Il cane dei vicini

di Giamo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno alle origini ***
Capitolo 2: *** 'Dannato ragazzo.' ***



Capitolo 1
*** Ritorno alle origini ***


IL CANE DEI VICINI

Jake era appena tornato nel Maine, dove era cresciuto. Aveva vissuto nell’Ohio, dai suoi zii, per motivi di famiglia, per quasi 10 anni. Ma ora poteva tornare a Portland, la sua città natale, all’età di 21 anni. Era andato ad abitare nella vecchia casa di famiglia, una vecchia casa patronale, molto grande. Davanti aveva un parchetto, non enorme, perché nell’87 la sua famiglia vendette parte del terreno per la costruzione di nuove strade. In origine la casa era dipinta di rosso, ma le intemperie, il tempo e la scarsa manutenzione trasformarono e sbiadirono il colore. Gli interni erano prettamente in legno, su tutti e tre i piani dell’edificio. Nulla era cambiato in questi 10 anni, gli alberi di noce ai lati della strada, le case, la chiesa del quartiere, niente. Neanche la casa dei vicini. Neanche il cane dei vicini, ovvero la causa dei motivi familiari che spinsero Jake dagli zii. Ebbene, quel cane, un alano nero, alto 83 cm al garrese, uccise la madre e il padre dieci anni prima, ma nessuno ci credette poiché i corpi che lui trovò non erano riconoscibili: la polizia disse che i suoi genitori erano scomparsi e che gli alani non si cibano di carne umana. Jake peròsapeva, aveva visto il cane saltare alla gola della madre prima, a quella del padre poi; vi si lanciò ringhiando e li lasciò a terra con la gola zampillante. Jake aveva veduto  tutto mentre era all’altalena nel giardino e scappò subito in casa, chiudendosi a chiave. Chiamò quindi il 911
-911, chi parla? Come possiamo aiutarla?-
-S..sono Jake Ross, p..per favore..aiuto, un cane sta uccidendo i miei genitori!-piagnucolò jake.
-Dove si trova?-
-Portland, Craven Road n7-
-Stia tranquillo, manderemo subito una pattuglia.-
L’alano non perse tempo a cercare di entrare in casa, piuttosto s’accanì sui coniugi cadaveri, sbrindellando la loro carne e staccandola dalle ossa con ferocia. Quando fu soddisfatto, uno o due minuti dopo, si cominciava a sentire la sirena della volante che però era ancora troppo lontana, e la bestia era troppo veloce. Troppo lesta fu l’animale a nascondere i corpi, via nel suo giardino. In seguito, pochi giorni dopo, una sera, Jake trovò le ossa dei due genitori nel giardino, davanti la scalinata, mentre era in casa con i suoi zii.

Jake rimise piede in quella casa dopo due lustri, tutto era come era stato lasciato, nella sua mente c’erano ancora i pezzi di carne e le macchie di sangue sul prato, una volta ben curato. Le vecchie palme avevano bisogno di essere curare, ne era rimasto solo un macabro scheletro, una colonna lignea che s’ispirava ad un menhir alto 20 metri. Il vialetto che portava alla larga scalinata, che si apriva a ventaglio dalla bella porta di noce, era in balia delle erbacce avide e mangiatrici. La casa era in degrado, l’orto al fianco opposto delle palme era morto, come i vecchi padroni di quella proprietà.

Jake era rimasto in casa a sistemare e pulire come meglio poteva l’edificio che, nonostante non fosse stato abitato per anni, non era danneggiato gravemente. In qualche modo era riuscito a sconfiggere i demoni che quel posto evocava, anche grazie all’aiuto di uno psicologo. Apparentemente non aveva più paura, s’era abituato ai ricordi, li aveva tutti sepolti, come i genitori. Ma la fobia del cane gli era rimasta, quel grosso, vecchio cane. Qualche volta lui stesso aveva dubitato dei fatti a cui aveva assistito, per via delle persone che non credevano ai suoi racconti. Come potevano non credergli? Gli dicevano che era stato suggestionato dalla fantasia. In ogni caso ormai apparteneva tutto al passato, già, quel passato che si spera di non dover affrontare mai.

Questo fu un frangente della sua vita pieno di ricordi e di flashback: il castagno gli ricordava le numerose arrampicate col padre, l’orto i lavoretti che tanto si divertiva a fare con la madre e così via, ogni singola cosa costituiva per lui un memo di una vita conclusa, morta e sepolta. Questo non era concepito da lui come una cosa negativa, o almeno, non ancora.
Era ormai un mese che era tornato e tutto aveva goduto di una nuova nascita: le palme erano state ripiantate, l’orto dava nuove messi, la casa era a posto, anche il seminterrato, anche il cancello, quel bellissimo cancello alto 4 metri e largo 5, quel colossale cancello nero di ferro battuto che, come un proemio, anticipava ed esprimeva tutta la bellezza che quella proprietà possedeva. Quel cancello nero, come quello di Mordor. Era decorato fino nei piccoli dettagli e presentava due falangi macedoni, l’una contro l’altra, ferme con le lance al cielo. Fu proprio quel cancello a proteggerlo un pomeriggio, quando, mentre usciva per gettare la spazzatura, vide due grandi orecchie spuntare da dietro uno dei soldati, due grandi zampe sotto al cancello. Era lui. L’alano. Lo scrutava e lo studiava, s’era spinto fino al cancello. Jake fu percorso da un brivido inibitore e s’immobilizzò: i due si guardarono negli occhi intensamente, fendevano l’aere con sguardi di sfida, poi il cane digrignò i denti e iniziò a ringhiare. Allora Jake si torse in un movimento fulmineo per correre in casa e chiudersi dentro, si fece cadere le buste di mano.

Quando arrivò in casa aveva il fiato corto e palpitava, rimase affacciato alla porta a vetri dell’entrata. Il cane abbaiò due, tre volte e poi se ne andò a passi lenti. Aveva un padrone quel cane? Dove erano i vicini? Jake non li aveva mai visti da quando era tornato. A pensarci bene neanche prima, erano perfetti sconosciuti, nel senso che non sapeva neanche se fossero mai esistiti. Cercò il numero sull’indice telefonico, senza trovarlo. Strano. Rimase tutto il giorno dentro casa per la paura.

La mattina uscì di casa intimorito, come gli orsi dopo il letargo: guardingo. Gli tornò alla mente il giorno dopo la strage. Era in casa con gli zii ma si sentiva comunque solo, solo come un cane, in casa sua. Non uscì nessuna parola da nessuna bocca per giorni, poi andarono via. Ora Jake era perseguitato dal ricordo del giorno dopo, delle sensazioni e delle emozioni. Nulla poteva torturarlo maggiormente. Voleva quel cane lontano da sé, per questo stava cominciando a pensare ad una possibile riapertura del caso. Era da un po’ di tempo che ci pensava, in città comunque la vicenda era ancora ben sentita e ben ricordata, non dimenticarono né cosa Jake sosteneva, né come i poliziotti reagirono insabbiando il caso. Il capitano della polizia era cambiato, avrebbe potuto ascoltarlo.

Decise di provare.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** 'Dannato ragazzo.' ***


‘Sta tranquillo piccolo, penseremo noi a prendere il colpevole’.

‘Ma il colpevole è il cane, lo giuro!’

‘Certo Jake, ne siamo certi.’

-Ne siamo certi.- l’ironia in quella frase s’era riversata nella stanza come un tornado.
Senza ritegno né esitazione il poliziotto fece uscire il bambino dalla stanza, riuscendo comunque, grazie, o per colpa, alla sua esperienza, a farlo uscire in maniera piuttosto rassicurante.

‘Jake, ci impegneremo, ti farò sapere ogni giorno.’ Mentì.
Una volta che fu uscito entrò la zia: l’espressione comprensiva e disponibile dell’agente si tramutò in una inespressiva maschera di cera. Jake rimase ad origliare fuori dalla stanza di nascosto e sentì tutte le parole che vennero assemblate dagli apparati vocali di entrambi i colloquianti.

‘Signora Ross, suo nipote sostiene che a fare tutto questo sia stato un grosso cane nero, a quanto pare lo descrive come un alano.’

‘M-mi vuole spiegare, p-per favore, per q-quale motivo non gli credete?’ Si lamentò la donna disperata.

‘I primi dubbi ci sono venuti in mente appena dopo aver visto i corpi, signora: i cani, sebbene talvolta attacchino le persone, non se ne cibano. In più non ci sono cani corrispondenti alla descrizione qui vicino.’

‘Sarebbe p-potuto essere un r-randagio, no?’ Pianse la signora.

‘Qui entra in gioco la scientifica. I risultati sono arrivati questa mattina alle 12.30 e sembrano escludere attacchi da parte di cani, a meno che non abbiano usato armi da taglio. E ciò porta ad un’unica soluzione, signora Ross.’

‘I-intende dire..che mio fratello e s-sua moglie, sono stati as-sassinati?’ disse con un filo di voce, strozzata dal nodo alla gola, pronto a sciogliersi in un irrompente pianto.

‘Mi dispiace, signora Ross.’ Così s congedò l’agente. La donna rimase sola, chiamando il marito con la voce spezzata, cercando un minimo di consolazione.

Jake, che aveva ascoltato, si rifiutava di credere a quelle menzogne, e se ne andò sconfitto e afflitto in camera sua, con la mente rivolta all’agente e alle sue fandonie, gli occhi rivolti alla finestra che dava sul giardino, tempio efferato di sangue e morte.

In questo modo andò il giorno dopo la strage, lui aveva 11 anni ed era perduto, sospeso a mezz’aria, aggrappato ai ricordi mentre sgambettava dopo il pavimento che lo reggeva e lo sosteneva, sotto i suoi piedi. Era un bambino di 11 che aveva impressa sulla retina l’immagine di coloro che l’avevano creato mentre morivano e venivano dilaniati. Chi sopporterebbe un peso tale? Mai lagrime furono più amare per il  giovane pargolo, mai giorni più tormentati, mai notti più travagliate. Come soffriva, quel povero fanciullo, che si chiuse in se stesso, nei suoi ricordi, dove era ancora avvinghiato al seno della madre, da cui traeva energia per vivere, o per morire. E poi venne la depressione, ci vollero anni di terapie per fargli superare quel colpo: 8 anni di apatia, oblio e tristezza, nei quali non aveva nessuno oltre ai suoi zii. Nessuno, oltre a loro, che fosse una figura di sostegno.

Ma ora era lì, in quella stessa casa, tranquillo e stabile: libero dai suoi fantasmi che era riuscito a dimenticare. Era lì con la volontà di riaprire quel caso che rimase irrisolto, dopo 10 interminabili anni da quel 1964, così un giorno Jake, salì sulla sua Mustang e procedette verso la caserma della polizia. L’edificio era ancora nello stesso punto di dieci anni prima, era lo stesso edificio di mattoncini rossi che si ergeva, come una cattedrale nel deserto, in quel mare di asfalto e cemento. Il sole d’agosto picchiava sulla terra e sull’acciaio della Ford: scintillava e si scontrava contro il cofano coprente quel v4 che rombava e sapeva di fulmine a ciel sereno.

Arrivò nel parcheggio e spense la macchina. Quando scese non vide nessuno per strada, né davanti al piazzale della caserma: neanche i serpenti uscivano con quel caldo. Una volta varcata la soglia trovò un esercito di ventilatori che si destreggiavano nella sala e rumorosamente ventilavano lo spazio chiuso, pieno di poliziotti che altro non facevano oltre che soffrire dal caldo e cercare aria con le nari, come cani fuori dai finestrini delle automobili. Jake si schiarì la gola per attirò l’attenzione, allora uno dei cops si voltò:
‘Prego, dica.’

‘Mi chiamo Jake Ross, sono qui per chiedere informazioni sul caso dell’omicidio di Julian Ross e Mary Ross, del 1964.’

‘Ehm..porga i documenti prego.’ Tutti i poliziotti nella stanza si dimenticarono un attimo del caldo e fissarono, quasi attoniti, il ventenne.

‘Lei è Jake Ross? Il bambino orfano?’ chiese uno di loro.

‘Zitto Bud, è ovvio che sì. Scusalo, è nuovo e il caso della sua famiglia è rimasto nella mente di molti.’ Replicò innervosito l’agente a cui Jake s’era rivolto.

Jake porse i documenti, l’agente non li guardò nemmeno, li chiese solo per prassi, poi disse ‘Credo che sia meglio che vada a parlare con l’ispettore Mitchell. È nell’ufficio in fondo al corridoio sulla sinistra.’

-Bene- pensò il ragazzo, avanzando passo per passo con una dozzina di occhi puntati addosso, come nei migliori film western. Andando avanti la porta si faceva sempre più grande: la porta, probabilmente di ciliegio, che aveva una targhetta d’ottone avvitata storta sulla parte alta di sè. Sulla targhetta era stato inciso ‘isp. James Mitchell.’ Dipinto poi in rosso. Avvicinatosi, Jake bussò. Risposte una voce scura :

’Avanti.’

‘Mi chiamo Jake Ross, sono qui per..’

‘JAKE ROSS?! CRISTO SANTO RAGAZZO ENTRA! ‘ Jake, confuso, girò il pomello sferico della porta e varcò la soglia.

‘Mio Dio, non pensavo ti avrei più rivisto dopo..beh lo sai! Come vanno le cose? Come mai sei qui?’

Jake, non capendo ‘Mi scusi, chi è lei? Ci conosciamo?’

‘Ah beh, non mi aspettavo che mi riconoscessi, d’altronde ci siamo visti solo una volta. Sono l’ispettore Mitchell, dieci anni fa ero l’agente Mitchell; ti parlai io il giorno dopo l’accaduto. Ma su, cosa fai lì impalato? Siediti, ti piace il whiskey?’

‘Meglio una birra, grazie’ sedendosi ‘quindi lei era l’agente che mi promise che mi avrebbe informato sui fatti.’

‘Beh figliolo, il caso non era mio, ma comunque passò subito ai federali, non chiedermi per quale motivo, ma non so se lo sai: quelli sono più riservati del prete della regina Elisabetta d’Inghilterra.’
‘Capisco.’ Sorseggiò la sua birra ‘voglio che lei riapra il caso.’

‘Coosa?! Sei diventato matto?’

‘Affatto. Voglio sapere com’è andata.’ Sentenziò accostandosi alla scrivania dell’ispettore.

‘In effetti il caso è rimasto irrisolto, ma abbiamo bisogno di qualcosa di tangibile per riaprirlo, tipo una testimonianza o una prova.’
‘Il cane. L’ho rivisto.’

‘Ah no è! Non ritirare fuori la cosa del cane!’ disse Mitchell agitando le braccia e voltandosi verso le finestre dietro la sua scrivania. ‘Guarda, ragazzo, lo faccio solo perché ormai sono vicino alla pensione e ho il potere per farlo, perché è un caso irrisolto e perché all’epoca lo presi a cuore, nonostante nessuno ci capì nulla. Adesso esci prima che cambi idea, devo chiamare il procuratore.’

‘Bene ispettore, ci aggiorneremo, le lascio qui il mio numero’ l’avvisò Jake appoggiando un foglietto sull’agenda dell’ispettore. ‘Arrivederci’. Soddisfatto, uscì.

‘Dannato ragazzo, spero che il procuratore sia comprensivo, non voglio giocarmi la pensione per un caso di dieci anni fa.’
 
Jake uscì dalla caserma, montò in macchina e compiaciuto si diresse verso casa, sapendo, in cuor suo, che la verità sarebbe tornata a galla, prima o poi.
Intanto, a casa sua, davanti quel cancello eroico, un vecchio, grosso cane  nero, aspettava il ritorno di un suo amico, come il buon Argo fece con l’ellenico Odisseo, il guerriero multiforme.

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