Casino Royal - Slow Down The Heist

di Belarus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #01. Hôtel de Paris ***
Capitolo 2: *** #02. Boulevard Louis II ***
Capitolo 3: *** #03. Casino Royal ***



Capitolo 1
*** #01. Hôtel de Paris ***




Titolo: Casino Royal – Slow down the heist.
Personaggi: Romano Vargas[Sud Italia]; Antonio Fernandez Carriedo[Spagna]; Arthur Kirkland[Inghilterra]; Francis Bonnefoy[Francia]; Alfred F. Jones[America]; Kiku Honda[Giappone].
Avvertimenti: AU; Linguaggio volgare; Shonen-ai; Lime.
Note: La storia si svilupperà in cinque capitoli, sicuramente diventerà una serie e si comporrà di altre missioni che varieranno più o meno in personaggi e ambientazioni. La fantomatica “Across” di cui parlo nella storia è un’organizzazione di mercenari internazionale, eventuali dettagli verranno dati in seguito e nelle note tecniche a piè di pagina. L’idea prende spunto e rivisita una doujinshi intitolata “KRHK” e da cui un’altra autrice di questo sito, “claws”, ha tratto anch’ella ispirazione {ovviamente non si tratta di un plagio, io e lei ne abbiamo anche parlato e non credo sia da considerarsi neanche un’ispirazione della suddetta storia, ma vi invito ugualmente a leggerla perché è davvero degna di nota!}.
Sperando che qualcuno si degni di leggerla e possa anche solo vagamente apprezzarla, vi auguro una buona lettura! Merci, mes amis! *-*
NoteII: La storia partecipa al contest “Pas a Pas” indetto da Fanny_rimes sul forum di EFP.
Prompt scelto: “Vuoi sentire prima la brutta notizia o quella bruttissima?”




Casino Royal – Slow down the heist





Porto di Fontvieille, ore 10:26.




«Wooooow!»
Batté irritato il mocassino marrone sul parquet in ciliegio che rivestiva il ponte dello yacht stringendo le braccia attorno alla camicia color cachi per metà sbottonata.
«Il porto di Sant’Ercole è mille volte più bello di questa spacconeria da ricconi! Ma di quello non se ne fotte proprio nessuno!» ringhiò inviperito.
Non riusciva, neanche sforzandosi, a capire che avessero da agitarsi tanto Kiku e Alfred per un po’ di mare. L’Italia, la sua bellissima Italia, era nella quasi totalità circondata dal più bel mare che il mondo avesse mai visto, c’erano spiagge bianche, acque cristalline, scogli su cui prendere il sole per ore intere o bar ombrosi in cui sorseggiare una spremuta fresca o mangiare un gelato. Quel posto non aveva nulla che Romano non avesse già visto, fatta eccezione forse per le imbarcazioni a vela piene di signorine in costumi striminziti e gli yacht da milionari che fluttuavano placidi vicino a qualche scogliera o negli appositi attracchi con stupidi pinguini che servivano cocktail ai gamberetti a vecchi bacucchi dalla pelle rovinata dalle lampade. Ad ogni modo anche considerando questi elementi, non vi trovava nulla di talmente eccezionale da meritarsi tanto entusiasmo e simili versi di eccitazione. C’era però da considerare il pessimo gusto di cui era capace quel mancato giocatore di football che si scarrozzavano dietro da qualche anno e la condizione di estasi in cui ricadeva il giapponese appena arrivato per qualsiasi “bellezza” naturale o artistica che gli ciondolasse dinanzi al naso. Non avrebbe dovuto stupirsi poi tanto di quell’ardore insensato ed esagerato che mostravano, non c’erano abituati e sicuramente non erano mai stati a Roma, Firenze, Venezia o in qualsiasi altro borgo del Bel Paese.
«Davvero è più bello di questo?» chiese una voce curiosa lì accanto.
Romano si volse di colpo gettandogli un’occhiata accusatoria.
Quella domanda era quanto di più sciocco le sue orecchie avessero mai sentito e dire che da quando era entrato nell’organizzazione insieme a suo fratello, ne aveva sentite di stronzate apocalittiche!
«Certo che lo è bastardo! Mi stai dando del bugiardo per caso?!» abbaiò rissoso mostrandogli il pugno.
«Non lo farei mai Romano, lo sai!» rise cristallino portando le mani innanzi a se.
Il giovane continuò a fissarlo con ostinato risentimento, per poi soffiare irritato come un gatto indispettito.
«Perché non ci andiamo quando abbiamo finito con questo lavoro?» continuò con un sorriso sereno posandogli una mano sulla testa.
La zazzera castana già scompigliata dalla brezza del mare parve animarsi maggiormente, il ciuffo ribelle che svettava perennemente sul suo capo scivolò tra le dita callose dello spagnolo esattamente come fece poco dopo il giovane.
«Dove?» chiese guardingo mettendo un po’ di distanza tra se e l’altro.
«A porto… Sant’Ercole! Si chiama così, l’ho detto bene vero?!»
Romano strinse i pugni infastidito tirando fuori un broncio quasi infantile, quello stupido castigliano non voleva proprio saperne di lasciarlo in pace.
Da quando avevano fatto sesso in quella schifosa camera a Salvador de Bahia, si era messo in testa chissà cosa, non faceva che chiedergli di fare passeggiate insieme, passare quelle poche serate libere che il crucco gli concedeva insieme, organizzare week-end insieme, condividere la camera. Non avrebbe potuto negare di essere stato bene durante quell’ultima missione, il sesso era stato un’esperienza del tutto nuova considerando che mai si sarebbe aspettato di farsi mettere le mani addosso da un uomo, ma ciò non comportava per forza maggiore che loro due dovessero diventare una coppia. Era stato un momento dettato dal caldo, dalle bottiglie di tequila che quei raccoglitori di cotone continuavano a mettergli in mano e dai commenti poco casti che la figlia del contadino faceva su Antonio. Si erano divertiti entrambi, ma la cosa era terminata su quel letto, nella vasca del bagno e di nuovo su quel letto, ma era stata archiviata come passatempo che mai avrebbe dovuto verificarsi ancora o almeno era quello che Romano aveva intenzione di fare. Quello stupido sordo di uno spagnolo invece non si era messo l’anima in pace neanche dopo cinque mesi, continuava a perseverare ricordandogli con ogni carezza forzata o sorriso intenerito le situazioni più disparate che l’altro si era imposto di rimuovere. L’italiano gli aveva urlato addosso più di una volta la realtà dei fatti, si era persino armato della più grande dose di pazienza che avesse mai raccolto nella sua breve vita per mettere in chiaro quanto loro non fossero una coppia, con un linguaggio semplice e comprensibile persino da un bambino di cinque anni, ma l’altro non voleva proprio saperne di capire. Ostinato continuava a vezzeggiarlo e squadrarlo come se si fossero appena sposati o l’italiano fosse un cucciolo di chissà quale animale da accudire con amorevole dedizione, nonostante le ormai scontate e abituali rimostranze di Romano, Antonio non voleva cedere in alcun modo.
«Vado di sotto in cabina a prendere il mio bagaglio.» borbottò scocciato, allontanandosi sul ponte.
Antonio rimase immobile accanto al parapetto della barca, la spuma del golfo di Monaco bagnò fresca i pantaloni in cotone avana che indossava, il medesimo sorriso che aveva mostrato sentendo Romano decantare – a suo modo – le lodi della propria patria rimase dipinto sul suo volto abbronzato. Alle sue spalle Kiku aveva tirato fuori la sua preziosa macchina fotografica, mentre Alfred si sbracciava poco saggiamente salutando ogni essere umano che gli capitasse a tiro nel giro di chilometri.


Hôtel de Paris, ore 14:21.




La mano si poggiò con stanchezza sul campanello dorato posto sul bancone della hall, un tintinnio squillante si diffuse per l’immenso salone lussuoso tra il vociare degli ospiti civettuoli e il rombo delle auto sportive che ruggivano innanzi ai pochi gradini che separavano la struttura da Place du Casino. Attese appena qualche secondo e premette nuovamente sperando che qualcuno si precipitasse a dargli le chiavi della sua tanto agognata camera, mentre una Lamborghini dalla carrozzeria scura parcheggiava accanto alle aiuole ricolme di fiori che circondavano la sfera di acciaio posta al centro della piazza. Alcuni responsabili dell’albergo, in fondo al grande piano in porfido rossiccio che percorreva l’intera lunghezza della sala, gli sorrisero cordiali continuando a occuparsi dei clienti giunti poco prima.
«Romano! Perché fai così? Non ho detto nulla di male!» si lamentò Antonio inseguendo l’italiano che aveva appena varcato la soglia del salone.
«Quel nomignolo per te non è nulla di male?! Cosa cazzo hai nella testa noccioline?!» strillò inferocito.
La mano si strinse attorno al campanello con maggiore insistenza, lo scampanellio ormai assordante lo costrinse a chinare il capo e rimproverarsi mentalmente per la scarsa educazione che stava mostrando.
«Che c’è di strano se ti chiamo Romanito?» insistette fermandosi qualche metro alle sue spalle.
«Smettila! Ti ho detto di non chiamarmi a quel modo bastardo! E poi ci guardavano tutti come fossimo degli appestati! Tienitele per te le tue moine!» la voce di Romano parve quasi divenire stridula per lo sforzo, le gote si arrossarono per la vergogna.
Arthur mollò improvvisamente il tanto bramato campanello dandogli tristemente le spalle, le iridi verdi guizzarono indignate sulle figure dei due compagni di lavoro, provocando uno squittio malcelato nel giovane italiano colto alla sprovvista.
Quel comportamento era intollerabile considerando il motivo per cui si trovavano lì a Montecarlo, la loro non era certo una sciocca gita tra amici in cui fare le escursioni in barca, gironzolare per i fast-food o beccarsi come piccioni nella stagione degli amori. C’erano milioni di euro in ballo per la loro organizzazione, una missione affidata con ogni probabile e dovuta raccomandazione, delle coperture da mantenere di cui la polizia del Principato sarebbe dovuta rimanere all’oscuro e lui, come responsabile della missione e persona adulta, aveva tutta l’intenzione di non mandare in fumo nulla. Avevano già perso abbastanza tempo per i capricci culinari di Alfred indignato per la scarsa presenza di fast-food made in USA – sette in totale –, non potevano permettersi di perderne dell’altro discutendo su nomignoli affettuosi.
«Se avete finito con i vostri preliminari, vi pregherei di fare silenzio, perché qualora non ve ne foste accorti… vi stanno guardando tutti, adesso però!» sibilò scontroso tentando quasi invano di mantenere un tono basso.
«Sir… posso fare qualcosa per lei?» chiese improvvisamente qualcuno alle sue spalle.
L’inglese si volse di colpo ignorando il tentativo dello spagnolo di ribattere a quel rimprovero, sospirò riacquistando quell’aplomb esemplare che lo contraddistingueva, un sorriso garbato si disegnò sulle sue labbra, mentre il concierge della hall lo osservava criptico rigirandosi una stilografica tra le dita.
«Sì, dovrebbero esserci due camere prenotate a mio nome per questa settimana, se fosse così gentile da controllare gliene sarei davvero grato!» recitò impeccabile.
Il volto dell’uomo parve distendersi in un sorriso cordiale, annuì borbottando qualcosa d’incomprensibile per poi accomodarsi sul piccolo sgabello di pelle rossiccia che era stato posto alle spalle del bancone. Le mani corsero veloci allo schermo del computer, Arthur si sporse appena osservando con estrema attenzione le varie prenotazioni che continuavano a spostarsi al tocco dei polpastrelli allenati.
«Il nominativo Sir?» chiese rialzando il capo castano.
«Henry Baskerville.» scandì con l’ennesimo sorriso.
Antonio inforcò degli occhiali dalle lenti chiare avvicinandosi al banco, Romano accanto a lui sfoggiò un’espressione guascona che consuetamente non avrebbe mai adottato, l’uomo addetto alle prenotazioni gli rivolse appena uno sguardo, intento piuttosto a disbrigare la prenotazione. Rimase occupato per alcuni minuti, quando finalmente ebbe trovato le camere e sbloccato l’impegno, rialzò nuovamente lo sguardo, gli occhi parvero brillare di una luce persino più intensa non appena ebbero incontrato quelli dell’inglese ancora poggiato al marmo. Afferrò un paio di chiavi dorate dagli appositi scaffali numerati e una manciata di fogli prestampati su cui erano stati incisi il saluto d’accoglienza dell’Hotel, informazioni e un questionario.
«Sir Baskerville le do il benvenuto all’Hôtel de Paris! Le vostre camere contigue si trovano al quarto piano corridoio est come avevate richiesto, ho già provveduto a farvi trasportare i bagagli che avevate affidato al concierge, li troverete debitamente sistemati!» cinguettò lezioso.
Arthur annuì stringendo la mano che l’uomo gli porgeva e Antonio si premurò di agguantare le chiavi delle camere, allontanandosi in tutta fretta verso la scalinata candida in marmo lucidato che squarciava il salone d’accesso conducendo al primo piano. Romano si mosse sul lungo tappeto bordeaux con un sorriso inconsueto, un angolo delle sue labbra parve incrinarsi quando si rese conto di essere nuovamente solo in compagnia dello spagnolo. Continuò a salire le scale con passo quasi strascicato, il labbro inferiore serrato.
«Sir per una migliore permanenza la prego di compilare il questionario con le sue eventuali esigenze per questa settimana, ovviamente provvederò personalmente a riservarle un’accoglienza degna di nota in qualsiasi locale di nostra competenza!» si piegò in una piccola riverenza lasciando che la stretta si sciogliesse.
L’inglese ricambiò il saluto di commiato chinando appena il capo biondo, afferrò in fretta la ventiquattrore di pelle marrone abbandonata accanto al bancone e attraversò metà del salone, prima di scorgere la griglia dorata dell’ascensore panoramico per cui il complesso alberghiero era noto in tutto il Principato. Vi si diresse a passo spedito sgusciando tra chihuahua ingioiellati, pacchi regalo e ricche adolescenti inferocite contro chissà quale commesso di una boutique di lusso. Infiltrarsi non era mai un grosso problema, gli alberghi, le società di credito, gli azionisti bancari o la polizia non avevano mai prestato molta dovizia nel controllare i loro documenti chiaramente falsi, ma i veri ostacoli arrivavano dopo, con i contatti diretti in loco e la pianificazione dei colpi da compiere. Per quelli le tessere identificative servivano a ben poco e il rischio di essere immortalati da qualche telecamera o colpiti da un proiettile della sicurezza era notevolmente più elevato. Aveva ormai abbastanza esperienza con l’Across da non farsi cogliere da attacchi di panico, ma derubare il Casinò di Montecarlo era pur sempre un’impresa da compiere con le dovute cautele.
«Non credo che al bar americano servano patatine, è un bar no Michael-san?»
«Impara dall’eroe Kiku! Non puoi mai dirlo se non controlli! Ahahah!» sghignazzò tornando verso l’entrata.
«Michael-san mi chiamo Toshi!» il viso del giapponese parve infiammarsi per la preoccupazione.
«Hai ragione Toshi!» gli fece l’occhiolino trascinandoselo dietro.
Arthur li vide sfrecciare lungo la hall come nel peggiore dei suoi incubi, il piede si piantò sulla soglia dell’ascensore impedendo alle grate di chiudersi, agguantò la propria valigetta quasi imprecando, mentre il giovane addetto all’ascensore gli porgeva il trench crema scivolato dalle sue braccia. Ripercorse i propri passi quasi correndo, sperando di bloccare quello stupido statunitense di Leavenworth prima che prendesse residenza in uno dei fast-food monachesi.
«Alf-! Michael! Torna subito qui!» si morse la lingua, cercando di non inciampare su una fila interminabile di bagagli di una coppia cinese.
Kiku si volse a guardarlo con dispiacere in una supplica silenziosa, tentò di parlare quando il britannico fu abbastanza vicino da poter udire la sua voce tra il mormorio dei clienti e il sottofondo rilassante dell’hotel, ma l’americano fu più svelto.
«Ci vediamo dopo vecchietto, io e Toshi andiamo al mio bar in fondo alla strada! Ahahah!» sghignazzò piantando un braccio attorno alle spalle dell’asiatico che per poco non svenne.
«Vecchietto a chi?! E quello non è il tuo bar stupido!» si ritrovò a strillare ormai in preda all’isteria.
Alfred e Kiku sparirono oltre le porte trasparenti, inghiottiti dal vociare concitato di Place du Casino, colma di turisti in visita al Principato, il cui luogo di maggiore attrazione era senza dubbio il grande complesso ludico posto proprio di fianco al grande hotel che recava il nome della famiglia reale e che loro avrebbero dovuto prendere di mira. Alcune cabriolet sfrecciarono proprio innanzi alla bottega di Yves Saint Laurent rallentando alla vista del concierge e un folto gruppo di donne sapientemente svestite e pomposi manager provenienti da chissà quale parte del mondo riempirono i pochi gradini del disimpegno. Arthur si concesse un sospiro rassegnato abbandonando l’idea d’inseguire i propri colleghi, chiuse gli occhi per qualche istante, mentre la mano massaggiava le tempie pulsanti e scivolava tra le ciocche bionde scarmigliate che così poco si addicevano a un gentleman.
Avrebbe dovuto trovare un buon modo per coinvolgere Alfred quel tanto che bastava da calarlo nei panni dell’eroe invincibile che supporta i compagni impegnati in una missione apparentemente impossibile, sul punto focale della grande serata era abbastanza fiducioso, ma aveva sperato sino all’ultimo secondo di non doverlo rincorrere per il resto dei giorni in giro per Montecarlo. Confidava tacitamente nelle capacità di ognuno degli elementi che Ludwig aveva selezionato per quel colpo, ma riuscire a tirarle fuori di continuo era un compito arduo e quanto mai bisognoso di pazienza.
Riaprì gli occhi cercando di farsi forza, era questione di qualche decina di hamburger o qualche bicchierone di Coca e l’americano sarebbe ritornato in camera felice come un bambino al parco giochi, la presenza di Kiku inoltre garantiva il sicuro rientro in un lasso di tempo che andava dal quarto d’ora alle due ore nette. Arthur lo giudicò abbastanza accettabile e un sorriso quasi grato si dipinse sulle sue labbra non appena ebbe realizzato di potersi concedere il lusso di un bagno rilassante prima dell’esercitazione di quel pomeriggio. Sorriso che si affievolì meccanicamente sino a mutare in una smorfia di autentico furore quando le iridi verdi si posarono sulla figura sorridente che baciava la mano di una donna sulla cinquantina.
«À plus tard ma chérie!» mormorò dandole poco dopo le spalle.
L’uomo mosse qualche passo attraverso la hall bloccandosi non appena i suoi occhi si furono posati sull’espressione di pura intolleranza che l’inglese, con le braccia ormai serrate al petto, gli stava rivolgendo. S’irrigidì per un istante interminabile, lanciò un’occhiata fugace al corpo prosperoso che si allontanava verso il salone di ricevimento insieme con altre donne dal viso reso inespressivo dal botulino, riprese a camminare con più entusiasmo verso il giovane ancora fermo accanto ai divanetti di pelle lavorata e un sorriso appassionato gli increspò le labbra sottili quando gli fu finalmente al fianco.
«Bonjour!» salutò suadente sporgendosi appena.
L’inglese fu tentato dal rompergli la propria ventiquattrore sul viso, ma la dedizione al lavoro lo trattenne dal sicuro massacro che avrebbe imbrattato le pareti della sala semmai avesse deciso di dar libero sfogo alla propria frustrazione, compromettendo di conseguenza la copertura. Si morse il labbro quasi facendolo sanguinare, si volse senza fiatare e si diresse verso l’ascensore cristallino di ritorno da chissà quale degli otto piani della struttura.
Sapeva che l’avrebbe rivisto, il tedesco era stato perfettamente chiaro nell’indicare i membri partecipanti al colpo, ma ritrovarselo a pochi passi aveva mandato al diavolo ogni suo papabile buon proposito per la civile e indifferente convivenza forzata.
«… Bonjour Monsieur!» il biondo insistette con un piccolo colpo di tosse, continuando a seguirlo.
Arthur si bloccò di colpo esasperato, schiantandogli addosso ciò che restava del suo povero trench crema ormai spiegazzato, serrò la mandibola, mentre l’altro socchiudeva gli occhi blu temendo il peggio.
Quello era molto più di quanto potesse solamente tollerare dopo tanto tempo. Ludwig, a capo dell’Across da ormai dieci anni, era sempre riuscito a gestire, con magistrale sapienza, ogni imprevisto dovuto alla scarsa ed eterogenea compatibilità dei suoi sottoposti, ma con quel colpo a Monaco aveva – a detta dell’inglese – fatto cilecca nel peggiore dei modi. Erano ormai troppi mesi che quella situazione andava avanti a singhiozzi, non che ad Arthur importasse qualcosa di quella situazione, ma l’idea di essere stato preso per i fondelli da un decerebrato bavoso cui probabilmente non fregava nulla, gli faceva perdere la testa più del sopportarlo di continuo alla base. Per di più avrebbe – secondo l’opinione o supplica del bavarese – dovuto comportarsi in modo responsabile, coscienzioso e che non nuocesse alla complessità del colpo, soprassedendo a qualsivoglia beccata del francese, cosa che avrebbe fatto più che volentieri.
«È tutto quello che sai dire?! Dopo sette mesi l’unica cosa che blateri vedendomi è “bonjiur”?!» sbottò infervorato facendogli il verso.
«M-ma!» tentò nuovamente colto alla sprovvista, mentre Arthur si allontanava a passo di carica.
Era più che intenzionato a ignorarlo o riempirlo di calci in qualche remoto e oscuro angolo di quell’hotel, in modo che la missione non ne soffrisse in alcun modo e la sua copertura da perfetto inglese alla ricerca di fortuna potesse procedere senza alcun intoppo.
Le grate dell’ascensore si aprirono con un lieve cigolio nell’istante stesso in cui il britannico vi si fu posto innanzi, il giovane che accompagnava i clienti nei vari piani lo salutò con rinnovato entusiasmo tentando garbatamente di sottrargli giacca e valigetta. Abbandonò con una risatina isterica il tentativo non appena Arthur si fu schiacciato contro la parete dell’ascensore, continuando a fissare rissoso il biondo ammutolito rimasto al di fuori del grande ascensore.
«Monsieur non sale?» chiese piano il ragazzetto, vedendo lo sguardo allucinato dell’uomo.
«”Messié” prende le scale o le ruote della prima auto che passa per la strada a tutta velocità! E ora andiamo, non ho tutta la giornata da perdere io!»


Camera 143, ore 18:44.




Kiku non era mai stato molto pratico in quanto a rapporti interpersonali, nonostante la sua famiglia fosse una delle poche talmente intraprendenti da abbandonare il proprio villaggio sulle colline per trasferirsi in una grande metropoli come Osaka, restava pur sempre una vena di chiusura dettata dalla tradizione. Aveva avuto la fortuna di crescere in una nazione ormai aperta a qualsiasi contatto con il resto del mondo, nella sua vita c’erano stati i viaggi studio in America, alcuni di puro piacere trascorsi in Europa, ma la quotidianità dell’Across, composta da uomini e donne provenienti da qualsiasi parte del mondo, continuava a stupirlo in ogni sua più piccola sfaccettatura. Erano passati pochi mesi da quando Yao-san lo aveva convinto ad abbandonare il vecchio lavoro d’informatico nell’agenzia d’imposte, c’erano centinaia di cose che non gli erano ancora chiare, compresa la modalità con cui il suo nome fosse stato scelto tra milioni di giapponesi, ma il “cosa” realmente legasse tutti quegli individui era forse quello che più lo incuriosiva. Erano mercenari il cui nome era ignoto all’INTERPOL, alcuni erano schedati nei gruppi speciali degli eserciti delle rispettive nazioni, altri avevano un passato da cittadini onesti e rispettabili, alcuni avevano lavorato nei modi più disparati, ma tutti avevano una qualche dote peculiare capace di isolarli dalla massa. Se fossero poi una combriccola di amici o una famiglia bislacca era ancora del tutto oscuro ai suoi occhi.
«Sto mon mignon!» sorrise poggiando le cinque carte sulle lenzuola violacee del letto matrimoniale.
«Sto anch’io.» gli occhi dell’asiatico corsero alle mani dell’italiano.
Durante il volo da Praga a Nizza si era largamente informato tramite la rete telematica riguardo ai giochi più popolari nei casinò europei e lo Chemin de Fer era senza dubbio uno dei più praticati. Le regole erano abbastanza semplici da quanto ricordava, ma non aveva ancora ben chiaro perché in quel tavolo d’azzardo improvvisato vi fossero due giocatori a sfidare il banco piuttosto che uno soltanto.
Romano nel ruolo di banco estemporaneo si rigirò le tredici carte tra le dita con sguardo critico, un broncio infastidito gli incrinò le labbra quando ebbe posato le proprie cinque il cui risultato era un misero quattro, fu appena un istante e gli occhi nocciola tornarono a brillare di scherno posandosi in quelli dell’inglese.
«Inglesino vuoi sentire prima la brutta notizia o quella bruttissima?» chiese derisorio sciorinandogli le carte innanzi al viso.
Arthur per un secondo effimero parve gonfiare le guance come un bambino offeso, poi alzò le spalle magre riacquistando la propria innata flemma e osservò quasi con tenerezza paterna il giovane italiano.
«Fa come vuoi ragazzino, ma vediamo di sbrigarci a finire questa partita.» soffiò stancamente.
L’italiano strinse i pugni irritato, le tre carte che Arthur gli aveva consegnato pochi secondi prima volarono malamente sul copriletto vinaccia disperdendosi con la leggera brezza che s’insinuava dalla finestra aperta che dava sul cortile dell’hotel.
«Il ragazzino qui presente ti ha battuto per tua informazione!» ringhiò infervorandosi.
Il viso dell’italiano si colorò di un’intensa tonalità di rosso, mentre il biondo gli rivolgeva un’occhiata addolorata portandosi una mano al petto quasi con afflizione.
«Oh che bruttissima notizia… non ci dormirò la notte!» si lagnò ironico.
Romano si premurò di lasciar cadere le restanti cinque carte, un ghigno di soddisfazione gli dispiegò il viso, dando un po’ di sollievo agli occhi ormai lucidi per il nervosismo.
«Quella era la brutta notizia! Quella bruttissima è che ti ha battuto anche il tuo fidanzato maniaco!»
Kiku aveva sempre considerato Arthur Kirkland come una persona a modo con cui intrattenere piacevoli conversazioni, un veterano dell’organizzazione cui venivano affidati i compiti più ardui per la grande capacità di organizzazione e autocontrollo che imponeva a se stesso e agli altri, eppure da qualche ora non faceva che vedere sul suo volto espressioni che mai si sarebbe aspettato. Il modo in cui i suoi occhi si sgranarono quando il giovane Vargas gli ebbe spiattellato in faccia la verità con perverso compiacimento parve decisamente innaturale.
«Non è il mio fidanzato brutt-What the hell?!» strillò quasi afferrando le carte che giacevano accanto alle sue ginocchia.
«Su non fare quella faccia inglesino! Sono sicuro che Francis ti concederà la sua rivincita!» sghignazzò provocatorio facendo battere le mani sulle proprie gambe.
«Oui Angleterre, posso concedertela tutte le volte che vuoi!» annuì elettrizzato il francese sdraiato lì accanto.
«That’s enough! Tu stammi lontano essere bavoso e tu va a rompere le scatole a Carriedo… Romanito!»
«Oh ma volete piantarla?! L’eroe è all’ultimo livello, non mi concentro se continuate a fare chiasso!»
Francis dopo una veloce occhiata allo statunitense abbarbicato sulla poltrona in amorevole compagnia della sua consolle portatile, lasciò ricadere la fronte sul cuscino di piume d’oca con un lamento, mentre l’inglese balzava in piedi puntando il dito contro il giovane.
«Dovresti smetterla tu Alfred! Questo non è uno scherzo, ci sono in palio i fondi dell’organizzazione e non possiamo permetterci di perdere a uno stupido gioco francese!»
Alfred o Michael Kent – come aveva deciso di chiamarsi per quell’operazione – gli rivolse una sbirciata quasi infantile prendendo a succhiare in modo frenetico dall’enorme bicchierone di Coca ghiacciata che erano riusciti a recuperare in un BurgerKing lungo il belvedere vicino al porto.
La porta in cedro che congiungeva la camera in cui si trovavano con la 144 si aprì silenziosa provocando in tutti un lieve sussulto, Kiku lasciò scivolare lo sguardo sulla custodia che giaceva abbandonata sotto all’enorme letto su cui due dei suoi cinque colleghi erano ancora accomodati, sarebbe bastato davvero poco per brandire la sua katana. La zazzera castano scuro dello spagnolo bloccò tuttavia qualsiasi possibile reazione da parte del gruppo, l’uomo richiuse l’uscio alle proprie spalle concedendosi un sospiro, mentre afferrava una sedia dal tavolinetto accanto all’armadio e ci si lasciava cadere.
«Hai prenotato da Alain Ducasse mon ami?» chiese impaziente Francis mettendosi a sedere.
Arthur si poggiò nuovamente al letto dopo avergli mollato un colpo di cuscino in piena testa quando Antonio annuì sorridente provocando nell’amico un versetto di eccitazione incontenibile.
«Piuttosto che continuare a parlare di stupidaggini, potrei sapere com’è la situazione di sotto?»
«La serata di gala è tra due giorni da oggi, tutti i tavoli saranno occupati da impresari, milionari o chiunque possa permettersi quelle quote d’entrata a ogni manche! Credo ci sarà anche qualche professionista perché c’erano due tipi al bar che parlavano di sfide per un attestato…» borbottò il castigliano tirando fuori dalla tasca un foglio spiegazzato su cui aveva preso appunti.
«E che cazzo però!» l’imprecazione parve aleggiare greve nell’aria.
Romano mollò un calcio a una delle lampade di legno nero che erano state sistemate negli angoli della camera, Kiku la guardò traballare per qualche secondo, mentre persino il suono del gioco dell’americano taceva preoccupato.
Il fatto che vi fosse così tanta gente a una serata organizzata dal casinò non era certo un problema per loro e anzi favoriva la buona riuscita del piano, il vero ostacolo adesso era rappresentato da quei presunti professionisti di cui lo spagnolo era venuto a conoscenza in una delle sue passeggiate spionistiche. Avevano tutti i mezzi per truccare ogni singola partita qualora i turni non fossero stati vinti regolarmente, avrebbero dovuto impiantare dei sistemi di monitoraggio sul computer centrale della banca dati e quello della sicurezza, le telecamere sarebbero state oscurate con facilità, ma il contatto diretto con il croupier e gli altri giocatori permaneva. Senza quell’imprevisto avrebbero potuto attribuire alcune delle vittorie al caso, altre a un talento che spiccava tra quelli degli altri partecipanti, ma con singoli che praticavano certe operazioni più per lavoro che per svago, c’era poco da improvvisare.
Arthur si lasciò sfuggire un sospiro, mentre la mano correva a massaggiare per qualche secondo la tempia.
«Sai a che tavoli saranno?» chiese pensieroso cercando di fare il punto della situazione.
Antonio alzò le spalle dispiaciuto, smettendo improvvisamente di dondolare sulla sedia di legno.
«Quei due parlavano di poker, ma non so se saranno solo nella sala americana o anche nelle altre…»
«Se sono al Texas Hold’em non c’è storia, assisteranno al mio eroico trionfo! Ahahah!»
Kiku gli concedette un sorriso complice, mentre anche gli altri parevano rilassarsi a quella notizia.
Alfred era stato inserito nella missione per un motivo ben preciso e difficilmente accantonabile: era un genio indiscusso della variante texana del poker. Da quanto aveva raccontato al giapponese – tralasciate le fantasie in parte impossibili con cui aveva condito il tutto – era stato campione per tre anni consecutivi in Kansas, da quando aveva raggiunto la maggiore età sino a qualche tempo prima. Aveva smesso di partecipare ai tornei statunitensi a causa della noia e dei nuovi impegni con l’organizzazione che lo aveva costretto persino a cambiare continente. Era ancora imbattuto e il talento dovuto alle proprie capacità o all’abitudine non poteva di certo essere svanito da un giorno all’altro. Era una carta che al casinò avrebbe fruttato parecchie migliaia di euro ed era già ovvio che avrebbe dovuto giocare per qualche vincita a più zeri, nonostante la pianificazione non fosse ancora stata stabilita del tutto, Kiku era ormai certo che Alfred sarebbe finito in prima linea per l’intera serata e non dietro al computer a dargli una mano.
«In ogni caso vediamo di scoprire dove giocheranno queste persone prima di martedì e quante sono… vincite e quote sono rimaste invariate?»
Antonio annuì nuovamente posando un pacchetto di sigarette ancora intatto sulla madia cui appoggiava la schiena, sistemò con distrazione i polsini della camicia che ormai gli circondavano i bicipiti.
«Cinque mila a manche per i tavoli da poker, blackjack e chemin, mille per le roulette principali in tutte e tre le sale, cinquecento per le roulette semplici e gli spiccioli per le slot-machine. Credo rimarranno bloccate, ma controllerò anche domani per evitare imprevisti.»
Kiku li osservò con ammirazione come se quella cui stava assistendo fosse una prima cinematografica di un qualche film su James Bond e non una verifica cautelativa per la pianificazione di un furto a uno dei casinò più famosi del mondo.
Era la prima volta che partecipava a un colpo tanto rilevante, erano ormai tre mesi e qualche settimana che faceva parte dell’organizzazione, ma sino allora gli erano stati affidati compiti non troppo complessi, Feliciano – fratello minore di Romano e membro del gruppo – aveva chiamato le sue mansioni “disbrigo pratiche”. Adesso però aveva il dovere di dimostrarsi meritevole di quell’improvvisa promozione, avrebbe dato del proprio meglio pur di non ostacolare l’andamento della missione e le sue doti d’informatico sarebbero finalmente servite a qualcosa di più complesso del semplice contattare clienti per una società.
«Controlliamo anche le vincite giornaliere di tutti i casinò principali della città, non voglio che si accorgano del picco proprio la sera in cui noi andremo a giocare.»
«Possiamo azionare la macchina prima, no? Così non s’insospettiscono!» propose Romano, mentre Antonio tentava di accarezzargli il ciuffo scomposto.
Il britannico parve per qualche secondo indeciso, poi soffiò fuori un cenno di consenso.
La macchina che avevano progettato per il colpo era opera di Kiku e dello statunitense, Alfred avrebbe voluto creare un super computer capace di hackerare qualsiasi sistema di sicurezza, ma il suo progetto richiedeva troppo tempo, troppi soldi e troppo spazio. Alla fine avevano risolto il problema modificando uno dei portatili già in dotazione all’Across in modo che agisce efficacemente a qualsiasi distanza e su qualsiasi complesso informatico tramite una rete non tracciata come poteva esserlo quella dell’hotel.
«Va bene, questa sera verso le dodici blocchiamo il sistema di qualche slot al casinò sulla pista del circuito! Alfred mettine fuori uso solo una o due, in modo che le vincite non siano eccessive e…»
«E adesso basta, si è già fatto tardi e andiamo tutti a cena! Alain Ducasse ci aspetta!»
Francis lo bloccò ancor prima che potesse terminare, sistemando la camicia azzurra che aveva sbottonato per metà e ricevendo la totale approvazione dell’americano che spense istantaneamente la consolle correndo ad acciuffare le scarpe sportive che aveva malamente lanciato sotto il letto non appena arrivato. Arthur gli rivolse un’occhiataccia serrando le braccia al petto, l’italiano si concesse una risatina di scherno approfittando della distrazione dello spagnolo per fuggire nella camera accanto, probabilmente per prendere un cambio ancora fresco dalla valigia che aveva portato al Principato.
«Arthur-san possiamo continuare dopo, non crede?» chiese Kiku dopo un interminabile silenzio.
L’inglese lo squadrò sorpreso, forse dimentico dell’avere il giovane asiatico ancora nella medesima stanza, annuì senza badarci troppo, alzandosi dal letto per andare a rinfrescarsi nel lussuoso bagno della camera.
Kiku attese giusto il tempo di sentire la mano dell’americano afferrare la propria e trascinarlo nel corridoio dell’hotel, diede uno sguardo alle proprie spalle sperando che nessuno si fosse offeso per quell’uscita di scena tanto improvvisata e carente di commiati.
«Andiamo Toshi, prima che Francis faccia arrabbiare il vecchio e l’eroe resti senza hamburger!»
«Michael-san non credo che facciano quel genere di cibo al ristorante dell’hotel…»
«Ahahah lo faranno per l’eroe vedrai!»








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Note dell’autrice:
Sarò un po’ prolissa, quindi se vi scoccia leggerle saltatele pure, non mi arrabbierò, non mi arrabbio mai io! Davvero!
- “Across”: in inglese sta per “attraverso”, è la società internazionale di mercenari cui facevo riferimento nell’introduzione e al cui vertice sta Ludwig – chissà come mai… – , ha la sua sede nel sottosuolo di Praga e attualmente continua a reclutare membri in ogni settore della vita pubblica delle varie nazioni. Altre notizie verranno date in seguito.
- “Henry Baskerville”: è il nome adottato per questa missione da Arthur. La scelta deriva da uno dei nomi più comuni in Gran Bretagna, ovvero Henry, e dal titolo di una delle tante opere di Arthur Conan Doyle, ovvero “Sherlock Holmes e il mastino dei Baskerville”.
- “Toshi”: nome di copertura per Kiku.
- “Michael Kent”: nome adottato per la missione da Alfred. Deriva da due dei personaggi più in vista dell’America degli ultimi secoli, ovvero Michael Jordan e Clark Kent.
- “À plus tard ma chérie”: trad. A dopo mia cara !
- “INTERPOL”: Polizia Internazionale, ente governativo e sovranazionale che agisce contro criminali che violino diritti internazionali, crimini perseguibili in altre nazioni o partecipa alla cattura di fuggiaschi che tentino di riparare in nazioni ove il loro crimine non è stato commesso.
- “Mon mignon”: trad. Piccolo mio.
- “Chemin de Fer”: è uno dei giochi più praticati nei casinò di tutto il mondo e io ne sono una convinta sostenitrice. Si gioca con 8 partecipanti e 6 mazzi da 52 carte, denominati “taglia”. Vi è sempre un banco e un giocatore che sfida – a meno che non ci si debba esercitare e solo allora è consentita la presenza di un terzo –, ci si muove a turno e per duelli, la partita viene vinta se il giocatore o il banco fanno 8 o 9. Il banco distribuisce due carte a se e due al giocatore, qualora fossero presenti figure o decine {donna, cavallo, re, dieci} esse non vengono contate, ma sottraggono – se più di una – dal totale computato. Es. se si hanno un 9 e un 10, il totale è 9; se si hanno due 9 e un dieci, il totale è 8[9+9-10=8]. Nel caso della partita giocata da Romano, Arthur e Francis i punteggi sono:
Francis: 10-donna-6-8-4{18+10-20=8}
Arthur: 9-4-re{23-20=3}
Romano: 8-10-10-3-3{14+10-20=4}.
- “What the hell?!”: trad. Cosa diavolo?!
- “That’s enough!”: trad. Adesso basta!
- “Alain Ducasse”: chef francese del Louis XV, ristorante dell’Hôtel de Paris. Ha attualmente catene di ristoranti a Londra, Montecarlo e Parigi, tutti con tre stelle Michelin ciascuno.





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Capitolo 2
*** #02. Boulevard Louis II ***



Titolo: Casino Royal – Slow Down The Heist
Note: Secondo capitolo di questa mini-long. Questa volta ho deciso di sforzarmi un po’ e spiegare le relazioni che intercorrono tra i protagonisti. Non mi convince del tutto, forse proprio per quell’accenno sentimentale che ci vaga in mezzo, ma è venuta fuori così e l’amerò per quello che è. Detto ciò preciso che i luoghi citati sono realmente a Monaco, esistono e mi sono basata sulle loro strutture per creare il background. La citazione posta nel secondo POV si riferisce alla relazione tra Arthur e Francis, chi volesse intenderla anche per Romano e Antonio… non vi freno certo io. Traduzioni a piè di pagina.
NoteII: Pour Hope, perché mi ha fermata dallo scrivere cose che non dovrei…
NoteIII: La storia partecipa al contest “Pas a Pas” indetto da Fanny_rimes sul forum di EFP.
Prompt: Domenic Marte – Señora.



Casino Royal – Slow Down The Heist





La Rascasse, ore 01:38.




Lasciò la presa della porticina nera del bagno, prestando attenzione affinché non battesse contro qualche povero malcapitato e che il portatile che reggeva tra le braccia non scivolasse andando in pezzi.
Avrebbe preferito lavorare nella tranquillità della camera, ma una permanenza eccessiva all’interno dell’albergo avrebbe potuto destare sospetti qualora fosse stata aperta un’indagine da parte della polizia del Principato e lui in fondo era abituato a lavorare in luoghi affollati, nonostante negli uffici giapponesi non vi fosse tanto frastuono. Fortunatamente le operazioni di hackeraggio erano andate a buon fine: i sistemi di controllo delle slot del casinò lungo il circuito erano stati resettati solo in due casi e le vincite non avrebbero superato qualche migliaio di euro. Per sicurezza avevano convenuto nel applicare lo stesso metodo ad altre due sale da gioco con vincite appena superiori per qualche decina e il quadro complessivo stilato in quel momento non mostrava nulla che potesse destare sospetti. Le vincite per quella serata, priva di qualsiasi evento di spicco, sarebbero state di qualche migliaio sopra la soglia consueta. Fatto che avrebbe aiutato loro nello sbancare i tavoli senza che i sistemi di monitoraggio comunitari ai casinò potessero rintracciare picchi in quella successiva. Romano-san inoltre si era esibito in una mirabile partita a baccarà nel tavolo da gioco del locale, ma il giapponese non aveva idea del dove fosse finito con i settecento euro vinti tre ore prima. In realtà non era neanche molto certo di dove fossero andati almeno altri due membri del gruppo, eppure Alfred-san e Arthur-san parevano non curarsene più di tanto. Perlomeno il primo.
«Ci voglio più cola dentro! Ancora di più! Di più! Suvvia abbonda con quella cola! Ahahah!» lo raggiunse al bancone del bar, mentre il barista continuava a versare inquietato.
«Gli porti una cola in un bicchiere da cocktail e la facciamo finita, please…» ordinò con tono esasperato l’inglese, accomodato nello sgabello accanto.
Il barista rimase per qualche istante immobile, poi scappò ad armeggiare tra sportelli e lattine accatastate cogliendo al volo lo spunto. Kiku si arrampicò in silenzio sullo sgabello sin troppo alto, luci psichedeliche s’infransero sulle bottiglie perfettamente esposte, mentre un noto Dj intratteneva la massa di giovani giunti sin lì per divertirsi.
«Toshi! Finalmente! Ahahah cominciavo a pensare che fossi rimasto chiuso nel bagno!» la mano s’infranse contro le spalle esili e la schiena di Kiku parve piegarsi pericolosamente sul bancone.
Il barista di ritorno gli rivolse un’ennesima occhiata preoccupata, prima di poggiare il pesante bicchiere in cui aveva versato la cola e dileguarsi tra la marea di clienti con sguardo allucinato.
«Tutto bene?» domandò Arthur, improvvisamente vigile.
«Nessun problema, Arthur-san.» lo rassicurò, sporgendosi appena oltre la figura di Alfred.
Un mezzo ghigno gli si dipinse sulle labbra, prima di rigirare con aria taciturna ciò che restava del quarto Mint Julep ordinato in quella serata. Rimase a fissarlo per qualche minuto chiedendosi se fosse opportuno o no, domandargli perché non stesse prestando realmente attenzione a nulla, ignorando persino le piccole stranezze dello statunitense, per cui lo aveva ascoltato lamentarsi quotidianamente dal suo arrivo nell’organizzazione.
Aveva sempre prediletto un certo riserbo per le proprie questioni personali e nella sua vita non gli era capitato molto spesso d’intrufolarsi in quella di altri. Da quando faceva parte dell’Across però, aveva sviluppato quello che Ludwig-san denominava “Fenomeno Feliciano” tale da spingerlo a prendere a cuore qualsiasi questione – o quasi – che minasse il quieto vivere generale. Arthur-san gli era stato di grande aiuto nei primi giorni nell’organizzazione, lo aveva accolto, guidato e aiutato, si era persino messo a sua disposizione per qualsivoglia problema e Kiku non poteva certo negare di esserglisi affezionato. Non era ancora pronto a vedere in quel gruppo di uomini una famiglia capace di sostituire il vuoto che portava nel petto, ma sentiva di potersi, se non anche doversi, preoccupare se qualcuno di loro pareva torturarsi l’anima come stava accadendo all’inglese.
Strinse il portatile al petto, decidendo di potersi permettere almeno una domanda indiscreta. Si sporse sull’americano che fungeva da barriera nello stesso istante in cui Arthur scivolò giù dal proprio sgabello con passo pesante.
«Io ritorno in hotel, state attenti alla polizia e fate in modo da non dare nell’occhio. Capito Alfred?» borbottò atono, poggiando una ventina di euro sotto il bicchiere ormai vuoto.
Alfred lo fissò per qualche istante indispettito, prese poco dopo a succhiare dalle proprie tre cannucce decidendo forse che ignorarlo sarebbe stata una soluzione adeguata. Kiku si drizzò maggiormente sul proprio sgabello, quando il britannico ebbe preso il giaccone e non si esibì in altre raccomandazioni o rimproveri. Aprì bocca pronto a porre la fatidica domanda, ma la mano dello statunitense poggiata sul suo ginocchio lo distrasse per abbastanza tempo da consentire ad Arthur di raggiungere l’uscita e sparire tra le strade umidicce di Montecarlo.
«Michael-san-» cominciò, deciso a non abbandonare il proprio intento.
«Lascia stare Toshi… liti tra vecchiacci, hanno la pressione troppo alta.»
Kiku si concesse il beneficio del dubbio riguardo quella presunta teoria scientifica, ma non era ancora sicuro di dover rimanere lì e non raggiungere il compagno di missione.
«Non sarebbe comunque meglio chiedere a Henry-san se vuole parlarne?» chiese incerto.
«Si metterebbe solo a strillare e ti direbbe che non c’è niente di cui parlare o scapperebbe nel primo bar a ubriacarsi per la vergogna… ha un’età, domani gli passerà.»
Anche su quell’ultima affermazione il giapponese reputò di non avere le adeguate conoscenze per stabilire se quella fosse la verità o no.
Chinò lievemente il caschetto color pece, lasciando vagare lo sguardo sul bancone lucido, accettando la consapevolezza di non essere ancora in grado di potersi immischiare nella vita di quegli uomini che lo avevano accolto con una tale apertura da spiazzarlo. Probabilmente il “Fenomeno Feliciano” si sarebbe completamente attuato tra qualche mese o magari anno, semmai fosse stato capace di sopravvivere alle missioni e stabilire un rapporto di fiducia con ognuno di loro. Per il momento però, era costretto a rimanere in disparte, assistendo suo malgrado a quella scena a lui tanto incomprensibile.
Abbassò le braccia che istintivamente aveva serrato al petto durante la tentata conversazione, cercando di poggiare il portatile che ancora reggevano sulle proprie gambe. Si accorse della mano di Alfred ancora piantata saldamente sul suo ginocchio solo allora. La osservò con sguardo allucinato, mentre quella pudicizia ancora radicata nella sua natura balzava fuori di colpo facendolo arrossire. Si trattenne per qualche secondo attendendo che quel contatto prolungato e intimo terminasse di lì a poco, ma solo quando ebbe sentito lo statunitense ordinare un’altra coca come se nulla stesse accadendo, capì che quel contatto disonorevole non avrebbe avuto termine.
«M-Michael-san!» tonò con voce malferma.
«Uhm? Che c’è?» bofonchiò tra un salatino e l’altro, agguantati chissà dove.
«Certi atteggiamenti non sono opportuni, vi prego di evitare o questa gente potrebbe farsi un’idea sbagliata della nostra moralità!» si agitò, drizzandosi nuovamente sullo sgabello.
Alfred lo fissò per qualche istante interdetto continuando a fagocitare alla cieca qualsiasi cosa beccasse all’interno della ciotolina da snack. Kiku si premurò di indicargli con un veloce cenno del capo le proprie gambe, affinché fosse chiara la gravità della situazione, ma a dispetto di quanto grave apparisse il tutto ai suoi occhi, l’americano scoppiò nell’ennesima risata. Il giapponese rimase in silenzio a osservarlo, mentre riprendeva a succhiare convulsamente il proprio drink alternando con qualche patatina. Seriamente preoccupato per il proprio onore e per quello del collega, si chiese se l’altro avesse almeno intuito di cosa stesse parlando o se semplicemente se ne stesse infischiando.
«Michael-san… la mano.» tentò laconico, cercando di non apparire irriverente.
Alfred parve finalmente focalizzare quale fosse il punto in questione e abbandonò per qualche secondo i propri stuzzichini.
«Ah! Questa?» chiese sorridente, sventolandogliela innanzi al viso «Così non scappi da quel brontolone, stai con l’eroe stasera! Ahahah!» spiegò schiantandola contro le sue spalle e attirandolo più vicino.
Kiku abbassò il viso, un po’ per il colpo subito, un po’ per la vergogna, lasciando che i propri occhi affondassero oltre il pavimento lercio del pub sino ai meandri più bui di Montecarlo ove pareva essere sprofondato l’onore della famiglia Honda.


Boulevard Louis II, Quai, ore 02:09.



«Despues de tanto sexo
no me pida que la olvide...»



Tra la massa di ragazzi ubriachi intenti a lanciarsi battute nelle lingue più disparate, tra lo sciabordio degli yacht ancorati alle banchise su cui brindavano grassi uomini dall’accento sovietico, distinse chiaramente il suono annacquato delle suole sui gradini alle proprie spalle. Calcolò istantaneamente il tempo d’attesa che intercorreva tra una falcata e l’altra, velocità, direzione e riconobbe a chi apparteneva quella fastidiosissima camminata senza neanche doversi voltare a dare una sbirciatina. Rimase in attesa, fissando le rondini d’acqua illuminarsi alla luce del Principato per poi infrangersi irreparabilmente sul cemento degli attracchi. Sperò per qualche secondo che uno schizzo lo avvisasse di un tuffo imprevisto, ma certe entrate in scena riuscivano perennemente a quella schifosa rana. Sarebbe stato di gran lunga più facile convincere una guardia di Buckingham Palace a sorridere, piuttosto che vedere quell’idiota scivolare su una pozzanghera e volare in acqua.
«Se alzassi il tuo adorabile sederino da terra, mon chéri, potrei offrirti un sex on the “beasch”…» propose fermandosi in piedi alle sue spalle.
«Ficcatelo dove sai tu il tuo sex on the beach!» sbottò prontamente, ripromettendosi di prenderlo a calci.
Francis si abbandonò per qualche istante a una risata, lasciandola perire lentamente con un lieve soffiò nasale. Si avvicinò ancora di qualche passo e Arthur serrò la presa attorno alla bottiglia di scotch – tra l’altro di pessima qualità, a contro prova di quanto orribile fosse quella settimana – pronto a sfruttarla a proprio vantaggio. Percepì la figura del francese accovacciarsi a pochi centimetri dalla sua schiena, un mormorio tra l’intenerito e l’irrisorio gli giunse alle orecchie facendolo irrigidire.
«Come siamo nervosi sta sera… quanto abbiamo bevuto?» cantilenò, accarezzando con finta distrazione la curva lombare della colonna da sopra il trench.
«Fuck you! Fuck you, dirty french bastard!» ringhiò, voltandosi e afferrandolo malamente per il bavero della giacca, pronto a strozzarlo.
Francis si esibì nuovamente in una risata, facendo sussultare il petto sotto la camicia sapientemente sbottonata per un terzo.
«Oh trés bien! Siamo al livello rosso! Questo vuol dire che al prossimo sorso di quella tua orrida bevanda mi chiederai di fare l’amour per tutta la notte!» gioì, piegando con ingenua malizia il capo biondo su una spalla.
«O ti pianterò nell’occhio quell’ombrellino da cocktail che porti nel taschino.» avvertì gelido, mentre un ghigno gli deformava per qualche secondo le labbra.
L’altro parve considerare seriamente un’eventualità del genere, indeciso sulla gravità della situazione decise di non rischiare limitandosi a un lieve broncio.
«Preferisco la mia versione, se permetti…» borbottò contrariato.
L’inglese mollò la presa esasperato, un sospiro incredibilmente simile a un ringhio lo accompagnò, mentre afferrava lo scotch e si alzava dalla banchina. Francis lo imitò poco dopo, decidendo di seguirlo verso l’hotel in cui alloggiavano.
Risalirono la breve scalinata che separava il boulevard dal camminamento portuale, flotte di turisti asiatici armati di macchine fotografiche continuavano a far scattare gli obiettivi immortalando le luci riflesse della capitale. Camminarono in silenzio, districandosi tra visitatori occasionali e gruppi di ricchi impresari bofonchianti squallide conversazione prive d’anima, nella mera speranza di costruire siparietti più miseri e lerci di quanto non fossero loro stessi. Grattacieli dalle altezze modeste s’issarono lenti lungo le pareti, mentre scogli facevano capolino oltre le balconate e auto correvano su per le vie. Il suono dei motori li avvolse completamente quando la galleria si chiuse sopra le loro teste, si accostarono con finta casualità, mentre le luci di Montecarlo filtravano tra gli archi a strapiombo sul golfo.
«A quanto ammonta il contentino che ti passa la tua nuova amica?» chiese con disinteresse, ma la voce venne fuori raschiante e il tono parve incrinarsi greve sull’ultima parola.
Si diede mentalmente dello stupido per aver pronunciato una frase simile.
Non era una sua prerogativa nascondersi in certi giochetti, solitamente preferiva una condotta misurata, priva di sotterfugi. Quelle sciocche allusioni non gli appartenevano e aveva tutta l’intenzione di seguire pienamente il suggerimento, supplica, di Ludwig riguardo all’evitare inutili scontri o battibecchi che potessero nuocere all’andamento del colpo, ma il bisogno di una risposta gli stava divorando il fegato e di stare a guardare ne aveva piene le scatole da troppi mesi ormai.
«Abbastanza da farne un’assicurazione per tutti…» il cielo del Principato tornò a far capolino sopra le loro teste «… e non è una mia amica, ma una gentile conoscente.» precisò con nonchalance.
L’urlo furioso che si propagò nella mente del britannico gli fece rimpiangere di non aver tenuto come arma contundente quella bottiglia di scotch gettata una decina di minuti prima. Avrebbe potuto usare la pistola a canna lunga nascosta sotto il trench, magari usufruire del silenziatore, ma il cadavere avrebbe destato comunque l’attenzione di qualcuno e non aveva alcuna intenzione di allarmare la polizia con un omicidio inspiegabile in pieno centro.
«Una delle tante con cui approfondisci i rapporti, suppongo.» sibilò velenoso.
L’idea di sparargli diveniva ogni minuto sempre più allettante.
«Arthùr se continui di questo passo finirò per pensare che ti sono mancato!»
L’inglese gli riservò una delle sue peggiori occhiatacce, mentre l’altro si abbandonava a una risata talmente divertita da costringerlo per un istante a trattenere una mano sul fianco.
Provò l’inspiegabile desiderio di comprendere come avessero fatto i suoi genitori biologici a concentrare in un simile essere tutte le più deprecabili caratteristiche del genere umano. Era incredibile come riuscisse a fargli perdere i nervi con qualsiasi frase gli uscisse dalla bocca, incomprensibile come avesse potuto tollerarlo sin dagli anni dell’orfanotrofio, persino più oscuro come avesse fatto ad andarci a letto per altrettanto tempo.
Si morse il labbro inferiore prendendo coscienza dei suoi stessi pensieri e avvampando pericolosamente.
Quella reminiscenza non avrebbe neanche dovuto sfiorare la sua mente, non dopo tutte le considerazioni fatte in quei sette mesi, non dopo le decisioni che aveva preso. Quelli erano stati eventi occasionali, dettati dall’alcool a volte, dalla stanza che condividevano in altri, dalle mani di quell’idiota decerebrato, incapaci di non palpare qualsiasi cosa o persona gli capitasse a tiro.
Allungò improvvisamente il passo ritrovandosi quasi a marciare su per il viale, irritato. Francis lo seguì con calma, in un silenzio di cui il britannico si accorse troppo tardi e che gli provocò una spiacevole fitta allo stomaco.
Sapeva che da quell’incontro non sarebbe venuto fuori nulla di buono, nulla che quantomeno giovasse al suo stato psicologico, perché su quello fisico avrebbe potuto tenere persino una conferenza internazionale sui pro e contro. Aveva sperato che dopo tanto tempo quell’intollerabile macigno che fluttuava nel suo torace fosse sparito. Per un paio di settimane, grazie al lavoro, si era persino dimenticato di maledirlo prima di dormire, ma alla fine le cose non erano andate come sperava e la consapevolezza di non sapere quale sciocchezza stesse compiendo in chissà quale parte del mondo, lo aveva sfiancato sotto ogni punto di vista. Non che gliene importasse qualcosa se quel francese maniaco e incapace ci rimetteva la testa da qualche parte, semplicemente voleva ritrovarselo davanti per prenderlo a pugni e rinfacciargli quanto fosse uno stupido ciarlatano capace solo di gracidare parole vuote. Giusto per quello.
Continuarono a camminare distanziati per parecchi minuti, alle luci dei ristoranti e locali sul lungomare si aggiunsero ben presto quelle della lieve collina su cui sorgeva Place du Casino. Auto lussuose presero a sfrecciare su per la strada, scarrozzando in giro proprietari dagli abiti sartoriali di fatture pregiate e donne dai collier abbaglianti. La sfera d’acciaio posta al centro della piazza pareva fungere da riflettore per il complesso che la sera seguente avrebbero dovuto rapinare, una gran folla di gente ai suoi piedi continuava a scattare photo bloccata dall’accesso riservato del casinò.
Nuovamente trovò equilibrio pensando al reale motivo per cui si ritrovava a gironzolare per Montecarlo, ignorando quella fastidiosa camminata alle proprie spalle. Diede una veloce occhiata al Grand Casino, osservando con attenzione gli addetti alla sicurezza posti subito dopo le porte d’ingresso e la volante della polizia sapientemente acquattata sul lato ovest della struttura.
«Passato una bella serata Mr. Baskerville? » chiese il concierge dell’hotel premurandosi di aprirgli la porta.
Accennò un veloce gesto del capo con il sorriso più falso che riuscisse a stampare sul proprio viso, prima di risalire l’ultimo gradino, inoltrarsi nella hall e inforcare immediatamente l’ascensore appena giunto. Premette da sé il pulsante del proprio piano, il ragazzino sbarbato che vi stava perennemente chiuso all’interno si rannicchiò in un angolino riconoscendolo. Le grate dorate si chiusero con un movimento assopito, mentre la figura del francese imboccava con disinvoltura le scale con un sorrisetto inquietante. L’ansia lo colse di sorpresa, mandando in fumo anche l’aplomb di cui sempre si era vantato onorando la sua amata madrepatria.
Prese a battere la suola del mocassino con ineducata insistenza, i bottoni luminosi, indicatori dei piani, si susseguirono a ritmo sostenuto accompagnando l’ascensore nella propria ascesa. Quando anche quello del quarto piano si fu illuminato, le grate si aprirono fiacche sul lungo corridoio rivelando una sequela infinita di camere dalle porte della medesima fattura. Uscì dopo l’ennesimo cenno del capo e si precipitò verso la porta su cui a caratteri dorati era impresso il numero 143, passi lontani giunsero dalla parte opposta ove sorgevano le grandi scale della hall. Sentì la mente annebbiarsi pericolosamente e il nervosismo montare senza alcun controllo quando la serratura scattò lasciandolo passare. Chiuse la porta alle proprie spalle con un sonoro tonfo, dopo una fugace occhiata a quella attigua, un sospiro più simile a un ringhio si liberò dal suo petto non appena l’oscurità della camera lo ebbe accolto. Si volse a guardare rissoso il passaggio per la 144, rimase a fissarlo con i pugni serrati per quelli che ad Arthur parvero decenni, poi si staccò dalla parete e si avvicinò all’armadio lì accanto. Ebbe l’impressione di avere il viso in fiamme quando richiuse le ante e lo specchio rifletté la sua immagine nuda per un misero istante. L’ennesimo ringhio frustrato lo accompagnò sino al bagno e fin dentro il box doccia. L’acqua bollente in altre occasioni probabilmente lo avrebbe rilassato, aiutato a superare lo stress intrinseco al lavoro che doveva compiere ogni giorno, in quel momento però, non faceva che innervosirlo più di quanto non fosse già. Passò più volte la mano bagnata sul viso, scostando le ciocche flosce dagli occhi, si morse il labbro con tale forza da farlo sanguinare quando la porta del bagno si aprì lasciando defluire un po’ del vapore accumulato nella stanza.
Quel maniaco, depravato, viscido e imbecille era capace solo di quello: strusciarsi, ciarlare a vuoto di amore e amore, strusciarsi e blaterare ancora d’amore. Per carità, aveva una mira invidiabile se gli si dava in mano un fucile da franco tiratore, ma era comunque paragonabile a uno di quegli animaletti limitati, dal cervello sottosviluppato, capaci di compiere bene solo poche azioni. Quella era solo l’ennesima prova alle sue teorie, un altro motivo per dar credito alla rabbia di quei mesi passati senza averlo tra i piedi a infastidire e raccontare fandonie sull’amore.
Rimase ad ascoltare il ticchettare soporoso dell’acqua sulle piastrelle finché il francese non lo accarezzò sulla schiena fradicia, lì ove venti minuti prima lo aveva toccato sulla banchina del porto. Con un ringhio inappagato Arthur lo costrinse contro la parete scivolosa, Francis si aggrappò in fretta al box, mentre una mano dell’inglese gli conficcava le unghie nel petto e l’altra lo arpionava per la nuca imponendogli un bacio sin troppo simile a un morso.
«Arthùr…» biascicò.
«Shut up or… i kill you…»

«Su amor es una bala perdida.»



Camera 144, ore 09:24.




Scese dal letto titubante, guardando le lenzuola disfatte accanto a sé con preoccupazione.
Non ricordava neanche quando fosse riuscito ad addormentarsi dopo che quel lurido spagnolo gli aveva messo le mani addosso. Perché lo aveva fatto, di nuovo! Cominciava persino a pensare che fosse peggio di quel bacucco francese, molto peggio, notevolmente peggio. Francis almeno era spudorato, si vedeva lontano chilometri quando qualcosa di malsano gli bazzicava in testa, Antonio invece fingeva continuamente di non star facendo nulla di male e questo a Romano faceva saltare i nervi. Si era incaponito nel volerlo accanto ad ogni costo, la sera precedente aveva persino avuto l’ardire di chiedere scusa dopo averlo toccato a quel modo e solo perché lui aveva badato a mollargli una testata nascondendosi sotto le coperte per la vergogna. Ne provava così tanta al solo pensiero di essersi arreso a quelle attenzioni da fargli fiorire sulla lingua una quantità spropositata di simpatici epiteti diffamatori da fare invidia a uno scaricatore di Trastevere. Non trovava giusto che quelle cose dovessero accadere a lui, che si era sempre tenuto lontano da tipi del genere, che aveva costruito la propria vita sul fregarsene di chiunque non fosse suo fratello. Aveva commesso un errore così adesso si ritrovava tormentato da quello spagnolo e dal suo odioso modo di baciarlo, senza parlare di quelle mani che s’insinuavano nel suo pigiama sino ad afferrargli i fianchi con una tale naturalezza da disarmare chiunque…
«Bastardo!» strillò con un misto di terrore e vergogna, mentre dalla porta della camera attigua faceva capolino la zazzera castana di Antonio.
«Romano!» cantilenò con la consueta pronuncia sillabata.
«Oh Bonjour mon mignon! Abbiamo dormito bene oui?» chiese lezioso Francis, passando di sfuggita con un vassoio tra le mani.
Romano osservò per qualche istante il vuoto creatosi oltre le spalle dello spagnolo, il respiro si regolarizzò con non poche difficoltà e solo quando altre voci si aggiunsero concitate dalla parte opposta si decise a muoversi e oltrepassare Antonio – che non mancò di dargli un buffetto sulla testa –.
«Ahahah! L’eroe ha vinto un’altra partita!» osservò il ragazzone americano dondolare sulla poltrona sotto lo sguardo quasi intenerito del francese.
«Era ora che ti svegliassi, aspettavamo solo te per cominciare...»
Romano scoccò un’occhiataccia al giornale dietro di cui aveva brontolato l’inglese, sperò che la tazzina che reggeva tra le dita si sfracellasse facendogli beccare un’ustione, anche se sarebbe andato bene anche vederlo piangere per il suo preziosissimo “tea” perduto.
Odiava essere ripreso di primo mattino, non lo tollerava durante il resto del giorno figurarsi appena alzato, senza contare poi che i rimproveri di quel regale isterico aveva sempre un ché di particolarmente fastidioso.
Afferrò malamente la tazzina che gli veniva porta dal giapponese con garbo, caffè schifoso giusto per migliorare il suo già precario umore e si accasciò sullo schienale del letto singolo accanto alla finestra.
«Alfred spegni quella roba e ascolta, Carriedo stappati le orecchie e tu…» cominciò con tono imperioso Arthur, prima di scoccare la consueta occhiataccia a Francis «… tu, siediti e sta zitto.»
Romano finse di non udire la sequela apparentemente interminabile di opposizioni che seguirono quel primo ordine, tra chi si ribellava per altri cinque minuti di pc, chi strisciava su per il letto sino a Kirkland e chi si limitava a sorridere minacciando morte.
Le risse mattutine non facevano per lui, preferiva restarsene per conto proprio senza nessuno che rompesse. Senza contare poi che una sua eventuale entrata in “guerra” avrebbe scatenato Antonio e Romano non era mai stato molto certo di voler assistere a uno scontro tra lui e l’inglese. Tra quei due non era mai corso buon sangue da quanto sapeva, perché si odiassero tanto poi era un mistero e non aveva mai voluto indagare. Specie dopo aver scoperto, parecchi anni addietro, di cosa fosse capace quello spagnolo anche senza il bisogno di una pistola in mano.
«Adesso che avete finito con questo teatrino tutti quanti…» berciò velenoso Arthur, schiantando il giornale sul letto lì ove la mano del francese zampettava minacciando attacchi al suo didietro.
«La polizia non dovrebbe insospettirsi troppo data l’occasione e le precauzioni che abbiamo preso, ma è sempre bene prevenire e credo sia il caso di procedere in sequenze di singoli, tralasciando ovviamente Kiku che monitorerà i sistemi di sicurezza, i condotti e le posizioni GPS.» annunciò autorevole.
Romano gli scoccò l’ennesima occhiataccia funerea.
Quell’inglese aveva un modo di ragionare tutto suo, non che i suoi piani non andassero a buon fine, ma spesso e volentieri ruotavano su due poli opposti fatti o da fughe rocambolesche o da pallosissime attese dettate dalle eccessive precauzioni. A giudicare dall’idea delle sequenze, quella sarebbe stata con molta probabilità e con una buona dose di culo, una delle missioni che rientravano nel primo caso.
«Per primo entra l’eroe! Ahahah!» sghignazzò entusiasta accanto a lui, Alfred.
«Non se ne parla neanche. Per primo entrerà Carriedo, poi andrà Romano con Francis, quando loro si saranno liberati, andrai tu e per ultimo andrò io.» il sorriso dell’americano mutò in una smorfia.
«Tu sei troppo vecchio per far tardi.» borbottò inespressivo, in un moto d’infantile vendetta.
Romano osservò compiaciuto il viso del britannico e le svariate tonalità cromatiche che si susseguirono su di esso a una velocità inconcepibile. Sperò di vederlo esibire in una delle sue scenate più epocali, ma l’intervento di Francis lo bloccò appena in tempo perché non si commettesse una strage familiare.
«… per il caveau, Arthur-san?» la voce preoccupata del nipponico troncò definitivamente il litigio.
Romano ripensò alla tipologia di caveau e una fitta allo stomaco gli mandò di traverso persino il pranzo del giorno precedente, oltre che quell’orrido caffè che gli avevano rifilato per colazione.
Alfred e Kiku erano riusciti a infiltrarsi nella banca dati del sistema di sicurezza dell’unità di controllo del Principato, avevano scaricato qualsiasi genere di protocollo che recasse indicazioni sugli scompartimenti aurei del complesso, ma l’unico canale d’accesso alla zona restava la porta del caveau e i vari condotti aerei ed elettrici. Inizialmente avevano pensato di poterli sfruttare secondo un cliché abusato nei furti, ma si trattava di fori in cui era stato innestato un solo bocchettone di dimensioni inferiori a quelle di un topo e il piano era sfumato. Non vi avevano confidato molto neanche dapprincipio, ma scassinare un caveau e calarsi da un condotto comportavano rischi con disparità non esigue.
«Posso pensarci io se riuscite a darmi un minuto di stacco totale... » propose Francis, mentre Arthur cominciava già a scuotere la testa.
«No, tu servi sul terrazzo dell’hotel con strada e camere sotto controllo, deve farlo qualcun altro al tuo posto.»
«Posso fare entrambe le cose, se-»
«Ho detto di no! Ognuno di noi deve procedere per fasi, niente di raffazzonato o dovremmo trovare i soldi da qualche altra parte e potrebbe andarci anche peggio!» concluse.
«Allora chi lo buca quel caveau?!» sbottò Romano esasperato.
L’idea di derubare un casinò non era particolarmente pericolosa, ammesso che non si facessero beccare, ma quella di aprire una camera blindata con quel genere di allarmi non gli piaceva per nulla. Era più per le corse in auto, le sparatorie, magari anche i traffici internazionali, ma quelle operazioni proprio no. Gli davano l’impressione di trappole per topi, topi che non facevano mai delle belle fini.
Arthur Kirkland lo fissò con quanta più convinzione riuscisse a imprimere alle sue abominevoli sopracciglia.
«Tu e Carriedo.» sputò fuori quasi con un velo di rammarico.
«Io dovrei bucare quel coso?! Che cazzo ti sei messo nel tè, marijuana?!» scoppiò sconvolto, mentre Antonio s’incupiva sulla sedia lì accanto.
«I caveau non si bucano, mon mignon.» sospirò stanco il francese, passandosi una mano tra i capelli.
«Ciò non toglie comunque che Romano ed io non abbiamo idea di dove mettere le mani, amigo...»
Gli occhi dell’italiano balzarono dal viso dispiaciuto e preoccupato dello spagnolo a quello del francese, sino a quello convinto dell’isterico cui il crucco aveva affidato la missione.
«Francis vi spiegherà come fare con il minor rischio possibile, comunque per il resto ognuno di noi giocherà a un tavolo, i professionisti saranno a quelli da poker e roulette europea, quindi l’unico che ci avrà a che fare sarai tu Alfred.»
«Ahahah! Filerà tutto liscio, quanto è vero che sono un eroe!»
Romano ancora sconvolto continuò a fissarli come nel peggiore dei propri incubi.
Non riusciva a credere di essere capitato in una banda di tali idioti, non se ne capacitava, non era scientificamente possibile che nella sua vita avesse una tale sfiga. Prima quel bastardo che gli metteva le mani addosso, poi quella notizia, la prossima lo avrebbe steso, se lo sentiva.
«Io andrò a quello di Blackjack, Francis allo Chemin e Carriedo alla prima slot che Kiku riuscirà a sbloccare dalla camera. Intanto Alfred provvederà alla sicurezza del caveau e in modo che non appena la vincita alle slot sia scattata, Romano e Carriedo andranno sotto senza alcun intoppo.»
«E se l’intoppo ci dovesse essere?! Se qualcuno volesse farmi il culo, a quello hai pensato?!» ringhiò con le lacrime che premevano sugli occhi a causa del nervosismo.
«Se qualcosa dovesse andar male, ci sarà l’auto che abbiamo preso in prestito posizionata lungo la strada e Francis a tenervi sotto tiro dal terrazzo dell’hotel. Non ce ne sarà bisogno se ognuno di voi farà un buon lavoro, ma non c’è comunque da temere.»
Romano ingoiò una delle peggiori imprecazioni di cui fosse capace, solo nell’udire quel “voi” gettato lì con tale naturalezza. Continuò a guardarlo in cagnesco anche quando la discussione ebbe termine e il vociare chiassoso riprese come sempre.
Non era contrario all’accettare direttive di quel genere, sapeva di potercela fare. A volte aveva paura, forse anche troppa, ma aveva svolto ogni missione che gli era stata affidata, con intoppi, guai, imprevisti, fughe e sparatorie, ma c’era riuscito. Quella volta però, continuava a chiedersi come fosse possibile per lui imparare ad aprire un caveau nel giro di poche ore, senza una dovuta esperienza o le qualità adatte a farlo. Francis era tendenzialmente un’idiota, ma aveva il braccio più fermo che Romano avesse mai visto. Antonio e lui invece erano chiassosi per natura persino durante le missioni, forse lo spagnolo un po’ meno, ma quell’operazione non faceva proprio al caso loro. Ci sarebbe scappato l’imprevisto e gli toccava solo sperare che Kirkland avesse calcolato anche quello.
«Andrà bene, tranquillo!» lo rassicurò la voce di Antonio, un po’ troppo vicina.
Romano si ritrovò a rimpicciolire accaldato contro la testiera del letto, mentre la mano dello spagnolo si poggiava sulla sua guancia in una carezza confortante, lasciando che il pollice si soffermasse quasi per errore sulle sue labbra.
Ecco, l’aveva detto che la prossima lo avrebbe steso.








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Note dell’autrice:
- “Mint Julep”: drink associato ad Arthur, in realtà prende spunto dal cocktail che James Bond beve nel film Goldfinger… con poco zucchero.
- “Quoi”: Banchina del porto, su cui vengono legati gli ormeggi degli yacht. [fr.]
- “Beasch”: storpiatura francesizzata per l’inglese “Beach”. Si fa riferimento al noto cocktail “Sex on the Beach” e al significato del nome stesso.
- “Fuck you! Fuck you dirty french bastard!”: Fottiti, fottiti sporco bastardo francese! [eng.]
- “Oh trés bien!”: Oh molto bene! [fr.]
- “Shut up or i kill you”: Zitto o ti ammazzo. [eng.]
- “Mon mignon”: Piccolo mio [fr.]
- “Su amor es una bala perdida”: Il suo amore è una scheggia impazzita; “Despues de tanto sexo
no me pida que la olvide...”: Dopo tanto sesso non puoi chiedermi di dimenticare [esp.] – Domenic Marte, Señora.

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Capitolo 3
*** #03. Casino Royal ***



Titolo: Casino Royal – Slow Down The Heist
Personaggi: Antonio Fernandez Carriedo[Spain]; Romano Vargas[South Italy]; Francis Bonnefoy[France]; Arthur Kirkland[England]; citati: Alfred F.Jones[USA]; Kiku Honda[Japan]; Ivan Braginsky[Russia]; Natalia Arlovskaya[Belarus].
Note: Terzo capitolo e il tempo scarseggia, quindi provvederò a pubblicare in fretta anche gli ultimi due capitoli, che arriveranno prima del 17 Ottobre. Fatto questo piccolo annuncio, specifico che il prompt scelto e utilizzato funge da schermo alle azioni di tutti i protagonisti, anche se per il momento è chiaro solo con Francis, Antonio e Romano. Leggetelo più come un contesto, una sorta di trasposizione in sentimento piuttosto che come fenomeno meteorologico.
Altro avvertimento: il corsivo è utilizzato per le parole in lingua straniera e le comunicazioni in auricolare.
Traduzioni a piè di pagina.
NoteII: La storia partecipa al contest “Pas a Pas” indetto da Fanny_rimes sul forum di EFP.
Prompt: Sotto la pioggia.



Casino Royal – Slow Down The Heist





Casino Royal, ore 12:47.




Ispirò nuovamente percependo il rivolo malsano scivolare placido lungo la trachea sino ai polmoni, tentando invano di beneficiare di quella rinomata tranquillità dietro di cui si celavano i fumatori accaniti. Non gli era mai piaciuto fumare, lo faceva di rado e nella maggior parte dei casi si trattava di qualche tiro fatto per il semplice gusto di qualcosa di diverso. A suo modo avrebbe anche potuto trovare confortante il sapore amarognolo che impastava le labbra e costringeva a chiederne sempre di più, vi avrebbe potuto trovare un ché di malinconico e affettuoso. Pensandoci bene, era un po’ come baciare le labbra del suo piccolo italiano, una lotta continua a maldestra che Antonio combatteva strenuamente soltanto per tenerlo accanto a se.
Si morse il labbro, strofinando il polpastrello rovinato sul corrimano umidiccio delle scale poste sul retro del casinò. Le tempie si contrassero per qualche secondo in un’emicrania incipiente, che lo coglieva spesso quando era costretto a sopportare interminabili attese o più probabilmente quando a rischiare non era solo lui. Portò le iridi verdi sull’orologio nascosto sotto il giaccone scuro, le lancette continuarono inesorabili a muoversi ticchettando sul polso come una tortura.
Avrebbe dovuto comportarsi in maniera differente, Romano glielo ripeteva spesso e più che volentieri. Il loro non era un mestiere adatto a deboli di cuore o sentimentalisti, bisognava avere sangue freddo e raccogliere quel po’ di egoismo per preoccuparsi della propria incolumità e della buona riuscita della missione. I compagni erano una sorta di bonus da mantenere solo se le possibilità lo consentivano, ma non era indispensabile che tutti dovessero rientrare a Praga. La scomparsa di qualcuno non avrebbe interferito con l’andamento degli affari e in fondo nessuno nel mondo avrebbe pianto la loro morte. Avrebbe dovuto rinchiudersi in una bara d’indifferenza e avaro interesse, senza curarsi di chi come lui conduceva quella vita di muta sopravvivenza. Avrebbe dovuto, ma Antonio non era mai stato il tipo da tollerare simili situazioni, né mai lo sarebbe diventato. Tutti all’Across disattendevano quei canoni, chi più chi meno, ma accadeva, era inevitabile.
«Romano ci sei?» chiese in un bisbiglio nascosto dal fumo di sigaretta.
Si sarebbe potuto definire puro interesse lavorativo, con quel tanto di freddezza che era richiesta a un mercenario professionista, ma lui non aveva mai provato quel genere d’interesse per le persone che gli stavano accanto. Ben che meno per Romano.
«Fa silenzio Carriedo, non sei autorizzato ad aprir bocca per il momento!»
La voce di Kirkland nell’auricolare avrebbe dovuto farlo desistere da quel genere di domande, ma le lancette continuavano a ruotare nel quadrante del suo orologio e l’italiano era in ritardo. Un minuto e quindici secondi, pur sempre troppo per gente come loro.
«Romano?» insistette ancora senza ottenere risposta.
«Carried-Frog chiudi quella fogna e continua a giocare!» un ringhio infastidito minacciò di distruggergli il timpano.
Volse le spalle alla porta da cui era uscito circa dieci minuti prima, abbandonando le sale da gioco del Grand Casino già affollato da donne ingioiellate e uomini in giacca e cravatta, per attendere sotto il cielo carico di pioggia di Montecarlo.
Sino a quel momento avevano raccolto trentaquattro mila euro in slot truccate e svariati giochi dalla dubbia difficoltà, ma la quota che avrebbero dovuto riportare alla base non era neanche raggiungibile con quei colpi. Dovevano ancora occuparsi dei tavoli da Chemin, Blackjack e Poker, il caveau, però avrebbe messo fine a quei giochetti sciocchi e paradossalmente rischiosi. Spettava a lui e Romano la stoccata finale, peccato che dell’italiano non avesse notizie da almeno due ore.
«Perché non risponde?! Dov’è?!» le parole uscirono con maggiore forza e nervosismo.
«Carriedo ti ho detto di star zitto!» intimò Kirkland dalla camera d’albergo.
Antonio serrò istintivamente la mano sulla ringhiera, la sigaretta ricadde esanime molti metri più in fondo, in una pozzanghera dell’asfalto.
Odiava il tono con cui l’inglese gli si rivolgeva consuetamente, odiava tutto di quella persona, lo tollerava appena e solo per rispetto a Francis. Sentire ignorare le proprie richieste con una tale incuranza e freddezza, però lo rendeva intrattabile a dispetto di tutti.
«Dimmi dov’è Romano o vado a cercarlo. Adesso.» minacciò fissando un punto indecifrato innanzi a se.
Il crosciare dell’acqua oltre il parapetto parve farsi più opprimente, la sottile linea di costa ben più cupa di quanto non fosse in piena notte. Un lampo oltre la scarpata dall’altra parte della capitale squarciò il cielo per qualche secondo coprendo il suono della porta.
«Bastardo chiuditi quella cazzo di bocca! Non stiamo giocando ed io non ho intenzione di rimetterci la testa, ho già i miei fottuti problemi con quella merda di caveau da aprire!» abbaiò una voce alle sue spalle, mentre la porta si richiudeva con un tonfo soffuso.
I polmoni di Antonio parvero allargarsi, irrorati da una boccata d’aria gelida e umidiccia. Il consueto sorriso si dipinse improvviso e incontrollato sulle sue labbra, le lancette dell’orologio tacquero di colpo quando i suoi occhi incrociarono quelli tremuli dell’italiano. Gli posò muto una mano sul capo, carezzando con attenzione le ciocche ribelli che solo la notte precedente aveva visto poggiate al proprio petto.
Comprese il nervosismo dell’altro solo quando lo vide chinare il ciuffo, senza emettere alcun mugugno di fastidio o ribellione. Sapeva che l’idea di tentare non spaventava l’italiano, ma il doversi far carico della buona riuscita di un tal esperimento con all’origine le richieste di Ludwig doveva averlo messo sin troppo sotto pressione.
«Romano calmati…» sussurrò, sfiorandogli la guancia.
«Sono calmissimo, non vedi?» Antonio si lasciò sfuggire un mezzo sorriso divertito.
Suoni concitati e affrettati si fecero strada nel suo cervello, mentre Arthur Kirkland si preparava a seguire passo dopo passo ogni loro spostamento. La precaria tranquillità di quel momento si ruppe inevitabilmente quando l’inglese diede inizio all’operazione.
«Kiku modifica le ricezioni, thanks… so, voi due, giù per la tromba delle scale dovrebbe esserci la porta blindata di servizio, una volta aperta dovreste trovarvi nel corridoio che conduce agli accessi del personale. Raggiungete la quinta da sinistra, dritto e giù ancora a sinistra, contatene altre sette e vi troverete davanti al centro di controllo… l’altra porta la sbloccherà Alfred quando sarete lì vicino, muovetevi.»
Antonio diede un’ultima occhiata veloce alla porta che si trovava alle loro spalle, quando fu certo che all’interno del casinò tutto stesse procedendo senza problemi, seguì Romano giù per la scalinata umidiccia da cui s’intravedeva parte della spiaggia del Principato. Si accostò all’italiano, mentre quest’ultimo scassinava la porta blindata che il personale della struttura sfruttava per l’accesso. Quando fu finalmente aperta, lo anticipò lungo il corridoio in cemento su cui svettavano decine di telecamere a circuito chiuso, Alfred e Kiku avevano badato a bloccarle temporaneamente consentendo loro il passaggio, ma era sempre opportuno non cullarsi troppo e procedere con attenzione. Scrollò per qualche secondo abiti e scarpe, mentre una piccola chiazza d’acqua si allargava ai suoi piedi. Lasciare impronte avrebbe rappresentato un errore irreparabile e non potevano certo permettersi di sbagliare solo per colpa di un acquazzone. Discesero oltre la quinta porta, costatando come il vociare del casinò non fosse percepibile a causa della mole delle pareti, il cui spessore di piombo aumentava proporzionalmente a ogni piano percorso. Rallentarono prontamente quando il centro di controllo fu ormai prossimo, il vociare proveniente dall’interno li aiutò a calcolare quanti uomini fossero impiegati nel monitoraggio delle telecamere e delle varie porte d’accesso. Romano scivolò silenzioso accanto allo spagnolo, oltrepassando prontamente la soglia e acquattandosi nella parete limitrofa con la propria beretta in pugno. Antonio lo imitò prontamente, allontanandosi per alcuni metri sino alla porta antiproiettile.
«La porta è aperta, da qui in poi avete trentadue secondi per raggiungere l’accesso monitorato, entrate e inserite le tessere che avete nelle giacche, entrambi o scatterà l’allarme.» mormorò la voce dell’inglese quando anche Romano fu accanto allo spagnolo.
La serratura scattò prontamente con un sibilo vaporoso, codici criptati si susseguirono sulla minuscola tastiera a riconoscimento digitale posta sulla parete, disattivando le procedure di sicurezza impiantate sulla copertura pavimentaria e sulle pareti.
Erano stati calibrati secondo cinque combinazioni corrispondenti alle corporature degli unici uomini autorizzati all’accesso in quella parte del casinò, sarebbe bastato un solo grammo superiore alla soglia, un solo centimetro di altezza o larghezza del busto e la porta si sarebbe bloccata alle loro spalle lasciandoli rinchiusi in una scatola senza vie di fuga.
Superarono quasi contemporaneamente le barriere protettive in vetro che erano state innalzate alla fine del cunicolo. Tolsero entrambi dalle giacche le card magnetiche che Alfred aveva riprodotto, la serratura alle loro spalle scattò nuovamente svelando un nuovo corridoio.
«Siamo dentro Kirkland.» comunicò Romano, poggiandosi alla parete nivea.
«Il corridoio che conduce al caveau si trova sulla vostra destra, imboccate quello e superate i tre centri di controllo, oltre troverete il caveau, da lì in poi spetta a voi.» indicò nuovamente tramite l’auricolare.
Antonio intravide il volto dell’italiano cambiare improvvisamente colorito, diede un’occhiata innanzi a se e si concesse un sospiro fioco.
«Corridoio?! Quale cazzo di corridoio dovrei prendere?!» sbottò prontamente Romano, serrando i guanti.
«Ce ne sono parecchi Kirkland… quale?» chiese Antonio continuando a guardarsi attorno.
«Ho detto alla vostra destra, non vi ho chiesto di contare i corridoi.» sibilò acido con nervosismo.
Antonio e Romano si morsero contemporaneamente il labbro evitando inutili diverbi.
Quella era una delle poche regole che un po’ tutti all’Across tentavano d’imporsi: niente liti, niente risse, nessun gesto avventato, mai intralciare le operazioni. Accadeva di rado che mettessero da parte certi rancori o che ingoiassero insulti, ma sporadicamente s’imponevano comportamenti consoni, almeno per qualche decina di secondi. Dopo avrebbero sempre avuto il tempo di farsi guerra.
«Kiku dì a Francis di rientrare e far attenzione sul tetto, c’è nebbia temo, Alfred vai.» gracchiarono contemporaneamente i due auricolari.
Antonio si staccò in fretta dalla parete dirigendosi di gran lena verso il primo centro di controllo posto nel cunicolo. Estrasse nuovamente la tessera e provvide a disattivarla con il medesimo metodo utilizzato per il precedente settore, Romano lo superò di corsa inserendo la propria nel secondo e nel terzo. L’ultima porta si aprì per metà costringendoli a oltrepassare un lieve gradino, si accostarono l’uno all’altro osservando il blocco in leghe di piombo che era stato incastonato direttamente alle fondamenta del Grand Casino. La sala s’illuminò di blu non appena la porta alle loro spalle si fu richiusa, il contatore di ossigeno cominciò la propria lenta discesa sul monitor del server a metà sala.
«Caveau trovato, cominciamo, tenete libere le uscite.» annunciò quando gli furono innanzi.
Romano accanto a lui strinse i denti accovacciandosi accanto alla serratura, diede una veloce occhiata e Antonio gli si accostò pronto a mettere fuori fase le componenti dell’ingranaggio principale.
Francis aveva spiegato loro solamente cosa toccare, evitando di far troppa confusione tra termini e settori da controllare. Le operazioni erano relativamente poche se ben eseguite, qualora però una delle parti non fosse stata facilmente rimuovibile aveva provveduto a indottrinarli sui vari metodi alternativi. Non erano particolarmente complessi, ma il rischio di far scattare qualche congegno secondario di controllo era pur sempre alto e loro non attrezzati a quelle eventualità.
Allungò la mano verso la serratura ove avrebbe dovuto fare pressione per permettere a Romano di sfilare i blocchi superiori, ma la voce del compagno lo bloccò a mezz’aria.
«Ma porca puttana! Questo coso ha due chiusure, non una!»
Le iridi verdi si soffermarono sbigottite per qualche istante sui due chiavistelli che erano stati impiantati sulla serratura originaria. Vi passò la mano sopra, mentre un peso inammissibile calava sulle sue spalle.
«And then?» soffiò stanca la voce di Kirkland dall’albergo.
Il pugno dell’italiano si schiantò irritato contro la parete del caveau. La superficie rimase immobile, ma un rombo lugubre parve aleggiare tra le pareti illuminate perendo in un eco.
«Non ho idea di dove cazzo devo mettere le mani! Ecco cosa brutto idiota di un inglese!» ringhiò con gli occhi già lucidi per l’ansia.
Antonio gli posò una mano sul ginocchio piegato nella sua direzione, tentando di rassicurarlo.
L’idea di aprire un caveau non era piaciuta molto neanche a lui, avrebbe preferito di gran lunga operare nel proprio settore e non rischiare le coperture di tutti mettendosi in gioco proprio con uno dei sistemi di sicurezza più rinomati al mondo. Ciò nonostante si era ritrovato in quella situazione senza nessun margine d’errore cui attingere, aveva fatto del proprio meglio per imparare in fretta come andassero trattati quel genere di congegni, ma il risultato era comunque fine a se stesso. Né lui, né Romano erano Francis. Non si erano mai occupati di scassinare nulla, figurarsi aprire un caveau di quel genere con un misuratore d’ossigeno a gravare memore oltre le loro nuche. Non era preparati agli imprevisti.
«Romano calmati, magari è lo stesso procedimento…» bisbigliò abbozzando un sorriso.
Era l’unica speranza cui riusciva ad aggrapparsi in quel momento, per quanto ingenua, sciocca e improbabile.
«Magari! Quindi nel dubbio tentiamo, così al massimo ci giochiamo il culo entrambi, che dici?!» ringhiò l’italiano scostandogli la mano con nervosismo sempre peggiore.
«State fermi e zitti, vi passo Francis… vediamo di risolvere questa cosa.»
Lo spagnolo la ritrasse con un sorriso snervato, scostò alcuni riccioli scuri ricaduti innanzi agli occhi. L’auricolare emise prontamente un suono metallico, il rombo della pioggia che batteva implacabile dal tetto dell’Hotel annunciò il collegamento ancor prima che il francese potesse parlare.
«Fran?» chiese un po’ più rincuorato, tornando a fissare la serratura.
«Oui, Antoine... sono uguali o diverse?» la voce di Francis giunse vagamente disturbata, saltando fortunatamente la consueta sequela di chiacchiere che lo accompagnavano costantemente.
«Uguali, ma c’è un collegamento in mezzo, non so come-» cominciò, accorgendosi di quanto fosse complicato persino il descrivere quella massa di chiavistelli, chiusure e pesi che gli si parava innanzi.
«N’est pas un problem, ti ho spiegato come distaccare il blocco di chiusura quando è inserito nel vano del circuito, fa lo stesso da entrambe le parti e butta via quello che ti rimane in mano, non ti serve!» annunciò serio.
Si concesse un sospiro rilassato ricordando istantaneamente le spiegazioni di quel pomeriggio.
Procedendo per gradi sarebbe riuscito a smontare quel caveau in un massimo di due minuti, ammesso che non sorgessero nuovi imprevisti e Francis gli esponesse le giuste procedure, fatto su cui Romano accanto a lui non riponeva la benché minima fiducia.
«Ma che cazzo di spiegazione eh?!» ringhiò aggrottando la fronte.
«Mon mignon rilassati per una volta e lascia fare ai grandi, vite!» lo quietò prontamente il francese.
Le mani di Antonio corsero al secondo blocco, dopo che il primo fu libero dalla serratura a pressione stagna. Si arrovellarono per qualche secondo sulla destra sino a che anche il fermo centrale si fu allentato tanto da permettergli di sfilarlo dalla parte inferiore. Lo abbandonò accanto a se, mentre Romano continuava a imprecare in ogni lingua a lui nota o nota al genere umano.
«Rilassati un corno! Sei appollaiato su un tetto a non fare un cazzo, ci sono io qua, non tu! E ora che c’è bastardo?» chiese quando Antonio ebbe avvicinato il viso alla porta del caveau.
Attese qualche istante in riserbato silenzio, uno strano sibilo simile a un ticchettio continuava a provenire dalla chiusura circolare. Pensò fosse opera della pioggia che crosciava dall’auricolare, poi malauguratamente a una bomba, ma sarebbe stato incosciente posizionarne una in quel punto giacché le fondamenta dell’intero complesso si trovavano impiantate nelle pareti limitrofe. Per di più sarebbero andati in fumo miliardi di euro e metà della scogliera su cui poggiava il Grand Casino.
«Lo senti anche tu questo rumore Romano?» chiese dubbioso, non sapendo a che altro pensare.
L’italiano lì accanto si sporse verso il blocco di piombo, poggiandovi sopra il guanto di pelle scura. Lo allontanò prontamente e Antonio comprese di non essere l’unico a percepire quel ticchettare incessante.
«Oh…» mormorò fioco e disturbato l’auricolare.
«Oh cosa Francis?» domandò preoccupato temendo già la risposta dell’amico.
«Mi sono dimenticato di dirvi che questi collegamenti sono a tempo… pardon!» annunciò semplicemente dopo qualche istante, curandosi almeno di velare quell’affermazione con delle scuse.
Antonio per la prima volta nella propria vita meditò di ucciderlo nel peggior modo che gli venisse in mente, ma desistette ben presto ripiegando su una semplice vendetta. In fondo Francis era già sfortunato di suo e lui troppo ingenuo a credere che le cose si sarebbero risolte con tanta facilità.
«Pardon un cazzo! Scatterà l’allarme!» s’infervorò l’italiano lì accanto, balzando in piedi.
«Su tranquille, interrompi i collegamenti laterali! Arthùr smetti di minacciarmi, s’il vous plaît, mi confondi! Antoine, dopo averlo aperto, il tempo si bloccherà da sé e il caveau sarà a vostra disposizione!»
Romano ringhiò a mezza voce l’ennesima imprecazione, ma tornò a lavoro non appena il francese ebbe terminato con le proprie indicazioni. Antonio lo osservò, mentre impacciato e teso faceva scattare i pistoni di blocco laterali, per permettere alla porta a tenuta stagna di aprirsi e mostrare il contenuto del caveau. Un silenzio assordante, interrotto solo dal ticchettare del timer e del contatore di ossigeno, parve gravare su di loro per un paio di minuti, finché anche l’ultima chiusura non ricadde sul pavimento in cemento armato.
«Ci siamo… è aperto, raccogliamo tutto e richiudiamo, Fran tieni sotto controllo l’auto e la porta.» annunciò lo spagnolo non appena le proprie mani furono allontanate dalla maniglia circolare.
Il caveau si spalancò innanzi a loro rivelando il proprio contenuto.
Adesso avrebbero avuto la responsabilità di una buona decina di miliardi da trasportare a Praga.



Hôtel de Paris, Tetto, ore 01:08.




Lasciò scorrere i polpastrelli ricoperti dai guanti tra le ciocche fradice che continuavano imperterrite a sfuggire al codino, scostandole quel tanto che bastava per avere una visuale completa di Place du Casino e del retro dell’edificio. Nella sua mente continuavano a susseguirsi i suoni cauti dei compagni all’interno del caveau, intenti a riempire i cappotti con il necessario da riportare a Praga.
Era una sorta di marchio della società quello, prendere lo stretto indispensabile e abbandonare il resto. Non si poteva certo dire che fossero ingordi durante i furti e in fondo quella caratteristica aveva sempre giocato a loro favore. Nessuno si aspetterebbe che dei rapinatori lasciassero miliardi dopo aver scassinato banche o società, sin troppo surreale e inspiegabile, così alla fine delle indagini a rimetterci era sempre qualche povero addetto alla sicurezza o socio mal visto dal resto degli intestatari.
«Frog vedi di non distrarti e continua a controllare la strada!» minacciò una voce nel suo orecchio.
Francis serrò la presa attorno al calcio del fucile, il suono sgradevole della pelle bagnata dei guanti accompagnò il suo ringhio di disapprovazione.
«Non vedo come potrei distrarmi qui sopra Arthùr!» soffiò offeso, ingoiando una decina di gocce di pioggia.
Una mezza risata sgusciata fuori con supponenza da qualche piano più giù crepitò nell’auricolare.
«Riusciresti a distrarti anche in mezzo al nulla, confido nelle tue scarse capacità intellettive.»
«Qui le uniche cose che mi distraggono sono la tua voce e questa pioggia! E già tanto se riesco a vedere la porta d’uscita con questo tempo!» si lamentò, mentre il tono si alzava di qualche decimo.
Quella condizione era inadatta a qualsiasi operazione che richiedesse la sua collaborazione e quel presuntuoso di un inglese non voleva saperne di dargli retta. Aveva provato a spiegargli con calma quanto la pioggia potesse influire sul lavoro di un cecchino, come la visuale si riducesse sino al minimo consentito e la mira potesse perdere di precisione, ma Arthur era stato inamovibile e lui aveva fatto la parte dell’isterico. Se non fosse stato per quelle piacevoli attività che condividevano da anni ormai, lo avrebbe preso a pugni, o forse sarebbe stato meglio ricorrere ad altri metodi. Fare a pugni con Arthur non conveniva a nessuno.
«Non fare il melodrammatico, devi guardare solo in una direzione!» sbuffò stanco.
«Disse il sopracciglione la cui mira non andava oltre i dieci metri…» sibilò velenoso, continuando a fissare sotto di se.
«Oltre i dieci metri non rappresenta un pericolo, idiot!» scattò prontamente, costringendo Francis a socchiudere un occhio per l’acuto incline a perforargli un timpano.
«Spero di poterti dare sempre ragione, mon chéri.» frusciò con un mezzo sorriso intenerito.
Antonio e Romano ancora nel caveau contarono il denaro per la terza volta.
Ne avrebbero preso solo il necessario ed era chiaro che all’arrivo a Praga non dovesse mancare neanche un solo spicciolo o l’impresa sarebbe stata catalogata dal tedesco come “riuscita parzialmente”, cosa che infastidiva tutti alquanto. Era sempre più opportuno dunque controllare per un minimo di cinque volte, prima di sbloccare telecamere, sistemi di allarme e reinserire i codici di chiusura alle porte blindate o si correva il rischio di dover ricominciare il colpo con una percentuale di possibilità minore di quella iniziale.
«Chiudi il becco adesso e dimmi se Alfred sta combinando qualche guaio.»
Francis si fece sfuggire una mezza risata, Arthur Kirkland era l’uomo più controverso che avesse mai conosciuto nella sua vita. Da dove tirasse fuori quel tono apprensivo da genitore in ansia, ogni qualvolta Alfred svolgesse un qualsiasi lavoro, per il francese era ancora un mistero.
«Oh, quindi non devo guardare più in una sola direzione?» chiese con tono fortemente ingenuo.
«Francis!» il richiamo lo costrinse a una smorfia dolorante.
«Oui, oui…»
Spostò lo sguardo lungo Place du Casino, che scintillante e chiassosa si allargava alla sua sinistra oltre l’angolo di visuale che gli permetteva di scorgere anche il retro dell’edificio, ove Antonio e Romano erano entrati circa dieci minuti prima. Le iridi blu affondarono oltre le vetrate colorate del Casino Royal, superando le colonne di marmo ocra dell’accesso sino alla sala in cui si stavano svolgendo le partite. Trovò il ciuffo di Alfred tra la folla riunita attorno al tavolo da Poker, decine di uomini e donne intenti a scambiarsi occhiate ammirate per il giovane talento che stava sbancando il gruppo di professionisti. Allontanò sereno la propria attenzione, riportandola sulla piazza, scorgendo di sfuggita la balconata che dava sulla scogliera.
«Sta vincendo, tranquille, anche se fa chiasso come semp-Natalie?» si bloccò quando qualcuno fece ciondolare pigramente un bicchiere di vodka.
«Now who hell is Natalie?» ringhiò la voce del britannico dalla camera 143.
In altre occasioni Francis probabilmente vi avrebbe riso su, confortandosi tacitamente per quella vena di gelosia che Arthur si ostinava a nascondere dietro cumuli di lamentele e offese poco romantiche, ma quella non era proprio la serata adatta alle loro messe in scena.
Assottigliò lo sguardo con più attenzione, ma la pioggia gli impedì nuovamente di vedere chiaramente chi fosse la donna placidamente accomodata sulla panchina accanto alla scogliera. Strappò in fretta il fucile con mirino dal cavalletto posizionato poco prima, ignorando l’uscita dell’edificio da cui i suoi due compagni sarebbero dovuti venir fuori da un momento all’altro. Portò la lente alla pupilla, zoomando sull’ombrello scuro sotto di cui la figura si era rintanata. Solo allora, tra una goccia di pioggia e l’altra scorse tre cubetti di ghiaccio immersi in quella che certamente doveva essere vodka e quelle iridi di un blu talmente scuro da apparire innaturale. Un respiro nervoso sgorgò dalle sue labbra quando fu tristemente certo della propria intuizione.
«La sorella di Ivan è davanti al Casino.» sbottò laconico, tamburellando l’indice sul grilletto.
Arthur dalla camera al quarto piano si rinchiuse in un minuto di silenzio, forse confuso o non ancora pienamente consapevole della situazione.
«La sorella di… che sta facendo?» quando la sua voce venne nuovamente fuori dall’auricolare, il tono parve sin troppo greve.
Il francese non se ne stupì per nulla.
Quella ragazza era diventata uno dei loro peggiori incubi da quando aveva scoperto la loro collaborazione con il fratello. Da quanto Francis sapeva, i due non si vedevano da quando il maggiore andò via per arruolarsi nell’esercito abbandonandola nell’orfanotrofio in disuso in cui erano cresciuti. Ivan ne era talmente terrorizzato da non riuscire a pronunciare neanche il suo nome, reazione che un po’ tutti avevano creduto immotivata, finché non avevano ritrovato Natalia a pedinarli in qualsiasi operazione richiedesse la comparsa del fratello in nome del suo ruolo nell'INTERPOL. A ben pensarci durante una missione Jan, uno dei loro agenti, ci aveva quasi rimesso un braccio per colpa dell’ossessione di quella donna. Averla tra i piedi proprio durante il pieno dell’operazione non volgeva certo a loro favore, anche se c’era comunque la remota possibilità che lei non fosse lì per loro, ma per un altro lavoro. In fondo Ivan era dall’altra parte del mondo, qualsiasi informazione quella donna avesse raccolto non doveva aver a che fare con il fratello.
«Rien, sta bevendo un drink, ma credo sia meglio far uscire Alfred… subito.» meditò, quando la bionda si fu alzata dalla panchina.
Continuò a seguirla, mentre abbandonava l’ombrello tra le mani del concierge e ritornava all’interno del Grand Casino rigirandosi il pesante bicchiere tra le mani sottili. La tenne sotto tiro sino a che non si fu accomodata a un tavolo, insieme a due ragazzi dalle corporature asciutte.
Non doveva essere a conoscenza della presenza dello statunitense o non si sarebbe fatta problemi ad agire neanche in quella sala colma di gente. Ciò nonostante c’era sempre il rischio che si chiedesse il perché di quella folla attorno al tavolo da poker e decidesse di indagare in qualche modo. La situazione avrebbe potuto degenerare da un momento all’altro se solo i suoi occhi si fossero posati su Alfred.
«Penso io ad avvertirlo, tu continua a tenerla d’occhio e pensa anche a Carriedo e-» annunciò l’inglese, mentre il battere della tastiera del giapponese, lì accanto, si faceva più insistente e affrettato.
Francis le lanciò un’ultima occhiata preoccupata, riportando memore le proprie iridi sulla porta blindata sul retro dell’edificio. Il crosciare della pioggia, parve divenire intollerabile quando un brivido gli sferzò la schiena e il grilletto scattò muto con il sibilo funereo del silenziatore ad accompagnarlo.
«… Francis? Frog?!»









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Note dell’autrice:
Traduzioni.
- “And then?”: E allora? [eng.]
- “N’est pas un problem”: Non c’è problema [fr.]
- “Tranquille”: Tranquillo [fr.]
- “S’il vous plaît!”: Per piacere! [fr.]
- “Now who hell is Natalie?”: Chi diavolo è ora Natalia? [eng.]


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