopra: non conti niente per lui.
Ricaccio indietro le lacrime a forza, voglio smetterla di sentirmi così debole. Sono passati anni e ancora non riesco a dimenticare.
Dopo un po’ sento una mano posarsi sulla mia spalla.
«Alex? Stai bene? Vuoi che andiamo via?».
Comincio a pensare che Momo sia il mio angelo custode.
Annuisco, reprimendo un singhiozzo, ma non posso controllare la lacrima che rotola lungo la mia guancia.
«Proprio la sbornia triste dovevi prenderti?» mi chiede lei, abbracciandomi. Io ridacchio.
Ce ne andiamo. Mentre usciamo da lì, Jake mi guarda con un’espressione confusa.
 
Dolore lancinante. La testa mi esplode.
Ecco il mio risveglio di domenica mattina.
Seduta al tavolo della cucina, ho le mani premute sulla testa, cercando un modo di far sparire il dolore. La mamma mi guarda storto.
«Passata una bella serata?» chiede, ironica.
Mugugno qualcosa in risposta. Solo pronunciare qualche parola aumenta il dolore di tre volte.
Senza dire una parola, scioglie un’aspirina in un bicchiere d’acqua e me lo sbatte davanti, facendomi fischiare le orecchie. Faccio una smorfia.
«Grazie».
Bevo la medicina velocemente, sperando che il dolore passi al più presto. Lentamente, riaffiorano i ricordi della sera prima.
Quanti bicchieri ho mandato giù? Non riesco proprio a rispondere a questa domanda. Non riesco a ricordarmelo. Sicuramente molti. E dire che l’alcol in generale non mi fa impazzire. Non bevo neanche lo spumante a Natale, figuriamoci!
Dolorosamente, mi torna in mente quello stupido gioco. Il ricordo del modo in cui mi baciava sul collo mi fa venire i brividi. E poi quelle parole su cui non mi sono interrogata allora, ma mi interrogo adesso.
Cosa stava rimpiangendo?
Sempre che fossero vere e non un modo escogitato per vincere la mia resistenza.
Qui arrossisco. Mi sembra ancora di sentire sui palmi la sua barbetta ruvida. È stato magnifico. Solo, mi chiedo perché ho dato il mio primo bacio ad un cretino che subito dopo mi ha lasciata con il cuore spezzato. Di nuovo.
E adesso realizzo.
Oddio, ho baciato Jake! E adesso cosa devo fare? Come devo comportarmi? Dobbiamo affrontare la gara di ballo e con questo bacio ho rovinato tutto! Non avrò il coraggio neanche di guardarlo in faccia, figuriamoci se riesco a stargli appiccicata per ballare!
Comincio a camminare nervosamente per la mia stanza, avanti e indietro. Cosa posso fare? Faccio finta di niente? Sì. Sì, posso dire che ero ubriaca fradicia e non me lo ricordo. Tanto, con tutte quelle che ha baciato ieri, non se lo ricorderà neanche lui.
Oh, cavolo. Ho promesso alla Costance che oggi avremmo provato insieme, io e Jake. Oh, no. Lo devo fare per forza?
Non ci tengo a vedere la prof arrabbiata, cosa che succederà se non vado da Jake a provare.
Con un sospiro, mi preparo a bussare alla sua porta.






Jake – Narcoleptic Argentinean

Sospiro per quella che deve essere la milionesima volta nella stessa mattinata. E allo stesso tempo sorrido come un idiota.
Non pensavo l’avrebbe fatto. Ero sicuro che sarebbe scappata via o non so. Se avesse fatto così, l’avrei lasciata andare, credo. Non l’avrei certo biasimata.
Eppure, l’ha fatto. Mi ha baciato. Quindi non è del tutto finita, giusto? Ho ancora qualche speranza di rimediare a tutto quello che ho fatto.
Credo che quello sia stato il bacio più bello della mia vita – e dire che ne ho dati parecchi. Forse perché finalmente l’ho dato alla persona giusta.
Nonostante tutto, qualcosa comunque guasta il mio buonumore. La sua espressione ferita mentre se ne andava mi ha scavato un solco nel petto. Non ha capito che stavo baciando quelle oche solo perché così l’avrebbero lasciata in pace? Mentre le baciavo, nella mia testa rivivevo il bacio che avevo dato a lei – disperazione e dolcezza – perché di quelle a me non importava assolutamente niente.
E poi, ieri sera era davvero bellissima. Non so di preciso perché, ma mi sembrava bellissima. Non credo sia merito del trucco – lei è sempre stata bella, solo che ieri è venuto fuori. Ringrazio il cielo che quell’Ohlsson non sia potuto venire, perché ormai ho capito che ci sta provando.
Non lo lascerò avvicinare troppo, no. Alex è diventata troppo importante per me, non lascerò che qualcuno me la porti via.
Mi sento come il tizio del Moulin Rouge – sì, l’ho visto - , quello interpretato da Ewan McGregor.
Mi sento male perché c’è un rivale che ha più chances di me. Un rivale che in passato non l’ha trattata come uno straccio, che sicuramente non la farebbe soffrire.
Eppure, il solo pensiero di loro insieme mi fa bruciare di rabbia.
Come in un lampo, rivedo la scena del film dove c’è quella dannata canzone – El tango de Roxanne – e quell’argentino narcolettico del cavolo dice la frase fatale.
La gelosia ti farà impazzire.




 


***
Angolo autrice
Salve a tutti! Come promesso, sono tornata presto. Il capitolo non mi soddisfa quanto avrei voluto, ma ci lavoro da un sacco di tempo e se continuo a tornarci non lo pubblico più, quindi eccolo.
Come al solito, ringrazio tutte le splendide persone che recensiscono/seguono/ricordano/preferiscono (non sapete quanto mi rendete felici, ragazze/i!)
Cosa succederà tra Jake e Alex, adesso? Rimarrà tutto come prima o no?
Stay tuned!
-H

P.S: la frasetta iniziale è una citazione da "Cose che nessuno sa" di Alessandro D'Avenia.
P.P.S: ho pubblicato uno spin-off sul passato di Alex e Jake. Per chi è interessato… date una sbirciatina alla mia pagina sul sito. 




 

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Capitolo 16
*** A penny for your thoughts ***


16. A penny for your thoughts
                                                                                                                                                                                    L’ape parassita succhia il nettare
                                                                                                                                                               di cui si nutre la farfalla?
    
                                                

Faccio un grosso respiro e, tremante, busso alla porta. Nell’interminabile minuto che passa prima che Jake venga ad aprire, valuto la possibilità di tornare indietro.
A che servirebbe? Non potrai sfuggire per sempre!
Mi mordo le labbra e cerco di scacciare dalla mia mente l’immagine del bacio di ieri.
Quando finalmente Jake apre la porta, non riesco affatto a decifrare la sua espressione. Anche perché, non appena alzo lo sguardo su di lui, i miei occhi corrono alle sue belle labbra.
«Ciao»
«Ciao».
Restiamo in sospeso, mentre un milione di parole non dette aleggia nell’aria intorno a noi.
«Che… che ci fai qui?» mi chiede, con una strana voce.
«Ah… la Costance ha detto che dovevamo fare un po’ di prove… sai, per la gara…» balbetto, mentre so per certo che le mie guance si stanno colorando di rosso.
Jake fa un passo indietro, invitandomi a entrare.
«Sai, forse è meglio che andiamo a scuola. La palestra, a detta sua, è aperta».
«Per me possiamo restare qui. Tanto i miei non ci sono e per terra c’è il legno» osserva. Forse non è una cattiva idea, rimanere qui. Almeno posso risparmiarmi il viaggio fino a scuola, che sarebbe fonte di altro silenzio imbarazzante.
Mi fa uno strano effetto stargli vicina, dopo ieri. Mi sento tesa e nervosa e non so se quello che dico e faccio è giusto oppure no.
«Allora, ehm… che ripassiamo? Tango, salsa, merengue, bachata…?» azzardo, costringendo i miei occhi a incontrare i suoi.
«Quello che vuoi» mi risponde, lo sguardo ardente. Mi sento in soggezione.
«Allora po-possiamo fare un po’ di tutto, okay?». Fa spallucce, gli occhi fissi nei miei.
Uno sguardo che non riesco a sostenere a lungo.
Quando cominciamo ad accennare qualche passetto di tango, trattengo il respiro. Stargli così vicina non mi fa bene. Anzi, il suo profumo mi sta mandando letteralmente fuori di testa e quelle labbra, santi numi, dovrebbero essere illegali.
Oh, andiamo! Comportati normalmente!
Non è ciò che sto facendo?
Diciamo che questo non rientra nella definizione di “normale”.

Sono talmente presa dal mio assurdo dialogo interiore che non mi accorgo quasi che Jake mi sta parlando.
«Senti, per ieri…». Alzo la testa di scatto, pronta a intervenire. «Volevo dirti che mi dispiace…». Comincio a scuotere la testa.
«No, figurati, è a me che dispiace, tu non c’entri assolutamente niente…»
«No, invece, è colpa mia, mi sono comportato da idiota»
«Era solo un gioco…»
«Avrei dovuto accompagnarti a casa, Alex. Se ti fosse successo qualcosa…». Sono sbalordita. Era a questo che si riferiva? Sul serio?
Nel suo sguardo, però, vedo che è davvero dispiaciuto. Sembra che la cosa lo faccia stare male sul serio.
«Ma no… e poi ero con Momo…»
«Non si può mai sapere cosa può succedere per strada».
Non rispondo, cercando di decifrare le sue parole, e continuiamo a ballare, lentamente – altro che tango, sembra più un lento, una sorta di ballo della mattonella. Rimaniamo così per quelle che sembrano ore, timorosi perfino di respirare, di avvicinarci.
«Sul serio, se fosse successo qualcosa… non me lo sarei mai perdonato, Alex».
Lo guardo stupita. Da quando avrebbe assunto il ruolo di mio protettore? Glielo dico, sciogliendomi dalla sua stretta.
«Guarda che non sei il mio protettore, sai».
Ma lui mi guarda, frustrato ed arrabbiato allo stesso tempo, ed esplode.
«Tu non… non capisci, Alex. Non capisci quanto tu sembri fragile, ai miei occhi. Non riesco a non pensare… che non sono l’unico che potrebbe accorgersi della tua fragilità. Divento matto, Alex» continua, mentre io indietreggio, spaventata «se penso che qualcuno potrebbe approfittarne».
Rimango di stucco per alcuni minuti mentre lui cerca di riprendere fiato, coprendosi il viso con le mani; da uno spiraglio delle sue dita vedo i suoi occhi e vi leggo già il pentimento per essere esploso a quel modo.
Sento la rabbia montare.
«Stai dicendo che mi vedi solo come una fragile creatura da proteggere?». Cosa pensa, che non sono in grado di difendermi da sola?
«Non ho detto questo, e lo sai. Sai difenderti benissimo – le tue parole feriscono più delle spade. Ma…» rimane in sospeso, scuote la testa e mormora un «lascia stare» malinconico e surreale. Ma stavolta non demordo.
«No, adesso ti spieghi e anche con precisione».
Lui sospira, frustrato. «Va bene» dice infine; i suoi occhi grigiazzurri sono così arrabbiati e frustrati e così impotenti che quasi mi pento di averlo costretto. Quasi.
«Ero angosciato, terrorizzato al pensiero che qualcuno potesse farti del male. Ma è colpa mia. Pensavo che fossi fragile perché io sono stato in grado di ferirti; e non immagini neanche quanto questo mi faccia stare male». Chiude gli occhi e stringe i denti, trema da capo a piedi. «Tu non hai neanche la più vaga idea… del colpo che mi hai fatto prendere quella volta, tu da sola contro quei maledetti figli di puttana, non hai idea… e io lo so che sei una roccia, ti sai difendere a pugni e a parole, tiri fuori denti e artigli quando devi, ma… io non ci riesco, Alex. Non riesco a comportarmi normalmente quando ci sei di mezzo te». Riprende fiato, passandosi le mani sul volto. Sembra esausto.
Sono sinceramente confusa. Perché? Perché mi tratta come l’ultimo zerbino del pianeta per anni e poi mi parla così? Perché deve mettermi nella condizione di perdonarlo, anche se alla mia testa fa comodo avere qualcuno a cui dare la colpa?
Non so cosa fare per uscire da questa situazione, o meglio, per scappare via. Sono troppo codarda per affrontare questo discorso ora. Così mormoro un flebile «mi dispiace» e fuggo di corsa a rifugiarmi nella mia camera.

Il giorno dopo, a scuola, fisso il muro senza guardarlo davvero, con le parole di Jake che mi rimbombano in testa. Cosa voleva dire? E soprattutto, perché farmi questo discorso ora? Non ha senso.
Nei corridoi evita il mio sguardo, perlopiù, e io evito il suo. Cosa posso fare?
I sensi di colpa mi assalgono, ardenti e dolorosi.
«Certo che sei proprio stupida, Alex…» mi dice Momo quando le dico ciò che è successo.
«Si è scusato con te, e non solo: ha dichiarato apertamente che non riesce a starti lontano. Era l’occasione perfetta per mettere le cose in chiaro e tornare a essere amici dichiarati. Hai fatto una stupidaggine a scappare via». Il suo tono è obbiettivo e non mi consola affatto, anzi mi fa sentire ancora più stupida.
Nascondo la testa nelle braccia, sul banco.
«Lo so…» dico, con la voce attutita dai capelli.
Mi poggia una mano sulla testa.
«Senti, io non so come aiutarti. Se tu sei la prima a non voler trovare un modo di riconciliarti con lui, io non posso farci niente. Devi trovare innanzitutto in te stessa il coraggio di affrontarlo. E sì, coraggio, perché se scappi così sei una codarda, Alex».
Non ho il coraggio di alzare lo sguardo. Perché è la voce della verità? Preferisco darmi della codarda da sola, perché sentirselo dire non è proprio piacevole.
La campanella suona.
Cosa devo fare? Continuo a chiedermi, senza trovare una risposta.
Con tutto quello che è successo tra noi, questa stupida storia del ballo, quel bacio disperato, come devo agire?
 
Alle prove, la Costance fa un annuncio che aspettavamo da tempo.
«La gara sarà tra quattro settimane esatte». Un mese. Un mese per imparare la coreografia, che oggi ci mostra.
Abbiamo quattro minuti e mezzo di musica da riempire, e oggi ne proviamo una parte. Devo fare la spola tra Jake e Ludvig di continuo, e non sono sicura che mi piaccia. Anche perché non ho il coraggio di guardare in faccia Jake, dopo ieri. E l’altro ieri. Possibile che non sia in grado di creare altro se non casini, con questo qui?
Ripetiamo la prima parte della coreografia fino alla nausea. Quando questa storia finirà, sarò la persona più felice del mondo. Non dovrò più stare vicino a Jake, se non lo voglio. Solo un mese.
 
Dopo le prove, rimango come al solito con Ludvig a continuare a provare. Ripetiamo le solite coreografie di merengue, salsa e bachata che abbiamo fatto la scorsa settimana, tanto sono le stesse per tutte le coppie in gara. Sono troppo pensierosa per rilassarmi e così lo è lui.
Mi chiedo a cosa stia pensando.
«Un penny per i tuoi pensieri» gli dico infatti. Mi guarda un po’ spaesato.
«Sai, qui si dice così per dire “ti vedo pensieroso e ti offro la possibilità di parlarne”. Parla pure, io ti ascolterò».
Mi guarda, leggermente sospettoso. Vedo l’indecisione nei suoi occhioni blu.
«Sediamoci un attimo».
Si mette a gambe incrociate e io lo seguo, rannicchiandomi con le ginocchia strette al petto.
«Sono preoccupato, tutto qui» dice a fatica.
«Per cosa?» chiedo, sinceramente sorpresa. Mi è sempre sembrato così sicuro, senza mai un’ombra a guastargli la giornata.
«Per te» dice di getto. Rimango senza parole per un attimo, ma prima di poter dire qualcosa Ludvig riprende a parlare.
«Senti, io non lo so cosa è successo tra te e O’Brian, non te l’ho mai chiesto e non vorrei chiedertelo, ma vedo che c’è un problema tra voi».
«Ma non c’è nessun problema…»
«E io sono la regina delle fate. Andiamo, Alex, si vede lontano un miglio che c’è. Il vostro comportamento vi tradisce. Non vi comportate affatto come due sconosciuti che sono finiti per caso in questa situazione, né tantomeno come due amici. Vi comportate più come due che hanno litigato, e di brutto, anche». Il suo tono è sicuro, deciso.
Sospiro.
«Eccellente spirito d’osservazione» dico con un filo di voce.
«Sai, non è difficile. Basta osservarvi mentre ballate».
Al mio sguardo sorpreso, risponde molto semplicemente. «Dal modo in cui una persona balla si possono dedurre molte cose. E tu sei… spaventata, Alex. Hai paura di qualcosa e non ti fidi di lui».
Non replico. È così evidente?
«Non riesci a lasciarti guidare da lui, mentre ballate. Hai paura di lasciarti andare. Quando balli con me, sei molto più rilassata, nonostante io ai tuoi occhi possa essere un giudice ben più severo di quanto possa esserlo lui».
Ammutolisco del tutto.
«Ascoltami. Ti ripeto che io non ho idea di quello che può essere successo tra voi due, ma devi imparare a non pensarci mentre ci balli. Devi rilassarti. Come quando sei con me. Perché alla gara ci sarete tu e lui a ballare, principalmente, e io non posso aiutarti. Lo so che è spaventoso lasciare che sia qualcun altro a guidarti e fidarsi non è facile, specialmente perché ho capito che tu non riesci a fidarti di lui. Ma ti prego, provaci. Non lo dico per la gara ma per te, per renderti più tranquilla e sicura anche quando ti muovi in questo territorio che per te è quasi sconosciuto».
Mi guarda con sincera preoccupazione.
Sono sull’orlo delle lacrime, ma le caccio indietro. Mi sembra impossibile che ci sia qualcuno che mi osservi e si preoccupi così tanto per me. Agisco d’istinto, avvicinandomi a lui, e lo abbraccio, sussurrandogli un “grazie” all’orecchio.
 
Nei giorni che seguono cerco di seguire il consiglio di Ludvig ma diamine, è difficilissimo. Cerco di rilassarmi, di lasciarmi andare al ritmo della musica senza pensare a ciò che è successo tra me e Jake, ma mi basta guardarlo in quei suoi dannatissimi occhi grigiazzurri per mandare tutti i miei sforzi a farsi friggere.
Ludvig aveva ragione: sono spaventata. Spaventata da morire. Anche perché non sono riuscita a chiarire con Jake, e questo stato indefinito mi mette un’agitazione pazzesca.
Ammettere questa paura è difficile persino con me stessa, non so come combatterla. Come posso combattere la paura di fidarmi di una persona che già una volta mi ha tradita? Non posso. Non pensare più a quello che è successo non mi basta per ritornare a fidarmi.
 
Venerdì pomeriggio faccio le solite prove con Ludvig, ma c’è una strana atmosfera che non saprei definire. Mi ricorda un po’ quella che si era creata a St. James’s Park quella volta, ma archivio tutto come pura suggestione.
Riprendiamo tutto ciò che abbiamo fatto, tutte le coreografie – bachata, salsa, merengue e tango, con la musica e senza musica. Sono esausta. Finiamo anche un po’ prima del previsto, quindi ci mettiamo a chiacchierare.
«Va meglio?» mi chiede, vedendomi tranquilla e non pensierosa come lunedì.
«Molto».
«Guarda che se menti ti scopro subito».
Gli giuro che sto benissimo, ma lui non vuole sentire ragioni e mi fa mettere nella posizione di partenza, sfiorandomi le braccia con le mani, stavolta serio.
«C’è ancora un po’ di tensione. Dovresti trovare un modo per essere meno tesa».
«Ma non sono tesa»
«Il tuo corpo dice il contrario».
Sbuffo sonoramente. «Più che provare a rilassarmi, non so cosa inventarmi».
Ludvig ci pensa su qualche minuto.
«Quanto tempo è che non ti eserciti con gli occhi chiusi?» mi chiede.
«Un po’, in effetti» rispondo, intuendo dove vuole andare a parare.
«Potrebbe aiutarti a sbloccare te stessa e, di conseguenza, trovare la fiducia nel tuo partner. E poi è un buon modo per ripassare le coreografie».
Così finisco di nuovo bendata.
Riproviamo alcuni passi, e mi costringo a fidarmi. Anche perché altrimenti cado.
Seguirlo mi viene naturale, o quasi. La paura di cadere c’è sempre, ma so, nel mio cuore, che lui non lascerà mai che accada. E poi, c’è il suo profumo a guidarmi.
Ma all’improvviso si affievolisce, fino a svanire del tutto. Sento appena i suoi passi di gatto allontanarsi.
Sento l’angoscia montare, ma non le permetto di prendere il sopravvento. Soffoco l’istinto di togliermi la benda o di chiamarlo, sento che mi sta mettendo alla prova. Vuole sapere quanto mi fido?
Volto la testa di qua e di là, cercando di captare il minimo rumore, ma niente. Solo il suono ritmico della tubatura che gocciola al lato destro della palestra.
Poi, d’un tratto, il profumo ritorna e i miei muscoli tesi si rilassano. Giurerei che Ludvig è proprio di fronte a me.
Poggia la sua fronte sulla mia.
Posso sentire il suo respiro all’unisono con il mio.
Sento uno strano calore nello stomaco, come se delle mandrie di gnu impazzite stessero giocando a lacrosse.
E poi preme le sue labbra sulle mie.
È un bacio dolcissimo, quasi timido, e breve. Non ha nulla della disperazione di Jake, solo una nota d’incertezza, di timidezza.
Una porta sbatte in lontananza.


Momo – Help

Guardo stupita dallo spioncino della porta. Cosa ci fa qui Jake O’Brian all’ora di cena? Come sa dove abito, soprattutto?
Apro la porta senza trattenere un’espressione sorpresa, ma prima che possa dire qualcosa, lui mi blocca con un gesto della mano.
«Non dire niente, per favore. Ti chiedo solo di ascoltarmi».
Ammutolisco, presa alla sprovvista.
«Immagino che Alex ti abbia detto tutto riguardo a quanto è successo domenica. Non fare quella faccia, sei la sua migliore amica, è ovvio che te l’abbia detto» dice, prima che io possa aprire bocca. Alla fine annuisco.
«Bene». Si guarda intorno, agitandosi come un animale in gabbia. Per fortuna che i miei hanno entrambi il turno all’ospedale, stasera.
«Si può sapere che succede? È successo qualcosa ad Alex?» trovo il coraggio di chiedere.
«No, non proprio… cioè, dipende dal punto di vista» dice. Avverto con chiarezza la sfumatura rabbiosa della sua voce.
«Sii più chiaro, per favore. Cosa diamine è successo?» chiedo ancora, con un tono che non ammette  repliche.
«Ero andato a scuola. So che Alex rimane un po’ di più e prova con quell’Ohlsson del cavolo»
«Chissà perché, mi sembri leggermente geloso»
«Certo che no. E non interrompermi» sbotta, mentre io confermo mentalmente l’ipotesi della gelosia. «Insomma, volevo parlare con lei e non potevo aspettare che tornasse a casa, o mi sarebbe sfuggita di nuovo come sabbia tra le dita. Vado a scuola e confido che abbiano finito quelle loro dannate prove, e cosa vedo?» sbuffa guardando il soffitto, la sua rabbia è percepibile da fuori.
«Cosa vedi?» chiedo, cercando in qualche modo di aiutarlo a spiegarmi la situazione.
«La stava baciando».
Trattengo a stento un “COSA?” più che sorpreso.
Stringe i pugni. Devo ammettere che comincio ad avere paura della sua rabbia, ma in realtà ha lo sguardo ferito, mi dispiace per lui.
«Scusami ma continuo a non capire perché sei venuto a dirmelo» gli dico.
«Perché sei l’unica che mi può aiutare».



***
Angolo autrice
Sono viva!
Non riesco a esprimere a parole quanto sia dispiaciuta per la lunga, lunghissima assenza. Sono davvero mortificata e spero che non accada di nuovo, anche perché con l’estate avrò più tempo per scrivere. E questa storia, dopo due lunghi anni, si avvia alla fine.
Un grazie speciale a tutti coloro che non hanno mollato e hanno continuato a seguirmi, in particolare gently89 che mi ha dato una nuova motivazione per andare avanti (grazie mille! :D).
Grazie a tutti coloro che hanno recensito/preferito/seguito/ricordato, siete fantastici!
E ora… ci vediamo al prossimo capitolo, ma giuro che questa volta non dovrete aspettare nove mesi. Cosa starà architettando Jake?
Scusate ancora e… stay tuned!
-H


 

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Capitolo 17
*** The Way it Was ***


17. The way it was
                                                                                                                                                                                                                                 Presa tra due fuochi,
                                                                                                                                                                                     non sa dove volare


Torno a casa parecchio stordita.
Sbaglio chiave tre volte prima di riuscire ad aprire la porta di casa, e mia madre mi chiede qualcosa che non sento finché non viene a urlarmela all’orecchio.
«Insomma, che vuoi per cena?».
La guardo stralunata e rispondo qualcosa di simile a “va bene tutto”.
In camera mia, mi sfioro appena le labbra con le dita. Ho bisogno di una prova che è successo tutto per davvero e non solo nella mia testa: ho troppa paura di aver sognato ad occhi aperti.
Cerco di ricordare, chiudendo gli occhi. Prima il buio, la sensazione di essere sola, il gocciolare ritmico della tubatura, menta e limone, quel bacio dolcissimo...
Respiriamo vicini. Ludvig sfila gentilmente la benda dalla mia testa. Mi rendo improvvisamente conto di aver tenuto gli occhi chiusi anche sotto la stoffa nera. Li apro, e incrocio il suo sguardo turchino un po’ incerto e imbarazzato. Nessuno di noi due dice una parola, io per il semplice fatto che non ricordo come si fa a parlare.
Evidentemente lo prende come un segno negativo, perché distoglie lo sguardo e dice un secco «Per oggi abbiamo finito», prende le sue cose e se ne va prima che riesca a fermarlo.

Spalanco gli occhi, prendendomi la testa fra le mani.
Ho rovinato tutto anche con Ludvig! Perché non riesco a non combinare disastri?
Mi do mentalmente della stupida. Dovevo dire qualcosa, qualsiasi cosa, anche una cretinata ma dovevo parlare, accidenti. Cosa penserà di me, ora? Mi eviterà come la peste.
Dannazione. Dannazione. Dannazione.
Che cosa faccio, adesso?

Il giorno dopo, ovviamente, dico tutto a Momo.
La trovo, la mattina, parcheggiata sul muretto della scuola a ripassare; la saluto e mi siedo accanto a lei, ma prima che possa dirle qualcosa le squilla il cellulare.
«Scusa, è Sean, devo rispondere» dice, e si allontana in fretta.
Noto che ha cambiato suoneria.

Abbiamo un’ora di buco, e decido di avvantaggiarmi qualche lavoretto, ma quando ho finito ho ancora quaranta minuti di dolce far niente: è il momento per parlare del “fattaccio” con Momo.
Sta sentendo la musica con gli occhi chiusi. Le do un leggero colpetto sulla spalla, sussulta e, prima di mettere in pausa ciò che stava ascoltando, si sfila le cuffie. Dagli auricolari proviene una canzone che ho già sentito da qualche parte.
Le racconto di ieri pomeriggio nei minimi particolari, anche per cercare di capire se c’era stato un qualche indizio che sarebbe successo.
«Ti ha baciata?» esclama, stupita.
«Sì».
«E tu non gli hai detto nemmeno una parola?»
«No»
«Santo cielo Alex, l’hai combinata grossa»
«Lo so».
Rimango in silenzio per alcuni minuti. Non so, Momo non mi convince. È stupita, ma non tanto.
«Non sembri molto sorpresa» le dico infatti.
«Certo che lo sono»
«Sicura?».
Momo non risponde subito.
«Sospettavo che prima o poi lo avrebbe fatto, ecco. Si vede che gli piaci, tutto qui»
«Ti aspettavi che lo avrebbe fatto e non mi hai detto niente? Se me lo avessi detto forse a quest’ora non avrei fatto la figura del pesce lesso!»
«Era solo un’impressione, non una certezza».
Continuiamo su questo tono per un po’.
«Se permetti, Alex, se non ti eri accorta che ti stava facendo il filo sei cieca come una talpa»
«Ma no che non me ne sono accorta! Perché mai un ragazzo come Ludvig dovrebbe interessarsi a me? Non ha senso».
Momo emette qualcosa a metà tra uno sbuffo e un sospiro esasperato.
«Perché ti sottovaluti, Alex? Perché pensi di non poterti meritare qualcuno come Ludvig?»
«Non sono abbastanza, chiunque lo penserebbe»
«Guarda che ci sono un sacco di celebrità che hanno sposato gente normalissima. Non serve essere speciali per il mondo, basta essere speciali per l’altro. E forse lui ti considera speciale».
Speciale. Ho sempre voluto essere speciale, avere qualcosa che altri non hanno, un talento, una passione, qualsiasi cosa. Non mi sono mai sentita speciale – sempre nella media, in ogni cosa, tanto nel mio aspetto quanto nelle mie qualità. Mediamente alta, mediamente brava a scuola, sempre quel dannato mediamente.
Ho sempre pensato che è essere speciale che fa avvicinare gli altri, ma che bisognasse essere obbiettivamente speciale. Il fatto che qualcuno possa considerarti speciale anche se agli effettivi occhi del mondo non lo sei, be’, è consolante.
«Ma io non sono speciale» insisto.
«Oh, pensala come vuoi, allora. Piuttosto» e cambia bruscamente argomento «hai risolto con Jake? O continuerete a evitarvi per tutto il resto della vostra vita? Ti ricordo che la gara è tra tre settimane».
Ah. Già. Ho un altro problema da risolvere.
«In verità no. A malapena mi parla. Evita anche di guardarmi, mentre balliamo» bofonchio.
«Hai pensato a quanto gli sia costato dirti ciò che ti ha detto?» chiede.
No, non ci avevo pensato. Neanche un po’. Troppo concentrata su me stessa per pensare a lui.
Che razza di egoista!
«No» ammetto, arrossendo di vergogna per me stessa.
«Be’, secondo me gli è costato parecchio. Si è esposto, ha rivelato il suo animo, che ha nascosto così bene per tanto tempo e che ancora oggi nasconde. Magari lui non sa come comportarsi con te perché non sa come hai preso le sue parole, no? E magari si è anche pentito di aver parlato. Magari è imbarazzato da quello che ti ha detto».
Rifletto sul discorso di Momo.
«Forse. Non lo so, non ci avevo pensato. Ma anche supponendo che sia così, che cosa dovrei fare, possibilmente senza peggiorare la situazione?».
Momo riflette un po’. Sospira rassegnata.
«Non lo so. Parlarci, forse. Ma prima dovresti provare a fare pace con te stessa»
«In che senso, scusa?»
«Nel senso che devi prendere una decisione, e stavolta sul serio. Vuoi o no trovare un modo per riconciliarti con Jake? Il passato è passato, Alex». La campanella suona, fine dell’ora buca.
Lo voglio, penso, con tutto il mio cuore. 
 
Il weekend passa tranquillo, fin troppo. Momo non si fa sentire quasi per niente, tranne un messaggino ogni tanto per ricordarmi di chiarire con Jake.
Come se potessi scordarmelo.
Ludvig, ovviamente, tace – non lo biasimo, al suo posto mi odierei anch’io. Controllo ogni tanto il cellulare per vedere se si smuove qualcosa, ma niente. Solo ogni tanto Momo la psicologa che cerca di scrutare l’imperscrutabile, ovvero l’animo di Jake e il mio, ovviamente.

Dovresti uscire dalla tua tana, bussare alla sua porta e fare una chiacchiera a quattr’occhi, come si deve, come due persone normali, dire finalmente addio al passato e ricominciare da capo. Dai, come puoi ignorare uno che ti dice apertamente che non può stare lontano da te e che gli fai uno strano effetto? Perché è questo che ti ha detto, tontolona!

Ricevo il messaggino di Momo la domenica mattina. Ha perfettamente ragione, lo riconosco. Solo che non ha considerato una cosa: lei avrebbe il coraggio di farlo, io no. Sono una codarda e, per quanto ammetterlo non mi diverta affatto, è la pura verità.
Per un attimo, però, immagino cosa accadrebbe se riuscissi davvero a convincere i miei piedi ad andare di fronte a quella porta e bussare.
Mi immagino, in una scenetta idilliaca che la mia fantasia partorisce in barba alla mia mente provata dagli avvenimenti dell’ultima settimana, Jake che apre la porta di casa sua, sorpreso. I suoi genitori sono a casa, quindi usciamo, ci dirigiamo a piedi verso Regent’s Park, il nostro parco, e lì confessiamo tutto ciò che ci siamo tenuti dentro per tutti questi anni.
Lì, nella gelida brezza invernale che mi scompiglia i capelli, ammetto di essere stata una stupida egoista rancorosa, che in realtà il mio odio per ciò che è successo in quel lontano giorno d’estate è scomparso da un pezzo, solo che non me ne sono voluta rendere conto perché mi faceva comodo, che non c’è stato un giorno in cui non abbia rimpianto di non aver aperto la porta quando lui suonava per chiedere scusa, che non ho fatto altro che mentire, a lui e a me stessa, che non potevo perdonarlo perché era più facile così.
Gli direi che quel bacio alla festa di Amber era stato importante per me, e non solo perché era il mio primo bacio – che ne poteva sapere? – ma perché avevo percepito tutto ciò che le parole mai avrebbero potuto esprimere, e gli confesserei che mi sono sentita una stupida subito dopo, quando ho visto che baciava tutte le altre, poiché avevo creduto, per un attimo, che tra noi fosse diverso. E forse lui mi risponderebbe che è così, che tra noi è diverso, che non avrebbe mai voluto dire quelle parole in quell’estate lontana, che non ha mai saputo perdonarsi – be’, in parte queste cose me le ha già dette – e poi, chissà, magari mi bacerebbe di nuovo, stavolta senza birra e senza cerchio di ragazzi ubriachi, ma solo noi due, la neve e Regent’s Park.
Mi scrollo questa fantasia di dosso. Non accadrà mai.
Guardo fuori dalla finestra. La neve, bianca e compatta fino a qualche giorno fa, si sta sciogliendo in pozze poltigliose sporche di terra.

Lunedì non so da dove prendo il coraggio per presentarmi alle prove.
Mi vergogno come un ladro a stare lì, in mezzo a quei due ai quali devo entrambi delle scuse.
Ludvig neanche mi guarda in faccia e anche mentre balliamo è terribilmente assente. Mi do mentalmente dell’idiota ancora una volta.
Jake non ha un atteggiamento molto diverso, ma ovviamente lo ricollego a quanto è successo domenica scorsa, quando lui è esploso a quel modo e io non ho saputo fare altro che scappare.
Riproviamo tutto quanto, tutte le coreografie, e finiamo anche quella del tango, ma mi sento talmente male e talmente colpevole verso tutti e due che non faccio che sbagliare. Aspetto con ansia che rimaniamo solo io e Ludvig così possiamo… cosa, chiarire? Non saprei neanche cosa dirgli. Mi dispiace perché mi hai baciato e io ero talmente stupita e sorpresa da non essere in grado di dire niente? Andiamo, è patetico.
Eppure, quando la lezione con la Costance finisce, Ludvig dice un semplice “ho un impegno” e se ne va. Anche Jake se ne va senza aspettarmi.
Stavolta l’ho combinata proprio grossa…
L’indomani, dopo scuola, sono talmente depressa e abbattuta che mi viene l’idea di saltare le prove, ed è esattamente quello che faccio. La Costance mi chiama qualcosa come quindici volte, ma non rispondo mai.
Anzi, ripenso a quello che mi ha detto Momo stamattina, in pratica che me lo merito perché sono una stronza egoista e pure stupida.
Non solo ho dato la prova a Jake che non me ne frega nulla di lui quando invece non è affatto vero, ma ho anche perso l’amicizia di Ludvig. Secondo Momo io non avrei messo “i giusti paletti” con lui.
«Sì, insomma, se volevi che non accadesse niente del genere avresti dovuto mettere le cose in chiaro prima», mi ha detto stamattina.
Ma il punto è: lo volevo? È a questo che non sono in grado di rispondere. Non so io per prima cosa voglio, come posso dichiarare le mie intenzioni agli altri?
Forse sono stata un po’ troppo civetta con lui. Però non è giusto, finalmente qualcuno mi degna di attenzioni e io non dovrei sentirmi lusingata? Forse, nel mio inconscio, volevo che accadesse questo, per uno strano capriccio della mia femminilità. Anche se la mia testa vorrebbe tanto smentire queste accuse – no che non lo volevo, non mi ero nemmeno accorta di piacergli – ma sarebbero bugie. La verità? Non la so nemmeno io. Il fatto di piacergli era un tarlo che mi rodeva da un po’, mi chiedevo se non stessi interpretando in maniera sbagliata i segnali di quella che voleva essere una semplice amicizia.
E ora ho perso anche questo.
 
Gli occhi furenti della Costance mi fissano, il suo indice accusatore è puntato verso di me. Nell’imbarazzo più totale – una punizione meritata, per tutto quello che ho combinato – mi guardo le punte dei piedi, all’improvviso interessanti.
«Mancano solo tre settimane alla gara, non puoi assentarti così! Stai mettendo a rischio tutto il nostro lavoro! Devi ancora lavorare sulla seconda parte della coreografia del tango, non puoi assentarti e soprattutto senza dire niente e non rispondere alle chiamate!» si passa una mano tra i capelli, tremante.
Grossi lacrimoni minacciano di uscire dai suoi occhi.
«Scusatemi, ragazzi, sono molto stressata. E preoccupata. Ma io ho bisogno che voi mi aiutiate, lo capite, vero?» ci guarda implorante. Provo un’infinita pena per quella donna che si è ritrovata due disgraziati come me e Jake al posto di due ballerini così bravi come Imogen e Robert.
«Mi dispiace, prof. Avevo bisogno di staccare» mi arrendo.
La Costance singhiozza un altro po’, si asciuga gli occhi, batte le mani.
«Allora, dove eravamo rimasti?» chiede, con un sorriso un po’ forzato.
Riprendiamo la coreografia del tango dalla prima parte, che ricordo benissimo, prima di avventurarci sulla seconda (che non ricordo affatto).
Per di più oggi i ragazzi sembrano meno ostili nei miei confronti, ma forse è solo un’impressione dovuta al fatto che mi ci sto abituando.
Quando accendiamo lo stereo, però, succede una cosa strana. Anziché partire il nostro sfrenato brano di merengue, comincia una canzone diversa, strana. Mi sembra anche di averla già sentita da qualche parte, ma non ricordo dove.
Rimaniamo come congelati per un po’ prima che la Costance si riprenda e cominci a chiedere “che cos’è?” all’impazzata, mentre Jake si affretta a togliere il CD dallo stereo. Vorrei darci un’occhiata e capire che razza di canzone sia, ma sparisce dalla mia vista prima che riesca a fare qualcosa.
 
Stavolta Ludvig è molto più rilassato dell’altro giorno. Più disteso. Mi parla e mi guarda esattamente come se non fosse mai accaduto niente, come se quel bacio rubato proprio qui non fosse mai esistito. Poco alla volta, mi sciolgo anche io; sorrido addirittura.
Invece, con Jake, è tutto come prima, se non peggio. Guarda Ludvig con un’antipatia tale, durante il tango, che fatico a convincermi che è tutta scena e si sta solo immedesimando nel personaggio.
Su questo stesso pavimento dove sto ballando il tango, meno di una settimana fa, uno dei ragazzi più belli e interessanti e simpatici e gentili che abbia mai conosciuto mi ha baciata. Sento come se quel bacio sia marchiato sulla mia fronte come la A scarlatta sul petto di Hester Prynne, e mi sento stranamente in colpa.
Non nei confronti di Ludvig, ma in quelli di Jake.
Adesso non essere stupida. Che c’entra Jake con il bacio che ti ha dato Ludvig? Perché lui ha baciato te, non il contrario! Che hai da sentirti in colpa?
Logicamente parlando, come il mio alter ego gentilmente ricorda, non dovrei affatto sentirmi in colpa – non con Jake. Eppure, quel suo sguardo indagatore e accusatore insieme, così triste e arrabbiato e ferito… sembra quasi che lo sappia.
Sì, ma anche se lo sapesse… che gli cambia? Un altro ragazzo ti ha baciata, e allora?
Provo un brivido al ricordo dell’altro giorno, quando mi ha detto “non riesco a comportarmi normalmente quando ci sei di mezzo te”.
Forse l’ho ferito, baciando Ludvig, esattamente come lui ha ferito me quella sera a casa di Amber, baciando le altre ragazze, ripete la vocina nella mia testa, ma infine la scaccio via, concentrandomi sul tango.
Ludvig rimane anche per le nostre prove, anche se il suo atteggiamento è ancora un po’ freddino. Perlomeno mi guarda in faccia, però.
Non dice una parola riguardo a venerdì scorso, mi aiuta solo a ballare al meglio.
 
L’indomani è giovedì, un’altra settimana sta finendo e la gara è sempre più vicina.
Ma anche oggi succede una cosa strana.
Sto andando alle prove. Esco dalla porta di casa, e dall’altra parte del pianerottolo anche Jake sta uscendo. Dalla sua casa esce una melodia che non mi è nuova… è la stessa dell’altra volta, quella che è partita per sbaglio dallo stereo.
Per qualche motivo che non conosco, mi si secca leggermente la gola. Che stia diventando paranoica?
«Non lo spegni lo stereo?»
«Angela sta ascoltando la musica» risponde, un leggero guizzo negli occhi chiari.
Mi sento sollevata dal fatto che mi abbia risposto, vuol dire che non tutto è perduto. Peccato che poi si azzittisce e non dice una parola fino a scuola.
E soprattutto, ho ancora il nodo della melodia misteriosa da sciogliere. Dov’è che l’ho sentita?
 
Stiamo ballando. Apparentemente non succede niente di particolare, ma vengo folgorata da un’illuminazione.
So dove ho sentito la melodia. Dove l’ho sentita la prima volta. La suoneria di Momo.
E poi l’ho risentita quel giorno stesso, mentre Momo si sfilava le cuffie.
E di nuovo mercoledì, lo stereo. E a casa di Jake, prima.
Devo assolutamente sapere qualcosa di più su questa canzone. Se la sento di continuo, ci deve essere un motivo, un segno del destino, la Provvidenza, non lo so.

A casa, davanti al computer, faccio mente locale riguardo alle poche parole che, in quattro ascolti in quattro diverse situazioni, sono riuscita a captare. Qualcosa come “desert”, “fight”, “way”.   
Scrivo quelle poche parole sul browser di ricerca, incrociando le dita. Spero davvero di trovare qualcosa, con così poche informazioni.
E qualcosa, infine, trova. The Way it Was, The Killers. Non conosco questo gruppo, ma mi pare che Momo me ne abbia parlato qualche volta. Forse mi ha parlato di una canzone che si chiama tipo Mr. Brightside o qualcosa del genere.
Metto le cuffie e premo play.

I drove to the desert last night.
I carried the weight of our last fight…

Allora vedi che il deserto c’era, e la lotta pure.
If I go on with you by my side, can it be the way it was when we met?
Did you forget all about those golden nights?

Quelle parole scavano un piccolo solco nel mio petto, mi ricordano tutto quanto è successo con Jake. A parte le golden nights, mi ritrovo abbastanza in quelle parole.
Maybe a thief stole your heart
or maybe we just drifted apart.

Be’, non è stato così semplice tra noi, caro il mio… com’è che si chiama? Brandon Flowers. Affatto.
Darling, darling,
If I go on with you by my side, can it be the way it was?
My heart is true, girl, is just you I’m thinking of.
Can it be the way it was?

Senza che possa fare niente per fermarla, una lacrima scende lungo la mia guancia. Chiudo gli occhi, nascondendomi la testa tra le mani.
È troppo tardi per tornare indietro? Voglio tornare indietro. E stavolta andrò fino in fondo.
Apro gli occhi. Finalmente, so che cosa devo fare. 



Ludvig – Lupo

Idiota.
Mi prendo la testa tra le mani.
Idiota.
Sbuffo.
Idiota.
Sbatto con violenza un pugno sulla mia scrivania.
Dovevi proprio rovinare tutto? Che razza di idiota.
Non avrei dovuto. Che mossa stupida.
Non era il momento giusto per baciarla, lo sapevi e lo hai fatto lo stesso. Bravo coglione.
Cerco di ignorare queste parole che mi stanno facendo infuriare.
Sai che sono vere, cretino.
È ovvio che lo so. Come se non lo sapessi, come se non me ne rendessi conto. Come se non mi fossi accorto di essere stato un cretino di massimo livello.
Dovevi proprio baciarla in quel momento?
Sì, in quel momento esatto e tu non sei in grado di capire perché!
Ora come ora, posso dire che forse non avrei dovuto, ma cosa ne potevo sapere che l’avrei spaventata?
Forse potevi fartela, la domanda, idiota!
Va bene, d’accordo, lo ammetto, non pensavo sarebbe successo.
Mezza pinta di modestia no, eh?
Uff… Che c’entra la modestia? Non intendevo questo. Semplicemente, non pensavo sarebbe successo perché non lo pensavo, punto.
E a cosa pensavi, di grazia?
Di certo non alla possibilità di spaventarla. Pensavo… non lo so neanche io a cosa pensavo. Pensavo che era il momento giusto e stavolta non c’era nessun italo-irlandese in mezzo a rompermi le uova nel paniere!
Oh, spiegato tutto. Ti senti minacciato, eh?
No, non minacciato. Sfidato, sì. E di certo non ho alcuna paura di affrontarlo.
 
Oggi alle prove Alex non c’è.
La prima cosa che penso è che sia colpa mia. E di mia madre.

Perché mia madre? Per capirlo, dovrò prima dirvi per bene cosa è successo.
Sabato, pomeriggio. Io sono ancora in fase di meditazione/rimprovero post-bacio-nel-momento-sbagliato. La mia sorellina Annika, dieci anni, entra come sempre senza bussare in camera mia.
«Lud, perché stai qui dentro al buio?»
«Perché devo riflettere e non voglio vedere nessuno, quindi fuori dai piedi».
Risposta sbagliata. Vedo il suo mento tremare, gli occhi farsi lucidi e capisco che ho innescato una reazione  molto pericolosa.
«MAMMA!» grida lei.
Mia madre arriva di corsa, mentre Annika attacca a piangere e spiega il mio misfatto, facendomi sentire un verme indegno di vivere.
«Va bene, piccola mia. Adesso vai giù e non pensare a questo cattivone, perché a lui ci penso io». Manda Annika in cucina e mi si piazza davanti con le mani sui fianchi, e non ho bisogno di parole per capire che vuole una spiegazione.
Così le dico tutto. Tutta la mia frustrazione riversata sopra le sue forti spalle di madre. Le racconto il mio errore vergognandomi come un ladro.
«Ho baciato una ragazza. Il problema è che non era il, diciamo, il momento giusto» confesso.
Mia madre, inspiegabilmente, sorride.
«Figlio mio, a questo non c’è rimedio, temo che sia parte del tuo DNA. Perché neanche tuo padre mi ha baciata al momento giusto, sai? Tale padre, tale figlio» ridacchia.
«Sì, d’accordo, se devi prendermi in giro puoi anche andartene»
«No, voglio aiutarti. Sul serio. Davvero non era il momento giusto?»
«A quanto pare no, visto che non ha detto una parola»
«Magari era solo sorpresa. Magari non se lo aspettava».
Sgrano gli occhi.
«Come sarebbe a dire, “non se lo aspettava”? È chiaro come il sole che mi piace!»
«Forse non così chiaro»
«O forse io, diciassette anni, sono una frana con le ragazze, e un ragazzino di terza media mi riderebbe in faccia. Quest’ipotesi è anche peggio» nascondo il volto tra le mani.
Stai facendo la ragazzina.
Lo so, ma sono al limite.
«Su, su. Tutto si aggiusterà. Se vuoi un consiglio, lasciale i suoi spazi: lasciala riflettere per un po’. Se è vero che non se lo aspettava, avrà bisogno di un po’ di tempo. Non sa come comportarsi con te, esattamente come tu non sai come comportarti con lei».
La guardo.
«Da quando saresti così saggia?»
«Da quando tuo padre ha fatto la stessa cosa. E ti dirò un’altra cosa. È patologicamente attestato che le donne preferiscono gli stronzi». Detto questo, esce dalla mia stanza.
Che vuol dire, che devo fare lo stronzo? Non ne sono capace!
Oh, sì che lo sei. Basta poco, non devi certo diventare un flagello per quella povera ragazza.
 
E così lunedì sono stato un po’ freddino con lei. Forse troppo. E sono andato via senza rimanere a fare le prove con lei – e da una parte anche il non-stronzo che è in me approva, visto che sarebbe stato imbarazzante essere di nuovo a tu per tu dopo così poco tempo.
Tuttavia,  quando martedì non si presenta, il mio primo pensiero è di aver esagerato con il distacco.
Grazie, mamma.
Il mio primo impulso è quello di correre da lei e chiederle scusa, e invece non le invio neanche un messaggio.
O’Brian mi guarda con astio. Con qualche arte mantica a me sconosciuta avrà scoperto che ho baciato Alex.
Sì, l’ho baciata! Ho baciato una ragazza che mi piace e che, ci scommetto quello che vuoi, piace anche a te! Problemi?
Quanto vorrei dirgli queste parole in faccia!
E invece niente, mi tocca stare qui a ricordargli tutti i passi dei balli latini.
Nei suoi occhi leggo la sfida. Mi sta sfidando. Mi guarda come un lupo che ringhia al membro di un altro branco.
Sostengo il suo sguardo, azzurro contro grigio. La sua arroganza mi manda in bestia.
Così in bestia che, a lezione finita, aspetto solo che la Costance vada via prima di affrontarlo.
«Qualche problema?» ringhio, prima di andare via.
«Uhm, vediamo. No, a parte il fatto che hai baciato la ragazza che per me è più importante di qualsiasi cosa, nessun problema».
I suoi occhi gelidi mi trapassano da parte a parte. Di nuovo agisco d’impulso, inferocito dal suo atteggiamento arrogante.
«Se è così importante per te, potevi pensarci prima di farle del male». O’Brian ha come un blocco.
«Che ne sai di questa storia?» mi chiede.
Non mi lascio intimidire.
«Abbastanza da sapere che lei ha troppa paura di fidarsi di te».
Temo di aver toccato un tasto dolente.
Il lupo ferito se ne va zoppicando, ma il suo ultimo sguardo non è di sconfitta, è un avvertimento.
Non finisce qui.  




***
Angolo autrice

Ehilà! Sono tornata! E presto, come promesso, anche se avrei voluto aggiornare prima, ma l’extra mi ha richiesto più ore di quanto avessi previsto. Finalmente Alex sta prendendo una decisione e la porterà avanti, costi quel che costi. È una sorta di gara, anche, tra Ludvig e Jake: chi là spunterà?
Questo e altro nei prossimi capitoli che (spero) arriveranno presto.
Se volete sentire questa canzone profetica che mi ha spezzato il cuore la prima volta che l’ho sentita – e che mi ha dato l’ispirazione per il capitolo – cliccate qui.
Ringrazio come sempre tutti coloro che recensiscono/seguono/preferiscono/ricordano (non sapete quanto mi rendete felice!).
Alla prossima!
-H

 

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Capitolo 18
*** Calamite e fiori nella neve ***


18. Calamite e fiori nella neve
                                                                                                                                                                                                               A volte le ali di una piccola farfalla
                                                                                                                                                                                    possono smuovere il cielo di domani.

 
So cosa devo fare, è vero. Il problema è come.
Come posso fare? Come posso rimediare?
Cerco di individuare una strada da seguire. La prima cosa in assoluto da fare, tanto con Jake quanto con Ludvig, è chiarire. Ma con quale dei due per primo?
Allora, vediamo un po’. Jake non mi parla quasi, a malapena mi guarda in faccia. Ludvig sembra essere passato sopra quanto successo, ma ritirare fuori l’argomento metterebbe in imbarazzo sia lui che me e fosse per me eviterei di parlarne quanto più possibile. Tuttavia, lui è molto più alla mano di Jake, per cui potrebbe anche essere più semplice del previsto chiarire.
Chiarire… chiarire cosa?
Bella domanda. Sono io, prima di tutto, che devo chiarire con me stessa riguardo a ciò che provo.
Cosa provo per Ludvig?
Affetto, certo. Mi piace stare con lui. È un ottimo amico. È divertente, interessante, ma… è un amico. Non penso di poterlo vedere sotto quel punto di vista.
La metà delle ragazze della scuola mi darebbe della pazza. Un ragazzo bello e intelligente come lui è interessato a una come me e io che faccio? mi tiro indietro.
Ma credo che il punto sia proprio questo. Ludvig è… perfetto. Forse troppo, per una come me che di difetti ne ha a bizzeffe. Siamo simili, in tante cose, e forse è questo che non va, che mi spinge ad allontanarmi. Come le calamite.
Siamo come due calamite con i poli uguali: il massimo che riusciamo a fare è avvicinarci, ma non riusciremo mai a toccarci per davvero. Siamo simili, e io ho bisogno di qualcuno che sia diverso da me. Qualcuno come Jake.
Perciò parlerò con Ludvig. Metterò in chiaro che io voglio che restiamo amici e che mi è dispiaciuto non aver detto una parola dopo il bacio ma ero… sorpresa? Spaventata? Non lo so nemmeno io.
Risolvere questo nodo è relativamente facile, almeno a parole. Devo trovare il momento adatto, e ultimamente ho preso gusto a trovare sempre il momento sbagliato per fare le cose.
Ho bisogno di aiuto.
 
Venerdì mattina, a scuola, ne parlo con Momo.
«Ieri sera ho capito tutto, Momo» le dico.
«Ah sì?» ribatte, e la vedo impallidire leggermente mentre lo dice, ma non ci bado troppo.
«Sì. Ho capito che posso ancora fare qualcosa, posso tornare indietro. Posso aggiustare tutto, lo capisci?» la gioia nella mia voce si sentirebbe a chilometri di distanza.
«Sono felice per te, Alex. Ma come hai intenzione di agire?»
«Ecco…» l’entusiasmo si sgonfia come un palloncino bucato «speravo che su questo punto tu volessi darmi una mano».
Momo rimane zitta per qualche secondo, prima di sbottare.
«Ah no, basta. Io ho provato a dirtelo secoli fa, e tu non mi hai ascoltata. Continuavo a dirti di passarci sopra e ricominciare, e tu niente, sempre quella tua dannata indecisione e quel tuo rancore di mezzo. Ora sei nei pasticci, ti ci sei infilata da sola e da sola devi uscirne: io ti avevo avvisato prima che fosse troppo tardi». Sembra pentirsi di quelle parole dure, ma non cede. Io spalanco gli occhi e provo a supplicarla, ma niente.
«Almeno dimmi secondo te che parole dovrei dire a entrambi»
«No. Anche perché sinceramente non ne ho idea. Forse dovresti dire quelle che detta il tuo cuore».
Bella frase, ma non ho idea di come capire ciò che sussurra il cuore.
Il problema è anche trovare  il momento adatto: parlarne a scuola, con tante orecchie indiscrete in giro, è fuori discussione, ma anche durante le prove è impossibile, visto che la Costance non solo ci impedisce di parlare («La gara è imminente e dovete concentrarvi al meglio») ma ha cominciato anche a rimanere alle prove che facciamo io e Ludvig. Non ci lascia neanche il tempo per respirare.

Il weekend lo passo, come al solito, dentro casa. Momo e Sean mi avevano chiesto se volessi uscire con loro, ma reggere il moccolo non è esattamente il mio ideale di sabato pomeriggio: a questo punto preferisco restare a casa a lambiccarmi il cervello sul famoso momento giusto. Forse avrei potuto chiedere a Ludvig di uscire questo sabato, ma ho paura che lo prenderebbe come una sorta di appuntamento, e non lo è, affatto. Non voglio che fraintenda, chissà, metti che peggioro la situazione.
Pff, sentitela. La smetti di darti tante arie? Magari anche lui si è reso conto di aver sbagliato di grosso. Magari è stato solo l’impulso del momento, che ne sai. Forse non vuol dire niente.
Oh, vero. Non avevo considerato questa possibilità. A maggior ragione devo parlarci: se anche per lui è stato solo un momento, mi rende tutto molto più facile.
Ma se invece non fosse così? Se a lui piacessi davvero e io gli chiedessi di restare solo amici, che certezza ho che rimaniamo davvero amici? Che non cercherà di evitarmi come la peste se mi incrocia nei corridoi? Che faticherà a guardarmi negli occhi mentre balliamo?
Il ballo mi ricorda una cosa importante.
Non posso permettere che il rapporto tra me e Ludvig si rovini o peggio, scompaia. Se smettiamo di fidarci l’uno dell’altra e di essere amici, non riusciremo a trovare armonia nel ballo, se non c’è armonia balleremo male. Già con Jake sono super rigida, non serve rovinare tutto anche con Ludvig.
Dovrei quindi parlarci dopo la gara? Ma mancano ancora due settimane! Non posso lasciare le cose appese ad un filo per così tanto tempo. Nel frattempo potrei perderli entrambi.
A maggior ragione devo parlargli subito, sperando che in due settimane gli passi qualsiasi reazione che le mie parole scateneranno.
Devo parlargli, il prima possibile.

Lunedì. Ho solennemente giurato di non parlarne con Ludvig a scuola, ma la tentazione è davvero forte.
Momo chiede aggiornamenti.
«Allora? Che cosa farai?»
«Parlerò a Ludvig. Oggi pomeriggio, dopo le prove, se ci riesco».
«Bene. Cosa gli dirai?»
«Gli dirò che è un ragazzo speciale e gli voglio bene, ma come amica. Niente di più»
«Cosa hai intenzione di fare se lui non dovesse prenderla bene?»
«In che senso?»
«Non saprei, questo dipende da quanto lo conosci. Immagina se è uno del tipo “se non la posso avere io nessuno può”, potrebbe reagire male, sai» dice Momo.
Sbuffo.
«Sii ragionevole. Non è quel tipo di ragazzo. Sono sicura che mi capirà, non reagirà in nessun modo strano. Al massimo, se per lui è stato molto importante, si offenderà un po’, e mi dispiacerà, ma non è il ragazzo giusto per me»
«Pensala come vuoi ma, per l’amor del cielo, stai attenta»
«Non è mica un serial killer psicopatico, sai» ribatto, piccata.
«All’inizio nessuno lo sembra»
«Ma se sei stata tu a dire che era un tipo a posto!»
«Lo so, ma… non si sa mai»
«Ho il corso di difesa personale dalla mia parte, ti ricordo»
«Sì, ma lui è più alto di te e più forte e…»
«Momo, smettila. Stai farneticando. Non succederà niente del genere, fidati». Non capisco tutto questo accanimento. «Ludvig è una persona gentilissima, non farebbe del male ad una mosca, figurarsi a una persona. E scommetto che non è geloso… dopotutto è Acquario» dico, ostentando un ragionamento logico.
«E questo che c’entra?!»
«Be’, Jake è Scorpione. È lui il geloso. Lo hai detto tu stessa un po’ di tempo fa, che forse era geloso»
«Ma ti ascolti? Mi parli di segni zodiacali! Farò finta di non aver sentito quest’ultima parte del discorso…» conclude, scuotendo la testa.
Non sono mai stata superstiziosa, ma ai segni zodiacali un po’ faccio affidamento – solo un po’. Mi piace pensare che la mia pigrizia è dovuta al fatto che sono Bilancia e non posso farci niente se sono nata a fine settembre. Sì, è solo un modo per giustificarsi, ma…


Prima delle prove, la Costance mi piazza davanti due custodie per abiti.
«Guarda un po’ cosa è arrivato stamattina!» mi saluta, tutta contenta.
Trattengo il fiato. I dannatissimi abiti per la dannatissima gara.
«Su, su, provali. Dobbiamo vedere se bisogna apportare delle modifiche oppure vanno bene così come sono».
«Provarli ora? Qui?» getto un’occhiata di sbieco alla porta della palestra che proprio ora viene varcata da Ludvig e Jake.
«Sì, qui, ora e senza discutere, vai nello spogliatoio» ribatte, glaciale. Prendo le custodie con rassegnazione, ma alla fine la prof sussurra qualcosa.
«Se non vuoi che loro ti vedano, scendo io giù tra un po’».
Tiro un sospiro di sollievo e scendo le scale.
Tiro fuori gli abiti dalla custodia. Okay, in foto quello azzurro sembrava più lungo, ma magari siccome sono bassa mi sta davvero più lungo. Speriamo.
Lo infilo titubante e mi guardo allo specchio (che lusso, lo specchio negli spogliatoi della palestra!).
Dio, sono proprio ridicola con questo ridicolo pezzo di stoffa addosso. Però, in quanto a taglia, mi sta bene, e sospiro di sollievo: temevo che non mi sarebbe mai entrato.
Sento bussare e la Costance fa capolino dalla porta.
«Permesso? Mi pare ti stia bene» dice, entrando e cominciando a girarmi intorno.
«Forse va ripreso un po’ qui, ma per il resto va bene, proprio bene». Poi esce, dicendomi di provare l’altro.
L’abito nero è più semplice, più sobrio, eppure lo trovo più bello dell’altro. Forse è per via della gonna un po’ sfrangiata…
L’unica cosa che mi scoccia – di entrambi gli abiti – è la quantità di pelle che mi lascia scoperta. Specialmente le gambe. E la schiena. Con la ciccia ben visibile agli occhi del mondo.
Mi copro il volto con le mani. Non posso andare da nessuna parte conciata così! Cosa pensavo di fare? Avrei dovuto dire di no prima che tutta questa follia cominciasse. Forse, insistendo, sarei riuscita a scamparla.
Forse, se mi ritirassi adesso…
La Costance ti odierà, Ludvig penserà che sei una codarda e Jake penserebbe che è colpa sua e lo perderesti per sempre. Non se ne parla, ora sei in ballo – ironia della sorte – e devi ballare. Senza discutere.
Tolgo le mani dalla faccia, ricaccio indietro le lacrime che minacciavano di uscire. Il mio sguardo davanti allo specchio è determinato, sicuro. Basta fare la bambina: ho preso un impegno e lo porterò fino in fondo.
«Ma ti sta d’incanto!» la Costance entra nella stanza, soppesandomi con lo sguardo carico di approvazione.
«Come te lo senti? Ti ci puoi muovere in libertà?».
Considerando quanto mi lascia scoperta, mi sorprenderebbe se non fosse così, vorrei rispondere, ma invece mi limito ad annuire. In effetti è comodo. Provo al volo il passo base con un partner invisibile – lento, lento, veloce, veloce, lento – e mi riesce facile come se indossassi dei leggings. 
«Bene, benissimo. Ora cambiati e vieni su, che proviamo».
Mi lascia sola e mi cambio. Quando vado su a provare, c’è una nuova determinazione in ciò che faccio.
Non ho assolutamente intenzione di far fare brutte figure alla Costance. Se devo perdere, perderò con stile.
E in effetti mi sento molto più sicura di me. Non ho più paura di sbagliare o di dimenticare i passi – li so, li conosco, li ho provati milioni di volte e li so fare, avere paura di dimenticarli è stupido. È come avere paura di dimenticarsi di come si va in bicicletta. Anche se la mia mente dovesse dimenticarlo, il mio corpo non lo farà, non mi tradirà, non mi farà cadere dalla bicicletta.
Così come non mi farà fermare nel bel mezzo della pista da ballo.
Credo che Ludvig abbia notato la mia nuova sicurezza, perché fa un mezzo sorriso mentre balliamo.
 
Dopo le prove, cerco di fermare Ludvig.
«Senti, possiamo parlare?» gli chiedo, bloccandolo sulla soglia.
«Scusami, ma oggi devo proprio scappare, ho le prove al Blue Theatre» mi dice.
«Ah, già! Come va? Quando è il saggio?»
«Tutto bene, per ora. Il saggio è a fine maggio, quindi la gara è salva… per un bel po’ ho temuto che i giorni si sarebbero sovrapposti, sai?». Sembra sollevato.
«Meno male che non è così» ribatto, non sapendo che altro dire.
Mi guarda in un modo strano, come se si aspettasse che dica qualcos’altro. In un modo che mi fa arrossire.
«Scusami, ti sto… facendo perdere tempo. Vai, buone prove»
«Allora ci vediamo domani» dice. E fa qualcosa che non mi aspetto, stampandomi un bacio veloce sulla guancia, poi si gira e se ne va mentre io faccio un saltino all’indietro, perché quel bacetto sulla guancia era parecchio vicino alle labbra.
 
Una volta a casa, mi prendo la testa tra le mani.
Dai, era solo un bacetto innocente. Ci si saluta così, ricordi?
Sì, ma…
Ecco… adesso cominciano i guai.
Insomma, perché? Non mi ha mai salutata così prima d’ora. Che vuol dire?
Gli amici si salutano così, cretina.
Sì, va bene, d’accordo, ma…
“Ma” cosa? Non c’è nessun “ma”. Ti ha salutata.
Lo so. Infatti non è quello il problema. Il problema è il fatto che mi basta stare solo vicino a lui, basta solo uno sguardo o un bacetto sulla guancia per mandarmi fuori di testa.
Non è giusto, non può rovinare la mia determinazione in questo modo. È… crudele.
Non dirmi che hai cambiato idea, per favore!
No. Non lo so. Non credo. Solo che mi confonde le idee, e le mie idee sono già abbastanza confuse senza che ci si metta pure lui e i suoi bacetti sulle guance, o i suoi dannati sguardi che mi fanno arrossire.
Basta, basta, basta! Smettila di pensarci, o peggiorerai le cose. Domani ci parlerai, gli dirai chiaramente che vuoi essere sua amica, ma niente di più, che quel bacio era sbagliato. Chiaro? E guai a te se non lo fai.
Come se fosse facile…
 
Per tutto il giorno cerco di trovare le parole da dire, ma purtroppo non riesco a focalizzare che due scene: quel bacio di venerdì e l’ambiguo bacetto sulla guancia di ieri. Come faccio a cancellarli?
Sta di fatto che quando finalmente finiamo le prove non riesco a spiccicare una parola e torno a casa di corsa.
Ma che razza di stupida!
Sì, lo so, non sarei dovuta andare via, ma cosa posso farci?
Cosa puoi farci? Puoi smetterla di trovare una scusa per procrastinare ogni volta che si presenta il momento di parlare e sputare quelle parole che, ci scommetto, non ti va proprio di dire!
Ma non lo faccio apposta… o forse sì? È probabile, ma sono perlopiù coincidenze! Non è colpa mia!
No, certo che no… però queste “coincidenze” continueranno finché non ti deciderai a parlare chiaramente… e non solo con Ludvig! Quando hai intenzione di parlare con Jake? Se non riesci a parlare con Ludvig in pochi giorni, non oso immaginare quanto ti ci vorrà per parlare con il tuo vicino di casa…
Okay, adesso stai diventando pesante. Parlerò con Jake non appena avrò finito con Ludvig.
Se finirai con Ludvig, oserei dire…
Ma sì che finirò! Domani ci parlo. Giuro che domani ci parlo.
 
«Allora? Come va l’operazione chiarimento?» mi chiede Momo a scuola, l’indomani.
«Bene» mento. Non ho proprio voglia di dirle che ho miseramente fallito.
«Davvero? A che punto stai? Hai chiarito con Ludvig?»
«Certo»
«L’ha presa male?»
«No, cioè, credo di no…» balbetto. Momo mi lancia una delle sue famose occhiate inquisitorie.
«Non me la racconti giusta. Non ci hai parlato, vero?».
Era inevitabile che non l’avrebbe bevuta. Momo non è una stupida.
Faccio cenno di no con la testa.
Fa l’espressione più esasperata che abbia mai visto sulla faccia della terra.
«Ma com’è possibile? Perché? Sarà solo peggio, se continui ad aspettare!»
«Lo so, ma…»
«Come sarebbe a dire “ma”? Non c’è nessun “ma”! Vai e parlaci il prima possibile!»
«Tu non capisci… non è così facile»
«Oh, dai, non è difficile, ci sono passata anche io»
«Okay, forse per te è facile, ma per me no, okay? Io non sono come te, per me è difficile. Non è una cosa che riesco a fare su due piedi, ci devo riflettere. Anche perché è difficile riflettere su come dire a una persona di restare solo amici quando quella persona sembra farti ancora un certo effetto» sbotto.
«Certo effetto? Quale certo effetto? Perché non me l’hai detto?»
«Sai com’è, cose come arrossire ogni volta che incroci il suo sguardo e passare ore a riflettere a causa di uno stupidissimo bacetto sulla guancia che non era esattamente sulla guancia» sbotto alla fine.
«Oh, no, Alex. Non ci siamo. Ci devi parlare, assolutamente». Ha una faccia talmente preoccupata che non posso fare a meno di chiederle cosa c’è che non va.
«C’è che non va che so cosa sta facendo. Sta aspettando. E nel frattempo sonda il territorio»
«Be’, non è mica colpa sua se sono così stupida da arrossire. E in che senso sonda il territorio?»
«Credo che stia cercando di capire se ti piace. Se può continuare a provarci con te o è meglio lasciar perdere, se è tempo sprecato. Quanta libertà gli lasci».
«E a quali conclusioni potrebbe essere giunto?»
«Cosa vuoi che ne sappia? Non sto nella sua testa, non ho idea di come ragioni. A differenza di quanto si crede, i ragazzi non ragionano tutti allo stesso modo».
«Però, a seconda di quanto hai detto, se non gli parlo…»
«…continuerai a dargli false speranze» Momo conclude la mia frase.
«Non voglio che accada» dico sinceramente.
«E allora parlaci!» esclama Momo mentre mi spinge in classe, alla fine della ricreazione.
 
Jake, nel frattempo, mi evita del tutto. Era meglio quando mi faceva gli scherzi e mi prendeva in giro. Questo silenzio è devastante.
Lo incrocio sul pianerottolo, prima di andare alle prove. Mi pare l’occasione giusta per “sondare il territorio”, come direbbe Momo.
«Ehi»
«Ciao» risponde senza entusiasmo.
Cerco di pensare a qualcosa, qualunque cosa da dire che mi salvi da questo silenzio gelido.
«Come va?». Pessima idea, pessima idea.
Smette di camminare e si gira verso di me, guardandomi dritto negli occhi.
«Sul serio, Alex? Me lo devi chiedere?».
Perché mi attacca? Non ho fatto niente!
«Mi sembrava carino fare conversazione, ma forse è meglio lasciar perdere».
Non capisco perché ce l’abbia a morte con me. È ancora per domenica scorsa? Quando sono praticamente fuggita da casa sua? Non voglio affrontare questo discorso adesso.
E poi, dopo una cosa del genere uno dovrebbe essere arrabbiato con se stesso, non con gli altri. E invece lui è arrabbiato proprio con la sottoscritta.
Ma che ho fatto di male?
Di nuovo mi viene da pensare che lui sappia tutto del bacio con Ludvig.
Ma non è possibile. C’eravamo solo io e lui, quel venerdì.
Qualcuno potrebbe averglielo detto, ma perché? Non ha senso.
 
Così, dopo le prove, prendo coraggio e blocco di nuovo Ludvig, prima che se ne vada via.
«Ti prego, possiamo parlare?»
«Va bene». Usciamo da scuola e vaghiamo senza meta, mentre cerco le parole da dire.
«Di cosa volevi parlare?» mi chiede, con quel suo sguardo sincero e senza ombre che mi fa arrossire.
«Di venerdì».
Ammutolisce, arrossendo. Se non fossi così agitata, la situazione sarebbe anche un po’ comica.
«Senti, io…»
«No, non dire niente, lascia perdere, sono stato un cretino. Mi dispiace, non avrei dovuto farlo»
«E a me dispiace di non aver detto niente, ma ero così sorpresa, non sapevo cosa dire…»
«È stato un gesto avventato, ti ho messa in difficoltà, me ne sono reso conto»
«Sì, ma adesso complichi le cose» mi esce di getto e lui mi guarda stupito.
«Perché? Mi sto scusando, non è la cosa giusta da fare?»
«Dipende. Come devo interpretare le tue scuse?»
«Non ti seguo»
«Ti stai scusando, ma come devo interpretarlo? Potrei offendermi, con tutte le scuse che mi hai fatto» dico, non del tutto sicura delle parole che escono da quel forno che è la mia bocca.
Riflette un attimo prima di parlare, poi smette di camminare e mi guarda dritto negli occhi, esattamente come Jake poche ore prima.
«Pensi che mi stia scusando perché mi è dispiaciuto averti baciata?»
«Non so, magari in quel momento pensavi che ti piacessi e invece non è così…» balbetto, arrossendo e sentendomi sempre più stupida ogni momento che passa.
«Fammi capire, pensi di non piacermi?»
«Non capisco perché dovrei piacerti»
«Non capisco perché non dovresti. Non mi dispiace averti baciata. Neanche un po’. Veramente lo rifarei, anche adesso, se sapessi che me lo lasceresti fare». Mi perdo per un attimo nei suoi occhi turchini prima di realizzare le sue parole.
«Se non ti è dispiaciuto, di cosa ti scusi?»
«Mi dispiace per tutto ciò che è successo dopo. Sai, forse non era il momento giusto, a giudicare dal tuo silenzio. Quindi, la mia scusa completa è: mi dispiace di averti baciata… al momento sbagliato».
Sembra molto sollevato dopo che ha detto queste parole, io invece sono ancora più confusa di prima. Perché vuol dire che gli piaccio. Vorrei chiedergli una conferma, mentre riprendiamo a camminare.
«Come fai a sapere che non te lo lascerei fare?» gli chiedo invece e lui fa un sorriso amaro.
«Facile. O’Brian».
Rimango impietrita per un attimo, fermandomi.
«Cosa c’entra Jake?» chiedo cautamente, dopo un po’.
«Non sono cieco, Alex. A volte sono un idiota, ma non cieco».
«Continuo a non capire»
«Il modo in cui ti guarda. In cui vi guardate a vicenda. È ovvio che c’è qualcosa in sospeso sotto»
«No, non c’è assolutamente niente»
«Non mentirmi, Alex. Tu provi qualcosa per lui, si vede. Puoi mentire a me, ma non a te stessa»
«Non è così, io…»
«Lo so che in passato è successo qualcosa tra voi e non voglio sapere cosa, non voglio impicciarmi. Solo… non pensare che mi arrenderò tanto facilmente».
Lo guardo stupita, mentre riprende a parlare.
«Cercherò in ogni modo di continuare a stare con te. Finché c’è una piccola possibilità, non mi arrenderò. Dovrai dirmi in faccia che mi odi per farmi smettere di voler stare con te»
«Perché?» è tutto ciò che riesco a dire.
«Perché mi piaci. E mi piaci perché sei speciale, Alex. Sei… diversa. Sei te stessa. Sei forte e non permetterai mai a nessuno di dirti cosa fare».
Lo guardo con tanto d’occhi, incapace di replicare.
«Perciò sì, lo so che prima di me c’è Jake, ma io non mi arrendo comunque».
Guarda l’orologio.
«Devo andare a casa. Ci vediamo domani» dice, lasciandomi confusa e con un altro ricordo dei suoi dannati bacetti ambigui.
 
Torno a casa, cercando di fare chiarezza. Come faccio a respingere uno che mi ha detto delle cose così carine?
Gli piaccio. Gli piaccio perché sono speciale. Quante volte ho sognato di sentirmi dire queste parole?
Troppe, da che io ricordi. Colpa di tutte quelle schifezze romantiche che si vede mia madre quando papà va al bowling con i suoi amici, un paio di volte al mese.
La neve mezza sciolta per strada mi mette tristezza. È uno spettacolo a dir poco squallido, quelle pozze mezzo disciolte tutte nere di terra e polvere. Ce n’è una grande proprio sotto casa mia.
Eppure qualcosa attira la mia attenzione. Al centro della pozza, dove c’è un ultimo rimasuglio di neve compatta, si erge solitario un fiorellino bianco a forma di campanella. Un bucaneve.
Guardo meravigliata il piccolo miracolo della natura. Il fiore che cresce nella neve. Anche in uno spettacolo squallido come questo può esserci qualcosa di bello – fragile all’apparenza, ma estremamente forte se nasce nella neve. Anche quando il gelo ferma ogni forma di vita, questa piantina tenace se ne infischia e preannuncia la primavera, fregandosene del fatto che se c’è la neve la primavera è lontana.
Penso alla situazione tra me e Jake, “congelata” da quel lontanissimo giorno d’estate. Non è vero che non c’è speranza. Magari anche lì c’è un bucaneve, solo che non l’ho visto. Devo guardare con più attenzione, prendermene cura.
Devo parlare con Jake, prima che quel piccolo fiore appassisca senza sbocciare.


Eppure i giorni passano, senza che io riesca ad agire come si deve. Non fa che evitarmi, ma non può farlo per sempre.
Ludvig non molla, fregandosene delle occhiatacce che ogni tanto – cioè sempre – gli lancia Jake.
E io cerco di sopravvivere tra questi due fuochi, cercando di non pensare alla gara imminente.

Mi sveglio nel cuore della notte, non sono neanche le cinque del mattino. È oggi.
Il giorno della gara è arrivato.

 



***
Angolo autrice
Salve a tutti! Come state? Perdonate l’assenza, ma sono stata fuori casa (senza contare la mancanza d’ispirazione, ma per quella basta aspettare il momento giusto). Come al solito ringrazio tutti coloro che recensiscono/preferiscono/seguono/ricordano, in particolare un grazie a Clock (come farei senza di te?) e la gentilissima gently89, che ringrazio moltissimo per il suo sostegno.
Siamo ormai agli sgoccioli. Anche questa storia è quasi finita…
Allora, vi siete divertiti a vedere la povera Alex tentare di barcamenarsi tra questi due… schizofrenici?
Il giorno della gara è arrivato, ma Alex non ha ancora chiarito con Jake: cosa succederà sulla pista da ballo?
Stay tuned!
Heart

P.S: cercherò di essere puntuale, giuro che ci proverò…

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Capitolo 19
*** Schizophrenic playboy ***


19. Schizophrenic playboy
Un comportamento all’apparenza autodistruttivo
può essere in realtà un’azione a fin di bene
ritortasi contro chi l’ha fatta.
 

È domenica, ma abbiamo già deciso di vederci con la Costance per riprovare tutto, visto che la gara è stasera.
Arrivo alla palestra della scuola con quasi mezz’ora di anticipo. Non riesco a smettere di tremare, e di certo non è per il freddo.
Passeggio nervosamente avanti e indietro, torcendomi le mani, quando finalmente qualcuno appare all’orizzonte. La Costance viene verso di me e cerca di tranquillizzarmi.
«Watson, stai tranquilla. Lo so che è difficile non farsi prendere dal panico, ma ascoltami. Andrà tutto bene. Anche se non vinceremo».
«Lo so, non ho paura di perdere, ma… cosa faccio se dovessi scordarmi i passi? Se mi facessi prendere dal panico e cominciassi a fare errori?»
«Improvvisa».
La sua risposta pare la più semplice e naturale del mondo. Come se improvvisare fosse facile.
«Non so improvvisare, non sono capace»
«Certo che lo sei. Tutti lo siamo. Si improvvisa tutti i giorni, senza rendersene conto»
«In che senso?»
«Non mi dirai certo che pianifichi ogni singolo istante delle tue giornate, no? Di solito ci comportiamo in base a quanto ci accade, e non tutto ciò che ci accade si può prevedere; agiamo di conseguenza, e non è forse un modo meno diretto per dire che improvvisiamo?».
Rifletto su queste parole. In effetti è vero… ma non faccio in tempo a dirglielo che arrivano Jake e Ludvig, in formazione da battaglia.
Jake è teso quanto me, se non di più: stringe i denti di continuo, lo vedo dalla sua mascella. Ludvig è molto più rilassato, mi sorride.
«Ciao» mi saluta, chinandosi verso di me e stampandomi l’ennesimo bacetto sulla guancia. Temo di doverci fare l’abitudine.
A quel gesto, Jake contrae la mascella per l’ennesima volta. Il suo sguardo è freddo come il ghiaccio, ma brucia di un calore incandescente sulla mia pelle.
La Costance apre la palestra della scuola, salvando la situazione.
«Allora» esordisce, dopo che abbiamo posato le nostre cose.
«Oggi è un giorno importante. La gara inizierà alle cinque e trenta. Noi dobbiamo essere alla Concert Hall per le cinque al massimo. Sono quattro prove; le prima tre le sosterrete insieme agli altri sulla pista da ballo. Tutte le coppie rimangono in gara fino alla fine. Poi ci sarà l’ultima prova, il tango, che è individuale. Non vi chiedo di vincere, vi chiedo solo di dare il meglio». Ci guarda negli occhi uno ad uno.
«Ho fiducia in voi. Abbiamo lavorato sodo. Dimostriamo a tutti che l’impegno premia sempre. E spero che questa esperienza vi abbia portato qualcosa». Lo sguardo della Costance è soprattutto fermo su di me e Jake.
«Spero che vi abbia insegnato a fidarvi delle persone, che abbiate imparato a lasciarvi guidare da qualcun altro. Perché lasciarsi guidare non è certo segno di debolezza. Richiede molto coraggio, prima di tutto».
Cos’è questo discorso serio? Non ce l’ha mai fatto prima, se ne deve uscire così il giorno della gara?
Ah, giusto. Il discorso d’incoraggiamento.
«Ragazzi, io sono fiera di voi in ogni caso. Avete lavorato duramente anche se non siete ballerini provetti come Imogen e Robert, e in pochissimo tempo avete dato il meglio di voi. Vi chiedo di dare il meglio ancora un’ultima volta». Ha gli occhi lucidi. Quasi mi commuovo anche io… quasi.
«Mettiamocela tutta».
Noi tre annuiamo, poi la Costance sospira e accende lo stereo.
«Si ricomincia, pelandroni!».
 
Bevo avidamente dalla mia bottiglietta d’acqua. È mezzogiorno e abbiamo provato tutto senza soste fino ad ora: sono esausta. Non so come farò a reggermi in piedi stasera.
«Ragazzi, potete andare. Pranzate. Riposate. Ci rivediamo qui alle quattro e mezza; in meno di mezz’ora dovremmo essere alla Hall».
Raccolgo le mie cose con l’intenzione di andarmene a casa, fare una bella doccia e dormire un po’, ma Ludvig mi blocca.
«Ti va di pranzare insieme?» mi chiede, con il sorriso sulle labbra.
Cerco disperatamente una scusa per rifiutare, ma siccome non me ne viene in mente nessuna mi vedo costretta ad accettare.
«Ma sì, perché no».
«Non vi dispiace se mi aggiungo anche io?» la voce di Jake arriva da dietro le mie spalle.
«Certo che no» risponde lo svedese, anche se la sua faccia esprime qualcosa di molto diverso.
Così ci avviamo tutti e tre verso un posto qualsiasi dove mangiare. Io al centro e loro ai miei lati che si scambiano occhiate torve. Mi sento estremamente a disagio. Perché doveva succedere proprio oggi? Sono già nervosa di mio, ci si devono mettere anche questi due?
Compriamo dei panini e ci accomodiamo su una panchina; il mio imbarazzo cresce, mentre cerco disperatamente qualcosa di cui parlare per alleggerire l’atmosfera.
«Ehm, allora…».
Parla! Parla! Di’ qualcosa, idiota!
«Giusto, Alex! È passato un sacco di tempo ma non ho mai avuto modo di chiedertelo. Com’è stata la festa di Amber, alla fine?». La domanda innocente di Ludvig colora di viola la mia faccia e non oso guardare quella di Jake.
Stupido di uno svedese! Proprio in questo momento dovevi ricordartelo?!
«Uhm, carina» rispondo, con la gola secca, mentre la mia mente fa il replay del dannato gioco della bottiglia.
«Già, non male» aggiunge Jake, mentre io mi sento sprofondare.
Non ne ho parlato a nessuno. Solo Momo e quelli non abbastanza ubriachi da ricordare la serata sanno di quel bacio. Neanche con Jake ho più toccato l’argomento e solo adesso sento di aver fatto davvero una cavolata. È come aver lasciato le cose a metà, tuttavia non posso fare a meno di ricordare cosa è successo l’ultima volta che ho parlato a tu per tu con lui – partendo proprio da qui. Solo l’ennesima fuga dal passato e dal presente. 
«Mi è dispiaciuto non aver partecipato, anche se Amber… non mi è proprio simpaticissima» dice con una piccola smorfia. Non oso immaginare come sarebbe potuta andare se anche lui fosse stato lì.
Sarebbe successo lo stesso? Oppure no? Una (s?)fortunata coincidenza di eventi?
«Mah, non che ti sia perso granché… le solite cose, musica elettronica, un po’ di alcol, qualche gioco stupido…» dico, sperando di chiudere il discorso lì.
«Stupidissimo, altroché» conferma Jake, imbarazzandomi ancora di più.
Ludvig gli lancia un’occhiata strana, ma non dice niente.
Riprendiamo a mangiare i nostri panini, mentre cerco una scusa per scappare via. Guardo l’orologio e noto che sono quasi le due. È decisamente ora di andare a casa.
«Va bene, io andrei a casa, ci vediamo dopo» dico in fretta alzandomi, ma Jake si alza con me e Ludvig pure, esclamando subito «Ti accompagno».
Jake lo guardo storto.
«Non ce n’è bisogno. Abito di fronte a lei, la accompagno io»
«Apprezzo la premura, ma abito a un tiro di schioppo da lì».
Gli occhi grigi di Jake ardono di un fuoco infuriato mentre incrociano quelli turchini di Ludvig, più determinati che mai.
«Ragazzi, posso tornare anche da sola…» protesto debolmente, ma neanche mi ascoltano.
«Cosa c’è, ti dà fastidio? Se è così, sappi che non mi importa» lo punzecchia Ludvig.
Jake non risponde, ma il suo sguardo potrebbe incendiare una casa.
Così ci avviamo, incapaci di conversare come persone normali. Ho come l’impressione di assistere ad una sfida di cui non dovrei sapere niente.
Sono il premio?
La domanda fa spontaneamente capolino dalla mia mente, ma la scaccio via: è semplicemente impossibile. Di piacere a Ludvig ne ho la certezza, ma Jake non mi parla da due settimane. Questo vuol dire che forse ha deciso di passare sopra tutto quanto è accaduto… prima.
La cosa mi rende davvero triste e arrabbiata. Non può mollare tutto proprio quando avevo deciso di mettere le cose a posto con lui! Sarebbe oltremodo ingiusto!
Forse basta stuzzicarlo un po’. Cosa posso fare…? Oppure peggiorerei le cose?
Ma sì, cavolo. Sono stufa di tutta questa scena. Se lui è schizofrenico, visto che prima se ne frega e poi si incavola, non è mia colpa mia.
Così, arrivati sotto casa, prendo l’iniziativa e dopo un breve «A dopo» mi metto in punta di piedi e saluto Ludvig con un bacetto sulla guancia. So per certo che le mie guance sono del colore dei peperoni maturi.
È sorpreso… piacevolmente, direi, visto che mi fa un ampio sorriso mentre se ne va.
Perdonami, penso.

Giunti nell’androne, io e Jake prendiamo l’ascensore. Durante la salita non vola una mosca e l’imbarazzo cresce. Solo quando arriviamo finalmente sul pianerottolo Jake si decide a parlare.
«Perché l’hai fatto?» mi chiede, con un tono decisamente ferito.
Mi si spezza il cuore.
«Non sapevo cos’altro fare per farti smettere di evitarmi» dico. Da dove l’ho preso tutto questo coraggio?
Jake distoglie lo sguardo, chiaramente a disagio.
«Ti chiedo scusa. Avevo bisogno di pensare». Poi apre la porta ed entra dentro casa sua, lasciandomi con un palmo di naso.

Nelle due ore che seguono, non faccio altro che darmi della stupida.
Che ti salta in mente? Idiota!
Mi sembrava una buona idea. Quanto meno mi ha parlato.
Sì, ma il gioco vale la candela?
Speriamo di sì. Chissà cosa intendeva quando ha detto che “aveva bisogno di pensare”. Non sono così sicura di volerlo sapere, in fin dei conti.
In men che non si dica, si fanno le quattro e mi tocca uscire. A malapena realizzo che tra solo un’ora e mezzo la famigerata gara avrà inizio.
Prendo le custodie degli abiti cercando di spiegazzarli il meno possibile, lego i capelli meglio che posso in uno chignon, afferro le ultime cose che mi servono – portafoglio, cellulare, chiavi di casa – e mi avvio verso scuola con Jake pochi passi dietro di me.

La Costance è all’entrata della palestra e si torce le mani dalla tensione. Ludvig arriva un secondo dopo di noi.
«Ragazzi, avete preso tutto ciò che serve? Siete pronti?» chiede ansiosa. Annuisco; anche i ragazzi fanno un cenno d’assenso.
Non ci avevo pensato finora, ma sono proprio curiosa di vedere i loro, di abiti…
 
Ci avviamo a piedi verso la Hall, che non è molto distante da scuola. Sono sempre più tesa a causa della gara imminente, e cerco conforto negli altri. La Costance è tesa quanto me; Jake, come stamattina, non fa che contrarre la mascella e Ludvig anche comincia a sentire un po’ di pressione, credo. Non è più rilassato come prima; tuttavia, appena incrocia il mio sguardo preoccupato, mi sorride per incoraggiarmi. Arrossisco, ricordando la scenetta di poco prima.
Arriviamo alla Hall alle cinque precise. Il posto è gremito di persone; ci avviamo a fatica verso i camerini, per cambiarci. Ne riemergo pochi minuti dopo quasi esasperata dalla quantità di persone. Quando, dopo qualche minuto ancora, Jake e Ludvig mi vengono incontro, trattengo a stento una risatina: sono proprio buffi! Sembrano due pinguini. Uno pallido e biondo e l’altro moro. Poi i giudici registrano i nostri nomi e attaccano un numero sul retro della giacca di Jake: siamo la coppia numero 8. Le ragazze delle coppie delle altre scuole – sono tutte scuole – sussurrano tra loro quando passiamo in mezzo alla folla e per un attimo mi sento davvero… non so, “importante”. Capisco che devono considerarmi fortunata, considerando la bellezza dei ragazzi che mi camminano accanto.
Anzi, credo di rendermene effettivamente conto solo adesso. Sono entrambi bellissimi e la gente si volta a guardarli. E io sono in mezzo a loro.
Mi sento improvvisamente triste. Che ci faccio qui? Non è il mio posto. Le persone come me non stanno con quelli come loro. Dovrei avere la decenza di tornarmene tra i miei simili, non andarmene in giro con queste creature ultraterrene. Sicuramente, quelle che li osservano si staranno chiedendo che cosa ci fa una come me con due come loro. Una ragazza così banale, così insignificante…
E all’improvviso sento qualcosa che non vorrei sentire.
«Caspita, che racchia fortunata! Con due bellezze come loro!». Mi irrigidisco, cercando di trattenere le lacrime, mentre le due ragazze ridacchiano, gettandomi un’occhiata.
Ho bisogno d’aria. Di uscire.
Fendo la folla alla ricerca di un posto dove respirare, ma trovo solo un pezzetto di muro, ai margini della pista, dove appoggiarmi, improvvisamente svuotata di tutte le mie energie. Jake e Ludvig sono rimasti bloccati in mezzo alla folla, ma in questo momento non ho bisogno di loro. Una piccola lacrima furtiva sfugge al mio controllo, e stringo le mani a pugno. No. Ne ho abbastanza.
Non m’importa di quello che pensano. Io sono ciò che sono, se questo non va bene agli altri, allora si facessero risolvere i loro problemi da uno psicanalista. Ho imparato – a fatica – ad accettarmi; l’importante è che vada bene a me.
«Tutto bene?» chiede una voce sopra di me e alzando lo sguardo noto gli occhi grigi e preoccupati di Jake.
Mi sforzo di fare un piccolo sorriso, ma non deve riuscirmi molto bene, perché lui mi attira a sé e mi stringe in un goffo abbraccio.
Sono sorpresa da quel gesto, tanto che quando mi rilasso mi rendo conto di aver tenuto i muscoli tesi e rigidi.
«La gara sta per iniziare. Si invitano i gentili spettatori a prendere posto e i partecipanti a spostarsi a bordo pista» annuncia un altoparlante.
Io e Jake ci stacchiamo dall’abbraccio, imbarazzati, e ci portiamo al bordo della pista. Mentre aspettiamo gli altri, però, Jake mi prende la mano e la stringe, nascondendo le nostre mani intrecciate dietro di noi. Non posso fare a meno di arrossire e chiedermi il perché di tutte queste attenzioni. Mi evita per giorni e poi… questo. Se non è schizofrenico lui, non so chi possa esserlo.
Davanti alla grande pista circolare si trova il tavolo della giuria, a cui si siedono due uomini e due donne dall’aria severa. I giudici.
Da qui riesco a vedere la Costance seduta in prima fila: ancora si torce le mani dall’ansia.
Il presentatore, un tipo sui trentacinque anni con un ridicolo farfallino a pois, si fa avanti.
«Buonasera a tutti signore e signori, benvenuti alla quarta edizione della gara di ballo “Ballo nelle scuole” promossa dall’associazione…» e continua su questo tono per qualche minuto nominando associazioni, patroni e mecenati. Smetto di ascoltarlo, troppo concentrata a percepire le mie dita intrecciate a quelle di Jake per focalizzarmi su qualcos’altro.
Riapro le orecchie solo quando Farfallino a Pois si decide a presentare la giuria.
«…Ronald O’Connor, presidente della scuola di ballo…» il primo dei giurati si alza. È un uomo sulla cinquantina, ma a parte un po’ di pancia ha ancora un fisico lavorato. Deve aver ballato parecchio.
«Samantha MacDonald, ballerina professionista, ora presidente della scuola di ballo…» la donna a sinistra di O’Connor si alza, salutando gli spettatori. Dimostra poco più di quarant’anni. Indossa un tailleur prugna che le evidenzia la vita sottile; ha i capelli tagliati corti e un volto rigido, severo, incorniciato da un paio di pendenti dall’aria costosa.
«Daniel Peaty, insegnante di danza all’accademia…»   questo qui non ha l’aria molto severa. Saluta la folla con un sorriso gioviale e sorrido alla vista del suo volto rubicondo. Non so perché, ma mi sta simpatico.
Alle parole «Patricia Gonzales, ballerina professionista di tango» l’ultima donna, sulla trentina, si alza. È indubbiamente bellissima; indossa un elegantissimo vestito nero e i lucenti capelli corvini sono raccolti in uno chignon ordinato. A giudicare dal nome direi che ha qualcosa a che fare con la Spagna…
Penso al mio, di chignon, e arrossisco di imbarazzo. Non è colpa mia se i miei capelli sono rossi e ingestibili.
«Giudice O’Connor, vuole spiegarci le regole della gara?» dice ancora Farfallino Ridicolo, mentre il giurato si alza di nuovo e prende il microfono.
«Ma certo. Le undici coppie apriranno le danze con la salsa; si affronteranno tutte insieme sulla pista. Non giocate sporco: al primo sgambetto, squalifica con effetto immediato. Ma ormai non siete più bambini, non credo di dovervi chiedere di ballare con onestà» il giudice scruta i partecipanti uno ad uno.
Io non ci avevo neanche pensato, a barare. Con tutti i casini che ho per la testa non posso certo mettermi anche a pensare a come vincere giocando sporco.
«Dopo la prima gara, cioè la salsa, ci sarà una piccola pausa; poi bachata e merengue, intervallati da una pausa di cinque minuti. In seguito alle prime tre tipologie, ci sarà il tango, affrontato dalle singole coppie. La durata del tango non può superare i cinque minuti. Dopo, ogni coppia riceverà un punteggio».
«Dopo che tutte le coppie si saranno esibite, io e i miei colleghi eleggeremo un vincitore. Non ci sarà una classifica: solo un unico vincitore. A tutte le scuole verrà data una targa di partecipazione. A tutte quelle che non bareranno, ovviamente» aggiunge, gettando un’altra occhiata storta.
«Sentito, ragazzi? Niente scherzetti, non ne vale la pena» rincara il presentatore, riacquistando il microfono.
Comincio a essere stufa di tutte le presentazioni. Quando si comincia?
«Allora, questo è quanto. Che vinca il migliore!» esclama infine Farfallino e gli spettatori fanno partire un applauso. Guardandoli, mi accorgo sgomenta di non aver detto ai miei niente di tutto questo. Non ho mai parlato delle prove a casa, non gli ho detto della gara. Che razza di figlia! Un po’ di supporto morale, in questo momento, mi avrebbe fatto piacere.
Come per magia, noto mia madre parcheggiata vicino all’ingresso, vicino ad Angela e Samuel, i genitori di Jake. Anche mio padre è lì.
Ci muoviamo in sincrono sulla pista, alla ricerca di una posizione, ogni coppia ad una certa distanza dall’altra. Mentre aspettiamo che parta la musica, bisbiglio un “grazie” a Jake, e lui mi sorride. Ripenso per un secondo alla sensazione fortissima che ho provato quando abbiamo intrecciato le mani, prima. Il cuore mi si era riempito di una stupida, irrazionale felicità.
La musica parte quando meno me lo aspetto, ma ho ripetuto questa cosa talmente tante volte che il mio corpo agisce al mio posto. La gara è iniziata.
Muoversi in una pista con tanta gente intorno è molto diverso rispetto a muoversi in una palestra vuota. In un attimo mi rendo conto che non urtare i ballerini è difficilissimo: la salsa è un ballo veloce e sono troppo concentrata a ballare bene per accorgermi con precisione della gente intorno a me. Inoltre, un qualsiasi urto potrebbe essere visto come “barare” e quindi devo fare ancora più attenzione.
Tuttavia, quando per un attimo mi ritrovo quasi stesa per terra a causa di un urto alla schiena, mi vedo costretta a rivalutare quanto ho detto. A quanto pare, gli altri non si fanno troppi scrupoli.
Anzi, è una fortuna che Jake abbia avuto la prontezza di riflessi di afferrarmi al volo, cambiando il passo che avremmo dovuto fare.
Improvvisa, aveva detto la Costance. Vale anche per quando qualcuno ti viene addosso?
Continuiamo il nostro ballo, ma dopo un po’ un’altra botta, stavolta di lato, mi fa perdere di nuovo l’equilibrio – stavolta non resisto, devo vedere chi è stato. La coppia dietro di noi si scambia un’occhiata. La ragazza indossa un vestito color corallo: è la stessa di prima, quella che mi ha chiamato “racchia fortunata”. Il mio orgoglio ancora brucia. Se pensa che sbaglierò dei passi in questo modo, se lo può anche scordare.
Affronto il resto del ballo con ancora più determinazione di prima: sarò anche “racchia”, ma non mi lascerò mettere i piedi in testa da una stronza qualsiasi in vestito corallo. Proprio no.
Tuttavia, quando finalmente la musica finisce, non posso fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.
Il presentatore annuncia i famosi cinque minuti di pausa e parlo con Jake.
«Sta cercando di farci sbagliare» diciamo all’unisono, e ci viene da ridere. Perché d’un tratto tutta la tensione che c’era tra noi è svanita nel nulla? Anche mentre ballavamo non ero così tesa come durante le prove. Cosa sta succedendo?
«Cosa faresti se Corallina dovesse riuscire a farmi cadere?» chiedo a Jake, in un attimo di coraggio.
«Ti afferrerei. Non ti lascerò mai cadere, Alex» mi dice, guardandomi negli occhi, e io mi sento sciogliere. Cosa devo fare, o dire, adesso?
«Ah, siete qui!» la voce di Ludvig ci riporta alla realtà e distogliamo lo sguardo, imbarazzati.
«Tutto bene?» ci chiede – anzi, mi chiede.
«Insomma. La tizia color corallo mi è venuta addosso un paio di volte e non sono sicura che sia tato casuale» dico.
«Davvero? Ci farò caso, se dovesse ricapitare».
Anche la Costance, intanto, si avvicina a grandi passi. Le brillano gli occhi.
«Bravi, ragazzi. Davvero bravi. Anche se non capisco perché hai cambiato quel passo all’ultimo minuto»
«Avevo perso l’equilibrio» dico, senza aggiungere altro. Non vale la pena avvertire anche la Costance di Corallina, si agiterebbe e basta.
Riusciamo solo a scambiare qualche altra parola prima che Farfallino annunci che la pausa è finita e ora tocca alla bachata.
Mentre ci ricomponiamo in pista, noto l’occhiata truce della ragazza in mise corallo. Per tutta risposta, le lancio uno sguardo di sfida.
Le serviranno molto più di due spintoni per mettermi fuori gioco.

La bachata inizia, e va tutto bene, per un po’. Almeno finché Corallina non trova il coraggio di provare a farmi sbagliare di nuovo, mettendo un piede in mezzo al momento giusto.
Ma anche se ormai vedo il pavimento sotto di me, Jake mantiene la sua promessa e mi impedisce di cadere, riportandomi a ritmo di musica in un secondo.
Vedo il suo sguardo rabbuiarsi e i suoi occhi assumono il colore delle tempeste. Fa quasi paura. Fossi in Corallina, lascerei stare.
Quando capisco che ci stiamo avvicinando a loro, sibilo:
«Non abbassiamoci al loro livello». Jake mi guarda: si vede che non è contento, ma lascia perdere e continuiamo a ballare.
Non ritentano, per fortuna, di farci sbagliare.
Alla pausa seguente, devo trattenere Jake per una manica per impedirgli di andare a dirgliene quattro.
«Dai, lascia perdere!»
«Quella stronza… che cosa meschina…» dice, a denti stretti.
Sono preoccupata: anche se infastidiscono me, stanno facendo infuriare lui e Jake è esattamente il tipo di persona in grado di fare cavolate quando è meno opportuno. C’è il rischio che reagisca e che ci squalifichino per direttissima, dubito che ci crederanno se dicessimo loro che Corallina e l’altro tipo hanno iniziato per primi. E io non ho faticato due mesi, sacrificando tempo e dignità, per farmi squalificare a metà gara, non esiste proprio!
Jake mi guarda imbronciato e furioso. Cerco di sorridere.
«Lasciali perdere». La sua espressione si addolcisce un po’.
Quando la pausa finisce, succede una cosa strana. Mi sento strattonare indietro e, appena riesco a liberarmi, il mio chignon non esiste più – solo la mia matassa di capelli rossi sciolti. Qualcuno mi ha sciolto i capelli.
Guardo le ragazze intorno a me: anche quelle che prima avevano i capelli sciolti durante la pausa li hanno legati. Rabbrividisco. Il merengue è un ballo veloce e i capelli sciolti svolazzano da tutte le parti: come farò a vedere quello che faccio se verrò costantemente accecata dai miei stessi capelli?
Non c’è più tempo di legarli, ormai, perché la musica parte, impietosa.
Jake mi lancia un’occhiata di sbieco mentre iniziamo. Anche lui ha capito il pericolo: se non vediamo dove andiamo e urtiamo qualcuno, i giudici potrebbero pensare che lo facciamo apposta.
So perfettamente chi può essere stato a fare una cosa del genere. Corallina. Che razza di strega!
Per di più, il merengue è il ballo che mi spaventa di più: è quello in cui me la cavo peggio, perché non mi va di stare così appiccicata a Jake e quindi sono rigidissima.
Tuttavia, la voglia di far vedere a quella strega che il suo stupido trucchetto non ha funzionato è più forte dell’imbarazzo: accecata dalla rabbia, cerco di non pensare ad altro che a ballare nel modo più sciolto che conosco.
Eppure, a quanto pare, non basta.

Sento una botta alla schiena che mi fa perdere l’equilibrio, e un tonfo dietro di me. La musica si ferma.
Mi giro, e vedo Corallina a terra con un’espressione sofferente.
Ci metto un attimo a fare due più due.
«Che succede qui?» chiede subito Farfallino a Pois.
Corallina mi precede.
«È stata lei a farmi cadere! Si è sciolta i capelli apposta, per bloccarmi la vista e urtarmi indisturbata così da farmi cadere e impedirmi di finire la gara!» piagnucola.
Sono talmente indignata da quelle false accuse che mi trattengo a stento dal prenderla a schiaffi.
«È vero?» chiede il giudice O’Connor, scrutandoci con occhi indagatori.
«Certo che no! Non farei mai una cosa del genere!» esclamo.
«Perché hai i capelli sciolti, allora?».
Posso accusarla di avermi sciolto lo chignon alla fine della pausa se non sono sicura che sia stata lei?
«La signorina dovrebbe saperlo meglio di tutti. Non è vero, dolcezza?» dice inaspettatamente Jake, glaciale, rivolto a Corallina.
Lei arrossisce di rabbia e imbarazzo, incapace di replicare.
«Temo di non capire» dice il giudice O’Connor.
«Semplice. La signorina e il suo partner cercano di rovinarci la gara da quando è iniziata; vedendo che ci siamo ripresi, hanno deciso di ricorrere a misure più drastiche».
Jake si piega sulle ginocchia per portare il viso all’altezza di lei, ancora a terra per quella farsa.
«Lo sai che la diffamazione è un reato?» le chiede Jake, spietato.
Corallina si trattiene per qualche secondo, poi scoppia a piangere e scappa via, alzandosi velocemente.
«Be’, la questione era dubbia, ma la fuga è la più efficace ammissione di colpevolezza» conclude O’Connor.
Poi il suo sguardo si rivolge al partner di Corallina e diventa freddo come il ghiaccio.
«Dovreste vergognarvi. Siete squalificati». Il ragazzo abbassa la testa, rosso fino alle orecchie, e corre via nella direzione in cui era sparita la ragazza. La coppia numero 2 non è più in gara.

I giudici decidono di ricominciare da capo il merengue. Nel minuto prima che parta la musica noto il mio fermaglio per capelli a terra, fuori dalla pista: corro a prenderlo e mi lego di nuovo i capelli, sollevata.
Ricomincia il ballo, ma mi sento molto più a mio agio, sapendo che quella strega è fuori e non può più disturbarci.
Non ho mai ballato un merengue più rilassato di questo. La presa di Jake sulla mia vita è calda, forte e rassicurante: ho avuto la prova che lui ci tiene davvero a me, non mi lascerà mai cadere. Così tiro fuori quello che avrei dovuto dire tanto tempo fa.
«Ti devo parlare»
«Ti pare il momento?!»
«Mi hai evitato per due settimane, te la sei cercata» ribatto, leggermente risentita. Sì, forse parlarne ora è inopportuno, ma sento di doverlo fare.
«Mi dispiace di averti evitata ma te l’ho detto, dovevo pensare. Non possiamo parlare dopo?»
«Va bene. Volevo solo dirti che mi dispiace» dico alla fine. Jake rimane stupito per un attimo, poi sorride, mentre continuiamo a ballare.

Quando il merengue finisce, tiro un sospiro di sollievo. È stato il più facile e allo stesso tempo il più difficile della mia vita. Ho finalmente avuto il coraggio di dire quelle due paroline che da tanto tempo, forse troppo, mi tenevo dentro.
Vorrei parlare subito con Jake e dirgli tutto quello che devo, ma Ludvig viene verso di noi con un sorriso a trentadue denti.
«Ottimo lavoro! Alla fine quella strega ha avuto quello che si meritava» approva.
«Pronta per il tango?» mi chiede e io annuisco. Poi penso che devo andare a cambiarmi.
«No, in realtà no… devo cambiarmi» esclamo e corro via, verso i camerini.

Riemergo da lì quando la coppia numero 1 è già in pista. Noi siamo i settimi, ora che i secondi sono stati squalificati.
Guardiamo le performances degli altri tutti e tre insieme. Dopo un po’ ci raggiunge anche la Costance, complimentandosi con noi per tutto il resto e incoraggiandoci in ogni modo per affrontare questo stramaledetto tango.
«Qualsiasi cosa succeda, continuate a ballare, se non ricordate qualcosa inventate i passi, l’importante è che non vi fermiate per nessun motivo. L’indecisione è penalizzata quanto l’incapacità» ci avverte.
Finora le colonne sonore sono state le più famose: Piazzolla, Veronica Verdier… a quanto pare nessuno ha pensato al Tango de Roxanne a parte noi.
Comincio a sentire un po’ d’ansia, perché mi rendo conto della bravura delle altre coppie in gara. In particolare i numero 5 sono bravissimi, sembrano professionisti, e infatti la giuria assegna loro un punteggio alto.
Ma non devo scoraggiarmi. L’importante è partecipare, dimostrare a me stessa che anche io posso fare qualcosa di buono.
Quando tocca effettivamente a noi, però, sono così agitata da sentirmi male: temo che vomiterò nel bel mezzo della pista da ballo.
Il nostro tango inizia con me e Ludvig; Jake si aggiunge dopo, quando finisce la parte strumentale e inizia la canzone.
Non so perché, oggi sono più consapevole che mai del fatto che sto ballando. Anziché smettere di pensare, come Ludvig mi consiglia sempre di fare, non riesco a fare a meno di pensarci di continuo.
Perché mi sento così agitata?
Non riesco a trovare una risposta, per quanto ci provi. L’unica cosa che sono in grado di fare è dimenticare un passo.
Non ricordo più che passo devo fare. Cos’era? Raggelata, cerco lo sguardo di Ludvig, ma lui è tranquillo: semplicemente, mi spinge a lasciarmi guidare da lui ed è esattamente ciò che faccio. Inventiamo un pezzo di coreografia, sperando che non lo noti nessuno, e, alla fine della parte strumentale, Ludvig mi fa fare un perfetto casquè. Con la differenza che avvicina il suo volto al mio e mi bacia, proprio quando l’argentino narcolettico del film urla “Roxanne” ed inizia il testo, cioè entra in scena Jake.
Sono decisamente scioccata da questa mossa. Perché l’ha fatto? Vuole farmi prendere un infarto prima che finisca la gara?
Da lì in poi non facciamo cambi improvvisi, ma Jake ha un’espressione di fuoco, come se volesse pestare Ludvig a sangue.
Continua il nostro ballo e per una volta mi sento davvero un po’ come Satine del film. Perché Ludvig e Jake si stanno affrontando qui ed ora, su questa pista, ma la parte razionale della mia mente insiste a dire che è tutta scena.
Quando finisce, sono sollevata ma anche un po’ rattristata: tutto quel lavoro per quattro minuti e mezzo. È quasi un insulto.
Il punteggio che ci danno i giudici non è altissimo, ma neanche così basso come immaginavo. Tuttavia, qualcuno protesta.
«Perché erano in tre? Si parla di coppia, non di trio! Non c’era scritto da nessuna parte che si poteva fare!» a protestare sono alcune coppie, ma il giudice O’Connor le azzittisce in un attimo.
«Da nessuna parte c’era scritto che non si potesse fare». Un senso di trionfo mi allarga il cuore.
Guardiamo le ultime coppie rimaste senza parlare.

Ovviamente, non vinciamo. Però abbiamo ottenuto uno dei punteggi migliori: la Costance non può che ritenersi soddisfatta.
Alla fine di tutto, dopo che ci danno anche la targa di partecipazione, scorgo i miei genitori, ma una voce mi costringe a girarmi dall’altra parte della sala.
«Qui, Alex! Siamo qui!» Momo, con Sean accanto, mi saluta. Vicino a loro noto sedute due persone che meno mi aspettavo di vedere qui: Imogen e Robert!
«Sei stata bravissima!» mi abbraccia la mia migliore amica, ma anche Imogen mi fa i complimenti e, controvoglia, pure Robert mormora un “bel lavoro”.
Chiacchiero con loro per un po’, poi decido di andare dai miei genitori.
Mentre mi avvio in quella direzione, con la coda dell’occhio noto l’altra ragazza che, prima della gara, aveva commentato insieme a Corallina.
La sorpasso sdegnosa. Chi è amico di persone come quelle non ha alcun diritto di giudicare gli altri.
Tuttavia…
Perché quel commento mi brucia così tanto? Sbatto le palpebre un paio di volte per scacciare indietro un pianto imminente. Sono stufa di piangere.
Jake, che sta parlando con sua madre, mi nota e si avvicina a me, ma appena si accorge della ragazza si rabbuia, rivolgendomi uno sguardo preoccupato.
Si china verso di me.
«Sappi che sei bellissima» sussurra al mio orecchio, mentre io arrossisco. Sapeva di quello che avevano detto? Le aveva sentite anche lui? È per questo che mi ha abbracciata, prima?
Di nuovo quella stupida, irrazionale felicità.

Dopo un po’ che chiacchieriamo, anche Ludvig ci raggiunge. Subito il sorriso sparisce dalla faccia di Jake.
«TU!» inveisce, con gli occhi che mandano lampi pericolosi.
«Come hai osato baciarla?!» chiede, e sento che la tempesta si avvicina… oltre ai pezzi del puzzle che tornano al loro posto.
Quel casquè era per indispettire Jake? Perché mai?
Di nuovo la buffa sensazione di assistere ad una sfida di cui io sono il premio. Non ho intenzione di essere il premio di nessuno!
Li separo prima che arrivino alle mani.
«State calmi, CALMATEVI!» urlo, per farmi sentire sopra le loro accuse concitate.
«Lasciate stare, okay? Smettetela di litigare, per favore».  Tuttavia, le mie parole non vengono esattamente prese in considerazione: si guardano in cagnesco, anche se non sono del tutto sicura che si siano calmati.
Li trascino fuori dalla Hall, incavolata nera. Andava tutto bene e in un attimo si è guastato tutto.
«Insomma, che vi prende? La volete piantare?!» sbotto, non appena usciamo da lì. Per fortuna la maggior parte della gente è ancora dentro, così nessuno assisterà a questa sfuriata.
Eppure non sembra che mi stiano ascoltando: si accusano di cose che non conosco.
«Ti avevo detto di non farlo, Ohlsson!» ringhia Jake.
«Come se mi importasse di quello che dici tu! Se per te è così importante, potevi pensarci due volte prima di ferirla» lo sfida Ludvig. È la prima volta che lo vedo arrabbiato.
«Questi non sono affari tuoi! Mi pento tutti i giorni di quello che è successo, ma questo non ti dà il diritto di farti beffe di me!»
«E tu non hai il diritto di impedirmi di provarci con una ragazza che mi piace!»
«BASTA!» esclamo, ma non serve a evitare quello che accade dopo. Senza che me ne renda neanche conto, Jake colpisce Ludvig con un pugno sul viso, ma la sua reazione non si fa attendere, visto che gli molla un cazzotto anche lui.
Ci metto un attimo a riprendermi abbastanza da poter parlare.
«MA SIETE SCEMI O COSA?!» esclamo, mettendomi in mezzo e sperando che si astengano dal picchiarsi.
Li guardo in faccia, prima l’uno e poi l’altro. Jake perde sangue dal naso; il labbro di Ludvig è spaccato e sanguinante.
«Non ho parole» dico, cercando di esprimere tutto il mio disgusto per quella rissa ingiustificata. Sembra funzionare perché entrambi abbassano lo sguardo, colpevoli.
Detto questo, giro i tacchi e me ne vado.
 
 

 


***
Angolo autrice
Ed eccomi di nuovo qui, un po’ più tardi di quanto speravo, ma alla fine ce l’ho fatta. È stato davvero difficile scrivere questo capitolo, specialmente con la consapevolezza che è il penultimo. Proprio così, il prossimo capitolo sarà l’ultimo di questa storia che finalmente trova una conclusione.
A proposito, giusto per informazione: “Schizophrenic playboys”, da cui prende spunto il titolo del capitolo, è una canzone dei The Cranberries. Il testo, in realtà, non c’entra niente con la mia storia, ma per Jake mi pareva più che appropriato.
Scusate l’assenza dell’extra, ma credo che non ce ne sia bisogno…
La gara è finalmente finita, ma è finita anche quella tra Jake e Ludvig? Lo scoprirete nell’ultimo capitolo!
Come al solito ringrazio tutti coloro che seguono, ricordano, preferiscono e recensiscono. Sono davvero felice che abbiate continuato a seguirmi e mai perso le speranze, nonostante alcuni lunghi mesi di assenza!
Alla prossima!
Heart

 

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Capitolo 20
*** Il primo giorno d'estate - epilogo ***


20. Il primo giorno d’estate – epilogo
                                                                                                               La farfalla riesce a volare
da sola
 

Sono passati due mesi dal giorno della gara e l’estate è finalmente arrivata.
Questi due mesi li ho passati a riflettere. Su Jake, su Ludvig, su me stessa.
Il loro comportamento, alla fine della serata, mi aveva disgustata – sì, una piccola parte di me ne era lusingata, ma l’altra parte no. Mi dispiaceva vederli azzuffarsi, e per di più a causa mia.
Dopo una settimana di silenzio con entrambi, ho deciso di mettere le cose in chiaro. Ho detto chiaro e tondo a Ludvig che non ero interessata a lui, ma con mia grande sorpresa mi ha detto che lo sapeva già.
«In che senso, scusa?» gli ho chiesto, piena di stupore, mentre lui scuoteva la testa.
«Il legame che c’è tra te e O’Brian è talmente stretto che non c’è spazio per me». Aveva fatto un sorriso triste, ma allo stesso tempo sembrava essersi tolto un grosso peso dalle spalle.
Tuttavia, lui e Jake non facevano che evitarsi, nei corridoi.
Nonostante ciò, non sono riuscita a parlare con Jake. Aveva ripreso a evitarmi, distogliendo lo sguardo ogni qualvolta il mio incrociasse il suo. Era imbarazzato, lo vedevo: forse si pentiva di aver reagito così. Però volevo parlargli, e in due mesi non ci sono riuscita.
Mi è sembrato di essere ritornata in quel limbo angosciante in cui mi sono trovata da quel famigerato primo giorno d’estate al capitombolo giù dalle scale che ci aveva fatti riavvicinare: come se i due mesi passati a ballare insieme non fossero stati altro che un’illusione, un’idilliaca parentesi che si era aperta e poi chiusa di scatto. Mi ha ferita.
In questi altri due mesi di ostinato silenzio mi sono resa conto di quanto abbia bisogno di lui. Un bisogno disperato e insopprimibile, che ha reso le mie giornate un supplizio – vederlo aggirarsi per i corridoi della scuola con lo sguardo assente è stata una tortura. Mi sembrava davvero di essere tornata al primo anno, dopo l’estate terribile passata a piangere dietro a porte chiuse.
Da quand’è che ho così bisogno di lui?
Non potevo fare a meno di chiedermelo, ma ancora non ho trovato una risposta certa. Forse da sempre, ma soffocare i sentimenti mi ha aiutato a reprimere anche questo. O forse alla festa di Amber, quando ci siamo baciati? O ancora il giorno della gara, quando ha intrecciato di nascosto le sue dita con le mie?
È difficile da stabilire.

Oggi è il primo giorno d’estate.
Da quella volta, ogni primo giorno d’estate è stato per me fonte della più grande infelicità – come essere felici, quando il ragazzo che ti piace ti parla in quel modo? Forse non si può più. Alcune ferite fanno male anche quando ormai non sono altro che cicatrici.
L’aria è immobile. Da fuori proviene solo il suono di qualche macchina che sfreccia sull’asfalto, il lieve brusio provocato dalla vita di tutti i giorni: qualche uccello che canta, i campanelli di qualche bicicletta, le risate dei bambini…
Una volta c’erano anche le nostre, di risate. Quelle mie e di Jake. I poveri signori Callahan del piano di sotto se le dovrebbero ricordare bene.
Sono sola in casa, i miei se ne sono andati stamattina presto – mamma da un’amica, papà al lavoro. Io ho poltrito, e sono già quasi le dieci.
Mi stiracchio come un gatto sul mio letto, cercando di combattere la noia che già minaccia di affiorare dalla superficie piatta del dolce far niente. Sono in vacanza da neanche ventiquattr’ore e già non vedo l’ora che finisca.
L’estate, una volta, era motivo di grande gioia e desideravo che non finisse mai – ovviamente per merito di Jake. Si stava così bene insieme, perché smettere? Poi però l’estate finiva e tutto cambiava, ovviamente.
Ma ora cosa posso fare?
Cosa posso fare per sopprimere il disperato bisogno che ho di Jake?

Ma sì, lo ignorerò. Come ho sempre fatto.
Mi raggomitolo nel mio letto, chiudendo gli occhi. Dormirò ancora un po’. Vorrei dormire per sempre, veramente. Vorrei che il sonno mi intontisca abbastanza da farmi smettere di pensare, tuttavia rimango sveglia. E anche se mi fossi addormentata, lo squillo del campanello mi avrebbe svegliata comunque.
Mi tiro su, incuriosita. Chi sarà mai a quest’ora?
Un’assurda, irrazionale speranza comincia a farsi strada nella mia mente, ma la scaccio via prima che possa fare danni. Jake non tornerà. È troppo tardi.
Vado verso la porta quando mi rendo conto di essere ancora in pigiama.
«Un attimo!» grido per farmi sentire al di là della porta chiusa, e mi fiondo in camera mia per mettere addosso una cosa qualsiasi.
Corro poi davanti alla porta, senza osare chiedermi cosa penserà di me – ancora spettinata e assonata – chiunque ci sia dall’altra parte.
Apro la porta e il sonno svanisce all’istante.

Jake si guarda le punte delle scarpe, almeno finché non alza lo sguardo verso di me. Ha una mano dietro la schiena e nell’altra tiene un pallone vecchio e sporco.
Ho un tuffo al cuore quando riconosco quel vecchio pallone. È quello che usavamo tutte le estati per giocare insieme.
Sono troppo stupita anche solo per pensare, figuriamoci per parlare.
«Ciao» mormora. Le sue guance s’imporporano quasi quanto le mie.
«Ciao» rispondo con una sorta di sospiro. È stato difficile.
Siamo imbarazzati, ma io sono anche un po’ incuriosita – e diciamocelo, speranzosa. La curiosità ha la meglio.
«Che ci fai qui?» chiedo, sperando che non suoni come un’accusa.
«Volevo parlarti» dice, arrossendo ancora di più.
«Quello servirebbe allo scopo?» dico, alludendo al malconcio pallone. Sorride.
«In effetti no, ma mi sembrava strano venire qui senza». Per un secondo, la malinconia si impossessa di noi, ma mi impegno a scacciarla. È ora che il passato rimanga nel passato.
«Che cos’hai dietro la schiena?» chiedo invece.
«Ah, già. Questa sì che serve allo scopo» sorride, ma poi torna serio. Rivela la mano nascosta, porgendomi un involto.
«È per te» dice, imbarazzatissimo, mentre io trattengo il fiato alla vista della rosa rossa racchiusa nella carta.
Accetto il dono, ammirandola.
«È bellissima. Ma perché è ancora chiusa?» chiedo. Di solito le rose non si regalano già aperte?
«Per la speranza che si apra e diventi uno splendido fiore» sussurra Jake, guardandomi negli occhi. Il suo viso è davvero vicino al mio.
Chiude gli occhi.
«Lo so che forse è troppo tardi, ma sai che sono un testardo». Riapre gli occhi. «Mi dispiace. Per tutto quanto. Anche per aver picchiato Ohlsson» sbuffa, e mi scappa un sorrisino. Poi torna serio.
«Sul serio, non avrei dovuto farlo. Anziché riavvicinarti a me, ti sei solo allontanata di più. Ma avevo paura di perderti di nuovo» sussurra e il mio cuore decide di punto in bianco di sciogliersi.
«Ti prego. Possiamo ricominciare?» mi chiede, guardandomi, e nei suoi occhi grigi vedo mescolate paura e speranza.
Ha bisogno di me come io ho bisogno di lui. Realizzo il suo tenero e goffo tentativo di dirmi che ci tiene, a me, e sorrido.
Prima che possa dire qualcosa, però, mi sollevo in punta di piedi e lo bacio, e questo unico bacio vale più di mille parole e mille anni e mille pugni in faccia.
È talmente sbalordito che ci mette un attimo a capire che lo sto baciando.

Dopo, riapre gli occhi lentamente, come per conservare quel momento il più a lungo possibile, e ci guardiamo per un istante.
Con un sorriso timido mi prende la mano, intrecciando le sue dita alle mie, e ci dirigiamo a piedi verso Regent’s Park.
 

The End
 
 

***
Angolo autrice – Ringraziamenti

Dunque, infine, eccoci qua. È finita. Dopo due lunghi anni, ho scritto quelle due dannate paroline.
A volte è stato difficile: spesso ho accarezzato l’idea di cliccare su “Cancella” e farla finita, ma non l’ho fatto, e sono estremamente felice di questo.
Che altro dire? Spero che questa storia vi abbia lasciato qualcosa – anche se non è certo una di quelle storie serie e impegnate che si leggono in giro, ma spero comunque che vi aiuti a gettare il passato alle spalle, dove deve stare, e girare pagina. Alex l’ha fatto, potete farlo anche voi…
Voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutata a giungere fin qui senza mai perdere la speranza, tutte quelle persone che mi hanno offerto il loro sostegno, direttamente o indirettamente. Quindi grazie a tutte coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, le seguite o le ricordate (vorrei ringraziarvi una a una ma siete così tante che finirei domattina), grazie mille ai tanti lettori anonimi, un grazie gigantesco a Clockwise, un grazie a tutte coloro cui ha fatto piacere lasciare la propria opinione, un grazie a chiunque si sia divertito a leggere questa storia quanto io mi sono divertita a scriverla.
Grazie di cuore a tutti voi.
Forse ci rivedremo, forse no… in ogni caso, Alla Prossima!
HeartSoul97  
   

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