La fontana bianca

di Orveon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fhaisin ***
Capitolo 2: *** Imprevisti ***



Capitolo 1
*** Fhaisin ***


Il sole declinava dietro le colline, vestendo gli abeti con abiti di fuoco. Le finestre rifulgevano della stessa luce, accecando le mandrie ritardatarie. Muggiti e fischi vibravano per tutto il villaggio, e vibravano persino nelle orecchie di Roen, immerso nelle sue intense letture. Le immagini di sogno generate dalle frasi di un libro si disfecero nell'etere, spazientendolo. Spense la candela e scese al pianoterra. Cenò col raccolto del giorno precedente.

Quando la luna ammiccò alle finestre, si sedette su una sedia divorata a metà dalle termiti e dal tempo, e meditò. Le stelle sbocciarono e appassirono, mentre l'orlo del mondo si colorava di fiamme d’oro. Infine spalancò gli occhi. La conclusione della lunga riflessione si confuse nell'aria tramite un flebile sussurro. 
Tornò in silenzio nella sua camera da letto.
 
Mezzogiorno era da poco passato e le nubi cominciavano toste ad addensarsi in cielo, quando qualcuno picchettò prima lentamente, poi con più forza, alla porta d’ingresso. Roen tentò di non farci caso, continuando a scrivere; ma allorché i colpi si fecero insistenti, fu costretto a vedere chi fosse. Spalancò furioso la marcia porta della camera, scardinandola. Si precipitò al piano terra e aprì al visitatore.
Se dapprima il suo cuore covava tutta la rabbia che un Uomo sia capace di tenere dentro di sé senza impazzire, quella stessa rabbia venne subito sostituita dalla gioia.
«Se continui a far pregare i visitatori in questo modo, la gente di qui verrà conosciuta come la più religiosa. Penso tuttavia di intuire la causa della tua riluttanza.»
«E intuisci giusto, vecchio Ilgis! Qual buon vento?»
«Vento di tempeste, mio buon amico. Su, lasciami riposare in casa tua, sì accogliente seppur tetra. Temo tu possa tramutarti in pipistrello, un giorno.»
«Fai complimenti a questa casa fatiscente? Porti dunque notizie assai brutte di guerre e miseria.»
Roen lasciò che l’amico si sedesse. Questi pareva emanare una luce ignota dai capelli nivei. Ricadevano su un manto azzurro, cielo attraversato da sentieri stellari. 
La polvere non osava intaccare la bianchezza dei suoi capelli. Pensò che dovesse trattarsi di qualche artificio magico. 
«Ahimè, se si trattasse solo di guerre e miseria! No, qualcosa di ben più grande ha preso a serpeggiare dalle coste occidentali. Rimpiango quando, al lume della luna piena, osservavo le onde sciabordare. Allora portavano solo spuma e conchiglie. Le buone maniere ti sono sconosciute, vedo. Offri qualcosa a un vecchio stanco!»
«Non ho che qualche lattuga. I terreni si inaridiscono, i venti sferzano con più ferocia. L’aria è empia di qualcosa che non saprei definire. Forse i tuoi non sono i vaneggiamenti di un povero pazzo.»
«Dunque è questo ciò che pensi di me! Ma la tua idea muterà totalmente, se mai oserai varcare i confini di questo villaggio. E a proposito di ciò...». Il vecchio lasciò che qualche istante passasse prima che la frase venisse completata. «E a proposito di ciò, avrei da riferirti qualcosa che potrebbe interessarti.»
«Bene, sono pronto ad ascoltarti». Roen non era poi tanto sorpreso: erano rare le volte in cui Ilgis si precipitava in casa sua senza proporgli una gita sui colli vicini o una passeggiata fra gli sterpi della landa ai piedi del villaggio. Avrebbe declinato l’offerta, ma voleva carpire più informazioni possibili sul male prima accennato: sarebbe potuto essere un buon argomento da introdurre nei suoi racconti e nelle sue poesie.
«Conosci bene il passato che mi accompagna, o quantomeno il necessario per giustificare i miei vagabondaggi e i miei timori mai infondati. Penso tuttavia che sia necessario rinfrescarti la memoria, poiché la mia ultima narrazione risale a poco prima che tu compissi vent’anni. Quanti inverni sono volti al termine da allora! Ancora rivedo le macerie fumanti della mia casa, distrutta dai carri e dalle asce delle legioni del Nord (checché se ne dica, sono loro i pazzi in questo mondo malato). Io e mia moglie fuggimmo in tempo, ma troppo tardi ci accorgemmo dello sbaglio commesso: nostra figlia era rimasta dietro di noi, e da molto tempo ormai non avvertivamo più il suo fiato. Tornammo quindi indietro, pronti a combattere e cadere, se fosse stato necessario. 
«Lì ove poco prima si ergeva la nostra casa giaceva il corpo straziato di Brelen. La visione fu orribile... Poco tempo passò prima che mia moglie espiasse delle colpe inconsistenti ricorrendo all’ausilio del cappio. Non starei qui ad importunarti, se gli Dei delle stelle non mi avessero donato la Speranza. 
«Sondai la mia anima, trovandovi nascosti energia e coraggio. Mi feci carico del dolore e della disperazione della mia famiglia oramai distrutta, e partii. Vagai per cavi monti e fiumi di sabbia prima che una serie di circostanze mi portasse all’evento che mi fece correre qui come un pazzo. Alle mie spalle il mare lasciai, i cui di spuma tentano ancora adesso di spiarmi». Nel silenzio, l’affannoso respiro di Ilgis.
«Corresti qui come un pazzo e portasti la pazzia, mio vecchio amico. Le tue parole non sono altro che un buono spunto per racconti e poesie da vendere ai viaggiatori. Molto tempo è passato dal mio ventesimo compleanno.»
«Sciocchezze!» tuonò il vecchio. «Fuori di qui accadono cose i cui contorni non appaiono definiti nemmeno nei sogni degli uomini annebbiati dall’oppio. Ami così tanto i libri: non pensi sia meglio viverle, le avventure, anziché leggerne?»
«È più facile scampare a un duello, se questo sta solo nella tua testa.»
«A meno che non si tratti di un duello contro te stesso. Ma che sfide e battaglie possono essere mai presenti in quella tua testa vuota?»
Si alzò e prese a camminare. Bofonchiava parole sconosciute sotto la candida barba, mentre la mano rovistava fra tasche e taschini nascosti. All’improvviso s’arrestò. 
«Pensi che anche questo sia il frutto del delirio?»
Un lungo artiglio marrone emerse da sotto il mantello. Riluceva della tremula luce di un sole stanco. La punta pareva troppo affilata per essere un manufatto intagliato in qualche strano minerale, e in ogni caso emanava un non so che di arcano, palpabile manifestazione di mondi sconosciuti celati dall’ignoranza.
L’artiglio - o forse era un dente? - turbò profondamente Roen. Nella sua testa mille pensieri nacquero e soffocarono. Il vecchio rise: aveva colto la natura del suo silenzio.
«Che ridi? Metti via quell’affare, potrebbe cavare l’occhio a qualcuno.»
«I tuoi pensieri sono stati turbati dalla verità, nevvero?»
«Nient’affatto. Lasciami riposare adesso, questa notte non ho chiuso occhio.»
Il vecchio si congedò, adesso libero da un grande fardello. Con un gran sorriso si diresse all’unica taverna della città. 
Trascorse lì il resto della giornata, meditando sulle parole da adoperare quando Roen si fosse sentito pronto per un’altra discussione. 
 
Il cielo del giorno dopo prometteva pioggia e fulmini. Il vecchio sgattaiolò fuori dalla sua stanza, tenendosi lontano dalla gente che s’apprestava a riparare bestie e fieno. Presto fu innanzi la casa dell’amico, una triste figura piegata dal degrado. Le finestre del piano superiore, per metà crollato, oscillavano pericolosamente al vento. Per quanto ancora la struttura sarebbe stata in grado di sostenere il proprio peso, non lo sapeva. 
Bussò alla porta e fu subito accolto in casa. Non ebbe nemmeno il tempo di accomodarsi, che Roen attaccò discussione.
«Niente parole inutili: il tempo è denaro, e la penuria di finanze testimonia quanto siano seccanti i miei vicini.»
«A me pare che sia tu quello che preferisce perder tempo fra riflessioni e inutili divagazioni.»
«Silenzio!» esclamò. Pareva febbricitante: l’idea di ammirare ciò di cui aveva sempre letto e sognato adesso lo esaltava. Aveva intenzione di partire immediatamente, ma senza darla vinta così facilmente al vecchio. «Intuisco che tu non mi stia proponendo una semplice escursione. No, scorgo qualcosa di più profondo nei tuoi occhi. Ahimè, so che mi sto cacciando in qualche enorme guaio.»
«Quanta fretta di partire!»
«Fretta di partire? Non ho alcuna fretta di partire.»
«Mi fido delle tue parole», disse con tono sarcastico. «Comunque sia, non importa. Hai prima centrato la natura della mia proposta: essa è ben più ardua e pericolosa,» e qui Roen sussultò, «ma vedo in te qualcosa... la fiamma di una candela che desidera inondare di luce i recessi della tua mente, ottenebrati come sono dalla vacuità della vita che conduci.»
Roen aprì bocca, poi la richiuse. Fuori proruppe il fragore di un tuono. 
«Temo tuttavia che non troverai più tempo da dedicare ai tuoi cari libri.»
«Se accettassi, quale sarebbe il mio compito?»
«Portare un messaggio ad un re lontano.»
«Tutto qui? Immagino tu non voglia pronunciare il nome delle creature che ostacoleranno il nostro sentiero.»
«Solo gli Dei scorgono i profondi abissi dell’avvenire.»
«Un modo carino per dire che avevo ragione. Sella i cavalli e procura vettovaglie, io non ho che questa penna e questo blocchetto di fogli. Mi terranno compagnia durante i bivacchi.»
Ilgis rise. L’amico aveva infine tradito i suoi pensieri, ma pareva non prestarvi troppa attenzione. Roen chiuse le finestre e nascose i suoi libri e i suoi manoscritti. «Qualche bimbetto fastidioso entrerà di certo a rovistare fra la mia roba. Rimarrà allora deluso: soltanto la polvere e il legno marcio avrà con cui giocare.» 
 
Lasciarono la casa nell’istante in cui la pioggia prese a scrosciare. Roen s’addolorò molto: i foglietti nella tasca della giacca andavano sciogliendosi. E forse non si trattava di questo: alle sue spalle lasciava amici cui non aveva avuto il coraggio di dire addio.

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Capitolo 2
*** Imprevisti ***


«Quando ti dissi di sellare i cavalli e preparare il necessario, intendevo proprio quel che dissi!»
 
Camminavano oramai da parecchio tempo. La pioggia si era diradata, lasciando che una leggera nebbia avviluppasse colli e viandanti. Contro ogni aspettativa di Roen, s’andava a piedi; niente cavalli, borse in spalla e una lunga via dissestata da percorrere.
 
«E per quale assurdo motivo abbiamo imboccato questa via? I ciottoli e l’erbaccia fanno male!»
 
«Se non vogliamo perder tempo è necessario addentrarsi in brevi scorciatoie, benché spesso siano maltenute come questa. E adesso mira diritto e non fiatare!»
 
«Non mi hai ancora spiegato perché continuo ad adoperare i miei piedi per un viaggio che si prospetta interminabile».
 
Oltrepassarono una fitta macchia di cespugli, mirando verso est. Lasciato alle spalle un ripido sentiero su ciò che parve a Roen una collina pietrosa, la nebbia s’alzò come un sipario, rivelando la maestosità di una landa coperta da un fitto reticolato di ruscelli e rigagnoli d’acqua lucente. Era quella Rorilanda, una sconfinata distesa di terra rifulgente di zaffiro incastonata fra strapiombi di pietra grigia. Benché sembrasse un paradiso verde al centro d’un deserto, gli Uomini non osavano sfruttarne la fertilità a causa di antiche leggende.
 
«Rorilanda, ridente gemma fra terre di lacrime! Mira bene ciò che hai innanzi, potrebbe essere l’ultima volta che...»
 
«Cosa?»
 
«Non ti ordinai forse di non fiatare? Va’ avanti e scova un bordo sufficientemente solido: ci caleremo con le corde».
 
«Pensavo fossi tu la guida. Sfodera qualche artifizio che generi scalinate in pietra e cristallo, non m’intendo di scalate».
 
«Smetti di vivere nelle fiabe. Se avessi la capacità di generare comodi passaggi non avrei chiesto il tuo aiuto. Va’, lascia fare a me».
 
Ilgis s’avvicinò al limite dello strapiombo, saggiandolo con attenzione. Emise un verso e indicò il punto da cui avrebbero disceso la parete rocciosa.
 
Scendere si rivelò più facile del previsto. Roen si divertì a terrorizzare il vecchio urlando aiuti disperati, ma smise quando questi gli colpì il capo con un grosso sasso. Spero che questo t’insegni qualcosa, disse.
Mirarono tosto l’occidente, balzando qualora una serpe d’acqua ostacolasse i loro passi. Si fermarono al cospetto di una grossa statua priva degli arti superiori. Il viso consunto celava un’espressione fiera e nobile. Una fitta rete di rampicanti lo vestiva, ma le foglie, per un motivo o per un altro, non riuscivano a nascondere la scritta incisa su quella che pareva una lapide di marmo posta ai suoi piedi. 
 
«Chi Borunhregiret, driltisref driltisev. Qui giace Borun, re fra i re. Oh, il tempo è infine riuscito a portarlo seco. Avrei dovuto fargli visita.»
 
Per la prima volta Roen si chiese quanto in realtà fosse vecchio l’amico.
Riempirono gli stomaci con gallette e carne secca, quindi si rimisero in viaggio. Lasciarono che il braccio che piegava verso sud passasse alle loro spalle, mirando sempre verso il letto del sole. 
La vegetazione cominciò a farsi via via più fitta sino a formare un denso intrico d’alberi e rovi. Varie e mansuete erano le bestie che ivi abitavano, e la terra punteggiata di fiori violetti e bianchi provava l’amenità del posto. 
I castagni e i pruni presero lentamente a scemare, cedendo il posto a una piccola radura circolare. Non vi si fermarono; anzi, Ilgis parve affrettare il passo. Giustificò la sua fretta con un semplice ho fretta, che poco piacque al compagno.
Infine gli alberi si diradarono: una lingua di terra separava i due boschetti. Le nuvole erano scomparse: adesso il sole inondava di luce ogni angolo di cielo. Il meriggio era ancora vivo, fatto che ristorò in parte le membra stanche dei viaggiatori.
S’inoltrarono allora nel bosco loro innanzi, più fitto e ampio del precedente. L’incedere non era particolarmente faticoso, poiché rare erano le salite.
Camminarono fianco a fianco sferzando i cespugli che li ostacolavano, ora irti, ora in fiore, dimore di scoiattoli e bestiole nascoste. Raggiunsero in fretta una radura circolare ampia un tiro di sasso. Era adombrata dai rami di grossi alberi, e parecchi erano i fiori che punteggiavano il manto erboso fine e curato. Al centro vi era una pozza d’acqua con in mezzo un isolotto sormontato da una casa minuscola posta su delle palafitte. Pareva disabitata.
 
«Quella, Roen, è una casetta molto pericolosa». Rise e prese a camminare. L’altro lo seguì, ignaro dell’importanza delle sue parole.
 

La luce del sole ormai fioca tingeva d’oro le fronde degli alberi; qualche lama di luce cadeva come liquida sui volti della compagnia, confortandola un poco. Quando infine giunse il crepuscolo, si diressero ai piedi d’un grosso castagno, ove avrebbero installato il bivacco. Il fuoco fu tosto acceso e la cena preparata. Roen fu troppo stanco per parlare sicché, rannicchiatosi, s’assopì. 
Si svegliò di soprassalto a causa di una visione fosca e inconsistente che aveva turbato il suo sonno. Sotto la luna calante s’ergeva la figura di Ilgis assorta in qualcosa che emanava una tremula luce. 
 
«Che stai facendo?» chiese ad alta voce. 
 
Il vecchio sussultò, ma rispose con voce tranquilla.
 
«Al contrario tuo io possiedo degli amici. Lascio loro un messaggio».
 
«Qualcuno abita qui in giro e tu mi fai dormire su sassi e spine?».
 
«Se desideri una risposta, osserva le mie azioni».
 
Roen si chiese cosa intendesse dire, ma presto l’oblio lo avvolse fra le sue spire.


 
 
Come petali di fiore, le nubi dell’alba si svolsero in magnifiche danze. Il vento si levò dolce per svegliare con carezze e sussurri gli abitatori della luce. 
Ma la bellezza di quel giorno non sfiorò affatto la compagnia. Gli uccelli che ancor cercavano di scrollarsi dalle penne il torpore della notte avrebbero potuto sentire due bipedi parlare a gran voce.
 
«Per l’amor del cielo, le fauci di questa formica sono spaventose!».
 
«Abbi rispetto, sciocco viaggiatore: quella formica possiede nome e passato come tu forse possiedi».
 
Roen non poteva muoversi. Si era svegliato intrappolato nella terra: solo la testa era libera, alla cui guardia un esercito di formiche stava in attesa. Qualcuno alle sue spalle infieriva ad ogni sua parola. Dalla voce intuì che fosse svelto e minuto. «Ilgis, buono a nulla, era dunque tutto uno scherzo?»
 
Ma il vecchio compagno non poteva ascoltarlo.
 
«Sta’ zitto, Uomo! Il sole non è ancora alto. Voglio divertirmi un poco con te».
 
«Quali sono le tue intenzioni? Abbi il coraggio di mostrarti!»
 
«Non soffrirai, te lo prometto».
 
Rise in modo strano.

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