All'Ombra dell'Eclissi

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


2

Le voci della terra

(Cheyenne)

Ascolto le voci
che parlano nel vento
e cantano nell' acqua del torrente.
Dicono:
Ecco, è arrivato il giorno
in cui sarai falco e serpente,
oggi è quel giorno
in cui i tuoi avi
grideranno di gioia,
guardando il tuo cuore.

 

 

 

 

 

Preghiera di pace

 (indiana)

"Oh grande spirito che regna nel cielo,

Guidaci al sentiero di pace e comprensione,

Fa in modo che possiamo vivere tutti insieme come Fratelli"

 

 

Capitolo 1

 

 

 

 

Emain Macha.

D’accordo, come inizio non era il massimo, ma almeno era un nome.

Non che mi dicesse qualcosa ma, grazie alla moderna tecnologia – Dio benedica Google Maps – ,  sapevamo che quel luogo esisteva veramente e non faceva parte soltanto della mitologia classica nordica.

Il punto era un altro.

Neanche a dirlo, Emain Macha o Armagh, il nome attuale della vecchia dimora dei re dell’Ulster, si trovava nel bel mezzo del territorio appartenente a uno dei Fenrir della Libera Irlanda.1

E, ovviamente, noi non potevamo mettere piede lì senza il suo consenso.

A volte, ammettevo di rimpiangere la mia vecchia vita.

Da umana, mi sarebbe bastato prendere un aereo per raggiungere quel luogo e controllare ciò che restava dell’antica capitale dell’Ulster, dove aveva dimorato il suo più famoso guerriero; Setanta, il Mastino di Chulainn.

La ricerca dei berserkir doveva pur cominciare da qualche parte e, grazie alla soffiata di Gordon, eravamo approdati a Cu Chulainn, il Mastino dell’Ulster.

Il mito parlava della sua forza sovrumana e dell’aspetto animalesco che assumeva in battaglia.

Grazie a queste leggende, eravamo approdati a quel misterioso quanto impronunciabile paesino da cui procedere per tentare di capire dove si trovassero gli uomini-orso.

L’idea era di partire quanto prima, onde evitare che i berserkir si riversassero come uno sciame di cavallette sul mio branco per distruggere ogni cosa, e al solo scopo di uccidermi.

Il punto però era un altro; non potevamo entrare in un territorio controllato da un Fenrir senza averne preventivamente chiesto il consenso.

Quindi, la cosa più urgente rimaneva trovarli prima che loro scoprissero ciò che era accaduto a Lot, i suoi compagni e Loki, e decidessero di scatenare l’inferno su Matlock.

Speravo solo che la risposta del Consiglio dei Fenrir irlandesi non tardasse troppo a giungere.

La legge dei licantropi parlava chiaro, e io avevo sperimentato sulla pelle cosa significasse passarvi sopra, per cui era vitale stare calmi – come, dovevo ancora scoprirlo – e aspettare notizie da Erin, Fenrir di Belfast.

Non sapevo molto di lei, tranne che era una donna e che era al potere da poco meno di un anno.  

L’unica cosa veramente chiara era che, grazie ai buoni uffici di Sebastian, ci era stato vietato di mettere piede su suolo irlandese previo permesso di tutti e sette i clan presenti sull’isola.

Cosa avesse combinato di così tremendo non lo sapevo – Duncan era reticente, su questo punto – ma di sicuro, conoscendo il tipo e i suoi modi strafottenti, non faticavo a immaginarmelo mentre insultava qualche Fenrir solo perché aveva la luna storta.

Anche senza essere fisicamente presente, Sebastian era riuscito in un solo colpo a rovinarmi l’intera giornata, non appena ero venuta a sapere di quel piccolo, insignificante, tremendo particolare.

A complicare il tutto – neanche Loki, dall’oltretomba, si stesse divertendo a macchinare contro di me – Alec aveva telefonato dicendo che, volente o nolente, lui avrebbe intrapreso la Cerca assieme a noi.

Essendosi reso disponibile per venirmi a salvare dall’orrenda fine che Loki aveva deciso di propinarmi, e con la quale aveva avuto intenzione di far esplodere il mondo, non voleva essere lasciato fuori dalla questione quando realmente poteva vederne la fine.

E niente di quello che avremmo potuto dire per farlo desistere l’avrebbe convinto a non seguirci.

Così, oltre a dover aspettare il benestare di tutti i clan irlandesi prima di poter mettere piede a Belfast, dovevo anche prepararmi psicologicamente all’idea di viaggiare assieme ad Alec.

Ciliegina sulla torta, quel pazzo scatenato di Gordon mi aveva detto, a pochi giorni dalla mia liberazione, di voler diventare un licantropo come me.

E come se non fosse bastato tutto questo a rendermi acida come uno yogurt andato a male, dovevo tentare di risolvere tutti questi annosi problemi prima dell’inizio dell’università, prevista per ottobre.

La vita è bella.

“Sai di avere una faccia da spavento, sorellina?” celiò Gordon facendo il suo ingresso in salotto, dove me ne stavo seduta con il mio portatile posato sulle cosce.

Lo salutai con uno sbuffo e un’occhiataccia – la sua richiesta mi aveva talmente sconvolto che, tutte le volte che lo vedevo, avevo un tuffo al cuore – e lui, sedendosi accanto a me e sbirciando in direzione dello schermo, sollevò divertito un sopracciglio. “Uhm, ti stai erudendo sul mito di Cu Chulainn?”

“Sei tu l’esperto di ‘sta roba, non io” brontolai, chiudendo il portatile per dedicarmi completamente a lui. “Ho anche chiesto a Elspeth di mandarmi qualcosa tramite mail e, da quel che ho visto nella casella di posta, avrò di che divertirmi, nei prossimi giorni. Sembra che mi abbia mandato la Bibbia dei Mostri. Sono più di ottocento pagine!”

Gordon fischiò divertito e, dandomi una pacca sulla spalla, decretò con falsa commiserazione: “Auguri, ragazza; non ti invidio.”

“Come sei comprensivo” ironizzai acida.

Ridacchiando, il mio fratellino intrecciò le mani dietro la nuca e mi prese bonariamente in giro. “Se continui così, potrei decidere di usarti per scrostare i rubinetti.”

“Ah ah. Davvero divertente” sbottai, prima passarmi nervosamente le mani tra i capelli rilasciati sulle spalle. “Scusa, Gordon, ma questa faccenda mi sta snervando. Non fosse che dobbiamo muoverci come se dovessimo camminare sulle uova, avrei già preso un aereo per Belfast senza neppure lasciar dire ‘bah’  a Duncan.”

“Cose da lupi” ciangottò Gordon, gioviale.

Lo fissai malissimo – si divertiva un mondo quando le regole dei lupi mi complicavano la vita – e brontolai: “Perché hai quel sorriso idiota stampato sulla faccia? Cosa c’è di tanto divertente? Non puoi essere solo sadicamente soddisfatto per il mio malumore. E poi, se proprio vogliamo essere precisi, di queste cose dovrai occuparti anche tu, casomai io decidessi di accontentarti!”

Il suo buonumore scemò di colpo tramutandosi in ansia ed io, calmandomi subito, sospirai pesantemente.

A volte, me le andavo proprio a cercare. “Ti ho chiesto un po’ di tempo, Gordon. Concedimelo senza farmi apparire una strega cattiva. Non ho davvero né il tempo né la maniera di pensare a ciò che mi hai chiesto.”

“Potrei chiedere a…” tentennò lui, prima di venire bloccato da un gesto della mia mano.

“Non puoi chiedere a nessuno del branco. Ho detto a tutti di non mutarti prima di una decisione mia e di Duncan in merito” replicai lesta, guadagnandomi per diretta conseguenza un’occhiata gelida da parte sua.

“Non hai il potere di dirmi ciò che devo fare della mia vita!” protestò vibratamente, alterandosi e stringendo i pugni.

“Tutto bene, lì?” mi chiese all’improvviso Duncan, entrando nella mia mente come un fruscio di brezza.

“Tutto regolare. Stiamo discutendo come al solito, niente di nuovo” replicai serafica, continuando a fissare gelida mio fratello.

“Ho sentito tuo fratello perdere le staffe fin qui dalla clinica. Deve essere davvero frustrato, stavolta, per alzare così tanto la voce” mi spiegò Duncan, mettendo comprensione nel suo tono di voce.

“Gli ho detto della mia decisione di vietargli la mutazione fino a nuovo ordine e, a quanto pare, non l’ha presa bene” lo aggiornai stancamente.

“E’ maturato molto in questo anno passato qui da noi, perciò si sente in dovere di prendere decisioni indipendenti dalle tue, o da quelle di Mary Beth. Cerca di capirlo.”

“Mai detto di non volerlo capire. Ma deve attenersi a ciò che dico visto che, se muterà, io sarò anche la sua Prima Lupa, oltre a essere sua sorella.”

“Vero. Lo lascio nelle tue sagge mani, allora.”

“Fifone” brontolai, prima di dedicarmi a Gordon.

“Ho il potere di dirtelo, invece, visto che hai deciso di voler diventare un mio lupo” precisai a quel punto, assottigliando gli occhi fino a renderli due esili fessure d’oro brunito.

Imitandomi, Gordon continuò a fissarmi malamente prima di esclamare: “Non è giusto che, per una cosa del genere, io debba essere condizionato dalla tua decisione!”

“La mia mutazione è avvenuta per un caso fortuito, Gordon. Diversamente, chi sceglie di mutare viene messo davanti a tutti i pro e i contro dell’essere licantropo. Tu, questo passaggio l’hai voluto saltare a piè pari rivolgendoti direttamente a me perché sono tua sorella, sperando così di passarla liscia. Ma così non è. Ne parlerai in primis con Duncan, e solo dopo con me. Non ammetto repliche di sorta. Lui è Fenrir, e io la sua Prima Lupa. Lui è primo in gerarchia, non io. Se invece ti vorrai rivolgere alla wicca del branco, vieni pure da me quando avrai le idee veramente chiare, ma anche in questo caso, dopo parlerai con Duncan. In un modo o nell’altro, ci affronterai entrambi” gli rammentai con voce abbastanza dura da apparire quasi metallica anche alle mie orecchie.

Imprecando tra i denti, lui si levò in piedi e, muovendo nervosamente le braccia come per sfogare l’energia repressa che sfrigolava dentro di lui, inveì contro di me sibilando a denti stretti: “Lo fai solo perché ti sei sempre divertita a comandarmi a bacchetta, fin da piccola!”

Lo imitai, alzandomi con la grazia ferina propria dei licantropi e, sfidandolo con lo sguardo nonostante fossi ben più bassa di lui, mormorai gelida: “Non osare accusarmi di una cosa simile, Gordon. E presta orecchio, perché ti si imprima bene nella mente. Dovrai sottostare a molti ordini e obblighi, all’interno del branco, poiché io sono la Signora di questo clan e ne sono anche la guida spirituale. Non ci saranno più silenzi di fronte alle tue intemperanze, una volta divenuto lupo, come invece avviene ora. Ti sarà richiesta obbedienza e devozione e, più di tutto, ti sarà chiesto di accettare ogni regola del branco, anche quelle che tu ritieni più assurde o inutili. Sarai l’ultimo tra i lupi finché non risalirai la gerarchia all’interno del branco mediante sfide al primo sangue, quindi dovrai adattarti a subire, i primi mesi, quando ti verranno chiesti i compiti più umili. Sei in grado di accettarlo?”

Di fronte a quella mia arringa si azzittì, lo sguardo ora percorso da un’ira profonda, mescolata all’indecisione e alla paura, paura che io avevo contribuito a far affiorare.

Mi spiaceva tremendamente essere così dura con lui, specialmente pensando a quanto era stato in ansia per me durante il mio rapimento, ma non potevo comportarmi diversamente.

Non se volevo che comprendesse appieno cosa volesse dire essere un licantropo.

Non c’erano solo la forza, la velocità, l’eleganza e la scaltrezza nei movimenti. C’erano anche obblighi e doveri molto più pressanti di quelli che si potevano avere nella comune vita degli esseri umani.

Le leggi di un branco di licantropi somigliavano per molti versi a quelle vigenti in un vero branco di lupi, e questo era difficile da accettare per chi non vi era nato e cresciuto.

Persino dopo esserne divenuta la guida, faticavo a comprendere, ed accettare, determinate regole.

Insistere perché capisse era mio dovere.

Doveva comprendere ogni fardello e ogni onore di questa nuova vita prima di chiedere di diventare un licantropo, perché non ci sarebbe stata una scappatoia una volta che il mio sangue e il suo si fossero mescolati assieme.

Sembrò volermi dire qualcosa di veramente brutto, almeno a giudicare dal suo sguardo livido ma, come una candela spenta da un colpo di vento, si chetò nel giro di pochi attimi e tornò a sedersi.

Le uniche tracce di tutta la sua frustrazione furono il profondo e lungo sospiro che emise, e le palpebre tremanti calate sui chiari occhi cristallini.

Le spalle reclinate in avanti e gli avambracci posati sulle cosce, Gordon mi promise: “Vedrò di calmarmi e di parlarne con Duncan, okay?”

“Bene” annuii, liberandomi a mia volta in un sospiro.

Non mi ero accorta di aver trattenuto il respiro, né di essermi irrigidita al punto di avere le braccia informicolate per la tensione.

Cristo! Dovevo darmi una calmata, o le mie coronarie sarebbero esplose come una pentola a pressione con la valvola otturata.

Inginocchiandomi dinanzi a lui dopo aver preso un bel respiro liberatorio, poggiai le mani sulle sue, gli sorrisi e chiesi: “Eri venuto solo per intavolare una lite con me, oppure c’era dell’altro?”

“Non arrivo a tanto neppure io” mi ritorse contro lui, sollevando le palpebre per scoccarmi un’occhiata in tralice. Non era ancora calmo, ma ci si avvicinava molto. “Volevo solo dirti che Mary B non ha dormito a casa, ieri notte.”

Immaginai senza tanti problemi come la mia faccia apparisse allibita ai suoi occhi, perciò non me la presi quando Gordon cominciò a ridacchiare, cancellando di fatto la sua aria ombrosa per sostituirla con il suo consueto sorrisino ironico.

Oh, bella! Questa sì che era una notizia!

Sbattendo più volte le palpebre, come per essere certa di non stare dormendo davanti al computer, riuscii in qualche modo a dire: “E dove… cioè, posso immaginarlo, però…”

Gordon venne in mio soccorso e mi confessò: “Sono usciti a cena e poi, da quel che so, sono andati a vedere un film. Ma, da quel che le mie orecchie hanno captato, o non captato in questo caso, la nostra Mary B non è rientrata a dormire ed è sgattaiolata in casa poco prima delle sei del mattino, giusto per cambiarsi d’abito e andare al lavoro.”

Storsi il naso, indecisa se essere irritata per la spiata di Gordon o felice per la ritrovata serenità di Mary B ma, alla fine, la gioia ebbe il sopravvento e, sorridendo, dichiarai: “Sono davvero contenta per lei. Sono convinta che Lance le restituirà la serenità che aveva perduto con il tradimento di Patrick.”

Gordon tornò serio a quell’accenno, e mormorò irritato: “E’ stato tremendo, i primi mesi, vederla piangere di nascosto quando pensava che non la guardassi, e sentirla lamentarsi con Sarah per la sua stupidità. Ho visto piangere Erika più di una volta, dopo aver sentito Mary B parlare di ciò che le aveva fatto Patrick nel corso degli anni, di come avesse ucciso un po’ per volta l’amore che provava per lui.”

Sospirai, scuotendo il capo con rassegnazione.

Niente avrebbe cancellato quell’amore divorato dalle bugie e dalla freddezza perpetrate da Patrick negli anni, ma Lance poteva essere la speranza di un nuovo avvenire, per lei. “Mary B è buona e generosa e, di certo, le menzogne di Patrick non l’hanno aiutata. Ma è anche una donna forte, e ha saputo rialzare la testa e farsi coraggio. Inoltre, Lance è un uomo comprensivo e gentile, e saprà farla felice.”

“Anche perché, se non lo fa, Hati o non Hati, io lo ammazzo. Non permetterò più a nessuno di farla soffrire” poi, guardandomi con un mesto sorriso, aggiunse: “E’ l’unica mamma che abbiamo.”

Gli scompigliai i capelli – se lo avessi abbracciato, saremmo scoppiati a piangere come bambini o, paradossalmente, ci saremmo accapigliati – e annuii. “Lo so. Ma vedrai che Lance è il tipo giusto per lei.”

“Spero solo che non le faccia male… insomma, sai…” a quel punto arrossì ed io, ridacchiando, gli tappai la bocca con la mano per evitare che proseguisse.

“Saranno affari loro, fratellino” gli rammentai, prima di avvertire il potere morbido e avvolgente di Jerome raggiungermi come una carezza di velluto.

Un attimo dopo, la porta di casa si aprì e, in neppure un paio di secondi, entrambi scrutammo Jerome entrare con una borsa enorme in mano e un sorriso stampato sul volto affascinante.

“Ehi, ciao, quasi cognato. Come te la passi?” esordì Jerome, facendo arrossire ancora di più Gordon.

Era un asso nel mettere a disagio la gente quando voleva fare il pestifero ma, in quel caso, lo ringraziai mentalmente. Il suo intervento aveva cancellato del tutto la possibilità di tornare sull’argomento mutazione. Per un po’, ero salva.

Mi alzai, dando una pacca sulla spalla a Gordon mentre lui grugniva un saluto e, con aria pacifica, chiesi al mio Sköll: “Ti hanno messo a fare il fattorino? Cosa c’è lì dentro a parte, a quanto pare, il pranzo di oggi?”

Jerome ridacchiò, posando la borsa sul tavolino del salotto e, sedendosi sul bracciolo di una poltrona, mi confidò: “Mamma è convinta che non ti nutri a sufficienza, così ti ha mandato una scorta di cibo degna di un esercito, mentre Erika ha infilato in borsa alcuni CD che ha fatto lei. Dice che è tutta musica che ti aiuterà a rilassarti.”

Rimuginando sui suoi gruppi preferiti – Metallica, Linkin Park e Nirvana – tremai al pensiero di cosa potessero contenere quei CD ma, non volendo apparire pignola, sorrisi e feci buon viso a cattivo gioco. “Ringraziala da parte mia.”

“Porterò il messaggio” annuì Jerome, prima di chiedermi: “Ancora nessuna novità dai nostri fratelli d’Irlanda?”

“No, ancora nulla” esalai con tono petulante, lanciando un’occhiata raggelante all’incolpevole telefono. “Anzi, penso che comincerò subito a dare fondo alla scorta di cibo di tua madre. Ho i nervi a fior di pelle.”

“Povero papino” ridacchiò Jerome, ghignando al mio indirizzo.

Da quando aveva scoperto che dentro di me risiedeva l’anima di Fenrir, mentre lui aveva ereditato quella del figlio Sköll, non era più stato possibile fermarlo.

Ogni volta che gliene capitava l’occasione, mi chiamava pomposamente ‘papino’ mentre, con Duncan, si esibiva in mielosi quanto irritanti ‘mammina cara’.

Non ero sicura che io o Duncan l’avremmo sopportato ancora per molto ma conoscevamo Jerome perciò, se avessimo continuato a fare finta di niente, prima o poi – forse tra mille anni – avrebbe smesso di stressarci.

In ogni caso, potevo sopportare le sue battute, specialmente quando mi servivano come via di fuga da argomenti che, in quel momento, non avevo nessunissima voglia di affrontare.

***

La riunione svoltasi durante il plenilunio d’agosto non aveva portato con sé solo buoni frutti, ma anche ulteriori attriti.

Pochi giorni prima di quella riunione straordinaria, Duncan si era messo nuovamente in contatto con Erin, esponendole i motivi della nostra fretta e chiedendole di parlare in nostro favore al Consiglio dei Clan Irlandesi.

Lei si era limitata a prendere nota senza promettere nulla dichiarando che, entro la fine di agosto, avrebbe saputo darci una risposta.

Avevo sperato fin dal nostro primo contatto che non intendessero aspettare la luna piena come noi, prima di affrontare il problema.

Io mi ero vista praticamente costretta ad attendere più di due settimane dal mio ritorno dalle Svalbard, prima di incontrare tutti.

Non avrei mai potuto affrontare degnamente tutti gli alfa invitati al nostro Vigrond, conciata com’ero, ed era vitale che mi vedessero ancora forte e presente, o sarebbe stato il caos.

Gli irlandesi, invece, non avevano avuto nessun motivo per tardare così tanto, eppure ancora nessuna nuova era giunta dalla terra del trifoglio, e noi ci eravamo dovuti presentare al Vigrond senza una risposta.

I nostri confratelli irlandesi ancora non hanno risposto?

La voce della quercia sacra irruppe nei miei pensieri, distogliendomi dall’apatia in cui ero caduta subito dopo aver messo piede nel Vigrond.

In quel luogo potevo ancora percepire i residui energetici delle auree degli alfa che, solo pochi giorni prima, si erano trovati lì per discutere su come agire per il meglio ed evitare una carneficina.

“Erin non si è ancora fatta sentire” ammisi, sedendomi a terra e poggiando la schiena contro il tronco ruvido della pianta.

La brezza si levò lieve come una fresca e delicata carezza sulla pelle, portando con sé i profumi dei fiori boschivi, delle creature viventi che dimoravano in quei meandri sicuri e dell’azione incessante di morte e rigenerazione che il sottosuolo compiva ad ogni mio battito cardiaco.

Chiusi gli occhi, ascoltando e percependo ogni movimento, ogni respiro, ogni fruscio, ogni schiocco, facendo miei il canto dell’allodola, lo stormire delle piante, il picchiettare delle formiche sulle foglie, il veloce risalire della linfa lungo i tronchi degli alberi.

Sebastian si è mostrato caparbio come al solito.

Il commento della quercia mi fece sorridere. Era raro che esprimesse dei giudizi ma, con Sebastian, si era dichiarata fin da subito sconcertata dal suo agire.

Avevo ancora ben chiara in mente la sua accusa per nulla velata, e neppure venire a sapere della verità che le mie carni celavano lo aveva fatto desistere dal comportarsi in maniera assurda.

Per poter chiarire al meglio il problema ai vari capoclan, avevo dovuto spiegare chi fosse rinato in me e perché fosse così importante trovare i berserkir prima che ci attaccassero in massa.

La notizia che Fenrir, il primo Fenrir, era rinato nel mio corpo conferendomi i poteri che tanto, in passato, li avevano confusi e preoccupati, era stata accompagnata da un coro di ‘ah’ sorpresi e ammirati.

Ma, soprattutto, dal riottoso dissenso di Sebastian che, non appena terminata l’esposizione dei fatti, aveva subito cominciato ad attaccarmi verbalmente.

A quel punto, fermare la discussione tra capiclan era stato impossibile.

Cecily si era imbestialita al punto di rizzare il pelo sulla schiena e ringhiare prepotentemente contro Sebastian, mentre Pascal e Duncan l’avevano trattenuta dall’affondare le zanne nelle carni dell’altro Fenrir.

Alec aveva riso di fronte alla presa di posizione di Sebastian, dandogli dell’idiota e scatenando così le ire dell’Hati del capoclan dell’Isola di Man, che aveva per diretta conseguenza aggredito a male parole l’irrispettoso Fenrir di Bradford.

Bright, Fred e Joshua erano rimasti ai margini delle due discussioni, cercando nel contempo di capire quali fossero le intenzioni di Eric, Gilbert e Bryan, basiti di fronte alla confusione che si era venuta a creare nel Vigrond.

Io e Kate Alexander - la wicca di Aberdeen - infine, ci eravamo accomodate ai piedi della quercia finché essa, stanca di tutte le male parole scagliate al vento, non aveva scaricato sul Vigrond una ventata di energia così potente da stordire i sensi di tutti i lupi presenti.

Questo aveva zittito ogni licantropo, permettendomi così di chiedere a ciascuno dei Fenrir presenti cosa avesse intenzione di fare in merito a ciò che avevo loro esposto.

Quasi tutti avevano dichiarato di essere dalla mia parte, e Cecily e Joshua avevano messo a disposizione parte delle loro sentinelle per rinforzare i nostri confini nell’eventualità di un attacco fortuito da parte dei berserkir.

L’unico ad allontanarsi stizzito e offeso dal Vigrond era stato Sebastian che, con parole di fiele e sguardo adamantino, mi aveva accusato di portare solo sventura.

Detto ciò, se n’era andato con l’orgoglio offeso e la promessa di non rivolgere più la parola a Duncan che, con un mezzo sorriso e un sopracciglio levato con ironia, mi aveva detto: “Perché, pensa che la cosa possa spiacermi?”

Io avevo riso e, con me, molti altri lupi. Cecily se n’era uscita con una battutaccia e Joshua, nel passarsi  una mano tra i cortissimi capelli – ora di un bel color rosso ciliegia – aveva asserito che Sebastian si sarebbe fatto venire un ictus, con tutte quelle incazzature.

Ma la faccenda rimaneva.

Sebastian ci aveva voltato le spalle e, pur essendo il capoclan di un piccolo branco, poteva fare più danni di un’inondazione su un terreno arido, con i suoi modi di fare così maleducati.

Riaprendo gli occhi, scrutai in lontananza le mie guardie del corpo – immerse nel bosco e ad una distanza che, a loro modo di vedere, era sufficiente per darmi una parvenza di privacy – e, sorridendo appena, celiai: “Forse, se avessi lasciato che i miei lupi ammazzassero Sebastian, ora starebbero più tranquilli.”

Pensi che il pericolo possa giungere anche da lui?

“Siamo lupi, in parte, e il predominio sugli altri fa parte della nostra natura animale…” ammisi, scrollando le spalle. “…per cui non mi stupirei di veder comparire i suoi lupacchiotti al confine con il nostro territorio. Ma no, non penso che lo farebbe. Can che abbaia non morde, no? Lui sa solo fare lo strafottente, ma non ha il coraggio di attaccare la coalizione che si è venuta a formare tra noi tutti. Inoltre, non vuole inimicarsi Joshua, che è apertamente nostro amico, per cui farà l’ombroso e poco altro. E’ stato l’unico ad andarsene senza accettare il patto di mutuo soccorso e, se non vuole rogne da parte degli altri, farà come la Svizzera; rimarrà neutrale.”

Quindi, eliminare Sebastian a cosa sarebbe servito?

Sogghignando, dissi semplicemente: “A farli divertire. Dopotutto, un po’ di svago serve a tutti.”

La quercia, ovviamente, non mi rispose. Non era famosa per il suo umorismo.

Alzatami in piedi prima di spazzolarmi i pantaloni da foglie e terriccio, dissi alla quercia con rinnovata serietà: “Quando Erin si deciderà a chiamare, desidero tu faccia una cosa per me.”

Se è in mio potere, ne sarò lieta, Signora dei Lupi.

Sorridendo appena nell’udire quel titolo – di cui mi aveva omaggiata da quando ero tornata dal mio rapimento – le esposi la mia richiesta. “Desidero che tu avvolga il Vigrond di energia. La mia gente dovrà avere un luogo sicuro dove rifugiarsi, qualora i berserkir decidessero di attaccare e le sentinelle non bastassero a proteggerli. Se tu innalzerai uno scudo di puro potere, neppure loro potranno entrare. Sono legati alla Madre non meno di noi, e non potranno spezzare la tua barriera. Se avessi pensato prima a fartela erigere, nulla di tutto ciò sarebbe successo, ma a che pro rivangare il passato? Ora posso solo chiedere il tuo appoggio, se vorrai darmelo.”

Sarò onorata di proteggere la tua gente in vece della coppia reale. Consideralo già fatto.

“Grazie” le sussurrai, avvolgendo per quanto mi fu possibile il tronco della quercia. “Ti voglio bene, sai?”

Mi onori.

Mi limitai a sorridere, prima di rizzare le orecchie non appena udii distintamente la suoneria del mio cellulare.

Afferrandolo in fretta, lo aprii e dissi telegrafica: “Ebbene?”

“Erin ha chiamato” mormorò Duncan, serio non meno di me.

“Quindi?”

“Si parte.”

 

 

 

 

 

 

__________________________

1 Libera Irlanda: Ho  preferito usare questo termine perché identifica l’Irlanda tutta, e non fa distinzioni tra Eire e Irlanda del Nord. Tra licantropi, queste distinzioni territoriali non esistono.

N.d.A.: E da qui parte la terza parte della storia di Brie e Duncan! Di certo, almeno per il momento, non hanno una vita tranquilla.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


6

Capitolo 2

 

 

 

 

 

 

Belfast era fresca e solleticata dal vento proveniente dal Mar d’Irlanda, quando riuscimmo ad uscire dall’aereo che ci aveva condotti in terra irlandese.

Non appena giunsi casa per ascoltare il resoconto della telefonata di Erin, mi  misi in pista per preparare un bagaglio leggero mentre Duncan si premurò di avvisare Alec e la mia famiglia dell’imminente partenza.

Dopo aver saputo da Alec che avrebbe raggiunto Heathrow per conto proprio, Duncan chiamò Mary Beth per riferirle la notizia e, nel giro di mezz’ora, lei e Gordon giunsero a casa nostra per salutarci.

Naturalmente, Mary B consigliò più e più volte a entrambi di stare attenti e di non farci prendere la mano, qualora fossero successi guai.

Gordon, invece, si limitò a rimanere in silenzio, le mani ben infilate nelle tasche anteriori dei jeans e l’aria di chi non ne poteva più di veder partire le persone che amava, con il terrore di non rivederle più.

Lo capii.

Neppure io ero serena all’idea di partire, soprattutto a così breve distanza dal mio ritorno fortunoso da quello che, per un soffio, non era stato non solo la mia fine prematura, ma l’annientamento del mondo intero.

Sapere di avere una bomba a orologeria nella testa non era piacevole, come non era piacevole sapere che, per tutta la vita, avrei dovuto mantenere un controllo ferreo sulle mie emozioni, ma tant’era.

Quella patata bollente era caduta in mano mia, ed io dovevo gestirla al meglio.

Per mia fortuna, sapevo di avere dei validi collaboratori. Fossi stata da sola, la Terra sarebbe già esplosa da tempo.

  Quando infine giungemmo a Belfast, il giorno seguente alla telefonata di Erin, un vento leggero e fresco solleticava la costa del Mare d’Irlanda.

Io levai il capo, osservando le rade nubi bianche che solcavano il cielo irlandese come mille piccole imbarcazioni dirette chissà dove.

In quel mentre un’auto scura, di grossa cilindrata, si avvicinò a noi nel parcheggio di fronte all’entrata dell’aeroporto.

Quando il motore calò di giri fino a ridursi al minimo, dedicai tutta la mia attenzione alla potente Mercedes Benz Guard che ci aveva raggiunti. La portiera dell’autista si aprì e ne discese un licantropo dalla stazza non indifferente e che indossava – udite, udite – nientemeno che una livrea scura.

O Erin voleva fare bella figura con noi, o aveva un sacco di soldi.

Il licantropo, scuro di capelli e dal viso affilato come un rasoio, ci squadrò per alcuni attimi prima di dire con tono ossequioso: “Ben trovati in terra d’Irlanda, gentili ospiti. La mia signora vi sta aspettando con impazienza.”

Detto ciò, ci raggiunse con passo elegante e possente al tempo stesso e, dopo essersi occupato dei nostri bagagli, ci tenne la portiera aperta perché salissimo in auto.

Non appena mi accomodai sui morbidi sedili di pelle bianco panna, scrutai incuriosita Duncan, seduto al mio fianco, e gli chiesi: “La nostra ospite è così benestante?”

“Ne so quanto te” scrollò le spalle lui prima di voltarsi verso Alec che, però, scosse il capo.

Neppure lui ne era al corrente.

L’auto oscillò leggermente quando l’autista risalì al posto di guida e, non appena la Mercedes riprese la sua marcia, il licantropo che ci aveva accolti in pompa magna tornò a parlare con cortesia. “La mia Fenrir vi attende nella sua villa poco lontano da Green Castle, a nord di Belfast. Non ci vorrà molto per raggiungerla. Il viaggio è andato bene?”

“Ottimamente” disse pacato Duncan.

Era il più indicato tra noi, per parlare, il più diplomatico. Io o Alec avremmo fatto un gran casino, invece, lo ammettevo senza problemi. “La tua signora è stata gentile a offrirci questo servizio.”

“L’ospitalità è primaria, in terra d’Irlanda” chiosò diplomaticamente l’autista, prima di lanciarmi un’occhiata attraverso lo specchietto retrovisivo e aggiungere: “Non stento a credere che voi siate sia wicca che custode del nostro potente progenitore, Prima Lupa. L’energia che scaturisce dal vostro corpo, anche adesso che l’aura è a riposo, è grande e… dolce.”

Sorrisi appena a quel commento e ammisi: “Ne sono consapevole. Mi reputo alla stregua di un enorme vasetto di miele.”

Il licantropo accennò un sorrisino di fronte al mio tentativo di apparire simpatica, e dichiarò: “La mia signora apprezzerà il vostro umorismo. Non le piacciono le persone troppo compiaciute di sé.”

“Oh” esalai, cominciando a subodorare perché Erin ce l’avesse tanto con Sebastian.

Alec ridacchiò sardonico, forse giunto alle mie stesse conclusioni, o forse sentitosi preso in causa.

Neppure lui brillava per umiltà, questo andava detto, anche se nelle ultime settimane era migliorato non poco.

Duncan, limitandosi ad un sorriso di circostanza, celiò: “La tua signora scoprirà presto che la mia Prima Lupa ama scherzare su tutto, e anche nei momenti meno opportuni.”

A quel punto il licantropo scoppiò a ridere di gusto. “Allora andranno d’amore e d’accordo, Fenrir di Matlock. D’amore e d’accordo.”

“Dio ci assista” sospirò a quel punto Duncan, sorridendomi benevolo.

Io ricambiai con un ghigno sardonico, trovando già simpatica Erin, mentre Alec sbuffò contrariato, forse irritato all’idea di trovare una mia emula in terra d’Irlanda. Non aveva mai fatto mistero di non sopportare il mio carattere… mordace.

Impiegammo quasi un ora per liberarci del traffico cittadino ma, alla fine, riuscimmo a raggiungere una piacevole quanto intima area verde.

Una stradina a senso unico si allungava sinuosa attraverso il parco di latifoglie tra cui sorgevano sporadiche ville, intervallate da immensi prati fioriti e alti muri di cinta in sasso.

Al suo interno, protetta da quella naturale barriera di piante ed arbusti in fiore, si trovava una piccola quanto incantevole villetta a due piani in stile neoclassico dell’ottocento francese.

L’entrata ad arco in stucco color panna era sorretta da due belle colonne di liscio marmo bianco.

Una greca in bassorilievo si dipanava orizzontalmente lungo tutto il muro, delimitando il primo piano della villa.

Ai due lati del portone d’ingresso, alte e frequenti finestre si intervallavano a brevi tratti di mattoni faccia a vista e, al piano superiore, ampie porte finestre si aprivano su  balconate in ferro battuto.

Fermata l’auto nell’ampio cortile antistante l’imponente ingresso, il nostro accompagnatore – presentatosi a noi con il nome di Richard – ci aprì la portiera per poter uscire dalla Mercedes.

Affascinata, dopo aver dato un’occhiata al bel pratino all’inglese che si perdeva nel boschetto che circondava la tenuta, esalai: “E’ un luogo davvero delizioso in cui vivere.”

“La mia signora ama la tranquillità. E da qui, il nostro Vigrond è molto vicino” ci spiegò Richard, aprendo il bagagliaio per recuperare i nostri trolley.

Dalla porta d’ingresso, in legno scuro e ricoperta di intagli tondeggianti, fece capolino una sottile figura di bambina che, scrutandoci curiosa e con occhi intelligenti, fece qualche passo nella nostra direzione prima di fermarsi al limitare dei gradini che portavano all’entrata.

Io sorrisi spontaneamente a quella bellezza bionda di circa otto anni, abbigliata con un semplice paio di jeans, scarpette da ginnastica e una maglietta di Hello Kitty.  

Lei, accentuando il proprio, esordì dicendo: “Benvenuti a Villa Chiara. Io sono Penelope Durtmore, ma tutti mi chiamano Penny. La mamma è al telefono, ma arriverà subito.”

Mamma? Erin aveva una figlia?

Tutti e tre ci scambiammo occhiate incuriosite mentre Richard, entrando con i trolley alla mano, sorrise benevolmente alla bimba, chiedendole: “Penny, pensi tu a fare strada ai nostri ospiti?”

“Li porto nel salottino blu?” si informò allora la bimba, annuendo al gigantesco licantropo.

“Ottima scelta” annuì Richard prima di lasciarci nelle mani della bambina che, da perfetta padrona di casa, si scostò dall’entrata per farci entrare.

Basiti di fronte a questa scoperta, entrammo in silenzio nella bella villetta, camminando in fila indiana lungo il corridoio in parquet e ricoperto da un infinito tappeto orientale dai toni del marrone e del rosso.

Alle pareti, ricoperte da pannelli in legno di ciliegio, piccoli quadri di scene campestri si intervallavano a fotografie di Penny e di una donna alta e dai folti capelli biondo-ramati – presumibilmente Erin.  

Piccole cassettiere in stile Luigi XV ricoperte di bei centrini e vasi cinesi ricolmi di fiori freschi abbellivano l’intero ambiente, dando un’idea del gusto sopraffino dei suoi abitanti.

Procedendo spedita dinanzi a noi e mantenendo un’andatura abbastanza sostenuta, la bimba si fermò più o meno a metà del corridoio e aprì una porta in legno di ciliegio, dicendoci con un gaio sorriso: “Prego, entrate pure.”

“Grazie” assentii io per tutti, entrando per prima.

All’interno, il mobilio rispecchiava quello intravisto fino a quel momento.

Un’ottomana era sistemata sotto un’alta finestra, ombreggiata da delicate tende di batista azzurro cielo.

Nel mezzo della stanza, due divani in stile Luigi Filippo dai variopinti cuscini fiorati si accompagnavano a un basso tavolino in radica di legno e una credenza a vetri, dove era esposta una bellissima collezione di bicchieri in cristallo boemo.

Il parquet, in quella stanza, disegnava figure geometriche romboidali, a differenza del corridoio dove, invece, era stato disposto longitudinalmente rispetto alle pareti.

Lo osservai ammirata, notando lo splendore del legno e la totale assenza di difetti prima di accomodarmi e dire, rivolta a Penny: “La tua casa è davvero splendida.”

“Grazie. A me e la mamma piacciono tanto questi mobili. Li aveva comprati tutti papà” sorrise lei, accomodandosi al fianco di Alec che, con mia somma sorpresa, si scostò il più possibile e la fissò come se avesse accanto un serpente a sonagli.

“Paura dei bambini?” chiesi mentalmente a Duncan fissando di sottecchi Alec, che pareva quasi terrorizzato dalla presenza di Penelope.

“E chi lo sa? Non conosco Alec così bene, ma direi che è sinceramente spaventato dalla bimba” commentò divertito Duncan prima di avvertire, al pari mio e di Alec, la carezza vellutata dell’aura di un licantropo. E non si trattava di Richard.

Un attimo dopo aver percepito quel potere morbido e fluttuante, la porta si aprì e al nostro cospetto si materializzò la donna delle fotografie, che si presentò come Erin O’Hara.

Le stringemmo a turno la mano – per i saluti lupeschi avremmo atteso di conoscerci meglio, visto che appartenevamo a due Congregazioni diverse – prima di tornare ad accomodarci sui divani.

Sorridendo alla figlia prima di accomodarsi a sua volta, scegliendo per sé l’ottomana, accavallò le lunghe gambe - abbracciate da un paio di pantaloni di lino color oliva - e asserì elegantemente: “E’ un onore per il mio clan avere simili ospiti. Siate i benvenuti.”

“L’onore è tutto nostro, Fenrir di Belfast” replicò Duncan, prima di aggiungere: “Lei è Brianna, wicca del mio branco e mia Prima Lupa, mentre lui è Alec Dawson, Fenrir di Bradford.”

Annuendo, Erin ci scrutò per un momento con i suoi penetranti occhi verde-azzurri prima di soffermarsi su di me e dichiarare con sincerità: “La tua aura è come un afrodisiaco, wicca, e assaporarla sulla lingua è un’esperienza più unica che rara. Capisco perché i primi uomini che vennero in contatto con il nostro progenitore ne rimasero sconvolti e ne ebbero paura. Immagino che un simile potere potesse essere percepito persino da loro.”

Ha ragione. Ne erano in grado.

Dopo gli eventi traumatici del mio rapimento, Fenrir si era chiuso in se stesso, lasciandomi il tempo di recuperare le forze senza dover affrontare discorsi opprimenti su ciò che ci sarebbe spettato nell’affrontare i berserkir.

Fu per quello che quasi sobbalzai per la sorpresa quando lo sentii emergere dal mio subcosciente così di colpo, senza alcun avvertimento.

“Vuoi farmi morire di paura?”

Scusa. Busserò, la prossima volta. E nel dirlo, ridacchiò prima di scomparire così com’era venuto, in un attimo.

Sbuffando contrariata, replicai con un sorriso di scuse: “Perdonami. Stavo discutendo con Fenrir. Diceva che hai perfettamente ragione. Gli umani erano in grado di percepire il suo potere e, forse, l’odio e la paura nei suoi confronti sono nati anche da questo, oltre che dal suo aspetto apparentemente inquietante e dalla magnifica pubblicità offerta da suo padre Loki.”

Erin sbatté le palpebre un paio di volte prima di sorridere divertita e la figlia, fissandomi con aperta sorpresa, esalò: “E’ davvero la custode dell’anima di Fenrir, mamma?”

“Sì, piccola mia” annuì Erin, prima di reclinare ossequiosa il capo e mormorare: “Onorerai la mia casa e la mia famiglia con la tua benedizione, wicca?”

“Ne sarò lieta” annuii prima di allungare una mano in direzione di Penny, chiedendole: “Puoi venire qui un momento?”

All’assenso della madre, Penny mi raggiunse fiduciosa ed io, sfiorate le sue gote paffute, le sorrisi e appoggiai la mia fronte alla sua. “Che il Sole guidi il tuo cammino, la Madre Terra sfami i tuoi bisogni e la Luna ti accompagni durante il tuo sonno notturno. Che il vento ti sia compagno, il lupo guida e protettore e la notte amica fidata. Che la tua tana sia porto sicuro dal freddo, dai nemici e dalla malasorte. Ciò chiedo per te e per coloro che hai nel cuore.”

Detto ciò, la baciai sulla fronte e Penny, con una piccola riverenza, mi ringraziò prima di trotterellare al suo posto, sempre al fianco di Alec che, in silenzio, aveva assistito a quel rito propiziatorio fissando la bambina con aria accigliata.

Chissà perché ne aveva così timore?

“Ti ringrazio, wicca” disse semplicemente Erin.

Un attimo dopo, ombrosa in viso, ci domandò: “E ora ditemi cosa è successo, e perché necessitate di conoscere la storia dei berserkir. Come mai questo nome è risorto dall’oblio in cui era rintanato con tutti i suoi orrori?”

“Eri dunque a conoscenza della loro esistenza?” le chiese Duncan, vagamente sorpreso.

Annuendo, Erin lanciò uno sguardo all’esterno dell’abitazione, perdendosi in contemplazione del bosco per alcuni attimi prima di tornare a guardarci e asserire: “Mio marito perì a causa loro. Giunsero all’imbrunire, più o meno un anno fa, mentre io ero in ospedale con Penny, e lo uccisero nel suo studio.”

Il mio sguardo corse alla bambina che, silenziosa e col capo chino, teneva le mani strette in grembo, le labbra ridotte a un’esile linea color ciliegia.

Erin la scrutò a sua volta solo per un attimo e continuò dicendo: “Cercavano i documenti risalenti al regno di Conor Mac Nessa, signore dell’Ulster ai tempi di Cu Chulainn. Per lo meno, è quello che è riuscito a dirci Marcus prima di spirare.”

Alec si adombrò in viso e parlò per la prima volta, chiedendole con la sua voce profonda e baritonale: “Perché proprio quei libri?”

Erin scosse il capo, il viso una maschera di impassibilità e gli occhi come diamanti, spiegandoci ciò che sapeva. “Posso solo dirvi che lo hanno torturato, pur di averli, ma Marcus non ha detto loro dove si trovavano gli antichi testi, così lo hanno lasciato morente, in un bagno di sangue, mentre le sirene della polizia si avvicinavano alla libreria dove aveva lo studio. Alcune dipendenti avevano sentito il trambusto provocato dal loro… interrogatorio, così decisero di chiamare le autorità, ma fu troppo tardi, per lui.

Reclinò mesta il capo mentre la mano destra, incessante, torturò l’anello di brillanti che portava all’anulare sinistro.

“Sai cosa ci sia scritto, su quei testi?” chiesi a quel punto io, stringendo le mani in grembo con impazienza malcelata.

“Misi alcune traduttrici al lavoro non appena mi fu possibile e, da quel poco che siamo riusciti a capire finora, si tratta di storie tramandate da antichi cantori sulla vita dei berserkir e sulle loro usanze, su ciò che li rende forti e su ciò che li danneggia” mi spiegò Erin, cambiando posizione sull’ottomana e accavallando le gambe con un gesto nervoso.

Possibile che il mio rapimento fosse solo l’ultimo tassello di un piano molto più complesso messo in atto da Loki?

E’ probabile. Loki non lascia nulla al caso e quelle informazioni, lasciate nelle mani sbagliate, avrebbero potuto danneggiarlo. Se tu avessi saputo, per esempio, come fronteggiarli, lui non avrebbe mai potuto agire sfruttando la loro forza.

“Perché non tornare per recuperare i documenti in un secondo tempo?” chiesi allora prima di scorgere un particolare che, in precedenza, non avevo notato.

Sensori di movimento alle finestre.

Erin, avvedendosi della mia occhiata, annuì. “Tutta la casa è sorvegliata da un sofisticato sistema di sicurezza e camere blindate si trovano nel seminterrato, assieme a una scorta di cibo sufficiente per due mesi. Inoltre, ventiquattrore su ventiquattro, il perimetro è pattugliato dai miei lupi. La stessa cosa si può dire per i sotterranei della libreria, che sono più controllati del caveau di una banca. Hanno tentato di rientrare nel mio territorio più di una volta, da quel giorno, ma sono sempre tornati al mittente. Non hanno più potuto prenderci di sorpresa così, alla fine, hanno desistito. All’incirca tre mesi fa sono finite le scorrerie, se non ricordo male.”

Annuendo grave, borbottai: “I tempi combaciano, più o meno, allora. Io sono stata rapita da un gruppo di berserkir solo poco tempo fa e, a guidarli, era un giovane in cui dimorava lo spirito di Loki. Ora lui è morto assieme ai suoi guerrieri, ma temo che la faida non sia finita. Lui li ha convinti di essere Tyr redivivo e che io, o meglio, lo spirito di Fenrir che alberga dentro di me, sia rinato per distruggere ogni cosa. I berserkir sono fedeli a Wotan e, quando hanno saputo della presenza dell’odiato Fenrir sulla Terra, beh, non hanno gradito. Soprattutto considerando quanto sia deviata la loro credenza nei confronti del nostro progenitore.”

“Il Ragnarök, intendi?” intuì Erin, annuendo a sua volta.

“Esatto. Loro pensano sia qui per questo, e tenteranno di uccidermi per impedire che ciò avvenga, non sapendo che la mia morte violenta, invece, lo scatenerà” dichiarai lapidaria, notando lo stupore balenare nei suoi occhi chiari.

“Che intendi dire?” chiese a quel punto Erin, con aria accigliata.

“Che se morissi di morte violenta, o perdessi del tutto il controllo su me stessa, il potere di Fenrir esploderebbe in tutta la sua devastante potenza, riducendo il mondo intero in briciole” spiegai con voce resa roca dall’ansia che nasceva in me ogni qual volta pensavo a quello che avrebbe potuto succedere se avessimo fallito.

“Come hanno potuto credere a Loki? Possibile che non abbiano riconosciuto in lui il male?” mi chiese Erin, dubbiosa, scuotendo il capo come a non voler pensare alla devastazione potenziale di cui le avevo appena parlato.

“Non so rispondere a questo. Posso dirti che neppure io lo riconobbi, finché non fu lui a mostrarmi il suo vero Io. E, dopotutto, si tratta pur sempre del dio degli inganni” le spiegai succintamente, notando come anche Penny, nonostante la sua giovane età, seguisse i nostri ragionamenti con interesse.

Doveva essere una ragazzina estremamente intelligente e, suo malgrado, più matura della sua età. La capivo. E molto.

Annuendo grave, Erin si oscurò in volto e, annuendo diverse volte, disse con profonda comprensione: “Il peso che porti è immane, wicca, e non ti invidio. Ma capisco l’urgenza che vi muove, e vi aiuterò con ogni mio mezzo. Domani partiremo alla volta di Emain Macha e lì vi mostrerò i documenti riguardanti i berserkir, dopodiché andremo a cercarli per tentare di riportarli a più miti consigli. Questo è ciò che il Consiglio ha deciso.”

Digerii quelle parole molto più lentamente di Alec e Duncan e, quando mi resi conto di ciò che Erin aveva detto, ormai era tardi per fermare le parole del nostro riottoso compagno di viaggio.

Delicato come suo solito, ringhiò un sentito: “Non se ne parla, femmina. Il tuo posto è qui a casa!”

Penny, evidentemente, non aveva mai sentito nessun licantropo rivolgersi così alla madre.

Fissò a occhi sgranati l’enorme Fenrir che le sedeva al fianco mentre lo sguardo di Erin, da calmo e compassato che era, si tinse di fosco, puntando direttamente alla gola del suo ospite non più tanto gradito.

Duncan, fissando malamente l’amico, intervenne con il suo solito tono pacificatore. “Naturalmente la tua proposta ci onora, Erin, ma non vorremmo mai allontanarti dalla tua bambina e dal tuo branco.”

Degnando di una sola occhiata Duncan, Erin continuò a fissare gelida Alec – che ne reggeva lo sguardo con aria strafottente – e replicò: “Ti sono grata per le tue cortesi parole, Fenrir di Matlock, ma la decisione è stata presa già prima del vostro arrivo. Nessun clan della Libera Irlanda è disposto a lasciare che la custode di Fenrir viaggi senza degna scorta, perciò abbiamo votato su chi fosse il più adatto a seguirvi nella Cerca.”

“E sei saltata fuori tu?” esclamò sprezzante Alec.

Il mio branco, per una pistola caricata ad argento!

Dio, avrei voluto strangolare Alec con le mie stesse mani! Ma chi gli aveva insegnato l’educazione? O meglio; gliel’avevano mai insegnata!?

Erin rispose alla sua insolenza sollevando un biondo sopracciglio e replicando ironica: “Avresti preferito dei Fenrir vecchi e non più nel pieno delle forze? Sono l’elemento più giovane tra i capiclan, perciò era ovvio che fossi io a seguirvi. Questo è quanto, prendere o lasciare.”

“Lascio” brontolò Alec, alzandosi per poi guardarci accigliato. “Non permetterò che una femmina ci segua, lasciando a casa una bambina senza alcun genitore a proteggerla!”

Oooh. Scrupoli di coscienza in Alec? E quando mai?

Un po’ confusa, fissai Alec come se lo vedessi per la prima volta in vita mia e Duncan, frastornato non meno di me per quell’uscita inaspettata, cominciò col dire: “Sono lodevoli motivazioni, Alec, ma…”

“Niente ma. Non se ne parla di portarla con noi. Andiamocene. Faremo a meno di quei documenti” sbottò Alec, inviperito.

“E mi spieghi dove andrai a cercarli, possente guerriero?” celiò Erin, divertita dalla sua tirata.

“Me la caverò anche senza ficcare il naso in mezzo a dei libri ammuffiti e di cui non capirei neppure mezza parola” sbuffò lui, intrecciando le braccia al petto con aria burbera.

Okay, questo era l’Alec che conoscevo!

“Allora è vero quel che si dice di te, Alec di Bradford. Che la tua testardaggine è sorpassata solo dalla tua stupidità” mormorò Erin, aprendosi in un sorriso derisorio.

Sollevando gli occhi al soffitto, già pronta a intervenire per sedare una rissa che prevedevo imminente, vidi Duncan alzarsi per afferrare Alec prima che si scagliasse su Erin.

A sorpresa, però, il licantropo in questione si limitò ad espandere la sua aura in preda all’ira più nera, forse non volendo infierire su una donna a mani nude. O, forse, per non spaventare Penelope.

La violenza di quell’onda metapsichica finì così per colpire fisicamente la padrona di casa che, aggrottando la fronte, eresse una barriera per difendersi dal suo attacco mentale.

E mostrandoci qualcosa che mai ci saremmo aspettati.

Bloccandosi subito mentre, preoccupata, Penny si sollevava dal divano per raggiungere la madre – ora visibilmente impallidita – Alec sbottò esclamando: “Non sei un Fenrir!”

***

Sorseggiando il buon the alla cannella che una domestica ci servì in splendide porcellane decorate a motivi fiorati, fissai da sopra il bordo della tazza il volto teso e stanco di Erin.

La donna stava carezzando il capo biondo della figlia e, pacata, ci stava raccontando il perché della sua nomina a capo branco.

“Non avremmo mai potuto mettere al governo di un intero branco un bambino di tredici anni che non aveva neppure iniziato il suo apprendistato come Fenrir presso mio marito, e Sköll venne ucciso assieme a Marcus durante l’assalto dei berserkir. L’unica a poter guidare il branco ero io, così il Consiglio mi nominò Fenrir per procura. Presi sotto la mia ala Albreckt che, al compimento dei sedici anni, assurgerà al ruolo di nuovo Fenrir del branco e, da quel momento, mi assunsi il ruolo che, fino ad allora, era stato del mio compagno” ci spiegò Erin, sfidando Alec con lo sguardo a ribattere al suo discorso.

“Motivo di più per non seguirci. Sei solo una comune lupa e…” cominciò col dire lui, prima di venire fulminato dallo sguardo di Erin. “Okay, sei una Prima Lupa, ma non hai alcun potere. Non hai la forza di un Fenrir, né i doni di Brianna. E avresti sempre la testa rivolta qui.”

Nel dirlo indicò Penny che, sentendosi messa in mezzo, fissò Alec con sguardo adamantino.

“Vedi, Alec, quel che dici non conta nulla, qui, perché in terra d’Irlanda tu non hai potere decisionale. E il Consiglio dei Clan ha decretato che io verrò con voi. Penny starà dai suoi zii, protetta da un intero clan che la adora. E io so badare a me stessa, come so badare alle mie emozioni. Pensi sia stato facile portare a termine una gravidanza all’età di ventuno anni? Pensi che potrebbe farlo qualsiasi lupa?” ringhiò Erin, facendo scintillare gli enormi occhi verde-azzurri. “Pensi sia stato facile portare avanti il clan dopo aver perso mio marito per mano dei berserkir?”

“Proprio per questo dovresti rimanere con lei! Per non rischiare che resti senza neppure un genitore!” sibilò a sua volta Alec adombrandosi, gli occhi percorsi da un sentimento simile all’angoscia. Cosa lo turbava così tanto, in quella situazione?

“Non ha tutti i torti” mi disse mentalmente Duncan, osservandoli con aria combattuta.

“Non lo metto in dubbio, ma non è una decisione che spetta a noi” precisai con tono duro.

“Vero. Ma non mi va l’idea che la bambina rischi di rimanere senza genitori.”

“Perché date per scontato che Erin debba morire?” brontolai a quel punto.

“Non è per mancanza di fiducia, ma le motivazioni di Alec sono valide. Una Prima Lupa non avrà mai la forza di un Fenrir e, volente o nolente, il suo pensiero correrà spesso alla figlia, rendendola vulnerabile.”

“Pensi da maschio” gli feci notare con una punta di sarcasmo.

“Penso con coscienza” precisò Duncan, storcendo la bocca nel fissarmi male.

“E credi che lei non lo faccia? Sa benissimo che questo pericolo minaccia tutti noi! Hanno ucciso il suo compagno! E’ normale che cerchi vendetta, che cerchi il modo di mettere al sicuro la sua creatura!” protestai, accigliandomi a mia volta, mentre Erin e Alec si guardavano in cagnesco.

Sbuffando, Duncan distolse lo sguardo dal mio per rivolgersi a Penny e, con voce tranquilla, le chiese: “Tu cosa ne pensi, Penny? Vuoi che tua madre venga con noi, con il rischio che si faccia male?”

Penny sollevò il capo poggiato sulle ginocchia della madre e, alternativamente, fissò tutti noi in un silenzio di tomba, spezzato soltanto dal rintocco lontano di un orologio a pendolo.

I suoi profondi occhi chiari ci studiarono a fondo, quasi penetrando nelle nostre menti per comprendere se, di noi, ci si potesse fidare a sufficienza.

Lo sguardo più lungo e accigliato lo concesse ad Alec, che resse la sua occhiata senza battere ciglio, senza neppure emettere un fiato. La sua aura, però, tremolò e non ne compresi il motivo.

Alla fine di quell’attento esame, sospirò e annuì dicendo: “La mamma può venire con voi, se vuole così. Io starò con zio Mike e zia Rachel.”

Erin sorrise alla figlia, piegandosi per darle un affettuoso bacio sul capo mentre Alec, disgustato, cominciò a passeggiare nervosamente per la stanza, brontolando sommessamente prima di proclamare caustico: “Sia chiaro. Non sopporterò neppure un piagnisteo da parte tua!”

“Ora lo ammazzo!”, pensai, già sul punto di levarmi in piedi per dirgliene quattro.

Duncan mi trattenne per un braccio, replicando deciso: “Ci penserà Erin a metterlo a tacere.”

Già sul punto di ribattere, mi azzittii quando vidi la donna levarsi in piedi per fronteggiarlo a muso duro.

Portandosi a poco meno di un passo da lui, lo sguardo levato a incontrare gli occhi grigi di Alec e la mascella tesa a contenere la rabbia che sfrigolava sulla sua pelle come olio bollente, ghignò sfacciatamente.

Penny, mordendosi un labbro, si limitò a dire: “Ahia.”

Compresi solo dopo qualche secondo cosa avesse voluto dire la bambina con quel commento profetico.

Senza dar alcun segno di preavviso, Erin scaricò un destro nel bel mezzo dell’addome muscoloso di Alec.

Impreparato a quell’assalto così diretto, e fisico, lui si piegò in avanti emettendo un ‘oh’ strozzato prima di portarsi le mani in grembo per ripararsi da un ulteriore attacco.

Massaggiandosi la mano e squadrandolo da capo a piedi mentre lui cercava di non imprecare davanti a Penny, Erin sibilò a denti stretti: “Rammenta solo una cosa, cane… ho messo al mondo una figlia, e da licantropa. Questo fa di me una lupa un po’ speciale, non credi?!”

Raddrizzandosi a fatica, Alec la fissò malissimo – anche se malissimo è un eufemismo, nel caso specifico – e, massaggiandosi lo stomaco contuso, ringhiò: “E tu rammenta una cosa, cagna… io ho ammazzato il mio Fenrir a quattordici anni per avere il dominio sul branco. Questo fa di me un lupo un po’ speciale, non credi?!”

Penny si nascose automaticamente dietro il corpo della madre e Duncan, ormai stanco di quel braccio di ferro tra i due, si levò in piedi per chetare definitivamente le acque.

Poggiata una mano sulla spalla di Alec, decretò perentorio: “Ora basta, Alec. Credo vi siate ampiamente spiegati.”

“Sentitelo, Mister Diplomazia!” brontolò Alec, scostandosi di malagrazia dal suo tocco.

Sputando aria dalle narici per la rabbia, incanalai dentro di me l’ira febbricitante di Alec e, come Erin, non diedi alcun preavviso del mio attacco.

Scaricai contro l’alfa tutto il suo rancore represso e lo scaraventai gambe all’aria in fondo alla stanza contro la pannellatura di legno, che tremò per alcuni secondi prima di tornare alla normalità.

Se Erin, Penny e Duncan rimasero sorpresi da quell’improvviso capitombolo, non lo fu Alec.

Già vittima una volta dei miei contraccolpi psichici, imprecò – stavolta senza badare alla bambina – e mi ringhiò contro sbottando: “Cazzo, non un’altra volta!”

Duncan mi fissò confuso, non gli avevo mai raccontato del mio incontro-scontro con Alec nella radura ma io, scrollando le spalle come per voler lasciare stare, lo rabberciai acida: “Parla bene, insomma!”

Erin mi fissò con un mezzo sorriso sul volto, tornato nuovamente di un bel color rosa pastello ed io, strizzandole l’occhio, le confidai: “Ci vuole poco per sistemare i bollenti spiriti di certi lupi.”

Rialzandosi un po’ acciaccato, Alec si sistemò nervosamente i pantaloni, minacciandomi con un dito puntato contro di me. “Questa me la paghi, streghetta.”

Gli sorrisi divertita – quello ‘streghetta’ era più un vezzeggiativo che un insulto, detto da Alec – e replicai: “Ti aspetto al varco. Ma, nel frattempo, vedi di non costringermi a usarti per demolire la casa di Erin.”

Alec non mi rispose il che, di per sé, fu un’autentica vittoria.

Duncan si limitò a sorridermi con aria esasperata e, mentalmente, mi domandò: “Sono stato davvero troppo diplomatico?”

“Un po’. Con Alec, certe cortesie non servono a nulla. La prossima volta, opterei per una mossa ‘alla Erin’. Si è rivelata molto efficace” replicai, sorridendogli di rimando.

“Messaggio ricevuto” annuì lui, prima di guardare Penny e dirle: “Siamo un gruppo un po’ strano, eh?”

“Sì” ammise la bambina sorridendo a Duncan che, nel darle un buffetto sulla guancia, allargò il suo sorriso fino ad illuminarsi in viso.

“Vorresti un figlio?” gli chiesi di punto in bianco.

“Voglio te. Punto” replicò lui, scompigliando i capelli di Penny prima di volgersi verso di me per dare maggiore peso alle sue parole. “Solo te.”

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


6

Capitolo 3

 

 

 

 

 

 

 

  Distesa sull’enorme letto a baldacchino della stanza offertaci dalla nostra ospite, ristetti a lungo ad ammirare il riflesso della luna sul medaglione che Duncan portava al collo.

La luce diafana e bianco latte che penetrava dalla finestra si rifletteva sulla superficie dorata del lupo, mentre la mezzaluna d’alabastro spiccava come ghiaccio sulla pelle abbronzata di Duncan.

Sorrisi leggermente nello sfiorare quella fredda pietra dura e Duncan, aprendo gli occhi dal sonno leggero che lo aveva preso, mi fissò dubbioso prima di chiedermi: “Non riesci a dormire, Brie?”

“No. Pensavo a Penny, che ha perso suo padre in maniera così tragica. Sia per lei che per Erin, deve essere stata dura” sussurrai, mentre la mia mano danzava tra la peluria sottile del torace di Duncan.

“E’ una donna di valore e, lo ammetto, sbagliavo a pensare che l’amore per la figlia potesse rallentarla. Proprio quell’amore la spingerà fino al limite” ammise lui, tornando a chiudere gli occhi prima di sospirare leggermente. “Inoltre, credo che Penny abbia la stessa forza di volontà di colei che l’ha messa al mondo, perciò non mi preoccuperei per lei.”

Allargai il mio sorriso, ben sapendo che quel genere di coccole gli piacevano un sacco. Sempre con una mano sola, mi avventurai tra la selva di peli sottili fino a raggiungere il capezzolo bronzeo, che titillai dolcemente tra le dita.

Un sospiro lungo, prolungato, profondo, fece vibrare il suo corpo enorme e disteso sulle lenzuola candide e fresche di bucato.

Quel sospiro mi rese più audace e, allungandomi su di lui, baciai con la leggerezza delle ali di una farfalla l’altro capezzolo, che si inturgidì subito, rizzandosi fiero dinanzi a me.

A quel punto Duncan riaprì gli occhi, mi sorrise e commentò: “Non vorrai usarmi a tuo piacimento solo perché non riesci a dormire, spero.”

Lo fissai come se stessi realmente pensandoci e lui, scoppiando a ridere sommessamente, mi rovesciò sulla schiena. Fulmineo, si portò sopra di me dicendomi sulle labbra: “Ti lascerei fare qualsiasi cosa, in un altro momento, ma non stasera, non qui.”

“Geloso del fatto che Alec possa sentire?” ironizzai, poggiando le mani sui suoi fianchi snelli.

Lui annuì senza remore ed io, scoppiando a ridere, lo baciai sulle labbra prima di rilassarmi e lasciare che le mie mani cadessero nuovamente sul materasso, ora del tutto inerti.

“Scusa, ma proprio non mi va” borbottò, tornando a stendersi al mio fianco.

“Nessun problema. Mi rifarò” ridacchiai, poggiandomi a lui per poi sussurrare: “Vorrà dire che ti terrò abbracciato tutta la notte.”

“D’accordo” annuì Duncan, dandomi un casto bacio sulla fronte. Un attimo dopo, chiuse nuovamente gli occhi e, neppure dieci secondi dopo, dormiva già.

Sbuffando, commentai tra me: “Io, questo potere,  no, eh?”

***

Era l’alba e, dopo aver dato un bacio a Duncan – ancora insonnolito nel letto e desideroso di continuare a dormire – ero scivolata fuori dalla camera per andare in giardino ad apprezzare il sorgere del sole e il profumo del giardino bagnato di rugiada.

Toltami le scarpe, cominciai a passeggiare sull’erba umida, godendo della frescura della terra e del profumo speziato del terreno impregnato d’acqua.

Chiusi gli occhi dopo aver ammirato i colori caldi e febbricitanti delle aiuole ricolme di fiori.

Camminai tra esse, lasciandomi guidare dagli altri sensi e godendo del respiro del vento, che portò con sé il canto delle allodole e dei passeri, unito al fruscio sommesso di alcuni conigli intenti a mangiare pigramente.

Sorrisi leggermente, assaporando sulla lingua il loro profumo di prede, prima di riaprire gli occhi quando avvertii un’altra presenza, ben più minacciosa, a poca distanza da me.

Solo e immerso nei propri pensieri, Alec comparve oltre il profilo della villetta, le mani strette dietro la schiena e la fronte aggrottata.

La sua cicatrice, pallida sulla gota abbronzata, era tesa, le labbra piegate all’ingiù come se qualcosa lo turbasse.

Sembrava non essersi accorto di me e ne ebbi la conferma quando, incrociando il mio sguardo, sobbalzò leggermente.

“Buongiorno” sussurrai nell’avvicinarmi.

Non c’era davvero alcuna necessità di alzare la voce, visto che avrebbe potuto udire un mio sospiro a un centinaio di iarde.

“A te” replicò lui, avvicinandosi con passo strascicato prima di notare i miei piedi nudi e chiedermi: “Dialoghi con la Madre?”

“Cosa te lo fa pensare?” replicai curiosa.

Scrollando le spalle, Alec mi spiegò: “So che a volte, quando vuole comprendere meglio le proprie visioni, Beverly si stende nuda sull’erba o, come nel tuo caso, passeggia per ore a piedi scalzi.”

“Diciamo che mi piace sentire la terra sotto i piedi, ma sì, è un buon metodo per avere maggior controllo sui miei doni” ammisi, continuando a passeggiare.

Inaspettatamente, mi seguì.

“Cosa ti ha portato fuori a quest’ora?” gli domandai, voltandomi a mezzo per scrutarlo in viso.

Sollevando un sopracciglio con ironia, lui disse per contro: “Non c’è bisogno di intavolare una conversazione, ragazza. A me piace anche il silenzio.”

“Ero sinceramente incuriosita ma, se non vuoi parlare, sto zitta” replicai con altrettanta ironia, facendo spallucce.

Tornando a guardare dinanzi a sé, lo sguardo sempre accigliato, Alec ammise: “Per la verità, mi stavo chiedendo se Sarah fosse riuscita a cavare qualcosa dal cellulare di Lot.”

Rabbrividii leggermente nel sentire il nome del berserkr che era morto tra le mie braccia, implorando il perdono per gli errori commessi.

Lo avevo odiato, per un po’, ma alla fine avevo compreso quanto anche lui fosse stato solo manovrato da Loki per i suoi scopi, e non me l’ero sentita di non concedergli il beneficio del perdono.

Non era stata colpa sua, alla fine dei conti. Certo, avrebbe potuto rifiutarsi di torturarmi, ma era partito dal presupposto che io fossi il male incarnato. Come non comprenderlo?

“Come mai pensavi proprio a questo?” mi informai, ripensando a quando Alec aveva controllato nelle tasche dell’ormai morto Lot nel tentativo di trovare qualcosa che fosse utile per la nostra cerca.

Oh, trovare il cellulare era stata una gran scoperta. Peccato avesse avuto un codice PIN all’accensione.

Oltre a diverse chiavi di accesso di cui non sapevamo nulla, se non dopo aver oltrepassato il primo scoglio di sicurezza digitale del telefono.

Lasciarlo nelle mani di Sarah che, con i computer, aveva più dimestichezza di noi tutti, ci era sembrata la scelta migliore ma, almeno fino a quel momento, non era riuscita a trovare il bandolo della matassa.

Curioso che Alec vi stesse pensando proprio in quel momento.

L’ombra sul volto di Alec si appesantì e il suo silenzio si prolungò per diversi minuti, quasi che quella domanda apparentemente innocua potesse preludere a sconvolgenti verità di cui lui non voleva mettermi a conoscenza.

Preferii non insistere, sapendo bene quanto potesse essere labile il confine tra la calma e l’ira, in Alec e, imitandone il silenzio, proseguii con lui nella passeggiata attorno alla villa ascoltando i rumori della città poco lontana e le voci delle persone a noi vicine.

Penny, da brava bambina di otto anni, stava facendo impazzire la madre nel tentativo di evitare di spazzolarsi i denti. Erin invece, con la fermezza e la falsa docilità di una mamma esperta, la stava blandendo con svariati elogi tra cui, inaspettatamente, la lusinga di piacere maggiormente ad Alec.

Se quella uscita scatenò in me un sospiro meravigliato, in Alec sortì un effetto davvero insolito; divenne paonazzo in viso e, con una scusa assurda, si dileguò dal mio fianco, inoltrandosi nel boschetto a passo svelto.

Fermandomi ad osservare la sua figura imponente mentre si immergeva nelle ombre offerte dalle piante, sollevai ironica un sopracciglio e mi chiesi se la più grande paura di Alec fossero i bambini.

Di certo, Penny l’aveva sconvolto, in qualche modo.

Fin dal loro primo sguardo, Alec ne era rimasto colpito, anche se non avrei saputo dire in che maniera. E la bambina, a sua volta, era parsa attratta da lui come solo i bimbi sanno fare; con una sincerità disarmante e senza spiegazioni.

Forse, a Penny mancava il padre, e Alec glielo ricordava in qualche modo – non avevo visto foto di Marcus, in casa, per cui non avevo idea di come fosse.

O forse, cosa assurda di per sé, Penny aveva visto in Alec qualcosa che l’aveva convinta ad avvicinarsi a lui.

In ogni caso, Alec ne era terrorizzato.

“Vai a capirli, gli uomini” dissi tra me, con una spallucciata e un risolino.

Di certo, non mi sarei messa a fare il confessore di Alec per carpirne i misteri, perché avrei collezionato di sicuro più insulti che segreti.

Se avesse voluto parlare della sua strana idiosincrasia nei confronti di Penny, sarebbe stato lui a cercare me o Duncan, non certo il contrario.

Convinta di ciò, me ne tornai tranquilla in casa, oltrepassando l’entrata e salutando con un cenno Serena – la governante – che, armata di piumino per la polvere e stracci vari, si stava apprestando a dare una rinfrescata all’atrio.

“Buongiorno, Brianna. Se gradisce la colazione, è già pronta in cucina” mi disse la donna con un sorriso, prima di mettersi a lavorare.

“Troppo gentile, Serena. Ne approfitterò subito” annuii e corsi verso la cugina, che si trovava all’altro lato della villetta.

Non appena la raggiunsi, vi trovai Duncan impegnato a servirsi del caffè appena fatto, mentre di Penny ed Erin non vi era ancora traccia.

Richard, invece, era seduto su una comoda sedia di vimini sulla terrazza che dava sul giardino, una tazza di the in una mano e il piattino di porcellana nell’altra.

Salutato Duncan con un sorriso e un bacio, presi per me una tazza di caffè e sussurrai: “Spero di non averti disturbato, quando sono scesa.”

“Affatto” scosse il capo lui, annusando l’aria e storcendo il naso. Dubbioso, mi domandò: “Sei stata in compagnia di Alec?”

“Già. L’ho incontrato in giardino. Pareva davvero pensieroso” gli spiegai sommariamente, sorseggiando il buon caffè bollente. “Aaah. Dio sia lodato. Buonissimo.”

Ridacchiando, Duncan mi allungò un sandwich con pollo e insalata e commentò: “Se le piantagioni di caffè andassero tutte in fumo, moriresti.”

Sgranando gli occhi con espressione allarmata, affondai i denti nel panino prima di bofonchiare: “Non penfarlo nemmeno, è fiaro?”

Lui si limitò a ridacchiare. Un attimo dopo, si volse a mezzo al pari mio quando percepimmo l’aura leggera di Erin avvicinarsi assieme ai passi trotterellanti di Penny che, per prima, mise piede nella cucina.

Tutta sorridente e abbigliata con una camicetta a pizzi e una gonnellina a balze bianche e azzurre, ci salutò con un ampio gesto della mano e un ‘buongiorno’ trillante e gaio.

Velocemente, si guardò poi intorno prima di accigliarsi un poco, notando la mancanza di Alec. Ugualmente, si avvicinò alla consolle della cucina per prendere una focaccina e, allegra, ci disse:“Vi siete svegliati presto.”

“L’alba era affascinante” ammisi, strizzandole l’occhio nell’aggiungere: “Sai, anche Alec la stava ammirando.”

Penny si illuminò tutta mentre Erin, scuotendo la testa, prese una tazza di caffè per se stessa. “Che ho mai fatto per meritarmi una simile figlia degenere?”

Duncan ridacchiò, si bevve il suo caffè e commentò sarcastico: “Mai saputo che alle donne piacciono i bei tenebrosi?”

Io fissai ironica Duncan, replicando: “E’ per questo che la prima volta che ci incontrammo mi squadrasti a quel modo? Volevi far colpo su di me?”

“Ovvio” ammiccò al mio indirizzo. “Mi sei piaciuta subito, sai?”

Erin ridacchiò di quello scambio di battute e, prendendo per sé un croissant alla crema, esalò: “Speravo avrebbe aspettato un po’ prima di prendere una cotta.”

Sentendosi interpellata, Penny afferrò la sua ciotola di latte e, dopo averla portata in terrazza, si sedette al fianco di Richard, borbottando scocciata: “I grandi si divertono tanto a prendere in giro i più piccoli.”

“E’ la prassi, a stóirín1. Non devi farci caso” le confidò Richard, sorridendole benevolo prima di darle un buffetto sulla guancia.

Penny sorrise a quel vezzeggiativo ed io, guardando Erin in viso – che osservava meditabonda la coppia sulla terrazza – dissi sommessamente: “Le vuole molto bene.”

“Rich darebbe la sua vita per Penny, senza neppure pensarci due volte. Non è solo un ottimo Hati, ma anche un caro amico e un compagno fidato per entrambe” sospirò Erin, sorseggiando ancora del caffè. “Se non ci fosse stato lui, probabilmente entrambe saremmo morte per lo strazio. Penny volle assolutamente vedere suo padre, nonostante il coroner mi avesse sconsigliata di mostrarglielo. Non ci fu verso di scrollarle di dosso quell’idea ma, alla fine, pianse a dirotto e solo Rich fu in grado calmarla.”

Trattenni il respiro, sconvolta, mentre Duncan scrutava la bimba sulla terrazza con occhi pieni di uno sconforto palpabile.

Erin, sorridendo mesta, ci spiegò: “Ebbe la forza di non mettersi a piangere di fronte agli Anziani ma, quando le esequie furono finite e ci trovammo a casa da soli, solo io, lei e Rich, scoppiò in un pianto irrefrenabile e chiamò per ore e ore il suo papà. Si addormentò tra le braccia di Rich solo a notte fonda. Da quel giorno, Penny si è sempre appoggiata a lui.”

Dopo un momento passato a scrutare il viso stanco di Erin, nonostante si fosse appena alzata, tornai a guardare Penny che, amabilmente, stava chiacchierando con Richard mentre faceva colazione.

Per un attimo, mi chiesi come avrei reagito io se, la notte in cui i miei genitori erano morti, li avessi visti nell’auto accartocciata, sanguinanti e privi di vita.

Sapevo per averlo provato sulla pelle cosa significasse lottare contro un berserkr, quindi non faticavo ad immaginare lo spettacolo orrendo cui era dovuta essere testimone la bambina.

E ancora una volta, in quelle poche ore, mi chiesi come avesse potuto, una bimba così piccola, trovare così tanto coraggio per andare avanti e sorridere di fronte a quella vita talmente ingiusta da strapparle a quel modo il padre.

Non si tratta di giustizia, Brianna. Sono le leggi superiori della vita e della morte, né più né meno, intervenne dentro di me Fenrir, sorprendendomi come suo solito.

Sospirando leggermente, azzannai una brioche e, ruminando contrariata, protestai dicendo: “Sarà anche così, ma vallo a spiegare a Penny che suo padre è morto perché qualcun altro potesse vivere!”

Non lo si deve capire, ma accettare. Come tu hai accettato di perdere i tuoi genitori e Duncan i suoi, replicò pacato Fenrir.

“E il premio per averli persi è stato il trovarci e l’innamorarci?”

Non esistono premi per tali sacrifici, mia cara. Doveva andare così e basta. Una volta che il sasso inizia a rotolare dalla collina, non si sa dove andrà a fermarsi, motteggiò Fenrir, con voce piena di comprensione.

Storcendo la bocca, ingollai un po’ di caffè prima di chiedere: “Io sono il sasso o la collina?”

Uno o l’altro, pari è. Puoi essere il sasso, e un filo d’erba, una sporgenza rocciosa, o la semplice terra smossa devieranno il tuo corso da una parte all’altra senza che tu possa fare nulla per impedirlo. Allo stesso modo, tu puoi essere la collina, e il sasso scivolerà su di te senza che tu possa fermarlo, poiché la gravità lo spinge verso valle. Le forze che governano ogni cosa sono così grandi e così incomprensibili che noi poveri esseri fatti di carne e sangue possiamo solo percepirne in parte il potere, ma non possiamo certo pretendere di piegarne il volere.

“Quindi, devo accucciarmi e sperare che il sasso non mi centri in faccia?”

Fenrir ridacchiò e dichiarò: No, Brianna. Vivi come ti dice la coscienza, ma non tentare di sconfiggere il Fato, poiché esso è insondabile. Piega ciò che puoi piegare, ma non tentare di scardinare le leggi dell’Universo, poiché ti è impossibile, anche con i miei poteri.

“Fosti tentato di farlo, in passato?” chiesi d’impulso, sfiorata da un pensiero proveniente dai suoi ricordi.

Con estrema infelicità, mista a un rammarico vecchio di secoli, Fenrir mormorò: Imparai a mia volta che l’essere figlio di un dio e di una titanessa non mi dava comunque abbastanza potere per piegare il Fato al mio volere. Minacciare di morte il padre degli Asi non mi portò certo alcun giovamento, esattamente come sbranare la mano di Tyr. Non riebbi indietro Avya e fui costretto a uccidermi per impedire che il mio potere si scatenasse, distruggendo ogni cosa.

“Il Ragnarök è il Fato che ci attende? Alla fine, non riusciremo a evitarlo?” chiesi turbata.

Il Ragnarök, l’Apocalisse, l’Armaggedon… sono i vari nomi con cui le genti descrivono la fine di un Ciclo. Lo stesso Universo è ciclico. Si estende e si ritrae all’infinito, e nei suoi confini si nasce e si muore infinite volte, sospirò Fenrir.

“Quindi, la leggenda che parla di te…” tentennai dubbiosa, lasciando che il mio sguardo scivolasse pigro sulle persone presenti nella stanza.

Erin stava finendo di mangiare un sandwich al pollo e Duncan, in apparenza, sembrava avere a sua volta un colloquio silenzioso con la sua specialissima anima immortale.

Il potere di distruggere ogni cosa deve pur appartenere a qualcuno, no?, ironizzò Fenrir a quel punto. Loki lo sapeva e, da bravo dio del Caos e degli Inganni, pensò bene di istigarmi a sufficienza perché dessi inizio al Ragnarök. Ma anche lui aveva fatto i conti senza il Fato. Non era il mio momento, come non era il suo. Io porterò sempre con me il potere della distruzione, ma non è giunto ancora il tempo per scatenarlo.

“Quindi, Loki ha fallito anche stavolta a causa del Fato avverso?”

Se vogliamo vederla così, sì. Ma soprattutto, perché voi eravate forti a sufficienza per batterlo.

Storsi il naso, non vedendoci quella gran differenza. “Allora, tutta la faccenda di te che divori ogni cosa, è vera? Farai così, alla fine di tutto?”

E’ un’allegoria, mia cara. Ma sì, contribuirò come coloro che hanno il mio stesso fardello da portare sulla schiena, ammise Fenrir, con voce grave.

“Che gran culo, che hai…” brontolai tra me.

Forse sconto il fatto di essermi comportato da irresponsabile e irriverente semidio nei primi secoli della mia esistenza, chissà?, ironizzò ancora Fenrir, pur sembrandomi vagamente imbarazzato da quell’accenno al suo passato non proprio edificante.

“Una sorta di scambio equivalente?”

Non mi chiamo Edward Elrick2, Brianna, brontolò Fenrir, riferendosi ad un anime giapponese che, per più di un anno, mi aveva tenuta incollata al televisore. Evidentemente, a Fenrir non era affatto piaciuto. Però, se vuoi vederla così, sì, può essere stato una sorta di scambio equivalente.

“Quindi, devo adeguarmi al fatto che Penny, Erin, io e Duncan abbiamo perso delle persone a noi care perché il Fato doveva bilanciare le forze cosmiche, giusto?”

Qualcosa del genere.

“Che schifo”, brontolai nuovamente.

Fenrir non mi rispose, forse perché non ve n’era bisogno o forse, semplicemente, perché non esisteva alcuna risposta valida a questo quesito.

Qualunque cosa io avessi fatto, o detto, non avrebbe cambiato la realtà delle cose.

Dovevo accettarlo, e andare avanti.

Come se fosse facile!

“Pensieri profondi?” mi chiese all’improvviso Duncan, perdendo di colpo l’espressione assorta per dedicarmi un sorriso.

“Già. Discussioni davvero profonde per le otto del mattino” mugugnai. Toccandomi poi la tempia, gli domandai: “Anche la tua coinquilina ti ha parlato?”

“Esatto. Voleva sapere se mi sentissi bene. E’ preoccupata per via di ciò che è successo a Penny. Pensa che possa in qualche modo riportare a galla vecchie ferite, ma io l’ho rassicurata dicendole che, con me, ho il miglior antidolorifico al mondo” mi spiegò, sorridendo divertito.

“Oh, sono il tuo personale lorazepam? Interessante” celiai con un sorrisino, prima di notare lo sguardo divertito di Erin.

Le sorrisi, immaginando senza problemi che il nostro affiatamento le facesse tornare alla mente ricordi di lei e Marcus, ma sapevo che negare ciò che io e Duncan eravamo era del tutto inutile, per non dire ipocrita.

Fingere di non amarci per evitare di far soffrire la nostra ospite era assurdo e irrispettoso nei suoi confronti. Era come sminuire la sua forza ed Erin, di forza, ne aveva da vendere.

L’aura sfrigolante di Alec si insinuò all’improvviso tra le pareti di casa, sorprendendoci tutti e cancellando quell’apparente momento di calma.

Richard che, fino a quel momento, aveva chiacchierato spensieratamente con Penny, si levò subito in piedi intimando alla bambina di rientrare in casa.

La bimba non si fece pregare due volte e, correndo al fianco della madre, rigida e tesa non meno di me e Duncan, chiese turbata: “Che succede?”

“O Alec è infuriato con qualcuno, oppure…” cominciai col dire io, prima di interrompermi nel momento stesso in cui lo vidi comparire nello specchio enorme della veranda.

Richard perse di colpo la sua rigidità e fissò basito l’uomo privo di sensi che Alec stava trasportando sulle spalle a mo’ di sacco di farina mentre noi, non meno scioccati, lo scrutammo scaricare quel peso morto sul prato di fronte a casa.

Con un ringhio sibilato tra i denti, Alec commentò sprezzante: “Forse dovreste alzare un poco di più le difese, signora, se non volete che dei ficcanaso di altri branchi girino indisturbati sulla vostra proprietà.”

Erin arricciò le labbra per quell’implicito rimprovero mentre Richard, senza neppure far caso al tono derisorio di Alec, si piegò su un ginocchio per tastare la gola dell’uomo steso a terra privo di sensi.

“Che è successo?” chiese Duncan, uscendo per primo sulla veranda, mentre io lo seguivo dappresso ed Erin restava con la figlia accanto al piano cottura.

Con un cenno del capo, Alec indicò l’uomo esanime e ringhiò: “L’ho beccato a poco meno di un miglio da qui, in un’auto degna di James Bond. Aveva tutto l’armamentario necessario per effettuare registrazioni ambientali a distanza di sicurezza.”

Richard annusò l’uomo un paio di volte. “E’ un neutro ma non è del nostro branco, né del Consiglio d’Irlanda, ne sono sicuro.”

“E’ un cane di Sebastian” sentenziò con disprezzo Alec, sorprendendoci ancora di più.

“Che cosa?!” esclamai, irrigidendomi subito.

“Ho sentito il suo odore fetido in ogni poro della pelle di questo tizio. Di certo ha giocato d’astuzia, mandando un neutro. Se non fossi andato in giro per il parco, non avrei mai notato il suo odore. In lontananza, lo si può tranquillamente scambiare per un umano” ci spiegò Alec, dando un calcio leggero al fianco dell’uomo con il suo stivale di cuoio nero.

Un mugolio sordo si levò dalla gola del neutro e Richard, voltandolo supino, gli circondò il collo con l’enorme mano e ringhiò: “Stai bene attento a ciò che fai, feccia.”

Gli occhi dell’uomo si spalancarono, storditi, le palpebre scivolarono su e giù un paio di volte prima che la vista fosse sufficientemente a fuoco, permettendogli di scorgere il guaio colossale in cui si trovava.

Subito, le sue membra cominciarono a tremare convulsamente e Alec, piegandosi su un ginocchio accanto alla sua vittima, snudò le zanne già pronunciate e sibilò: “Allora, cane spelacchiato, cosa ci facevi qui, senza permesso, a curiosare per la tenuta della signora?”

Un balbettio frenetico e senza senso si levò dalla sua gola schiacciata dalla mano possente di Richard mentre anche Duncan, apparentemente infuriato, sembrò voler dare il suo contributo per spaventarlo ulteriormente.

Il tremito aumentò a dismisura ed io, levando esasperata un sopracciglio quando anche Duncan iniziò a ringhiare al suo indirizzo, guardai un momento Penny prima di dichiarare: “Bene, iniziamo la prima lezione sul mondo maschile, Penny. Questo è ciò che fa il maschio medio per ottenere ciò che vuole. Ringhia, sibila e minaccia a vuoto.”

Penny, pur se spaventata, riuscì a racimolare un sorriso ed io, sogghignando non appena notai le espressioni contrariate dei tre maschi, aggiunsi: “Questo, invece, è quello che fa una femmina nella media. Usa il cervello.”

Scesi i due gradini di cotto fiorentino di cui era ricoperta la veranda  per raggiungere il prato, mi avvicinai al trio di licantropi e, scrollando con noncuranza una mano al loro indirizzo, ordinai: “Levatevi, prima di bruciargli ogni pensiero con la paura che gli state instillando dentro!”

Duncan fu il primo a scostarsi, subito seguito a ruota da Richard che, con un cenno ossequioso del capo, sussurrò un modesto ‘sì, wicca’, prima di retrocedere.

Come suo solito, invece, Alec rimase al suo posto e sogghignò al mio indirizzo, ironizzando: “Tutti bravi cagnolini, eh, lupacchiotta?”

Ghignai divertita e gli domandai: “Vuoi che ti faccia sentire un’altra volta il tocco del mio potere, Alec?”

“No, grazie” brontolò l’alfa, alzandosi in piedi prima di chiedermi: “Vuoi friggergli il cervello?”

“No. Quello lo stavate egregiamente facendo voi” replicai, sfiorando il viso del neutro con le dita di una mano, catturando così la sua attenzione e il suo sguardo allucinato. “La paura brucia le informazioni, e io voglio sapere cos’è venuto a fare.”

Detto ciò, soffiai leggermente sul viso dell’uomo inondandolo col mio potere e, come aprendo una porta, mi ritrovai a fissare lo sguardo su un lago placido, completamente immoto.

Quella vista mi scioccò a morte e mi riportò indietro subito, costringendomi a sedermi a terra per lo sgomento.

Solo una cosa poteva creare quel vuoto, quella calma innaturale per una mente umana. E il solo pensiero che Sebastian potesse aver fatto questo a uno dei suoi mi fece venir voglia di vomitare.

Duncan fu subito da me, premuroso e, sfiorandomi le spalle con le sue mani calde, mi chiese: “Tutto bene? Sei impallidita di colpo.”

“Sembra tu abbia visto un fantasma, ragazza” commentò Alec, la spavalderia del tutto cancellata dal suo volto, ora serio e attento.

“Sebastian lo ha completamente annichilito. Non avrebbe mai potuto dirvi alcunché. E’… vuoto. E’ una coppa vuota” sussurrai sgomenta, lo sguardo fisso in quello spaventato del neutro.

“Che intendi dire?” ringhiò Alec, irritandosi immediatamente.

“Ha un solo ed unico compito. Non risponde ad altro che a ciò che gli ha ordinato di fare Sebastian” mi spiegai meglio, rimettendomi in piedi con l’aiuto di Duncan. “Per questo ho detto che è vuoto. Non ha altri pensieri oltre quello che gli ha imposto Sebastian.”

“Ma… è un neutro! Non risponde alla Voce di Fenrir” replicò Richard, fissando basito l’umano ai nostri piedi.

Reclinando il capo con aria quasi colpevole, Alec replicò torvo: “Può eccome, anche se in maniera differente da un licantropo.”

Sorpresa, mi volsi a guardare Duncan, che sembrava imbarazzato non meno di Alec e Richard, mettendo a parole la mia domanda inespressa, asserì: “Spiegatevi meglio, per favore.”

Fu Duncan a parlare.

Mesto, esalò con voce roca: “La Voce di Fenrir, sui licantropi, impone un ordine, ma non causa danno alcuno al lupo mannaro, a livello celebrale. E’ normale che sia così. Ma, se usata su un neutro… ha effetti devastanti. Non dovrebbe mai essere usata su chi non è in grado di sopportarla.”

Alec smise di fissare malamente il neutro e aggiunse: “La mente del neutro non è insensibile al potere come quella degli umani, ma neppure forte come quella di un licantropo, quindi può essere danneggiata dalla Voce di Fenrir, se essa è rivolta contro di lui. Nel caso specifico, quel figlio di…”

Interrompendosi in tempo quando si ricordò della presenza di Penny, Alec si corresse terminando di dire: “…quello scellerato ha fritto il cervello di questo tizio, imponendogli l’ordine di spiarci.”

“Quindi, non potremo neppure scoprire perché dovesse spiarci”  sospirai, guardando Erin che, in silenzio, aveva ascoltato tutta la spiegazione. “Pensi di poterlo fare accompagnare a casa da uno dei tuoi licantropi? Non penso possa rientrare da solo, a questo punto, e non credo tu voglia tenerlo qui nel tuo giardino.”

“Avrà un salvacondotto fino al porto di Douglas, ma di più non farò, per lui” replicò rigida Erin, sorridendo forzatamente alla figlia per poi dirle: “Vai in camera, piccola, e preparati. Tra poco partiamo per andare a Emain Macha.”

“Va bene” annuì controvoglia Penny, correndo via oltre la porta della cucina.

Io tornai a guardare il corpo tremante dell’uomo, divorata dal disgusto e dall’odio nei confronti di Sebastian e Fenrir, dentro di me, ammise roco: Avrei preferito che questo potere non giungesse fino a voi.

“Lo hai mai usato?”

Ahimè, sì, mia cara. Prima di conoscere Avya, non ero esattamente ciò che tu definiresti un bravo ragazzo.

“Eri un semidio… mi hai spiegato come ragionano gli immortali.”

Non è una scusante, credimi.

“No”,  mi limitai a dire.

Perso.

Sebastian aveva sacrificato uno dei suoi, facendolo perdere per sempre in se stesso, e per cosa? Cosa voleva, da noi? Cosa stava cercando? Perché aveva  preso quella decisione così tremenda?

 

__________________________

1 a stóirín (gaelico irlandese): letteralmente, piccolo tesoro.

2 Edward Elrick: personaggio dell’anime giapponese Full Metal Alchemist. E’ un alchimista e, secondo la logica di quell’anime, per ogni desiderio esaudito tramite l’uso dell’alchimia, deve corrispondere uno scambio equivalente, più o meno importante in base a ciò che si è ottenuto. Più la richiesta è ingente, più il prezzo è alto, anche la vita stessa, se necessario.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


3

N.d.A.: direi che da qui in poi si inizia a capire un po’ di più Alec…

 

Capitolo 4

 


Niente Láeg1 alla guida di Liath Macha2 e Dub Sainglend3.

Niente fragore di daghe o urla di guerrieri lanciati sulle bighe o in groppa a possenti cavalli. Solo case, palazzi, piazze, auto in un frenetico andirivieni per larghe vie asfaltate. Niente di diverso dal solito.

Da un certo punto di vista, la cosa mi deluse.

Sapevo che Emain Macha non esisteva più e che, al suo posto, era sorta la cittadina moderna di Armagh, vicino a cui sorgeva il Navan Centre & Fort, luogo in cui era stata ricreata la vecchia capitale dell’Ulster.

Però, in un certo qual modo, avevo sperato di poter scorgere almeno un barlume di quei tempi così burrascosi e inquieti, in cui realtà e magia si confondevano tra loro.

Io, la solida, irremovibile Brianna, sognavo un passato di guerrieri e spade scintillanti.

La licantropia faceva davvero degli strani scherzi al mio Io.

In cos’altro sarei cambiata, prima dei novant’anni che speravo di raggiungere?

Attraversammo silenziosi il centro storico di Armagh, aggirando il largo giardino che circondava Saint Patrick’s Church prima di svoltare in direzione di Abbey Road, dove si trovava la Libreria Pubblica.

Lì, a detta di Erin, avremmo trovato ciò che ci avrebbe forse dato una mano a capire perché i berserkir se la fossero presa con suo marito Marcus  e il loro clan prima di attaccare me.

Stando a quello che ci aveva detto lei, una squadra di quattro eminenti studiosi dell’antico celtico irlandese era all’opera da quasi un anno per portare a termine la traduzione di tre antichi testi, trovati nei dintorni di Emain Macha secoli prima della colonizzazione inglese.

Erin era più che certa che fossero quelli ad interessare tanto ai berserkir, almeno a giudicare dalle prime notizie che erano scaturite da quelle pergamene rilegate in pesanti tomi di cuoio antico.

Dopo esserci lasciati alle spalle piccole case di sasso grigio e vecchie costruzioni intonacate con colori spenti e freddi, parcheggiammo nel posto riservato ai membri dello staff della Libreria, di cui Erin faceva parte.

Non appena levai lo sguardo a scrutare la facciata spoglia e liscia della struttura, spalancai leggermente le labbra quando lessi l’epigrafe scolpita nella pietra poco sotto il tetto in stile neoclassico.

Il luogo di guarigione dell’anima.

Passando inconsapevolmente una mano sullo sterno, mi chiesi se quel luogo avrebbe potuto essere anche il  mio luogo di guarigione, poiché sentivo impellente il bisogno di trovare finalmente pace, dopo tanto dolore e tante ansie.

“Anche a me fa quest’effetto, quando la leggo” sussurrò Erin, sorridendomi comprensiva.

Le sorrisi di rimando, avviandomi verso l’entrata assieme a tutti loro e, non appena varcammo la soglia, un buon profumo di carta, cuoio e cera per mobili sfiorò il nostro naso.

Un attimo dopo, gli effluvi dei pochi umani presenti e il leggero aroma di alcuni licantropi che ivi stavano lavorando giunse a solleticarmi le nari.

Sorrisi spontaneamente – quello sì che era il mio ambiente! – e ammirai incantata le lunghe file di libri accatastati ordinatamente in interminabili librerie lignee e prive di fronzoli.

Nel mezzo dell’enorme salone d’ingresso una serie di tavolini, occupati in quel momento da un paio di lettori, permetteva di prendere visione dei testi in totale tranquillità.

Alte vetrate lasciavano invece penetrare la luce del giorno, consentendo così una perfetta lettura dei libri.

Piccole abat-jour in vetro verde scuro, ad ogni modo, erano posizionate su ogni tavolo cosicché, anche nella giornata più uggiosa, fosse possibile leggere senza impedimento alcuno.

Al piano superiore, un ballatoio si estendeva lungo tutto il perimetro della sala d’abbasso, circondato da parapetti di ferro scuro in stile liberty.

Poco oltre, una seconda fila di librerie si apriva a ventaglio davanti al mio sguardo affascinato e, senza essere in grado di trattenermi, esalai con un gran sorrisone: “Sono in paradiso, vero?”

Penny ridacchiò e, prendendomi per mano, disse allegra: “Vieni, ti faccio vedere dove lavorava papà!”

Erin annuì al mio indirizzo ed io, lasciandomi trascinare dalla bimba, notai solo vagamente il sorriso raggiante di Duncan prima di focalizzarmi sull’espressione pensierosa e sì, un po’ sorpresa, di Alec.

Cos’aveva? Perché sembrava così stranito? Forse odiava i libri tanto quanto io li amavo?

Oltrepassando una porta lasciata socchiusa e salutando  un paio di persone che riconobbero subito Penny, preferii lasciar perdere Alec per curiosare intorno a me.

Una serie di battenti chiusi si affacciavano lungo il corridoio dove la bambina mi stava conducendo quasi di corsa e, oltre quelle barriere lignee, potei percepire distintamente il profumo inconfondibile dei licantropi che avevo avvertito in precedenza.

Il loro aroma inconfondibile era mescolato a quello di polvere vecchia e stantia, oltre a quello di miriadi di fogli pergamenati.

Quando infine raggiungemmo l’ultima porta, Penny la aprì e dichiarò: “Ecco l’ufficio della mamma, che un tempo usava il papà.”

L’interno rispecchiava lo stile intero dell’edificio.

Il parquet di rovere sul pavimento andava a incrociarsi con le pannellature alle pareti, di un legno più chiaro e che, a loro volta, si intersecavano con la controsoffittatura a cassettoni che si estendeva sopra le nostre teste.

Al centro del soffitto, appeso ad una catena, un largo lampadario a candelabro scendeva verso terra per circa un metro, proprio in corrispondenza dell’enorme scrivania di palissandro, dalla linea sobria e priva di orpelli.

Una piccola libreria si opponeva a un bel camino dalla larga bocca di fuoco, mentre un paio di poltrone e un tavolino erano posizionate proprio dinanzi alla scrivania.

Appese alle pareti, quattro alabarde e due scudi completavano l’arredamento della stanza e, quando sentii giungere anche gli altri, mi rivolsi ad Erin asserendo: “Faresti la felicità di mio fratello, mostrandogli il tuo ufficio. Lui ne vorrebbe uno identico.”

Alec grugnì un ‘che razza di gusti’ ma io non vi badai e neppure Erin che, sorridendomi lieta, mi chiese: “E’ più giovane o più vecchio di te?”

“Più giovane” dissi.

“E che studi intende intraprendere?”

“Lettere antiche, credo. Almeno, questo era il suo ultimo progetto” scrollai le spalle, incerta su cosa risponderle.

“Beh, se non cambia idea e vuole fare un po’ di tirocinio qui, una volta finita l’università, ci sarà sempre una porta aperta per lui” mi propose allora Erin, prima di notare l’ansia eccitata della figlia che, accanto a noi, stava saltellando da un piede all’altro come se non aspettasse altro che di rendersi utile in qualche modo.

Sorridendole generosamente, le carezzò un momento il capo e le disse: “Apri pure la porta, piccola.”

“Grazie” sorrise tutta allegra lei, sorprendendoci.

Porta? Nella stanza, ce n’era solo una, ed era quella da cui eravamo entrati.

Godendo sicuramente della mia faccia stranita, Penny ridacchiò ed estrasse un libro dalla libreria con fare melodrammatico.

Un attimo dopo, accompagnato dal suono di carrucole e contrappesi, il mobile rientrò nella parete per mettere in evidenza un passaggio segreto nascosto nel muro.

Questa volta, neppure Alec riuscì ad esimersi dall’apparire sorpreso ed Erin, soddisfatta non meno della figlia, dichiarò: “La libreria è sempre appartenuta a noi licantropi, fin da tempi immemori. Non è perciò  un caso che proprio qui ci sia una botola nascosta.”

“Wow” riuscii solo a dire, sbirciando all’interno per poi notare un particolare che in precedenza non avevo visto. Il passaggio conduceva verso il basso, nella nuda roccia che componeva il sottosuolo della libreria.

“Prego, seguitemi” mormorò a quel punto Erin, indicandoci le scale con un grazioso cenno della mano.

Senza farci pregare scendemmo le ripide scale mentre, alle mie spalle, l’aura di Alec si faceva sempre più vivida e febbricitante, come se qualcosa lo stesse angustiando o, più semplicemente, lo sgomentasse più del sopportabile.

La cosa mi sorprese non poco perché, a parte l’odore di stantio della terra che proveniva dai muri di cemento armato, il profumo dei libri contenuti nel seminterrato e la presenza di alcuni licantropi che stavano lavorando al piano di sotto, non avvertivo nulla di preoccupante.

Quindi, cos’era a turbarlo tanto?

Guardando Duncan per porgli quel quesito, mi resi conto con non poco stupore che anche sul suo viso era calata una maschera di totale shock, neanche si fosse trovato davanti ad un fantasma, o peggio.

Quando infine raggiungemmo il piano interrato e ci fu chiaro cosa si trovasse in quel luogo segreto e nascosto agli umani, Duncan e Alec divennero di pietra, due autentiche statue di granito.

Al nostro arrivo in quella sala segreta, una donna dai capelli neri come ali di corvo, accortasi della nostra presenza, levò il capo dallo scritto che stava studiando con meticolosa attenzione.

Digrignando i denti con fare minaccioso, si levò in piedi e sibilò senza mezzi termini: “Avrei dovuto immaginare che il tuo puzzo fosse inimitabile, Alec. Chissà perché, ma pensavo di essermi sbagliata.”

Facendo tanto d’occhi di fronte ad un’affermazione simile – e soprattutto di fronte al silenzio protratto dell’uomo – io mi volsi a fissare Erin per chiederle: “Ehm, c’è qualcosa che mi sfugge?”

Sorridendo benevola, la donna mi disse a mo’ di spiegazione: “Patricia è la sorella di Alec. Forse sai del piccolo battibecco intercorso tra i due.”

Eccome se lo sapevo! Ci avevo quasi rimesso le penne, per quella storia!

E così, la donna dalla bellezza quasi sovrumana che stava fissando Alec come se avesse voluto squartarlo un pezzettino alla volta e farne un haggis4 con i controfiocchi, altri non era che Patricia Dawson, colei che Alec avrebbe voluto veder maritata con Duncan.

Alec non era esattamente tranquillo, ma non pareva neppure incavolato con la sorella, anzi, tutt’altro.

Sembrava quasi che gli facesse piacere vederla, il che era tutto dire per Alec, che della cordialità non faceva certo il suo cavallo di battaglia.

Eppure, ritrovarsela davanti dopo tanti anni di separazione sembrava averlo scosso, e non in senso negativo.

E parve accorgersene anche Patricia che, dopo aver osservato ancora per un momento il fratello con aria guardinga, spostò lo sguardo su Duncan e me e, più tranquilla, aggiunse: “E’ sempre un piacere vederti, Duncan. Devo supporre che la wicca al tuo fianco sia anche la tua compagna. Ha il tuo odore su di sé.”

D’accordo, detta così potrebbe anche sembrare volgare, ma credetemi, per i licantropi non lo è.

Identificare l’odore di un licantropo su un altro non è mancanza di educazione, bensì un riconoscimento dello status di compagni che intercorre tra due lupi mannari.

Io sorrisi timida e accennai un salutino con la mano mentre Duncan, scambiando uno sguardo dubbioso con Alec, rispose al saluto di Patricia mormorando: “E’ reciproco, Patricia, e spero che Andy stia bene. Phillip come sta?”

“Oh, la peste è di là che sta giocando alle costruzioni, visto che oggi il suo papà era troppo impegnato sul lavoro per badare a lui. Ed è ancora troppo piccolo per essere lasciato con una babysitter umana” scrollò le spalle Patricia prima di tornare a guardare il fratello, che ancora non aveva parlato. Torva, gli domandò: “Che diavolo ci fai tu qui? E perché te ne vai in giro con il tuo acerrimo nemico? Cosa mi è sfuggito?”

Alec fece per dire qualcosa quando, di colpo, il suo corpo parve afflosciarsi su se stesso di fronte agli occhi ferali della sorella.

Vagamente sorpresa, Patricia mosse un passo verso di lui prima di bloccarsi, trattenere la mano che si era allungata verso di lui, e chiedere con tono vagamente più docile: “Cos’hai?”

A capo reclinato, Alec infilò le mani nelle tasche e bofonchiò: “Non mi hai mai mandato una foto di Phillip.”

Io fissai terrorizzata Patricia, temendo che affrontare l’argomento a quel modo potesse essere quello più sbagliato possibile ma, evidentemente, la donna conosceva ben più di me il fratello.

Quella semplice frase parve intenerirla e se, in precedenza, si era trattenuta dall’avvicinarlo, ora coprì la distanza che li separava e, dandogli una pacca leggera sul capo, celiò: “Mi era parso di capire che non volessi avere a che fare con Andy e me.”

Con una spallucciata, Alec brontolò uno stentato: “E’ pur sempre un membro della famiglia.”

“Già” ammiccò Patricia, voltandosi ad osservare me e Duncan, che stavamo assistendo in silenzio a quella scena paradossale assieme ad Erin e Penny. Ironicamente, chiese al mio compagno: “Che gli hai fatto, Duncan, per cambiarlo così?”

“Io, niente. Ha fatto tutto da solo” precisò Duncan, sorridendo divertito.

Tornando seria, Patricia si volse a fissare il volto sfregiato del fratello e, senza tanti giri di parole, dichiarò: “Non ti gonfio di botte seduta stante perché, a quanto pare, hai su di te una protezione molto potente, anche se non ho idea di come tu te la sia potuta conquistare.”

A quel punto, lo sguardo di Patricia raggiunse il mio viso ed io, vistami chiamare in causa, le spiegai: “Vedi, tuo fratello si è battuto per la mia salvezza e mi ha fornito importanti informazioni nonostante, all’epoca, non fossimo esattamente in buoni rapporti, così ho pensato di apporre su di lui una benedizione per ciò che aveva fatto per me e la mia gente.”

Ancora scettica Patricia fissò Duncan, che annuì al suo indirizzo, per poi tornare di nuovo sul viso del fratello che, con la bocca piegata in una smorfia, bofonchiò: “Non sono il mostro che credi, sai?”

“No, lo sei stato solo con me” buttò lì lei, pentendosene amaramente un attimo dopo aver proferito quelle parole di fiele.

Alec però accusò il colpo e indietreggiò di un passo, divenendo livido in volto e fissandola con astio palese.

Una corrente di gelido potere riverberò dal suo corpo e Penny, pur non potendone avvertire ancora la portata, si allontanò impulsivamente dalla madre per andare a stringere la mano di Alec.

Quel gesto non solo sorprese tutti noi, ma bloccò l’onda anomala riverberata dal corpo rigido dell’uomo che, sgomento, chinò il capo a fissare la bimba senza sapere bene cosa dire.

Lei si limitò a fissarlo con un sorriso comprensivo e, a sorpresa, Alec replicò alla stretta prima di tornare a fissare torvo la sorella.

Ancora incredula, Patricia annullò nuovamente le distanze che li separavano e, allungata una mano fresca di manicure, sfiorò la cicatrice sul volto di Alec e sussurrò spiacente: “Non avrei dovuto parlare così, visto che questa te la sei fatta per causa mia. Per salvare me.”

Accigliandosi, Alec scostò gentilmente la sua mano e, noncurante, sbuffò: “Papà non avrebbe mai dovuto pensare di toccarti, tutto qui.”

Ero sicura di essere impallidita, ma nessuno fece caso alle mie reazioni perché tutta l’attenzione era riversata sui due fratelli che, ancora tesi l’uno di fronte all’altra, sembravano indecisi sul da farsi.

Certo, cancellare con un colpo di spugna tanti anni di rabbia e di separazione violenta era impossibile, però sembravano entrambi disposti a riavvicinarsi, pur non sapendo come fare.

Fu Penny a risolvere il problema.

Sollevando il viso a guardarlo mentre Alec la contemplava smarrito, gli domandò preoccupata: “Il tuo papà ti ha fatto male perché hai difeso tua sorella?”

“Beh… più o meno, sì” annuì lui, lanciando uno sguardo colmo di disperazione in direzione di Erin.

Non voleva affrontare un discorso simile di fronte a una bambina, a quanto pareva, ma la donna scosse il capo e annuì subito dopo, come per dargli il permesso di parlare.

Vistosi costretto ad approfondire l’argomento, pur non volendo, Alec si piegò su un ginocchio per avere il viso di Penny dinanzi al proprio e, con  aspra serietà, le disse: “Non tutti i papà sono buoni come il tuo, ragazzina, e purtroppo ci sono occasioni in cui bisogna comportarsi in maniera più adulta degli adulti.”

Lei annuì seria, fissandolo con i suoi limpidi occhi azzurro cielo e, con una vocina esile, gli chiese ancora: “Cos’è successo al tuo papà?”

“Vuoi davvero saperlo?” le domandò per contro Alec, aggrottando leggermente la fronte.

Penny strinse ancor di più la mano di Alec mentre, con gli occhi, cercava quelli di Patricia per domandarle: “Il tuo papà ti picchiava tanto?”

“Troppo, tesoro” ammise Patricia, lanciando uno sguardo colmo di rimorsi e di brutti ricordi in direzione del fratello.

A quel punto, tornando a guardare Alec, Penny disse soltanto: “Hai fatto bene, allora.”

“A fare cosa?” chiese a quel punto lui, rabbrividendo suo malgrado sotto quello sguardo serio.

Deglutendo a fatica, Penny sussurrò: “Quello che hai fatto.”

Non avevo davvero idea se Penny avesse realmente capito che fine avesse fatto il padre di Alec o se, nella sua ingenuità di bambina, si fosse creata una realtà tutta sua per accettare l’idea che un genitore potesse picchiare i propri figli.  

E, soprattutto, che uno di loro si fosse vendicato.

Ad ogni buon conto, la bimba lasciò la mano di Alec con un tremulo sorriso per tornare dalla madre e Patricia, allungata la propria al fratello mentre egli si rialzava, mormorò sorridente: “Ben trovato, Alec.”

“Ben trovata, sorella” gracchiò imbarazzato lui, annullando timidamente la distanza che li separava per stringerla in un tenero abbraccio.

Patricia accettò e ricambiò la stretta, poggiando il capo di neri e lunghi capelli contro la spalla imponente del fratello e, con una risatina tremula, esalò: “Sei diventato ancora più robusto, o sono io a ricordarti male?”

“Qualche chilo l’ho messo su, ma solo nei punti giusti” ridacchiò lui, prima di scostarsi dalla sorella e chiederle: “Come mai ti trovi qui? Avete cambiato branco?”

Guardando Erin per un momento, Patricia gli spiegò: “All’università ho studiato lingue antiche, ricordi? Quando ho saputo dell’offerta di lavoro di Erin, io e Andy ci siamo trasferiti qui con Phillip. Inoltre…”

“… eri abbastanza lontana da me da rendere quasi certo che io e te non potessimo mai più incrociare lo sguardo” terminò di dire amaramente Alec, facendo spallucce.

Patricia preferì non negare né assentire, poiché qualsiasi altra parola sarebbe stata superflua quanto ipocrita.

Il loro era un rapporto combattuto e mentire sarebbe parso assurdo a tutti, a loro per primi.

Quando però un bimbo si affacciò da una porticina laterale, tutto rosso in viso per la contentezza mentre reggeva in mano quello che all’apparenza sembrava un castello costruito con dei mattoncini Lego, Patricia si aprì in un sorriso orgoglioso e fiero. Alec, fissando senza parole il frugoletto, ascoltò la sorella esclamare: “Ma che bel castello che hai fatto, Phil! Bravissimo!”

“Grazie, mamma!” trillò il bimbo, fissando curioso tutte le persone presenti nell’ufficio della madre. “Chi sono, ma’?”

Presolo in braccio, Patricia lo portò di fronte ad Alec e, dopo un attimo di smarrimento, abbozzò un timido sorriso e disse: “Lui è tuo zio Alec, ed è venuto apposta dall’Inghilterra per conoscerti.”

Facendo tanto d’occhi, Phillip fissò prima la madre e poi Alec per qualche secondo prima di strillare contento: “Ho uno zio anch’io!”

Alec riuscì a racimolare la forza sufficiente per abbozzare un sorriso, nonostante la sua aura tremolante dicesse a grandi lettere quanto fosse agitato in quel momento e, dando un buffetto sul naso al bambino, disse goffamente: “Ehi, campione. Lo fai vedere anche a me il tuo castello?”

Tutto contento, Phillip allungò il modellino nelle mani dello zio e Penny, sorridendo al pari nostro di fronte a quella scena strappalacrime, sussurrò alla madre: “E’ contento, vero?”

“A chi ti riferisci, tesoro?” le domandò lei, senza staccare gli occhi da fratello e sorella.

“Ad Alec” disse Penny senza esitazione.

“Sì, è contento” annuì la donna.

***

Raccontare tutto per l’ennesima volta anche a Patricia non mi pesò, in quell’occasione, perché era troppa la soddisfazione nel vedere Alec far ballonzolare il nipote sulle ginocchia.

La strana storia della mia vita, in quell’anno appena trascorso, non mi sembrava poi così male, visto che era mitigata dall’allegria che galleggiava nello studio della donna.

Non avrei mai immaginato di assistere ad una scena simile perciò, come Duncan e gli altri, me la stavo godendo tutta e con sommo gusto, pronta – lo ammetto – a sfruttarla a mio vantaggio casomai Alec mi avesse fatto incazzare, cosa peraltro non impossibile.

Lo so, è da carogne approfittarne, ma voi che fareste al mio posto?

Ad ogni buon conto, terminato che ebbi il mio resoconto piuttosto succinto, guardai in viso la bellissima Patricia e le chiesi: “Che ne pensi, allora?”

“Beh, vale il detto che non si è mai abbastanza vecchi per imparare qualcosa” si limitò a dire con occhi vagamente sgranati, le belle mani affusolate e dalle unghie perfette che si intrecciavano e si scioglievano a battute di un secondo. “Comunque, penso siate venuti nel posto giusto. Siamo quasi del tutto certi che i libri che si trovano qui fossero il loro intento primario, visto cosa è in essi contenuto.”

Aguzzato lo sguardo e drizzate le orecchie, allungai gli avambracci sulle cosce per spingermi in avanti e, fissati attentamente gli occhi di perla di Patricia, le chiesi: “Esattamente, che intendi dire?”

“Purtroppo, si tratta di un gaelico così arcaico che, tutt’ora adesso, non abbiamo che tradotto poco più di un libro sui tre originali che si trovano qui in laboratorio, ma già quello che abbiamo scoperto può dare un’idea della loro importanza” cominciò col dire Patricia, guardandomi con altrettanta concentrazione.

Levatasi in piedi un attimo dopo, si infilò un paio di guanti di cotone per prendere il libro in questione – il tomo era così vecchio che il grasso della pelle avrebbe potuto rovinarlo indelebilmente – e, mostratomelo, aggiunse: “Vedi queste immagini in particolare?”

Io osservai l’acqua forte contenuta nel vetusto manoscritto ingiallito dai secoli e, sfiorando con lo sguardo ogni più piccolo particolare disegnato con mirabile cura, annuii e ipotizzai: “E’ la trasformazione del Mastino, giusto?”

“Esatto. Una dettagliata interpretazione del mutamento di Setanta e, da come l’hai guardato, ti ricorda qualcuno” sentenziò Patricia senza alcuna paura di sbagliare.

Annuii una sola volta al suo commento, mentre immagini di Lot si materializzavano nella mia mente come le istantanee di un album di ricordi.

Certo, il Mastino dell’Ulster sembrava più piccolo e goffo rispetto alla figura imperiosa del berserkr che si era presentato dinanzi a me al Vigrond con l’intento di rapirmi, ma la faccenda rimaneva. Erano la stessa, identica cosa.

Riponendo dopo alcuni attimi lo scritto sulla scrivania da cui l’aveva preso, Patricia riprese il suo discorso dicendo: “Quello che posso dirvi io è questo; contrariamente a noi licantropi, i berserkir sono solo maschi. Le femmine nascono e muoiono rimanendo umane.”

La notizia non solo ci sconvolse, ma ci diede la conferma dei motivi per cui i berserkir avessero attaccato la biblioteca.

Se noi lupi mannari fossimo stati messi al corrente della notizia prima che il piano di Loki potesse prendere interamente corpo, avremmo potuto utilizzare quell’arma potente per frenare le mire degli uomini-orso.

Non che l’idea di mettere in pericolo delle fragili umane mi rendesse felice, ma sapevo che si sarebbe facilmente giunti a quello, per difendere i nostri clan, e Loki aveva pensato bene di eliminare quello scomodo punto debole dalla lista.

Perché non riesco a stupirmi che mio padre abbia agito in maniera così subdola?, si chiese ironicamente Fenrir, facendomi sobbalzare sulla sedia.

Duncan mi fissò per un istante, sorpreso, prima di comprendere cosa fosse successo ed io, sorridendo agli altri presenti come per scusarmi, gli chiesi: “Credi che fare dell’ironia sia utile?”

Sono infuriato per la fine che ha fatto fare ai miei figli, perdonami, mi spiegò Fenrir, recuperando in parte la calma.

“Ti capisco perfettamente ma, se non sbaglio, sei stato proprio tu a dirmi che non devo perdere le staffe o prendermela se un’anima torna alla Madre”, precisai con tono conciliante.

Verissimo. Hai perfettamente ragione, Brie.

Detto ciò, scomparve come era venuto ed io, osservando Penny e Phil che, ignari di tutto, giocavano sul fondo del laboratorio con alcune macchinine dai colori sgargianti, mi limitai a dire: “Fenrir è furibondo… scusate.”

“Ne ha ben d’onde” commentò Patricia, annuendo torva. “L’unico altro libro che, fino ad ora, abbiamo tentato di tradurre, contiene una serie di dati sulla navigazione e sui luoghi da cui, coloro che hanno scritto il tomo, sono partiti per le loro peregrinazioni in giro per il mondo. Se volete anche quelle traduzioni, ve le porto subito.”

“Ci saranno utili come punto d’inizio per scoprire dove si trovano le tribù dei berserkir. Stando così le cose, potremmo girare per mezzo nord Europa senza sapere dove sbattere il naso” annuì Duncan, intrecciando le braccia nerborute sul petto.

La camicia azzurro pallido che aveva indossato quel mattino si tese come una seconda pelle attorno ai suoi muscoli ed io, pur non volendo, deglutii mordendomi un labbro, sentendo prepotente dentro di me il desiderio di stare con lui.

Duncan non se l’era sentita di cedere alla passione sotto lo stesso tetto con Alec ed Erin presenti, e non ero del tutto certa che l’unico motivo fosse imputabile al suo desiderio di non far sentire ad alcuno ciò che succedeva nella nostra stanza.

Avevo la netta sensazione che lui si sentisse a disagio all’idea di godere appieno del nostro rapporto quando invece Erin, a causa di ciò che era successo, non poteva più farlo a sua volta.

Duncan sapeva essere delicato all’inverosimile, quando si trattava di non ferire l’animo altrui.

Quanto ad Alec, beh…

Quando Patricia tornò con diverse fotocopie rilegate in un raccoglitore a spirale e protette da una copertina trasparente, persi del tutto la voglia di pensare alle mie personali questioni di letto e presi dalle sue mani il libercolo per piazzarmelo sulle cosce.

Sfogliai lentamente e lasciando che i miei occhi scivolassero sulle copie delle antiche cartine, come in cerca di una X che indicasse l’Isola del Tesoro.

Supermassive Black Hole irruppe nel quieto silenzio della stanza come una bomba atomica e mi fece esalare uno strillo di sorpresa, mentre il mio iPhone3 suonava all’impazzata ed i miei compagni di riunione mi fissavano con un sorrisino divertito.

Afferratolo in fretta ma senza far cadere il libro dalle gambe, accettai la comunicazione e, vagamente trafelata, esalai: “Ehi, ciao! Cosa c’è?”

“Sei un’autentica carogna, lo sai?” esordì Elspeth, a sorpresa.

Naturalmente, tutti udirono le sue parole e lo sconcerto si dipinse sui volti di tutti come sul mio che, dubbiosa, le chiesi: “Ehm… c’è un motivo per cui ce l’hai con me?”

“Ti ho appena visto in un luogo da sogno, bella mia, e la cosa mi disgusta un po’. Ma non dovevi cercare i berserkir?” protestò caparbiamente Elspeth prima di scivolare in una risatina e aggiungere: “Ho un nome. L’ho visto di sfuggita, ma l’inizio era Vettis. Non è completo, mi spiace, ma la visione è stata rapidissima, e non riesco ad averne altre, al momento. Sono stremata e sto divorando un intero barattolo di crema chantilly per riprendermi. Se dovessi scoprire qualcos’altro, ti chiamerò.”

“E’ già molto, tesoro, grazie” sorrisi io, lieta di averla risentita.

Sapevo che Elspeth si teneva in costante contatto con Beverly, völva non meno di lei e con molta più esperienza alle spalle, ma sentirla di persona mi faceva sempre piacere.

Sapere di lei da terze persone non era mai come ascoltare la sua voce, anche se solo per telefono.

“Sentirò anche Bev, se per caso…” cominciò col dire Elspeth prima di avvertire, attraverso il microfono, la suoneria potente e ammazza timpani di Alec suonare come se il suo telefonino andasse a fuoco. “Uhm, dieci a uno che è Beverly che chiama il suo Fenrir.”

Alec afferrò il suo blackberry e accettò la chiamata, mettendo così fine a The number of the beast degli Iron Maden e, con il suo solito tono di voce basso e roco, disse burbero: “Dimmi Beverly.”

“Fenrir, ha qualche senso, per lei, il nome Fossen? Ho cercato su Google e parrebbe essere una parola norvegese. Mi ha trapanato il cervello per più di un’ora e, finché non l’ho cercata su internet, ha continuato a frullarmi in testa” gli spiegò la donna con il solito modo di fare cortese e sottomesso.

“E dopo è sparita, giusto?” le chiese Alec, annuendo tra sé.

“Esatto, quindi ne deduco che la mia visione abbia a che fare con quello che state facendo lì, ma non le so dire altro” assentì la donna.

“Visto che la nostra wicca, qui, sta spulciando delle vecchie carte nautiche dei vichinghi, penso possa avere un senso” le spiegò Alec, sogghignando al mio indirizzo.

“Bene, sono lieta di essere stata d’aiuto” asserì soddisfatta Beverly.

“E’ Bev, Elspeth” sussurrai in quel mentre, al cellulare.

“Io e quella donna siamo in sintonia un totale” ridacchiò Elspeth, facendosi poi seria per sussurrare: “Starete attenti, vero?”

“A non divertirci troppo? Sicuro. Penso anche di aver capito dove andremo. Giretto nei fiordi norvegesi” ridacchiai, sentendola imprecare di gusto a quella notizia. “Prova ad unire le parole Vettis e Fossen e dimmi se succede qualcosa.”

“Tu, signorina, hai tutte le fortune! E non venirmi a dire che non è un viaggio di piacere o robe varie! Chissenefrega!” sbottò Elspeth inviperita mentre, in sottofondo, si udivano le sue dita veloci pigiare sulla tastiera del PC.

“Ti lascio il mio posto, se ti va di trovare per me i berserkir” la irrisi bonariamente, aggiungendo subito dopo: “Ti porterò un regalo, se riuscirò.”

“Vorrei vedere, ingrata” brontolò lei. “Ah, ecco. Cascate Vettisfossen, nei pressi del villaggio di  Øvre Årdal. Dunque… la città più grande nelle vicinanze, e dotata di aeroporto è… Bergen. C’è una pista proprio nelle vicinanze ma, così su due piedi, non so dirti se accetta anche voli internazionali.”

“Di quello ci occuperemo noi, grazie” asserii tutta contenta. “Vedrai, ti porterò un regalone gigante dalla Norvegia per ringraziarti della dritta!”

“Sarà il caso”, dichiarò Ellie, mandandomi un bacio con lo schiocco al cellulare, facendomelo rimbombare nelle orecchie come una salva di cannone.

Sibilando tra i denti per il gran male all’orecchio mentre allontanavo l’iPhone – sapeva che sarebbe successo, e l’aveva fatto apposta! – , chiusi la comunicazione con un secco pigiare del dito indice sullo schermo.

In quel mentre, vidi fare lo stesso da Alec dopo aver ringraziato Beverly per l’informazione. Lui fu decisamente più composto di me.

Spiegai perciò a tutti ciò che era saltato fuori dalla doppia soffiata delle nostre völva ed Erin, con mano veloce, prese in mano un portatile dalla scrivania che stava alle sue spalle.

Digitato quindi il nome della cascata, lesse velocemente tutto ciò che la riguardava prima di dichiarare: “Direi che le tracce ci portano sicuramente in Norvegia e, più precisamente, tra la contea di Hordaland e quella di  Sogn og Fjordane. Il che ha di sicuro un senso.”

“Che vuoi dire?” le chiese Alec, infilando il blackberry nella tasca anteriore della sua camicia a quadri.

“Re Harald Bellachioma fu il primo sovrano della Norvegia che la storia ricordi e si usa dire che, tra le sue truppe scelte, vi fossero migliaia di berserkir. E, guarda caso, i territori primi del suo regno facevano parte di quelle contee. In seguito, il suo reame si espanse in lungo e in largo, ma l’inizio di tutto ha avuto origine in quelle lande” spiegò senza affettazione alcuna Erin, mentre le sue mani digitavano veloci sulla tastiera del portatile Mac nero.

“Se dici che in seguito il suo regno si allargò a macchia d’olio, potrebbero essere ovunque in un raggio di migliaia di chilometri quadrati” precisò Alec, aggrottando la fronte.

“Non se pensi che Re Erik Jarl lì bandì dal suo regno nella seconda decade dell’anno mille a causa dell’avvento del cristianesimo. Vennero dichiarati eretici e scacciati dalla corte con disonore” specificò Erin, levando il capo ramato per scrutarlo con i suoi occhi del colore del mare. “Tu dove andresti se non ti sentissi più al sicuro da nessuna parte?”

Accigliandosi, Alec ripiegò il capo fin quasi a far spingere il mento contro il torace mentre io e gli altri, pensierosi non meno di lui, pensavano a quale risposta dare ad Erin.

Fu Duncan a rispondere.

Con un mezzo sorriso, fissò la donna dicendo: “Nel luogo in cui mi sono sentito più amato e rispettato.”

“Precisamente. Nelle terre che videro nascere il potere di Harald. Lì, la gente li conosceva fin dai tempi del loro primo re, e sarebbe stato più facile trovare riparo e, come dire, connivenza. Se mai la croce cristiana li avesse raggiunti, tra persone fidate avrebbero avuto più certezze di sopravvivere” annuì compiaciuta Erin.

“Non credo, comunque, che il territorio di questo re fosse piccolo” tenne a sottolineare Alec, risollevando il capo per poi fissare malamente le carte che ancora tenevo sulle gambe.

“Stamperò una cartina dettagliata del luogo e tratteggerò il più precisamente possibile i luoghi che ci interessano” si limitò a dire Erin, guardando poi Patricia per chiederle: “Puoi prenotarci il volo per la Norvegia il prima possibile?”

“Ci penso io” annuì la donna, scrutandola con attenzione per poi domandarle dubbiosa: “Per quattro?”

“Sì, andrò anch’io” si limitò a dire Erin senza dare altre spiegazioni.

Con un cenno del capo, Patricia si levò dalla sedia che aveva occupato fino a quel momento per dirigersi al suo computer ed Alec, fissando con intensità Erin, le ricordò: “Sei sempre in tempo per rifiutare.”

“La mia decisione è stata presa, perciò no, non rifiuterò di partire” sentenziò lei con un sorriso serafico dipinto sul bel volto.

Alec sbuffò contrariato – e quando mai non lo era? – e intrecciò nuovamente le braccia sul petto mentre io, piegandomi in direzione di Duncan, commentavo: “Mai stata in gita per i fiordi, e tu?”

“Neppure io. Non ne ho avuto il tempo” ammise lui, carezzandomi il viso con lo sguardo. “Prometto che ci torneremo, se ti piacerà, così potremo godercela sul serio.”

“Affare fatto” annuii lieta, prima di volgere lo sguardo in direzione di Alec che, a sorpresa, non aveva la sua solita espressione schifata, quanto… invidiosa? Era mai possibile?

 

 

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1 Laèg: auriga del carro del Mastino dell’Ulster.

2 Liath Macha: uno dei due cavalli del carro del Mastino.

3 Dub Sainglend: uno dei due cavalli del carro del Mastino.

4 Huggis: piatto tipico scozzese. E’ prodotto con le frattaglie della pecora, cotte poi nel sacco del suo stomaco.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


6

N.d.A.: Non è un capitolo 'dolce', preparatevi...

Capitolo 5

 

 

 

 

 

 

 

Sperare che vi fosse un aereo in partenza per Bergen in tempi brevi sarebbe stato come sperare che il sole sorgesse a ovest.

Dopo aver consultato non meno di dieci compagnie aeree e aver controllato centinaia di siti nella speranza che vi fossero biglietti last minute da poter acquistare, Patricia aveva dovuto gettare la spugna.

Alla fine, aveva soltanto potuto prenotarci quattro posti su un volo della British Airways in partenza da Dublino e diretto a Oslo.

Tra una settimana.

Da lì a Lærdalsøyri, prima tappa del nostro viaggio, avremmo preso un autobus – farsela di corsa con tanto di bagagli era scomodo, e avrebbe comportato il rischio di essere visti più facilmente dagli umani.

Pazienti, avremmo poi atteso la partenza di un altro mezzo pubblico, che ci avrebbe condotti lungo il lago Årdalsvatnet, alla cui estremità avremmo trovato il villaggio di Øvre Årdal.

Per raggiungere le cascate Vettisfossen dal paesino lacustre avremmo impiegato almeno un’ora a piedi e, da lì, la nostra Cerca avrebbe avuto inizio.

All’incirca, avremmo perso otto o nove giorni.

Davvero troppo per i miei gusti ma, visto che i licantropi non sapevano volare…

Se non altro, quel tempo ci sarebbe servito per avvisare i vari clan di licantropi della zona del nostro arrivo.

Non essendo a conoscenza di restrizioni di alcun genere per la Norvegia, sarebbe bastato avvertirli del nostro passaggio.

In fondo, loro non facevano parte della nostra personale faida contro i berserkir perciò era inutile tirarli in mezzo, specialmente considerando che erano loro stretti vicini di casa.

Meglio risolvere le cose tra di noi.

Ad ogni modo, detestavo rimanere inerte senza poter far nulla per accelerare i tempi.

E, tra le migliaia di cose a cui dovevo pensare, avevo ancora nella mente l’espressione vuota del neutro che Sebastian aveva messo alle nostre calcagna senza un motivo apparente.

Scorgere il nulla assoluto in una mente che, invece, avrebbe dovuto essere limpida e attiva quanto un vulcano, mi aveva lasciato una ferita nel cuore, come se quello scempio lo avessi commesso con le mie stesse mani.

Avevo impiegato ore per togliermi di dosso la sensazione di sudiciume che mi aveva lasciato sulla pelle quell’ingresso in una mente ormai distrutta e, nel contempo, era nato in me il desiderio sempre più forte di prendere Sebastian e ucciderlo.

Molto lentamente.

Sapevo di non dovermi lasciare andare a pensieri simili, perché le carneficine non dovevano essere il mio istinto primario, ma Fenrir non fermò quel peregrinare nel mio personale bagaglio di conoscenze sulle torture fisiche e psicologiche.

Forse non se la sentì di criticare quella voglia che mi sfrigolava nel sangue o, forse, desiderò egli stesso porre fine alla vita di un suo discendente, così crudele da condannare letteralmente a morte uno dei suoi protetti.

In quanto nostro progenitore, doveva essere rimasto scioccato da un simile comportamento, pur se in gioventù egli stesso aveva sperimentato quel genere di potere.

Ora, sdraiata sul prato del giardino della villa di Erin a contemplare la luna alta in cielo, esile e solitaria seppur contornata da stelle ammiccanti, ero a metà strada tra l’essere confusa e incazzata nera.

Gli eventi del giorno precedente mi avevano lasciata in qualche modo sfasata, come se qualcuno mi avesse spinta con forza e ora mi ritrovassi e penzolare pericolosamente da una corda da trapezista.

Quando Alec e Patricia si erano rincontrati dopo diversi anni di separazione violenta, mi ero sentita lieta per loro e, al tempo stesso, ero stata percorsa da un brivido di paura e dolore cui non avevo saputo dare un nome.

La successiva scoperta della nostra meta futura, unita alla consapevolezza di dover attendere altro tempo prima di metterci in viaggio, mi aveva stesa del tutto.

Non sapevo dove dirigere in primis i miei pensieri e la cosa mi dava i nervi, e così era nata per diretta conseguenza la confusione che mi ronzava in testa. Il classico cane che si morde la coda.

Ops. Lupo.

“Il tuo compagno di letto ti sta antipatico?” esordì Alec, avvicinandosi da dietro l’angolo della villa, la camicia aperta sul torace, quasi avesse caldo, e i piedi nudi accarezzati dall’orlo dei jeans schiariti che gli fasciavano le gambe muscolose e diritte.

Abbozzai un sorriso rimanendo sdraiata sull’erba e lui, senza che lo invitassi, si lasciò scivolare sul prato accanto a me, aggiungendo: “La tua aura è così frastagliata che potresti segare una pianta, se ti ci avvicinassi troppo.”

Ridacchiai. Aveva ragione, naturalmente.

Ero agitata e non riuscivo a calmarmi e, proprio per quello, ero uscita dalla camera che dividevo con Duncan dopo averlo visto addormentarsi al mio fianco verso mezzanotte.

Non lo avrei disturbato per nulla al mondo, specialmente con la marea di pensieri che mi frullavano in testa.

Presi perciò un bel respiro e, controllati i battiti cardiaci con la sola forza di volontà, chiusi gli occhi ed esalai: “Io non dormo perché sono nervosa, tu, perché?”

“Idem. Ma non per i tuoi stessi motivi, credo.” Si grattò una guancia irruvidita da un accenno di barba scura e, infilata la mano libera sotto il capo ricoperto di cortissimi capelli neri tagliati a spazzola, sussurrò: “Mi è quasi venuto un infarto, quando ho visto Pat.”

“Se la difendesti da tuo padre, perché alla fine ti comportasti da stronzo con lei?” gli chiesi con sincero interesse, ma senza badare troppo all’etichetta. Con Alec, se volevi avere ragione del suo primo strato di indifferenza sempre in fase on, dovevi usare certi trucchetti.

Il suo sorriso sghembo mi disse che avevo centrato appieno il sistema di approccio e lui, intrecciate le gambe all’altezza delle caviglie, ammise: “Volevo un clan potente, il più potente possibile… per difendere lei.”

Okay. Alec il Sanguinario lo potevo capire. Ma Alec il Protettore?

Mi levai su un gomito per fissarlo in viso e, pur sapendo che non aveva detto una bugia – le wiccan sono meglio del Pentothal1, per questo genere di cose – lo fissai a lungo nei suoi chiari occhi illuminati dalla diafana luce lunare, quasi volessi leggere altro, qualsiasi altra cosa, oltre a quella verità disarmante.

“Beh, che c’è?” chiese ad un certo punto lui, accigliandosi leggermente e tingendosi di rosso in viso.

Sbuffai, lasciando che quell’ennesima tegola mi cascasse sulla testa e creasse ancor più confusione nel mio povero cervello ormai esausto e, sdraiatami nuovamente sull’erba fresca, sbottai scocciata: “Soffri di un disturbo da personalità multiple, … per forza!”

Alec ridacchiò e, infilata anche l’altra mano dietro la nuca, chiuse gli occhi e replicò beffardo: “Affatto. Ma ero sordo e cieco, quello sì.”

“In che senso?” volli sapere, più che mai curiosa di conoscere quello strano Alec che mai mi sarei aspettata di incontrare.

“Bev e mia madre mi dissero più volte di lasciare in pace Pat, ma io non diedi loro ascolto, preferendo pensare a tutto io… e non rendendomi conto dell’amore che ormai la legava profondamente ad Andrew. Per me era solo un misero Mánagarmr, e di certo non uno tra i più potenti; non il partito più adatto a Pat. Come avrebbe potuto proteggerla, visto che lei era la più forte tra i due?” mi spiegò Alec, lo sguardo fisso verso il cielo e la voce bassa, quasi un sussurro nella notte calma e placida.

“Si sarebbero protetti a vicenda, non credi?”

La voce di Duncan ci raggiunse come una brezza calda ed io, sorridendogli quando lo vidi sdraiarsi sul mio lato libero, mi lasciai baciare da lui prima di tornare con lo sguardo su Alec.

“Hai l’aura azzerata, lupo. Pensavo che vedermi con la tua streghetta ti avrebbe fatto rizzare il pelo” ridacchiò Alec che, al pari mio, aveva sicuramente avvertito la presenza di Duncan solo dall’odore ma non di certo dal potere, tenuto saldamente imbrigliato.

Duncan si limitò ad esibire un sogghigno strafottente – cosa davvero rara, per lui – e, nell’avvolgermi possessivamente le spalle con un braccio, replicò: “Io mi fiderò sempre della mia Prima Lupa, ricordalo, Alec.”

“Ma hai preferito venire qui ugualmente” puntualizzò Alec, facendo spallucce.

“Sì.” Non aggiunse altro.

Io abbozzai un sorrisino divertito, dichiarando con accentuata ironia: “Certo che voi maschi siete forti!”

“A marcare il territorio? Ovvio” sghignazzò Alec prima di tornare serio e dire con tono irritato e, sì, pieno di disgusto per se stesso: “L’ho capito solo vedendola ieri, che Andrew avrebbe potuto proteggerla anche senza essere più forte di lei. Le ha dato l’unica cosa che le mancava; l’amore. E io che ho cercato di toglierglielo! Dio!”

Si passò le mani sul volto irrigidito dalla rabbia che provava verso di sé ed io, spinta a consolarlo dal mio lato di wicca, allungai una mano nella sua direzione e gli sfiorai la corta zazzera che aveva sul capo.

Carezzandolo gentilmente come avrei fatto con mio fratello, mormorai comprensiva: “Niente è stato distrutto completamente. Lei ti ha perdonato, e credo che anche Andrew lo farà.”

“Non lo metto in dubbio, visto che sono tutti e due iscritti alla scuola ‘Diventiamo tutti comprensivi come Duncan McKalister’, ma io non rientro in quel gruppo” sbuffò Alec, facendo sorridere sia me che Duncan. “Io come farò a perdonarmi?”

“Con il tempo, come fanno tutti.” Gli diedi una pacca sulla spalla prima di ritirare la mano e aggiungere: “Tua madre e Bev ti hanno quindi perdonato per il tuo comportamento idiota?”

“Ovviamente, streghetta. Anche se avrei voluto che non lo facessero” sospirò Alec, tracciando sul suo viso una smorfia di disappunto. “E’ più facile capire chi ce l’ha con te, che il contrario.”

“Per questo tu e Duncan avete sempre avuto così tante difficoltà a interagire?” gli chiesi a quel punto, vagamente sorpresa dalla piega che aveva preso quella discussione.

Anche Duncan parve interessato, perché si appoggiò su un gomito per scrutare il viso dell’amico-nemico e Alec, vistosi costretto a parlare, borbottò: “Come fai a capire cosa frulla per la testa di uno che non lascia trapelare i suoi pensieri in nessun modo?”

Mi volsi a scrutare curiosamente Duncan e gli chiesi divertita: “Quindi, il metodo ‘Fort Knox’ non l’hai usato solo con me!”

“No. All’epoca, ero ermetico più o meno con tutti” ammise Duncan, ridacchiando. “Avevo fin troppi grattacapi cui dover pensare, senza dover anche sopportare eventuali discussioni per via di ciò che pensavo di questa o quella persona così, semplicemente, tenevo tutto dentro. Le arrabbiature con terze persone si riducevano al minimo, così.”

“Già, ma ti sarai di certo mangiato il fegato un milione di volte” replicò Alec, fissandolo con un sopracciglio scuro ben sollevato, a indicare il profondo scetticismo che stava provando.

“Mai detto che fosse un piano perfetto.” Fece spallucce e, nel sorridere ad Alec, Duncan ammise: “A volte ho invidiato il modo diretto con cui affrontavi le faccende del tuo branco.”

A quel punto Alec si rizzò a sedere, fissò Duncan come se non l’avesse mai visto prima e, a sorpresa, scoppiò a ridere di gusto, tanto da farsi venire le lacrime agli occhi.

Capii subito che non c’era l’intento di deriderlo, così come lo comprese Duncan che, assieme a me, attese paziente che quello sfogo passasse prima di chiedergli: “Perché questa risata?”

“Cielo, McKalister… tu, geloso di me? Sarebbe da scrivere sugli annali!” sogghignò Alec, aggiungendo subito dopo: “Ma ti rendi conto che è assurdo? Tu sei Mister-Contenuto-e-Pacato!”

“Chiedi a mio cugino a cosa ci ha portati il mio ‘contenuto e pacato’, e vedrai quali difetti possa avere questa presa di posizione” bofonchiò Duncan, scuotendo il capo per il disgusto.

Io lo rammentavo ancora bene. E forse non me lo sarei mai scordato finché anche solo una particella di me fosse stata in vita.

Quella mutazione improvvisa, l’attacco violento di Duncan contro Jerome, quei denti enormi snudati contro la sua giugulare esposta al suo morso, quelle grida… e quello sguardo sofferente e straziato dal dolore!

No, neppure se il mio cervello si fosse ridotto a quello di un’ameba, avrei dimenticato.

Alec ci fissava curioso, forse aspettandosi da noi un’altra confessione sotto la luna, ma Duncan non volle parlare in alcun modo, così intervenni io e dissi con voce flebile, quasi insicura: “Prima che io e Duncan ci dichiarassimo, eravamo allo stremo delle forze, psicologicamente parlando.”

“Vi siete fatti delle seghe mentali, insomma” precisò Alec, con il suo solito modo di fare sbrigativo.

“Quello” bofonchiai, non potendo certo dargli torto. “Fatto sta che Duncan mi vide tra le braccia di Jerome, senza comprendere cosa stesse realmente succedendo. Fu preso da una gelosia furiosa che lo portò a mutare in lupo e attaccare suo cugino. Tutta la sua calma e la sua pacatezza forzata lo avevano ridotto a brandelli, e quella fu la classica goccia che fece traboccare il vaso.”

Alec fissò ammirato Duncan prima di fischiare ed esclamare: “Però, Duncan! Non me lo sarei mai aspettato da te! Complimenti!”

“Non ne vado particolarmente fiero” tenne  a precisare Duncan, facendo spallucce.

Grattandosi dietro la nuca con fare quasi imbarazzato, Alec replicò: “Non intendevo dire quello che stai pensando. Volevo dire che hai difeso il territorio come un vero uomo. La prima azione che capisco, di te. Almeno, prima della gita al nord  per recuperare la tua streghetta. Lì, mi sei piaciuto un sacco.”

Abbozzando un sogghigno tipicamente maschile, che io fissai con sufficienza mista a divertimento, Duncan celiò: “Beh, diciamo che avevo le mie buone ragioni per avere un diavolo per capello.”

“Ma non ti sei sentito bene a lasciar andare il lupo che è in te? A combattere a viso aperto contro quei berserkir?” gli chiese per contro Alec, estremamente serio in viso.

Duncan ci pensò su un attimo e, alla fine, ammise: “E’ stato… gratificante.”

“Di’ pure che è stato uno sballo” lo incitò bonariamente Alec prima di tornare a sdraiarsi e sussurrare: “Non riesco a tenere alla briglia il mio lupo come fai tu, ma lo vorrei. So che dovrei farlo, per poter guidare meglio il mio clan e farli sentire… apprezzati.

“Di’ pure amati” lo corressi gentilmente, imitando la sua precedente affermazione e ritrovandomi a scrutare il rossore sulle sue gote tese sugli zigomi.

“L’amore non fa per me” disse con estrema sicurezza Alec.

“C’è chi sarebbe disposto ad amarti nonostante il tuo caratteraccio” replicai a quel punto, sorridendogli comprensiva.

“Ti riferisci a Bev?” mormorò lui, sorprendendomi. Con una spallucciata, aggiunse: “Lo so da anni. Non ha fatto mai nulla per tenermelo nascosto ma io, semplicemente, non ne sono … capace. Non so se riuscite a capire, visto quanto sembrate due cozze appiccicate allo stesso scoglio.”

Sbuffai, trovando disgustoso il suo parallelismo con dei mitili, ma cercai di non arrabbiarmi per tentare di comprendere cosa volesse dire con quelle sue parole davvero strane.

“Ti senti inadatto ad amare un’altra persona perché tuo padre non ti ha mai amato, e ti chiedi se in fondo non sia stato per causa tua?” gli chiese a sorpresa Duncan, il tono di voce pacato e soffuso.

Alec sbuffò, imprecò tra i denti e alla fine borbottò rabbioso: “Tu ne sai qualcosa, McKalister, eh?”

“Anche troppo, per i miei gusti” assentì Duncan, intrecciando a sua volta le mani dietro la nuca.

“Non credi che una donna come Bev potrebbe farti cambiare idea, se solo tu provassi a farla avvicinare a te?” ritentai, pur sapendo che non erano affari miei.

Alec si volse a fissarmi con autentico divertimento, misto a qualcosa di simile al rimpianto e, allungata una mano a darmi un buffetto sul naso – un buffetto?, ma era sul serio lo stesso Alec? – mi domandò: “Sei curiosa come una scimmia o ci tieni davvero?”

“Tutt’e due le cose, non voglio mentirti” gli sorrisi ammiccando, scrutandolo contemporaneamente a fondo sia con gli occhi che con i miei poteri.

La sua aura non vibrava di rabbia o di insofferenza, era semplicemente… quieta. Il che, in Alec, era un evento più unico che raro.

Che quella gita fuori porta lo avesse aiutato a dominare i suoi istinti? Ne dubitavo ma, visto quanto era cambiata la mia vita negli ultimi mesi, tutto poteva accadere.

“Ci abbiamo provato, se proprio lo vuoi sapere, ma la cosa non ha funzionato. Io non funzionavo. Tutto qui.” Scrollò le spalle con falsa indifferenza e, dopo un attimo, si volse su un fianco per guardarci e aggiungere: “Ho quasi paura a chiedertelo ma… non è che daresti una sbirciata nella mia testa per vedere se è tutto a posto?”

La sua richiesta mi lasciò così interdetta che, per qualche secondo, non riuscii neppure a parlare, mentre la mia mascella scivolava verso il basso per esternare la mia condizione di shock totale.

Duncan, al mio fianco, avvolse la mia vita col braccio e rispose per me, visto che io ero ancora in fase REM, a quanto pareva. “Certo che lo farà.”

“Dalla faccia che sta facendo ora, direi piuttosto il contrario” precisò Alec, storcendo le labbra in una smorfia.

Mi riscossi in fretta, scuotendo il capo un paio di volte prima di esalare: “E dai, insomma! Non sembri nemmeno tu, stanotte!”

Alec abbozzò una risatina, annuendo alla mia dichiarazione di totale confusione. “Sì, scusa, ma l’incontro con Pat mi ha sconvolto parecchio, si vede. Perdonami, streghetta. Non ti disturberò più.”

Detto ciò, fece per sollevarsi da terra ma io, afferratolo lesta per un braccio, lo tirai nuovamente sull’erba e gli montai a cavalcioni sulle cosce per tenerlo fermo, casomai gli fosse venuto in mente di scappare.

Quell’azione proditoria lo lasciò senza parole per alcuni attimi prima di fargli salire un lento, malizioso sorriso sul viso abbronzato, che arcuò la sua cicatrice rendendola simile ad una piega della pelle, più che a uno sfregio vero e proprio.

Socchiuse gli occhi per fissarmi tra quelle esili fessure circondate da corte e diritte ciglia scure, e mi sussurrò roco: “Tesoro… proprio davanti al tuo uomo? O vuoi fare una cosa a tre?”

“Idiota” lo rimbrottai bonariamente prima di fare un cenno a Duncan di avvicinarsi.

Lui mi sorrise tra il divertito e il preoccupato, ben sapendo cosa avevo in mente, a quanto pareva e, posizionatosi dietro il capo di Alec, guardò verso il basso in direzione del licantropo, spiegandogli sommessamente: “Ora ti terrò bloccata la testa, va bene?”

Alec tornò immediatamente serio in viso, passando alternativamente lo sguardo da me a Duncan a intervalli di pochi secondi, e gracchiò vagamente preoccupato: “Che avete in mente, voi due?”

“Entrare nella mente di un Fenrir non è cosa da poco, specialmente uno con le tue barriere” gli spiegai sommariamente, poggiando le mani ben stese sul suo torace. “E’ necessario che io mantenga un contatto visivo con i tuoi occhi, per questo Duncan ti terrà ferma la testa. Ti verrà spontaneo spostarla per evitare di farmi entrare.”

“Posso abbassare le mie difese” precisò Alec, mordendosi un labbro per il nervosismo. Una singola, piccola goccia di sudore gli imperlò la fronte ed io, sorridendogli comprensiva, gliela asciugai con un dito prima di tornare a posare la mano sul suo corpo.

“Sei troppo abituato a mantenere un controllo ferreo della tua parte più profonda e segreta, per riuscirvi. E quello che vuoi sapere si trova lì, non nella parte di cervello che solitamente, invece, non tieni mai nascosta a nessuno” tenni a precisare, concedendomi il lusso di una breve carezza consolatoria al suo torace. “Non ti farò male, te lo prometto. Non tanto da farti svenire o lasciarti danni permanenti, per lo meno.”

“Non partiamo sotto i migliori auspici, allora” cercò di ironizzare lui, prima di prendere un gran sospiro e dire più seriamente: “Guarda, e dimmi che diavolo ha combinato mio padre.”

Non avevo voluto chiedergli spiegazioni di alcun tipo, né avevo voluto sapere da Patricia quante e quali violenze avesse subito dal genitore, ma non dubitavo che anche Alec ne avesse dovuto sopportare una buona dose.

Mi limitai ad annuire, posizionandomi in perfetto perpendicolo con i suoi occhi dopodiché, con voce appena sussurrata, iniziai a canticchiare una nenia che Lance mi aveva insegnato e che risaliva ai tempi di Avya. Le wiccan l’avevano tramandata nei secoli ed  era giunta fino a noi tramite i racconti orali, prima, e grazie ai grimori delle völva, poi.

Sondai in primo luogo il lobo frontale, allargando via via il mio raggio d’azione e notando subito quante microfratture rimarginate vi fossero sul cranio e, soprattutto, quanti piccoli, microscopici traumi avesse subito il cervello nel corso degli anni.

Presi un bel respiro cercando di non muovere la testa, mentre la sudorazione sul volto di Alec andava aumentando di pari passo con la tensione di Duncan che, le mani strette come una morsa attorno al capo del licantropo, mi fissava sempre più in apprensione.

Non era un esame facile per nessuno dei due e, di certo, quello che più avrebbe sofferto per quell’intromissione, sarebbe stato Alec.

Perché non avevo ancora sfiorato la corteccia celebrale, sede primaria del pensiero e della coscienza, ma era lì che mi stavo dirigendo.

Mi mossi lentamente, sondando la sua ansia, la sua paura, il suo strenuo tentativo – nonostante tutto – di opporre la minor resistenza possibile e, con un abbozzo di sorriso, sussurrai: “Stai andando bene.”

Non mi aspettai di vederlo sorridere in risposta, o di notare un accenno di assenso, perché era troppo teso per farlo, così non persi altro tempo e procedetti ad affondare ancor più in lui.

Duncan represse a stento un singulto ed io compresi subito che la mia vista normale non era più in funzione, almeno per il momento, e che i miei occhi si erano ricoperti di un sottile strato di patina biancastra.

Mi succedeva ogni volta che sondavo in profondità una mente, e l’unica volta che Duncan aveva assistito a quello spettacolo non aveva affatto gradito. Gli metteva i brividi e, probabilmente, li avrebbe messi anche a me se avessi potuto vedermi.

Lappandomi le labbra secche quando incontrai il primo accenno di barriera, allargai impercettibilmente le narici per respirare con maggiore forza e, nel contempo, tentai un primo assalto all’autentico muro di cinta che mi si presentò innanzi.

Sembrava invalicabile, di solido cemento armato e apparentemente infinito. Ma sapevo che, da qualche parte, c’era una breccia; dovevo solo scoprire dove fosse.

Il respiro di Alec si fece più affannoso e le mie mani vennero spinte verso l’alto a ogni sua inspirazione, mentre il suo cuore batteva all’impazzata pompando sangue al cervello bisognoso di energia.

Spinsi una prima volta, come per testare la solidità del muro e, a sorpresa, ricevetti per diretta conseguenza una scossa tale da rendermi insensibili le dita oniriche che stavo utilizzando in quel momento all’interno della mente di Alec.

Voleva la guerra, allora.

Sollevata una mano, mi portai un dito alla bocca e morsi fino a procurarmi una piccola ferita mentre gli occhi ormai sgranati di Alec non mi mollavano neppure per sbattere le ciglia.

“Chiamerò la tua bestia, Alec perché, se provassi ad attaccare le tue barriere come uomo, potrei ucciderti. Come lupo, sarai più malleabile” gli spiegai a bassa voce, poggiandogli il dito insanguinato sulle labbra perché lui ne sentisse il sapore.

Subito, come un colpo di cannone sparato a poca distanza dalle mie orecchie, il suo cervello ebbe un tremito e la barriera mutò sembianze, prendendo la forma di un basso muricciolo di pietra, come se ne potevano vedere nelle brughiere inglesi.

Il lupo dentro di lui non rispondeva alle sue inibizioni, perciò non aveva alcun timore di mostrarmi ciò che, Alec uomo, non avrebbe mai fatto senza rischiare la vita di entrambi.

Scavalcato agilmente il muro di cinta, mi ritrovai invischiata in qualcosa di simile alla melassa.

Sgomenta, rimbalzai all’indietro contro le rocce, letteralmente schiacciata dalla soverchiante energia negativa che quel muricciolo sembrava contenere a stento.

Le lacrime giunsero quasi subito, non volute e non cercate ma… necessarie.

Flash di immagini di un passato che definire orrendo sarebbe stato un eufemismo, si dipanarono dinanzi a me come un film splatter di bassa lega.

Ritrovandomi inginocchiata in quel liquido denso e scuro che mi circondava, fui costretta a fissare con la bocca spalancata - e neppure il fiato per urlare - tutto ciò che il padre di Alec aveva fatto a lui e alla sorella nel corso di molti anni di abusi.

Avrei voluto scappare da lì, darmela a gambe, mollare tutto e mandare al diavolo Alec per avermi costretta a scrutare dentro quel miasma di oscenità. Ma non potevo.

Avevo accettato spontaneamente e, Dio, aveva ben d’onde d’essere preoccupato per la sua sanità mentale.

Amore. Forse solo la madre li aveva veramente amati ma era rimasta in disparte, muta come il resto del branco di fronte alle violenze di un licantropo che, per le sue efferatezze, io avrei bandito senza neppure pensarci una volta.

O, meglio ancora, avrei bruciato sul rogo per il solo gusto di sollazzarmi di fronte alle sue carni arse dalle fiamme.

Alec e Patricia non avevano avuto che un orco, come padre. E della peggior specie.

Avevo sperato – non so esattamente bene il perché – che il tutto si fosse limitato alle botte a Patricia e, forse, a un tentativo di stupro sfociato con l’omicidio portato avanti da Alec ma no, la vita non aveva voluto essere così clemente, con loro.

Gli stupri c’erano stati, e più di una volta. E non solo nei confronti di Patricia.

Deglutii a fatica, il rantolo che uscì dalla mia gola a far da eco all’urlo muto che scaturì dalle mie labbra nella mia forma spirituale.

Quella volta era stato più violento di tutte le altre, con Patricia, riducendola in fin di vita.  

Questo aveva portato l’allora quattordicenne Alec a cercare vendetta sul padre che però, forte della sua maggiore esperienza nella lotta, lo aveva atterrato e stordito a suon di botte in testa.

Chiusi gli occhi quando la memoria fotografica si fissò su quegli attimi disgustosi, al dolore feroce e infuocato che si riverberò sulla mia pelle, facendomi avvertire come per riflesso il tocco delle dita di suo padre e… beh, tutto il resto.

Mi strinsi le braccia al petto mentre ansimavo senza forze al pari di Alec, steso a pancia in giù e legato al letto per il puro diletto di quel mostro che solo un destino bizzarro, quanto crudele, lo aveva voluto come suo padre naturale.

La penetrazione feroce lo portò ad urlare ed io, non potendo trattenermi, gridai con lui mentre, nel mondo reale, calde lacrime mi colavano dagli occhi saturi di dolore, cadendo sul viso terreo di Alec.

Duncan ci osservava entrambi con estrema ansia, forse voglioso di bloccare il mio esame approfondito, forse desideroso di dare una mano ad entrambi per superare quel momento di sicuro sconforto.

Purtroppo, in quella faccenda lui non poteva entrarci.

Il tutto ebbe termine in pochi minuti, anche se per Alec – e per me – sembrò essere passata un’eternità.

Suo padre se ne andò lasciandolo sanguinante e ferito nel corpo come nell’orgoglio sul letto, dove poco dopo Patricia lo trovò ripiegato su se stesso, il viso teso fino allo spasimo, ma neppure una lacrima a macchiarne le gote.

E fu in quell’istante che vidi i suoi occhi. Gli occhi che avevo visto la prima volta che avevo conosciuto Alec. Occhi che non sapevano, o volevano trasmettere nulla. Occhi di un morto. O di una persona morta dentro.

Patricia lo accudì, portandolo in bagno e lavandolo come decine di altre volte Alec aveva fatto per lei mentre la madre, silenziosa e in lacrime, ristette pallida e smunta sul divano di casa, incapace di essere di alcun aiuto ai figli.

Quando infine Alec si fu rivestito, lasciò casa senza dire alcunché a madre e sorella e, spinto da una nuova forza che, in precedenza, non aveva mai saputo di avere, raggiunse il padre al Vigrond e lo uccise.

Non sprecò tempo a mutare in lupo per attaccarlo come avrebbe dovuto fare in un regolare scontro per il predominio.

Non avrebbe mai concesso un simile onore a quell’uomo. Lo raggiunse a capo chino, la mano ben salda sul coltello dalla lama d’argento che teneva nascosto nella tasca e, di fronte alla risata sadica del padre, rimase imperturbabile.

Lo ascoltò irriderlo sulla violenza appena subita ma Alec non reagì, continuando ad avanzare.

Fu solo quando si ritrovò a un passo da lui che, finalmente, levò il capo a fissarlo in viso e, con un ghigno che tolse qualsiasi voglia di ridere a suo padre, gli urlò: “Ora non lo userai più!”

Lo accoltellò al basso ventre con così tanta forza da affondare tutta la lama nella carne e, mentre l’urlo di sorpresa e dolore del padre si levava dal Vigrond come il rombo di un tuono, Alec colpì, e colpì ancora.

Suo padre lo sfregiò in viso con gli artigli che, in un tentativo inutile di difesa, aveva estratto in una mutazione parziale, ma questo non bastò a fermarlo.

Non contento di averlo colpito almeno una decina di volte nei punti vitali che, il padre stesso, gli aveva insegnato a colpire in caso di lotta, Alec lo gettò a terra con un calcio, pronto a finirlo.

Lasciata la lama ben conficcata nel cuore, mutò in lupo e lo divorò pezzo per pezzo, desideroso che nulla di lui venisse sepolto sotto la grande quercia del loro Luogo di Potere.

Quando Hati e Sköll, attirati dalle grida del loro Fenrir, giunsero al Vigrond, non vi era più nulla da fare, o da dire.

Si limitarono ad inginocchiarsi di fronte al loro nuovo capoclan mentre Alec, lordo di sangue da capo a piedi, li fissava senza neppure vederli.

Riemersi con un ansito mentre Alec riprendeva piena coscienza di sé, piegandosi poi su un fianco per rimettere acidi e bile.

Io lo imitai nel giro di pochi attimi e Duncan, affiancandomi e tenendomi sollevati i capelli, chiese turbato: “Devo portarti qualcosa? Alec, tu?”

Il licantropo si gettò prono sull’erba, ansante come dopo mille miglia di corsa ininterrotta mentre io, ancora in lacrime e con l’acido sapore del disgusto sulle labbra, tentavo di calmarmi e riprendere un minimo di controllo.

“Dio, streghetta… mi hai… massacrato” ansò Alec, piegandosi in posizione fetale e tenendosi lo stomaco con entrambe le mani.

“Alec, io…” tentennai prima di arrancare nella sua direzione e stringerlo a me in un goffo abbraccio. “Duncan, ti prego…”

Non sapevo bene cosa chiedergli, ma lui sembrò capirmi.

Avvolse a sua volta Alec con le braccia, si strinse a lui poggiando il capo scuro contro il viso del licantropo che, troppo stremato per scacciarci, si lasciò avvolgere da quel bozzolo mentre io continuavo a piangere in silenzio, troppo scioccata per parlare.

Restammo in quella posizione finché le prime luci dell’alba non tinsero di rosa e violetto il cielo oltre la cortina di alberi.

A quel punto Alec, riscuotendosi da quella specie di torpore in cui era caduto dopo la mia immersione profonda nel suo cervello, tossì un paio di volte per ritrovare la voce e disse roco: “Hai visto tutto.”

Non era una domanda. Lui sapeva.

Mi limitai ad annuire e  lui, con un sospiro, domandò: “Sono spacciato, eh?”

“Affatto!” Scossi il capo con veemenza, esclamando: “Avrei reagito allo stesso modo. Non c’è niente di sbagliato,  in te, Alec. Niente!”

“Avrei dovuto…” cominciò col dire lui prima di sospirare e scuotere il capo, non sapendo bene come continuare.

“Lo ucciderei mille volte io per te” mi limitai a dire con la morte nella voce, carezzandogli il viso con lenti, gentili tocchi delle dita. “Parla con Duncan, sfogati con lui, ma non tenere più dentro tutto questo odio.”

Lui abbozzò una risatina, esalando con ironia mista a dolore: “Sai anche che non ne avrei voluto parlarne con te, nonostante tu abbia scoperto tutto. Sei veramente una streghetta!”

Gli sorrisi e, presogli il viso tra le mani, lo baciai teneramente sulle labbra per un attimo, sussurrando subito dopo: “Parlagli.”

Alec annuì ed io, dopo essermi rialzata a fatica, sorrisi a Duncan che, afferrata una mia mano, se la portò alle labbra sussurrando: “Sei stata brava.”

“Al momento mi sento da schifo. Farò finta che tu abbia ragione.” Detto ciò, mi allontanai caracollante in direzione della casa mentre Alec e Duncan, sedendosi sull’erba, iniziarono a parlare fittamente di ciò che io avevo visto con fin troppa chiarezza.

Con passo strascicato raggiunsi infine la cucina solo per sobbalzare di sorpresa quando, nel mio campo visivo, inquadrai Erin che, seria in viso e vagamente pallida, mormorò: “Le camere devono essere davvero scomode, se avete preferito stare in giardino.”

Ridacchiai senza forze, avvicinandomi alla macchinetta del caffè per accenderla e, scuotendo il capo, replicai: “Le camere non c’entrano.”

Lui, come sta?” mi chiese a quel punto lei, accennando con il capo all’esterno.

“Ci hai visti?” esalai sconvolta, sgranando leggermente gli occhi.

Erin annuì una sola volta, dicendo subito dopo: “Dalla mia camera. Non ho compreso bene cosa sia successo, ma non avrei mai pensato di vedere Alec così… distrutto.”

“Ho fatto una cosa che preferirei non dover ripetere ma, in quanto a ciò che è successo, dovrà parlartene lui, se mai lo vorrà.” Scrollai le spalle stremata, ascoltando distrattamente i rumori sommessi della macchinetta del caffè.

Lei sorrise tristemente, sedendosi al tavolo della cucina e, a mezza voce, dichiarò: “Allora rimarrò con il dubbio a vita, visto che mi detesta.”

“Di una cosa sono sicura; lui non ti detesta. Detesta se stesso. E’ ben diverso” esalai senza più aggiungere altro. Ed Erin fu così gentile da non chiedermi altro.

 

 

 

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1 Pentothal: altresì chiamato 'siero della verità'.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


8

Capitolo 6

 

 

 

 

 

O Penny possedeva un potere misterioso, oppure Alec aveva dei seri problemi.

Il punto comunque era che, in quel momento, si ritrovava in maniche di camicia nel garage della villa di Erin, le mani sporche di grasso da bicicletta, tutto intento a cercare di capire cosa vi fosse di sbagliato nella catena della due ruote della bambina.

Bambina che, impegnata a trattenere un sorrisino soddisfatto dietro un’impeccabile espressione di totale concentrazione, stava osservando Alec con l’aria di chi è partecipe dell’impegno di chi ha appena schiavizzato con un sorriso e due occhi dolci.

Osservando il tutto dall’entrata della rimessa, un panino al tonno ben stretto in mano e un sorrisone ironico stampato in faccia, mi costrinsi a muovermi per entrare e mormorai: “Se puoi interromperti un momento, Duncan vorrebbe parlarti.”

Alec levò due occhi gelidi sul mio viso – che ancora ghignava – e, burbero, gettò la chiave a brugola che teneva in mano come se fosse stato un pugnale.

Spazzolandosi le mani sporche in uno straccio, che estrasse dalla tasca posteriore sinistra con un gesto stizzito, Alec ringhiò: “Ce ne hai messo di tempo, per dirmelo. Ti sei goduta lo spettacolo, per lo meno?”

“Molto” sorrisi, lasciandogli il mio panino. “Questo ti aiuterà a calmarti.”

Un ‘mpfh’ ben poco soddisfatto seguì la sua uscita dal garage assieme al mio panino ed io, rivolgendomi a Penny, che aveva osservato l’intera scena a metà tra il divertito e il dispiaciuto, le domandai: “Perché non hai chiesto a Richard?”

Con una scrollatina di spalle, la ragazzina asserì: “Non conosce la differenza tra un cacciavite e una chiave inglese. E’ molto bravo in tante cose, ma non gli permetto di mettere mano alla mia bicicletta. L’ultima volta che ci ha provato, la catena era così annodata che il negoziante che me l’ha aggiustata ha dovuto cambiarmela.”

Sgranai gli occhi, basita di fronte a quella dichiarazione, ed esalai: “Non lo facevo così… imbranato.”

Sospirando con enfasi, Penny scosse il capo e mormorò esasperata: “E’ un caso senza speranza.”

Quel tono così rassegnato, combinato all’espressione estremamente seria di Penny, mi fecero scoppiare a ridere di gusto e la bambina, dopo alcuni attimi, seguì il mio esempio, facendo rimbalzare la sua schietta risata tra le pareti in muratura del garage.

Sedendomi con lei su un treppiedi da campeggio, le chiesi cosa fosse successo alla bicicletta e lei, con dovizia di particolari, mi spiegò del suo tentativo di guadare un piccolo fosso.

A ben guardare, la piccola mountain bike era sporca di terriccio, così come la sua padrona e, vagamente dubbiosa, le chiesi: “Ma… non è un po’ pericoloso fare dei giri del genere per la tenuta, tutta da sola?”

“Oh, non ero da sola. Un paio di lupi della mamma erano a qualche centinaio di iarde da me. Infatti, quando mi hanno vista cadere nel fango, mi hanno recuperata subito, portandomi qui a casa” scosse il capo Penny, sorridendomi.

Conoscevo bene quello sguardo. Sapeva di perdita e di sicurezza acquisita gioco forza.

Quando avevamo perso mamma e papà, io e Gordon avevamo dovuto fare i conti con la loro assenza, imparando giorno dopo giorno a cavarcela con le nostre sole forze.

Questo ci aveva fortificato lo spirito, ma aveva anche scavato solchi nel nostro animo dove le lacrime piante in silenzio avevano creato piccole, esili fenditure che, al primo cedimento, avrebbero potuto allargarsi fino a spezzarci in due.

A me era quasi successo quando Loki aveva tentato di farmi fuori, scardinando le mie certezze una dopo l’altra.

Non volevo che anche Penny fosse costretta a questo inesorabile sgretolio dell’anima.

Sfiorandole una spalla con la mano, le dissi: “Nessuno dubiterà mai che sei una ragazzina molto forte, ma non esitare a chiedere aiuto, mai. Non significa essere deboli. Aprire il proprio cuore alle persone che ami è rischioso perché, quando si perdono, si soffre tantissimo, ma si ottiene anche così tanto a concedersi al loro amore.”

Penny mi fissò seriamente, annuendo, e mi chiese: “Quando hai perso la mamma e il papà hai pianto tanto?”

“Ogni giorno, per mesi. Ma dovevo essere forte per mio fratello più piccolo, così lo facevo in silenzio, la notte, quando non ero vista” le spiegai con sincerità. “Non mi ero accorta che, soffrendo in silenzio, mi facevo del male. Sarebbe stato meglio piangere con mio fratello, dividere il mio dolore con lui, ma non lo feci. Me lo chiusi dentro pensando che fosse giusto mostrarmi forte e indistruttibile e, così facendo, esso mi ha divorato dall’interno. Ho fatto del male a tante persone, a causa delle barriere che mi ero creata per non mostrare a nessuno quanto soffrissi. Non voglio che succeda anche a te.”

Penny mi sorprese come sempre e, nel levarsi dal suo treppiede, mi abbracciò con calore, mormorando contro la mia spalla: “Piango sempre con Richard, perché non voglio farlo davanti alla mamma. Ma mi sfogo.”

“E’ un bene che tu parli con qualcuno, ma sono sicura che anche Erin vorrebbe che ti sfogassi con lei, per poter piangere Marcus insieme” le spiegai gentilmente, carezzandole la schiena e le trecce bionde. “Non soffrirà di più, credimi, perché potrà partecipare al tuo dolore e aiutarsi a superarlo. Questo renderà entrambe più forti.”

“E tu? Con chi lo hai condiviso?” mi chiese a quel punto Penny, scostandosi quel tanto che le bastò per puntare i suoi occhi cerulei sul mio viso.

“Per anni, solo con me stessa, e ne porto ancora i segni. Ora lo condivido con il mio branco, i miei amici e la mia famiglia. E’ più… facile” ammisi, dandole un buffetto sul naso.

Penny annuì e, nel mordersi pensosamente il labbro inferiore, tornò a sedersi dinanzi a me per poi chiedermi: “Alec mi ascolterebbe?”

Dovevo ancora capire perché le attenzioni di Penny cadessero continuamente sullo scontroso alfa, ma forse a lei non servivano le cure di persone gentili – quelle le aveva già – ma di qualcuno che non la trattasse come una principessa.

A volte, le vie della guarigione passano per strade che, in altri casi, non avremmo mai percorso.

“E’ venuto ad aggiustarti la bicicletta quindi, penso che…” cominciai col dire, bloccandomi subito dopo quando avvertii l’aura di Alec galleggiare nell’aria come una bandiera al vento. Guai.

Mi volsi verso la porta del capanno un attimo prima della sua entrata e, nel vederlo scuro in volto, gli domandai: “Problemi?”

“Sì e no. Mi piace il tuo uomo in versione kamikaze, ma stavolta mi sa che prenderemo legnate sul serio” brontolò Alec, chinandosi accanto alla bicicletta per ricominciare da dove si era interrotto.

Accigliandomi, borbottai: “In che senso, scusa?”

“Fenrir di Oslo ci ha caldamente sconsigliato di mettere piede sul suolo norvegese perché non vuole entrare in conflitto con i berserkir, con cui intrattengono un patto di non belligeranza da quasi seicento anni. Se decideremo di ignorare il suo monito e verremo trovati sul territorio di uno qualsiasi dei loro branchi, si sentiranno autorizzati a colpirci.” Ne seguì un’imprecazione sputata tra i denti – fortunatamente era in italiano, perciò ipotizzai che Penny non potesse sapere cos’avesse detto l’uomo – e, con mani operose, iniziò a smontare la catena della bicicletta per controllare il blocco centrale.

Fui lì lì per imprecare a mia volta e, iniziando a passeggiare per la casetta sotto lo sguardo pensieroso di Penny, mugugnai indispettita: “Ma… io dico?! Già il fatto che ci sia così poco dialogo tra clan di altri paesi mi irrita, ma che addirittura si arrivi a negarci lo sbarco perché hanno paura dei berserkir… non è possibile!”

“Credici, streghetta, perché è così. Ma Duncan non vuole sentire ragioni, perciò procederemo come previsto. Dovremo solo stare attenti a come ci muoviamo, a questo punto” mi spiegò con una scrollatina di spalle Alec, staccando le pedivelle dalla bicicletta. “Non si aspettano che trasgrediremo gli ordini imposti, perciò non dovremmo trovare comitati di benvenuto ad attenderci all’aeroporto. Ma, da lì in poi, dovremo tenere i sensi all’erta e spostarci con discrezione. L’aura dovrà sempre essere azzerata per non attirare l’attenzione e forse, e ripeto forse, non ce li troveremo addosso come una muta di cani a caccia.”

“Ma è normale che i nostri confratelli ci rispediscano al mittente a questo modo?”, brontolai, rivolgendomi direttamente alla fonte dei miei problemi.

L’egoismo non è solo di origine divina, ma anche mortale. Però può anche essere instillato a dovere, replicò Fenrir con tono dubbioso.

“Che intendi dire? Che qualcuno li ha … spinti a voltarci le spalle?” Lo dissi con un tono così torvo che Fenrir non poté che ridacchiare nella mia testa.

Mi fai paura, quando ti inalberi così. Comunque, non mi stupirei se fosse un’altra manovra di Loki. Non possiamo sapere quante contromisure abbia preso a suo tempo. Come abbiamo visto, si è mosso in diverse direzioni contemporaneamente, pur di avermi in mano sua, e non posso sapere quante altre persone abbia coinvolto nel suo folle piano.

“Tuo padre è uno stronzo, con rispetto parlando”, mugugnai indispettita.

Concordo pienamente, si limitò a dire Fenrir.

Tornata che fui in me, mi ritrovai addosso lo sguardo dubbioso di Alec che, a mezza voce, mi domandò: “Notizie dal Grande Capo?”

“Pensa che il voltafaccia dei nostri compagni norvegesi possa essere stato in qualche modo… influenzato” buttai lì, scrollando le spalle.

Il suo volto si fece torvo e, senza perdere tempo, si pulì in fretta le mani prima di tappare le orecchie a Penny – che era accanto a lui – per poi ringhiare acido: “Quello stronzo di Loki rompe il cazzo anche dall’oltretomba?!”

Sorrisi tra me per quella strana cortesia offerta dall’uomo alla bambina e, nell’annuire, mi limitai a sentenziare: “E’ il dio dei sotterfugi e degli inganni. Di che ti stupisci?”

Penny a quel punto si scostò da Alec per sorridergli dolcemente e l’uomo, come sempre, parve terrorizzato da tanto affetto incondizionato.

Scosse le mani come se si fosse ustionato e, tornato che fu accanto alla bicicletta, brontolò: “Erin mi ha detto che vuole uscire con te in perlustrazione, comunque. Ti aspetta in casa, perciò… vai.”

Il mio sorriso toccò quasi le orecchie di fronte al tono lapidario dell’alfa e, nel dare il cinque a Penny, corsi fuori dalla casupola con la certezza che la bambina, assieme ad Alec, fosse più al sicuro che nel bel mezzo del Vigrond, circondata dal suo intero branco.

Non sapevo cosa lo spingesse ad essere protettivo nei suoi confronti e, al tempo stesso, a rifuggire il suo affetto, ma era evidente che Penny era in grado di smuovere qualcosa nell’animo di Alec. Qualcosa che, fino a quel giorno, nessuno era stato in grado di toccare.

E far fiorire.

***

Le zampe affondavano morbidamente nell’erba folta del sottobosco e sul morbido muschio che ricopriva i massi arrotondati mentre, in compagnia di Erin, percorremmo il perimetro della tenuta in forma animale.

Un vento leggero faceva mugghiare gli alberi dalle imponenti chiome che, dondolando ad un ritmo dolce e continuo, parevano danzare nell’aria profumata di fiori estivi e di terra umida.

Piccole allodole ciangottavano tra i rami mentre il gracchiare dei corvi, in lontananza, dava l’idea di una battaglia in atto per l’appropriarsi di una preda, o di un territorio di caccia.

Nel complesso, però, tutto appariva tranquillo.

Almeno in apparenza.

L’aver scoperto che i clan norvegesi non avrebbero gradito la nostra presenza nei loro territori non ci aveva di certo fatto piacere, ma non potevamo interrompere la ricerca. Indipendentemente da quanti rischi avremmo dovuto prendere.

Non erano stati chiari sul perché non ci volessero. Si erano limitati a dire che, per nulla al mondo, avrebbero portato scompiglio tra loro e i clan di berserkir presenti in Norvegia.

Quando Duncan aveva provato anche solo ad accennare a ciò che ci era successo, avevano riattaccato senza neppure salutarci, il che la diceva lunga.

Cosa li avesse spinti ad essere così scorbutici rimaneva un mistero, ma poneva le basi per ipotizzare un ennesimo trucco di Loki.

“Sarà molto difficile muoversi senza destare sospetti. Non conosciamo bene i luoghi e, mantenendo l’aura azzerata, sarà dura percepire a distanza i licantropi” mormorò ad un certo punto Erin, bloccandosi in prossimità di un piccolo rio per abbeverarsi.

Dopo averla imitata, annuii col muso, replicando: “Come wicca posso sfruttare la mia empatia con la flora boschiva senza destare alcun sospetto, ma questo mi imporrà frequenti pause, perché devo necessariamente restare in contatto con almeno una pianta.”

“E’ sempre meglio di niente” ammise poco convinta Erin, guardandosi intorno con i suoi profondi occhi blu.

Era più piccola di me di una buona ventina di centimetri alla spalla, con il pelo bruno, a tratti rossiccio in prossimità delle zampe, e una corporatura aggraziata quanto esile.

Al mio confronto, che possedevo la stessa corporatura di un Fenrir, era quasi gracile.

E questo mi fece temere per lei.

Sapevo di basarmi su dei preconcetti, ma non potevo fare a meno di pensare a Penny e a quello che avrebbe voluto dire, per la bambina, perdere anche la madre.

Non dovevo soffermarmi su pensieri così oscuri, ma era difficile non farlo quando tutto sembrava cospirare contro di noi.

Erin ridacchiò mentalmente e, con tono comprensivo quanto ironico, dichiarò: “So benissimo quali rischi sto correndo decidendo di seguirvi, ma devo farlo. Marcus l’avrebbe fatto, e io gli devo così tanto!”

“Mi viene spontaneo pensare a Penny, scusami” replicai sinceramente, accucciandomi sulle zampe posteriori per poi inclinare il muso e fissarla curiosa. “L’idea che possa rimanere orfana di entrambi i genitori mi terrorizza, specie considerando che la causa prima di tutto questo casino sono io.”

Grattando il terreno morbido con una zampa, quasi a voler sfogare un accesso di rabbia improvvisa, Erin ringhiò furente e disse con tono ironico: “Se è per questo, non resterebbe orfana. Non del tutto, per lo meno.”

Uggiolai così forte da far volare via alcuni passerotti troppo curiosi che stavano zampettando nelle nostre vicinanze ed Erin, con un sospiro, si accucciò a terra e poggiò il muso sulle zampe anteriori.

Imitatala, le domandai turbata: “Che intendi dire, Erin? Non capisco.”

“Che Marcus non è il vero padre di Penny.”

Quella notizia mi arrivò in testa come il classico macigno che piomba sullo sfortunato Willy il Coyote. Fu uno shock.

La fissai sgranando i miei occhi bicolori mentre, dalle mie zanne, uscivano uggiolii confusi e senza senso.

Quella, davvero, non me l’aspettavo.

Erin, scrollando le spalle – un gesto che un vero lupo non avrebbe mai fatto – ammise con tono vacuo, quasi disinteressato: “Il padre di Penny è il gemello di Richard. Ne ero tremendamente innamorata, all’epoca, e mi guardai bene dall’ascoltare i miei genitori e le mie amiche, che diffidavano dei suoi sentimenti verso di me.”

“Non… non sapevo che Richard avesse un gemello” esalai, sempre più sorpresa.

“Non si somigliano, in verità. Non sono gemelli monozigoti. Neppure i loro caratteri si somigliano, ma al tempo ero affascinata dai modi da bel tenebroso di Samuel… lo Sköll di Marcus.”

D’accordo. Quello era il giorno dei macigni.

“Non erano molte le lupe, all’epoca, che riuscivano a rimanere indifferenti al suo fascino magnetico ed io, ahimè, non ero dissimile dalle altre ma, in qualche modo tutto mio, pensai di essere diversa. Di essere speciale. Non lo ero, evidentemente.”

Rise deridendosi ed io, spontaneamente, mi avvicinai a lei per leccarle il muso. La cosa più simile a un abbraccio, per un lupo.

“Disse di amarmi, che le lupe che aveva avuto prima di me non contavano nulla, che era cambiato, aveva finalmente incontrato l’amore vero.” Un ghigno figurò sul suo muso, le bianche zanne lampeggiarono sotto il sole e, con tono sardonico, aggiunse: “Ci sapeva fare, con le parole. Un vero poeta.”

Era difficile immaginare qualcuno con lo stesso sangue di Richard – che appariva in tutto e per tutto l’uomo più fedele e sincero del mondo – che potesse aver fatto del male ad Erin e, soprattutto, l’avesse ingannata a quel modo.

Eppure, a quanto pareva, era successo proprio questo.

“Marcus, all’epoca, non badava molto alle scappatelle del suo lupo perché nessuno si era, per così dire, fatto male. C’erano state delle discussioni, dei combattimenti al primo sangue tra lupe, ma niente che non rientrasse nei normali canoni di un branco. Quel che successe a me fu un po’ diverso.”

Erin si mordicchiò una zampa, quasi una pulce l’avesse improvvisamente infastidita, quando sapevo bene che questo non poteva succedere.

I licantropi non hanno le pulci. Nessun insetto possiede denti, rostri o altri armamenti contundenti capaci di perforare la nostra pelle.

Era evidente che quell’argomento la imbarazzava e la rendeva nervosa, da lì quegli scatti improvvisi.

Quando fu abbastanza tranquilla per proseguire, mi disse: “Rimasi incinta. Non era mai capitato, con le altre, e Samuel diede di matto. Quando glielo dissi, imprecò non poco e si rifiutò categoricamente di essere ritenuto responsabile. Mi accusò di essere andata a letto con qualcun altro e di voler scaricare su di lui ogni colpa, quando sapeva benissimo che lui mi aveva rubato la verginità, e che non mi vedevo con nessun altro lupo.”

“Lo stronzo!” sbottai. “Scusa…”

“Lo pensai anch’io, e lo penso tutt’ora, tranquilla” mi tranquillizzò lei, con una nuova scrollatina di spalle.

“Non volle riparare al danno, immagino…”

“Fui costretta a ricorrere al test del DNA, alla fine. Nel frattempo, però, trascorsi tutta la durata della gravidanza con lui che mi perseguitava perché non lo mettessi di fronte a un simile verdetto, e Richard che lo ingiuriava perché si comportasse da uomo adulto. Marcus era semplicemente inorridito dal comportamento del suo Sköll, perché lui diede retta fin dall’inizio alle mie parole, e non a quelle di Sam.”

“Conosceva il suo lupo, in fondo” mormorai contrariata.

Erin annuì. “Gli ultimi sei mesi li passai a letto, tra dolori atroci e la consapevolezza sempre più profonda che Samuel non avrebbe mai accettato la nostra creatura. Questa verità mi portò quasi sull’orlo della morte. Ero così sciocca da amarlo ancora, e di trovare questa sua rinuncia uno scorno insopportabile.”

“Chiunque l’avrebbe trovato insopportabile” replicai con comprensione.

“Partorii Penny di otto mesi e Marcus restò al mio fianco per tutto il tempo, mentre Richard impedì al fratello di darsela a gambe fuori dalla sala parto.” Lo disse con tono vagamente ironico, ma potei percepire senza fallo il suo dolore ancora presente.

“I miei genitori non vollero saperne di noi, visto che io non avevo dato loro retta riguardo a Samuel, così Marcus si offrì di ospitarci per tutto il tempo che fosse stato necessario a me e la piccola per riprenderci. Nel frattempo, lui tentò di convincere il nostro recalcitrante Sköll a giungere a più miti consigli, ma Sam non volle mai apporre il suo nome sul certificato di nascita di Penny.”

“Lo ripeto… lo stronzo!” mugugnai indispettita. Ma quanto potevano essere egoiste, le persone, a volte?!

Erin ridacchiò del mio tono, e proseguì dicendo: “Quando fu chiaro a tutti che Samuel non si sarebbe preso le sue responsabilità, Marcus decise di prendere su di sé un simile peso e mi offrì di diventare sua moglie, così che la bambina potesse avere un padre con cui crescere. Si riteneva a torto colpevole per l’inettitudine del suo sottoposto, e voleva riparare un torto.”

“E’ stato un gesto davvero generoso” ammisi senza alcuna remora.

“Le lupe non furono molto d’accordo, perché questo mi avrebbe automaticamente dato lo status di Prima Lupa Potenziale, ma Marcus non volle sentire ragioni. Ci sposammo due mesi dopo la nascita di Penny e lui divenne il padre della mia bambina e mio marito. All’epoca avevo appena compiuto ventidue anni.”

“Ti imposero l’Ordalia?”

“Sì, ma furono così gentili da attendere che io avessi terminato l’allattamento di Penny.” Non vi fu ironia alcuna nel suo dire. Era evidente che le lupe del branco si erano realmente comportate in maniera corretta con lei, pur sapendo di partire svantaggiate nei suoi confronti, visto che era già la compagna legale di Fenrir.

“Non so se fu per la rabbia repressa, o cos’altro, ma vinsi tutti e tre i combattimenti dell’Ordalia e, di fatto, divenni Prima Lupa Ufficiale. Da quel giorno non vi furono più problemi, da quel punto di vista. Restava solo Samuel.”

“Cosa faceste?”

“Marcus lo scacciò dal branco, ripudiò il suo status di Sköll e lo minacciò di non tornare più a Belfast, pena la morte. Non voleva simili concentrati di egoismo, nel suo entourage.”

Annuii, pienamente favorevole. Non avevo avuto la possibilità di conoscerlo, ma apprezzai il modo di pensare di Marcus.

“Samuel non accettò, rifiutando l’ordine di Marcus, e chiese l’Ordalia di Primo Sangue per difendere i propri diritti di Sköll. Naturalmente mio marito accettò, ma non vi fu partita.”

“Marcus vinse.” Lo dissi senza bisogno di sentire la risposta. La conoscevo già.

Erin annuì e mormorò: “Samuel partì il giorno stesso, senza salutare neppure Richard o i suoi genitori. Le ultime notizie che abbiamo avuto di lui risalgono a circa due anni fa. E’ in California, o giù di lì. Se non ho capito male, fa lo stuntman per il mondo del cinema.”

“Immagino che Richard si tenga in contatto con lui, nonostante tutto” ipotizzai cautamente.

“Ha sempre pensato che, prima o poi, si sarebbe ricreduto e avrebbe voluto conoscere Penny, perciò continua a mandargli delle foto di mia figlia. Non ha mai risposto in merito. E’ per questo che sappiamo a grandi linee dove sia e cosa faccia per vivere.” Nella sua voce c’era il vuoto di una persona che non prova più nulla, che non sente più nulla, e questo mi spiacque.

Voleva soltanto dire una cosa; Erin aveva realmente amato Samuel e quel sentimento, divorato dall’egoismo di lui, aveva lasciato un vuoto incolmabile nel suo animo.

“Marcus ti ha mai…”

“… amata?” terminò per me, Erin, comprendendo al volo cosa non avessi avuto il coraggio di chiederle.

Annuii, e lei ammise tristemente: “Il suo fu un amore gentile, sincero, generoso, ed io lo ricambiai per quanto mi fu possibile. Non cercai mai di ingannarlo sui miei reali sentimenti, e lui lo sapeva. Mi diceva sempre che il suo amore bastava per entrambi, ma io sapevo di non meritare una simile grazia.”

“Perché dici questo?” sospirai dispiaciuta.

“Se fossi stata più intelligente, avrei capito subito il vero carattere di Samuel, invece mi sono lasciata abbindolare dalle sue moine come una sciocca. Non ho meritato l’amore altruistico di Marcus neppure per un attimo, per questo farò qualsiasi cosa per vendicarne la morte. Almeno questo glielo devo!”

Le sue ultime parole quasi le urlò, tanto il suo convincimento era forte, pieno di passione.

Forse non lo aveva amato con la stessa forza, forse il suo cuore non sarebbe più stato in grado di farlo, dopo le ferite lasciate da Samuel, ma Erin aveva dentro di sé l’amore di un uomo sincero, e questa sarebbe stata la sua armatura contro i pericoli.

Ero più che certa che Marcus, amando Erin e Penny con gioia autentica, avesse creato in loro le certezze necessarie per affrontare qualsiasi problema, e il comportamento della Prima Lupa e Fenrir di Belfast ne era la prova.

Nessun’altra donna, al suo posto, avrebbe avuto lo stesso coraggio indomito.

Dalla sua aveva la forza instillatale da Marcus, dai lunghi anni di matrimonio passati a volersi bene vicendevolmente, crescendo una figlia che dimostrava a chiare lettere quanto forte fosse stato il loro rapporto.

“Può anche darsi che tu non l’abbia amato come penso meritasse, ma vi siete voluti bene dal profondo, e Penny ne è la dimostrazione più lampante. E’ una bambina forte, coraggiosa, serena nonostante tutto, e questo può venire soltanto da due genitori affiatati” le dissi con sincerità, tornando a leccarle il muso per dare maggiore enfasi alla mia asserzione.

Erin mi ossequiò con un leggero cenno del capo, mormorando: “Sì, ci siamo voluti bene. Abbiamo passato momenti splendidi, soprattutto perché sapevo che Marcus ha sempre considerato Penny come sua. Questo è stato il suo più bel regalo.”

“Deve essere stato un uomo meraviglioso” asserii convinta.

“E un padre meraviglioso” ridacchiò Erin, leggermente più serena. “Penny ha sequestrato tutte le foto che ci sono in casa per metterle in camera sua, così che lui possa vederla da ogni angolazione. Ne ho salvata solo una, che tengo sul mio comodino.”

“Ecco perché in casa non ne ho vista neppure una!” esclamai, ridacchiando.

“Era molto gelosa del suo papà” assentì Erin.

“Toglimi una curiosità… Alec gli somigliava, per caso?”

La domanda non la colse del tutto impreparata, da quel che mi parve di percepire e, con un sospiro, Erin scosse il muso dichiarando confusa: “Per nulla. Marcus era biondo e con gli occhi azzurri. E anche come carattere, era diametralmente opposto. La vezzeggiava sempre, le faceva i complimenti in continuazione ed era solito portarla in giro per casa sulle spalle.”

“No, non ce lo vedo Alec a fare tutte queste cose” esalai, rabbrividendo alla sola idea di vedergli fare una sola di queste cose. Avrei avuto la certezza che il Ragnarök era alle porte, se mai fosse avvenuto un simile evento.

“Non so che dirti. Penny mi ha sconvolto, lo ammetto. Ho provato a sondare un po’ le acque, giusto per capire cosa le stesse passando per la testa, ma lei mi ha semplicemente detto che Alec le piace. Punto.”

Mi grattai il muso con le zampe, quasi fosse il mio turno di vedermela con una fantomatica pulce e, esasperata, mugolai: “Cioè, per l’amor di Dio, non dico che non sia un  brav’uomo, lo ha dimostrato ampiamente, nelle ultime settimane, ma… è tutto tranne che un tipo paterno!”

“Forse ha bisogno di questo. Di meno coccole e più fatti. Non so” sospirò Erin, scuotendo impotente il muso.

Era proprio vero. La guarigione prende vie a volte assurde.

 

 

 


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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


9

 

 

Capitolo 7

 

 

 

 

 

Preparare lo zaino non è mai un procedimento semplice. Devi decidere di cosa avrai bisogno, cosa dovrai lasciare a casa e cosa, soprattutto, non devi dimenticare assolutamente.

Il fatto che Duncan e Alec avessero preparato i loro in meno di venti minuti non mi aiutò ad essere più celere.

Erin era messa come me.

Quando persino Penny iniziò a tamburellare il piedino a terra, capii che era giunto il momento di dare un taglio netto alla faccenda.

Ficcai dentro un cambio di ogni indumento, il cellulare, una cartina accurata della zona centro-meridionale della Norvegia e la mia scorta preferita di barrette energetiche oltre, ovviamente, al passaporto e i documenti di identità.

Quasi mi diedi della scema per aver impiegato tanto a terminare quel compito.

Quasi.

Una volta dabbasso, poggiai con noncuranza il mio zaino in prossimità della porta di casa, dove già si trovavano quelli di Duncan e Alec e lì, sorridendo a mezzo a Michael e Rachel Durtmore, dichiarai: “L’indecisione è il mio pane.”

Rachel mi sorrise comprensiva, asserendo: “Non oso dirti quante ore impiego a fare le valige, perché non vorrei dare il ‘la’ a una serie di spiritosaggini di mio marito. Sai com’è…”

“Ho già dato, per oggi” annuii, lanciando a Michael un sogghigno, che lui ricambiò.

Pochi attimi dopo, Alec fece la sua comparsa assieme a Penny che, letteralmente, lo stava cavalcando senza il minimo ritegno.

Per l’ennesima volta mi domandai se, nel tragitto dalle Svalbard a Belfast, qualcuno avesse fatto il lavaggio del cervello al licantropo.

Seduta sulle spalle del mannaro più ombroso che io conoscessi – con l’eccezione di Sebastian – Penny appariva del tutto tranquilla e sorridente e Alec, nonostante il fiero cipiglio, aveva un’aura più limpida di una mattina di primavera.

Inquietante, come minimo.

Subito dietro di loro, Duncan si avvicinò a noi con un sorrisino dipinto sul volto mentre Erin, armata di zaino, appariva sempre più sconcertata.

“Ciao, zio! Ciao, zia!” esclamò gaudente la ragazza, salutandoli dalla sua posizione elevata.

“A quanto pare, hai trovato qualcun altro con cui fare cavalluccio!” rise Mike, allungando le braccia per toglierla dalle spalle di Alec.

La bambina annuì mentre il licantropo, tenendola per la vita con aria attenta, la passò allo zio borbottando: “Ha la stessa parlantina sciolta di un dittatore. E’ impossibile dare un ‘no’ come risposta.”

“Lo so” ammise Mike, ammiccando all’indirizzo di Alec come se sapesse bene a cosa si stava riferendo.

In piedi accanto allo zio, Penny si volse in direzione di Alec per ringraziarlo con un dolcissimo sorriso. La reazione del licantropo  sgomentò sia me che Erin.

Alec, letteralmente, avvampò come uno stoppino prima di chinarsi verso di lei, le mani poggiate sulle possenti cosce.

“Ci siamo capiti, vero, piccola ranocchia?” brontolò l’uomo, fissandola con aria seria e accigliata.

Erin strabuzzò gli occhi nel sentir chiamare la figlia a quel modo, ma si azzittì prima ancora di protestare quando udì Penny ridacchiare divertita e, sì… ammaliata.

Il mondo stava girando al contrario, forse, e io non me n’ero accorta?

La bambina annuì con vigore e, mettendosi sull’attenti con tanto di mano puntata a fianco dell’occhio destro, esclamò: “Signorsì, signore.”

“Sarà bene perché altrimenti, quando tornerò, ti rivolterò sulle gambe e ti darò tanti di quei pizzicotti da farti implorare pietà” la minacciò Alec, strizzandole l’occhio subito dopo.

Quel gesto impedì a Erin di saltargli al collo come, a mia volta, avrei voluto fare, ma diede il via ad un principio di emicrania per entrambe. Chi era quell’uomo?

Penny sghignazzò e, sgomentandoci non poco, si allungò per stringere le braccia attorno al collo di Alec, sussurrandogli all’orecchio: “E se tu ti fai male, ti picchierò così forte che ti ridurrò in poltiglia.”

“Sta bene. Affare fatto” ghignò l’uomo, scostandola da sé per darle un buffetto sul naso.

Erin era quasi cerea in volto, e potei capire senza problemi il perché di quella reazione. A quanto pareva, Penny non aveva mai usato parole come ‘poltiglia’  o ‘picchierò così forte’.

La bambina, sorprendendoci ancora di più, carezzò la guancia sfregiata di Alec e, tornata seria, mormorò: “Falli neri. Per il mio papà.”

Alec si limitò ad annuire e, nel rialzarsi, scorsi nei suoi occhi di falco una determinazione quale non avevo mai visto in nessuno, se non in Duncan.

Quello era lo sguardo di una persona che, per niente al mondo, si sarebbe fermata se non a missione compiuta.

Quello era lo sguardo di una persona che aveva qualcosa, o qualcuno, per cui combattere fino alla morte.

Quello era lo sguardo di una persona con un cuore che batteva per qualcun altro, oltre che per se stesso.

Quella semplice scoperta mi sgomentò.

Mike e Rachel, che ovviamente non conoscevano quasi nulla di Alec, non fecero caso a quello scambio di battute, ma noi che sapevamo… beh, i nostri volti erano più che sconcertati.

Erano allucinati.

Alec ci degnò solo di uno sguardo distratto, la consueta maschera di gelo già tornata a coprirne i lineamenti e, preso che ebbe il suo zaino, scrutò Richard – che se ne stava in attesa sulla porta d’ingresso – e borbottò: “Pronto, Jarvis1?”

Michael scoppiò a ridere di gusto a quel nome e Richard, nello scuotere il capo, esalò esasperato: “Meno male che partite oggi. Sarà un sollievo saperti lontano, sai?”

“Non avevo dubbi” ghignò Alec, oltrepassandolo con la sua solita andatura strafottente.

Oooh, quello sì che era Alec!

Rachel strinse a sé Penny, che ancora stava seguendo con lo sguardo il suo campione e, nel sorridere alla cognata, le promise: “Penseremo noi a lei. Voi badate soltanto a non farvi male. Tutto il branco la terrà al sicuro.”

“Ne sono convinta, Rachel. So che con voi è in buone mani” assentì Erin, piegandosi poi verso la figlia per farsi abbracciare. “E tu, tesoro, sii gentile con gli zii e non farli ammattire.”

“Andata” ammiccò lei, dandole un bacio sulla guancia.

Erin sospirò, notando per l’ennesima volta quanto la presenza di Alec, in quelle settimane di permanenza alla villa, avesse minato il vocabolario della figlia.

Era evidente quanto sperasse che, durante la nostra assenza, la bambina tornasse docile e mansueta come prima del nostro arrivo, ma io per prima dubitavo sarebbe mai successo.

Dopo aver salutato tutti, salimmo sulla Mercedes con cui eravamo arrivati alla villa e, nell’avviarci verso Belfast, sperai ardentemente di poter riportare indietro Erin a sua figlia.

Già troppe persone avevano sofferto a causa di Loki, e non volevo che un’altra famiglia fosse spezzata a causa sua.

Non c’è molto che tu possa fare, a parte portare a termine la missione, mi fece notare Fenrir con comprensione.

“Nel frattempo, però, vorrei capire perché i nostri fratelli norvegesi ci hanno voltato le spalle”,  gli rammentai, torva.

Hai intenzione di sottoporli a tortura, per caso?, ironizzò lui, pur se non completamente.

“Una wicca come me non conosce ostacoli, e tu per primo dovresti saperlo. Se mi capitasse a tiro qualcuno di loro, non esiterei a rivoltarlo come un calzino. Ne ho abbastanza di colpi bassi, tiri mancini e sgarri di bassa lega. Soprattutto da un mio confratello”, brontolai, facendomi seria in viso.

Duncan lo notò immediatamente e, con gentilezza, si collegò alla mia mente per capire cosa stesse succedendo.

A quanto pare, Duncan, la nostra Brianna stamani ha il dente avvelenato. Puoi farle comprendere che partire a testa bassa come un ariete può anche essere controproducente?, replicò con ironia Fenrir, rivolgendosi direttamente al mio amato.

“E da quando Brie è disposta a piegarsi a più miti consigli?”, ironizzò a sua volta Duncan, pungendomi sul viso.

Le sue parole successive, però, mi ringalluzzirono parecchio. “Non le do torto, però, Fenrir, e sarò il primo a offrirle qualcuno da analizzare, qualora incontrassimo un licantropo sulla nostra strada. Le hanno fatto del male, e non succederà mai più, almeno finché sarò vivo.”

Dimenticavo quanto due cuori innamorati possano essere ciechi e sordi alla prudenza, motteggiò Fenrir con un sottofondo triste nella voce. Ricordatevi soltanto di non farvi ammazzare, mi basterà.

“E’ nei nostri desideri”, lo consolai io, lasciando andare il contatto con lui e Duncan.

Il mio Fenrir preferito si volse a sorridermi e, nel darmi un bacetto sul capo, mormorò: “Troverò per te il più bell’esemplare di mannaro da fare a fettine, tranquilla.”

“Grazie” sogghignai.

Alec ci fissò senza capire e, nell’osservare al colmo della sorpresa Duncan, dichiarò: “Sei diventato sanguinario tutto di colpo? No, perché potrei innamorarmi di te!”

Duncan esplose in una gaia risata – cui mi unii a mia volta – e, nello scuotere il capo, si spiegò con il nostro compagno di viaggio. “Brie vorrebbe un licantropo da interrogare, così da capire perché i nostri confratelli norvegesi sono stati così scortesi da chiuderci le porte in faccia, ed io sono più che propenso a darle ragione.”

Scrocchiando le dita delle mani con un sogghigno dipinto in faccia, Alec mi guardò tutto speranzoso e decretò: “Vorrà dire che io e il tuo amante faremo a gara per prendere il primo lupo.”

Erin scosse il capo esasperata pur sorridendo a mezzo ed io, non potendo non trovare quella scena esilarante, celiai: “E per chi vince, cosa dovrei mettere in palio?”

Alec fissò per un momento Duncan, come per sincerarsi su cosa dire – o fin dove spingersi.

Non so bene se si dissero qualcosa mentalmente, o se bastò lo sguardo che si scambiarono, fatto sta che la richiesta che giunse in seguito mi ricoprì di sorpresa.

E sì, di divertimento.

“Chi vincerà, avrà in premio un intero pranzo cucinato da te. Da quel che so, Duncan fa fatica a mantenere la linea, da quando cucini per lui.” Ghignò nel dirlo, ed io seppi che l’aveva estrapolato direttamente dalla mente del mio compagno.

“Quante portate?” mi informai a quel punto, ridacchiando.

“Due primi, due secondi, dessert. Ti va?” mi spiegò Alec, allargando il suo ghigno furbo.

“Se ti basta così poco…” scrollai le spalle, mio malgrado divertita da quella strana scommessa.

“Beh, l’idea iniziale era ben diversa ma, visto che Duncan non vuole seguire le antiche usanze…” Alec lanciò un’occhiata mefistofelica all’indirizzo del mio uomo che, accigliandosi immediatamente, strinse le braccia sul petto e scosse recisamente il capo.

Ora più che mai confusa, mi volsi a scrutare Erin in cerca di spiegazioni e la donna, a metà tra il riso e l’imbarazzo, ammise: “Fino a qualche secolo fa, era consuetudine che la Prima Lupa venisse offerta al Fenrir di un altro branco, se questo si era coperto di onore per difendere il clan della sopra citata lupa. Era indice di profondo rispetto.”

Avvampai in viso fin quasi a sentirmi andare in fiamme le orecchie e, fissando sconvolta il viso serafico di Alec, gracchiai: “Scordatelo! Neanche morta!”

“Infatti non te l’ho chiesto” replicò con noncuranza Alec, scrollando le spalle.

Questo mi portò a pormi un altro tipo di domanda e, fissando allucinata Duncan, esalai: “Se… se Fred si fosse attenuto alle regole… tu e … oddio… tu e Becca avreste potuto… dovuto…”

Non riuscii neppure a terminare la frase e Duncan, arrossendo suo malgrado, assentì una sola volta, mormorando: “Volendo essere del tutto fiscali, sì, Fred avrebbe dovuto offrirmi Becca. Ma è un’usanza che non è più in vigore da tempo. Come ben capirai, i tempi e le mode cambiano, specialmente quelle assurde.”

“E meno male!” sbottai contrariata.

Alec ghignò tutto contento ed io, nel tirargli un pugno al fianco, ringhiai: “E smettila di ridacchiare come uno scemo! Non è divertente!”

“La tua faccia, sì” mi fece notare lui, ammiccando.

Sbuffai infastidita ed Erin, volgendosi a mezzo per guardarmi dal sedile anteriore dell’auto, mi confidò: “La pratica è andata in disuso perché le Prime Lupe sono diventate innanzitutto le donne amate, non soltanto le mánagarmr più forti del branco. In principio, queste due figure non andavano di pari passo; esistevano le compagne di tana dei Fenrir e le loro Prime Lupe. Solo in tempi recenti le due entità si sono condensate in una sola, anche se persistono branchi in cui si possono trovare entrambe le figure.”

“Oh” esalai, sorpresa.

In effetti, in tempi non sospetti, Duncan mi aveva detto che la Prima Lupa poteva essere anche differente dalla compagna di Fenrir, anche se non comprendevo tutt’ora bene come le due entità potessero coesistere senza annullarsi a vicenda.

Io sarei impazzita se avessi visto, al fianco di Duncan al centro del Vigrond, una lupa diversa da me.

No, non lo avrei mai accettato.

Erin parve comprendere il mio disagio perché annuì e mi confidò: “Molte compagne iniziarono a mal digerire una simile distinzione, così iniziarono le Ordalie per essere dichiarate sia Prime Lupe che compagne di Fenrir. Ma la regola non viene seguita quando la donna in questione accetta la presenza di una mánagarmr al fianco del suo compagno. Allora, l’Ordalia si svolge solo per definire il nome della Prima Lupa.”

“Beh, tu scordatelo” brontolai a quel punto fissando malissimo Duncan che, per contro, mi sorrise.

“Mi era sembrato di avertelo detto già un po’ di tempo fa. Non sono interessato a nessun’altra se non a te” precisò lui, dandomi un buffetto sul naso.

***

Tornare a Oslo quando, solo poche settimane prima, mi ci ero trovata al limite delle forze e ben decisa a non rimetterci più piede, mi diede un bel daffare a livello emotivo.

Il tempo plumbeo e discretamente freddo non mi aiutò di certo.

Impiegammo un bel po’ di tempo prima di veder comparire i nostri bagagli sul nastro trasportatore dell’aeroporto e, quando infine mettemmo piede fuori dalla hall ingombra di turisti di ogni genere e classe sociale, avevo ormai i nervi a fior di pelle.

Trovarmi in una città super affollata, circondata di case alte e strette, auto che schizzavano da tutte le parti e aerei in arrivo e in partenza, peggiorò di molto la situazione.

Il fatto di dover tenere a freno l’aura per non attirare l’attenzione di potenziali e scomodi curiosi mi innervosiva, e l’uso del mio potere di wicca in una metropoli era limitato. Quasi nullo.

Avrei dovuto attendere di trovarmi all’esterno del blocco urbano per poter iniziare a dare fondo ai miei doni ma, almeno finché non avessimo preso l’autobus per Lærdalsøyri, questo non avrebbe potuto avvenire.

Con calma misurata quanto fasulla, perciò, mi accodai ai miei compagni di viaggio per dirigermi verso un vicino bar. Erin, nel restare al mio fianco – lasciando che Duncan e Alec aprissero la strada – mi confidò: “Mi sentirò bene solo quando sarò nel bosco, lo ammetto.”

“Non sei la sola a pensarlo. Le città mi angustiano non poco. Specie quelle che non conosco” assentii con vigore, comprendendo appieno il suo punto di vista.

Non davo la colpa solo ai miei sensi sviluppati, ma anche alla sensazione di pericolo costante che galleggiava attorno a noi assieme ai gas incombusti, al particolato, all’odore di fritto e a molti altri aromi che avrei preferito non avvertire.

Fosse stato un altro frangente, forse avrei apprezzato l’ordine e l’educazione di quella città nordica, ma non riuscivo in alcun modo a dimenticare che non eravamo lì per diletto.

Era troppo forte.

***

Avvertivo dolore, intorno a me, il passaggio sinistro di un artiglio sul mio volto e, in lontananza, una risata.

Fu così che mi svegliai, il cuore a mille che palpitava nel mio torace, la mano di Duncan stretta nella mia e i suoi caldi occhi smeraldini puntati su di me, ansiosi e sinceramente preoccupati.

Dietro di noi, sui comodi sedili dell’autobus che avevamo preso a Oslo per raggiungere Lærdalsøyri, Alec mormorò: “Ehi, streghetta, tutto bene?”

Ansai quasi senza fiato, ma riuscii a dire: “Un brutto sogno, scusate.”

“Sono memorie… di lui?” sussurrò Duncan, stringendo i denti per trattenere l’ira.

Sapevo più che bene a chi si stesse riferendo.

O meglio, ai due lui a cui poteva riferirsi. Lot e Loki, i fautori primi dei miei recenti incubi e di molte delle ferite che ancora stavano rimarginandosi sul mio corpo.

Fortunatamente, quelle sul viso erano quasi del tutto guarite e apparivano solo come piccoli, infinitesimali sfregi sul bordo della mandibola.

Le gambe erano messe peggio.

Lì, Lot si era divertito e aveva disegnato un’intricata rete di arabeschi che, nel migliore dei casi, avrebbero lasciato pochissime cicatrici.

Nel peggiore… beh, preferivo non pensarci.

Duncan si era voluto prendere cura di me in prima persona, esautorando Lance dal suo ruolo di guaritore per non permettere a nessuno di toccarmi.

In quei primi giorni seguiti alla mia liberazione era stato fieramente, quanto ferocemente, possessivo ed era quasi arrivato alle mani con il suo Hati.

Lo capivo.

L’avermi vista ridotta così male, ai limiti del tracollo fisico e mentale, lo aveva quasi ucciso.

Anche Lance aveva compreso, pur se gli era costata molta fatica accettare di lasciare a Duncan l’intero iter curativo cui mi ero dovuta sottoporre per ridurre al minimo i danni.

Stranamente, avevamo usato dell’aconito per curarmi.

Avevo scoperto che, oltre ad avere effetti soporiferi su noi licantropi, usato sotto forma di crema cutanea poteva inibire anche la nostra parte mannara, permettendo alla controparte umana di avere il sopravvento.

Questo aveva permesso di debellare più facilmente il veleno contenuto negli artigli dei berserkir, consentendomi di guarire dalla maggior parte delle ferite.

Molte sarebbero rimaste a imperitura memoria ma, per lo meno, la mia faccia e gran parte del corpo erano salvi.

Chinandosi per baciarmi sulla tempia, mormorò: “Scaccerei tutti i tuoi incubi, se potessi.”

“Lo so” annuii, grata.

Sapevo benissimo perché non era potuto intervenire come, in passato, aveva fatto più di una volta.

L’uso di un simile potere avrebbe reso visibile la sua aura ad altri licantropi e, pur sapendo con quasi totale certezza che sul mezzo non ve n’erano, era meglio non correre rischi.

Lanciai uno sguardo torvo all’esterno, dove la notte aveva ammantato ogni cosa. Cime boscose, case, villaggi, campi coltivati, ogni cosa.

Ben presto saremmo giunti a Lærdalsøyri e, da lì, il nostro viaggio su strada sarebbe quasi giunto al termine.

Inoltrarci nei boschi che costeggiavano gli impervi fiordi norvegesi non sarebbe stato un problema, per noi.

Molto di più sarebbe stato rintracciare eventuali villaggi di berserkir o tracce del loro passaggio.

Non ero in grado di riconoscere le loro auree, mi erano del tutto oscure e, a parte percepirne – forse – l’odore, potevo fare ben poco.

Avremmo dovuto affinare i nostri sensi senza peraltro smascherare la nostra seconda natura e, al tempo stesso, il nostro passaggio per i boschi avrebbe dovuto essere il più indolore possibile.

Dalla nostra, andava che i berserkir non avevano sensi molto più sviluppati di quelli umani, perciò sarebbe stato difficile, per loro, avvertire la nostra presenza.

Tutt’altra cosa sarebbe stata se, al loro posto, ci fossero state delle sentinelle mannare presenti sul territorio.

Non volevo fare del male a dei confratelli, ma ero anche stanca di agire passivamente per non rompere le scatole a nessuno.

Era tempo di mostrare i denti, e non solo in senso metaforico.

***

Lærdalsøyri era esattamente come me l’ero immaginato.

Immerso nel verde dei fiordi, con il profumo dei pini e della salsedine che si mescolavano tra loro, creando una miscellanea unica e intrigante.

Gli abitanti del florido porto erano operativi già di prima mattina e, quando scendemmo dall’autobus per recarci alla pensilina per trovare la coincidenza con Øvre Årdal, il loro tran-tran quotidiano mi aiutò a calmarmi.

Insieme al nostro gruppetto, erano presenti altri turisti – veri, nel loro caso – e, da quel che avevamo saputo, provenivano dalla Lituania.

Erano allegri e chiacchieroni e, di sicuro, riempivano i buchi lasciati da me ed i miei compagni che, di sicuro, non avevamo gran che voglia di chiacchierare a vanvera.

Alla fine, comunque, avevamo scambiato con loro alcune battute circa il nostro viaggio verso le cascate – dove si stavano recando anche loro – e, di comune accordo, avevamo deciso di percorrere il sentiero assieme.

Primo, procedere in comitiva ci rendeva più facile passare inosservati, secondo, il loro odore confondeva il nostro.

Per almeno un giorno o due, saremmo stati più o meno al sicuro.

In seguito, nessuno avrebbe potuto saperlo.

Non appena scorgemmo giungere l’autobus, imbracciai il mio zaino con facilità e, dopo averlo riposto in buon ordine nel vano portabagagli, salii assieme al mio gruppo per impossessarmi dei posti sul fondo del mezzo.

Lo ammetto, quella posizione mi piaceva un sacco.

E parve piacere anche ad Alec che, con il suo solito modo di fare, si piazzò nel mezzo e allargò le braccia sullo schienale, re assiso su un trono di finta pelle color amaranto.

Duncan, che era stato il primo a sedersi, si sistemò accanto a uno dei finestrini, tenendo il posto accanto a lui libero per me.

Ovviamente.

Erin scosse il capo con espressione esasperata, un piccolo sorriso a tingerle il viso di allegria ed io, nello scavalcare una gamba di Alec per potermi sedere, borbottai: “Potevi anche aspettare a metterti comodo, no?”

Alec ghignò mentre Duncan si limitava a sogghignare senza dire nulla. Nell’accomodarmi al suo fianco, gli diedi una pacca su una coscia mugugnando: “Sei un despota e tiranno!”

“E lo scopri adesso, streghetta? Ti facevo più intelligente!” ridacchiò lui, piegando all’indietro il capo per poggiarlo contro il poggiatesta. “Ah, che bei ricordi!”

“Di quando facevi il bulletto per andare a scuola?” replicai, indirizzandogli un sorrisetto furbo.

“Già” ammiccò lui, facendo scintillare gli occhi di ghiaccio.

Un attimo dopo un lampo di memoria giunse nella mia mente, facendomi scorgere un giovanissimo Alec, con il volto ancora fresco della ferita infertagli dal padre prima di morire.

Appariva scuro in volto, freddo come il ghiaccio che tanto ricordava il colore dei suoi occhi e, intorno a lui, albergava un alone di gelo che potei percepire senza sforzo.

Accanto a quel giovane Fenrir, i novelli e poco più che ventenni Hati e Sköll apparivano come due fiere pronte a divorare chiunque e, combinati con la sete di dominio di Alec, mi fecero rabbrividire.

Non faticavo a comprendere come avesse potuto detenere il potere, pur se così giovane.

Suo padre lo aveva segnato così nel profondo che nessuno, se non Dio stesso, avrebbe potuto più scalfirlo.

E, con due luogotenenti simili, solo un pazzo si sarebbe messo contro di lui.

Nel giro di qualche attimo la visione svanì e Alec, nuovamente serio in volto, mormorò: “Scusa. Da quando hai giocherellato con la mia testa, a volte mi sfuggono  queste cosucce senza che lo voglia.”

“Potrà capitare ancora per qualche tempo ma, nel giro di un mese al massimo, dovrebbe smettere” lo rassicurai in un sussurro, un mezzo sorriso stampigliato in faccia.

Lui annuì senza dire altro e, a occhi chiusi, reclinò nuovamente il capo all’indietro, l’aria pensierosa e vagamente aggrottata.

Io scrollai le spalle, sapendo bene da dove fossero nati tanta rabbia e tanto livore ma, quando scorsi gli occhi sgranati di Erin, mi resi conto che anche lei aveva visto, e ne era rimasta turbata.

Duncan colse quel momento per alleggerire la tensione che si stava accumulando con la stessa velocità di un fulmine e, sporgendosi in avanti per parlare con Sven – uno dei nostri compagni di viaggio – gli domandò: “Pensate di fermarvi al villaggio, o preferite partire subito?”

L’alto giovane dalla chioma rossiccia ci pensò su un attimo prima di dire: “Visto che arriveremo tra circa un’ora, direi che potremmo anche partire subito, a meno che non vogliate prima visitare il centro.”

“Per noi può andare anche partire per le cascate senza fare i turisti in mezzo ai negozi” convenne Duncan, sorridendo per un attimo ad Erin, che annuì con fervore.

“Allora faremo così. Prendiamo solo una scorta di cibo e poi partiamo. Da qualche parte venderanno pure dei panini senza salmone, no?”

Tutti scoppiarono a ridere – era indubbio quanto, in zona, il salmone fosse più che apprezzato – ed io, nel sorridere ad Erin, le dissi mentalmente: “Come ti senti?”

“Un po’ sopraffatta, ma sto bene. Non avrei dovuto sbirciare, eh?”

“Non so se tu abbia propriamente sbirciato, o se Alec abbia voluto inviare quel pensiero di proposito. Da quando abbiamo avuto quel tête-à-tête, le cose sono un po’ strane.”

“Non ho capito bene, ma non sapevo che la ferita di Alec dipendesse dal padre” asserì Erin, lanciando un’occhiata timida in direzione del nostro comune compagno di viaggio, che la gelò con uno sguardo prima di distogliere gli occhi chiari. “Ce l’ha ancora con me, è evidente.”

“Non ti conosce e, prima di darti la sua fiducia, Alec deve scartavetrarti. L’ha fatto anche con me, non preoccuparti.”

“Beh, lo fa più che bene. Mi sento tutta ammaccata, anche se non mi ha toccata con un dito” brontolò Erin, storcendo appena il naso.

Già pronta a consolarla, mi sentii prendere per la nuca e trascinare irrimediabilmente addosso ad Erin, che stava navigando contro di me alla stessa maniera.

Finimmo con il cozzare le rispettive fronti l’una contro l’altra, spinte in quello scontro dalle mani di Alec – che si trovava in mezzo a noi – che, torvo, sibilò alle nostre orecchie: “La finite di chiacchierare, sciocchine? Non si era detto di evitare cose simili?”

Massaggiandomi al pari di Erin la fronte dolente, mentre Duncan ci fissava con aria divertita, mugugnai un assenso stiracchiato sapendo bene, mio malgrado, che aveva perfettamente ragione.

Ma cavoli, non esistevano altri modi?!

Non contento, Alec si volse verso Erin per ottenere la stessa risposta e lei, vagamente ansiosa, si ritrovò ad assentire muta, gli occhi imbrigliati nelle chiare profondità di Fenrir di Bradford.

“Devi stare attenta, tu più di tutti noi” ringhiò Alec, massaggiandole con un dito il segno rosso che aveva sulla fronte.

Erin arrossì violentemente, e avrebbe sicuramente balbettato qualcosa se non fosse intervenuta Illona, la sorella di Sven, per chiederci il perché della manovra di Alec.

Lui allora si volse per risponderle, tutto ghigni e battute, ed io colsi al volo l’occasione per studiare la nostra compagna di viaggio.

Stava fissando Alec a occhi spalancati, un’ombra di rossore ancora sulle gote e, sorpresa delle sorprese, il suo cuore stava battendo all’impazzata.

Tornai a guardare il nostro dispotico Fenrir, che stava ancora intrattenendo Illona con le sue scemenze e, dubbiosa, mi chiesi se Alec fosse per caso diventato un distributore automatico di feromoni.

Ma cosa prendeva alle donne di casa Darthmore?

 

 

_________________________________________

1: J.A.R.V.I.S. (Sta per "Just A Rather Very Intelligent System"), noto anche come Jarvis, è un'intelligenza artificiale computerizzata altamente avanzata sviluppata da Tony Stark (Iron Man) per gestire quasi tutto nella vita del miliardario.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


3

Capitolo 8

 

 

 

 

 

L’aria profumava di larice, di acqua salmastra e di attività umane.

Giungere al villaggio di Øvre Årdal equivaleva all’inizio vero e proprio della nostra ricerca in terra norvegese, e anche se ancora per qualche ora avremmo goduto di compagnia umana, ormai il tempo era giunto.

Il piccolo porto del paesino scandinavo ferveva di attività e, quando l’autobus si fermò in corrispondenza della pensilina dove avremmo dovuto scendere, il rombo delle sirene dei traghetti mi ferì le orecchie.

Rabbrividii istintivamente e Duncan mi avvolse le spalle, protettivo.

Quanto tempo ancora avrei passato a provare timore al solo suono prodotto dalle navi?

Davvero non lo sapevo.

La compagnia di Sven, Illona, Beatrix e Gabriel, per lo meno, mi impedì di affogare nelle mie personali paure e, procedendo insieme e armati di zaino, ci avviammo in direzione del centro e, da lì, verso i sentieri che conducevano alla cascata.

Altri turisti si affaccendavano lungo le vie, chi sceso dai traghetti, chi giunto in automobile.

Ma la maggior parte puntava in direzione della Vettisfossen.

Era indubbio che quella cascata attirasse un sacco di curiosi e, per noi, non poteva che essere un vantaggio.

Più umani avessimo avuto attorno a confondere il nostro odore, meglio sarebbe stato per noi.

La telefonata a sorpresa di Jerome quasi mi fece strillare di paura, ad ogni buon conto, giusto per smentire la mia apparente calma.

Afferrato che ebbi il cellulare, accettai immediatamente la chiamata e mormorai: “Ehi, ciao! Come va, lì?”

“Se volete, vi raggiungo subito. Mamma è infuriata, e quando un Freki è incavolato nero, è meglio girare al largo” brontolò subito Sköll, sorprendendomi non poco per il tono lugubre del mio cugino quasi acquisito.

Cos’era successo di così grave da far arrabbiare Sarah? A meno che…

Aggrottando la fronte e interrompendo la mia marcia non appena vidi Illona e Sven entrare in un negozio assieme a Erin, decisi ad acquistare un po’ di generi alimentari, feci un cenno a Duncan e Alec perché distraessero i nostri compagni di viaggio.

Sarei stata comunque attenta a non dire nulla di illuminante, ma non si poteva mai sapere.

“Dimmi tutto” dissi con tono serio e teso.

“Mamma è riuscita a craccare il cellulare di Lot, ma è stato un fiasco colossale. Non c’era neppure un numero, né sulla SIM Card e neppure nella memoria del telefono, neanche si fosse premurato, ogni volta, di cancellare chiamate in entrata e in uscita. Possiamo forse risalire a dove è stato fatto l’abbonamento, o dove è stato acquistato il cellulare, ma credo che finiremmo con un altro buco nell’acqua. E’ probabile che Loki lo abbia acquistato qui in Inghilterra per poi darlo ai suoi scagnozzi.”

“Già” sbuffai, grattandomi nervosamente una crosticina sulla tempia, memento delle ferite inferte da Lot.

“Mi spiace, principessa. Speravamo davvero che quel coso ci portasse da qualche parte” brontolò Jerome, irritato non meno di me.

“Non è colpa di nessuno. Sul fronte Sebastian ci sono novità?” mi informai allora io, scrollando leggermente le spalle.

Naturalmente, dopo la scoperta del neutro di Seb, avevamo tutti rizzato le orecchie e ogni branco inglese era stato allertato, con l’ovvia esclusione di quello dell’Isola di Man.

Più di un lupo si era dichiarato piuttosto sorpreso dalla reazione esagerata di Sebastian, mentre Cecily aveva imprecato a gran voce prima di minacciare di fare un salmì con quel particolare cagnaccio.

Non ero in grado di interpretare le manovre di Sebastian, così a distanza, e neppure volevo perdere tempo a farlo, quando avevo ben altro a cui badare.

Avevo imparato sulla pelle a delegare parte dei miei compiti, e così pure Duncan, così Jerome e il resto dei capibranco inglesi si erano ritrovati con quella patata bollente tra le mani.

Per il momento, si sarebbe trattato di un controllo leggero ma, se qualcosa di sordido fosse venuto a galla, allora Joshua sarebbe intervenuto.

Era stato deciso all’unanimità (tra coloro che erano stati chiamati a decidere) che dovesse essere lui a guidare gli altri branchi, qualora ve ne fosse stato bisogno, ed io ero più che d’accordo.

Nonostante la sua apparente docilità, non dubitavo che Joshua sarebbe stato un avversario più che temibile, in battaglia.

“Per il momento, guercio non ha fatto nulla di strano, a parte ritirare al porto il suo neutro mezzo morto e imprecare come uno scaricatore di porto per più di un’ora, almeno stando a quello che ci ha riferito la neutra di Erin” mi spiegò Jerome, con tono vagamente ghignante.

“Bene, quindi sa che lo abbiamo smascherato, almeno su quel fronte. Ora starà sicuramente più attento, qualsiasi siano le sue mire” mormorai contrariata, non sapendo davvero che pensare.

“Di certo non può pensare di invadere un branco qualsiasi tra i nostri. Non ha abbastanza lupi” replicò pensieroso Sköll.

“Non so, J, davvero non so. Per questo ho lasciato a te questa palla” ironizzai, lanciando un’occhiata in direzione del negozio. Stavano uscendo. “Ti devo lasciare. Ci inoltriamo nei boschi tra poco, perciò potrei anche non essere più reperibile per un po’.”

“D’accordo. Fate attenzione, mi raccomando” si premurò di dire Jerome, chiudendo la comunicazione.

Sorrisi tra me, riconoscendo nel tono apparentemente quieto di J un’autentica, sana paura.

Gli era pesato non poter partecipare al mio salvataggio, come gli pesava in quel momento essere a Matlock mentre avrebbe voluto trovarsi al nostro fianco.

Essere il secondo in comando stava cominciando a venirgli stretto, ma era un genere di carica che non poteva abbandonare così facilmente, e dubitavo che l’avrebbe fatto in ogni caso.

Anche se stare lontano da noi gli costava parecchio.

Infilato il cellulare in tasca, osservai Erin e le sue borse di cibo liofilizzato e di barrette energetiche e, sorridendo, dichiarai: “Vedo che non sono l’unica a pensare che questo sia il sistema migliore di mangiare, quando si è fuori.”

“Tutte le altre cose sarebbero state ingombranti e meno energetiche. Meglio affidarsi a questo cibo, che ad altro” assentì lei, distribuendo viveri per ognuno di noi, mentre Illona faceva lo stesso con i suoi compagni.

Quando infine fummo pronti, riprendemmo il cammino verso il folto della foresta che si inerpicava su per i monti, alle spalle di Øvre Årdal.

***

Non ero del tutto sicura di trovarmi sul sentiero giusto, eppure le latifoglie che crescevano attorno a noi sul terreno scuro e roccioso non potevano essere piante di città.

Ma la quantità di gente presente sul sentiero, sì.

Non avrei mai creduto di poter trovare un simile concentrato di confusione su un tratturo boschivo, eppure tant’era.

Vero era che il paesaggio meritava ampiamente.

Ripide erte fiancheggiavano muraglie diritte di roccia scura, quasi nera che, a perpendicolo sulla valle, si gettavano verso il fiordo vicino, che scintillava sotto il sole all’orizzonte.

Lontane vette aguzze tinte di bianco svettavano a miglia e miglia di distanza, mentre tutt’intorno a noi il bosco si estendeva fin dove l’occhio poteva poggiarsi.

Il canticchiare allegro degli uccellini si confondeva con il chiacchiericcio dei turisti, che allietavano quella lenta processione verso l’alto con battute di spirito, commenti aspri sulla difficoltà del sentiero, o peggio.

Naturalmente, per noi sarebbe stato facile superare quella colonna umana di villeggianti per arrivare prima di tutti alla cascata, ma non avrebbe avuto alcun senso.

Inoltre, più restavamo in compagnia con loro, più il nostro odore si confondeva con quello umano.

Alec, poi, non faceva altro che comportarsi in maniera amichevole con Gabriel e Sven, passando loro il braccio sulle spalle, dandogli delle amichevoli gomitate e quant’altro.

Alla fine dell’opera, sarebbe stato quasi impossibile capire che era un mannaro.

Era bravo nel camuffarsi, non c’era che dire e questo, di lui, non me lo sarei mai aspettato.

Anche Erin ne rimase strabiliata, ma non Duncan che, a un certo punto, mi disse: “Cosa ti aspettavi? Dopotutto, ha finto per più della metà della sua vita!”

“Già. Ma non pensavo che fosse così bravo a fare il simpaticone. Non lo fa mai!” ammisi io, guadagnandomi per diretta conseguenza un’occhiata sorniona da parte di Alec, che mi fissò da sopra una spalla per un attimo per poi tornare alla sua fitta discussione con Sven.

Illona e Beatrix lo fissavano affascinate e, per un attimo, non potei che essere d’accordo con loro.

Quando si comportava così, era quasi ammaliante.

E dopotutto, come ogni bravo alfa che si rispettasse, era una montagna di muscoli, e con quegli occhi grigio ghiaccio strepitosi e quella cicatrice in viso che gridava a chiare lettere quanto fosse pericoloso e tenebroso, sapeva attirare l’attenzione.

“Alec non ha mai fatto mistero di quel che pensava, almeno superficialmente, e questo gli dava un indubbio vantaggio. Sa metterti a tuo agio, oppure comunicarti astio al primo sguardo. Con lui non ti puoi sbagliare” mi disse Duncan con un mezzo sorriso. “Io, al contrario, sono sempre stato ermetico, sia con le mie impressioni superficiali che con quelle profonde. Non volevo che nessuno ficcasse il naso, mentre a lui non è mai interessato.”

“Solo per le sue emozioni residue, però…” si informò Erin, che fino a quel momento ci aveva ascoltato con attenzione.

Duncan annuì. “Certo, solo con quelle.”

Alec si volse ancora nella nostra direzione e, rivolto a Duncan, gli mostrò il dito medio prima di aprirsi in un sogghigno minaccioso.

Duncan allora mostrò i denti per un istante, e un attimo dopo scrollò le spalle e ridacchiò.

Non capii un’acca di quel comportamento assurdo, ma Erin mi sorrise comprensiva e mormorò al mio orecchio: “Alec ha redarguito Duncan per aver parlato di lui senza il suo permesso. Duncan ha accettato il rimbrotto e non se l’è presa per l’offesa del dito.”

“Oh… e non bastava semplicemente dirgli di smettere?” domandai ingenuamente.

“Sono lupi, dopotutto. Anche se con sembianze umane. Chi nasce licantropo si comporta in maniera un po’ differente da chi lo è diventato solo a seguito di un morso o una ferita. C’è l’istinto di mezzo.”

E, a ben vedere, Erin non poteva che avere ragione.

Estelle me lo aveva confermato più di una volta. Pur essendo licantropa da anni, non aveva lo stesso genere di comportamento che tenevano le altre lupe nate con il gene della licantropia nel sangue.

Non saremmo mai state come loro.

Io più di tutte, che ero anche wicca.

E, a dirla tutta, io ero unica anche da quel punto di vista. Unica tra gli unici.

Un bel peso da portare sulle spalle.

Quei pensieri un po’ tristi, comunque, vennero presto spazzati via quando infine raggiungemmo la cascata, e il mio sguardo si perse ammaliato dinanzi a quello splendido spettacolo della natura.

Il rombo dell’acqua che cadeva verso valle riempiva le orecchie e, nell’aria densa di microscopiche particelle acquose, intravidi il salto che essa compiva in direzione della sua base, molte iarde più in basso.

La nuda roccia dietro di lei scintillava alla luce del sole mentre il bosco tutt’attorno brulicava di vita, di gridolini eccitati e di movimenti frenetici per raggiungere il miglior punto di osservazione.

Avrei potuto rimanere lì per ore e ore intere ad ammirarne la sinuosa caduta verso il basso, il gioco fremente dell’acqua gonfia di ancestrale potenza, ma non avevamo tempo per il piacere, in quel nostro viaggio.

Dovevamo agire.

Salutammo perciò Sven e gli altri e, con la cartina alla mano per rendere più credibile il nostro girovagare per i boschi, imboccammo un sentiero e iniziammo la nostra risalita verso l’ignoto.

Poco alla volta il rumore della folla si allontanò da noi e le voci della foresta ne presero il posto, allietandomi più di quanto avrei mai ammesso ad alta voce.

La cascata era stata stupenda, e il suo spettacolo dirompente, ma trovarsi soli, in mezzo alla natura più selvaggia, non aveva prezzo.

Riposta la cartina nello zaino – non dovevamo in alcun modo seguire i sentieri, o saremmo stati facile preda di eventuali escursionisti – sfiorai la prima pianta a disposizione e chiusi gli occhi per meglio concentrarmi.

Subito, la rete di sinapsi del mio cervello si mise in collegamento con la creatura vivente al mio fianco e, una dopo l’altra, ogni essere dotato di radici fu in connessione con me.

Per miglia e miglia, in ogni angolo sperduto di quel bosco sulle pendici del monte, non trovai nulla di pericoloso per noi, solo qualche altro avventuroso escursionista di montagna.

Annuendo tra me, mi scollegai con un muto ringraziamento e asserii: “Per il momento possiamo procedere verso nord-ovest. Ci sono solo tre escursionisti a poco meno di otto miglia da cui, ma sono umani. Di sentinelle neppure l’ombra, per ora.”

“Ottimo, proseguiamo pure” assentì Alec, mettendosi in marcia per primo.

Erin gli si accodò in silenzio ed io mi misi dietro di lei, lasciando che Duncan chiudesse la fila.

La Cerca aveva ufficialmente preso il via.

***

 Procedere per il bosco in modo guardingo e a passo sostenuto mi riportò alla mente ciò che avevo vissuto più di un anno prima assieme a Duncan, quando lo avevo conosciuto.

All'epoca, tutto il suo mondo mi era apparso così strano, così lontano... così magico.

Ora ne facevo parte integrante e, a dirla tutta, ero io ad essere la creatura più magica di tutte, almeno per quel che concerneva i lupi.

Non solo ero la depositaria dell'anima del nostro capostipite divino, ma ero anche una wicca e una licantropa.

Insomma, ero un bel miscuglio di poteri ancestrali e mistici.

E, per essere una che era cresciuta a suon di Discovery Channel, era un bel traguardo.

Il tuo essere sempre stata con i piedi per terra non ti rende meno preparata per questo mondo di follie, mia cara, replicò nella mia testa Fenrir, sorprendendomi come ogni volta capitava.

“Sarà anche vero, ma se ci fosse stata Ellie, al mio posto, sarebbe stata più pronta e, in alcuni casi, avrebbe evitato errori che io invece ho commesso”, ribattei senza sentirmi particolarmente arzilla. Ero mogia, e lo sapevo.

Nessuno di noi è nel posto sbagliato, Brie. Tu dovevi essere il mio guscio, poiché io ti ho scelta. Non avrei voluto nessun'altra, per me, ammise Fenrir, mettendo in quelle parole un affetto profondo.

Sorrisi nell'oscurità che ormai era calata sul bosco che ci circondava, e ammisi a mia volta: “Non mi dispiace averti qui... anche se mi hai messo in un sacco di guai.”

Sono sicuro che, una volta che avremo chiarito con i berserkir, nessun altro ti darà più noia.

“Voglio sperarlo, perché ho intenzione di finire l'università senza intoppi.”

Sei troppo intelligente per avere problemi all'università. Anzi, io stesso mi stupisco della tua bravura. Tendenzialmente, capisco sì e no la metà di quel che tu comprendi al volo.

“Ora stai sviolinando, Fenrir”, lo rimproverai dolcemente, ridacchiando tra me per quei complimenti.

Poteva essere sciocco, ma mi facevano piacere.

Duncan mi scrutò incuriosito, e così pure gli altri, ma io mi limitai a spallucciare. Avrei spiegato loro più tardi.

Non sono sviolinate, le mie, ma semplici dati di fatto, ci tenne a precisare Fenrir.

“Allora, grazie. Ma non so quanto il mio sapere di microbiologia molecolare, al momento, potrà servirmi”, ironizzai, sistemando distrattamente una spallina dello zaino.

Forse non ti servirà per questo caso specifico, ma un domani potrai curare tante persone, umane e non, e non mi pare poco.

“Adesso tergiversi.”

Vero. Ma non puoi fare nulla, per impedirmelo. Ridacchiò, nel dirlo.

“Che sfiga... un'anima con il proprio carattere. E che carattere, per giunta!” bofonchiai tra me, facendolo ridere ancor di più.

Il contatto scemò con un'ultima risatina e, quando riemersi da quel nostro personale battibecco, dichiarai: “Fenrir fa dell'ironia.”

Duncan allora sorrise comprensivo e mi disse: “Avya dice che lo faceva anche con lei e che, puntualmente, questo la faceva irritare a morte. Era pestifero.”

“L'ho notato” ammisi senza problemi.

Erin ci guardò incuriosita e ci domandò: “Non è un po' strano poter parlare con le vostre anime? Soprattutto sapendo chi sono?”

“Le prime volte è stato parecchio stano...” le concessi senza remore. “... specie se consideri che ero prigioniera, e impossibilitata a scappare.”

Duncan ebbe un fremito rabbioso a quelle parole, ma io lo afferrai a una mano per calmarlo e, subito, il suo volto si rilassò. “Con il passare dei giorni, però, è stato divertente conoscere Fenrir e, spesse volte, illuminante.”

“Sottoscrivo appieno” assentì Duncan. “La prima volta che Avya mi parlò fu al Vigrond, quando Anthony ci disse di te e di quel che era successo. La voce della quercia mi invadeva la mente con le sue spiegazioni e, all'improvviso, quella di Avya si sovrappose, mandandomi letteralmente nel panico. Pensavo di essere impazzito.”

Tutti ridemmo con un sottofondo di nervosismo nella voce.

Era difficile non percepire i ricordi di Duncan, perché stavano galleggiando feroci nella sua memoria superficiale, a disposizione di chiunque volesse leggerli.

Non avevo mai voluto scavare a fondo in quei giorni, e Duncan non aveva replicato a quel mio desiderio, ma quella notte lo feci.

Conscia che nei dintorni non v'erano mannari in grado di percepire le nostre auree, mi infilai nella mente di Duncan per sondare quel ricordo e, subito, la sua aurea si fece sfrigolante, sofferente.

Erin e Alec funsero da specchi per quell'esplosione di collera, mantenendone i contorni controllati quanto ridotti ma, a quel punto, non si poterono esimere dallo scorgere a loro volta cosa angustiasse tanto l'alfa.

Vidi con chiarezza il Vigrond, i miei lupi assiepati attorno alla quercia, le loro espressioni afflitte, gli occhi colmi di dolore di Anthony, la mano di Jerome poggiata gentilmente sulla sua spalla a mo' di consolazione.

Sarah e John apparivano rocce salde cui Duncan si appoggiava con fiducia, pur se solo metaforicamente.

La mano poggiata sul tronco della quercia, lui dialogava con la pianta centenaria, venendo a conoscenza del mio segreto, della mia ingombrante anima immortale, … e di Avya.

Branson, armato e pericoloso, era al suo fianco a pistole spianate, lo sguardo ferale agile e lesto che, da un angolo all'altro, perlustrava il Vigrond colmo di lupi in ansia per la loro Signora.

Lance era gelido in viso, le braccia conserte sull'imponente torace, le guance livide e tese. La sua aura più che visibile a occhio nudo sfrigolava di rabbia a stento trattenuta.

E fu a quel punto che Duncan esplose.

Un grido eruppe dalla sua gola così forte da far accigliare più di un mannaro e, sotto gli occhi di tutti, il suo corpo esplose per lasciare spazio al lupo che, a denti digrignati, lanciò un ululato alla luna.

Subito, il Vigrond si riempì di licantropi con il muso rivolto al cielo, con l'unica eccezione di Branson, che rinfoderò le armi e si inginocchiò al fianco del suo Fenrir.

In barba al pericolo di essere visti, il branco si mosse fulmineo dal Luogo di Potere per portarsi fino ai confini del branco di Alec, e lì attese.

Me ne stupii.

Non avevo neppure immaginato una scelta simile.

Guardai confusa Duncan, che appariva frustrato quanto irritato e, sì, imbarazzato da quella perdita di controllo così poco consona per uno come lui.

Il ricordo proseguì dinanzi ai nostri occhi e, quando vidi comparire il branco di alfa di Alec – anche loro in forma animale – capii cosa si era rischiato.

Presentarsi sul confine di un altro branco con un numero così ingente di lupi era a dir poco pericoloso, se non folle, ma Duncan aveva sentito la necessità di chiedere aiuto al licantropo che lui sapeva essere il più forte, il più coraggioso.

O il più avventato che lui conoscesse.

Naturalmente, Alec accettò subito, deliziato all'idea di spaccare il culo peloso dei berserkir, e Duncan lo tributò di un omaggio raro, tra i Fenrir.

Offrì la gola al suo omonimo.

Un simile gesto di sottomissione, per un lupo alfa, era qualcosa di quasi incomprensibile ma, per un Fenrir, era a dir poco impensabile.

Alec ne rimase così sorpreso da uggiolare sgomento e, non sorprendendomi più di tanto, gli abbaiò contro, dimostrandomi una volta di più quanto poco fosse avvezzo ai gesti generosi.

Duncan si raddrizzò con un ultimo gesto ossequioso quanto rispettoso e, da quel momento, lavorarono di concerto per trovarmi.

A quel punto, però, la visione si interruppe ed io, fissando confusa il mio compagno, esalai: “Perché?”

“Non sono pronto a farti vedere anche il resto... e non chiederai ad Alec di mostrartelo” precisò Duncan, lanciando un'occhiata di sfida all'altro Fenrir, che si limitò a levare alte le mani come per chiedere misericordia.

Accigliandomi, brontolai: “Non è che io sia un candido giglio, sai? Posso immaginare quel che è successo fuori dalla caverna.”

“No che non puoi” precisò Duncan, oscurandosi in viso.

Erin intervenne, dandomi una pacca leggera sulla spalla per interrompere la mia arringa e, guardando comprensiva il mio compagno, asserì: “E' il caso di fermarci, ormai. Io e te faremo il primo turno di guardia. A mezzanotte, Brie e Alec ci daranno il cambio, va bene?”

“D'accordo” assentì subito Duncan, sospirando.

Non fui molto felice di quel cambio improvviso di argomentazione, ma lasciai perdere. Non aveva senso angustiare inutilmente Duncan con la mia curiosità.

Quando avesse voluto, mi avrebbe detto tutto.

Mi avrebbe mostrato quel lato oscuro di cui lui aveva tanta paura.

 

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N.d.A.: Cos’avrà voluto nascondere Duncan? Quali orrori?

 


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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


9

 

Capitolo 9

 

 

 

 

“Sei davvero sicura di non voler vedere?”

La domanda arrivò così, poco prima dell’alba, quando il cielo sembra aver inghiottito tutta la luce dell’universo e le stelle paiono enormi diamanti scintillanti.

Mi volsi a mezzo, le mani poggiate sull’erba soffice poco dietro di me, e scrutai Alec in viso.

Non avevamo parlato molto, durante il nostro turno di guardia, ma era normale per due come noi.

Da un certo punto di vista, ci somigliavamo molto.

Alle parole, preferivamo i fatti. Solo, avevamo due modi diversi di agire.

La sua frase, quindi, mi spiazzò.

Scrutai quel volto adombrato dall’oscurità, la barba incolta che gli cresceva scura sulle gote, nascondendo in parte la cicatrice sulla guancia destra.

Gli occhi, grigio ghiaccio e limpidi come cristallo, lampeggiarono curiosi.

Io allora scrollai le spalle e ammisi: “Vorrei vedere eccome, ma Duncan mi ha chiesto di non curiosare nella tua testa, ed io non lo farò. Ci sono sicuramente dei motivi per cui vuole tenermi all’oscuro di quel che è successo e, anche se non ne comprendo i motivi, è giusto che io gli dia fiducia.”

Alec se ne uscì con un ‘mphf’ divertito ed io lo fissai malissimo, già pronta a rabberciarlo per difendere la mia presa di posizione e quella di Duncan.

Non fu necessario.

Lui disse subito dopo: “E’ encomiabile tanta devozione, davvero. Ti fa onore.”

“Grazie” sospirai, vagamente sorpresa da quel complimento gratuito.

Lui scrollò le spalle, sminuendo così il suo dire. “Credo anche di capire perché il tuo bello vuole tenerti all’oscuro, almeno per un po’. E’ difficile venire a patti con quella parte di sé.”

Mi accigliai leggermente, avendo già subodorato dalle parole smozzicate di Duncan che, effettivamente, qualcosa di grave era avvenuto prima del loro arrivo alla grotta dove ero tenuta prigioniera.

Solo, non capivo fino a che punto.

Alec si mordicchiò pensosamente un’unghia – lo faceva spesso, quando non sapeva come esprimersi – e borbottò: “So cos’ha provato, per questo penso di capirlo.”

“Pensi?”

“Ehi, streghetta, che pretendi? Non sono uno molto empatico, se non l’hai capito!” ghignò lui, mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi.

Io gli sorrisi di rimando, replicando gentilmente: “Con Penny, però, lo sei.”

Lui, a sorpresa, arrossì copiosamente e, sbuffando, distolse lo sguardo dal mio volto per scrutare le oscurità dense come melassa del bosco.

In lontananza, un cervo trotterellò lungo un sentiero fino a raggiungere un piccolo ruscello, a cui si abbeverò.

Non avremmo cacciato per nessun motivo, se non per reale necessità, ma sentirlo bere e ascoltare il battito quieto del suo cuore che batteva mi fece venire l’acquolina in bocca.

Un vero strazio, a volte, avere un lupo dentro di sé che pretendeva un po’ di considerazione su quel genere di cose.

“Anche questo è un argomento off-limits?” gli domandai, curiosa, cercando di non pensare alla mia bestia che graffiava impaziente per uscire allo scoperto.

L’alfa prese in mano un sassolino, che frantumò tra pollice e indice come se niente fosse e, accigliandosi leggermente, ringhiò: “Più o meno.”

Gli avevo già visto quell’espressione sul volto.

L’aveva ogni qual volta pensava a suo padre, all’orco che gli aveva dato la vita per poi rendergliela un inferno.

Mi preoccupai subito e, avvicinatami a lui gatton gattoni, gli sfiorai una spalla con la mano mormorando: “Cos’altro ha fatto, tuo padre?”

Lui si irrigidì subito, forse sorpreso che avessi compreso subito il problema, forse inorridito alla sola idea di parlarne.

La mente era ben sigillata, niente scaturiva dalle sue memorie, e anche l’aura era più che controllata.

Apparentemente, non sembrava essere turbato.

Eppure, il ghiaccio nei suoi occhi fiammeggiava d’ira.

Dalla sua bocca rotolò fuori un’imprecazione prima che riuscisse a dirmi con tono basso, rabbioso: “Quel maledetto non ebbe solo me e Pat. Non siamo… non eravamo i suoi unici figli.”

Sobbalzai per la sorpresa, non aspettandomi di certo una risposta simile e, pian piano, il mio sangue iniziò a raggelare nelle vene.

“Penny è…” gracchiai, incapace di proseguire oltre, troppo inorridita anche solo per lasciar andare a briglia sciolta la mia fantasia.

Alec mi fissò con espressione ironica quanto disgustata e, a mezza voce, ammise: “Sono cresciuto con un bastardo matricolato, streghetta. E’ già tanto che io sia più o meno sano di mente, dopo quello che ho passato e che ho visto.”

“Alec…” tentennai, non sapendo bene cosa dire.

L’alfa reclinò il viso, cercando con lo sguardo un altro sassolino da triturare con le dita e, quando ne trovò uno, si diede da fare per spezzarlo.

Amaramente, ammise: “Aveva un’amante, da cui ebbe una figlia che chiamarono Mary Ellen. Era bionda, con gli occhi azzurri e limpidi.  Aveva una voce bellissima.”

Tremai tutta e Alec, senza dire nulla, mi allungò la mano libera dal sasso. Mi ci aggrappai con forza, come se fossi sul punto di cadere da un dirupo.

“Era più piccola di noi, di me e Pat, intendo. Avevo dieci anni quando lui la ammazzò. Si presentò a casa dell’amante, ubriaco fradicio, e urlò contro di lei cose indicibili. I vicini sentirono tutto ma, sapendo che si trattava del loro Fenrir, si guardarono bene dall’intervenire.” C’era così tanta asprezza, nella sua voce, da poter avvertire sulla pelle il taglio amaro del suo dolore.

Deglutii inutilmente, la bocca rinsecchita dallo strazio.

“Mary Ellen si gettò in mezzo per proteggerla… aveva solo sei anni!” esclamò tormentato Alec, gettando ciò che rimaneva del sassolino per passarsi la mano libera tra i corti capelli, spettinandoli. “Lui la scansò, ma il colpo fu troppo forte e le spezzò di netto il collo. Solo a quel punto si fermò, forse accorgendosi di quel che aveva fatto. Chiamò Freki perché sistemasse ogni cosa e, senza una parola, tornò da noi. Non ci toccò, per una volta.”

“Forse… forse teneva a lei” riuscii a dire, ancora sconvolta da quella notizia.

“Era un mostro ma… chissà…” gracchiò lui, affondando la mano libera nel terriccio con tutta la forza che aveva. I muscoli vibrarono in risposta.

“Per questo, quando vedesti Penny…?”

“Mi ha ricordato la mia sorellina, sì.” Poi, volgendosi a mezzo, lanciò un’occhiata in direzione di Erin e aggiunse, rivolto a lei: “Ed è per questo che sono incazzato con te,… perché non capisco come tu abbia potuto lasciarla così.”

Solo in quel momento mi accorsi che Erin era sveglia e che, evidentemente, aveva ascoltato ogni nostra parola, venendo così a scoprire un altro pezzo dell’intricato puzzle oscuro di cui era composto l’animo di Alec.

Ciò detto, si levò da terra spazzolandosi i jeans e si allontanò nell’oscurità del bosco senza dire nulla, mentre Erin si poggiava su un gomito, lo sguardo perso nella sua direzione.

Non seppi che dire.

Erin mi obbligò a parlare.

“Il capobranco che uccise era suo padre, vero?” si informò lei, fissando con occhi che mi obbligarono a parlare.

“Già. E, da quel poco che hai saputo, non è stato esattamente uno stinco di santo” mi limitai a dire io, preferendo non inoltrarmi su un sentiero pericoloso come il passato di Alec.

Di quel che avevo saputo dei suoi oscuri ricordi, Erin avrebbe dovuto chiedere a lui.

Senza dire nulla, lei sgusciò fuori dal sacco a pelo e rincorse la figura ormai lontana di Alec, lasciandomi sola al campo assieme a Duncan che, ora sveglio a sua volta, mi fissò spiacente.

“Non ha avuto una vita facile” riuscii solo a dire, non sapendo che altro aggiungere.

“Neppure io sapevo della sorellastra” mi confidò Duncan, apparendo sconvolto non meno di me.

Uscì dal sacco a pelo, mi si avvicinò per baciarmi e, sulle mie labbra, mi promise: “Ti mostrerò ogni cosa. Solo, non ora.”

“Te l’ho detto. Posso aspettare” gli rammentai, lanciando un’occhiata in direzione del cielo, che stava schiarendo. “Non è che a lasciarli soli si ammazzano, eh?”

“Alec non lascerebbe mai Penny senza sua madre. E’ l’unica cosa che mi rende tranquillo, a saperli da soli nel bosco” ironizzò Duncan,  scrutando in direzione del punto in cui erano spariti.

“Vero” ammisi a fatica, prima di domandargli: “Nessuno avrebbe potuto fermarlo, Duncan?”

“Nel branco di Alec, intendi?”

Annuii, e lui mi disse: “La parola di Fenrir è legge, lo sai e, per andare contro di lui, bisogna essere o molto coraggiosi, o pazzi. Evidentemente, nonostante le atrocità commesse, nessuno era abbastanza forte per mettersi contro di lui. Tranne Alec.”

“Se penso che aveva solo quattordici anni, quando lo uccise… era solo un ragazzino, eppure gli si è scagliato contro con una forza inaudita” mormorai, ripensando a quello che avevo appena saputo.

“E’ stato forgiato con un maglio più possente di molti altri, e questo lo ha reso duro, coriaceo. Ma ciò che lo spinse al parricidio fu l’amore per la sorella e, oserei dire, anche per la piccola Mary Ellen che non aveva potuto salvare, perché troppo piccolo” ipotizzò Duncan, scuro in viso. “Non ho idea di quanta forza gli sia servita per fare una cosa simile e, anche per questo, lo ammiro.”

“Connor, a suo tempo, non avrebbe potuto intervenire?”

“Oh, non di certo in una questione del genere, in un altro branco!” ironizzò senza allegria Duncan, scuotendo il capo. “Sono faccende che si sistemano all’interno del clan.”
“E Alec, una volta al potere… cosa fece esattamente?”

“Guidò con pugno di ferro. La legge, con lui, venne fatta rispettare alla lettera e non tollerò mai falle nel sistema. Ogni reato contro la persona venne punito più che severamente e, sotto di lui, non si conobbero incidenti degni di tale nome. Da un certo punto di vista, fu un buon governo, ma…”

“Ma mancava di gentilezza. Forse pensava che essere troppo gentili portasse alla debolezza, e la debolezza allo sfascio del sistema” dissi per lui, credendo di non essere andata troppo lontana dalla verità.

Lui annuì, asserendo: “Probabilmente è per questo che, fino ad ora, non siamo mai andati d’accordo. Io sono sempre stato per una linea morbida, e lui riteneva fosse una gran stupidaggine.”

“Avete avuto un’infanzia differente, modi diversi di crescere” gli rammentai, conciliante.

Duncan annuì, amaro.

“Ma abbiamo entrambi deciso di vivere in gabbia. Diverse, te lo concedo, ma erano pur sempre gabbie.”

“Solo per difendere coloro che amavate, pensaci bene” sottolineai io, dandogli un bacio sulla guancia.

“Tu, però, mi hai liberato da quella prigione, in tutti i sensi” mi sorrise Duncan, avvolgendomi nel suo abbraccio caldo e profumato.

Non sapevo se Alec si sarebbe mai liberato dalla sua gabbia, o se sarebbe mai giunto qualcuno per farlo al posto suo ma, almeno per il momento, pareva aver preso la strada giusta per aprire una nuova via nella sua vita.

Speravo solo che nessuno si frapponesse tra lui e quella strada.

***

La foresta si inerpicava rendendo il nostro procedere più lento – pur se molto più veloce di un normale essere umano – e, di tracce dei berserkir, neppure l’ombra.

Non che avessi sperato che, al mio primo giorno tra i boschi, le piste sarebbero magicamente comparse, però, insomma… almeno un indizio!

Il ritorno di Alec ed Erin al campo aveva coinciso con la nostra colazione, svoltasi nel più completo silenzio, pur se abbastanza rilassato.

Erin pareva non aver subito danni e Alec neppure, segno che entrambi avevano tenuto le mani a posto e non se le erano suonate di santa ragione.

Come sempre, Alec guidava la fila ed Erin seguiva, lasciando che io e Duncan chiudessimo il gruppo.

Vuoi per concederci un minimo di intimità, vuoi perché avevamo dalla nostra una maggiore ‘potenza di fuoco’, grazie ai miei doni di wicca, ma tant’era.

Procedevamo di buon passo ma senza lasciarci andare a colpi di testa e, ogni circa quattro ore, ci fermavamo per esaminare la zona limitrofa grazie alla supervisione delle piante.

Non era piacevole fermarsi così spesso e attendere che ogni elemento della natura mi portasse notizia di ciò che lo circondava, ma non potevamo rischiare di essere scoperti quando ancora non sapevamo nulla dei berserkir.

Durante uno dei miei controlli di routine, però, Duncan mi stupì non poco, mandando quasi all’aria la mia concentrazione e l’ansia di trovare il nostro nemico per tempo.

Mi si avvicinò con fare piuttosto languido, poggiandosi contro la pianta che stavo usando da radar doppler.

Gli sorrisi vagamente curiosa e lui si chinò per baciarmi l’incavo del collo, pur sapendo che questo mi avrebbe distratta un po’.

Ridacchiai, lasciandolo fare, e Alec mimò un attacco di vomito mentre Erin rideva sommessamente per la sua reazione.

“Se volete spassarvela per mezz’ora, possiamo dileguarci a qualche miglio di distanza, sapete?” ci suggerì Alec, ghignando come uno scemo di fronte agli occhi gialli e penetranti di Duncan.

Il suo lupo stava marcando il territorio, e la battuta dell’alfa lo aveva fatto un poco infuriare.

In effetti, però, era da un po’ che io e lui non ci accoppiavamo – a casa di Erin, non avevamo combinato nulla – ma non ritenevo che quello fosse il momento adatto per pensare a cose del genere.

Anche se mi mancava, e molto, l’unione fisica e delle auree con il mio compagno.

Dopo quel momento di tensione, Duncan rise in modo molto mascolino della battuta di Alec e si allontanò da me dopo avermi guardata con sguardo bruciante per alcuni attimi, lasciandomi languida e insoddisfatta.

Preso per le spalle l’amico, i due uomini si avviarono per una perlustrazione fuori programma ed io, la mano ancora appoggiata al tronco di larice, li fissai allontanarsi come se fossi stata derubata di un bene preziosissimo.

Erin mi fu accanto in un breve battito di ciglia e, annusando appena l’aria, sorrise compiaciuta e annuì.

“Sei fertile” mormorò soltanto, continuando a sorridere.

“Come?” esalai, sobbalzando.

Lei arrossì un poco, ma continuò dicendo: “Di certo saprai che esiste un periodo, ogni mese, in cui i livelli ormonali sono ottimali per rimanere gravide.”

“Ah… sì” assentii, avvampando in viso.

“Evidentemente, l’astinenza forzata di queste settimane ha acuito i sensi di Duncan, portandolo a percepire questo particolare stadio femminile” mi spiegò lei, dandomi una pacca sulla spalla con fare molto materno.

“Ma ha detto… insomma…”

Erin comprese al volo ciò che non avevo il coraggio di dire, e scosse il capo immediatamente, come per smentirmi. “No, non significa necessariamente che lui voglia concepire un figlio, Brie. E’ il lupo che cerca la sua compagna. E lui sì che può cercarlo, un cucciolo, ma non ha il predominio sulla mente umana del licantropo, così, beh… è un po’ frustrato, il poverino.”

Oh. Non avevo idea che potesse succedere ma… beh, sì, se si pensa come un lupo, allora…” tentennai, avendo ancora le idee confuse. E gli ormoni in subbuglio.

Benedetta lupa dei miei stivali!

“Anche la tua lupa vuole accoppiarsi, vero?” ipotizzò Erin, sorridendomi.

“Già. Ed io che pensavo che solo la luna potesse darmi dei grattacapi” brontolai tra me, prima di chiederle: “Però, perché fino ad ora non è mai capitato?”

“Puro caso. Inoltre, a parte il periodo in cui siete stati forzatamente lontani per l’università, tu e lui non vi siete mai… risparmiati, vero?”

“Ah… no. Per niente” ammisi senza remore, sogghignando.

Erin rise con me e aggiunse: “Quando vi siete trovati dopo ogni periodo passato all’università, vi siete uniti senza problemi, giusto?”

“Sì, non ho mai notato reazioni di questo genere, prima.”

“Allora, è sempre capitato in un periodo non fertile, altrimenti lo avresti sicuramente notato” mi confermò Erin, sorridendo divertita.

“Perché non mi avrebbe scollato dal letto neppure sotto tortura?” ipotizzai io, deliziata mio malgrado dall’idea.

“Qualcosa del genere” ammise Erin, cercando di non scoppiare a ridere.

Questo mi fece venire in mente un’altra cosa e, dubbiosa, mi morsi un labbro, indecisa se chiederlo o meno.

Come sempre, la mia faccia da poker da quattro soldi parlò per me.

Erin sorrise con aria malinconica, a quel punto e, stringendo le braccia sotto i seni, mormorò: “Fare l’amore con Marcus era dolce, piacevole. L’amicizia che ci univa, l’affetto reciproco… l’amore che lui sentiva per me, tutto lo rendeva bello. Ma sapevo che, almeno nel mio cuore, mancava qualcosa. Non mi cercò mai quando sapeva che ero fertile.”

“Non volevate altri figli?”

Rise senza allegria, e mi confessò: “Marcus sapeva che era troppo presto, per me. Che il ricordo di Sam mi tormentava ancora. Forse, più avanti, avremmo tentato, ma ora questo non accadrà mai ed io… io…”

Le lacrime giunsero silenziose, simili a perle salate sparse sul suo volto chiaro ed io, senza dire nulla, le detersi con un fazzoletto.

“Anche questo è equilibrio, Fenrir? Tutto questo dolore perpetrato nel tempo?” domandai, pur non essendo del tutto sicura che mi avrebbe risposto.

Il dolore ci rammenta che siamo vivi, Brie.

“Non sono Demi Moore in Soldato Janebrontolai contrariata.

Ma il discorso regge, e lei è carina.

Quell’uscita mi fece scoppiare a ridere di gusto, pur sapendo che era davvero fuori luogo ed Erin, fissandomi debitamente confusa, mi chiese spiegazioni in merito.

Quand’anche lei venne a conoscenza dei motivi del mio riso incontrollato, si mise a sua volta a ridere e fu così che Alec e Duncan ci trovarono.

Sedute scompostamente a terra, le lacrime agli occhi per il gran ridere ed il cuore percorso da sentimenti forti e contrastanti, li scrutammo senza sapere cosa dire, come spiegarci.

Perché a volte bisogna ridere, dopo aver pianto.

E perché, sì, il dolore ci dice che siamo vivi, ma ridere ci dice che stiamo vivendo, non sopravvivendo.

 

 

 

 

_____________________________

N.d.A: Ed ecco spiegato lo strano rapporto di Alec e Penny. La somiglianza con la sorellina Mary Ellen lo ha scombussolato, all’inizio, e l’ha spinto a difenderla strenuamente, in seguito. Il buon Alec ha un gran cuore… ricoperto di carta vetrata, ma ce l’ha. :)

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


2

 

Capitolo 10

 

 

 

 

A volte pensi che la tecnologia sia importante, che senza determinati strumenti la vita sia più complicata, meno comoda o sopportabile.

In altri casi, invece, vorresti vivere all'età della pietra.

Io imparai che, alcune volte, il cellulare non è il migliore amico dell'uomo come molti invece credono.

Seduta scompostamente su un masso mentre, sgomenta e infelice, osservavo l'enorme dirupo che si estendeva dinanzi a noi come una bocca zannuta pronta a divorarci, imprecavo contro il mondo e le sue ingiustizie.

Non meno allegri erano i miei compagni che, chi seduto a terra, chi in piedi a pestare l'erba smossa, osservavano la voragine come desiderando di poterla cancellare col solo pensiero.

Il problema delle cartine è proprio quello: se non sono topografiche, non riportano i dirupi.

Nella fretta, nessuno di noi aveva pensato a questo inghippo, ed ora ne pagavamo le conseguenze.

Siamo tutti lupi mannari, dotati di enorme forza e potere... cosa può mai fermarci?

Un buco grande quanto le cascate del Niagara, per esempio.

Rocce a strapiombo lisce come palle da bigliardo, per fare un altro esempio.

“Scalarla ci porterà via un sacco di tempo” ringhiò Alec, scrutando dal bordo del burrone il salto di oltre mezzo miglio che ci divideva dallo stretto torrente che scivolava a fondovalle.

Il fatto che il panorama fosse da mozzare il fiato non ci ripagava di quella perdita di tempo e, di sicuro, non mi sarei messa a fare commenti sul bel paesaggio, pur avendone voglia.

Mi avrebbero di sicuro fatto osservazione, o peggio.

No, meglio tacere.

“Circumnavigarla sarebbe peggio... la depressione è lunga miglia e miglia” sbuffò a sua volta Erin, guardando a destra e a manca con aria disgustata le mani poggiate sui fianchi snelli.

“Non possiamo farci niente. E' qui, e qui rimane. Dobbiamo farcela andar bene, ecco tutto” mormorò abbattuto Duncan, levandosi in piedi per raggiungere Alec sul ciglio del burrone.

“Sai cosa vuol dire infilare gli artigli in questa roccia, sapientone?” ringhiò l'alfa di Bradford, guardando il mio compagno con aria schifata e infastidita al tempo stesso.

“Tendenzialmente non faccio free climbing, Alec e, di sicuro, non utilizzando gli artigli” precisò Duncan, sbuffando nel passarsi una mano tra i corti capelli neri.

Non mi aveva detto il perché di quel taglio netto, poco prima di partire per Belfast, ma gli stavano molto bene.

Forse, voleva semplicemente cambiare look, o si era stancato di curare quelle meravigliose onde corvine che si ritrovava.

A me, in ogni caso, andava bene comunque.

Lo squillo del mio cellulare ci sorprese tutti. E chi lo sapeva che, nel bel mezzo del nulla, c’era segnale?

Confusa, lo afferrai in fretta e, non appena mi accorsi che era Elspeth a chiamare, mi accigliai.

“Ehi, compare, ciao!” esclamai, sperando che la misera tacca del mio iPhone3 bastasse a reggere la chiamata.

La voce arrivò spezzettata e graffiante come un disco rotto, ma riuscii a captare qualcosa di quel che cercò di dirmi.

Pericolo. Vuoto. Lupi. Sangue.

Nessuna di quelle parole mi piacque e, quando la telefonata crollò come un castello di carte sospinto dal vento, imprecai nel balzare in piedi dalla pietra dove mi ero seduta, sperando di poter ritrovare il segnale.

Tentai inutilmente di ritrovare un misero bargiglio dell’onda che aveva permesso a Ellie di trovarmi nel bel mezzo della foresta norvegese, ma non vi riuscii.

Quando infine, sconfitta, comunicai quel che ero riuscita a capire di quella telefonata smozzicata, nessuno espresse gioia per il messaggio.

Era chiaro che stava per succedere qualcosa, e che qualcuno si sarebbe fatto male.

Subito, Alec prese Erin per un braccio e, fissandola a pochi pollici dal volto, le intimò: “Tu non ti schiodi dal mio fianco, è chiaro?!”

Lei si limitò ad annuire, non volendo di certo incorrere nelle sue ire, ed io fui più che d'accordo con la donna.

Quando Alec era in fase 'maschio dominante incazzato', era meglio lasciarlo stare e, soprattutto, lasciarlo fare.

Si era preso l’impegno di difendere Erin come favore personale a Penny e, di sicuro, non sarebbe venuto meno alla sua parola.

Inoltre, avevo una mezza idea che non lo facesse solo per la bambina.

Duncan afferrò lesto il suo zaino e, guardandomi accigliato, disse perentorio: “Torniamo nel bosco. Devi poter controllare con l'ausilio delle piante.”

Annuii in fretta e mi incamminai assieme a loro per tornare sui nostri passi, il problema dirupo temporaneamente lasciato in secondo piano.

Avrei potuto informarmi anche tramite l'erba, ma non sarebbe stato altrettanto semplice. Era come tentare di parlare con un'ameba. Le piante erano dotate di un’intelligenza più sviluppata, perciò erano dei conduttori di informazioni decisamente migliori.

Senza perdere tempo mi aggrappai alla prima pianta utile e, affondando in lei in tutta fretta, mi collegai alla sua rete di radici che, tramite il terreno, era in contatto con tutta la flora della zona.

Ansai terrorizzata quando scorsi, a meno di sei miglia da noi, qualcosa come una ventina di licantropi in forma umana e, scostandomi dalla pianta col viso terreo, esalai: “Ci hanno trovati!”

“Ma come cazzo hanno fatto?!” sbottò senza troppi complimenti Alec.

A onor del vero, non ne avevo la più pallida idea.

Avevamo continuato a indossare per giorni gli abiti impregnati dell'odore degli umani che avevano viaggiato con noi, rendendoci praticamente invisibili all'olfatto.

I nostri bisogni corporali erano stati espletati sempre in presenza di acqua, perché ne cancellasse le tracce odorose e fisiche. Le cartine delle barrette energetiche erano state tenute tutte, per non lasciare nulla nel bosco.

Come erano riusciti a localizzarci in quell'immensità senza fine, e così presto?

“Ce lo chiederemo dopo. Ora è il caso di darcela a gambe, e alla svelta” sentenziò Duncan, prendendomi per mano per poi iniziare a correre a spron battuto per il bosco.

Allo stesso modo fece Alec, che non mollò mai la presa da Erin, che appariva pallida come un cencio e preoccupata fino al midollo.

La mia mente galoppava alla stessa velocità dei miei piedi, che divoravano il terreno sotto di loro.

Davvero non comprendevo come avessero potuto rintracciarci, quando avevamo fatto praticamente di tutto per renderci irriconoscibili.

Sapevo per conoscenza diretta che, in quelle foreste, si trovavano altri escursionisti umani, perciò come potevano sapere chi cercare?

Cosa li aveva guidati fino a noi?

Non ebbi il tempo di protrarre oltre le mie domande.

Dopo meno di due miglia di corsa sfrenata nei pressi del ciglio del burrone – per avere almeno un lato riparato da eventuali attacchi – ci furono addosso.

Fu un'autentica fiumana di corpi quella che ci colpì con violenza, abbattendosi su di noi con zanne e artigli in bella mostra.

Da lì in poi, fu il caos.

Non ebbi materialmente il tempo di controllare come stessero i miei compagni, perché mi ritrovai a dover lottare per la mia vita di fronte a un branco di lupi mannari pronti a tutto pur di eliminarci.

Eravamo stati avvertiti. Saremmo stati attaccati, se ci avessero trovato su suolo norvegese. Non ci avrebbero lasciato scampo alcuno.

Eravamo in torto marcio, lo sapevamo, ma non potevamo recedere dalle nostre posizioni.

Dovevamo trovare i berserkir a qualunque costo.

Mutai parzialmente zanne e artigli per averli a disposizione nella lotta e, con la coda dell'occhio, cercai di individuare le figure degli altri in mezzo a quel parapiglia senza senso.

Duncan stava lottando egregiamente contro tre licantropi, mentre Alec si stava impegnando con tutto se stesso per togliere di mezzo quanti più mannari possibili, senza peraltro ucciderli.

D’accordo difendersi ma, se si poteva evitare l’incidente diplomatico, era meglio.

Erin, dal canto suo, era piuttosto in gamba, nonostante fosse la più debole tra noi quattro.

Alec, comunque, non la perdeva di vista un attimo.

Era su di lei ogni volta che un licantropo le si avvicinava troppo e, con la forza bruta che lo contraddistingueva, menava colpi che spezzavano le ossa dei nemici con estrema facilità.

In quello, l'alfa di Bradford era un campione.

Cercai di non essere da meno e, quando il combattimento me lo permise, usai anche i miei doni di wicca per rispedire al mittente le auree minacciose dei lupi.

Quel che però mi mandò il cervello in pappa fu l'urlo lacerante di Erin, e il successivo rantolo di Alec.

In mezzo a quella confusione di corpi, non ero riuscita a comprendere bene come combattessero i nostri nemici, troppo impegnata a schivare i colpi diretti verso di me.

Quando però mi volsi per capire cosa fosse successo, inorridii non appena scorsi Alec a terra, sanguinante,… e lunghi artigli d'argento sulla mano del suo assalitore.

Se quello non era giocare sporco...

Mi mossi per andare ad aiutarlo ma venni bloccata sul nascere da una muraglia di licantropi, che si frappose tra me e il mio compagno di ventura.

Duncan cercò di aiutarmi, ma neppure lui fu in grado di muoversi ed Erin, troppo scioccata per fare alcunché, venne presto circondata da non meno di tre lupi.

Non vedevo soluzioni, se non scatenare l'intera foresta contro di loro.

Rischi di far crollare l'intero zoccolo di roccia che regge questa parte di foresta, se muovi le piante!

Sapere questo da Fenrir non mi aiutò di certo, visto che già mentre lo pensavo mi aveva preso questo dubbio.

“Non posso non fare nulla! Ci ammazzeranno tutti, se non intervengo!”

Lasciami agire in tua vece. Ti prometto che non prenderò il sopravvento mai più, ma permettimi di aiutarvi!

Sapevo cosa mi stava chiedendo. E ne conoscevo anche i rischi.

Permettere a Fenrir di emergere e agire al posto mio significava dargli il mio corpo, le mie braccia le mie gambe, tutto di me, perché ne facesse quel che voleva.

Il mio libero arbitrio sarebbe stato messo in secondo piano per essere soppiantato dal suo e, anche se mi fidavo di lui, una parte di me mi gridava di non farlo.

Dopotutto, quale conoscenza avevo, io, di Fenrir? Ci parlavamo solo da alcune settimane, non di più.

E lui era un dio. Che ne potevo sapere di come pensava un dio?

Ma lì c'erano in ballo le vite dei miei amici, la mia, e non potevo cincischiare. Dovevo agire. O lasciar agire.

Perciò annuii, mi feci da parte, e l'onda arrivò.

Se avevo mai anche solo pensato di aver conosciuto il potere, dovetti ricredermi.

Lasciato libero da freni inibitori, costituiti dalla mia coscienza, dal mio libero pensiero, lo spirito di Fenrir eruppe come lava da un vulcano e il mio corpo seguì quell'esplosione, mutando.

Le mie ossa si spezzarono, ricomponendosi in qualcosa che nessuno, per millenni, aveva più visto, o osato vedere.

Quel che si ricompose dinanzi agli increduli licantropi norvegesi fu colui che aveva dato origine alla nostra razza, al capostipite della specie, al dio della devastazione e della fine di tutti i mondi conosciuti.

Fenrir.

Un paio di piante vennero abbattute dal suo corpo immane – alto più di tre metri alla spalla, era piuttosto ingombrante – e, quando snudò le zanne per ringhiare, il suo rombo si percepì per miglia e miglia, fragoroso come un tuono.

Riuscii ad avvertire tutto questo da un punto isolato della mente di Fenrir, che ora guidava i giochi, per così dire, e mi sentivo piccola e misera, in quell'angolino sperduto.

Era così che si sentiva lui, quand'ero io al comando della nave?

Se stavano così le cose, mi spiacque per lui.

I licantropi che ci avevano attaccato, sapendo bene chi fosse comparso in quella foresta – pur non credendo ai loro occhi – smisero immediatamente di combattere.

L’istinto di sopravvivenza doveva essersi innescato nonostante gli ordini ricevuti, il che fu davvero un bene, per noi.

Erin e Duncan furono lesti ad approfittarne e si gettarono sul corpo martoriato di Alec per tamponare la sua ferita al ventre, che sanguinava come una fontana zampillante.

Quella vista fece infuriare Fenrir che, con voce stentorea, urlò: “E' così che vi ho insegnato a combattere? E' così che i miei figli lottano? Con l'inganno?!”

Tremai di paura al suono di quel rombo ancestrale, a quella voce che nulla aveva di umano, ma tanto aveva di divino e, come tanti ramoscelli secchi, i licantropi sottoposti al suo rimbrotto crollarono a terra tremanti.

“Chi vi ha ordinato questo scempio?! Chi ha guidato la vostra mano?!”

Nessuno osò parlare, tanta era la paura che provavano, e Fenrir non vide altro modo per ottenere informazioni se non usare la Voce.

Peccato che, usata da lui, ebbe ben altro effetto che utilizzata da un qualsiasi altro capobranco fin lì conosciuto.

Quando Fenrir ordinò loro di parlare questi, semplicemente, cantarono.

Non letteralmente, ma raccontarono tutto ciò che venne loro in mente, senza lesinare su nessun particolare e, se da una parte questo mi fece impazzire di noia, dall'altro mi mise al corrente di un particolare non da poco.

Erano stati avvisati da un Fenrir inglese e messi sulle nostre tracce grazie a... già, grazie al segnale della SIM card del mio iPhone3.

Maledetto lui!

E chi se lo sarebbe immaginato che qualcuno ci stava controllando così attentamente?!

Non seppero dire il nome del delatore, ma assicurarono che il loro capobranco ne era al corrente.

Non contento, Fenrir ordinò loro di preparare una lettiga per Alec e di portarlo al loro branco perché venisse curato e, mentre Duncan ed Erin misero mano al kit del pronto soccorso, io rimasi a scrutare l'intera scena senza poter fare nulla.

E' così che vedi le cose, di solito?, domandai a Fenrir, sentendomi strana in quella particolare condizione di subordinata nella mia stessa testa.

“Precisamente.”

E non stai stretto?

“Eccome! Ma che altro dovrei fare?” ironizzò Fenrir, ringhiando leggermente in direzione dei licantropi norvegesi perché si dessero una mossa. Erin e Duncan erano già più che impegnati a fasciare strettamente il ventre sanguinante di Alec che, stoicamente, stava sopportando il tutto in silenzio.

L’unico indizio della sua sofferenza era il pallore spettrale del suo viso, che mi fece temere per lui come mai prima.

Sopravvivrà?, chiesi preoccupata.

“Dobbiamo eliminare l'argento dal suo sangue nelle prossime due ore, se non vogliamo che gli blocchi il cuore. Quelle maledette armi sono impregnate di ioduro d’argento, e fanno un sacco di danni. Nel frattempo, sfrutterò per un po' il tuo potere di wicca per tenere a bada gli effetti dell'avvelenamento. Ti spiace?”

Fai tutto quello che devi.

“Ti fidi a lasciarmi ancora un po' il tuo corpo? Vorrei dire due paroline al capobranco di questi ragazzi.”

Non vedo l'ora di assistere, ironizzai.

Se lui se ne stava tutti i santi giorni in quell'angolino del mio cervello, io potevo rimanerci per qualche ora ancora. Anche se era una faticaccia!

La lettiga fu pronta nel giro di una quindicina di minuti e, mentre gli effluvi del mio potere di wicca venivano emanati dal corpo enorme e candido di Fenrir, il nostro strano gruppo eterogeneo si mosse nel bosco per avviarsi verso il branco nemico.

Naturalmente, la stazza imponente di Fenrir lasciò qualche strascico lungo il suo percorso ma, a sorpresa, gli alberi e il terreno reagirono in maniera davvero strana al suo passaggio.

Le orme create dalle sue zampe svanirono nel giro di pochi secondi e le piante si raddrizzarono subito dopo il suo passaggio, come se lui non si fosse mai trovato lì. Un vero mistero.

“Come pensi potessi muovermi per il mondo, quando ancora camminavo con il mio corpo?” ridacchiò Fenrir, divertito dalla mia sorpresa.

Giusto. Avrebbero scoperto tutti dove ti trovavi, altrimenti. Altri trucchetti altrettanto carini, a parte quello della fine del mondo?

“Ne ho giusto un paio, ma non vorrei rovinarti la sorpresa.”

Sbuffai, ma lasciai correre. Dopotutto, quando mai gli sarebbe ricapitata l'occasione per sgranchirsi le gambe?

“Ehi, lì dentro, tutto bene?”

La voce di Duncan mi sorprese, perciò impiegai un attimo prima di rammentare che, a tutti gli effetti, lui poteva sentire la voce di Fenrir nella mia testa e, a conti fatti, ora poteva fare la stessa cosa con me.

Tutto regolare. Sto un po' stretta, ma sto bene. Erin è okay? E Alec? Regge?

“Stiamo più o meno bene, anche se Erin pare particolarmente scossa. Alec è una roccia e, da quel che mi pare di capire, Fenrir sta usando i tuoi poteri di wicca per mantenerlo stabile.”

Già. Torno utile anche quando non ci sono.

“Mi manchi, anche se so che sei lì dentro...”

Idem, mormorai, prima di chiedergli: Che effetto fa, visivamente?

“Pensavo che la mia livrea fosse bianca e perfetta ma, a dire il vero, non ne sono più tanto sicuro” ammise Duncan, ridacchiando.

In che senso? La tua livrea è splendida.

“Quella di Fenrir è di un bianco cangiante, come se contenesse tutti i colori dell'arcobaleno. Quando il sole la sfiora, è meravigliosa. Come la neve. Non ci sono parole sufficienti per descriverla.”

C'era una profonda commozione, nelle sue parole e, sì, un timore reverenziale che non gli avevo mai sentito usare.

Doveva essere strepitoso trovarsi faccia a faccia con il capostipite della razza.

E questo fece sorgere in me un dubbio che, fino a quel momento, mi ero sempre dimenticata di mettere a parole. Erano state troppe le cose a cui avevo dovuto pensare, per potermi concedere anche il lusso di quella semplice curiosità.

Ma visto che, al momento, non avevo nulla da fare...

Fenrir, perché la tua livrea è bianca mentre, nel mito, viene identificata come nera?

“Mi chiedevo quanto tempo avresti impiegato per chiedermelo” rise lui, rammentandomi che le mie peregrinazioni mentali venivano captate più che bene dal suo subconscio.

Ebbene?

“Quando venni ferito a morte da mio padre, il mio sangue scivolò su di me, tingendo il mio pelo. Avendo sangue nero di titanessa che mi scorre nelle vene, il mio manto divenne del colore della notte. Quando i primi uomini trovarono il mio corpo, mi videro nero come le ali di corvo, legato a due rocce e con la spada conficcata tra le fauci perché non facessi del male a nessuno. Loki, giusto per instillare la paura del mio stesso nome, disse loro che non avrei dovuto essere liberato, pena la fine del mondo, e loro lo fecero. Sigillarono la grotta con me all'interno, non sapendo quanto inutile fosse quel gesto. La mia anima era già tornata alla Madre e Loki attendeva paziente il mio ritorno.”

Quindi, fu solo per il tuo sangue.

“Esatto. Un tipico rasoio di Occam.”

A parità di fattori, la soluzione più semplice tende a essere quella giusta. Grazie, è il mio principio preferito. Io già pensavo a chissà che cosa!, risi nonostante tutto, e cominciai a rilassarmi in quel mio angolino personale e morbido.

“Non addormentarti, mi raccomando.”

Perché?

“Perché non saprei come raggiungerti. L'anima non dorme mai, perciò io non ho problemi a rimanere sveglio, ma con te è un po' diverso. Non dormire.”

Com'è che queste cose vengo a saperle tutte dopo?, brontolai, rabbrividendo al pensiero di rimanere imprigionata nella mia testa per tutta la vita.

“Lì per lì non ci ho pensato, scusa. E' un problema che io non ho, per cui...”

D'accordo, d'accordo. Scuse accordate. Ora, però, muovete il passo. Non mi piace il pallore di Alec, e tu non riesci a usare i doni delle wiccan come potrei fare io, e lui non può stare per sempre con quel buco nella pancia. Devo poterlo curare come si deve.

“Arriveremo in tempo, tranquilla.”

Lo sperai davvero, con tutto il cuore.

***

Naturalmente, l'arrivo di Fenrir all'interno del Vigrond del branco di licantropi che ci aveva attaccato suscitò sgomento, sorpresa e infinito clamore.

Il capobranco si dichiarò immensamente dispiaciuto per ciò che era accaduto, e si premurò di far chiamare un dottore per Alec mentre Fenrir chiedeva spiegazioni in merito a quell'attacco.

Duncan ed Erin rimasero per tutto il tempo accanto alla lettiga di Alec, che entrava e usciva da una specie di semi incoscienza, dovuta sicuramente al dolore e al veleno che aveva in circolo.

Io premevo, scalpitavo per uscire, il mio istinto di wicca che mi diceva di correre ad aiutare il mio amico ferito, ma Fenrir non aveva ancora terminato con la sua reprimenda.

Volle sapere il perché dell'uso di armi così infide come gli artigli d'argento – solitamente usate dai Cacciatori – e, quando in risposta ricevette solo borbottii confusi e scuse, si dichiarò disgustato della sua stessa progenie.

Non potei che essere d'accordo.

Le armi ad argento erano aggeggi da codardi e, a parte Geri che ne poteva fare uso per il suo compito di cacciatore, a nessun altro mannaro era concesso un simile permesso.

Il fatto che loro ci avessero attaccato a quel modo non deponeva certo a loro favore, e questo Fenrir glielo fece notare.

Quando infine decise di lasciarmi campo libero, li minacciò che sarebbe tornato immediatamente, se fosse successo qualcosa a uno soltanto di noi.

Detto ciò, il suo potere dirompente tornò a micronizzarsi per ritrovare spazio nell'esiguo involucro rappresentato dal mio corpo ed io, con un rantolo spezzato, crollai a terra nel bel mezzo del Vigrond.

Nuovamente donna, nuovamente me.

Duncan fu lesto a passarmi la cerata per coprirmi – immaginava senza troppa fatica quanto volessi prendermi subito cura di Alec – ed io, dopo averla indossata in gran fretta, corsi dal nostro compagno e mormorai: “Ehi, lupastro... ma che mi combini?”

“S-streghetta. Sei di nuovo tu?” ironizzò lui fissandomi con occhi opachi, poco presenti.

Io annuii, gli occhi di tutti puntati su di me ed il mormorio confuso delle persone che ci circondavano a fare da cornice a quella situazione davvero paradossale.

Che si aspettavano di vedere? Un colosso alla Dwayne Johnson? Beh, peggio per loro.

“Vedrai che ora sistemerò tutto” gli promisi, poggiando le mani sul suo ventre ricoperto di bende sporche di sangue.

“Sempre... a fare... l'eroina...” biascicò lui, cercando di ironizzare.

“Se non erro, sei tu che hai fatto da centravanti di sfondamento per proteggere Erin” precisai io strizzando l'occhio alla donna, che accennò appena un sorriso.

Sembrava sul punto di spezzarsi ma, paradossalmente, mi faceva quasi più paura di Duncan. Avevo il dubbio che, se qualcuno avesse tentato di avvicinarsi ad Alec con cattive intenzioni, lei lo avrebbe divorato senza tanti complimenti.

Alec sbuffò, replicando a fatica: “L'avevo promesso... a Penny.”

“Che cosa?!” esalò Erin, sgomenta, fissandolo a occhi sgranati.

Ahia, lei non lo sapeva!

Una cosa, negli avvelenamenti da argento, l'avevo imparata anch'io. Ti fa parlare. E parlare. E parlare.

Anche a sproposito.

Non mi sarei arrischiata a dire tutto a Elspeth se non avessi avuto la mente ottenebrata dal veleno e, molto probabilmente, Alec non avrebbe spifferato quel segreto se non si fosse trovato in posizione di svantaggio.

Non sapendo bene se sentirsi offesa o grata, Erin decise di optare per una via di mezzo e, accigliata, fissò l'uomo dicendogli: “Non hai pensato che, forse, anche la tua vita era importante? Sei Fenrir di un branco e, da quel che so, non è ancora nato il tuo successore. Vuoi lasciarli soli dopo tutto quello che hai fatto per rendere sicuro il tuo clan?”

Alec si accigliò ma non rispose alla sua accusa ed io, troppo impegnata a risanare il suo sangue per badare a quelle scaramucce, accolsi con favore l'arrivo del dottore, che si inginocchiò al nostro fianco con aria aggrottata.

Rimosse lesto le bende sporche e guardò preoccupato la brutta ferita. Erin semplicemente risucchiò l'aria nei polmoni con il rischio di andare in iperventilazione ed io, a occhi sgranati, esalai: “Per. La. Puttana.”

Quegli artigli avevano fatto un sacco di danni e, pur con tutta la mia buona volontà e l'abilità di ricucire del dottore, Alec sarebbe stato fuori gioco per un po'.

“Lo rimetta in sesto. Subito” sottolineò torvo Duncan, fissando il medico con un diavolo per capello. Fino a quel momento, aveva tenuto la mano di Alec, trasmettendogli la sua energia vitale.

Il dottore annuì in fretta ed io, dopo aver lanciato un'occhiata significativa a Duncan, mormorai: “Lascialo andare. Ora faccio sul serio. Anche tu, Erin.”

Non volevo che tutti noi rimanessimo senza forze quando ancora non avevamo ben chiara tutta la situazione e, visto che eravamo potenzialmente in territorio nemico, meglio non correre rischi.

Certo, Fenrir aveva minacciato di tornare se le cose avessero preso una brutta piega, ma non si poteva mai sapere. Un proiettile ad argento era più veloce di una mutazione da uomo a lupo.

Immaginando i motivi della mia richiesta, sia Duncan che Erin si allontanarono da Alec mentre il dottore ricuciva con abilità ciò che gli artigli avevano distrutto.

Il fatto che io tenessi sotto controllo il flusso sanguigno gli era sicuramente d'aiuto.

Sentendomi pronta, aumentai la dose di energia prelevata dalla flora circostante e la quercia del Vigrond, ben disposta, mi cedette gran parte della sua.

“Grazie” mormorai a mezza voce, rivolgendo un sorriso alla pianta.

“Oooh... wow... cos'è?” esalò Alec, sgranando gli occhi ancora piuttosto persi e vuoti. Sembrava reduce da una sbronza colossale.

“L'energia della Madre... la sto riversando dentro di te per compensare il sangue perso e per eliminare l'avvelenamento da argento. E il nostro bravo medico ti sta ricucendo per benino” gli spiegai, sorridendo a mezzo al dottore che, con autentico timore reverenziale, assentì velocemente.

Oh. A quanto pareva, le voci circolavano alla svelta.

Impiegammo più o meno mezz'ora a completare il duplice lavoro di rammendo e di pulizia del sangue e, quando Alec fu dichiarato fuori pericolo, mi concessi il lusso di rimettermi in piedi per fissare tutti i lupi che ci circondavano curiosi.

Certo, non ero molto credibile con quella cerata addosso, ma tutti i presenti avevano visto chi si era presentato al Vigrond prima della sua scomparsa, perciò sapevano chi era la mia anima. Cosa ero io.

Una bomba a orologeria nel bel mezzo del loro Luogo di Potere. La portatrice del capostipite della razza. Colei che deteneva le chiavi del Ragnarök.

Una bella gatta da pelare, senza dubbio, perciò dubitavo avrebbero fatto i furbi.

Ad ogni buon conto, mi avvicinai a Duncan per stringergli la mano e, torva, ringhiai: “Bene, e ora vediamo di capire perché cazzo ci avete attaccato a quel modo!”

Ehi, mai detto di essere più simpatica di Alec, quando mi girano le scatole!

 

 

 

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N.d.A: Un po' di movimento ci voleva... giusto per introdurre l'ennesimo elemento disturbante di questo viaggio.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


3

Capitolo 11

 

 

 

 

 

Skjolden era come ogni bravo paese immerso nei fiordi dovrebbe essere.

Bellissimo, circondato da alte mura granitiche, sfiorato da uno dei tanti bracci di mare che si incuneavano all’interno del territorio norvegese per formare quelle splendide insenature tanto famose nel mondo.

Dopo aver chiesto spiegazioni in merito a ciò che era successo nella foresta, Fenrir di Skjolden ci aveva pregati di seguirlo nel centro nevralgico del suo territorio, lo sguardo confuso non meno del nostro.

Possibile che non sapesse esattamente cosa fosse accaduto lì?

Con una jeep, Alec venne trasportato fino alla villa padronale dove risiedeva Steffen Dahl, Fenrir del branco che ci aveva attaccati nel bosco. Noi seguimmo il resto dei lupi a piedi, non avendo subito ferite così gravi da costringerci a usare un mezzo a quattro ruote per spostarci.

Per tutto il tempo, però, vigilammo attentamente sui nostri simili, ma nulla ci fece pensare a una trappola.

Semplicemente, pareva che l’avvento di Fenrir nel loro Vigrond avesse spazzato via ogni animosità dalla loro mente.

Che tutto ciò fosse possibile?

Ho il sospetto che possa effettivamente essere accaduto questo, al Vigrond, intervenne Fenrir, dopo diverse ore di silenzio.

“Vuoi dire che Loki li ha condizionati? Tutti?!” esalai, sgomenta.

Com’era possibile che il suo potere illusorio potesse spingersi così in là, potesse colpire così su larga scala?

Esistono dei comandi vocali anche per i Fenrir, mia cara, pur se questa conoscenza è solo ed esclusivamente nelle mani degli dèi,  mi mise a conoscenza Fenrir, sorprendendomi non poco.

“E tutto ciò perché?”

Per evitare che creature così potenti potessero distruggere ogni cosa, spinte dalla sete di potere. Ma quasi tutti gli dèi abbandonarono il mondo mortale, nel corso dei secoli, e così non rimase più nessuno a controllare il loro operato. Ed io non potevo tornare perché stavo proteggendo Avya e i miei figli da Loki.

“Però non mi sembra che i capibranco abbiano combinato guai, anche da soli…”

Perché l’uomo, nel frattempo, è diventato potente… e molto, molto più numeroso rispetto ai miei figli. Intraprendere una guerra contro gli umani sarebbe stato controproducente, e quei pochi che tentarono vennero annientati. Il resto lo conosci, Duncan te ne parlò ampiamente quando vi conosceste.

“Sì, rammento. Quindi, c’è un pulsante OFF anche per i Fenrir. Fico. E Alec e Duncan lo sanno?” mi informai, non sapendo bene se informarli o meno circa questa scoperta.

Nessun Fenrir ne è a conoscenza, bambina, o davvero non dormirebbero sonni tranquilli, ironizzò il dio dentro la mia testa, portandomi a sorridere.

“Quindi, tu ipotizzi che Loki abbia premuto questo stato su tutti i Fenrir norvegesi?”

No, mia cara. Sarebbe bastato un solo Fenrir. Può funzionare come una catena di Sant’Antonio. Molto più rapida e altrettanto efficace. Lui non avrebbe dovuto girare in lungo e in largo per la Norvegia per pararsi le spalle, e i Fenrir avrebbero fatto il suo lavoro sporco senza neppure accorgersene.

“E, da lupo mannaro, ha potuto parlare indisturbato a uno qualsiasi dei clan senza smascherarsi, evitando così di mettere in allarme i sensi di Bev ed Elspeth. Geniale” mugugnai, avendo ormai le tasche piene dei mille e più trucchetti congegnati da Loki. Se avessi potuto averlo sotto mano, lo avrei ammazzato più che volentieri.

Mi spiace dirlo, ma ha coperto bene le sue tracce. E ancora dobbiamo scoprire chi ha dato il tuo numero di cellulare ai clan norvegesi.

“Punterei su Sebastian, giusto per ricollegarmi a quel che è successo al suo neutro anche perché, se non fosse lui e ci fosse un’altra talpa tra i lupi inglesi, potrei impazzire.”

Allora preghiamo che sia lui l’unico coltello dal quale doverci difendere nell’ombra.

“Quanto siamo poetici!” ridacchiai, trovando quel lato di Fenrir davvero inconsueto. Non era la prima volta che se ne usciva con frasi simili e, la prima volta che mi era capitato, mi aveva stupito davvero.

Avya amava le poesie. Così imparai a leggere per lei… e mi piacque quel che lessi.

“Ogni tanto scorgo dei frammenti del tuo passato… spero non ti spiaccia…” mi premurai di dire, giusto per essere corretta.

Spero solo non siano ricordi a luci rosse.

Davvero non ce la feci. Scoppiai a ridere di gusto e lasciai perdere un’eventuale risposta prima di scuotere il capo di direzione di Duncan, che mi stava fissando come se avessi perso qualche rotella.

Non solo lui mi guardò a quel modo; anche gli altri lupi strabuzzarono gli occhi di fronte alla mia ironia apparentemente immotivata ed io, con una scrollata di spalle, li lasciai nel dubbio.

Non avevo alcuna voglia di spiegare di cosa stessimo parlando io e Fenrir e, soprattutto, quanto fosse forte il legame tra me e la mia anima di origine divina.

***

Come avevo temuto, l’uso massiccio di energia aveva mandato in tilt il sistema endocrino di Alec, ed ora stava subendo gli effetti della dose enorme di potere che avevo riversato nel suo corpo per contrastare l’avvelenamento.

Anch’io mi ero sentita male, dopo aver ripulito il mio sangue dall’argento, alcuni mesi addietro, ma non avevo avuto una reazione così violenta.

Ma, d’altra parte, lui non era una wicca, il suo corpo non era abituato a gestire questo tipo di energia mistica.

Erin se ne stava appollaiata su una sedia accanto al letto che occupava Alec e, con occhi attenti, ne studiava attentamente ogni minimo movimento.

Era stata lei a intervenire con largo anticipo rispetto a noi tutti quando Alec aveva avuto la prima crisi di rigetto e, lesta, lo aveva sorretto durante tutto il processo.

L’alfa di Bradford era parso voler rigettare anche l’anima, tanto era stato male, ma io sapevo bene che quello era solo l’inizio e che le successive ventiquattrore sarebbero state tremende, per lui.

Lasciarlo in balia del veleno, però, sarebbe stato anche peggio, e sia io che Alec lo sapevamo, infatti per bocca sua non era mai venuto un lamento, né una critica.

Sapevo perciò di lasciarlo in buone mani, con Erin, perché era infine giunto il momento di capire cosa fosse successo ai licantropi di Norvegia.

Dopo aver pregato la nostra compagna di viaggio di avvertirmi qualora Alec fosse svenuto in seguito a un’altra possibile crisi, li lasciai infine da soli nella stanzetta dove avevano sistemato l’alfa e raggiunsi gli uomini nel salotto.

Lanciai uno sguardo distratto alle pareti affrescate e ai dipinti in stile neoclassico per concentrarmi sulla pergamena che svettava sopra il camino, apparentemente antica quanto le mura della villa dove ci trovavamo.

La lingua sembrava scandinavo, per quel che potevo intuire, e i tratti morbidi e fluenti raccontavano una storia di altri tempi, forse millenaria.

Due firme capeggiavano in fondo alla pesante pergamena, assieme a due sigilli di ceralacca rossa.

“Fu controfirmata nel milleduecentosedici, con l’allora capobranco dei berserkir di zona, Olaf Triggvasson” mi spiegò Steffen, scrutando a sua volta il documento con i suoi intensi occhi azzurri.

Annuii, mormorando: “E il branco si trova ancora in zona?”

“Hanno lasciato queste terre secoli fa, spinti dalla paura ad abbandonare le coste per inoltrarsi nell’entroterra” scosse il capo canuto lui, sorseggiando pensieroso una tazza di the.

Duncan si limitò a centellinare il proprio, lo sguardo perso nel liquido color ambra.

Sköll di Skjolden, Wren Peterssen, intrecciò le mani nerborute tra loro e le poggiò su un ginocchio, domandandomi: “Il nostro progenitore si era mai manifestato, prima?”

“E’ stata la prima volta che ha preso l’iniziativa ma, visto il pericolo che correvamo…” mormorai con tono vagamente ironico, notando con una certa soddisfazione come tutti i nostri ospiti apparissero contriti.

“E’ forse il caso che ci spieghiate il perché dell’attacco” intervenne a quel punto Duncan. “Posso anche comprendere che, venendo senza permesso nel vostro territorio, vi siate sentiti in dovere di fermarci, ma questo non voleva certo dire tentare di ammazzarci con armi improprie.”

“Quel che posso dire a nostra discolpa, Fenrir di Matlock, è che non ricordiamo assolutamente niente di questa imposizione e, come potrà confermare la tua compagna, non sto mentendo” ammise con estrema contrizione Steffen, guardandomi speranzoso.

Io annuii, percependo la verità nel suo dire, e questo mi fece credere una volta di più che Fenrir avesse visto giusto.

C’era, ancora una volta, lo zampino di Loki.

Quante altre volte avrei dovuto inciampare in uno dei suoi scherzi?

“Prima di giungere qui, io e Fenrir abbiamo avuto un piccolo scambio di idee e, secondo lui, il licantropo che ha organizzato il mio rapimento – e che era l’involucro mortale di Loki – deve aver parlato con uno di voi Fenrir, imponendo un ordine subliminale che, di bocca in bocca, ha coinvolto tutti i capibranco dello Stato” spiegai loro, vedendoli irrigidirsi sulle poltrone di pelle. Persino Duncan parve scettico e, sì, preoccupato.

Diglielo, o non ti crederanno.

Non potendo far altro che seguire il consiglio della mia anima immortale, aggiunsi: “Gli dèi possono disporre dei capibranco a loro piacimento, se vogliono. Ciò è stato previsto per impedire che divenissero troppo potenti nel regno dei mortali. Essendo creature dotate di sangue in parte divino, avrebbero potuto assoggettare senza problemi le creature della Terra, ma ciò non sarebbe stato giusto così, in pratica, vi venne apposto un pulsante per lo spegnimento.”

La mia uscita causò un coro di ‘oooh’ sgomenti quanto infastiditi ed io, scrollando impercettibilmente una spalla, terminai di dire: “Loki ha fatto leva su questo pulsante, per così dire, e vi ha usati come estrema risorsa per farmi fuori e scatenare, per diretta conseguenza, il Ragnarök.”

Altro coro di sgomento.

Di certo, non ero portatrice di buone notizie. E, di certo, non avevo ancora imparato ad essere diplomatica nelle uscite.

“Ma com’è possibile che questo sia successo? Che io ricordi, nessuno è giunto a me da straniero, almeno negli ultimi anni!” protestò Steffen, ancora incredulo.

“E’ come se fosse una parola d’ordine, un comando inconscio, per l’appunto, e perciò non è necessario che Loki sia stato ovunque, ma in un solo luogo. Mascherando la sua identità per non essere scoperto dalle nostre völva, ha imposto il proprio volere su uno dei vostri Fenrir che, a sua volta, a girato l’ordine a tutti voi, impedendo di fatto che Loki venisse scoperto nel suo raggiro. Siete stati silenti e quieti finché non avete ricevuto l’ordine di agire contro di me. Da chi, spetta a voi dirmelo” terminai di spiegare, fissando Steffen in cerca di risposte.

Lui parve ancora parecchio turbato da questa bomba che avevo appena lanciato nel bel mezzo del suo salotto, ma annuì torvo.

Con un sospiro, mi disse: “Abbiamo ricevuto una telefonata circa quattro giorni fa, che ci informava di una vostra possibile presenza sul nostro territorio. Ci fu dato il tuo numero di cellulare perché potessimo tenerti sotto controllo tramite i satelliti utilizzati dalla polizia.”

“Perché, ovviamente, anche qui il corpo di polizia è composto in buona parte da licantropi” mi risposi da sola, sospirando stancamente. Era come avere alle calcagna la versione pelosa e zannuta di Horatio Caine di C.S.I. Miami.

“Esatto. Ci siamo basati sui dati rilevati dalle celle dei ripetitori satellitari e, quando abbiamo incrociato il segnale, siamo venuti a cercarvi. Ma, fino ad ora, non ci siamo mai chiesti perché.” Nel dirlo, scosse ancora il capo, rendendosi conto di quel che si era rischiato, con quell’attacco così violento.

“Il lupo che vi ha chiamati… si chiama Sebastian Sheperd, vero?” gli domandai, temendo in parte la risposta.

Lui si limitò ad annuire una sola volta ed io, nell’incrociare lo sguardo con Duncan, seppi cosa dovevamo fare.

Il mio compagno prese il cellulare dalla tasca dei suoi pantaloni e, dopo aver digitato il numero di Joshua, attese paziente che l’altro rispondesse.

“Ehi, Duncan! Ciao! Come procede il viaggio?” esclamò dopo un paio di squilli Fenrir di Londra.

“Diciamo che, per ora, abbiamo solo scoperto chi ci tradiva. Dovete formalmente mettere ai ceppi Sebastian. Si è macchiato di alto tradimento e ha cospirato con Loki per eliminarci tutti. Chiariremo in un secondo momento quanta fosse farina del suo sacco, e quanto condizionamento mentale. Per ora, lo voglio fuori dai giochi, … subito.”

Quell’ultima parola uscì dalle sue labbra con la stessa carica negativa di una bomba H ed io, nonostante tutto, rabbrividii.

Era raro che Duncan perdesse così spesso la calma ma, da quando si era scontrato con i berserkir, qualcosa dentro di lui era scattato, cambiandolo forse irrimediabilmente.

“Sarà fatto, Duncan. Non vedo l’ora di tirare fuori dallo scantinato quei bei ceppi d’argento che mi regalò il mio bisnonno per Natale. Scommetto che per Seb andranno benissimo” ghignò l’uomo, più che soddisfatto.

“Assicurati che giunga a Niflheimr1 più o meno integro. Voglio interrogarlo personalmente, al nostro rientro” disse ancora Duncan, sorprendendomi non poco.

E, a quanto pare, sorprese anche Joshua, perché impiegò diversi secondi per rispondere. “Vuoi davvero che lo porti laggiù?”

“Sì” dichiarò lapidario Duncan prima di salutarlo e chiudere la comunicazione.

Io lo fissai stranita, non avendo la più pallida idea di cosa fosse questo fantomatico Niflheimr ma, a quanto pareva, non ero l’unica a non sapere di cosa si trattasse. O, per lo meno, non del tutto.

“Esiste, dopotutto?” mormorò pieno di reverenziale timore Christien Olevssen, Hati di Skjolden.

“Che cos’è?” chiesi allora io, dubbiosa.

Duncan mi guardò con sguardo perso, persino spaventato da ciò che aveva appena fatto, ed esalò: “E’ l’inferno in terra. E’ la gabbia da cui non si può fuggire. E’ il luogo da cui non si può tornare. E’ il regno della morte.”

“Come?” gracchiai, fissandolo senza parole.

“La leggenda parla di una vecchia prigione senza sbarre, da cui però è impossibile fuggire perché è la Madre stessa a trattenerti” mi spiegò Steffen, intervenendo. “Lì venivano condotti i licantropi macchiatisi di crimini così efferati che neppure la punizione imposta da Freki o Geri poteva bastare.”

Rabbrividii al solo pensiero, ma compresi il perché Duncan si fosse comportato a quel modo.

Quel che aveva fatto Sebastian fino ad ora era stato così grave, così privo di scusanti da spingere anche una persona buona come Duncan ad agire di conseguenza.

“Hai fatto bene, allora” mormorai, sorridendogli con sicurezza.

“Lo spero” sospirò lui, levandosi in piedi per poi scusarsi con i nostri ospiti, adducendo come pretesto il desiderio di vedere come stesse Alec.

Non mettevo in dubbio che fosse realmente preoccupato per lui, ma di una cosa ero sicura; stava fuggendo da me, pensando a torto che lo ritenessi troppo spietato.

Era ora di darci un taglio, con quei silenzi.

Doveva dirmi cosa mi nascondeva.

Per il bene di entrambi.

***

Il tramonto nei fiordi è qualcosa di epico, che le sole parole non possono descrivere. L’acqua limpida e fredda riflette i colori forti e caldi del cielo arrossato dal calare del sole e le montagne, a perpendicolo sulla baia stretta e lunga, paiono infinite dita affondate in quell’enorme lago senza fine.

Le nevi sui ghiacciai, in lontananza, non sono meno belle e affascinanti, con le loro tinte morbide e avvolgenti.

Ma tutto ciò non mi colpì come avrei in un primo momento pensato, perché nei miei pensieri c’era solo una persona; Duncan.

Le braccia conserte sul torace, il capo reclinato fin quasi a sfiorare il petto con il mento, il mio compagno se ne stava in solitudine su una delle terrazze della villa, il vento freddo che ne sfiorava il viso abbronzato.

Mi avvicinai a lui, sfiorandogli i corti capelli fino a raggiungere le sue labbra con le dita.

Le carezzai gentilmente, discendendo poi lungo il collo, dove la giugulare batteva come impazzita, riverberando il ritmo sincopato del suo cuore.

Fu in quel momento che scorsi il primo fiotto di sangue. E poi un secondo. E un terzo.

La battaglia.

Mi sedetti in silenzio al suo fianco, sul lettino da solarium su cui si era accomodato e, sempre mantenendo un contatto fisico con lui, continuai ad osservare.

Duncan portava il suo arco a tracolla, durante la battaglia, neppur minimamente impacciato nella lotta da quella scomoda presenza.

La sua ira, il suo furore cieco bastavano a compensare la scomodità di quell’attrezzo atto ad offendere.

Le mani artigliate fenderono l’aria mille e mille volte, lacerando, scarnificando, divellendo parti intere di arti per poi lasciare che le zanne compissero il resto.

Non seppi dire con esattezza cosa mi scatenò quella vista, se sgomento o compiacimento, ma compresi i motivi che l’avevano spinto, almeno all’inizio, a tacermi quel massacro.

Perché, a tutti gli effetti, non avevo mai visto Duncan in quelle vesti.

Il lupo comandava sull’uomo, come mai era avvenuto prima in vita sua.

Neppure quella prima volta, quando era intervenuto per difendermi dall’attacco di Marjorie, Duncan si era lasciato andare al suo lato più animalesco.

Durante la battaglia contro i berserkir, ciò era avvenuto.

“Ti avevano portata via…” mormorò roco, la voce spezzata dal dolore che ancora stava provando.

“Lo so.”

“Non sarei sopravvissuto alla tua morte. Non potevo accettare che ti uccidessero, che io non facessi nulla per salvarti” continuò lui, come se non mi avesse sentita, e forse era così.

Gli massaggiai gentilmente un braccio e Duncan tremò, avvolgendomi le spalle con forza per stringermi nella sua stretta calorosa.

Si era comportato come un folle indemoniato e questo lo terrorizzava a morte, facendogli temere che io non potessi amarlo più come prima.

Questo lo terrorizzava.

E questo mi fece sorridere.

Lo strinsi con quanta più forza riuscii a trovare in me e, contro il suo torace, mormorai: “Pensi che vederti in quelle vesti mi abbia turbata? O che io pensi male di te?”

“Non dovevo perdere il controllo come invece ho fatto” replicò lui, scuotendo il capo.

“Duncan, se le parti fossero state invertite, pensi non l’avrei fatto anch’io?”

Percepivo senza problemi quanto il suo dolore, la sua ansia fossero autentiche e, pur se in parte le comprendevo, dall'altra trovavo strano che lui pensasse che, quanto aveva fatto per salvarmi, potesse sconvolgermi.

“Ora spiegami per bene perché reputi che, quel che hai fatto, sia così tremendo da farmi cambiare opinione su di te” lo pregai con calore, continuando a tenerlo stretto a me per fargli capire quanto gli fossi vicina, non solo fisicamente, ma anche umanamente.

“Non mi hai mai visto in quelle vesti e, a dirla tutta, neppure io. Non... sapevo di poter diventare così. E la parte più terrificante è che non ho provato disgusto per ciò che ho fatto” esalò Duncan, nelle parole tutto lo sconforto e la paura che provava nei confronti di se stesso.

“Lo ricordo. Dicesti ad Alec che fu gratificante” annuii lentamente, soppesando bene le parole.

“Come ho potuto pensare che fosse gratificante uccidere?” si lagnò lui, lasciandomi percepire quanto si sentisse orribile.

“Duncan, chiariamo un punto. Non mi sembra tu sia un serial killer, no?” gli buttai in faccia senza mezze misure, scostandomi quel tanto da permettermi di guardarlo in viso.

Lui si accigliò, ma scosse il capo.

“Bene. Assodato questo, chiariamo un'altra faccenda. Ti sembro un bignè?”

Il mio alfa preferito strabuzzò gli occhi a quella domanda e, ovviamente, negò.

“Ottimo, perciò non mi squaglierò al primo sole, la mia crema non diventerà acida, eccetera, eccetera. Posso sopportare quel che ho visto, Duncan, soprattutto perché so che tu non hai agito spinto dalla volontà di uccidere fine a se stessa, ma perché avevi un compito ben fisso nella mente; salvare me.”

“Perdere la propria umanità non è comunque la risposta ai problemi” replicò lui, cocciuto.

E quando mai non lo era?

Sospirai, vagamente esasperata, e ammisi: “D'accordo, magari avresti potuto arrivare con un contingente di duemila lupi, circondare la caverna e intimare loro di arrendersi... ma sarebbe stato fattibile? Non possiamo muoverci come farebbe un comune esercito umano, lo sai. E, per di più, meno attenzione attiriamo, meglio è. Non potevi fare altrimenti e, di conseguenza, lo scontro diretto e senza esclusione di colpi è stato il risultato finale. Non potevi evitarlo, come non puoi evitare che il sole sorga a Est.”

Duncan rimase cocciutamente in silenzio ed io, come ultima carta, dissi: “Per quanto Alec sia sempre stato ritenuto da tutti senza cuore e un vero dittatore nel governare il suo branco, a ben vedere non ha mai torto un capello a nessuno di loro, a meno che non fosse pienamente colpevole. Ha fatto rispettare le regole con pugno di ferro e spietatezza, è vero, ma è sempre stato corretto, persino con noi quando abbiamo oltrepassato il suo territorio senza permesso. Se fosse stato meschino, non ci avrebbe dato la possibilità di combattere per difenderci, e non mi ha mai ritenuta colpevole per la morte del suo Freki. Quindi, come vedi, si può lasciar parlare molto più spesso il proprio lupo, come fa lui, senza però diventare dei mostri. Tu non ti sei comportato come un mostro, alle Svalbard, Duncan, mai, neppure in un solo momento. Eri solo il lupo che cercava la sua compagna. Devi accettarlo.”

“Quindi, vorresti dirmi che mi sono comportato nel modo giusto, dilaniando e smembrando corpi?” ironizzò senza allegria lui, accennando un minimo di sorriso.

“Okay, se vuoi vedere solo la parte truculenta dell'atto, fai pure, ma adesso stai lasciando che Avya parli per te” brontolai senza troppa simpatia.

“Come?” esalò lui, sorpreso.

“Pensaci bene, Duncan. Lei è stata la prima wicca che la storia ricordi, la più potente, se si esclude la sottoscritta... è normale che, volente o nolente, tu ne subisca un po' gli effetti. Pensa soltanto al tuo rapporto con gli animali. Abbiamo capito che dipende dalla sua influenza indiretta, perciò, visto che tu hai ucciso delle altre creature viventi, che rispettano a loro volta le wiccan poiché sono Accolite della Madre, lei ne ha sofferto. Magari non te l'ha detto per non farti sentire in colpa, ma il dolore è difficile da arginare, specialmente per un'anima così forte.”

Temo tu abbia ragione, Brianna Ann.

La voce di Avya, così dolce e candida, risuonò nella mia mente come in quella di Duncan e, per un attimo, mi spiacque che Fenrir non potesse udirla. A lui, era preclusa per ordine stesso della Madre.

Questo era il prezzo che il nostro progenitore aveva dovuto pagare per scegliere in chi rinascere, al solo fine di proteggere i suoi cari.

“Quindi, non mi sono sbagliata. Hai pianto per loro, vero?”  le domandai, comprendendola nonostante tutto.

Anche tu hai pianto per Lot, se ben ricordo.

“Non sbagli. E' stato più forte di me. Capisco bene cosa significhi vedere il mondo con gli occhi di una wicca, e so quanto quello che è successo possa averti turbato, ma sai che non poteva essere evitato, vero?”

Lo so benissimo, e mi spiace di aver inconsapevolmente turbato Duncan, ma è stato un riflesso incondizionato, che non ho potuto fermare.

“Quindi, non ritieni che io abbia sbagliato? Piangi solo per le loro morti, non perché io ti ho ferito?” intervenne a quel punto Duncan.

Potrai mai perdonarmi, Duncan? Ti ho fatto soffrire ingiustamente, facendo nascere in te dubbi che non dovevano neppure esistere nella tua mente. Scusami.

“Dobbiamo ancora abituarci ad avere pensieri differenti... credo che anche Brie, a volte, si scontri con Fenrir in merito a certe questioni” la rassicurò Duncan, lasciandosi andare ad un sorriso liberatorio.

Sì, ma io dovrei stare più attenta a non condizionarti. Fenrir è più bravo di me, in questo,  brontolò Avya, dandosi della sciocca.

Io ridacchiai, trovando davvero assurda quella discussione a tre, ma sapevo che non sarebbe stata né la prima, né tanto meno l'ultima volta che avremmo dovuto confrontarci con simili problemi.

Le nostre erano anime speciali e, in quanto tali, andavano trattate diversamente dal solito. Ci saremmo abituati entrambi, ne ero sicura, ma almeno per il momento era il caso di parlare di ogni minimo dubbio, giusto per essere certi che fossero nostri pensieri, e non altrui.

“Farò più attenzione anch'io. Avrei dovuto parlarne con te, Avya, e probabilmente avrei capito subito che il problema risiedeva lì. Ci starò più attento” promise Duncan prima di sorridermi e aggiungere per me: “Come hai capito che le mie ansie venivano da Avya?”

“Ho fatto due più due. Le immagini che ho visto, come lupo, non mi hanno dato alcun fastidio. Anzi, plaudevo alla vostra bravura di guerrieri ma, come wicca, ho sentito il bisogno insopprimibile di  pregare per le anime dei berserkir morti. Ero molto combattuta, ma io ne conoscevo i motivi, perciò ho dedotto che tu potessi avere il medesimo conflitto interiore, pur senza essertene accorto” gli spiegai, levandomi in piedi per allungargli una mano.

Lui la accettò e si rizzò al mio fianco, abbracciandomi teneramente per poi poggiare un bacio leggero sulla mia fronte.

“Grazie, principessa. Mi hai tolto davvero un peso. E un sacco di dubbi!” sorrise lui, illuminando quei brillanti occhi smeraldini che tanto amavo.

Senza la corona di onde corvine a incorniciargli il viso, potevo abbeverarmi di ogni particolare di quel volto perfetto dagli zigomi alti e le labbra carnose, sempre lievemente piegate all'ingiù.

Erano i lineamenti di un guerriero, ma sapevano anche essere dolci, come in quel momento.

Si chinò per baciarmi con un certo trasporto, mettendo in quell'unione di labbra tutta la gratitudine per aver accettato quel che lui aveva fatto per salvarmi.

Io risposi con entusiasmo, allacciando le braccia dietro il suo forte collo e Duncan, con un movimento fluido delle braccia, mi sollevò per portarmi in tutta fretta nelle nostre stanze.

Dio benedica le pareti insonorizzate!

Trattandosi di una villa abitata da diversi licantropi, il padrone di casa aveva pensato bene di apportare quella modifica e, per come eravamo presi in quel momento, era un accorgimento davvero necessario.

Dandosi a malapena il tempo di aprire la porta della stanza, richiudendola con un calcio, Duncan mi portò sul letto senza mai scostarsi dalla mia bocca.

Esplorandomi con le mani mentre, con abile maestria, mi liberava di camiciola, pantaloncini e scarpe, sorrise malizioso quando mi sentì sospirare deliziata e, senza darmi il tempo di reagire, cominciò la sua tortura.

Il mio corpo divenne la sua tela, che lui dipinse con mirabile bravura tracciando scie infuocate con la sua bocca e le sue mani calde, che conoscevano alla perfezione tutto ciò che sapeva accendermi come un falò.

Mi dimenai sotto di lui, ancora pienamente vestito, desiderando di più, molto di più... e lui mi accontentò.

Si liberò degli abiti quasi strappandoseli di dosso e, in un'unica spinta, fu dentro di me.

Le nostre auree si allacciarono con forza, quasi schioccando sopra le nostre teste e, mentre i suoi movimenti si facevano sempre più armonici e veloci, io non potei resistere oltre.

Feci le fusa.

Duncan rise nel sentirmi mugolare di piacere e mi baciò con trasporto, mimando sulla mia bocca ciò che stava facendo molto più in basso.

Raggiungemmo il climax quasi senza rendercene conto e, nel momento stesso in cui le auree brillarono come supernove sopra di noi, io mormorai il suo nome senza forze, completamente prosciugata.

Lui crollò su di me un attimo dopo, ansante, meravigliosamente appagato e interamente asservito alle mie mani che, non dome, lo percorsero lascive, con lentezza.

Duncan ridacchiò nel sentirle su di sé, simili a spire di serpente e, scostandosi quel tanto per permettermi di respirare, sussurrò sulla mia bocca: “Spero di non essere stato rude.”

“Ci stava tutto... possessività compresa” ghignai tronfia io, continuando a esplorare quel corpo deplorevolmente affascinante.

Sorridendo in maniera molto sexy e molto mascolina, Duncan si strusciò contro di me, asserendo: “Noto che hai ancora fame... e la cosa non mi dispiace affatto.”

“Lo immaginavo” dichiarai, passandogli una mano tra i corti capelli. “Perché li hai tagliati?”

Lui rise, sicuramente trovando strana la mia domanda e, con una semplicità che mi disarmò, si limitò a dire: “Mi ero solo stancato di averli lunghi, tutto qui.”

“Niente secondi fini, tipo... mi taglio i capelli per dimostrare qualcosa?” ironizzai io.

La sua risata si riverberò in tutto il mio corpo, facendomi tremare di delizia e, scuotendo il capo, mi disse: “Niente di così complicato. Semplice noia da capello lungo.”

“Okay, allora non devo preoccuparmi. Comunque, sei bello anche così.”

“Grazie” mormorò lui, tornando a mordicchiarmi il collo mentre le mie mani, con molta intraprendenza, avevano raggiunto i suoi addominali scolpiti. “Ad ogni modo, non pensavo che un semplice taglio di capelli potesse preoccuparti.”

“Non si può mai sapere, con voi lupi” ironizzai.

Scesi più in basso, facendolo sospirare e, quel che ne seguì, portò a molti, moltissimi altri sospiri.

Sperai davvero che le pareti fossero più che insonorizzate.

 

 

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1 Nifhleimr: (Reale significato del termine):("terra delle nebbie") è il regno del ghiaccio e del freddo nella mitologia norrena.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


1

Capitolo 12

 

 

 

 

 

Le stanze della villa potevano anche essere perfettamente insonorizzate, ma l'aroma di lupo che portavo sulla pelle era più chiaro di un faro nella notte.

Ad ogni modo, non potevo farci granché e, quando raggiunsi la camera di Alec, mi tenni pronta per la sequela di battutacce di spirito che mi avrebbe propinato Fenrir di Bradford.

Quel che trovai, invece, in parte mi sorprese, in parte mi fece ridere.

Erin stava fissando accigliata Alec che, imperterrito, si rifiutava di mangiare dalla sua mano e, cocciutamente, teneva le braccia conserte sul torace nudo e bendato fin sotto le costole.

La cicatrice in viso pulsava di rabbia repressa e, nei suoi occhi di ghiaccio potei leggere… sì, fu imbarazzo quello che vidi.

Sospirai esasperata e, dopo essermi richiusa la porta alle spalle, esalai: “Che c'è, stavolta?”

“Non vuole mangiare” brontolò Erin, poggiando il vassoio sul comodino prima di alzarsi in piedi e, a sorpresa, scaricare un pugno sulla testa di Alec.

“Ahia!” sbottò l'uomo, fissandola bieco e allungando lesto un braccio per afferrarla, con tutta l’intenzione di rendere pan per focaccia.

Lei schivò la sua mano, portandosi a distanza di sicurezza, ed io mi domandai per un istante se, per caso, fossi finita all'asilo nido. Perché ne aveva tutta l'aria.

Mi massaggiai pensosa le tempie mentre i due, accavallando le une sulle altre le rispettive accuse - con voci sempre più stridenti e fastidiose - si insultavano vicendevolmente per i motivi più assurdi.

Quando alla fine non ne potei più, ringhiai abbastanza forte da attirare la loro attenzione e, con aria disperata, esalai in direzione di Erin: “Ti prego, ne parleremo dopo. Ora puoi uscire? Grazie.”

“Non vedevo l'ora!” sbottò la donna, non senza lanciare un'occhiata ansiosa in direzione del letto e, soprattutto, a colui che ci stava dentro.

Oh... questa poi!

La porta si richiuse con forza dietro di lei ed io, crollando sulla sedia che prima aveva accolto Erin, fissai accigliata Alec e mugugnai: “Ma perché non le hai permesso di nutrirti? In fondo, voleva solo sdebitarsi con te per averla salvata.”

“Voleva imboccarmi! Non sono mica paralizzato!” ringhiò furioso Alec, mostrando al tempo stesso un certo rossore sotto le gote abbronzate.

Io sgranai leggermente gli occhi e sospirai, vagamente stressata: “E ti costava tanto accontentarla?”

“Sì” borbottò lui, accigliandosi.

“Due bambini dell'asilo, ecco cosa siete” brontolai scuotendo il capo. “E dire che la più piccola, qui dentro, sono io.”

Alec mugugnò qualcosa di incomprensibile ed io, preferendo non proseguire oltre, cambiai argomento e gli domandai: “Ti ha cambiato il bendaggio?”

“No.” E, sorpresa delle sorprese, avvampò nel dirlo.

Curioso che un licantropo, specie uno come lui, potesse imbarazzarsi di fronte a cose simili, a meno che...

Aggrottai la fronte, prendendo il necessario per cambiare le bende e, con naturalezza, gli chiesi: “Problemi, se lo faccio io? O chiamo Duncan?”

“No, fai pure” scrollò le spalle lui, ora tranquillo come un bebè.

Scostò le coltri del letto mostrandosi come mamma l'aveva fatto e, pur provando un momento di smarrimento di fronte a tanta perfezione, agii come se nulla fosse.

Mi ero ormai abituata alla facilità con cui i licantropi si mostravano senza veli al Vigrond, dopo una riunione, e anche io non avevo più difficoltà alcuna a mostrarmi in pubblico, se necessario.

E’ proprio vero che le abitudini cambiano.

Perciò non ebbi difficoltà a sostituire le fasciature di Alec, che riguardavano anche la zona del basso ventre e delle cosce e, per tutto il tempo, parlai con lui senza problemi.

Anche l'alfa si dimostrò tranquillo, e neppure una volta accennò qualche battuta in merito a dove si trovassero le mie mani in quel momento.

Quando ebbi terminato il mio compito, lo aiutai a rimettersi sdraiato e lo coprii con le coltri, domandandogli: “Sicuro di voler dormire nudo? Non vuoi che ti cerchi un pigiama?”
“Mai più indossato da quando avevo quindici anni” mi spiegò lui, sogghignando. “E ora che mi hai scrutato per benino, streghetta, pensi di esserti pentita di non essere venuta con me, l'anno passato?”

Lo fissai malissimo per alcuni istanti ma, ben sapendo che si trattava solo di un modo per allentare eventuali tensioni sessuali tra di noi, mi limitai a dire: “Continuo a pensare di aver fatto la scelta migliore.”

“Peccato” asserì allora lui, ghignando divertito prima di allungarsi un po' per annusare il mio collo. “Hai un odore stupendo, comunque, al momento.”

“Lo immagino... ti piace, eh?” ridacchiai, ben sapendo che, almeno per un giorno o due, con il mio potere di wicca stimolato dall'amplesso, sarei stata simile a una fiamma per le falene.

“Potrei divorarti tutta con immenso piacere, ma poi dovrei vedermela con Duncan, e quello non sarebbe divertente. E' così fissato, con te!” ridacchiò lui, intrecciando le mani dietro la nuca.

Non mi disturbava parlare di argomenti simili, con Alec, anche se questo non lo avrei mai creduto possibile, almeno fino a pochi mesi prima.

Non mi sarei mai aspettata di poter andare d’accordo proprio con lui ma, evidentemente, mi ero sbagliata alla grande.

Sapeva essere malizioso, persino sboccato, in certe occasioni, eppure percepivo in lui una sorta di istinto protettivo nei miei confronti.

Non si sarebbe mai spinto oltre alle battute, con me e, per un motivo che ancora non coglievo appieno, si sarebbe battuto anima e corpo per la mia salvezza.

Gli accarezzai istintivamente una guancia, congelandolo sul posto e, teneramente, gli dissi: “Sei davvero un buon amico, per me e Duncan.”

“Ehi, streghetta... non farti strane idee... non faccio dei giochetti a tre, neppure se mi fai una sviolinata!” brontolò lui, scostandosi dalla mia mano con aria imbarazzata.

Io risi di gusto, scuotendo il capo, ed esalai: “Oh, credimi... neppure io sono una da giochini a tre.”

“Meno male!” esalò Alec, passandosi una mano sulla fronte con esagerata sollecitudine.

Sorrisi divertita e, curiosa, gli domandai: “Perché non sei così, con Erin?”

Il solo nominarla lo fece adombrare e, contando anche la sua reazione precedente, questo mi diede da pensare.

“Lo sai che non morde, vero?” aggiunsi, tanto per chiarire.

“Questo lo pensi tu. Certe femmine mordono più dei maschi” brontolò lui, indicandosi la testa. “Hai visto cos'ha fatto?!”

Lo guardai stranita, non sapendo bene come reagire ad un Alec lagnoso e pedante.

Le gambe intrecciate all'altezza del ginocchio, vi poggiai sopra un gomito e usai la mano come puntello per il mento, dopodiché lo guardai attentamente.

Esasperata dalle sue stranezze, chiosai: “Non ti è balenato nella mente che, forse, sei stato un po' indisponente con lei fin da quando siamo arrivati a casa sua?”

“Non so che farci se è così stupida da non pensare prima di tutto a sua figlia” borbottò lui, mettendosi sul chi vive.

“Guarda, cagnaccio, che lei ci pensa eccome” replicai serafica, guadagnandomi per diretta conseguenza un'occhiata venefica da parte sua. “Perché pensi sia venuta? Per mettere in sicurezza il territorio... per lei.”

Alec non parve convinto ed io insistei, aggiungendo: “Non si è limitata a farci fare il lavoro sporco, rimanendo a casa a fare la maglia mentre noi agivamo. Si è imposta innanzitutto di vendicare le sorti del marito, e poi di dare un futuro più sereno alla figlia, non più minacciato dall'ombra dei berserkir.”

“Si combatte per i vivi, non per i morti... che se ne farebbe, il suo grande amore, se lei morisse per lui, lasciando sola la loro unica figlia?” protestò aspro Alec, scuotendo il capo.

Mi grattai la fronte, non sapendo bene se spifferargli la verità o meno ma, se volevo evitare che quei due si azzannassero al collo nelle successive ventiquattrore, dovevo chiarire alcuni concetti.

“Marcus non era il padre di Penny. Si sposò con Erin perché l'uomo di cui lei era innamorata, e che la mise incinta, non la volle... non volle nessuna delle due” gli spiattellai in faccia, avendo la soddisfazione di vederlo sbiancare in viso.

Gli raccontai sommariamente ciò che Erin mi aveva detto di sé e Alec, in silenzio, mi ascoltò senza dire nulla, le mani strette a pugno e l'aria di uno che avrebbe volentieri torto il collo a qualcuno.

Quando terminai di raccontare, gli domandai: “Allora? Pensi ancora che sia solo una sciocca?”

Non mi rispose, e questo fu già un traguardo.

Io allora mi chinai su di lui per dargli un bacio sulla fronte e, nello scostarmi, gli dissi: “Non è la sciocca che tu pensi. Lei si sta battendo per la figlia, ce la sta mettendo tutta. Non l'ha abbandonata. Si batte per i vivi, innanzitutto.”

Alec mi afferrò un polso, impedendomi di fatto di abbandonarlo. Lo scrutai dubbiosa e lui, ponendo palmo contro palmo la sua mano alla mia, mi domandò: “Posso... posso sfiorare la tua aura?”

Capii subito da dove fosse nata quella richiesta.

Annuii senza problemi e lui, con estrema delicatezza, si avventurò sul quel territorio sconosciuto come un bambino che muove i primi passi nel mondo.

Avrei voluto piangere e inveire al tempo stesso, ma mi limitai a guidarlo, a dirgli come muoversi, come trarre soddisfazione da quello sfiorarsi leggero di energie.

Lui mi seguì fiducioso, ridacchiando divertito quando le nostre auree si sfiorarono all'altezza delle dita.

Avvertii un formicolio lieve, come una carezza, e seppi in un solo istante quanti sentimenti dirompenti trattenesse Alec dentro di sé.

C’era un intero mondo, oltre quell’aura così insicura.

“Wow... è fico” dichiarò lui con un certo divertimento, sorridendomi come un bimbo in un negozio di giocattoli.

Mi scostai con delicatezza e gli sorrisi di rimando, annuendo.

“Grazie, streghetta” asserì allora l'alfa, scrollando una spalla con aria imbarazzata.

“Di nulla” replicai io, lanciando un'occhiata al vassoio con il cibo. “Ti va, adesso, di mangiare?”

“Decisamente sì.” Annuì con decisione e io gli passai il vassoio, che lui spazzolò nel giro di dieci minuti scarsi.

Attesi un po' per sincerarmi che riuscisse a tenere nello stomaco quanto aveva appena mangiato e, quando fui certa che avesse finalmente passato la fase critica, dissi: “Comunque, non hai nulla che non vada, Alec. Indipendentemente da quel che ti ha fatto tuo padre, tu sei sano di mente. Come hai visto, riesci a controllare l’aura senza problemi… anche  in presenza di una donna. Non devi preoccuparti di questo.”

“Se lo dici tu...”

“Sei solo scorbutico come un orso bruno, ma quello può anche essere visto come un pregio, da alcune” ridacchiai, portandolo a fissarmi malissimo.

L'entrata in scena di Duncan impedì ad Alec di rispondermi.

Lui ci fissò incuriosito e lesse nella mia mente quel che avevo fatto per Alec, compiacendosi della mia generosità nei suoi confronti.

Si avvicinò per darmi un bacio sul capo e, dopo essersi accomodato sul ciglio del letto, fissò Alec e ci tenne a specificare: “Va da sé che Brie non ti mostrerà altro, è chiaro?”

Alec scoppiò a ridere di gusto, ed io mi unii a quella risata gaia.

Ne avevamo tutti quanti bisogno.

Duncan non ci mise molto a lasciarsi andare alla stessa ilarità ed Erin, forse guidata dall'istinto, entrò proprio in quel momento, vedendoci tutti rilassati e gai.

Sorrise dubbiosa ed Alec, scorgendola sulla porta, le disse: “Beh, che ci fai lì in prestito? Entra, scorbutica di una mammina.”

Fu il tono gioviale con cui la additò a non far saltare i nervi a Erin che, nel sistemarsi alle mie spalle, squadrò Alec con aria seria solo a metà e replicò: “Non so che farci se tu ti comporti come un bambino viziato. Non voglio questo, non voglio quello! Noioso...”

Alec si limitò ad esibirsi in una irriverente scrollata di spalle, e con quel gesto sancì una specie di tacito accordo di non belligeranza con la donna.

A volte, non è necessaria una stretta di mano, per capirsi.

A volte, servono anche gli insulti. Dipende sempre da come si usano.

***

“Quindi, in pratica, ci state dicendo che non avete la più pallida idea di dove si trovino, adesso, i clan dei berserkir? E come fate a tenervi in contatto?” esalai stupita, facendo tanto d’occhi.

Quando mi ero incontrata con la Triade di Potere del branco di Skjolden, decisa a ratificare un lasciapassare per il territorio norvegese, non mi ero aspettata una simile notizia.

Duncan teneva in mano il permesso di passaggio senza neppure guardarlo, tanta era anche la sua sorpresa e Steffen, tossicchiando imbarazzato, ammise: “Sono diversi secoli che non tentiamo più approcci con loro. E loro allo stesso modo. Tentiamo di non pestarci i piedi, in pratica. Ci basta la ratifica del vecchio trattato per avere la certezza che non ci attaccheranno.”

Mi passai indice e pollice sull’attaccatura del naso, decisamente esasperata da quella miriade di buchi nell’acqua e, sospirando, annuii. “Bene… ma non sapete neppure a grandi linee dove potrebbero trovarsi?”

“Dare anche solo un’idea seppur vaga di dove si trovano vorrebbe venir meno al trattato” precisò Wren, avendo la decenza di dirlo senza guardarmi in faccia.

Sapeva che l’avrei fulminato con lo sguardo, se l’avesse fatto.

“Già, ma non ve lo sta chiedendo chicchessia, ma la custode dell’anima di Fenrir. Non mi sembra che questa sia una cosa da poco!” precisai, alterandomi leggermente.

Quanto avrei voluto prenderli per il collo!

“A maggior ragione, wicca. Rammenta il mito. I berserkir non gradiranno trovarti alle porte dei loro villaggi, sapendo chi sei, perciò io terrei questa informazione segreta finché non fosse davvero necessaria metterla nero su bianco” replicò Christien, tossicchiando imbarazzato.

Non potei replicare.

Per quanto le motivazioni di Fenrir, a suo tempo, fossero state buone, la mano di Tyr era effettivamente stata mozzata dalle sue zanne, e quello era un dato assodato.

E questa cosa stava tutt’ora sulle scatole ai berserkir.

Fissai il soffitto con aria esacerbata e borbottai: “Non ho intenzione di sbandierare chi porto nella testa, e penso che neppure voi lo farete, ma dobbiamo trovarli prima che pensino di fare un festino alle porte del nostro territorio.”

Più cordialmente, Duncan aggiunse: “E’ di vitale importanza che ci venga concessa l’opportunità di parlare con i berserkir, per far comprendere loro che quello che è successo alle Svalbard non voleva essere l’inizio di una faida contro di loro, ma una reazione alle mosse astute di Loki, atte a metterci gli uni contro gli altri.”

Ringraziai il mio compagno con un sorriso; lui sì che ci sapeva fare, come diplomatico, non certo io!

“Parole sacrosante, Fenrir di Matlock, ma il fatto rimane. Non possiamo venire meno alla parola data, anche se è lo stesso creatore della razza a chiedercelo.” Steffen fu lapidario, pur se nella sua voce potei avvertire sentimenti contrastanti e tanta, tantissima contrizione.

Non gli piaceva affatto dirci di no, soprattutto dopo aver rischiato di farci fuori a causa di Loki, ma i patti andavano rispettati. Quello più di altri.

Potrei uscire di nuovo e divorarli. Forse, allora, i restanti cambierebbero idea.

Sgranai gli occhi di fronte a quel pensiero così truculento e, sgomenta, esalai: “E dai, dopotutto tengono solo fede ad un patto!”

Sarà anche così, ma un tempo c’era un po’ più di rispetto nei confronti degli  dèi!

“Oooh, Sua Divinità si sente offeso?”, ironizzai, sentendolo brontolare in una lingua che non compresi.

Sorrisi e, indicandomi la testa, chiosai: “Per la cronaca, è davvero molto offeso dalla vostra presa di posizione.”

La Triade mi parve non poco preoccupata, ma io mi affrettai ad aggiungere: “Comunque, io capisco la vostra posizione e la rispetto. Però, questo non vuole necessariamente dire che noi non si possa dare un’occhiata ai vostri uffici, vero, Steffen?”

“Oh” esalò lui, lanciandomi un sorrisino in risposta. “Beh, le stanze di casa non sono certo chiuse a chiave. E chi sono io per impedire ai miei ospiti di girare agevolmente per la mia umile dimora?”

“Vedo che ci siamo capiti. Grazie” ghignai, scrutando da sotto le ciglia il sorrisone divertito di Duncan, che apprezzò il mio sotterfugio.

Loro avrebbero mantenuto la parola data e noi avremmo avuto la possibilità di capire dove, eventualmente, potessero essere finiti i berserkir.

Di meglio non potevo chiedere, almeno per il momento.

***

Se nella prima mezz’ora non compresi bene il funzionamento di quell'enorme villa padronale, dopo aver parlato con uno dei membri della servitù – eh, già! – mi fu chiaro quante persone vi abitassero all'interno.

Suddivisa in tre ali indipendenti tra loro, l'enorme magione era abitata dalle famiglie della Triade di Potere.

Un modo come un altro per tenere al sicuro i vertici del branco.

Da cosa, mi era ancora difficile capirlo, ma non ero così addentro alle politiche interne dei clan norvegesi per sapere se vi fosse bisogno o meno di un simile artificio.

Questo, ad ogni modo, mi facilitava le cose.

Avremmo potuto curiosare negli studi di Fenrir, Hati e Sköll a nostro piacimento senza dover essere costretti a girovagare per mezzo Skjolden, alla ricerca di quel che volevamo trovare.

Duncan, Erin ed io ci suddividemmo i compiti per rendere più celere quella ricerca e, pur non essendoci il pericolo di essere colti con le mani in fallo, trovai quella cosa piuttosto divertente.

Sapevo che non avevamo tempo da perdere in sciocchezze, ma non riuscivo a non vedere il lato ironico della situazione.

Salutai con un cenno della mano una cameriera in livrea, che stava portando un vassoio d'argento ricolmo di oggetti con bravura sopraffina e, nell'entrare nell'ufficio di Hati, spalancai leggermente gli occhi per la meraviglia.

Come l'intera villa, anche quella stanza era raffinata e arredata con gusto. Mi chiesi se fosse appartenuta – o appartenesse – a un membro dell'aristocrazia locale.

Parquet sul pavimento, pannellature lignee alle pareti e controsoffittatura a cassettoni rendevano quella stanza calda e accogliente, coi i suoi colori morbidi e vellutati.

Un pesante tappeto Aubusson sosteneva il peso di un'enorme scrivania in noce levigato a specchio e, sopra di essa, un'elegante lampada in vetro di Murano era accompagnata da un set da scrittura di chiara discendenza francese.

La 'N' di Napoleone incisa sull'oro, di cui erano composti il calamaio e il portapenne, mi diede un'idea precisa di dove venisse quel pezzo pregiato.

Curiosai con lo sguardo tutt'intorno, lasciando che i miei occhi sfiorassero i dorsi delle copertine di pelle di una miriade di libri, incastonati con precisione millimetrica in una serie di librerie stile Impero.

Sulle pareti, vecchie litografie riproducevano scorci paesaggistici del luogo, ma fu una in particolare a colpirmi.

Mi avvicinai per osservarla meglio quando, all'improvviso, il mio olfatto sovrasviluppato non colse una fragranza sconosciuta nelle vicinanze.

Mi volsi guardinga pur sapendo di non stare facendo nulla di male e, quando vidi comparire sullo specchio della porta un giovane dalla folta capigliatura bionda, mi chiesi chi fosse.

Era bello oltre l'immaginabile, quasi lo avessero creato con Photoshop, e mi stava osservando con aria curiosa, quasi maliziosa.

Sollevai un sopracciglio con evidente curiosità quando si mise letteralmente in posa contro lo stipite della porta, neanche si aspettasse da me che io mi mettessi a fotografarlo rapita... o a sbavare ai suoi piedi.

“Tu devi essere la wicca detentrice dell'anima di Fenrir. Profumi talmente di potere da aver saturato questa stanza” mormorò lui con voce morbida, suadente.

Quante vittime femminili – o maschili? – aveva collezionato nel suo personale palmarès? Davvero difficile dirlo, ma sicuramente non poche.

Adeguai il mio atteggiamento al suo e replicai: “Sono io, in effetti. Con chi ho il piacere di parlare?”

A quel punto lui si avvicinò a me con passo ferino, muovendosi come se stesse sfilando – faceva il modello, per caso? – e, quando si trovò a poco meno di due passi da me, si fermò e allungò una mano da pianista. “Sono Alexandar Dahl, figlio primogenito di Fenrir di Skjolden ma, ahimè, non suo successore.”

Strinsi quella mano perfetta senza mai abbandonare i suoi occhi bicolore, erano marrone il destro e verde il sinistro e, serafica, replicai: “La mancanza di un titolo non sminuisce un lupo, solo il suo comportamento può farlo.”

Lui mi sorrise bonario, sollevando le nostre mani intrecciate per un baciamano impeccabile, ma io rimasi sorda a qualsiasi tipo di avance e mi limitai ad aggiungere: “E, se non te ne fossi accorto, tu stai per comportarti in maniera molto sbagliata.”

Alexandar rise del mio tono vagamente ironico e, lasciandomi andare, infilò preventivamente le mani in tasca, asserendo con sfacciataggine: “Volevo scoprire se riuscivo a conquistarti con il mio fascino, wicca ma, evidentemente, il tuo compagno possiede doti superiori alle mie.”

D'accordooo... ci aveva provato spudoratamente. E io cos'avrei dovuto fare, a quel punto? Mandarlo al diavolo? Schiaffeggiarlo? Dirottarlo verso Duncan perché gli spaccasse la faccia? Riderne?

In fondo, eravamo ospiti in casa sua, e non era il caso di tirare la corda più di quel tanto visto che, alla fine dell'opera, non ci trovavamo su suolo inglese.

Optai per una linea di condotta piuttosto tenue e mi limitai a dire: “Mi spiace ma il tuo bel faccino, su di me, non funziona. Ma non offenderti, amo troppo il mio compagno per accorgermi degli altri maschi.”

“Per la verità, pensavo mi avessi riconosciuto” precisò lui, ora mettendo un broncio davvero delizioso. Ma chi era, sua madre? Afrodite?!

“Ahhh... no. Saresti?” esalai spiazzata, sperando di non aver commesso una gaffe clamorosa.

“Testimonial della North Face, per intenderci” sottolineò lui, sollevando con intenzione un sopracciglio dorato.

“Scusa, non sono una che sfoglia riviste per hobby” mormorai contrita, cercando di apparire il più dimessa possibile. E che ne sapevo, io, di bellocci semi-svestiti su riviste patinate? Neanche le compravo!

“Oh, poco male. Se vuoi, dopo, te ne faccio avere una copia” borbottò Alexandar, liquidando l'argomento con un gesto elegante della mano. “Piuttosto, come mai curiosavi nello studio di Hati?”

“Stiamo ufficiosamente cercando qualche indizio che ci porti più vicino ai clan di berserkir della zona, visto che non sappiamo dove cercarli” gli spiegai succintamente, tornando ad osservare la litografia che mi aveva tanto colpita in precedenza.

“E perché mai ti interessano tanto quegli uomini-orso?” si informò lui, ponendosi al mio fianco. Un po' troppo vicino, per i miei gusti.

“Devo sventare l'Apocalisse, più o meno.” Lo dissi così, su due piedi, senza neppure pensarci.

Alexandar mi fissò divertito per alcuni attimi prima di rendersi conto che non scherzavo affatto e, sbirciando il mio viso acqua e sapone, mi domandò: “Ma... ma non potresti semplicemente dire a Fenrir di uscirsene fuori come hai fatto al Vigrond, per trovarli? Nessuno oserebbe contrastarlo.”

Ma... ci era o ci faceva? Possibile che non sapesse che Fenrir e berserkir non erano esattamente quelli che si potevano definire grandi amici?

Cercai di non apparire disgustata e replicai: “I berserkir non hanno in amore il nostro progenitore, e giungere in quelle vesti nei loro territori potrebbe essere visto come un insulto bello e buono, e l'ultima cosa che voglio è inimicarmeli più di così.”

“Le cicatrici che hai sul viso...” si informò lui, cambiando tono e parendo quasi preoccupato per me. “... sono opera loro?”

“Già. E, prima che ti venga in mente di annusare la pomata che ci ho steso sopra, ti avverto che è ricavata dall'aconito, e potresti stramazzare a terra come una pera cotta” lo avvisai preventivamente, sapendo che il profumo di quel prodotto topico attirava quasi più attenzione del mio aroma di wicca.

Lance non aveva ancora capito il perché, ma avevamo provato direttamente questo effetto quando più di un lupo, incontrandomi e salutandomi, aveva fatto quella fine per la troppa curiosità.

Scostandosi leggermente, Alexandar esalò: “Oh! Non sapevo potesse essere usato anche per curare i licantropi!”

“Vecchio rimedio casalingo. Inibisce le cellule mannare permettendo a quelle umane di guarire, eliminando così le cicatrici in maniera più efficace rispetto alla rigenerazione abituale” gli spiegai succintamente. Dubitavo che, andando sul tecnico, avrebbe capito.

Lui invece annuì a sorpresa e asserì: “Giusto. La rigenerazione di un licantropo è troppo celere per evitare che si formino profonde cicatrici come quelle lasciate da un artiglio di berserkr, mentre il tessuto umano è più lento, nel processo di guarigione, e permette di evitare danni evidenti e antiestetici.”

“Precisamente” assentii, dovendomi ricredere un po' su di lui. Non era solo una bella faccia... forse.

“Pensi di trovarli al Corno del Diavolo1?” si informò a quel punto lui, sorprendendomi un poco quando lo vidi indicare la litografia.

“Si chiama così, quel luogo?” gli domandai curiosa.

“Esatto. Si trova a circa centocinquanta miglia a nord-est di qui, dalle parti di Vinstra.Ma perché ti interessa proprio quella protuberanza rocciosa?”

“Non è tanto la protuberanza, ma quello che ci sta sopra” replicai, indicando ciò che era stato rappresentato con estrema chiarezza.

Alexandar spalancò lentamente gli occhi quando scorse, sulla roccia, una figura metà umana e metà animale con le braccia levate al cielo e un possente scudo legato a tracolla sulla schiena.

Era un antico guerriero, da quel poco che si poteva comprendere dal disegno, e possedeva tutte le caratteristiche somatiche di un berserkr.

“Pensi possano trovarsi nella zona?” mi domandò, fissandomi con curiosità.

“E' una possibilità che non mi sento di scartare. Attenderò di sapere se gli altri hanno trovato nuovi indizi ma...” iniziai col dire, prima di interrompermi e darmi dell'idiota.

Certo, il mio cellulare era andato perso durante l'attacco dei licantropi di Skjolden, e nella villa i cellulari non avevano campo – Steffen odiava sentirli squillare, perciò aveva schermato quella zona dalle onde elettromagnetiche – ma i telefoni funzionavano benissimo!

Scusandomi con Alexandar, mi avvicinai alla scrivania per digitare il numero di Elspeth e, dopo circa una decina di squilli lei rispose vagamente titubante, mormorando: “Ah... sì, chi è?”

“Ellie, sono io!” esclamai.

Un attimo dopo, una sequela di insulti mi triturò il timpano, portandomi ad allontanare la cornetta prima che la mia dolce, cara, simpatica amica non decidesse di spappolarmi per par condicio anche l'altro orecchio.

Alexandar parve sorpreso di quello scoppio d'ira, ma ascoltò con interesse la miriade di parolacce che Ellie riuscì a far sputare al telefono. Divertito, chiosò: “Mi piacciono le donne che non si preoccupano di apparire sboccate, quando serve.”

“Dubito che esista una donna che a te non piaccia” brontolai, ordinando subito dopo: “Ellie, piantala! Mi hai fracassato un timpano! Ricorda che io ci sento benissimo!”

“Oh... sì, già, è vero...” esalò lei, bloccandosi un istante dopo. “E' che... Dio mio! Abbiamo visto tanto sangue, io e Bev. E lei era così in ansia per Alec! Lui non è morto, vero? Sta bene?”

“E' vivo e si sta riprendendo da una brutta ferita, ma qui siamo irreperibili, e... beh, ci siamo dimenticati di avvisare. Scusate” mormorai contrita, ben sapendo quanto fossero sciocche le mie scuse.

Elspeth attese un attimo prima di parlare e, con calma misurata, asserì: “Posso capire che la situazione sia un po' tesa, lì, perciò soprassiederò e penserò io ad avvisare gli altri. Ma devi assolutamente presentarmi il bel tipo che ho visto nella mia visione, e che ti stava baciando!”

“COME?!” sbottai, voltandomi in direzione di Alexandar che, a mani levate, stava ridacchiando colpevole. “Che avevi intenzione di fare, scusa, Alexandar?”

“Aaah... prenderti di sorpresa?” ironizzò lui, reclinando subito le mani per mettersi in posizione penitente. “Perdonami, ti prego...”

Sbuffai irritata e mugugnai: “Ma è mai possibile che io debba essere una calamita per i lupi?”

“Smettila di fare sesso sfrenato con Duncan” buttò lì Elspeth, portandomi ad arrossire nonostante tutto.

Forse sarebbe stato meglio non averle detto, a suo tempo, quali effetti collaterali comportasse un certo tipo di attività orizzontale, per due licantropi.

Specialmente quando una delle parti in causa ero io.

Alexandar ridacchiò a quel commento ed io lo mandai al diavolo senza tanti complimenti, tornando al mio bisogno primario di parlare con Ellie. “Senti, tesoro, prima di essere entrate in zona off-limits, ti avevo cercata per chiederti se avevi avuto altre visioni.”

“Io no, a parte il belloccio biondo... si chiama Alexandar, vero? Ho sentito bene?”

“E' il testimonial della North Face, se ti interessa” brontolai, sapendo bene che non saremmo arrivate a capo di nulla se, prima, non risolvevo la faccenda 'biondino'.

“OOOH! Ecco dove l'avevo visto! E' uno spettacolo!” cinguettò Ellie, battendo le mani in sottofondo.

Io lanciai un'occhiata al licantropo al mio fianco, che stava ghignando tronfio, e mormorai: “Visto? Ho trovato qualcuno che ti conosce.”

“La tua amica ha ottimi gusti” commentò lui, disgustandomi un poco. Ma quant'era grosso il suo ego?

“Senti, Ellie, dopo te lo passo così potete parlare quanto volete... ma prima torniamo a noi. Bev ha scorto qualcosa?”

“Una montana enorme, simile a un corno. E una bambina” mi spiegò lei, tornando seria e operativa.

Aggrottai la fronte a quell'ultimo accenno, non comprendendo il nesso tra le due cose.

“Ah... bene, per la montagna, penso di aver capito cosa sia. Sulla bambina non mi esprimo” borbottai, non sapendo bene che pensare.

“Bev mi ha detto che sembrava molto spaurita e sola. E ferita” mi informò Ellie, ora preoccupata.

La cosa non mi piaceva per nulla, ma al momento non potevo fare niente per migliorare quello stato di cose.

“Molto bene, ora ti passo Alexandar. Grazie, tesoro e, per le prossime volte, cercami sul cellulare di Duncan, se prende. Il mio è distrutto” le spiegai succintamente.

“Non voglio chiederti perché, mi accontenterò di parlare con Mister-Quadrifoglio.”

Alexandar prese la cornetta del telefono e disse con malizia: “Ho un quadrifoglio tatuato alla base della schiena, proprio sopra la natica destra.”

“Non era necessario che tu fossi tanto specifico” brontolai, allontanandomi alla svelta per cercare Duncan ed Erin e riferire loro quanto avevo saputo.

Non impiegai tanto per rintracciarli e, quando finalmente mi ritrovai di fronte entrambi loro, vidi Erin sgranare gli occhi e ridacchiare un attimo dopo.

Annusando l'aria, ne compresi subito il motivo e, esasperata, mugugnai: “E' stato anche da te?”

“Eccome” ridacchiò la donna, facendo sorgere più di un dubbio sul viso di Duncan, che ci guardò in attesa di spiegazioni.

Scuotendo il capo per la stanchezza mentale che provavo, esalai: “Il figlio di Steffen. E' un dongiovanni da strapazzo, e si vanta come Narciso della sua bellezza stratosferica. Ci ha provato anche con te, Erin?”

“Si è fermato solo quando gli ho detto che ho una figlia” rise sommessamente la donna.

Duncan non parve così divertito dalla cosa ed io mi affrettai a chetare il suo lato più possessivo, dicendogli: “L'ho bloccato sul nascere, tranquillo. Non ti incavolare. Ha solo buon gusto.”

“Questo lo so, ma tu sei solo mia” protestò roco lui, dandomi un bacio appena sotto l'orecchio, dove la carne è più tenera.

Sospirai, e mi addossai a lui per un attimo, mormorando: “E' reciproco, credimi.”

Erin tossicchiò per riportarci all'ordine – amoreggiare in un corridoio non è il massimo, neppure per un licantropo – ed io, ridacchiando, dissi: “Penso di sapere dove ci dobbiamo dirigere.”

“Ottimo. Perché negli altri uffici non c'era praticamente nulla di interessante” brontolò Duncan, avvolgendomi la vita per trattenermi contro di sé.

La schiena poggiata contro il suo torace, non protestai minimamente per quella posizione e, scrutando Erin con entusiasmo, le dissi: “Potremo affittare un auto per raggiungere il punto successivo da cui ripartire, così Alec non dovrà farsi il grosso della trasferta a piedi.”

“Glielo spiegherai tu, perché quel testone senza speranza si è già messo a camminare per la stanza” si limitò a dire la donna, scrollando le spalle.

“Oh. Di già?” esalai, sorpresa.

“L'ho aiutato ad alzarsi  proprio stamattina, visto che l'alternativa sarebbero stati i suoi goffi tentativi di farlo da solo.” Poi, ironica, aggiunse: “Lo sapevi che dorme con il pigiama? L'avresti mai detto?”

La cosa mi lasciò interdetta perché sapevo benissimo che non era così e, lanciata un'occhiata di straforo a Duncan, gli domandai mentalmente: “Gliel'hai comprato tu, ieri pomeriggio, quando sei sceso in paese assieme a Christien per acquistare nuove provviste per il viaggio?”

“Esatto. Me l'ha espressamente chiesto, ma non mi ha voluto spiegare i motivi. Ora ho capito.”

“Non esistono molti motivi per cui un licantropo non voglia farsi vedere da un rappresentante dell'altro sesso senza abiti addosso...”

“Io non mi metto a psicanalizzarlo, Brie, e non dovresti farlo neppure tu. Sono affari suoi.”

Sbuffai contrariata e replicai: “Ma insomma, Duncan! Ammetterai che è strano!”

“Brie... sono affari suoi”  mi ripeté lapidario Duncan, sorridendo nel darmi un bacetto sul capo.

“Comunque... la nuova meta del nostro viaggio è Vinstra. Da lì, risaliremo le montagne e cercheremo tra le vallate sospese di quei luoghi. Sono sicura che troveremo qualcosa” dichiarai per tagliare la testa al toro. Non era il momento di pensare ai guai ormonali di Alec... anche se ero così curiosa!

Erin fu d'accordo con me e, con passo lesto, si incamminò lungo il corridoio dicendo: “Vado subito a dirlo ad Alec.”

Duncan ed io annuimmo tra noi prima di dirigerci verso la nostra camera.

Era il momento di rifare i bagagli e prepararci per un altro trasloco.

Cominciavo a sentirmi come in un'interminabile caccia al tesoro. Speravo soltanto che il premio, alla fine, valesse le peripezie passate.

 

 

 

_________________________________

1. Corno del Diavolo: Il nome è puramente inventato, ma a ovest di Vinstra, proprio a picco sul paesino scandinavo, esiste realmente una formazione rocciosa a forma di corno, per cui ho deciso di chiamarla così.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


1

 

Capitolo 13

 

 

 

 

 

 

L'orgoglio, a volte, è proprio un gran brutto difetto.

Non appena Alec venne a sapere che avremmo  proseguito il viaggio in auto, andò su tutte le furie.

Brontolò per più di un'ora, asserendo che era tutta una scusa per non ammettere che la sua ferita li avrebbe rallentati, e che lo facevamo solo per non fargli pesare la sua attuale condizione di degente.

Duncan, deputato a fargli passare quell'attacco di rabbia, rimase con lui tutto il tempo, sicuramente il più adatto tra noi a sopportarne i rimbrotti.

Tra uomini, ci si capiva.

Inoltre, lui aveva già provato quella sensazione quando, l'anno precedente, ci eravamo ritrovati a fuggire per i boschi, impossibilitati a muoverci agevolmente per via della sua ferita.

Se avessimo avuto la possibilità di contare su un'auto, l'avremmo sicuramente usata.

O almeno, era questo che speravo Duncan stesse dicendo in quel momento ad Alec.

Per evitare problemi, comunque, io ed Erin ci eravamo rifugiate su una delle balconate della villa e, in quel momento, ci stavamo godendo il panorama da favola che offriva il fiordo.

Era quasi impensabile credere che stessimo rischiando di iniziare una guerra, ma tant'era.

Sdraiata su uno dei comodi lettini prendisole che la villa offriva ai suoi abitanti, Erin se ne stava a braccia conserte sotto i seni, l'aria abbastanza tranquilla e rilassata.

Aveva appena finito di parlare al telefono con Penny, ricevendo conferme sulla sua buona salute, ma si era ben guardata dal dirle che Alec era rimasto ferito per proteggere lei.

Questo avrebbe mandato in frantumi le certezze della figlia, ed Erin non voleva che lei si preoccupasse per Alec.

Seduta al suo fianco con un buon cocktail alla frutta tra le mani – eh, sì, in cucina preparavano anche i cocktail – la scrutai in silenzio per diversi minuti quando Erin, di colpo, mi disse: “Alec mi ha detto che gli hai raccontato di Sam.”

“Scusa... ma mi sembrava l'unico modo per farlo calmare un po'. Era incavolato con te per motivi assurdi” ammisi senza problemi, sorseggiando la mia bevanda ghiacciata.

Il sole stava iniziando a reclinare sul nostro terzo giorno di soggiorno a Skjolden e, alle prime luci dell'alba del giorno seguente, saremmo ripartiti.

“Nah, figurati. Nel mio branco, lo sanno tutti. Solo Penny non conosce la verità, ma questa è una cosa che, al momento, non la deve toccare. E anche se fosse, Marcus rimane il suo papà, pur se non ha il suo sangue nelle vene” scrollò le spalle Erin, sorridendomi.

“Come va, comunque? Tra te e Alec, intendo. Va un po' meglio?” mi informai, giocherellando con la fetta d'arancia appesa al pesante bicchiere di vetro colorato che tenevo in mano.

“Non ci uccideremo a vicenda, se è questo che temi” ridacchiò lei, scostando dietro un orecchio una ciocca dei fulvi capelli. “Mi ha detto che, se voglio fare fuori Samuel, ci può pensare lui. Per Penny.”

Risi sommessamente, trovando quella frase molto da Alec. Lui era solito risolvere le cose in modo definitivo.

Più seriamente, aggiunse: “Mi ha detto di suo padre... di quel che ha fatto a lui e Pat.”

Questo mi sconvolse. Non avevo idea che Alec avesse trovato la forza per mettere a parole quell'incubo tremendo e, soprattutto, che avesse deciso di confidarsi proprio con Erin.

Una lacrima le sfuggì rabbiosa sulla gota e lei, stizzita, la cancellò con un gesto della mano. “Vorrei ucciderlo. Suo padre, intendo. Se fosse ancora vivo, lo ucciderei per lui.”

“Non sei stata l'unica a pensarlo” mormorai comprensiva, sorridendole.

“Anche tu?” esalò lei, prima di comprendere. “Oh... quella mattina nel parco...”

Annuii e le spiegai ciò che avevo fatto, quanto avevo scoperto e quello che, il passato di Alec, aveva lasciato nel mio animo.

“Voleva essere certo di non essere rimasto... ferito irreparabilmente. Non riesco a immaginare di crescere con un tale peso da portarmi dietro. Quel che è successo a Pat, alla piccola Mary Ellen... a lui. Quell'uomo li ha distrutti in tutti i modi possibili e immaginabili, e solo con una forza di volontà incredibile ci si può rialzare” sussurrai tesa, stringendo la mano libera a pugno.

“Sì, Alec è un uomo molto forte. E duro, soprattutto con se stesso” assentì Erin, pensierosa.

“Gli viene bene” sogghignai, vedendola sorridere per diretta conseguenza.

“Oh, sì! Fare il sostenuto è uno sport in cui risulterebbe sempre vincente” ironizzò la donna, lasciando che i suoi occhi si illuminassero di malizia.

Decisi che era giunto il momento per lanciare la mia bomba e, con casualità, asserii: “In realtà, non indossa mai il pigiama, la notte, sai?”

“Come?” esalò li, sobbalzando per poi mettersi a sedere e guardarmi con aria stranita.

“Me l'ha detto lui” gli confermai, sorridendo ironica. “E ne ho avuto la riprova quando gli ho cambiato i bendaggi, il primo giorno.”

“Ah” gracchiò lei, sbattendo le palpebre con aria vagamente sconvolta.

Socchiusi gli occhi per fissarla con estrema malizia, e aggiunsi: “Oh... ed è molto dotato.”

Schivai un cuscino di un nonnulla e, mentre Erin tentava di trovare qualche altra cosa da tirarmi, io scoppiai a ridere e mi scostai dietro un tavolino per evitare la seconda ondata di oggetti atti a offendere.

“Non dovresti parlarmi di queste cose!” sbottò lei, non riuscendo però a smettere di ridere … e di arrossire.

“Pensavo che tra licantrope non ci fossero di questi tabù” ironizzai, prima di essere centrata in piena faccia da un secondo cuscino.

Crollai col sedere a terra, le lacrime che mi colavano dal viso mentre la mia risata irrefrenabile si confondeva con quella di Erin che, distrutta dal ridere, era distesa sul lettino tenendosi la pancia.

Avevo avuto la conferma ai miei dubbi e, anche se non potevo esattamente dire che quello fosse il momento migliore per un flirt, le dissi: “Non sarebbe male, come partito.”

“Smettila, Brianna, so benissimo a che gioco stai giocando, e io non voglio parteciparvi” brontolò Erin, cercando di fissarmi malissimo ma senza riuscirvi. Le sue risate continue le impedivano di essere seria, o credibile.

“Scusa, scusa, lo so, non sono affari miei...ma...”

“Niente ma. Non potrà mai esserci nulla, tra me e lui” brontolò lei, tornando finalmente seria in viso.

Io smisi immediatamente di ridere e, rimettendomi a sedere al mio posto, le domandai: “Perché pensi una cosa del genere? Non dico che debba succedere adesso, ma intendi portare il lutto per sempre?”

Vagamente sorpresa, Erin scosse il capo e replicò: “Oh... no. Non intendevo questo. Marcus non mi avrebbe mai voluta vedere sola a vita. Ma non potrei mai accettare di stare con un uomo... solo perché lui vuol bene a mia figlia, ma non a me.”

Quell'affermazione mi lasciò basita.

“Ma... non credo che Alec...insomma, basta vedere come si comporta per...” tentennai, non sapendo bene cosa dirle per rassicurarla.

Erin sorrise scuotendo il capo e, nell'alzarsi dal lettino, mi confidò: “Alec è stato chiaro. Lui non può stare con nessuna donna perché non sa amare.”

“Ti ha raccontato anche di Bev, vero?” asserii a quel punto, cominciando a provare un vago sentore di rabbia nei confronti di Alec. Ma che combinava?

“Me l'ha spiegato per farmi capire quali strascichi abbia lasciato il trattamento di suo padre” ironizzò senza allegria Erin, annuendo al mio indirizzo. “Riesce sì e no a voler bene alla sorella, al nipote... e ora a Penny. Ma non se la sente di esporsi oltre.”

“Maledizione, Erin, e secondo te perché si sarebbe sbilanciato a dirti tutte queste cose, se non fosse interessato a te?!” sbottai, sbracciandomi per il nervosismo.

“Proprio per evitare che io potessi farmi venire la malsana idea di interessarmi a lui” precisò la donna, avviandosi per rientrare in casa.

Non tentai di fermarla, perché tanto non mi avrebbe ascoltato, ma decisi di andare per direttissima da Alec e cantargliene quattro.

Era impazzito del tutto, a dire una cosa del genere ad una donna?! Ad una che, tra l'altro, sembrava interessata a curare le ferite del suo cuore? E a cui lui pareva avrebbe potuto lasciare campo libero?

Oooh, mi avrebbe sentito, eccome!

O per lo meno, quella fu la mia idea iniziale.

Quando trovai Duncan ad attendermi sulla porta della stanza di Alec, l'aria di uno che non avrebbe ceduto tanto facilmente, capii che almeno per quella sera non avrei potuto parlare con quell'idiota patentato.

Sbottai, lanciai un'imprecazione e tentai di sgusciargli da sotto un braccio ma lui fu più lesto, mi caricò su una spalla come un sacco di farina e mi ricondusse indietro, sordo a tutte le mie proteste.

Dopo avermi scaricato sul letto della nostra stanza, mi bloccò le braccia all'altezza dei polsi con le sue mani enormi e, con un sorriso triste, mi disse: “Lascialo in pace, Brie. E' il suo cuore, non il tuo.”

“Ma non è giusto! Né per lui, né per Erin. Forse lei potrebbe...”

Azzittendomi con un bacio, mi disse subito dopo avermi liberato dalla sua bocca: “Deve essere una loro decisione, e se Alec non se la sente, non puoi obbligarlo. E' terrorizzato.”

“Cosa?” esalai sorpresa, bloccando qualsiasi mia protesta.

“Non si è mai sentito così confuso, così frustrato, così infuriato con se stesso, e sono tutte cose che non vanno affatto bene, per un lupo mannaro. La bestia diventa irrequieta, e potrebbe succedere di tutto. Non ha bisogno di ulteriori stimoli a perdere la testa. Lascialo sbollire. E non dare il tormento a Erin per questo” mi pregò Duncan, arrischiandosi a lasciarmi i polsi per mettere mano all'orlo della mia maglietta.

Lentamente, lo sollevò, accompagnando il gesto a una lenta, sinuosa carezza ed io, inarcandomi contro di lui, sospirai: “Non è giusto fare leva su questo, però...”

“Se dovrò tenerti incollata al letto tutta la notte, lo farò, e con sommo piacere” mormorò lui, baciandomi con tenerezza la carne attorno all'ombelico.

Sobbalzai leggermente al suo tocco e, con una risatina, ammisi: “Ellie mi ha visto in una visione mentre Alexandar mi baciava.”

Lui grugnì, e la sua aura si fece scarlatta di rabbia per un istante prima di riprenderne il controllo.

Un attimo dopo, mi sfilò i jeans con un unico, aspro movimento e, massaggiandomi le cosce con le dita, ringhiò contro la mia pelle accaldata: “Sarebbe già un uomo morto, se l'avesse fatto anche nella vita reale.”

Ridacchiai, e dissi: “Gli avrei spezzato il collo, se ci avesse provato. Fortuna per lui che Ellie mi ha avvisata in tempo, sennò avremmo commesso un omicidio per una stupidaggine.”

“Quando si tratta di te, niente è mai stupido” sussurrò lui, facendo scivolare via lentamente l'ultima barriera che ci divideva.

Io trattenni il fiato prima di lasciarlo andare di colpo quando lui cominciò a divorarmi un pezzo alla volta, lasciando che la sua aura penetrasse in me, accarezzandomi contemporaneamente in ogni angolo segreto del mio corpo.

Mi dimenai, schiava delle sue mani finché non decisi di rendere la pariglia e, invertiti i ruoli, lo distesi sul materasso per poi spogliarlo pezzo dopo pezzo, lasciando che alle mani seguisse la bocca.

Duncan mi lasciò fare – amava quando prendevo l'iniziativa – finché non raggiunsi il centro della sua virilità.

Lì mi fermò, mi sorrise anche con gli occhi, divenuti d'ambra, e mormorò roco: “Non ora, non subito. Ti voglio per tutta la notte, un pezzo alla volta.”

Acconsentii di buon grado.

***

La partenza da Skjolden fu serena e indolore e, soprattutto, permise ad Alexandar di salvarsi dalle grinfie di Duncan.

Gli avevo detto e ridetto che non era successo nulla, che lui non si era spinto oltre a qualche insinuazione e Duncan era parso convinto ma, con gli uomini, meglio andare sul sicuro.

Ci eravamo trovati bene, nostro malgrado, nonostante all'inizio avessimo rischiato di perdere la vita a causa di quell’attacco su larga scala, e non volevo che tutto finisse con un omicidio passionale.

Inoltre, era meglio concentrarsi su Loki e i suoi infiniti trucchi.

Scoprire che aveva inserito così tante mine vaganti nel percorso a ostacoli che ci aveva posto innanzi era preoccupante, pur se non ci sorprendeva più di tanto.

Fenrir per primo non era mai stato molto propenso a credere suo padre 'sconfitto'.

La morte non era che una porta, ma ciò che lui aveva fatto prima di attraversarla poteva essere così complesso e machiavellico che, anche senza la sua presenza fisica, potevamo rischiare non poco.

Con Loki non si poteva scherzare, pur non avendolo di fronte a noi come nemico diretto.

Le manovre di Sebastian, poi, ci erano quasi costate la pelle e, per poco, Alec non era passato a miglior vita.

Restava da capire se anche lui fosse rimasto vittima del potere di Loki o se, per disgrazia, avesse partecipato all'intera missione di sua spontanea volontà.

La sua permanenza forzata a Nilfheimr gli avrebbe schiarito le idee, almeno stando a quello che avevo saputo di quella prigione.

Chiusa tra le radici di Yggdrasil, era invalicabile, inespugnabile, indistruttibile. Nessuno poteva uscirne, se vi si era condotti in catene e, pur senza sbarre a cingerne le pareti, non era possibile sfuggirne.

L'energia stessa dell'Albero della Vita contribuiva a creare quella gabbia invisibile e, se il prigioniero che veniva condotto in quelle camere non riusciva a liberarsi dei ceppi, questo provava la sua colpevolezza.

Da quel poco che avevamo saputo, Sköll dell'Isola di Man era rimasto così sorpreso dall'ordine di incarcerazione del suo Fenrir che, per diversi minuti, non era riuscito a proferir parola.

Ma, poiché l'arresto era stato controfirmato da tutti i Fenrir inglesi e messo in atto dallo stesso Joshua, che era a capo della Congregazione Britannica dei licantropi, non aveva potuto opporre alcuna resistenza.

Di tutt'altro avviso era stato Sebastian che non solo aveva tentato la fuga, ma era giunto a ferire Gwen, il Geri di Joshua, prima di prendersi per diretta conseguenza un pugno nei denti da Freki.

Messo ai ceppi, era stato condotto a Nilfheimr in nave e, dopo essere discesi sulle coste di Holm of Huip, nelle isole Orcadi, avevano condotto il prigioniero nella sua cella senza sbarre.

Holm of Huip, disabitata da secoli e da secoli di proprietà del clan dell'arcipelago, era da sempre stata destinata a Nilfheimr poiché uno dei pochi punti, sulla Terra, ove le radici di Yggdrasil erano visibili.

Quando l'avevo scoperto, il mio desiderio di vedere di persona l'enorme frassino – o almeno una sua parte – che reggeva i Nove Regni era stato così forte da spingere Duncan ad abbracciarmi per calmarmi.

Tra mille risolini, mi aveva consolato dicendomi che presto sarebbe venuto per me il tempo di vederlo, ma prima dovevamo portare a termine quella missione.

Pur a malincuore gli avevo dato ragione e, in quel momento, mi trovavo sul sedile posteriore di una Volvo V70 grigio ghiaccio, impegnata a monitorare i parametri vitali di Alec.

Ancora convalescente, non aveva voluto però sentir parlare di attendere un altro giorno prima di partire e, in quella assolata domenica di inizio settembre, ci eravamo infine mossi verso Vinstra.

Più di novanta miglia sui morbidi sedili di pelle della Volvo non sarebbero stati così tremendi, ma le curve che ci avrebbero accompagnato, un po' meno.

Erin, seduta sul sedile del passeggero mentre Duncan era alla guida, curiosò tra le varie stazioni radiofoniche fino a trovare qualcosa di più o meno udibile e, quieta, domandò: “Può andare?”

“Lady Gaga? Vuoi prendermi in giro?!” brontolò Alec, perfettamente immobile mentre controllavo, a un dito di distanza dal suo ventre, le condizioni delle sue ferite. Non era necessario togliere il bendaggio, ma avevo la necessità assoluta che lui stesse fermo per poter operare con il mio potere.

“Non ho nessunissima intenzione di cercarti i Black Sabbath o i Metallica, se proprio vuoi saperlo. E dubito che qualcuno, da queste parti, li ascolti” replicò serafica Erin, scrollando le spalle.

“Lo sapevo che avrei dovuto obbligare Duncan a prendere qualcosa all'emporio, prima di partire. Questa robaccia non si può sentire!” si lagnò Alec, passandosi una mano sul viso con aria esasperata.

“Stai fermo” gli rammentai a bassa voce, lanciandogli un'occhiataccia di straforo.

Duncan ridacchiò.

“Ragazza, è abbastanza difficile con te che ti aggiri con quella candida manina attorno ai miei gioielli di famiglia” sghignazzò Alec, ammiccando.

Io sollevai per contro un sopracciglio e chiosai: “Se non vuoi che ti strizzi Dick Tracy facendoti cantare come Mika,… resta fermo.

Impallidendo leggermente, Alec scostò lo sguardo da me allo specchietto retrovisore per curiosare sul viso ridente di Duncan e gracchiò: “Cioè, ma la senti? E tu non dici niente?! Tienila un po' a freno, la tua lupetta!”

“E rischiare di offenderla mentre è così impegnata nel suo ruolo di wicca? No, mio caro. E poi, se ben ricordi, nessuno può dire a una wicca quello che deve fare, neppure Fenrir” celiò Duncan, mantenendosi a una velocità di crociera perfetta.

Erin rise senza ritegno e Alec, grugnendo un insulto a entrambi, tornò a fissarmi torvo e ringhiò: “Stai attenta a quel che fai, streghetta o, wicca o non wicca, ti rivolto sulle ginocchia e ti sculaccio.”

Io sorrisi divertita e, tornando a sondare i capillari sottopelle per essere certa che tutto stesse procedendo nel migliore dei modi, mi limitai a dire: “Dovresti saperlo che, quando opero come wicca, mi è fisicamente impossibile farvi del male... a meno che non ci proviate voi. O non te lo ricordi?”

Sbuffando, Alec mugugnò: “E non gliel'hai ancora detto...”

“Perché dovrei? Sono cose nostre” ironizzai, percependo senza sforzo la curiosità di Duncan accendersi come un falò.

“Perché non posso sapere cos'è successo tra voi due?”

“Primo, perché stai guidando, e non vorrei mai che la cosa ti potesse disturbare a tal punto da distrarti. Secondo, perché è acqua passata e non c'è bisogno che tu ti incavoli con Alec per una cosa a cui non penso neppure più.”

“Sai che mi stai facendo impazzire con questa cosa, vero?” ridacchiò Duncan.

“Se vorrai torturarmi per ottenere questa informazione, posso dirti che non soffro il solletico, perciò è inutile che ci provi” gli rammentai, divertita mio malgrado dall'allegria manifesta di Duncan.

Dopo esserci chiariti su quel che successe alle Svalbard, il mio Fenrir adorato non aveva più dato segni di aver ripensato a quello che aveva ammesso dinanzi a me, segno che anche Avya era venuta a più miti consigli.

Avere due anime così potenti dentro di noi non era facile, specialmente se davano di matto, ma l'importante era accorgersene e porvi rimedio.

Per quella volta, ci eravamo riusciti. Ora, riconoscere i segnali sarebbe stato più facile.

“Conosco mille altri modi per farti cantare come un'allodola” mi minacciò spudoratamente, scagliandomi nella mente immagini davvero irripetibili a parole.

Avvampai in viso e Alec, incuriosito dalla mia reazione, si guardò il basso ventre per essere sicuro di non aver combinato guai senza accorgersene ma, nulla trovando di strano, sogghignò e mi chiese: “Oh... c'è qualcuno che sta facendo un filmino a luci rosse nella tua testa?”

“No comment” precisai.

Tutti risero di gusto e anch'io mi rilassai, terminando di controllare senza ulteriori intoppi le ferite sulle cosce.

Risollevatami, allacciai nuovamente la cintura e mi misi comoda contro lo schienale in pelle chiara.

Lo sguardo mi corse subito al paesaggio, ricco di vegetazione silvestre che si inerpicava su per la valle a U, scavata millenni prima dal passaggio dei ghiacciai.

L'aria era frizzante e intrisa di profumi intensi quanto deliziosi e la presenza di effluvi umani, in quei luoghi, era davvero minima.

Piccoli gruppetti di case dai muri colorati punteggiavano qua e là il paesaggio, spezzando il verdeggiare di quei luoghi senza peraltro intaccarne la bellezza.

Proseguimmo lesti sulla piccola strada fino a incontrare Lom, una graziosa cittadina immersa tra le montagne e costeggiata dal fiume Visa, che correva parallelo alla Regionale, che in quel punto divenne più ampia e scorrevole.

Il traffico aumentò sensibilmente, ma questo non ci impedì di proseguire speditamente, permettendoci nel contempo di ammirare gli splendidi paesaggi locali e le graziose abitazioni norvegesi.

Nei pressi di Otta, paese alla confluenza di due fiumi, ci fermammo per un pranzo leggero ammirando, dalla veranda di un grazioso ristorante del luogo, il paesaggio circostante.

E, neppure per un istante, lasciammo che quelle occhiate rimassero fini a se stesse.

Ognuno di noi cercava indizi, tracce, eventuali odori portati dal vento ma nulla valse allo scopo.

O i berserkir si nascondevano sottoterra, oppure non eravamo ancora arrivati nel posto giusto.

Non ero del tutto sicura che una litografia del secolo precedente potesse essere sufficiente per condurci sulla giusta via ma, non avendo null'altro...

Quando infine riprendemmo il nostro viaggio in direzione di Vinstra, Alec asserì: “Ho l'impressione che ci stia sfuggendo qualcosa.”

“In che senso?” mi informai, curiosa.

“Quando tu ed Anthony siete stati attaccati, al Vigrond, cosa avete percepito con esattezza?” mi domandò senza tanti giri di parole.

Rabbrividii impercettibilmente e Alec, quasi senza accorgersene, mi diede una pacca consolatoria sul ginocchio.

Sapeva che mi stava chiedendo molto, domandandomi di ricordare quei momenti, ma era vitale avere per le mani tutte le informazioni possibili su di loro.

Ed io ero l'unica, a parte Anthony, ad averli affrontati senza conoscerne prima l'esistenza.

Chiusi gli occhi per alcuni istanti, cercando di rammentare quei momenti, di scandagliare a fondo nella memoria e Fenrir, al mio fianco, mi aiutò a sondare quei flash di memorie recenti.

L'odore era labile, vero?

“Ce ne siamo resi conto solo quando li abbiamo avuti praticamente addosso, in effetti. Ed eravamo sottovento, quindi avremmo dovuto percepire il loro odore molto prima. A meno che...”

A meno che esso non sia intenso come quello di un licantropo, o di un umano.

“O un altro animale a sangue caldo. Però... Lot in forma umana aveva un profumo che io riconoscevo anche se lui si trovava all'altro capo della nave, mascherato dagli altri berserkir, gli umani e tutto quello che si trovava sul bastimento” precisai, avendo le idee ancor più confuse di prima.

E' la berserksgangr. O almeno credo. E' possibile che i berserkir, durante la furia, non emettano odori per non essere rintracciabili a grande distanza.

“Questa sì che sarebbe iella pura ma, stando così le cose, non mi stupisco che non riusciamo a trovarli con l'olfatto. Se in forma di uomini-orso le loro ghiandole esocrine non secernono odori, siamo spacciati. Come li troviamo? Il loro odore in forma umana è identico a quello di un normale mortale.”

E' probabile che le ghiandole funzionino regolarmente, in forma umana, ma secernano qualche tipo di sostanza bio-chimica che inibisce l'odore caratteristico dell'uomo-orso.

“Una sorta di deodorante naturale per camuffare la presenza dei berserkir?”

E' possibile, se ci pensi. I feromoni servono a modificare le percezioni di colui che ne entra in contatto. E qui c’è l’aggravante che, in forma umana, non sono dissimili dai comuni mortali, a quanto pare.

“Un momento!” esclamai tra me, sgranando gli occhi.

I feromoni, tendenzialmente, servivano per attirare l'attenzione, e si sviluppavano proprio in casi di sovraeccitazione, come per l'appunto la berserksgangr.

Ma se, nel caso specifico, fossero stati dei feromoni primer? Quel genere di feromoni modificano nel ricevente i comportamenti fisici o psicologici, anche a lungo termine.

Possibile che fossimo di fronte a quello? A un mascheramento indotto da un tipo particolare di feromoni primer?

“Ti è venuto in mente qualcosa, streghetta?” mi domandò allora Alec.

“E' possibile che il nostro olfatto sia costantemente ingannato da un certo tipo di feromoni primer” ammisi scocciata.

“Parla facile, ragazza. So cosa sono i feromoni, ma pensavo ne esistessero di un solo tipo” borbottò Alec, accigliandosi.

“Esistono quattro generi di feromoni: i trace, o traccianti,  gli alarm, che mettono in allerta i riceventi, i releaser, che scatenano l'aggressività e, per l'appunto, i primer, che possono portare a modifiche comportamentali o psicologiche” spiegai loro con dovizia di particolari. In fondo, era materia mia.

“Quindi, saremmo stati ingannati?” sibilò Alec, per nulla felice di essere stato preso per i fondelli.

“E' possibile. Io ed Anthony ci siamo accorti di loro solo quando sono stati vicinissimi, … cosa davvero strana, se pensi bene. Voi, invece, sapevate già che avreste dovuto combattere contro di loro, perciò non avete fatto caso al loro odore. Per trovarmi, avete cercato la mia traccia olfattiva, non la loro, ho ragione?”

“Esatto” confermò Duncan, il cui viso non lasciava trapelare assolutamente nulla. Ahia, era furioso.

“Se poi consideriamo l'assalto alla biblioteca di Armagh, dove i licantropi di Marcus e lui stesso non si sono accorti del loro arrivo, possiamo pensare che non sia un'ipotesi campata per aria” aggiunsi, rivolgendo uno sguardo comprensivo a Erin, che annuì.

“Questo spiegherebbe perché sono morti tanti miei lupi, nello scontro. I feromoni li hanno confusi” asserì Erin, pensierosa.

“Se la berserksgangr funziona così, e non è soltanto uno stato di furia, allora dovremo stare parecchio attenti visto che, neppure da umani, sono irriconoscibili da un comune mortale” ringhiò Alec, torvo in viso non meno di Duncan.

“Questo ci complicherà parecchio la ricerca” ammisi, trovando quella scoperta non poco spiacevole.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


6

Capitolo 14

 

 

 

 

 

Vinstra somigliava a tutti gli altri paesini sparsi per la Norvegia, con le sue casette colorate, i tetti spioventi, i bei giardini curati e le strade ordinate e pulite.

Un bel centro commerciale rosso fuoco costeggiava la via principale e lì ci fermammo per consegnare la nostra auto a noleggio, come d'accordo con Fenrir di Skjolden.

Dopo una breve sosta all'interno del market per recuperare quel che non avevamo trovato a Skjolden, ci incamminammo verso est, decidendo di dar voce a un'idea che ci era balenata nella mente.

Consultando le mappe della zona, ci eravamo resi conto che nei dintorni di Vinstra, almeno nella zona ovest, non comparivano agglomerati urbani degni di nota, e le rocce e gli alberi la facevano da padroni.

Ora, dando per scontato che i berserkir non abitassero in grotte nel ventunesimo secolo, avremmo puntato il nostro sguardo verso i villaggi di poche case, quelli talmente dispersi nell'entroterra da non essere neppure conosciuti ai più.

Era un azzardo ma, non potendo contare sull'olfatto, quasi sicuramente disturbato dai feromoni primer, dovevamo ragionare con logica.

Le piste a sud e a nord conducevano a grossi agglomerati urbani – se si poteva definire grosso un paese come Otta, o Vinstra stesso – e, stando a quel poco che sapevo sui berserkir, loro non prediligevano stare in mezzo agli umani.

Lot era stato parco di informazioni, nei brevi giorni che ci avevano visti assieme, ma una cosa l'aveva detta, e molto chiaramente. Il suo popolo non amava la civiltà e, soprattutto, non amava gli umani.

Ergo, città bocciate, così come cittadine su strade trafficate e tutto ciò che potesse anche solo assomigliare a un agglomerato urbano con più di mille persone.

Perciò rimanevano le zone a est e sud-est di Vinstra.

Nulla trovando neppure lì, ci saremmo spinti oltre, ovviamente, ma saremmo irrimediabilmente usciti dalle zone che avevamo deputato come le migliori dove trovare i berserkir.

E se così doveva andare, avrei detto addio al mio secondo anno di università.

Perché avrebbe voluto dire disperdere le nostre forze per mezza Norvegia, perdendo irrimediabilmente un sacco di tempo.

Sperai con tutto il cuore che non succedesse nulla di simile.

Fu dura far digerire ad Alec il fatto che, almeno per il momento, lui non avrebbe portato uno zaino, ma alla fine cedette.

Sicuramente, non voleva discutere in presenza di testimoni e, pur se Vinstra era un piccola cittadina, era pur sempre un luogo dotato di occhi e orecchie.

E sentire quattro turisti inglesi che discutono animatamente fa sicuramente girare più di una testa. Forse anche qualche testa sbagliata.

Ed era una cosa che noi non volevamo affatto.

L'unica consolazione era che anche i berserkir non avrebbero percepito il nostro odore, visto che i loro sensi erano di poco superiori a quelli umani.

Sebastian, inoltre, era ormai fuori gioco, impossibilitato a chiamare chicchessia, il che ci dava un altro, indubbio vantaggio.

Fu con queste misere certezze che ci incamminammo lungo uno dei sentieri che conducevano nei boschi, e da lì tra le montagne nei pressi di Vinstra.

Nel sentire brontolare alle spalle mie e di Duncan, però, mi volsi a mezzo per scrutare dubbiosa Alec e, levando un sopracciglio con evidente fastidio, gli domandai: “Hai altro da esporre, prima di entrare nella foresta?”

“Di' a questa qui che non ci salgo in groppa su di lei” borbottò Alec, indicando con il pollice la figura di Erin, che chiudeva la fila.

Lei si limitò a sorridere serafica ed io, sbuffando, replicai: “Mi sembra che le orecchie di Erin funzionino benissimo e, se dovessi stancarti davvero, dovrai salire in groppa su uno di noi, …per forza.”

“Beh, non su di lei” grugnì Alec, adombrandosi ulteriormente.

“Ragiona, Alec...” iniziò col dire Erin, parlando con lo stesso tono pacato che avrebbe usato con sua figlia Penny. “... non vorrai davvero obbligare Duncan a portarti in spalla! O anche solo Brianna! Loro sono gli elementi più forti di questo quartetto e devono avere le mani libere, in caso servisse menare qualche fendente, perciò rimango solo io.”

Alec si limitò a imprecare, infilò le mani in tasca e continuò a camminare in perfetto silenzio, lasciando Erin a godersi il sorriso soddisfatto che le comparve in viso.

Duncan non aprì bocca, almeno con loro, ma a me disse: “Come vedi, sanno sbrigarsela anche da soli.”

“Perché, era un battibecco tra innamorati, quello?”

“Poteva anche esserlo. Non ti ricorda nessuno, Alec?” ironizzò Duncan, lasciandosi scappare un sorrisino velato sul volto.

Io ci rimuginai per un po', valutando i pro e i contro di quella frase e, mentre ci inoltravamo sempre di più all'interno della foresta di latifoglie rigogliose e verdeggianti, sospirai di sorpresa.

“Oh, già. Tu non eri esattamente simpatico o disponibile ai compromessi, dopo che io avevo confessato di amarti. Dici che Alec sta facendo la stessa cosa?”

“Forse sì, forse no. Di sicuro, la sua aura sfrigola tutte le volte che si rivolge a Erin, e questo è un evento piuttosto nuovo, per lui. Almeno, per quel che lo conosco io.”

“Ma non potrebbe essere semplicemente che gli da fastidio l'interesse di Erin nei suoi confronti?”

“Si limiterebbe a parlar chiaro, così come fece con Bev. Alec può avere un sacco di difetti, ma non è falso. Se ti deve dire una cosa, te la dice. A meno che non sia coinvolto emotivamente e, visto che con Erin non ne combina una dritta e fa un sacco di confusione, oserei dire che gli interessa... e parecchio.”

“E lei non lo aiuta, perché è testarda come un mulo, non meno di lui, e lo tratta a pesci in faccia tutte le volte che lui apre bocca, oppure lo redarguisce come un bambino piccolo e capriccioso.”

La sola idea di loro due che bisticciavano mi faceva ridere.

“Può darsi che le smancerie non siano per Alec, pensaci bene. Bev è una lupa molto mansueta e sottomessa. Erin... tutt'altro che calma e posata.”

“Oh. Può essere. In fondo, con Penny è andata così. Sai, tale figlia, tale madre...”

“Non giocherei alla roulette numeri così casuali ma... potrebbe essere” ammise Duncan, sorridendomi di straforo.

Preferii non addentrarmi oltre sull'argomento perché, come aveva detto più volte il mio compagno, non erano affari miei.

Se la scintilla fosse scoccata tra i due, sarebbe stato per merito loro, non perché mi ero voluta interessare ai loro cuori.

Inoltre, Erin sembrava avere il controllo del match, al momento... e io tifo sempre per le femmine che prendono l'iniziativa.

Mi spiaceva un po' per Alec, perché potevo vagamente immaginare come si sentisse confuso, di fronte a sentimenti cui non sapeva dare un nome o un significato, ma forse Erin era davvero la persona giusta per dare una scossa alla sua vita.

Solo il tempo ce l'avrebbe detto.

***

Seduto in groppa a Erin e con il suo zaino sulle spalle, Alec appariva come un condannato a morte pronto per il patibolo e, pur non volendo, più di una volta scoppiai a ridere di sommo gusto.

Ad ogni mia risata seguì sempre un grugnito dell'uomo e uno scappellotto di Duncan così, alla fine, mi convinsi che fosse meglio starmene zitta e buona … e ridere tra me e me.

Erin, per contro, appariva tranquilla e pacifica, nella sua forma di lupo, e camminava speditamente sul sentiero impervio e roccioso, punteggiato qua e là di vegetazione.

Le sue zampe artigliavano il terreno senza difficoltà e, pur se Alec non era certo un peso piuma – cento chili di muscoli si sentono tutti – lei non pareva subirne alcun effetto.

Fu solo verso sera che ci fermammo e, a sorpresa, Erin decise di rimanere in forma di lupo.

Dopo averci detto che sarebbe andata a caccia per conto suo, si allontanò con passo dinoccolato ed elegante, scomparendo nella folta vegetazione.

Alec fu scontroso e alterato fino al ritorno di lei e, quando la vide tornare con il muso sporco di sangue e le zampe vagamente inzuppate di fango, lui la rabberciò in malo modo, urlandole che aveva impiegato troppo tempo a cacciare.

Lei si sedette comodamente sulle zampe posteriori e inclinò il muso per guardarlo con sufficienza, mentre io e Duncan facevamo di tutto per renderci invisibili.

La reprimenda di Alec continuò parecchio, spaziando dai suoi doveri di madre al pericolo corso ad andare a caccia da sola, intervallando il tutto con imprecazioni colorite e sbuffi infastiditi.

Quando per Erin fu troppo, si levò in piedi e azzannò la felpa di Alec ad una manica, tirandolo a terra i malo modo.

I glutei dell'uomo atterrarono sonoramente sull'erba e, mentre dalla sua bocca scaturiva un'imprecazione molto sostanziosa, Erin si accucciò a terra e schiacciò il muso sulle sue cosce, tenendolo fermo a forza.

Impossibilitato a muoversi, visti soprattutto i denti piuttosto prominenti a pochi pollici dal centro della sua virilità, Alec impallidì leggermente e ringhiò: “Perché non ti togli semplicemente di mezzo, cagna?”

Lei mostrò ancor più i denti per diretta conseguenza, vibrando come la corda di un'arpa in tutto il corpo e portando Alec ad azzittirsi di colpo.

Non seppi mai cosa Erin gli disse, ma lui ristette zitto e buono per tutto il resto della serata, il muso enorme della lupa sulle sue cosce e un sogghigno lupesco a far loro da compagnia.

Duncan non fece appello alla buona volontà di Erin, né disse ad Alec di moderare i termini durante il suo monologo; se ne stette semplicemente in attesa di sviluppi, un candido sorriso stampato in viso.

Seppi il perché solo a notte inoltrata, quando Alec ed Erin dormivano della grossa, lui steso in posizione fetale e la grossa lupa a cingerlo come una barriera protettiva e ricoperta di pelo morbido e caldo.

In piedi vicino a una betulla giovane e dai mille rami, Duncan osservò per un istante quella strana coppia male assortita e, sorridendo a mezzo, mormorò: “Mi fa quasi pena, lo ammetto.”

“Perché non sa come comportarsi nelle schermaglie d'amore?” ironizzai io, giocherellando con una foglia color verde smeraldo.

“Perché ha paura. E’ barricato, perciò non riesco a capire cosa lo spaventi tanto, ma so che è terrorizzato a morte da quel che sta facendo Erin” mi spiegò Duncan, con una scrollatina di spalle.

“E cosa starebbe facendo, di preciso?” sorrisi tutta giuliva.

Duncan mi fissò bieco ed io, levando le mani in segno di resa, mormorai: “Okay, lo sta tampinando di brutto. Anche se non ho ancora ben capito se lo fa perché gli interessa davvero, o solo perché gli piace punzecchiarlo.”

“Il fatto che lui l'abbia avvertita di stargli alla larga può essere un incentivo sufficiente a farle fare l'esatto contrario.” L'ironia nella sua voce era ben manifesta.

“Cosa vorresti dire, scusa? Che noi donne siamo dei bastian contrari?” mugugnai io per diretta conseguenza.

“Puoi smentirmi?” mi sorrise lui, lasciandosi scivolare a sedere con grazia.

“Beh... per la verità...” borbottai, sapendo bene che, almeno nel mio caso, aveva ragione da vendere.

E forse anche nel caso di Erin.

Lei si era dichiarata ben disposta a non interessarsi più ad Alec, dopo il suo discorsetto idiota ma, a quanto pareva, le cose erano presto cambiate.

Era evidente che il suo interesse per lui era superiore all'ipotesi di lasciar perdere, e tutto perché Alec gliel'aveva consigliato.

Se da una parte ne ero felice, dall'altra ero un po' preoccupata.

Le scaramucce d'amore sono belle, ma in tempo di guerra ti fanno perdere il senso della realtà... e diventi vulnerabile.

E noi, che lo volessimo o meno, eravamo in pericolo tra quei monti sconosciuti e lontani miglia e miglia da casa.

Mi accoccolai accanto a Duncan, poggiando il mio capo contro la sua spalla ampia e forte e, sospirando, esalai: “Devo intervenire?”

“Non per il momento ma, se dovessimo anche soltanto subodorare un pericolo, li obbligheremo con la forza a chiarire la situazione. Non voglio che si facciano male perché hanno la testa da un'altra parte” asserì lapidario Duncan, dandomi un bacetto sulla fronte.

“E meno male che volevi farti gli affari tuoi” chiosai, sorridendo.

“Quando ci vuole, ci vuole” replicò serafico lui, tornando a scrutare con attenzione il bosco che ci circondava.

Le nubi in cielo mi impedivano di vedere la luna, ma sapevo che Lei era là, sopra di noi, a vegliare sui nostri passi.

Era nel mio sangue, in ogni mio respiro, e non dovevo far altro che estendere la mia aura per percepirne il potere.

In quelle settimane concitate, con tutto ciò che mi era successo e che per poco non ci aveva condotti al Ragnarök, avevo avuto ben poco tempo per concentrarmi sulla nostra guida nel cielo.

La morte di Leon mi aveva lasciata stordita e confusa per parecchio tempo, e aveva permesso a Lot e i suoi di cogliermi impreparata e indifesa.

Ciò mi aveva resa loro facile preda e, solo a stento, ne ero uscita viva.

Ora, in quell'oscurità calma e piatta, con neppure un alito di vento a guastarla, la mia mente tornò serena e in pace con se stessa.

Potei intonare mentalmente una preghiera per Leon, a cui si unì anche Fenrir, e ricordare aneddoti di lui che avrebbero potuto aiutarmi a superare la perdita di un ragazzo che, solo per odio e sventura, si era ritrovato tra le braccia della morte.

Duncan mi accarezzò debolmente, sussurrandomi: “In fondo, non era poi così malaccio, visto che ti regalava una margherita tutte le volte che vi vedevate.”

Ridacchiai, rammentando quel particolare e scontrandomi con quel ricordo fatto di miele d'acacia, the sorseggiato in un bar del centro, biscotti al sesamo e tante, tante risate.

“Mi piacciono i fiori semplici e lui lo scoprì subito. In quello, era bravo. Era un buon osservatore” ammisi con lui, ricordando quando, una mattina d'inverno, si  presentò a casa mia con un paio di guanti di lana per me. Li avevo persi il giorno prima ed ero dovuta tornare a casa senza, congelandomi le dita.

“Forse, se vi foste trovati più avanti...chissà... erano i tempi a essere sbagliati,non le persone...”  ipotizzò Duncan, stringendomi un po' più a sé.

“Lui voleva da me cose che non ero ancora pronta a dargli. Fu onesto, quando mi disse che desiderava di più dal nostro rapporto, e che io non sarei mai stata in grado di dargli tutto questo perché il mio volergli bene era diverso dal suo.”

“Non ne eri veramente innamorata?”

“Mi piaceva, e stavo bene con lui, … anche quando esagerava un po' con l'intimità. A conti fatti, quando io dicevo basta, lui si scostava subito. Non mi ha mai prevaricata. Semplicemente, non eravamo fatti l'uno per l'altra. E contava poco che lui non fosse un mostro in algebra, o io un genio di informatica. Non furono i voti a scuola ad allontanarci, ma quello che mi disse Leon. Solo ora lo capisco. Lui l'aveva notato prima di me... e dire che dovevo essere io quella sveglia.”

Sorrisi con triste ironia, ammettendo che Leon si era accorto ben prima di me che i miei sentimenti per lui erano effimeri come il tempo che passa.

Avevo pensato di essere innamorata di lui perché un ragazzo bello, gentile e premuroso si era avvicinato a me con un sorriso, ed io mi ci ero persa con piacere.

Ma l'incanto dei primi tempi era presto svanito perché, se Leon era stato veramente coinvolto con me, io non lo ero stata con lui.

Cercare in altre ragazze uno sfogo per questo scorno era stato il suo modo di dimenticarmi, lo avevo ormai capito ma, quando mi aveva vista in difficoltà, aveva lasciato perdere le stupidaggini e mi aveva seguita.

Ancora una volta.

E questo l'aveva condotto alla morte.

“Era un bravo ragazzo, e verrà ricordato da tutti come un umano che desiderava  aiutarti e rendersi utile. Fred ha deciso di intitolargli una stele, che farà issare al Vigrond del suo branco. Ed io pensavo di fare la stessa cosa da noi, se può renderti felice.”

Quella notizia mi lasciò senza parole e, scostandomi da lui per fissarlo in viso, esalai: “Ma... dici sul serio?!”

“Pensi potrei ironizzare su una cosa simile?”

“No, certo, però...”

“Brie. Non mi interessa se è stato il tuo primo ragazzo, e se il primo bacio che hai dato lo hai regalato a lui. Si è dimostrato un uomo di valore, pur avendo commesso degli errori nella sua vita – come tutti noi, del resto – e per questo verrà ricordato. Per aver cercato di dare una mano alla wicca di Matlock durante la sua Cerca. Si narreranno storie su questa avventura, e lui ne farà parte, come è giusto che sia.”

“Grazie. Di tutto cuore” mormorai, poggiandogli le labbra sulla bocca per un bacio dolcissimo e carico di promesse.

“Non mi devi ringraziare. E’ il minimo” replicò lui, stringendomi a sé.

Rimanemmo fermi così, l’uno accanto all’altra, ed in quel momento seppi che mai più, da quel momento in poi, avrei visto sangue sul volto di Leon, ma solo un sorriso.

Per me sarebbe stato per sempre il ragazzo che mi portava le margherite, mi faceva entrare gratis al cinema o mi regalava i buoni per fare acquisti in libreria.

Potevo passare sopra ai suoi difetti perché non lo rendevano meno speciale, ai miei occhi, poiché nessuno di noi è immune dall’imperfezione.

Alla fine, era stato solo un ragazzo che mi aveva amata e a cui io avevo voluto bene.

***

Sapevo che non avrebbe potuto durare, sapevo che ormai la nostra buona stella, in fatto di meteo, non poteva continuare su questa linea, ma risvegliarmi bagnata fradicia non mi fece comunque piacere.

Lanciai senza problemi un'imprecazione – come mannari, non avevamo mai montato una tenda, in quelle notti stellate, poiché la frescura notturna non ci dava fastidio – e, nel raddrizzarmi, afferrai in fretta lo zaino per portarlo all'asciutto.

Alec ed Erin, che avevano fatto il loro turno da vedette fino all'alba, non erano più asciutti di me e Duncan, a riprova del fatto che l'acquazzone era giunto improvvisamente quanto con prepotenza.

Se ne stavano in piedi con le schiene poggiate contro il tronco di un'enorme quercia, al riparo dalla pioggia sotto il suo maestoso ombrello di foglie e rami.

Non apparivano particolarmente contenti, ma non seppi dire se era interamente colpa del tempo o meno.

Duncan non perse tutto il mio tempo a curiosare intorno. Tolse dal suo zaino il cambio degli abiti, si spogliò senza troppi problemi e indossò indumenti asciutti prima di proteggersi con la pesante cerata.

Fatto ciò, oltrepassò la piccola radura che ci divideva da Erin e Alec e consegnò all'uomo il suo cambio d'abiti, perché si cambiasse.

Alec afferrò il tutto e si spogliò in fretta e furia mentre Erin, di buon passo, mi raggiunse senza mai sbirciare alle sue spalle.

Si cambiò all'ombra di un tiglio robusto e alto, che svettava su di noi con i suoi lunghi rami protesi verso il cielo.

Anche lei impiegò il minor tempo possibile per cambiarsi, ma non volli indagare se  per il freddo o per l'imbarazzo di essere guardata da Alec.

Alec, comunque, stava facendo tutt'altro. Sembrava impegnatissimo a guardarsi i lacci degli scarponi da trekking, neanche contenessero i segreti dell'Universo.

Infilata la cerata dalla testa, Erin sbuffò contrariata e mugugnò: “Ci mancava solo la pioggia, a guastare questo viaggio.”

“Poco male. Non potendo fare affidamento sull'olfatto, l'acqua non ci danneggia più di tanto. E' solo antipatica, ma non ci rallenta” precisai, facendo spallucce.

“Sì, ma...” tentennò Erin, lanciando un'occhiata preoccupata in direzione di Alec.

Sentendosi interpellato, lui levò immediatamente i suoi occhi di ghiaccio per fissarla malamente e ringhiò: “Non prenderò un raffreddore per due gocce di pioggia. E poi, ormai sto bene!”

Piccata, lei replicò: “Sai che ti dico? Se prenderai il raffreddore, ti riderò in faccia così forte che sarai costretto a tapparti le orecchie. Dovresti saperlo che gli avvelenamenti da argento abbattono le difese immunitarie!”

Infilatosi con scatti nervosi la cerata, Alec percorse a grandi passi la distanza che lo separava da Erin e, ignorandomi bellamente, puntò un dito contro il naso della donna sibilando come un serpente. “Sentimi bene, ragazza,… non sei la mia balia, è chiaro?!”

“Ne avresti bisogno, invece, visto quanto ti comporti da bambino indisponente” replicò lei, assottigliando le iridi verde-azzurro per fulminarlo con lo sguardo.

Alec si accigliò ancor di più e mostrò i denti bianchissimi ringhiando furiosamente, la sua aura che sfrigolava come olio in una padella bollente.

Era chiaro quanto fosse lì lì per suonargliele, ma Erin se ne stava testardamente dinanzi a lui senza indietreggiare di un passo, il mento fieramente sollevato e l'aria di chi non ha paura di nulla, neppure del Diavolo stesso.

Duncan si avvicinò preventivamente, già pronto a placcare Alec nell'eventualità che si lasciasse andare alla rabbia, ma lui ci sorprese tutti scoppiando a ridere e, doppio wow, dando un buffetto sul naso a Erin.

La donna rimase stupefatta non meno di noi e, quando Alec prese sulle spalle lo zaino di Erin – già pronto a riprendere il viaggio – lei esalò un sospiro tremulo quanto sconvolto.

“Allora, volete muovere le chiappe, voi tre?” brontolò Fenrir di Bradford, avviandosi di buon passo verso nord-est, l'aria di chi non ha un solo grillo per la testa ed è felice come una Pasqua.

E chi lo capiva, Alec?

“No, ci rinuncio” brontolai, afferrando il zaino per raggiungere in tutta fretta Alec.

Duncan si premurò di chiedere ad Erin come si sentisse e lei, scrollando le spalle, esalò poco convinta: “Bene... credo.”

Ci raggiunsero nel giro di trenta secondi e, quando Erin provò a recuperare il suo zaino, Alec le mostrò i denti, limitandosi a dire: “Sono tre giorni che mi porti sulle spalle. Ora sto meglio e lo zaino lo porto io.”

Erin sporse il labbro inferiore come una bambina e fu sul punto di rispondergli ma, all'ultimo momento, si trattenne e si esibì in un sorrisino fanciullesco, che tanto mi ricordò Penny.

Balzellando al suo fianco, infilò timorosa una mano in quella possente di Alec che, irrigidendosi come un palo, la fissò stranito per poi gracchiare: “Beh? Che hai?!”

Lei fece spallucce, strinse con forza le dita di Alec e, nonostante i tentativi dell'uomo di liberarsi della sua stretta, Erin rimase caparbiamente incollata a lui.

Alla fine Alec fu costretto a desistere – visto che l'alternativa sarebbe stata prenderla a pugni o staccarsi la mano a morsi – e, continuando a guardare caparbiamente dinanzi a sé, proseguì nel bosco ricoperto di soffice muschio scegliendo i percorsi più agevoli e poveri di asperità.

Dubitai fortemente che lo stesse facendo per se stesso.

Duncan, al mio fianco, sorrise divertito e mi disse mentalmente: “A quanto pare, Erin ha capito come prenderlo.”

“Perché, evidentemente, ha capito che vuole prenderlo, indipendentemente da quello che mi disse pochi giorni fa” aggiunsi io, ammirando quella strana coppia dinanzi a noi.

“E' lecito essere confusi, in amore”

“Tu ne sei la riprova vivente” ammiccai, ricevendo per diretta conseguenza un pizzicotto sul naso.

“Non ricordarmi quanto sono stato idiota. Preferirei non pensare che ho rischiato di perderti per sempre solo perché non ammettevo di amarti.”

“Non sarei durata molto, lontano da te, credimi. In un modo o nell'altro, avrei escogitato il sistema di rivederti” ammisi senza problemi, facendo la lingua.

“E' reciproco. Se anche non ci fosse stato il problema dei Cacciatori, ti avrei comunque cercata e riportata a casa da me... anche legata come un salame, se fosse stato necessario.”

Spalancando gli occhi, esalai sorpresa: “Mi avresti... rapita? Chiusa in cantina per il tuo piacere personale?”

“Rapita, sicuramente. Chiusa in cantina, neanche a parlarne. Ti avrei portata in camera mia e non ne saremmo mai più usciti, o almeno non finché non ti fossi decisa a restare con me.”

“Allora saremmo usciti subito” ridacchiai, arrossendo mio malgrado. “Non avrei resistito un attimo, se la condizione fosse stata quella.”

“Avrei cambiato condizione, allora. Tutto, pur di tenerti nel mio letto” replicò Duncan, chinandosi per darmi un bacio sul collo, proprio sulla giugulare, dove il mio sangue scorreva all'impazzata.

Piegai il capo di lato per permettergli di avere a disposizione una maggior porzione di pelle da baciare, e lui non si lasciò pregare.

Sfiorò la mia gola con la punta della lingua prima di soffiarci sopra aria calda dopodiché, bloccandomi con il suo braccio, mi marchiò coi denti, facendomi fremere tutta.

Non capitava spesso che lui mi marchiasse a quel modo – ero più io a farlo – ma, quando usava i denti su di me, io mi scioglievo come neve al sole.

Forse era per questo che li usava di rado.

Non voleva che diventasse un gesto abitudinario, così che io potessi godermelo appieno le poche volte che lo sfruttava.

Ad ogni buon conto, non resistetti e mi afflosciai contro di lui per un attimo prima di scostarmi, sorridergli languida e mormorare: “Potrei anche sbatterti su quel meraviglioso tappeto di muschio morbidissimo e abusare di te, al momento.”

“Sarebbe divertente lasciarti fare, ma è meglio se proseguiamo.”

“Sei uno stronzo, però. Mi getti un dolcetto così buono, e poi non mi permetti di gustare la torta per intero” brontolai, affrettando il passo per raggiungere la coppia dinanzi a noi.

Duncan mi seguì a ruota, ridendo sommessamente con quel timbro roco e profondo che usava sempre quando era profondamente compiaciuto di se stesso.

Alec ed Erin si fermarono in prossimità di un canalone per aspettarci e, nel vedere il mio collo marchiato di fresco, lui ghignò in direzione di Duncan e celiò: “Bravo ragazzo. Così si fa!”

Duncan, sorpresa delle sorprese, levò una mano per battere il cinque con Alec ed io, basita, li osservai mentre se la ridevano compiaciuti, da bravi maschi alfa quali erano.

Uhm, quella convivenza forzata con Alec stava lasciando degli strascichi molto strani, specialmente su Duncan.

Era decisamente più disinibito, meno rigido o relegato in schemi fissi come era in precedenza e, soprattutto, lasciava uscire più spesso la sua parte animale.

Alec, al contrario, riusciva a controllarsi un po' meglio rispetto alle prime volte in cui ci eravamo incontrati e, pur se il suo carattere mordace usciva fuori spesso, non era neppure lontanamente oscuro come lo avevo visto solo l'anno passato.

La cosa mi faceva piacere? Sì. Più o meno.

Speravo soltanto non mutassero troppo, o sarebbe stato difficile avere a che fare con due versioni combinate di Alec e Duncan.

Riprendemmo il nostro percorso senza ulteriori intoppi, la pioggia che tamburellava sulle nostre cerate e infradiciava l'orlo dei nostri pantaloni da trekking.

Per quella sera saremmo stati infreddoliti e stanchi, ma poco importava. La nostra Cerca era più importante di quel disagio momentaneo.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


1

 

Capitolo 15

 

 

 

 

Una settimana può passare tremendamente in fretta, oppure lenta come l’avanzare di una lumaca.

Tutto dipende da cosa tu stia facendo.

Sicuramente se si è in vacanza, spaparanzati su una sdraio a sorseggiare un mojito, o in montagna a passeggiare leziosamente per i sentieri, i giorni passeranno veloci come la freccia scoccata da un arco teso.

Quando si è impegnati in qualcosa di noioso o peggio, pericoloso, il tempo non scorre affatto, quasi avessero riempito gli ingranaggi dell'enorme orologio cosmico di poliuretano.

Noi ci trovavamo nella seconda categoria.

Sapevo, in tutta coscienza, che il nostro peregrinare tra i monti non stava durando dall'inizio dei tempi, ma l'apparenza era quella.

Il brutto tempo, poi, aveva demoralizzato tutti e Alec, alla fine, aveva preso il raffreddore.

Erin, però, non se la sentì di ridergli in faccia come promesso perché, a sua volta, starnutiva e tossiva a intermittenza, imitando Alec in tutto e per tutto.

Dubitavo che io e Duncan avremmo resistito molto di più senza buscarci qualcosa.

Nessun licantropo sapeva bene perché, ma il raffreddore era l'unica malattia umana che poteva colpirci.

Avremmo potuto passare indenni in mezzo a un'epidemia di colera, ma bastava una sola persona con il raffreddore perché questo prolificasse anche in un intero branco.

Visto che studiavo Immunologia – o almeno queste erano le mie speranze – avrei potuto tentare di capirne i motivi, ammesso e non concesso che riuscissi a tornare all'Università per tempo.

Sbuffai, passandomi un dito sotto il naso, che sentivo pizzicare minacciosamente, e scrutai verso il basso non appena raggiungemmo una protuberanza rocciosa al limitare del bosco.

Dall'alto dello strapiombo dove ci trovavamo, potevamo scorgere la valle sotto di noi e il piccolo torrentello zigzagante che si trovava nel mezzo.

La vegetazione lussureggiante, ricca di noccioli, tigli e frassini si inframmezzava a macchie di abeti rossi e pini silvestri nelle zone più alte dei monti.

Muschi, licheni ed interminabili distese di mirtillo rosso si estendevano nella boscaglia a tratti rada, da cui era possibile scorgere i pennacchi delle montagne.

Era un autentico paradiso, non fosse stato per la pioggia e per la fretta di raggiungere il nostro obiettivo ultimo.

Trovare i berserkir.

Avevo chiesto più e più volte alle piante, mano a mano che procedevamo nel nostro avanzare senza meta per i boschi ma, tutte le volte, avevo ricevuto risposte negative.

Ero quasi stanca di quell'interminabile braccio di ferro con il destino, ma non potevo mollare così.

Allontanandomi dallo strapiombo, mi appoggiai perciò all'ennesimo nocciolo e ascoltai passivamente ciò che aveva da dirmi in merito a quel tratto di boscaglia.

Quando però mi mise al corrente della presenza di una  bambina, la mia attenzione scattò sull'attenti.

Spalancai gli occhi, memore dell'avvertimento di Bev, e ascoltai con attenzione le indicazioni inerenti questa ragazzina sola e ferita, dispersa nella foresta deserta in cui ci trovavamo.

Che ci faceva lì, per l'amor del cielo?

Quando infine mi scostai dall'albero, misi al corrente i miei compagni di viaggio di quel che ero venuta a sapere e, di comune accordo, ci dirigemmo verso di lei per scoprire i motivi della sua presenza nel bosco.

Poiché la pianta aveva parlato solo di una bambina, diedi per scontato che non vi fossero pericoli nelle vicinanze e, quando infine raggiungemmo la piccola tenda dove si trovava, ne avemmo la conferma.

Non c'erano orme strane, nel circondario, né nulla che lasciasse intendere presenze estranee o minacciose.

Ora, restava solo da capire chi fosse quella ragazzina, e cosa ci facesse lì.

L'odore del sangue ci mise tutti in allerta e, quando percepimmo anche un mugolio di dolore, fummo certi che la bambina era ferita in modo serio.

Forse, era stata lasciata lì dai suoi accompagnatori, corsi in cerca di aiuto.

Ma a quel punto la domanda che mi balenò in mente fu un'altra. Era così grave da non poter essere spostata?

Dal battito del suo cuore, forte e regolare, non si sarebbe detto.

Di comune accordo, fui io ad avvicinarmi alla tenda e, con voce il più tenera possibile, mormorai: “Ehi, lì dentro, tutto bene?”

Il piagnucolio terminò immediatamente, subito sostituito da un ansito spaventato ed io, lesta, esalai: “Non voglio farti del male, tranquilla. Io e i miei amici vogliamo sapere se stai bene o se hai bisogno di aiuto.”

Si udì un fruscio di plastica e abiti di cotone e, dopo alcuni attimi, uno dei teli della tenda venne scostato con cautela, mostrando un visino tondo come la luna, enormi occhi grigio-azzurri e tanto, tanto timore dipinto su ogni centimetro di pelle.

Levando le mani come a mostrare le mie buone intenzioni – e la mancanza di armi – le sorrisi gentilmente e mormorai: “Parli inglese?”

La bambina annuì, muovendo avanti e indietro il capo di corti capelli biondo cenere e, abbozzando un mezzo sorriso, asserì: “Un poco. Non... buono.”

Annuii di rimando, indicando i miei compagni di viaggio prima di parlare lentamente, in modo chiaro. “Loro sono Duncan, Alec ed Erin. Tu come ti chiami?”

“Elsa.”

“E ti sei fatta male?”

Lei mi mostrò la gamba, dove un bendaggio di fortuna copriva una ferita ancora sanguinante e, a giudicare dall'odore, già in procinto di formare un'infezione.

Subito, mi tolsi lo zaino dalle spalle, dicendole a mo' di spiegazione: “Ho bende pulite per te. E medicine.”

I teneri occhi della bambina si riempirono di lacrime speranzose ed io, aiutatala ad uscire dalla tenda perché si sistemasse su un masso vicino, mormorai a Duncan: “Puoi toglierle il bendaggio mentre io estraggo il necessario?”

Lui annuì, sorridendo a Elsa e mostrando tutta la sua dolcezza nei suoi occhi smeraldini.

La bambina arrossì leggermente e sollevò un poco l'orlo dei pantaloni per facilitargli il compito mentre Erin, accosciandosi accanto a Elsa, le domandò: “Sei sola?”

Lei annuì, mormorando: “Ero... in prova. Una prova. Vivere in... nel bosco.”

Tutti noi ci guardammo esterrefatti in viso, persino Alec parve basito di fronte a quella spiegazione ed io, nell'estrarre l'acqua ossigenata, aprii la boccetta e le dissi: “Brucerà un po', ma pulirà la ferita.”

La ragazzina annuì coraggiosa e mi lasciò fare mentre Erin, premurosa, le strinse una mano per darle coraggio.

Non impiegai molto a curare la ferita. Si era evidentemente sbucciata la pelle contro una roccia all'altezza della tibia, forse era caduta, e la mancanza di cure immediate aveva provocato quell'inizio di infezione.

Grazie a Bev, mi ero premunita di un sacco di medicinali che, altrimenti, non avrei mai portato con me e che, in quel momento, mi tornarono utili con Elsa. Avrei dovuto trovare un modo di ringraziarla, un giorno o l’altro.

Con un po' d'acqua le feci prendere un paio di pastiglie antibiotiche dopodiché, avvoltala nel pesante maglione di Alec – che la copriva completamente – le domandai: “Chi ti ha mandato qui da sola?”

“Mamma. Papà. Lo fanno tutti le bambine del mio paese” ci spiegò Elsa, sorseggiando più che volentieri il succo di frutta che Erin le consegnò con un sorriso.

Non ero a conoscenza di questa pratica, in Norvegia ma, a quanto pareva, per Elsa era normale trovarsi lì, tutta sola, in mezzo alla natura selvaggia.

“Sei qui da molto?” le domandò Duncan, carezzandole i corti capelli leggermente mossi sulle punte.

“Sette giorni. Devo... restarci dodici giorni” ci mise al corrente Elsa prima di guardare infastidita la gamba ferita e aggiungere: “Sono caduta per prendere acqua. Scivolata.”

“Quanti anni hai?” si informò a quel punto Alec, seduto a gambe incrociate a qualche passo da noi. Forse, non voleva spaventarla per via della sua cicatrice sul volto.

Ma Elsa non pareva realmente spaventata da nessuno di noi, era solo irritata per via della ferita alla gamba.

“Undici. Quasi dodici. A ottobre” ci disse lei, mostrandoci l'età anche con le dita ben dispiegate dinanzi al volto.

“Cos'è? Una sorta di agōgē1?” mormorò quasi tra sé Alec, trovandosi per diretta conseguenza tre paia d'occhi sconvolti piantati addosso. “Ehi, ma dico?! Mica sono idiota, sapete!? Storia l'ho studiata anch'io, e avevo una vera predilezione per gli Spartani!”

“Non avevo dubbi in merito” commentò sarcastica Erin, guadagnandosi un'occhiataccia gelida da Alec.

Cercando di non ridere – Elsa ridacchiò di fronte a quel battibecco – asserii: “Sembra una specie di training di sopravvivenza, in effetti. Elsa, hai detto che lo fanno tutti, al tuo paese?”

Lei annuì, dichiarando con orgoglio: “Solo le femmine. I maschi no.”

“Toh, questa è curiosa” sbottai, davvero sorpresa.

“Pensi che potremmo riportarti a casa prima del tempo, visto che sei ferita? I tuoi genitori si arrabbierebbero, se lo facessimo?” le propose Duncan, sorridendole.

Elsa sembrò soppesare bene le sue parole e, soprattutto, cosa rispondere, ma alla fine dichiarò: “La gamba fa male, perciò... sì, posso tornare a casa. Voi mi aiutate?”

“Volentieri” assentii di buon grado.

E forse, chiedendo a queste persone, avremmo potuto ottenere qualche informazione in più. “Abiti molto lontano?”

“Tre giorni a piedi. Vicino a un laghetto. Siamo solo noi e pochi altri” sorrise tutta felice Elsa. “E' bello! Niente... rumori.”

“Immagino davvero di sì” assentii con un sorriso.

Non mi arrischiai a pensare di aver avuto la fortuna di incappare in una femmina di berserkr ma, vista la descrizione del luogo in cui abitava, e quella strana abitudine educativa, potevamo essere vicini alla meta finale.

Dagli sguardi degli altri, capii che non solo io ero arrivata a quella conclusione ma, non potendo chiedere conferma a nessuno – i cellulari non prendevano, nel bosco – ci dovemmo far bastare il nostro intuito.

Casomai fossimo mai partiti per un'altra ricerca, avrei comprato un cellulare satellitare con i controfiocchi.

Di comune accordo, decidemmo di partire l'indomani, visto l'approssimarsi della sera e, per cena, misi finalmente in funzione il mio fornelletto a gas e le scorte di cibo liofilizzato che avevo comprato.

Alla luce del falò e della luna, mangiammo spezzatino di cervo in salmì e polenta a cubetti calda e soffice, che Elsa spazzolò con sommo gusto e piacere.

Ci ritirammo per dormire piuttosto presto e, per tutta la notte, io e Alec vegliammo sul campo mentre Erin e Duncan dormirono a lato della tenda della bambina.

In piedi accanto al falò ormai spento, ma che generava ancora un tiepido calore, lasciai che lo sguardo corresse qua e là tra le ombre della notte.

Alec stava facendo lo stesso quando, a sorpresa, mi domandò: “Duncan non ti voleva perché pensava fossi troppo giovane per lui?”

Sobbalzai leggermente a quella domanda così diretta e improvvisa ma, dopo un attimo di smarrimento, annuii. “Se ne faceva un problema non indifferente. Pensava che la differenza d'età fosse un ostacolo insormontabile.”

“Ma tu te ne sei fregata, invece. Eri convinta di quel che provavi” dichiarò a quel punto Alec, sempre rivolgendo lo sguardo alla foresta, ben lontano dai miei occhi indagatori.

“Diciamo che sono abbastanza testarda da non farmi condizionare dagli altri, quando prendo una decisione” sorrisi a mezzo, scrollando le spalle subito dopo.

“Sapevi che non era un condizionamento dovuto all'affinità tra anime, giusto?” mi domandò ancora, con voce roca, profonda, vagamente velata dal dubbio.

“Ne ero convinta, ma me lo confermò anche la quercia, se è per questo. Duncan, invece, non volle credere a nessuna delle due e si fece i suoi bravi castelli in aria” gli spiegai, chiedendomi dove stesse andando a parare.

“Capisco” assentì lui, sbuffando leggermente.

Spalancai lentamente gli occhi, colta da un dubbio e, mordendomi il labbro inferiore, gli domandai: “Pensi... pensi di avere un legame d'anima? Con Erin?”

Lui non mi rispose ed io non attesi neppure che lo facesse. Ampliai il mio spettro energetico fino a sfiorare l'aura di Alec, dopodiché feci lo stesso con Erin, e quello che trovai mi sorprese non poco.

C'era qualcosa, in effetti, ma le loro rispettive incomprensioni e tensioni rendevano quel legame instabile, come se le anime stesse non si sentissero pronte per un approccio più intimo.

“C'è?” mormorò Alec a quel punto.

Mi allontanai delicatamente e annuii. “Non l'avevo notato. Ma non lo stavo neppure cercando, in effetti. Come te ne sei accorto?”

“L'ho pensato, tutto qui” scrollò le spalle noncurante, ma io non ci cascai.

Lo fissai torva e lui, passandosi nervosamente una mano tra i corti capelli scuri, grugnì: “Ho provato a sfiorarle l'aura mentre dormiva, va bene?!”

“Oh. E il suo inconscio a risposto al tocco, giusto?”

Alec annuì recisamente. Era teso come una corda di violino e, se per disgrazia fosse caduto in terra, si sarebbe sbriciolato in mille pezzettini appuntiti e taglienti.

“E' una buona cosa, ma questo non significa che siate attratti l'uno dall'altra perché esiste questo legame.” Poi, con enfasi, aggiunsi: “Perché siete attratti, vero?”

“Streghetta, ti sembra che io sia un esperto in materia?” gracchiò lui, indicandosi con forza puntando il dito indice contro il suo petto.

“Avrai avuto pure qualche amante!” sbottai contrariata.

“Prendersi un'amante non è come... come...” tentennò lui, non sapendo bene come esprimersi.

“Oh, Alec” sospirai, abbracciandolo d'istinto.

Lui non si ritrasse ma divenne nuovamente rigido, impreparato da quell'approccio diretto e, forse, spaventato da ciò che provava.

Mi avvolse le spalle con un braccio dopo un minuto buono di assoluta immobilità e, roco, mormorò: “Bev mi amava... mi ama ancora, seppur in modo più spassionato. E' più adorazione verso il proprio capo, che altro. Ma anche quando abbiamo provato a stare assieme, io... io non...”

“Facesti sesso con lei?” gli domandai, ascoltando assorta il battito tumultuoso del suo cuore.

Alec annuì con un risolino nervoso, dichiarando: “Sei curiosa come una scimmia, streghetta. Ma sì e, in qualche modo, fu più bello che... insomma, quando mi accoppiavo solo per un bisogno fisiologico. Ma non ho mai sentito la necessità, il desiderio di spingermi oltre, con quella relazione. La troncai dopo circa sei mesi, scusandomi con Bev, ma preferendo non protrarre oltre quella menzogna.”

“Ti sei... scusato?” esalai sorpresa, lanciando uno sguardo all'insù per curiosare il suo volto.

Per diretta conseguenza mi beccai un pizzicotto su un orecchio.

“Ahia” brontolai, tornando a stringerlo forte e basta. Sapevo che, se avessi mollato la presa, lui si sarebbe azzittito come una tomba sigillata da una tonnellata di macerie.

“Mancava qualcosa. Mancavo io” ammise lui, con enfasi.

“Ma ora è diverso,… e temi sia colpa del legame, vero?” ipotizzai, lasciando che i miei pensieri venissero a galla.

Annuì con foga e mi strinse ancor più a sé, quasi temesse di affogare, se io lo avessi lasciato andare.

“Il legame non c'entra ma può portarti molta confusione in testa, se non sei sicuro di quello che provi. E' un'arma a doppio taglio. Tu sai cosa vuoi da Erin?” gli domandai sommessamente.

“No” ammise con candore lui, lasciandosi sfuggire una risatina tremula.

“Ammetterlo è un passo avanti. Ora devi concentrarti su questo, e scoprire la risposta.”

“E se i nostri bisogni fossero diversi?” mi domandò lui, vagamente impensierito da una simile eventualità.

“Accetta quello che viene, senza pretendere cose che non puoi avere. Di solito funziona” gli proposi io, sorridendogli.

“Tu l'hai fatto?”

“Abbandonai il branco per il bene di Duncan. Non potevo avere il suo amore, ma potevo dargli la pace, così lo feci. Per lui” gli spiegai senza remore. “Soffrii come un cane, ma sapevo che era la cosa giusta da fare.”

“La cosa giusta...” ripeté lui, pensieroso.

“Già” assentii.

Alec mi scompigliò i capelli, sorridendomi teneramente per un attimo prima di dire: “Grazie per la chiacchierata, streghetta.”

Lo feci d'impulso, ma con tutto il cuore.

Mi alzai in punta di piedi per stringergli le braccia al collo e, di slancio, gli baciai una guancia dicendo: “Ti voglio bene, Alec. Tanto.”

Lui rimase basito di fronte a quelle parole e, per un attimo, tentò di scostarmi da sé.

Un istante dopo, però, mi avvolse in un abbraccio caloroso e mormorò contro i miei capelli: “Anch'io, piccola ammaliatrice. Anch'io.”

***

“Lei lo sa?” domandai di punto in bianco, lo sguardo fisso sulla ripa che Duncan ed Erin avevano appena disceso assieme a Elsa, perché lei potesse lavarsi il viso prima di partire per il suo villaggio.

“Non credo. La mia aura è sigillata, quando sto vicino a lei, perciò non può percepire la mia anima” borbottò Alec, grattandosi nervosamente la guancia sfregiata. La sua ferita appariva pallida, quel giorno, in contrasto con la sua pelle naturalmente bronzea.

“Non stai bene, vero?”

“Qualche linea di febbre. Questo raffreddore del cavolo è più ostico di quanto pensassi” assentì lui, sbuffando infastidito.

“Ho del paracetamolo. Forse può essere d'aiuto, visto che il raffreddore ci attacca come se fossimo umani.” Forse, il fatto che Beverly si fosse addirittura arrischiata a ordinare al suo Fenrir di farmi acquistare dei medicinali, per questa seconda parte del viaggio, aveva a che fare anche con questo. Non solo con Elsa.

Evidentemente, il suo subconscio le aveva detto che avremmo dovuto curare non solo la bambina, ma anche Erin ed Alec dal raffreddore.

Di certo, Bev denotava un potere non da poco.

“Alla peggio non mi farà nulla” scrollò le spalle Alec, allungando una mano.

Gli passai una bustina di soluzione solubile direttamente sulla lingua e lui, con aria disgustata, la ingoiò prima di rabbrividire. Evidentemente, non era molto buona.

“Perché siamo sensibili solo al raffreddore?”

Evoluzione, mia cara. Aver incrociato la specie con gli umani ha portato anche a questo. Se chiedi a Duncan, difficilmente lui avrà mai preso un raffreddore, perché la sua discendenza è praticamente pura.

“Oh... DNA differenti combinati tra loro hanno leso le difese immunitarie.”

Non tanto da creare problemi, ma il raffreddore è un tipo di malattia che sfugge a parecchi schemi. Come ben sai, anche tra gli umani non esistono granché soluzioni, quando lo prendi.

“Già, te lo tieni e corri ai ripari con i fazzoletti” assentii con un sorrisino.

Esatto.

Estratta da una tasca una caramella alla menta, la passai ad Alec mormorando: “Forse dovresti parlargliene.”

“Forse dovrei capire cos'ho nella testa, prima” replicò lui, burbero, infilandosi in bocca la caramella azzurra.

“Impiegheresti mesi, forse anni, testardo e contorto come sei. Fatti aiutare” ribattei acida, lanciandogli un'occhiata significativa.

“Scusa, ma secondo te perché ne stiamo parlando?” mi rabberciò, arrossendo suo malgrado.

“Oh.” A volte, sono davvero tarda.

Distogliendo lo sguardo, Alec torturò un altro po' la guancia mentre i primi rumori provenienti dabbasso giunsero alle nostre orecchie e, in un sussurro appena percettibile anche per me, asserì: “Pensavo di chiedere a Duncan ma... tu sei una donna, e magari puoi capire come... beh, insomma...”

Gli diedi una pacca su un braccio, consolatoria, e dissi: “Ti do un punto di vista diverso, che non sia quello di un altro uomo. Non preoccuparti, capiremo cosa ti ronza per la testa.”

“Grazie” borbottò lui, dandomi una gran manata in testa prima di scompigliarmi i capelli.

“Ahia” sbottai, pur sorridendo.

Quando il piccolo gruppo fu tornato ed Elsa caricata sulle spalle di Duncan, che le sorrise cordiale, Erin prese il suo zaino, io mi caricai della roba della bambina e Alec pensò allo zaino della Prima Lupa di Belfast.

Così pronti, partimmo alla volta di Gungnir, il paese d'origine di Elsa, prendendo un sentiero tracciato dagli animali boschivi che, ben consci della presenza di potenti predatori quali noi eravamo, ci stettero ben alla larga.

Benché il mio lupo desiderasse sgranchirsi un po' le gambe – era davvero un sacco di tempo che non mi trasformavo più e cominciavo a sentirne l'esigenza – sapevo che non potevo farlo in presenza della bambina.

Pur se ipotizzavamo facesse parte di un branco di berserkir, non era nostra intenzione spaventarla. Anzi, speravamo che l'averla salvata ci permettesse di avvicinarci a loro senza rischiare la vita.

Sapevo bene che in quattro contro un numero imprecisato di uomini orso, avremmo avuto non poche difficoltà. Pur contando sul mio dono di wicca e sulla presenza di Fenrir.

Stavo pensando a una cosa...

“Per questo sentivo un ronzio nelle orecchie?” ironizzai, sentendolo ridacchiare per diretta conseguenza.

Gungnir era il nome della lancia di Odino, per cui...

“Pensi siamo sulla pista giusta?”

So che qui in Norvegia si usano un sacco di nomi della mitologia norrena, ma... potrebbe essere il posto che stiamo cercando.

“Già il fatto che chiamino i bambini Thor o Frigga...” sogghignai, divertita.

Appunto. Posso anche sbagliarmi, ma non credo molto nelle coincidenze.

“Neppure io.”

Volevo credere che l'incontro con Elsa potesse voler dire qualcosa di più di un semplice – pur se giusto – salvataggio di una bambina ferita in un bosco.

Era snervante camminare alla cieca in quel paesaggio apparentemente infinito che, seppur bellissimo, stava cominciando a stancarmi.

Non ero lì per gioco o per diletto, ma per una missione e, tendenzialmente, mi piaceva vedere qualche risultato, dopo tanto dannarsi per ottenere informazioni.

Speravo ardentemente che l'aver salvato Elsa ci potesse portare dai berserkir.

 

 

 

_____________________________

1:agōgē: Pratica in auge presso Sparta. Era un rigoroso regime di educazione e allenamento cui era sottoposto ogni cittadino (eccetto gli appartenenti alle dinastie reali). Comprendeva la separazione dalla famiglia, la coltivazione della lealtà di gruppo, allenamento militare, caccia, danza e preparazione per la società.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


111

 

Capitolo 16

 

 

 

 

Le piogge intermittenti di quei giorni ebbero finalmente un termine e, all'alba del quarto giorno di cammino dal nostro incontro con Elsa, trovammo infine le nostre risposte.

Ma quando mai mi arrivano su un vassoio d'argento?

Preferisco non rispondere.

Un aroma pungente – unico indizio di qualcosa di anomalo – raggiunse le mie nari troppo tardi, per i miei gusti, e mise in allarme ogni recettore del pericolo disponibile. Messami subito in posizione d'attacco, esclamai: “Berserkir!”

Il gruppo fu lesto a muoversi.

Erin prese Elsa in braccio e, con sorprendente agilità, si arrampicò su una quercia vicina per togliersi di mezzo mentre io, Duncan ed Alec ci predisponemmo a cerchio per parare il primo attacco.

Che non tardò a venire, vista la vicinanza degli intrusi.

Sotto gli occhi sgomenti di Elsa, stretta tra le braccia di Erin, non meno di una decina di berserkir in assetto da battaglia ci piombarono addosso come un torrente in piena.

Erano enormi come li ricordavo, feroci come fiere impazzite, con artigli così spaventosi che il mio primo pensiero fu quello di scappare a gambe levate.

Non potevo, ma avrei tanto voluto farlo.

Duncan e Alec mutarono in lupi l'uno dopo l'altro, due candidi mannari dalle zanne spianate e gli artigli snudati.

Nel mio caso, se volevo usare appieno il mio dono di wicca, dovevo rimanere umana ma, per difendermi, mutai le mani lasciando che le mie armi preferite giungessero a darmi man forte.

Mi mossi abile per evitare i loro colpi, mentre Duncan e Alec colpivano con precisione chirurgica alle caviglie, recidendo nervi o muscoli per impedirne i movimenti.

La battaglia alle Svalbard aveva insegnato loro come combatterli, ma la superiorità numerica era comunque un problema.

Balzai lesta vicino a un frassino e, affondando gli artigli nella sua corteccia per avere diretto contatto con la sua linfa vitale, raccolsi dentro di me tutta la sua energia e la sprigionai sotto i miei piedi.

Il danno fu immediato.

Zolle di terra enormi si staccarono dal terreno sotto la spinta delle radici delle piante che ci circondavano, sbalzando a terra i berserkir uno dopo l'altro.

Duncan e Alec ne approfittarono per portarsi sotto l'albero dove si era arrampicata Erin che, a zanne snudate e con un atteggiamento tipico da mamma, stava proteggendo Elsa con il suo corpo.

Pur rintronati dalla caduta improvvisa a terra, i berserkir si rialzarono per combattere nuovamente, ma fu Elsa a fermarli.

Lanciando un urlo che riuscì a sovrastare il caos creatosi sotto di lei, richiamò l'attenzione dei berserkir dilungandosi in un monologo concitato e corredato da ampi gesti delle braccia.

Gli uomini orso parvero chetarsi alle sue parole e ci guardarono con sospetto, pur senza più tentare di attaccarci, mentre io rimanevo preventivamente ancorata alla pianta per replicare l’attacco al minimo accenno da parte loro.

Duncan e Alec, ansanti e feriti in più punti, osservavano torvi i loro avversari, le orecchie spianate all'indietro sul capo e le zanne snudate, segnale più che evidente della loro tensione a stento trattenuta.

Io respiravo a fatica – contenere l'energia necessaria per smuovere le piante non era semplice, o privo di contraccolpi – e le mie gambe tremavano come fuscelli, ma per nulla al mondo avrei mollato la presa.

Come ultima riprova della nostra buona volontà, Elsa abbracciò Erin prima di domandarle di lasciarla andare.

La donna fu restia ad obbedirle, ma annuì e la aiutò a scendere dall'albero, senza peraltro allontanarsi da lei.

La mano poggiata su una spalla di Elsa con fare protettivo, Erin avanzò con la bambina verso i berserkir, lo sguardo volitivo piantato in faccia ai possenti uomini orso.

Appariva sicura di sé, ma tratteneva a stento la paura, appena visibile dalla mano libera – stretta a pugno – che teneva lungo la gamba.

Alec uggiolò preoccupato, muovendo un passo verso di lei, ma la donna lo fulminò con lo sguardo, impedendogli di fatto di proseguire oltre.

Era una cosa che voleva fare da sola.

Io mi tenni pronta, la mente spinta al limite dell'attenzione e puntata unicamente su di lei che, a pochi passi dal nemico, si fermò e appoggiò entrambe le mani sulle spalle di Elsa, dicendo con forza: “L'abbiamo protetta e curata, perciò non avete alcun diritto di attaccarci.”

Il berserkr più vicino le ringhiò addosso con ferocia, mostrandole un corredo di zanne che mi fecero rabbrividire da capo a piedi.

Per Alec fu troppo.

Corse da lei e imitò il berserkr, snudando le proprie armi e imponendosi a forza tra Erin, Elsa e lo squadrone di uomini orso in assetto da battaglia.

Erin sbuffò contrariata ma non disse nulla ed Elsa, accarezzando preventivamente il manto di Alec, mormorò: “Non faranno più niente. Tranquillo.”

Alec si volse per guardarla con i suoi profondi occhi ferini e annuì, accomodandosi sulle zampe posteriori pur senza spostarsi.

Se mai avessero voluto attaccare, lui sarebbe stato il primo ad essere colpito.

A quel punto il berserkr più alto scrollò le spalle come se la sua intera muscolatura si fosse rilassata di colpo e, sotto i nostri occhi, tornò a prendere forma umana.

Come Lot, anche quel berserkr era alto come una montagna e ricoperto di tatuaggi spiraliformi rossi e neri, dipinti in modo tale da ricordare la fisionomia di un orso.

Uno dopo l'altro anche gli altri tornarono a riprendere sembianze umane, presentandosi a noi come un'autentica armata da combattimento.

Era evidente quanto quei tatuaggi fossero più di un eccentrico disegno dipinto su tutto il corpo. Avevano un significato profondo, o tutti loro non ne avrebbero portato uno identico sulla pelle.

Con voce cavernosa e roca, quello che ipotizzai fosse il capo dei guerrieri declamò stentoreo: “I territori sotto il nostro dominio non sono mai stati calpestati dai Figli della Luna, se non dietro nostra espressa concessione, perciò riteniamo che la vostra presenza qui violi i trattati. Non vi uccidiamo adesso solo perché avete con voi la figlia del nostro capo che, a quanto ci ha detto, vi ritiene degli amici. Parlate brevemente, cosicché si possa decidere o meno se uccidervi ora, o condurvi a rapida morte al nostro villaggio.”

Rabbrividii di fronte a quelle prospettive ben poco allegre, ma ancora una volta Elsa si erse a nostra paladina.

Diede uno schiaffetto alla mano del berserkr grande e grosso che aveva parlato, replicando in un norvegese piuttosto alterato e frettoloso.

Non capii un accidente di quel che disse, ma quel monologo infuriato parve sortire l'effetto voluto.

L'uomo orso parve dapprima riluttante ad ascoltarla, ma infine annuì e borbottò controvoglia: “Elsa vi vuole risparmiare, perciò prima parleremo con la nostra Somma Guida, e solo dopo decideremo del vostro destino.”

Poi, rivolgendosi a me, reclinò brevemente il capo a mo' di ossequioso saluto e infine disse: “I miei rispetti, Accolita della Madre. Ti chiedo cortesemente di non attaccarci oltre con i tuoi Doni della Natura. Noi rispetteremo la tregua, se tu la rispetterai.”

Ritirai la mano e gli artigli e, annuendo, mi limitai a dire: “Non agirò contro di voi, lo prometto. Ma mi riterrò in dovere di intervenire, se colpirete i miei compagni.”

“Così sia” assentì il berserkr, levando un braccio per indicarci la via.

Alec colpì leggermente la spalla di Elsa col muso per indicarle di montare a cavalcioni su di lui e la ragazzina, di buon grado, salì in groppa.

Cominciavo a sospettare che Alec avrebbe potuto fare il baby-sitter, invece che il proprietario di un’officina meccanica. Pareva che, coi bambini, ci avesse preso gusto, e loro pendessero dalle sue labbra.

Naturalmente, tenni quel pensiero tra me e me, perché sapevo benissimo che avrei ricevuto solo uno scappellotto, o peggio, se mi fossi arrischiata a parlare.

Al berserkr, comunque, quella cosa parve non piacere, ma Elsa gli sorrise divertita e gli disse di farsi gli affari suoi.

Erin rimase al loro fianco, accarezzando la spalla di Alec con gesti continui, leggeri, come se stesse chetando un bambino irritato e stanco.

E forse era così. Dopotutto, trasformarsi e lottare come un indiavolato, come aveva fatto Alec fino a due minuti prima, doveva averlo spossato non poco, visto che veniva da un precedente combattimento in cui era rimasto gravemente ferito.

Guardinga, mi mossi lesta per avvicinarmi a Duncan e, mentalmente, gli domandai: “Tutto bene? Le ferite come vanno?”

“Sopravvivrò. Bruciano come l'inferno, però.”

“Lo so” sospirai, rammentando più che bene il loro effetto sulle carni dei licantropi.

“Come mai non percepiscono la presenza di Fenrir?” mi chiese a quel punto Duncan.

“Si sta nascondendo, da quel che capisco. Sta tenendo a bada il più possibile i suoi poteri divini, ma non ho idea di quanto potrà durare. Già adesso sento che la gabbia sta cedendo.”

“E tu, come ti senti?”

“Ho prurito ovunque. Quel che sta facendo Fenrir per tener sopita la sua presenza mi procura dei continui riflessi fisici sui recettori del dolore, provocando il prurito. In questo momento mi rotolerei in terra con gran diletto” ironizzai, grattandomi nervosamente il dorso di una mano.

Duncan mi leccò la mano incriminata come per darmi conforto ed io, addossandomi a lui per un momento, gli baciai la gorgiera prima di dire: “Se non altro, li abbiamo trovati.”

“Speriamo che basti.”

“Non saprei che altro inventarmi, onestamente.”

“Tieniti pronta a fuggire, qualora dovesse succedere qualcosa.”

“Col cavolo, Duncan! Resto con te qualsiasi cosa succeda!” sbottai, di fronte a quella richiesta assurda.

“Non lo faresti neppure se ti pregassi in ginocchio?”

“Scordatelo! Piuttosto ti sego le ginocchia, tanto per stare tranquilla” ringhiai, interrompendo il contatto con lui.

Era davvero il colmo! Come poteva chiedermelo!?

Lui mi diede un colpetto col muso contro la spalla, come a chiedermi scusa, ma io non lo degnai di uno sguardo. Ero così furiosa che avrei potuto spaccargli la testa, in quel momento.

Dietro di me, Alec tossì una risatina e, nel volgermi a mezzo per capire cosa stesse succedendo, scoprii che Elsa ed Erin avevano scoperto un punto in cui l’enorme lupo era sensibile al solletico.

Sgranai gli occhi, basita di fronte a tanto sprezzo del pericolo – o totale mancanza di istinto di sopravvivenza – finché non mi resi conto del sottile gioco a cui stavano partecipando.

Mostrandosi così tranquilla in compagnia di un così folto gruppo di ulfhednir – Lot mi aveva detto che loro chiamavano così i licantropi, ovverosia ‘teste di lupo’ – Elsa stava cercando di far capire ai guerrieri quanto fossimo innocui.

Sperai davvero che, tra loro, non vi fossero parenti di Lot, o tanta sicurezza sarebbe svanita non appena fosse saltata fuori la verità.

***

Non impiegammo più di due ore a giungere ai confini del piccolo villaggio, raggiungibile grazie a una piccola stradina montana praticamente ridotta a un tratturo alpino.

A sud del paese di Gungnir, un placido lago di origine glaciale – che Elsa ci disse chiamarsi Hemtiønnet1 – rifletteva la luce al tramonto di quella ormai fredda serata di settembre.

I toni del rosso e dell’amaranto cosparsi nel cielo e sull’acqua placida mi rammentarono fin troppo il sangue e, per un attimo, temetti potesse essere un oscuro presagio di morte.

Distogliendo lo sguardo da quello spettacolo eccezionale quanto macabro, poggiai una mano sulla spalla di Duncan – sì, alla fine ero tornata a parlargli – e mormorai: “Speriamo bene.”

Lui annuì col muso ma, un secondo dopo, un’esplosione nella mia testa mi fece crollare carponi, la bocca spalancata alla ricerca d’aria mentre Fenrir, dentro di me, urlava come divorato dal fuoco.

Subito, i berserkir si scatenarono, circondandoci e ringhiando come pazzi mentre Alec digrignava i denti ed Elsa si stringeva al suo collo per non cadere.

Erin, accorrendo subito in mio aiuto, esclamò terrorizzata: “Brie, che succede?!”

Non seppi dirglielo, non riuscii neppure ad emettere suono.

Ogni mio respiro serviva a mantenermi in vita mentre un maglio enorme mi percuoteva con violenza, impedendomi qualsiasi movimento.

Non fossi stata più che certa del contrario, avrei detto che Thor si fosse reincarnato proprio in quell’istante, e solo per fracassarmi la testa con mijollnir, il suo martello poderoso.

Crollai a terra boccheggiante sotto lo sguardo terrorizzato dei miei compagni e quello furioso dei berserkir, già pronti a finire quanto avevano iniziato solo poche ore prima.

Fu unicamente l’arrivo di una donna dall’aspetto giunonico che impedì di fatto il disastro e che, con un gesto elegante della mano, spazzò via quella che non poteva che essere una barriera psichica.

Il dolore scemò di colpo ed io tornai a respirare normalmente, pur se ero ormai senza forze.

Duncan fu subito al mio fianco, uggiolando preoccupato ma la donna, sorridendo freddamente a tutti noi, asserì: “Non temere, giovane lupo, la tua compagna non morirà… almeno per ora.” Poi, guardando Elsa, aggiunse: “Mia cara… come mai in compagnia di un branco di ulfhednir non invitati?”

Vagamente confusa, la bambina mormorò: “Mi hanno salvata nel bosco, madre. Ero ferita, e loro mi hanno curata, accudita, sfamata e ricondotta qui. Ho cercato di spiegarlo a zio Wulfgar, ma non mi crede del tutto.”

Sentendosi preso in causa, l’uomo replicò piccato, indicandomi con foga: “E’ chiaro come il sole che queste persone nascondono qualcosa, o la barriera non si sarebbe azionata!”

Io riuscii in qualche modo a mettermi seduta, contando soprattutto sull’apporto di Erin, che mi tratteneva dal cadere nuovamente come una pera cotta e, biascicando stentatamente, esalai: “E’… una barriera… anti-dèi?”

La donna assentì con un piacevole cenno del capo biondo cenere e, scrutandomi con i suoi penetranti occhi di falco, chiosò: “Il che mi fa supporre che tu ne contenga uno nel tuo animo, giusto?”

“Giusto” gracchiai.

Accigliandosi leggermente, la donna disse ancora: “Non ci resta che scoprire a che razza appartiene.”

Ciò detto, levò nuovamente una mano verso il cielo ed io gridai.

Fenrir, dentro di me, non poté che imitarmi e, spinto ad uscire contro la sua volontà, mi spinse da parte come aveva fatto il giorno in cui ci aveva salvati, e scardinò la gabbia del mio corpo per emergere.

Ne seguì un autentico parapiglia.

Ovviamente, la comparsa del loro acerrimo nemico proprio sulle porte di casa portò i berserkir a mutare nuovamente in orsi e, mentre Erin toglieva dalla schiena di Alec la piccola Elsa, Duncan balzò in avanti per combattere.

Fenrir, bloccato dalla barriera energetica anti-dèi eretta intorno al paese, non poté in alcun modo muovere un passo per dare loro una mano ed io, prigioniera nel mio stesso corpo, rimasi a fissare la scena con il cuore in gola.

Erin mutò in lupo a sua volta e, al fianco di Alec, combatté con fierezza mentre Duncan cercava di tenermi lontani i berserkir meglio che poté.

Naturalmente, la superiorità numerica si fece sentire nel giro di pochi minuti e, quando vidi Duncan crollare a terra dopo un colpo al torace, urlai terrorizzata prima di venire investita da un vero e proprio vento di energia mentale.

Sentii sfrigolare ogni particella del mio corpo mentre intorno a me i berserkir venivano condotti a più miti consigli, ivi compresa la donna che aveva iniziato tutto ciò.

Fenrir, nel suo enorme corpo di lupo bianco ora libero dalla barriera anti-dèi, piegò il muso in avanti e, ossequioso, mormorò: “Allföðr 2…”

Non compresi a chi si stesse rivolgendo finché non vidi comparire dinanzi a noi una seconda donna, esile come un giunco e di bassa statura, che teneva tra le braccia un bimbo di forse un anno di vita.

Da quella creatura minuscola proveniva una forza vitale immane, ed era anche la causa del vento che aveva bloccato l’attacco dei berserkir, che ci avrebbe sicuramente ridotti a stuzzichini per l’antipasto.

La donna si fermò di fronte alla sacerdotessa che aveva compiuto l’incantesimo e, a sorpresa, quest’ultima si inchinò ossequiosa mormorando la stessa parola pronunciata da Fenrir.

Il bimbo, dai profondi occhi turchesi, fissò l’enorme lupo fermo dinanzi a lui senza provare minimamente paura e, mossa una mano verso di lui, ne sfiorò il muso morbido e dal folto pelo.

“Sono secoli che non ci incontriamo, figlio di Loki.”

“Molto tempo, Padre Tutto.”

“E posso sperare che tu sia giunto qui in pace, portandomi notizie di mio figlio Tyr? Mi è difficile percepirne la presenza nel mondo, in un corpo così giovane, ma i miei figli mi assicurano che lui soggiornò qui poco prima della nascita del bambino in cui vivo.”

“Temo che la tua gente sia stata abilmente ingannata, Padre Tutto. Non conosco l’identità della persona in cui si è reincarnato tuo figlio,ma colui che ha messo piede qui, spacciandosi per lui, altri non era che mio padre Loki.”

Dal bambino sfrigolò un’aura potentissima quanto indignata, e tutti i berserkir presenti ringhiarono furenti come in risposta, forse comprendendo lo stato di profonda ira di Wotan, loro signore e padrone.

Perché esisteva un’unica entità, nel pantheon delle divinità norrene, ad essere chiamato Padre Tutto; Wotan, altresì detto Odino.

Rimasi strabiliata e, sì, intimorita da tanto potere, perciò preferii che la discussione si svolgesse tra le due divinità, pur se sapevo che era un rischio, vista l’antica sfiducia.

Fenrir fu più che prolisso nella spiegazione, preferendo dilungarsi perché nulla fosse lasciato nel dimenticatoio. Non eravamo nella condizione di poter lesinare sulle parole, poiché tutto dipendeva da quanto Wotan avesse creduto o meno in noi.

Fu verso la fine della sua lunga dissertazione che Fenrir aggiunse: “Se avrai la compiacenza di scrutare nei ricordi della fanciulla in cui io vivo, potrai capire senza ombra di dubbio che non mento, Padre Tutto. I tuoi figli, come i miei, sono morti e hanno sofferto solo per il diletto di mio padre, per il suo desiderio senza fine di scatenare il Ragnarök su Manheimr3 e su tutti i Nove Regni.

Il bimbo annuì alla sua richiesta, ed il mio corpo riprese sembianze umane, permettendomi di recuperare il controllo su me stessa e sulla mia mente.

Se mi fosse ricapitata un’altra volta, sarei probabilmente impazzita.

Crollai in ginocchio, nuda e stanca morta, ansando alla ricerca d’aria. Ero davvero stufa marcia che tutti quanti usassero il mio corpo come meglio credevano!

La donna che teneva il bambino in braccio, sorridendomi comprensiva, si slacciò il poncho che portava sulle spalle per drappeggiarmelo addosso e, con cautela, depose tra le mie braccia il bimbo dall’aspetto serio e maturo.

Io lo poggiai con delicatezza contro la mia spalla, avvertendo sulla pelle la forza a stento trattenuta da quella carne umana e delicata.

Subito, il tocco divino di Wotan si impadronì dei miei pensieri, dei miei ricordi e delle mie sensazioni, ed io dovetti assistere a quell’invasione come se mi fossi recata al cinema per guardare un film che non volevo vedere.

Rivissi la fuga con Duncan, le peripezie che dovemmo sopportare per ristabilire un minimo di controllo sul branco, la mia mutazione in licantropa, il pericolo mosso contro di noi da Fitzroy, la morte di Leon.

Lì, Wotan ristette per qualche secondo, domandandomi: “Non faceva parte del tuo branco, vero?”

“Non sapeva neppure chi ero diventata, ma mi seguì per aiutarci. E morì nel tentativo.”

“Gli eri affezionata.”

“Sì.”

Wotan non disse altro e proseguì, raggiungendo infine l’avvento di Lot e dei suoi berserkir, il rapimento, la tortura sulla nave, e infine lui, Loki.

Le sue menzogne sgorgarono dalla mia mente come liquido incandescente, facendo agitare il bambino tra le mie braccia che, furente, batté le mani più volte, come a voler scacciare qualcosa di brutto.

“Quel vile! Prendersi gioco dei miei figli! Dei figli di suo figlio! Avrei dovuto immaginare che Tyr non avrebbe mai mosso guerra contro Fenrir. Ciò che era successo al lago Ámsvartnir lo aveva turbato nel profondo, portandolo a pentirsi di aver tradito la fiducia del vecchio amico. Non avrei dovuto fidarmi di ciò che  venni a sapere…, avrei dovuto dubitare.”

“Perché siete tornato?”

“Decisi di rinascere il giorno stesso in cui tu ti tramutasti in un faro di luce nell’Oltretomba, Fenrir. Quando scorsi la tua luce, temetti per i miei figli e decisi di risorgere dove avrei potuto essere d’aiuto. Non mi ero reso conto che tu eri sfuggito alla Madre anni addietro, ma non mi curavo di te e di dove ti trovassi, lo ammetto.”

“Quando divenni una licantropa, foste in grado di vederlo, quindi, Padre Tutto” intervenni a mia volta, non poco sorpresa da quella scoperta.

La mia rinascita come mannara aveva dato il via a un’infinità di destini contrapposti tra loro.

“Sì, giovane Brianna Ann. A torto, pensai che Fenrir fosse un pericolo, ma non avevo pensato che Loki potesse trovarsi per il mondo a seminare zizzania. E’ così difficile percepirne l’aura!”

“E’ sempre stato un ingannatore, Padre, e non vi faccio una colpa per aver pensato male di me. Non ho dato prova di grande discernimento, l’ultima volta che ci incontrammo, e neppure in tempi antecedenti, per essere onesti” mormorò ossequioso Fenrir.

“Né io ti diedi motivi per pensare di me buone cose, ragazzo. Il tuo dolore, al pensiero di perdere la tua amata e i tuoi figli, era sincero, ora lo vedo con chiarezza, ma all’epoca non ero meno vanaglorioso degli altri dèi miei pari. O di te, prima che tu conoscessi quella giovane mortale.”

“Posso dunque sperare che non vi sia alcuna faida tra i lupi e gli uomini-orso? Ciò che è successo alle Svalbard è stata solo la rappresaglia nata per salvare questa fanciulla. L’amore ha spinto la mano dei miei figli, non l’odio verso i vostri consanguinei.”

“L’amore ha sempre reso folli le menti, e tu ne sai qualcosa, ragazzo” ironizzò Wotan, rammentando i motivi per cui era finito tra le maglie di gleipnir. “Evidentemente, i tuoi figli hanno preso da te. Ma capisco… si fa di tutto, per chi si ama.”

“Lot non voleva tutto questo, Padre Tutto. Me lo confidò in punto di morte. Se avesse saputo la verità, non ci avrebbe mai attaccati. E’ stato Loki a fomentare l’odio tra di noi” aggiunsi con veemenza e sentimento.

“Ora ne sono consapevole, ma temo che la risposta a quell’evento sia già diretta verso le vostre terre, perciò dobbiamo agire per tempo e bloccarli prima che nuovi spargimenti di sangue siano perpetrati. Di’ alla donna che mi è madre terrena di chiamare suo nipote Gunther, perché blocchi le nostre armate. Non è più il tempo per il sangue.”

Fui lesta a riportare il messaggio e la donna, annuendo in fretta, corse via senza attendere un attimo mentre i berserkir, attorno a noi, attendevano pazienti di sapere come comportarsi.

“Deponimi tra le braccia della Sacerdotessa. Le dirò cosa fare… e non temere, non scorre odio, tra noi.”

“Ne sono lieto” mormorò Fenrir.

Non esitai a mormorare il medesimo sollievo.

Ora, restava solo la speranza di poter fermare in tempo la guerra.

 

 

 

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1 Hemtiønnet: E’ un lago norvegese che si trova a circa sessanta km a est di Vinstra. Il paesino che cresce sulle sue sponde, invece, non si chiama Gungnir ma, per esigenze di narrazione, ne ho mutato il nome.

2 Allföðr: lingua norrena. Significa Padre del Tutto. Appellativo con cui veniva chiamato Odino (Wotan).

3 Manheimr: lingua norrena. (Terra degli Uomini) Altro nome con cui viene chiamata Midgard (Terra di Mezzo), cioè la Terra.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


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Capitolo 17

 

 

 

 

 

Me ne stavo sdraiata su un letto matrimoniale, al buio, nella stanza che avevano trovato per noi nella casa di Elsa, la figlia del capo villaggio.

Essere colpita da quella rete di energia anti-dèi era stato un vero inferno, come lo era stato venire sbalzata via da me stessa per la seconda volta nel giro di una settimana.

Fenrir non era predominante, in me, perciò quelle escursioni fuori dal mio corpo erano fonte di dolore.

Come ti senti?

“Spossata, ma sto meglio. Lo stomaco, se non altro, ha smesso di ballare la samba attorno all'intestino tenue.”

Non mi aspettavo la barriera. Perdonami.

“Non l'hai mica messa tu...” precisai. “... e poi, ammettiamolo, con Padre Tutto qui al villaggio, chi non l'avrebbe messa?”

E' stato scioccante percepire la sua presenza divina dopo tutti questi secoli. La voce di Fenrir parve alle mie orecchie davvero sorpresa e, sì, timorosa. E, a ben pensarci, non si erano lasciati esattamente da amici.

“Nel ventre della Madre non vi parlavate?” gli domandai, curiosa.

Non è come trovarsi in un club, in cui i soci si incontrano per una partita di poker, ironizzò Fenrir, facendomi sorridere. Ti trovi in un limbo senza forma, galleggiando privo di peso nella luce calda e rassicurante ove le anime dimorano. Solo pochi di noi hanno coscienza di loro stessi, inoltre ci è quasi impossibile comunicare senza un corpo fisico.

“Per questo, quando Avya e i vostri figli si immersero in Duncan, Jerome e Lance, tu potesti metterti in contatto con loro?”

Più o meno. Mi fu concesso solo perché Loki si era reincarnato, ed io temevo fosse per fare del male alla mia famiglia. Fu per questo che chiesi alla Madre di potermi mettere in contatto con loro... alle condizioni che tu ben sai.

“Per questo mi cercasti. Perché nel corpo di una wicca saresti stato al sicuro dallo sguardo di Loki e, al tempo stesso, avresti avuto un legame con i licantropi.”

Precisamente. Ma non avrei mai immaginato che, entrando in te, mi sarei ritrovato accanto a dei Cacciatori. E' stato tutto piuttosto pericoloso, ma non potevo intervenire. Non potevo parlare con te senza che mi venisse dato il permesso e la quercia del Vigrond, che parla per conto della Madre, non aveva ritenuto che fosse ancora giunto il momento.

“Me l'ha detto” assentii.

Forse, se avessi saputo della rinascita di Wotan, avrei potuto collegare prima i berserkir a lui, che sono i suoi figli prediletti, ma non potendo percepirne la presenza...

“Siamo qui, abbiamo fermato i berserkir che si erano mossi per attaccarci e, tra poco, parleremo con il Sommo Sacerdote che ha dato il via a tutto. Direi che non ce la siamo cavata male” replicai, facendo spallucce.

Pratica come sempre, ridacchiò Fenrir.

“Devo esserlo, lo sai, o impazzirei di sicuro” ghignai un attimo, prima di avvertire dei passi lungo il corridoio che conduceva alla camera dove mi trovavo.

Mi levai a sedere sul letto, passandomi una mano tra i capelli in disordine mentre la porta si apriva, lasciando penetrare una lama di luce che mi ferì gli occhi.

Li assottigliai, scrutando tra le palpebre socchiuse la figura imponente di un berserkr che, con un leggero cenno del capo, mormorò: “Il Sommo Sacerdote è giunto, wicca.”

“Oh, bene. Mi sistemo un attimo e arrivo. Grazie, Wulfgar” asserii, levandomi in piedi.

L'uomo annuì e si allontanò com'era venuto, lasciandomi sola.

Per non essere venuto di persona, Duncan doveva essere impegnato in qualcosa di grosso.

O, forse, si stava ancora medicando le ferite.

Dopo la chiacchierata con Wotan, il comportamento delle persone presenti nel villaggio fu piuttosto strano.

Gli abitanti di Gungnir si prodigarono per noi senza risparmiarsi, mettendoci a disposizione medicinali e bendaggi per curarci le ferite causate dallo scontro con i berserkir.

Ci fu servita una gustosa cena a base di salmì di cervo e patate al cartoccio insaporite con rosmarino fresco, il tutto innaffiato da birra scura e corposa.

Quando fummo sazi, ci misero al corrente che il Sommo Sacerdote – che si trovava in un villaggio vicino – stava giungendo assieme a suo nipote e che, presto, avremmo potuto incontrarlo.

Per non apparirgli uno zombi formato ragazza, pregai la madre di Elsa, Astrid, di poter riposarmi un poco e lei, molto gentilmente, mi accompagnò in una stanza tranquilla e lontana dal salone di casa.

Quella in cui mi trovavo in quel momento.

Accesi perciò la abat-jour sul comodino e mi sistemai sommariamente camicia e pantaloni prima di passarmi la spazzola tra i capelli, che sembravano un covone di fieno scampato all'uragano Katrina.

Quando mi ritenni più o meno pronta, percorsi a ritroso il corridoio che sapevo condurre alla sala centrale della casa, un enorme stanzone pannellato con legno chiaro, dove era stata sistemata una stufa in maiolica grande quanto un pick-up.

Non appena entrai, diverse teste si voltarono verso di me ed io, bloccando i miei passi quando mi resi conto di essere sola in mezzo ad estranei, mi chiesi cosa stesse succedendo.

Fu Elsa a venirmi incontro, come per tranquillizzarmi.

Mi prese per mano, perché mi accomodassi su una delle panche imbottite accanto al muro ligneo, e mi disse: “Gli altri sono fuori, in casa di zio Wulfgar. Stanno...”

Mimò il gesto del telefono, ed io compresi.

Sì, ora che mi ricordavo, in casa di Elsa non c'era il telefono, e i cellulari non avevano campo, nel villaggio.

Un vero e proprio isolamento dal mondo moderno.

“E così sei tu la culla del lupo” esordì un attimo dopo un anziano signore canuto e dall'aria stanca.

Mi volsi verso di lui e annuii.

I suoi occhi sembravano cosparsi da un velo di polvere, perciò ipotizzai avesse un brutto caso di cataratta, decisamente non curata dalla tecnologia umana.

Portava una casacca lunga fino al ginocchio, interamente ricoperta di fregi sassoni, e inneggiavano alla guerra e all’orso.

I jeans stonavano un po' con quell'indumento apparentemente sacro, ma non dissi nulla in merito.

Era un po' come incontrare un vecchio sciamano indiano, con copricapo di piume e occhiali da sole.

Strano, ma non inusuale, almeno al tempo d’oggi.

“L'infido padre della creatura che in te dimora ci ha giocati tutti, me per primo, e la tua giovane vita è stata messa a rischio” asserì con tono fiacco l'uomo, scuotendo il capo come se le colpe di quell'errore fossero unicamente sue.

“A onor del vero, neppure io l'ho riconosciuto quando me lo sono trovato davanti. Ho creduto alle parole di Lot riguardo a Tyr, finché non è stato Loki stesso a smascherarsi” precisai, sorridendogli confortante.

“Come guardiano dei segreti dell'Oltremondo, avrei dovuto capirlo, perciò so di aver fallito nel mio compito, e di aver innescato un'Ordalia che non avrebbe mai dovuto vedere la luce.” Il suo tono era così pieno di rimorso che avrei voluto alzarmi per abbracciarlo, ma non avevo idea se fosse o meno una cosa fattibile.

“Come avvennero i fatti, di preciso?” gli domandai, intrecciando le mani in grembo.

“L'uomo che ora sappiamo essere stato Loki, si presentò a noi come la reincarnazione di Tyr. Ci diede un assaggio dei suoi poteri divinatori, e noi non potemmo che convenire con le sue parole. Mai avevamo visto un tale concentrato di energia in un corpo umano. Ci parlò di sé, dei motivi che lo avevano spinto a rinascere, della presenza nel mondo dell'odiato Fenrir, e del suo desiderio di ucciderlo per eliminare il rischio del Crepuscolo degli dèi. Ci domandò aiuto, per noi e per Wotan, che non sapevamo ancora essere nel grembo di mia nipote. Lui depose le mani sul suo ventre prominente – stava ormai per partorire – e ci disse che il bambino sarebbe nato con l'anima di Wotan al suo interno. Ne fummo così onorati!”

“Posso immaginare” assentii.

“Ci mise al corrente dell’intento di Fenrir di muovere contro di noi, di voler utilizzare gli Antichi Testi per scoprire come distruggerci tutti. Ci pregò di aiutarlo a recuperare  ad ogni costo quei tomi per evitare che i nostri clan venissero fatti a pezzi. Siete molto più numerosi, rispetto a noi, ed il pericolo era reale, così decidemmo di aiutarlo, nonostante sapessimo che era un licantropo.”

“Vi spiegò perché voleva aiutarvi nonostante non fosse della vostra stessa razza, ma un Figlio della Luna?” mi informai, dubbiosa.

“Ci disse di aver scelto la forma di un lupo mannaro per poter passare inosservato, scoprire dove fossero sia gli Antichi Testi che Fenrir per poi poterli distruggere ma, quando si rese conto di non poter fare tutto da solo, si rivolse a noi. E noi, come sciocchi, gli credemmo.” Il Sommo Sacerdote sospirò ancora, affranto, e l'uomo accanto a lui, comprensivo, gli batté una mano sulla spalla.

“Non disperarti così, nonno. La wicca ha compreso bene la situazione” mormorò il giovane, lanciandomi un mezzo sorriso di ringraziamento.

Annuii, aggiungendo: “Non fatico a credervi, perché percepisco quando una persona mente, anche se siete berserkir. E' una cosa curiosa, perché funziona anche con gli umani, comunque capisco e non c'è bisogno che vi scusiate. Siamo stati tutti ingannati e abbiamo subito perdite importanti, a causa delle manovre di Loki, ma ora siamo più o meno al sicuro.”

Tutti mi guardarono in cerca di spiegazioni ed io, torva, spiegai loro di Sebastian e di ciò che pensavo di lui.

“Se, come pensi, questo lupo è coinvolto nello sporco gioco di Loki, desidero conoscerlo di persona per sapere i motivi che lo hanno spinto a tradire” asserì l'uomo accanto al Sommo Sacerdote, lo sguardo adamantino che mi scrutò con una certa forza. “Mio cugino Lot è morto per causa sua, ed io voglio vedere in faccia chi ha contribuito a causarne la morte.”

Mi morsi un labbro, spiacente, e mormorai: “Se può consolarti, non è morto da solo. O senza perdono. Credo mi abbia sentito, mentre lo perdonavo per ciò che era successo.”

“Mi è di consolazione, sì. Grazie” assentì lui, muovendo leggermente il capo.

“Se mio nipote Thor vuole venire con voi, io non lo fermerò. E' giusto che almeno uno di noi veda in faccia il vero nemico, visto quanti torti abbiamo fatto subire a chi credevamo essere la nostra nemesi” dichiarò allora il Sommo Sacerdote, scrutandomi in attesa di una risposta.

“Non ho alcuna obiezione al riguardo. Thor può seguirci senza problemi” accordai senza remore, volgendomi in direzione della porta non appena avvertii i miei compagni fuori dall'abitato.

Un attimo dopo, la porta d'entrata si aprì e Duncan, Alec ed Erin fecero il loro ingresso assieme a Ingrid e al piccolo Magnus, colui che portava dentro di sé l'anima di Wotan.

Era paradossale pensare che in quel frugoletto potesse esservi il dio più potente del pantheon norreno, ma tant'era.

Avevo sentito la sua voce, e il suo potere, scorrermi sulla pelle come fuoco liquido, perciò ero consapevole di non aver avuto le traveggole.

Duncan si accomodò al mio fianco, prendendomi in silenzio per mano mentre Alec ed Erin si sistemarono sulla panca accanto alla nostra.

“Tutto bene?” domandai loro, vagamente preoccupata.

“Sebastian ha cercato di fuggire, ma le maglie di Yggdrasil lo hanno trattenuto” mi riferì Alec, torvo in viso. “Bev ed Elspeth si trovano là assieme ad un contingente misto di lupi guidati da Joshua in persona.”

“Come mai Joshua ha pensato di prelevare ben due völva da portare in quel posto dimenticato da dio?” esalai, più che mai sorpresa.

“Ha pensato che potessero avere visioni più chiare e immediate sui piani di Sebastian, se lo avessero tenuto sotto controllo di persona. A quanto pare, trovandosi tra le maglie di Yggdrasil, per loro è più difficile avere visione del futuro” mi spiegò Alec, scrollando le spalle. “E, a quanto pare, aveva ragione. Hanno sventato senza problema due tentativi di aggressione da parte dei lupi di Sebastian. Evidentemente, il ragazzo sapeva già di avere il cappio al collo, così ha ordinato ai suoi di intervenire in caso di bisogno.”

“Ordinato?” ripetei, torva.

“Sì, con la Voce. Quel bastardo ha messo una coercizione a una marea di suoi lupi, e non mi stupirei se saltasse fuori qualcun altro per tentare di salvarlo, magari anche un branco di Cacciatori… giusto per non farsi mancare nulla” brontolò Alec, scuotendo il capo.

“Ne sarebbe capace... e non sarebbe neppure il primo a vendere i propri compagni ai Cacciatori” sbuffai infastidita, ricordando fin troppo bene perché Duncan fosse finito nelle grinfie di Patrick.

Più di un anno era passato dalla sua morte, eppure non mi pesava come avrebbe dovuto.

Avevo sempre pensato che, per quanto in cattivi rapporti, non mi sarei mai sognata di volerne la morte, ma a conti fatti il suo tradimento era stato così profondo, e su così tanti fronti, che non ero riuscita a trovare in me abbastanza compassione.

Patrick aveva tradito i miei genitori, me e Gordon, sua moglie... e tutto per i Cacciatori.

Abraham era stato il suo degno padre e, insieme, erano periti nel fuoco.

Forse non la soluzione più umana, ma così la Madre aveva deciso, e io non mi ero mai trovata in disaccordo.

“Non vedo l'ora di mettergli le mani addosso” brontolai scocciata.

Ingrid mi sorrise benevola e aggiunse: “Ho potuto parlare con i nostri guerrieri e, a quanto pare, la fortuna ci ha arriso. Quando sono riuscita a parlare con Gunther, erano appena giunti a Matlock e stavano chiedendo informazioni su un certo Duncan McKalister.”

Duncan sorrise benevolo alla donna, che ammiccò, aggiungendo: “Quando ho riferito loro degli ultimi sviluppi, sono parsi un po' sorpresi, ma non hanno mosso obiezioni. Attendono nostre notizie.”

Tutti annuirono, ed io mi sentii decisamente meglio. I nostri lupi erano salvi, e solo questa notizia bastò per farmi urlare interiormente di gioia.

 “Ora non ci rimane che parlare con Sebastian” decretai lapidaria, le mani incrociate sotto il mento.

“Oooh, la nostra wicca è furente” ironizzò Alec, strizzandomi l'occhio.

“Puoi dirlo forte, Alec” assentii. “Potete fornirci un'auto con cui raggiungere Oslo? Vorremmo partire quanto prima per le Isole Orcadi.”

“Dopo quello che abbiamo rischiato di fare, mi sembra il minimo” annuì con forza il Sommo Sacerdote. “Thor, vai nelle mie stanze e prendi il mio grimorio. Desidero che tu faccia una cosa per me.”

“Tutto quello che desideri, nonno” assentì il giovane guerriero.

Osservai solo di sfuggita il possente Thor uscire a grandi passi dall'abitato e, rivolta a Ingrid la mia attenzione, le domandai: “Posso porre qualche altra domanda a Padre Tutto?”

“Ma certo” assentì la donna, consegnandomi il bambino con un sorriso.

Non appena avvolsi il bimbo tra le mie braccia, il tepore del suo potere divino mi avvolse come una coperta di morbida ciniglia ed io, sorridendo a quel tenero frugoletto, domandai mentalmente: “Siete al corrente della presenza di altre divinità del vostro pantheon, in questo tempo?”

Temi altre rappresaglie, giovane wicca?

“Ammettiamolo, Fenrir non vi stava molto simpatico, e non vorrei ritrovarmi a combattere contro Balder o Frey da qui a un anno o due.”

La risata tonante di Wotan mi rimbombò nel cervello, e mi fu difficile associare quel suono reboante con il cucciolo d'uomo che tenevo placidamente in braccio.

Magnus sgambettò felice.

Nessuno dei miei figli o della mia Corte si trova nel mondo, in questo momento, a parte Tyr, e di lui non conosco l’ubicazione. Ma non mi preoccuperei per mio figlio, vista l’antica amicizia che lo legava a Fenrir. Quanto alle Creature della Notte, dovrebbero essere tutte nel ventre della Madre, ben lontano da qui.

“Una è dentro di me” gli feci notare con una punta di divertimento.

Anche io commetto errori, balda fanciulla. Anche io, asserì Wotan con tono soave.

“Buono a sapersi.”

Dormi sonni tranquilli, cara ragazza, poiché c'è già chi sta pensando a tarpare le ali al caro Loki, almeno per un bel po'.

“Oh? E chi?”

Ovviamente Wotan non mi rispose, ma l'idea che qualcuno stesse facendo vedere i sorci verdi a Loki mi riempì di immensa gioia.

Riferii ciò che avevo saputo agli altri e, di comune accordo, ci ritirammo per la notte in vista della partenza del giorno seguente.

Non avevamo smesso di viaggiare ma, se non altro, non avevamo più trappole di Loki da affrontare. O così almeno speravo.

***

Salutai Elsa con la promessa che, prima o poi, ci saremmo riviste e, quando infine salii sulla Range Rover di Thor, fu con un sorriso e un senso di sollievo non indifferenti.

Quella mattina, di buonora, ci eravamo portati nel centro del villaggio per ricevere la benedizione dal Sommo Sacerdote e alcuni doni da parte dei berserkir.

A me era stato consegnato un artiglio originale del primo Fenrir, conservato in una teca di cristallo e poggiato su un morbido cuscino di velluto scuro.

Il Sommo Sacerdote mi aveva detto che era tempo che tornasse al suo legittimo proprietario.

Duncan e Alec avevano ottenuto in dono dei bracciali in pelle ricamata con simboli della forza e della saggezza, che loro avevano subito messo al polso.

Ad Erin, invece, era stato consegnato un antico cimelio di famiglia del berserkr che aveva ucciso Marcus durante la loro incursione di un anno prima.

La stessa famiglia del berserkr, saputa la verità e venuta a conoscenza della sua presenza al villaggio, si era messa in viaggio nottetempo per giungere a Gungnir prima della nostra partenza.

Le due vedove si erano scambiate un abbraccio consolatorio sapendo che i rispettivi mariti erano morti onorevolmente, senza mai venire meno ai propri valori.

Solo la malasorte portata da Loki li aveva messi su strade avverse, portandoli a essere nemici.

In quel momento, con Erin seduta al fianco di Duncan, io a riempire l'ultimo posto sul sedile posteriore e Alec sul sedile anteriore, eravamo pieni di speranza.

Leggevo senza fatica i pensieri di Erin, ed erano tutti incentrati su Marcus, sull'idea di averlo finalmente vendicato, e di aver scoperto che l'uomo che gliel'aveva strappato non era un mostro, ma un onorevole soldato guidato solo da mano perfida.

Si sentiva libera, più serena e, ovviamente, lieta di poter riabbracciare la figlia.

Non sarebbe avvenuto subito, il nostro viaggio alle Orcadi l'avrebbe tenuta lontana da casa ancora qualche tempo, ma ormai il peggio era passato. Per tutti noi.

Duncan non era meno sereno. L'idea di poter mettere la parola fine sul pericolo potenziale rappresentato dai berserkir lo rendeva lieto come poche altre volte, e la sua aura brillava di impazienza.

Alec era tutt'altra cosa. Era febbricitante, per così dire. Non insoddisfatto, ma ancora sul chi vive, e per più di un motivo.

Non volli indagare oltre per non fare l'impicciona, ma era chiaro che qualcosa lo turbava, qualcosa che non ci aveva ancora detto.

Wicca...” intervenne ad un certo punto Thor, distogliendomi dai miei pensieri.

“Chiamami pure Brianna” mormorai, sorridendogli attraverso lo specchietto retrovisore.

Lui rispose con un sorriso identico, domandandomi: “Mi stavo chiedendo se non sarebbe meglio farci raggiungere alle Orcadi dai miei compagni. Ho un brutto presentimento.”

“Attraversi le maglie del tempo anche tu, come le nostre völva?” gli domandai, sorpresa.

“Qualcosa del genere. Non vedo immagini come loro. Percepisco le sensazioni e, tutte le volte che penso a quelle isole, provo un profondo senso di stordimento” asserì Thor, lanciando poi uno sguardo pensieroso all'indirizzo di Alec.

Che i due si fossero parlati in proposito prima di partire?

Alec sospirò un attimo dopo e ammise suo malgrado: “E va bene... tanto vale che ve lo dica.”

“Che cosa, scusa?” sbottai immediatamente, accigliandomi.

“Bev mi ha detto di aver visto qualcosa di strano. Una specie di ombra. Le visioni possono essere offuscate, se c'è di mezzo una potenza esterna a minarle e, visto che Yggdrasil è l'unica forza, a parte Wotan, così potente da poter causarle problemi di visuale, per così dire... beh, temiamo che ci sia qualcosa che non quadra, lassù.”

“E quando avevi intenzione di parlarcene, scusa?!” ringhiò Erin, non meno furiosa di me per quel silenzio.

Sbuffando, lui sibilò: “Contavo di mollarvi ad Aberdeen assieme a quel coniglietto di Estelle, partendo poi per le Orcadi assieme a Bright e i suoi guerrieri... oltre ai berserkir, ovviamente.”

Massaggiandomi le tempie con aria infastidita, io replicai: “Non ti è balenato nel cervello che forse io dovrei essere presente, visto che sono l'unica  a poter entrare nella testa di Sebastian?”

Alec tossicchiò imbarazzo ed Erin, collegando finalmente le tessere del puzzle, scrutò dapprima Duncan – rimasto in religioso silenzio fino a quel momento – dopodiché fulminò con lo sguardo Fenrir di Bradford e sibilò: “Se pensi che io me ne starò tranquilla su un divano mentre voi correte verso il pericolo, puoi scordartelo. Ho detto che andrò fino in fondo, e a questo mi atterrò. Se può andare Brianna, posso anch'io.”

“Maledizione, donna! Ma non pensi a tua figlia neppure per un attimo?!” sbottò Alec, accigliandosi non meno di lei.

“Pensi che Penny non sia costantemente nei miei pensieri?” gli sputò addosso Erin, le lacrime che le pungevano gli occhi verdi. “Lei è sempre con me, ma non posso mostrarmi debole. Credi che lei mi voglia codarda e priva di nervo? Non penso proprio! Io mantengo la parola data, e questa missione non è meno importante di altre che ho già portato a termine. Arriverò dove arriverete voi!”

“Allora sei più stupida di quanto pensassi!” sbottò Alec, infervorandosi. “Io ti sto dando soltanto la possibilità di startene al sicuro presso un clan amico. Non pensi di aver già rischiato a sufficienza? Che cazzo vuoi dimostrare, sentiamo?!”

“Che puoi fidarti di me!” si lasciò sfuggire Erin prima di tapparsi la bocca e reclinare il capo, rossa in viso.

Alec si irrigidì immediatamente, a quelle parole e, imprecando sonoramente, ringhiò: “Non si tratta di fiducia, maledizione!”

“Sì, invece! Tu non ti fidi di me, pensi che io sia debole e non mi vuoi tra i piedi! Credi che non l'abbia capito?!” sbottò Erin, passandosi nervosamente una mano sugli occhi.

Osservai meglio, non arrischiandomi a dire neppure mezza parola, ed ebbi la conferma ai miei dubbi. Sì, stava piangendo.

Anche Alec se ne rese conto perché imprecò nuovamente – gli veniva benissimo, in effetti – e borbottò contrito: “Non devi piangere.”

“Faccio quel che mi pare, maledetto idiota!” ringhiò lei, ponendo di fatto fine a quella discussione.

Il silenzio teso e imbarazzato che ne seguì ci accompagnò fino a Oslo, tre ore buone di strada passate a rigirarsi i pollici, barricare la testa e fare finta di niente guardando fuori dal finestrino.

Avevo una mezza idea che anche Duncan c'entrasse con la decisione di Alec, e di quello avremmo discusso in separata sede.

Al momento, l'unica cosa che mi interessava era trovare un aereo in partenza che ci portasse all'Aeroporto Internazionale di Aberdeen.

Mentre Thor si occupava dell'aspetto logistico del viaggio, Erin andò ad acquistare qualcosa da leggere, e Alec sparì non appena entrammo nella hall dell'aeroporto.

Rimasta sola con Duncan, intrecciai le braccia sotto i seni e lo fissai con un certo cipiglio, in cerca di spiegazioni.

Lui non si lasciò per niente impressionare e si limitò a dire: “Alec mi ha chiesto appoggio, e io gliel'ho dato. Sono d'accordo anch'io che Erin rimanga con Estelle, mentre noi ci rechiamo alle Orcadi. Se potessi, lascerei anche te ad Aberdeen, credimi, ma non posso farlo per ovvie ragioni.”

“E tutto questo machismo da cosa verrebbe fuori, scusa? Da quando in qua ti imponi a questo modo?” brontolai, rasentando la rabbia pura.

Duncan sospirò e mi prese il capo per avvicinarlo al proprio. Piegandosi in avanti, poggiò la fronte contro la mia e mormorò: “Credi che vedere quelle prigioni sia piacevole? O un bello spettacolo? Cosa pensi di trovare, lassù?”

A quello non avevo proprio pensato.

Avevo dato per scontato fin dal principio che fosse, più o meno, come qualsiasi altra prigione vista nei film. Brutta, sporca, ma non impossibile da gestire. Non mi ero neppure posta il problema di chiedere come in realtà fosse.

A volte sono davvero tarda.

“Devo... preoccuparmi?” deglutii a fatica, mordendomi il labbro inferiore.

Lui annuì.

Duncan non era un tipo vecchio stampo, sempre pronto a stendere un mantello ai miei piedi per evitare che i miei piedini non finiscano in una pozzanghera.

Non si era mai comportato a quel modo, con me, e questo mi mise addosso una strizza non indifferente. Se era così preoccupato, cosa dovevo aspettarmi?

“Tu sai che Ygghdrasil regge i Nove Regni, giusto?” si informò allora Duncan, sul chi vive.

“Il mito dice così. Ma è poi vero?” borbottai, non sapendo esattamente cosa dire.

Risposta sbagliata. Evidente.

“Duncan, cosa non mi avete detto, fino ad ora?” gracchiai, cominciando a preoccuparmi sul serio.

“Licantropi, berserkir e satiri non sono le uniche creature che abbiano mai calpestato questa terra, Brie” mormorò torvo Duncan, accigliandosi in viso.

Spalancai lentamente la bocca, quasi che qualcuno la stesse scardinando poco alla volta dalla mia faccia ed il mio compagno, sospirando, aggiunse: “Non ci sono stato che una volta, mio malgrado, e quel che ho visto mi ha sgomentato. Pensi mi piaccia l'idea di portarti in quel suppurato di male che è Nilfheimr?”

“Oh” esalai solamente, non sapendo che altro dire.

“Alec non voleva che Erin rimanesse scioccata. Ha già visto troppe brutture, in pochi mesi, e non desiderava che convivesse anche con quest'incubo. Ti pare che sia sbagliato?”

“No, però...” tentennai, restia a dar loro pienamente ragione per puro puntiglio.

“Principessa...” mormorò lui, sorridendomi teneramente nel carezzarmi il viso con il dorso delle dita. “... mettiti nei nostri panni, per un momento. Non cercheresti con ogni mezzo di proteggerci?”

“Sì” sospirai sconfitta, reclinando il capo.

Un braccio robusto si appoggiò pesantemente sulle mie spalle, portandomi a emettere uno sbuffo improvviso mentre una voce pesante, roca, mi diceva: “E allora vedi di far capire la cosa anche a quell'altra.”

“Alec, certo che hai dei modi da troglodita” brontolai, cercando di reggere al peso del suo braccio sulle mie spalle.

“Non so che farci” brontolò lui per diretta conseguenza.

“Siete due fifoni. Perché certe patate bollenti devono sempre cadere in mano a me?” mi lagnai, scuotendo la testa con fare disgustato.

“Perché sei una brava bambina che ha tanto a cuore i suoi lupastri” mi prese in giro Alec, ghignando.

“Alec, posso sempre riprendermi la benedizione che ti ho fatto, sai?” gli ringhiai contro, ritrovandomi a fronteggiare solo il suo falso sorrisone ingenuo.

Duncan ce la mise tutta per non ridere, ma alla fine cedette e scoppiò in una calda risata di gola, subito seguito a ruota da Alec, che mi batté una mano sulla schiena prima di spingermi in direzione di Erin, che stava tornando.

Li fulminai entrambi con lo sguardo, macinando dentro di me miriadi di possibili vendette da mettere in atto nei loro confronti e, raggiunta che ebbi Erin, la presi sottobraccio dicendole: “Ho un paio di cosucce da dirti.”


 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


 
Capitolo 18
 
 
 
 
 
L'arrivo ad Aberdeen fu per me fonte di autentico sollievo.

Spiegare ad Erin i motivi che avevano spinto sia Alec che Duncan a preferire che lei rimanesse ad Aberdeen, assieme al clan di Bright, fu cosa davvero difficile.

Sulle prime, Erin protestò vibratamente, inalberandosi anche con me per la mia presa di posizione ma, quando finalmente passò oltre alla sua rabbia e scorse i mille dubbi che si affastellavano nei miei occhi, iniziò a capire.

Non ero felice di infilarmi in quel ginepraio, e l'idea di scoprire quanto reali fossero certi miti proprio non mi solleticava.

Saperla al sicuro ad Aberdeen, ci avrebbe resi più tranquilli.

Alla fine, Erin accettò l'inevitabile e non disse più nulla ma, per tutta la durata del viaggio in aereo, mi parve di averla tradita.

Mi sembrava ingiusto che lei non potesse partecipare alla partita finale visto che, fino a lì, era stata assieme a noi, ma sapevo bene quanto Duncan e Alec fossero seri, sulla faccenda del Nilfheimr.

Qui non si trattava di fare i duri; era una faccenda dannatamente seria, e loro non volevano guai.

Speravo davvero che Elspeth e Beverly, per raggiungere quella maledetta prigione, avessero adottato tutte le protezioni possibili e immaginabili.

Non volevo avere sulla coscienza la loro sanità mentale.

Quando raggiungemmo il nastro trasportatore per recuperare i nostri bagagli, trovammo ad attenderci il gruppo piuttosto folto di berserkir capitanati da quello che immaginai essere Gunther e, per un momento, temetti il peggio.

A poca distanza, infatti, si trovavano anche Bright, Estelle, Kate e diversi loro lupi, tutti rigidi come bastoni e torvi in viso come se fossero appena tornati da un funerale.
Lanciata un'occhiata d'avvertimento a Thor, mi incamminai lesta verso il gruppo di Bright mentre il berserkr si occupava dei suoi compagni, preventivamente protetti dalle figure di Erin, Duncan e Alec.

Allungate le mani verso Estelle, che stava osservando i nuovi venuti con occhi che sprizzavano scintille, abbracciai la mia cara amica con calore, sperando di dissipare così le sue paure.

Mi ritrovai letteralmente stritolata dalle sue braccia candide e, con voce accorata, Estelle esalò: “Oh, cielo, tesoro! Tutto bene, vero?”

“Se mi lasci intatte le costole, sì” ansai, ridacchiando nervosamente.

Bright accennò un sorrisino ma non scostò gli occhi dal gruppo di berserkir che, dubbiosi, se ne stavano il più impassibili possibile per non attirare l'attenzione.

Come potessero sperare di ottenere una simile concessione dodici montagne alte due metri e più, era ancora da stabilire, ma quanto meno ci provarono.

Sempre stretta nell'abbraccio di Estelle, allungai una mano per sfiorare il braccio teso di Bright, e mormorai: “Va tutto bene, davvero. Non stavo scherzando, quando ti ho chiamato.”

Lui annuì debolmente, limitandosi a dire: “Ad ogni modo, non è il posto giusto per una zuffa.”

“E neppure ci sarà bisogno di azzuffarsi. E' tutto appianato” sottolineai con vigore, stringendo la mia mano sul suo braccio.

Bright emise un lungo sospiro, cercando di rilassare i muscoli del corpo tesi allo spasimo ed io, sciogliendomi dall'abbraccio di Estelle, dissi perentoria: “Usciamo e discutiamone a casa vostra. Non possiamo attirare l'attenzione.”

Si dichiararono tutti d'accordo e, come un compatto squadrone, ci dirigemmo tutti all'esterno dell'aeroporto, dove trovammo ad attenderci diversi SUV a sette posti.

Come quasi tutti i capiclan che conoscevo, anche l'abitazione di Bright ed Estelle si trovava fuori città, vicino al Vigrond del loro branco.

Anche in quel caso, quindi, attraversammo l'intero abitato di Aberdeen prima di puntare verso le colline e la campagna circostante.

Dopo avere imboccato Whitestripes Road, la seguimmo per un paio di miglia prima di svoltare a sinistra, su una piccola mulattiera sterrata che costeggiava un'immensa siepe di piante di nocciolo.

La prima auto, dove si trovavano Estelle, Bright e Kate, svoltò subito a destra, dove un cancello automatico in ferro battuto si aprì dinanzi a loro senza fare alcun rumore.
Uno dopo l'altro, i SUV guidati dai lupi di Fenrir di Aberdeen entrarono nella proprietà, parcheggiando nell'ampio cortile inghiaiato.

Lì, mi lasciai andare ad un’ammirata occhiata della bella casa colonica dai bei muri di sasso dove abitavano i nostri amici.

Gli alti comignoli si allungavano verso un cielo costellato di mille nuvolette burrose, sgusciando come tante dita dal tetto di tegole grigie.

Due enormi giare in terracotta erano poste ai lati dell'entrata e, intorno al perimetro della casa, lunghe file di erica rosa e azzurra si estendevano fino a perdita d'occhio.

L'ampio giardino si estendeva sulla destra della villa, e comprendeva – oltre a un prato curatissimo – anche alte piante di acero e di betulla.

Sulla sinistra si innalzava una seconda struttura in sasso, in tutto simile alla casa padronale e, dopo averne chiesto spiegazione a Estelle, lei mi disse: “E' la casa di Kate. L'abbiamo voluta qui vicino a noi, dopo che... beh, dopo che sua madre è morta.”

Rammentavo fin troppo bene l'incidente automobilistico che aveva strappato la vita della madre di Kate e, nel vedere sorridere debolmente la mia amica wicca, non potei che stringerla a me in un silenzioso abbraccio.

“Bright ha esagerato come al solito. Ci sono una marea di stanze, ed io sono sola” ridacchiò debolmente Kate, accettando di tutto cuore il mio abbraccio.

“Sono speranzoso, a leannan1, perché non credo che tu rimarrai sola ancora per molto” ghignò Fenrir di Aberdeen, portandomi a sgranare gli occhi, sorpresa.

Kate arrossì copiosamente, tingendo il suo volto dello stesso color scarlatto dei capelli ed io, dandole una pacca sulla spalla, le mormorai all'orecchio: “Ne parleremo più tardi, okay?”

“Sarà meglio” brontolò lei, seguendo Bright e gli altri in casa assieme ai nostri strani ospiti.

Quando ci ritrovammo all'interno, riconobbi subito il tocco sopraffino di Estelle.

Il mobilio antico ben si sposava con le linee esterne della casa, un classico della campagna inglese, e l'abbondanza di centrini ricamati a mano denotava il passaggio di una mano femminile.

Dubitavo fortemente che fosse stato Bright a metterceli.

Oltrepassando un largo corridoio interamente ricoperto di tappeti, ci riversammo in un salone dalle ampie finestre che davano sul retro della casa, e da cui si poteva scorgere il bordo di un'ampia piscina.

Poco più in là, si intravedeva un gazebo in ferro e chiuso da vetrate in cui svettava, invitante, una bellissima vasca idromassaggio da esterni.

“E' bellissimo immergersi lì, in inverno, quando fuori c'è la neve e l'acqua è caldissima” mi spiegò in un sussurro Estelle, intuendo cosa stessi guardando. “Le vetrate ci riparano dal vento e le intemperie, e noi possiamo sollazzarci quanto vogliamo, là dentro.”

“Immagino” esalai deliziata prima di lanciare un'occhiata significativa a Duncan, che ridacchiò.

“La vuoi anche tu?” mi domandò, dandomi un buffetto sulla guancia.

“Sì” annuii con vigore.

“Vedrò dove metterla” assentì lui prima di guardare in direzione di Bright e aggiungere: “Credo che ora possiamo parlare di cose serie.”

Fenrir di Aberdeen non poté che annuire e, scrutando con apprensione l'abbondanza di berserkir presenti nel suo salone, dichiarò: “Mi sono accontentato della parola di una mia cara amica, ma esigo spiegazioni in merito alla loro presenza sul mio territorio.”

Fu Thor a parlare, dimostrando lo stesso indubbio charme del nonno.

Spiegò a Bright il perché del loro improvviso cambio di programma, della presenza di un così alto numero di berserkir nella zona di Aberdeen e della sua decisione di unirsi al mio gruppo per raggiungere le Orcadi.

Hati e Sköll di Aberdeen, in piedi accanto al loro Fenrir, ascoltarono con attenzione l'intera spiegazione mentre Estelle, seduta su una sedia vicino a Kate, teneva nella sua la mano della wicca.

Era evidente quanto Kate stesse ascoltando con attenzione per percepire eventuali bugie nel discorso di Thor ma, nulla trovando, annuì al suo Fenrir alla fine del discorso, dicendo: “Non ha mentito, Bright. Puoi fidarti.”

L'uomo sospirò, passandosi una mano tra i folti capelli castani e, fissando i suoi occhi color del brandy in quelli chiari di Thor, asserì: “Puoi ben immaginare quanto tutti noi siamo restii a stare tranquilli, dopo quello che è successo a Brianna. Ci ha sconvolto sapere del suo rapimento.”

“Posso immedesimarmi in tutti voi senza problemi, e anche per questo vogliamo aiutare la vostra amica a venire a capo di questa situazione. Debellato il problema principale, e cioè la nostra possibile Ordalia, non ci resta che stabilire se il lupo che avete imprigionato sia sotto l'influsso di Loki, o un vero e proprio nemico” assentì Thor, sorridendo benevolo.

Non mi era possibile percepire i suoi sentimenti come facevo con i lupi, ma ipotizzavo senza problemi quanto, la morte del cugino Lot, gli pesasse ancora sul cuore.
Era troppo fresca, troppo violenta, per essere già stata passata sotto silenzio.

Presi la parola, aggiungendo con enfasi: “Abbiamo sofferto tutti fin troppo a causa delle manovre di Loki, e quel che ci serve ora è coesione tra i nostri due popoli. Fenrir ed io abbiamo potuto parlare con Padre Tutto, chiarendo ogni possibile disguido con lui. Non fa specie che i berserkir si siano accaniti contro di me con così tanto livore. Per loro, Fenrir rappresentava un pericolo per il loro signore, e andava debellato. Ora che però è stato chiarito tutto, non dobbiamo portare rancore. Le morti che ci siamo lasciati alle spalle non ne hanno di certo bisogno.”

Uno dopo l'altro tutti annuirono ed io, sospirando, terminai di dire: “Abbiamo bisogno di supporto per poter raggiungere le Orcadi. Non possiamo andarci di corsa. Siamo troppi e attireremmo l'attenzione, prima o poi.”

“Le auto che abbiamo usato sono vostre fino a nuovo ordine” asserì Bright, scrollando le spalle. “Manderò con voi anche alcuni dei miei lupi, giusto per non farvi mancare nulla e, nel frattempo, chiamerò Bryan per avvisarlo del vostro arrivo.”

“Molto bene. Non vedo l'ora di mettere le mani su Sebastian” ringhiai a quel punto, già pregustando il nostro incontro.

Questo mio commento diede il via a una serie di urla soddisfatte e di battute su ciò che ognuno dei presenti avrebbe voluto fare a Sebastian ma, quando la faccenda si fece volgare, mi defilai alla svelta dalla stanza con le poche donne presenti.

Che gli uomini si sfogassero – e si conoscessero – un po' per conto loro.

Noi avevamo altro da fare.

Raggiunta una piccola serra, dove Estelle coltivava le sue piante esotiche, ci accomodammo su un paio di panchine in ferro tinto di bianco e, rivoltami alla padrona di casa, le dissi: “Ho un favore da chiederti.”

“Tutto quello che vuoi” assentì subito lei, sorridendomi gentilmente.

“Vorremmo che Erin rimanesse qui fino al compimento della missione. Non voglio che torni a casa da sola, perché desidero che l'ultima parte del viaggio si svolga assieme a noi, ma Nilfheimr non è posto per chiunque. Se potessi, lo eviterei anch'io, ma non posso. Perciò...”

Interrompendomi con un cenno della mano, Estelle disse perentoria: “Può rimanere da noi finché vuole.”

“In casa mia c'è un sacco di posto, e sarà un piacere avere un'ospite” aggiunse Kate, dando una pacca sulla mano di Erin, che sorrise debolmente.

Dovevo convincermi di non stare facendo nulla di male, lasciandola lì.

Sarebbe stata al sicuro, in mezzo a persone gentili e premurose.

Non stavo facendo niente di sbagliato.

Ma allora perché mi sentivo così da schifo?
***
Non avrei mai pensato che lasciare Erin sarebbe stato così complicato.

Dopotutto, la conoscevamo appena, avevamo passato con lei poco meno di due mesi, tra la nostra permanenza a Belfast e il viaggio in Norvegia, eppure mi si spezzava il cuore a lasciarla lì ad Aberdeen.

Sensi di colpa? Io?

Ad ogni modo, quando ci ritrovammo di fronte all'entrata della casa di Bright, il mattino seguente, avevo le lacrime agli occhi.

La abbracciai forte, raccomandandole di non preoccuparsi, che ormai il peggio era passato, e lei non fece che annuire, annuire e annuire ancora.

Quando mi scostai da lei, ero quasi a pezzi.

Duncan fu più bravo di me.

La strinse a sé con naturalezza, baciandola gentilmente sulle guance prima di prometterle che saremmo tornati entro breve tempo.

Il vero dramma fu con Alec.

Erin si morse il labbro inferiore mentre lui, corrucciato e con le mani in tasca, la sbirciò attraverso le lunghe ciglia mentre, borbottando un augurio di buona salute, non fece che curiosarsi i lacci delle scarpe da ginnastica.

Fu Erin a dover fare tutto il lavoro.

Annullò la distanza che li separava e lo strinse con forza, dichiarando: “Penny ti odierà a morte, se tornerai con un solo graffio visibile. Perciò, vedi un po' tu.”

Pur rigido come un bastone, Alec trovò la forza per sollevare un braccio e dare un paio di goffe pacche sulla schiena di Erin, asserendo: “Per fortuna che mi sono ferito alla pancia, sennò sai che casino?”

A lei sfuggì un risolino nervoso e, quando Alec si scostò, si asciugò in fretta una lacrima ringhiandogli in faccia: “Vale anche per me, sai? Ti odierò a morte, se ti farai anche un solo graffio.”

“Ho mal di denti. Conta?” ironizzò allora lui, allontanandosi da una Erin sbuffante e facendole un cenno di saluto da sopra la spalla, mettendo in mostra una sicurezza che di certo non provava.

Salì su uno dei SUV senza più voltarsi indietro ed io, nel seguirlo, feci in tempo a scorgere sul volto di Bright la più totale, sconcertata sorpresa.

Eh, già.

E chi se l'immaginava che Alec potesse stare così a cuore a qualcuno? E il contrario?

Ovviamente, quando il SUV fu colmo, tra lupi e berserkir, Alec si chiuse nel suo cupo e solito silenzio ed io, nel dargli una pacca sulla coscia, gli sorrisi.

“Non è il momento, streghetta. Sono incazzato nero” brontolò lui mentre Whilfred, uno degli alfa di Bright, metteva in moto per partire.

“Sai che non l'avevo notato?” ironizzai, lanciandogli un'occhiata divertita.

Alec allora si rivolse speranzoso a Duncan, esalando: “Ti prego, tienila occupata. Fate pure cosacce, se volete. Prometto di non guardare... ma falla tacere!”

Duncan ridacchiò a quel suggerimento, mentre io mi vendicavo prendendo a sberle un braccio di Alec e, con risolutezza, mi afferrò per un polso attirandomi sulle sue ginocchia.

Si udirono alcuni risolini tipicamente maschili ed io, vagamente accigliata, dichiarai: “Un solo commento, e giuro che mi vendicherò. Non so ancora come, ma ho molta inventiva.”

I risolini divennero autentiche risate grasse e piene ed io, appoggiato che ebbi la testa sulla spalla di Duncan, mugugnai: “E va bene, ho capito... mi stavo impicciando, eh?”

“Abbastanza, principessa. Abbastanza” ammise lui, cingendomi con le braccia mentre qualcuno gli propose di darsi da fare.

Io azzittii il lupo che si era permesso di dare un simile suggerimento e, rivoltami verso Alec, asserii spiacente: “Mi farò gli affari miei.”

“Sei una donna. Figurati se lo farai” ironizzò allora lui, scrollando le spalle.

“Guarda che un po' di volontà ce l'ho anche io!” lo rabberciai, pur sapendo che in parte aveva ragione.

“Sììì, come no! Streghetta, la tua faccia è più limpida di uno specchio d'acqua, e si vede lontano un miglio che vorresti sapere un sacco di cose, su quel che mi gironzola per la testa. Ma ora, davvero, non voglio parlarne.”

Pur avendo cominciato con un tono scherzoso, Alec terminò di parlare con voce profondamente seria ed io, scesa che fui dalle gambe di Duncan, tornai a sedermi compostamente tra il mio uomo ed Alec.

Annuii con profonda comprensione e dissi solennemente: “Giuro che, per almeno un giorno, non ti chiederò nulla.”

“Amen” dichiararono all'unisono Duncan e Alec.

Un altro scoppio di risa seguì quel commento ed io, vagamente piccata, incrociai braccia e gambe, dicendo tra me: ma sono così tremenda?

Neppure Fenrir osò dire qualcosa.
***
 
Attraversammo Inverness senza neppure tentare di fermarci per il pranzo. Sarebbe stato un'autentica perdita di tempo intrufolarci nella caotica cittadina scozzese, alla ricerca di un posto in cui mangiare.

Sebbene il navigatore satellitare ci offrisse mille e più alternative, preferimmo proseguire oltre.

Meglio non obbligare i dodici berserkir, nostri compagni di viaggio, a confrontarsi con città così caotiche, vista la loro idiosincrasia nei confronti della civiltà.

Mi aveva stupito non poco scoprire che al villaggio di Elsa, a parte poche persone, i telefoni e la televisione erano quasi praticamente un'eccezione alla regola.

Lì, la vita era rimasta ferma a poco prima della Seconda Guerra Mondiale e, a parte le automobili, nessuno possedeva beni di consumo.

La vita scorreva placida, tranquilla, vivevano dei frutti della terra e dei guadagni che ottenevano dalla vendita di prodotti d'artigianato locale.

I più giovani, come Thor, erano andati all'università e si erano trovati un lavoro anche all'esterno di quella bolla temporale in cui vivevano i vecchi berserkir e, spesso e volentieri, abbandonavano i villaggi per stabilirsi in città più popolose.

Non tutti, però, sceglievano quel genere di vita, prediligendo lavori come lo spaccalegna o il guardiacaccia.

Quando, percorrendo la A9 per raggiungere Thurso – dove avremmo preso il traghetto per le Orcadi – comparve dinanzi a noi un cartello recante la scritta 'restaurant', fummo d'accordo che fosse giunto il momento di fermarsi.

Lì, in mezzo al nulla e con la placida corrente del mare che penetrava nell'entroterra fino a raggiungere Inverness, i berserkir si sarebbero sentiti a loro agio.

Mentre Wilfred posteggiava dinanzi a una piccola serie di casette gialle tipiche della Scozia, coi loro alti comignoli e i tetti spioventi su pareti stuccate grossolanamente, Thor terminò il lungo monologo che ci aveva impegnati fin a quel momento.

“E' triste ammetterlo, ma l'isolamento che ci siamo auto-imposti per non perdere le nostre radici ci ha indebolito, quando non ha stroncato del tutto intere famiglie, rendendole sterili.”

Noi lupi annuimmo, sapendo bene a quale problema si stesse riferendo.

In secoli passati, anche i licantropi avevano perso interi clan per il medesimo motivo e si erano visti costretti a prendere una drastica, quanto importante decisione.
Le mescolanze di sangue.

Unirsi agli umani era stato l'unico modo per salvare la razza, pur perdendo di fatto alcune caratteristiche salienti, come l'immunità totale alle malattie.

“Quindi, la genealogia dei berserkir è rimasta pura, fino ad ora” mi intromisi, mentre il motore veniva spento con un sordo brontolio.

“Esattamente. Ma molte delle nostre donne non sono più in grado di generare figli. Quando Ingrid rimase incinta di Magnus, tutti noi ne fummo immensamente lieti. Molti rappresentanti dei villaggi vicini giunsero a Gungnir per festeggiarla” ci spiegò Thor, scendendo dall'Escalade nero dove avevamo viaggiato fino a quel momento.

“E' un problema che abbiamo avuto anche noi, a suo tempo” lo informò Duncan, incamminandosi assieme agli altri verso il vialetto che conduceva al The Store House, un ristorantino immerso nel verde e dall'aria davvero stuzzicante.

I profumini deliziosi che riempivano l'aria salmastra del luogo fecero brontolare più di uno stomaco e, tra sorrisi divertiti e ansia di mettersi a mangiare, ci recammo in branco verso l'entrata.

Quando una delle cameriere ci vide, sgranò lentamente gli occhi – sicuramente sorpresa di vedere un tale concentrato di testosterone tutto in una volta – prima di indossare la maschera da padrona di casa e asserire: “Benvenuti signori... signorina. Un tavolo per quanti?”

“Diciotto” dissi io, sorridendole complice mentre mi infilavo dietro di lei per raggiungere una lunga tavolata, rivolta verso lo stretto golfo che lambiva Inverness.

Gli uomini ci seguirono in silenzio, cercando di apparire il più docili possibile, cosa che ritenni un'autentica assurdità, visto che il più piccolo tra i presenti era Jonas, che era alto un metro e ottanta e pesava sì e no cento chili. Di muscoli.

La cameriera fece del suo meglio per non osservare quella collezione di splendori maschili con occhio languido ed io, nell'accomodarmi per prima, nascosi come meglio potei un sogghigno divertito.

Essere l'unica donna in mezzo a quel branco di braccia forti era abbastanza curioso e, di sicuro, la cameriera si stava domandando cosa ci facessi lì in loro compagnia.

Prese le nostre ordinazioni – carne alla griglia con contorni misti insieme a fiumi di birra, e acqua per me – e si involò verso la cucina con passo veloce, lasciandoci alle prese con degli stuzzichini davvero invitanti.

Mi sembrava paradossale pensare così tanto al cibo, sapendo bene cosa ci stessimo approssimando a fare, ma evidentemente non ero l'unica a farlo.

Tutti i presenti stavano ridendo e scherzando, facendo amicizia dopo tanta tensione covata sotto la cenere dell'ansia ed io, nell'osservarli tutti assieme, non potei che sorridere.

Ti fa sentire bene esserti riappacificata con loro?

“A te no? Non credi che avere Wotan dalla nostra parte sia una cosa buona?”

Sicuramente. Quel che mi incuriosisce, però, è sapere dove sia Tyr. Non ne percepisco la presenza perché è un figlio della Luce, perciò, per noi creature legate alla Notte è impossibile avvertirne l’aura. Vorrei rivederlo, parlargli. Chiarirmi con lui e chiedergli perdono per la mano.

“Ho idea che, se è destino, lo incontreremo sul nostro cammino. Visto che, fino ad ora, me ne sono successe di tutti i colori, non stento a credere che possa accadere ancora qualcosa.”

Non riesco a capire se sei fatalista o se, più semplicemente, vuoi punzecchiarmi.

“Rasoio di Occam. A parità di fattori, la soluzione più semplice tende ad essere quella giusta” ironizzai, distogliendo l'attenzione da Fenrir per tornare a guardare i miei compagni.

La carne era finalmente giunta e, di buona lena, si impegnarono tutti per divorarla con sommo gusto.

Sembrava essere diventata una rarità, per me, poter apprezzare semplici gesti come quello.

Ultimamente, avevo solo avuto brutte notizie, pericoli che mi inseguivano in ogni cantone io mi nascondessi, e sangue a rapprendersi sulle mie mani.

Ero stanca, lo ammettevo senza problemi. Stanca di dover sempre guardarmi alle spalle, di vedere le persone che amavo preoccuparsi all'inverosimile per me, di scoprire sempre nuovi nemici di fronte al mio cammino.

Arriverà il sereno, Brie, davvero.

“Lo spero, Fenrir. Davvero tanto.”


 
 
 
 
 
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1 a leannan (gaelico scozzese): mia cara.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19
 
 
 
 
Non appena sbarcammo sull'Isola principale dell'Arcipelago delle Orcadi, Bryan e la sua guardia furono lì ad accoglierci, pronti ad ascoltare le ultime novità come a ragguagliarci su ciò che era avvenuto in zona.

Per giungere su Holm of Huip, dove si trovava la prigione di Niflheimr, avremmo preso un traghetto più piccolo, che ci aspettava in un porticciolo privato, a poca distanza da dove eravamo sbarcati.

Per una missione simile, dovevamo agire con più prudenza per non attirare l'attenzione degli umani, perciò non potevamo usare le comuni agenzie di viaggi per recarci su quella piccola isola di proprietà del branco.

La scoperta della rinnovata pace con i berserkir e della presenza, al villaggio di Gungnir, nientemeno che di Wotan, fece sorridere di sorpresa Bryan.

Al termine del mio breve racconto, ammiccò al mio indirizzo e chiosò: “Richiami nel nostro mondo un sacco di dèi, a quanto pare.”

“Avrei preferito non incasinare così tanto le vite di tutti quanti ma, a quanto pare, stare nel ventre della Madre era diventato stretto a molti” celiai, scrollando le spalle con ironia. “Sono scappati in massa!”

Tutti risero al mio commento, forse più per stemperare la tensione latente che gravitava intorno a noi, che per reale divertimento.

A nessuno piaceva l'idea di inoltrarsi nelle viscere della terra, in compagnia di ogni sorta di mostro mai concepito dal Creato, e con la minaccia potenziale di un disastro imminente.

Perché era inutile che menassimo il can per l'aia. La pelle non mi formicolava per caso, e dubitavo che fosse diverso per i miei compagni di viaggio.

Anche Bryan appariva torvo in viso e, per tutto il breve tragitto che ci separava da Holm of Huip, non parlò più.

Come nessuno degli altri, se era per questo.

Il silenzio fece da cornice alle nostre ultime miglia per mare e, quando finalmente sbarcammo in una cala seminascosta da due alte colonne rocciose a sud-est dell'isola, seppi che non sarebbe stata una visita pacifica.

Quel posto brulicava di energia statica negativa, ringhiava nella mia testa come una fiera furiosa e desiderosa di sangue ed io, pur non volendo, rabbrividii e mi addossai a Duncan, che fu lesto ad avvolgermi le spalle con un braccio.

“Sapevo che avresti reagito così” mormorò spiacente lui, fissandomi con i suoi tristi occhi smeraldini.

“Sono loro? I carcerati, intendo?” sussurrai, trovando difficile persino parlare con chiarezza.

Era complesso formare una frase di senso compiuto quando, nel cervello, mille grida iraconde mi confondevano le idee.

Annuendo, Bryan rispose ai dubbi di noi tutti. “L'isola non riesce a contenere la loro ira millenaria, ed essa fuoriesce dal terreno sotto forma di onde di energia... quelle che stanno facendo rizzare i peli sulle braccia a tutti quanti.”

Come per sottolineare le sue stesse parole, levò un braccio a mostrare la lieve peluria castano chiara che, imperterrita, non ne voleva sapere di stare al suo posto.

“Ma... Bev ed Ellie, allora?” esalai, terrorizzata all'idea che loro stessero subendo gli effetti di quel luogo da giorni.

Una voce famigliare portò noi tutti a volgere lo sguardo verso la scogliera che ci sovrastava e, alto e candido alla luce del sole, Joshua esclamò: “Il loro essere völva le rende immuni a questo genere di energia, o non mi sarei mai preso l'onere di portarle qui. Non sono un cattivo ragazzo, dopotutto.”

Sorrisi spontaneamente nel rivedere l'albino Fenrir di Londra che, in quel momento, portava i chiari capelli del loro colore naturale, di un bianco candido come neve, pettinati come Robert Pattinson in Twilight.

Joshua ci osservò ancora per un istante prima di raggiungerci con un balzo e  abbracciarci con calore.

Un attimo dopo, curiosò con lo sguardo i nuovi venuti e domandò con cortesia: “Posso stringervi la mano, allora?”

Thor fu il primo ad avvicinarsi a lui e, gaudente, strinse la mano protesa asserendo: “Ora che conosco il perché della mia totale insensibilità all'isola, mi sento un po' meglio. Pensavo di avere un problema in testa.”

“Beato te” mormorarono in coro i suoi compagni, fissandolo con aria vagamente invidiosa.

Doveva essere veramente uno strazio, per i berserkir, ascoltare quel lamento continuo, loro che tendenzialmente poco avevano a che fare con le onde di potere ed i doni psichici.

Non sarebbe stato un soggiorno tranquillo praticamente per nessuno.

“Bene, ora che abbiamo stabilito che qualcuno è più fortunato di altri, penso possiamo andare a fare visita al nostro caro Sebastian” dichiarai, l'aspettativa che mi sfrigolava sulla lingua come le bollicine della Coca-Cola.

“La adoro quando è così distruttiva” ironizzò Alec, balzando sulla scogliera per primo, subito seguito da tutti noi.

L'aspetto brullo dell'isola, con le sue lande completamente deserte, l'erba bassa e rada, i frequenti massi sporgenti e levigati dalle intemperie, mi diedero l'idea di un paesaggio lunare e disagiato.

Era decisamente il luogo migliore dove insediare una prigione infernale.

Nello scorgere in lontananza alcuni lupi del branco di Joshua, chiesi a Bryan: “I tuoi lupi?”

“Fanno a turno con quelli di Joshua per monitorare l'isola. Oggi è il loro turno. Non è facile rimanere qui a lungo, quindi non restano più di un giorno” mi spiegò Bryan, grattandosi nervosamente il dorso di una mano. Lo capii perfettamente.

Io avrei voluto scartavetrarmi da capo a piedi, ma decisamente non era un’opzione fattibile.

Nello scorgere una piccola costruzione dai muri bianchi, dotata di un alto faro che svettava nel cielo plumbeo – ovvio, no? Non poteva essere bel tempo! – domandai sorpresa: “Ma... non dovrebbe essere un'isola deserta?”

“Oh. Quella è la casa di Heimdallr… l’unico luogo, sull’isola, ad essere schermato da queste onde psichiche insopportabili” asserì con naturalezza Bryan, gelandomi sul posto.

Okay, sapevo benissimo che non si trattava del fantascientifico attore di colore del film Thor, in uscita a fine anno, ma ammettiamolo, sentirne parlare da Fenrir delle Orcadi mi sconquassò per bene.

“Aspetta un dannatissimo momento, Bryan” mormorai, bloccandolo ad un braccio con la mano. “Cosa intendi dire, con 'è la casa di Heimdallr'? Chi sarebbe il tizio?”

Ovviamente, tutto il nostro gruppo si fermò in attesa di spiegazioni o, per lo meno, io ed i berserkir perché, a quanto pareva, Duncan, Alec e Joshua sapevano benissimo a chi si stesse riferendo.

Come al solito.

Bryan mi sorrise spiacente e asserì: “Dimentico sempre che non sei nata licantropa, e che certe cose puoi non saperle. Heimdallr esiste da sempre, su Holm of Huip. I suoi discendenti acquistarono in tempi immemori quest'isola perché gli umani non ne prendessero possesso e scoprissero l'entrata di Niflheimr. E' consentita la visita ai turisti, ovviamente, ma nessuno può addentrarsi se non con delle guide che, sempre ovviamente, non raggiungono mai quel luogo.”

“Ed è... una persona?” chiesi dubbiosa, non sapendo cosa aspettarmi.

Duncan allora ridacchiò e disse: “E' un titolo onorifico come quello di Freki, per farti un esempio. E' sempre un licantropo, ed è sempre un erede del precedente Heimdallr. E guarda caso, in quella famiglia in particolare, ci sono sempre stati figli a cui tramandare quel ruolo.”

“Oh” gracchiai, sempre più sorpresa.

Avrei mai finito di scoprire cose nuove nel mondo mannaro? Ne dubitai immediatamente.

“Quindi, chi detiene il ruolo di Heimdallr, ora?” domandai a quel punto, cercando di non crearmi in testa idee troppo strambe. Avrebbe avuto anche lui un elmo cornuto e gli occhi gialli? Chissà?

“Lo scoprirai presto” mi disse nebuloso Bryan, sorridendomi.

Un'altra sorpresa? Ma si divertivano, a farmi venire l'ansia? Non sapevano che dovevo stare tranquilla e pacifica?

Seee, quando mai!

Continuammo a camminare in quel paesaggio brullo e spoglio ascoltando lo sciabordio delle onde in lontananza e lo stridio delle urla dei penitenti finché, oltrepassato uno spuntone roccioso, non ci apparve innanzi un antro oscuro.

Per un attimo, le reminiscenze delle Svalbard mi fecero rabbrividire ma, ben conscia di non poter scappare, continuai ad osservare quel passaggio funesto verso il ventre della terra.

Era un'autentica spaccatura nella roccia, non tanto l'entrata di una grotta e, sull'entrata, scorgemmo altri licantropi e, questi in particolare, indossavano gli stessi artigli d'argento che avevano ferito Alec in Norvegia.

Al nostro compagno di viaggio non piacque affatto vederli e, rivolgendosi a Joshua, borbottò: “Non dirmi che anche i tuoi uomini usano quei cosi?!”

“La situazione è particolare. Abbiamo dovuto sventare due attacchi massicci quanto improvvisi e, se non fosse stato per le due ragazze che stanno passando le vacanze sottoterra, ce la saremmo vista brutta. Quel pazzo di Sebastian aveva ordinato ai suoi di muoversi fino alla morte. Sai bene cosa significa” brontolò Joshua, scuotendo il
capo con irritazione.

“Quello stronzo! Voleva essere certo che non scappassero!” ringhiò Alec, sputando un’imprecazione tra i denti tanto volgare quanto sentita.

Lo quotai silenziosamente, più che d’accordo con lui.

Questa non era altro che un'ulteriore prova della malvagità di Sebastian.

I suoi lupi non avrebbero mai potuto abbandonare il campo di battaglia, con un ordine simile nella testa. Potevano soltanto vincere, o morire nel tentativo.

Il mio lupo gridò vendicativo, dentro di me, ed io non potei che essere d'accordo anche con lui.

Avrei volentieri infilato i denti nella sua carne, se ne fosse giunta l'occasione, ma per ora dovevamo solo interrogarlo.

“Ora è tutto in ordine?” domandai, cercando di non apparire torva alle mie stesse orecchie.

“A quanto pare sì, ma le due völva subodorano guai, anche se non sanno di che genere” ci spiegò Fenrir di Londra, aggrottando la fronte per un attimo prima di rivolgersi ai suoi lupi per avere notizie.

Tutto era a posto, non c'erano stati movimenti strani sul perimetro.

Allora perché ero sempre più agitata?

“Entriamo. Così potrete conoscere Heimdallr” ci propose a quel punto Bryan, avviandosi verso quelle nere fauci di roccia.

Cercai di tenere lontano dalla mia testa l'altra grotta che avevo visitato poco tempo prima, e che decisamente mi aveva lasciato orrendi ricordi, ma non potei esimermi dal rabbrividire nuovamente.

“Non ti succederà nulla, te lo prometto” mi sussurrò Duncan, lapidario.

“Basta che non ti sacrifichi tu al posto mio” precisai, immaginando senza troppi problemi quanto sarebbe stato disposto a dare di sé, pur di evitarmi un altro trauma.
Lui non mi rispose, segno che avevo centrato in pieno il bersaglio.

“Gli farò lo sgambetto prima che si butti in mezzo” mi promise allora Alec, strizzandomi l'occhio.

Duncan lo fissò malissimo, sicuramente indispettito dal suo intervento non richiesto ma lui, per tutta risposta, replicò: “E' inutile che mi guardi male. Se lei rimanesse senza di te, impazzirebbe, e questo vorrebbe dire scatenare il Ragnarök. Ero attento, quando ci parlò di Fenrir, cosa credi?”

A quello non avevo minimamente pensato, ma Alec aveva perfettamente ragione.

Se Duncan fosse morto per me, non avrei davvero più avuto alcun controllo sulle mie emozioni e, letteralmente, la mia testa sarebbe esplosa, scatenando il Crepuscolo degli dèi.

Per tutta risposta, i berserkir circondarono Duncan e Thor, sorridendomi comprensivo, asserì: “Penso che lo faremo diventare il nostro sorvegliato speciale.”

“Che?” esalò Duncan, per nulla divertito all'idea di essere controllato a vista.

Io ridacchiai e, battendo una mano sul braccio di un Duncan parecchio contrariato, dichiarai: “Mi sa che ti dovrai accontentare di essere tu, stavolta, la principessa della situazione.”

“Molto spiritosa” mi ringhiò contro lui, sospirando esasperato prima di guardare il cielo con aria indispettita.

Non potevo farci niente. Preferivo vederlo scocciato, esasperato con il mondo intero, furente con me, ma vivo.

Quando finalmente raggiungemmo quello che sembrava un ponte di pietra, lì ci fermammo e, sorpresa delle sorprese, ad attraversarlo fu una ragazza alta e dal fisico prestante, armata di spada e di un corno da guerra finemente lavorato.

Poteva apparire anacronistica, se si pensava che noi eravamo abbigliati per la maggiore in jeans e maglietta.

Eppure, lì in quella grotta, quella giovane guerriera vestita di pelli scure, con un'armatura di cotta di maglie dorate e armata fino ai denti, non mi sembrò poi tanto fuori posto.

“I miei più sentiti ringraziamenti per essere giunti. Il nostro ultimo acquisto, qui a Niflheimr, è particolarmente riottoso, e mi sta veramente creando dei guai. Spero abbiate intenzioni bellicose nei suoi confronti, perché per lo meno mi divertirò un po’, dopo tanta noia” esordì la nuova venuta, sorridendoci benevola.

Quel benvenuto ci fece sorridere e la ragazza, avvicinandosi a me tendendo una mano, accentuò il suo sorriso e aggiunse: “Finalmente ci ritroviamo, Fenrir. Non vedevamo l’ora di vederti dopo tanti millenni.”
***
Il rimescolio nel sangue che avvertii non appena sentii Heimdallr pronunciare il nome di Fenrir mi mise in allarme ma, quando la voce della mia anima divina esplose di entusiasmo, seppi di non dovermi preoccupare.

Dubbiosa, strinsi quella mano abbracciata da pesanti guanti di pelle consunta dall'uso, e mormorai dubbiosa: “Tyr?”

La ragazza, dai limpidi occhi azzurro cielo – semi nascosti dall'elmo dorato che indossava – annuì gaia ed esclamò: “Colpita e affondata!”

Lo stupore dipinto sui volti di tutti non poteva essere paragonabile al mio che, inebetita, la osservai togliersi l'elmo per mostrare una chioma spettinata di corti capelli bruni.

Tyr.

Uno dei figli di Wotan. Colui a cui Fenrir aveva mozzato la mano con un morso, roso dal dolore per essere stato ingannato proprio dal suo migliore amico.

Tyr.

Ed io che pensavo avrei trascorso tutta la mia vita a domandarmi in chi ti fossi reincarnato!, esalò Fenrir, ancora sconvolto da quella notizia.

Non sei l’unico ad aver avuto un’idea geniale! Come tu ti sei inserito nel corpo di una wicca per celarti agli occhi di tuo padre, così io mi sono immerso in Heimdallr per non apparire negli schermi radar di nessuno. Qui c’è troppa energia latente perché mi si possa trovare, replicò Tyr con voce allegra e divertita.

“Ehi, un momento! Com'è che voi due potete sentirvi vicendevolmente, mentre Avya non può parlare con Fenrir?” intervenni io, trovando quella conversazione a tre piuttosto curiosa.

Heimdallr mi fissò sorpresa ed io, rivolgendomi a lei, le spiegai succintamente l’arcano. “Duncan... è lui il possessore dell'anima di Avya.”

La ragazza volse allora lo sguardo verso di lui e, subito, i suoi occhi si fecero dolci e colpevoli assieme. Era chiaro che Tyr la stava influenzando non poco.

Le mie scuse per ciò che successe allora non saranno mai sufficienti, Avya. Potrai mai perdonare la mia superbia?, mormorò allora Tyr nella mente di Duncan.

Mi pare che tu abbia scontato millenni di condanna forzata, rimanendo nel ventre della Madre, mentre avresti potuto risorgere mille e mille volte, si limitò a dire Avya, con tono pacato e sincero.

Ugualmente, avrei dovuto essere un amico più fedele per Fenrir, e non limitarmi a credere ciecamente alle parole di Loki. Avrei dovuto sapere quanto fosse sbagliato il suo dire. Dopotutto, sappiamo tutti quanto sia subdolo.

Fenrir è, e sarà, sempre il padrone delle chiavi del Crepuscolo, Tyr. Questo non cambierà mai. Loki ha voluto solo anticipare i tempi, ma un domani tu e lui sarete comunque su fronti opposti. Non credi sia assurdo continuare a crucciarsi per un evento che, in ogni caso, non ha condotto alla fine di tutto?

Se lui avesse potuto rimanere con te, tu non saresti morta per mano degli sgherri di tuo fratello,precisò Tyr, cocciuto.

Sarei comunque morta qualche anno più tardi. Non ero una dea, Tyr. Ero già anziana, quando successe, perciò non fece molta differenza.

Mi scuserò comunque, Avya.

E io continuerò a dirti che non ce n'è bisogno.

A quel punto ridacchiai e Fenrir, crucciato all'idea di non poter udire ciò che diceva Avya, mi domandò: Cosa gli sta dicendo?

“Avya ha un bel caratterino. Gli sta praticamente dicendo che non vuole le sue scuse, che ad ogni buon conto il Ragnarök è stato evitato, che tu e lei siete ancora insieme, in un certo qual modo, e tutto procede per il meglio.”

Fenrir rise deliziato a quella spiegazione e Tyr, contrariato, ribatté nella mia testa: Non capisco perché non dovrebbe accettare le mie scuse!

“Tyr, con tutto il rispetto... ma stiamo parlando di una donna. Abiti dentro un corpo femminile da quanto... vent'anni? E non hai ancora imparato come siamo?” ironizzai, strizzando l'occhio a Heimdallr, che ridacchiò complice.

Tyr borbottò una risposta in merito prima di ritirarsi e la Guardiana, nel sorridermi divertita, celiò: “Discutiamo spesso, quando le nostre idee non collimano. Tu e Fenrir fate la stessa cosa?”

“Più o meno. Comunque, questa prigionia forzata sull’isola ha prodotto anche un altro effetto. Wotan non ha sentito la presenza del figlio qui sulla Terra.”

Spalancando gli occhi per la sorpresa, Heimdallr esalò: “Padre Tutto è qui?”

“Non abbiamo avuto il tempo di spiegare tutto a Bryan che, da quel che mi pare di capire, non sapeva nulla della tua illustre anima” dichiarai, sorridendo ad un piuttosto perplesso Fenrir delle Isole Orcadi.

“Già. Mi piacerebbe sapere le cose, visto che accadono a casa mia” brontolò l'uomo, fissando con cipiglio la sua sottoposta.

Per nulla preoccupata, Heimdallr replicò: “Avevo le mie regole da seguire, e avrei potuto dire tutto solo quando mi fossi incontrata con la guardiana di Fenrir. Punto.”

“E tu sapevi che sarebbe successo?” intervenne Duncan, curioso.

“No. Ci speravo e basta. Come Tyr. E' potuto risorgere nel corpo di un licantropo solo a precise condizioni. Una tra queste era che io attendessi qui, in segreto, il suo arrivo. A tutto il resto avrebbe pensato il destino” ci spiegò Heimdallr, scrollando le spalle.

“Comincio a essere un po' stufa di ruzzolare dalla famosa collina senza una meta fissa.”

Puoi anche ritenerti soddisfatta, no? Dopotutto, stiamo risolvendo tutti i grattacapi che ci sono capitati addosso.

“Oh, sì. Adesso di sicuro sappiamo perché Loki mi disse che non riuscivo a vedere la situazione d'insieme, o perché i berserkir si sarebbero lanciati contro di noi come uno sciame di locuste. Ovvio che l'avrebbero fatto! Dovevano difendere Wotan! Ma Tyr? Chi se lo aspettava?”

Neppure Loki, è evidente.

“Ho idea che al destino piaccia giocare, persino con gli dèi come pedine inconsce.”

Probabile.

“Bene, visto che i nostri due amiconi si sono ritrovati, possiamo procedere?” intervenne a quel punto Alec, sfregandosi le mani con impazienza.

Io e Heimdallr lo fissammo con uguali espressioni esasperate e l'uomo, accigliandosi immediatamente, esalò: “No, vi prego. Non due copie sputate della streghetta. Non potrei sopportarlo!”

Tutti scoppiarono a ridere e Heimdallr, curiosando il mio viso con lo sguardo, mi domandò: “Ti fai chiamare sempre così, da lui?”

“Oh, Alec è innocuo. E' un vezzeggiativo come 'tesoruccio', per lui” scrollai le spalle, incurante.

“Capito” assentì lei, aggiungendo poi: “Comunque, mi chiamo Tempest. Non credo tu voglia sempre chiamarmi Heimdallr.”

“Beh, tanto piacere, Tempest” le sorrisi, avviandomi dietro di lei per raggiungere il ponte di pietra che aveva attraversato per venirci incontro. “E' questo, quindi, il Bifröst? Lo pensavo più... colorato.”

Osservai con somma delusione lo scarno ponte di pietra smussata che oltrepassava la profonda gola sotto di noi ma Tempest, sorridendomi maliziosa, indicò dabbasso e asserì: “Quello è il Bifröst.”

Insieme agli altri, scrutai nelle profondità della gola e, a sorpresa, scorsi una luminescenza cangiante e sempre diversa, che scorreva con la virulenza di un fiume montano.

Non era acqua, non ne aveva la consistenza. Sembrava mercurio, ma aveva tutti i colori dell'arcobaleno, esattamente come diceva il mito.

Un ponte dell'arcobaleno.

Mi aggrappai al parapetto di pietra per sporgermi e curiosare meglio ma Tempest mi trattenne ad un braccio, dicendomi torva: “Non ti conviene cadere dabbasso. Chissà in che mondo finiresti!”

“In che senso?” esalai sgomenta, fissandola con occhi sgranati mentre mi rimettevo diritta.

“Bifröst è una corrente che collega tutti i Nove Regni, e le radici di Yggdrasil vi sono immerse, attingendone linfa vitale per sopravvivere nei millenni. Ad ogni colore corrisponde un Regno e, a seconda del momento, la corrente ti può spedire in un luogo piuttosto che in un altro.”

“Un momento... ma lo spettro di colori dell'arcobaleno comprende sette tinte, non nove” borbottai confusa, mentre attraversavamo il ponte per ritrovarci sull'altro versante.
“Esistono due spettri di colore non visibili agli occhi degli umani, ma solo a coloro che vivono nei Regni di appartenenza” mi spiegò Tempest, fermandosi non appena ebbe messo piede oltre il ponte. “E adesso, se non vi spiace, vi pregherei di fare silenzio. Niflheimr  non è un luogo in cui sia bene parlare. I prigionieri si eccitano per un nonnulla.”

“Aspetta, aspetta, aspetta!” la bloccai ad un braccio, prima che riprendesse a camminare. “Scusa l'ignoranza, ma Niflheimr è anche il nome di un Regno, quindi come possiamo...”

Tempest mi sorrise benevola e, indicando il ponte da cui eravamo provenuti, dichiarò: “Guarda attentamente. Non noti nulla?”

Tutti noi seguimmo con lo sguardo il suo dito puntato e, quando ci rendemmo conto di cosa avevamo appena oltrepassato, i nostri volti divennero cerei.

Nebbia. Nebbia finissima, color indaco, era finita sui nostri capelli, sugli abiti, su ogni parte del nostro corpo.

Ed era chiaro dai volti di Alec e gli altri che neppure loro, stavolta, erano a conoscenza di quel particolare. La cosa mi diede un piacere sordido, subito stemperato dal panico.

“E'... è quella roba laggiù?” gracchiai, indicando il Bifröst con mano tremante.

Tempest annuì e ci spiegò: “Siamo realmente a Niflheimr, adesso. E questo posto non è semplicemente una prigione. E' uno dei tre regni sotterranei, il regno delle nebbie, come avrete capito da ciò che avete appena attraversato e, di sicuro, uno dei meno carini.”

Mi passai una mano sulla fronte, immaginando di trovarla febbricitante, ma così non fu.

Era tutto vero, non stavo delirando per la febbre e, di certo, non sarebbero comparse scimmie volanti o pasticcini con le ali.

Ogni cosa, tutto quello che avevo udito del mito, era vero.

Certo, alcuni eventi e alcuni personaggi avevano trovato una collocazione diversa e, per altri, si poteva dire che il bel mondo pensava cose campate per aria... ma quello che avevo dinanzi agli occhi era più che reale!

Dio, Gordon sarebbe impazzito, quando glielo avessi raccontato!

Ammesso che non impazzissi prima io.

Sarebbe preferibile evitarlo, mi rammentò Fenrir.

“Come se non lo sapessi! Ma non potevi avvertirmi, darmi qualche suggerimento?” protestai, desiderando strangolarlo.

Dovevi arrivarci poco per volta. Come avresti reagito se ti avessi detto che non solo i Nove Regni esistono, ma molte loro creature vanno e vengono da, e verso, Manheimr come vogliono?

“Okay, sarei sbarellata, ma non è che adesso io mi senta molto più pronta rispetto a un mese fa”  brontolai, pur sapendo di mentire, almeno in parte.

Tutto ciò a cui avevo assistito, dalla comparsa dei berserkir, a quella di Loki, alla cerimonia per il risveglio del Crepuscolo degli dèi, a Wotan, ogni cosa mi aveva spinta a credere, ad allargare il mio spettro di conoscenza.

E ad accettare che certe cose, semplicemente, esistono. Non c'è bisogno di trovarne il senso.

Sei stata bravissima, Brianna. Riuscirai a sopportare anche questo.

“Sarà bene, o esploderà tutto” sbuffai, infilandomi dietro il gruppo capitanato da Tempest per discendere una lunga scalinata in pietra levigata.

Tutto il gruppo misto di berserkir e lupi appariva silenzioso quanto intimorito da quel luogo e, di sicuro, le urla – ora reali – che rimbalzavano sulle pareti di quell'immensa grotta, non aiutavano a tranquillizzarci.

Non sapevo cosa aspettarmi, perché non ero esattamente esperta di mostri – dov'era Ellie, quando serviva?! – ma, quando scorsi il primo essere imprigionato lì, seppi di dover inserire la modalità ON per quanto riguardava le stranezze.

La prima cella, in cui incappammo durante il nostro tragitto verso il ventre della terra, era piccola, priva di sbarre e maledettamente sudicia.

Su tre lati era circondata da pietra scura e liscia e, come fuse nella roccia, si potevano intravedere le radici di quello che immaginai essere Yggdrasil.

La parete mancante, però, non consentiva al piccolo abitante disgustoso di uscire.

Non appena ci vide, corse verso di noi con tutta l'intenzione di aggredirci, ma andò irrimediabilmente a sbattere contro una superficie invisibile quanto resistente.

Questo creò parecchi problemi, perché la creaturina esplose letteralmente, andando a insudiciare ulteriormente le pareti di pietra della sua prigione.

Non fui la sola ad emettere un sentito 'bleah' di disgusto, alla vista di quella scena, e Tempest, comprensiva e vagamente divertita, ci disse: “Io lo chiamo Blob, e il motivo penso lo avrete capito da soli, visto quanto è schifoso. Si è macchiato di infamia e di tradimento, nel suo mondo, ed è stato punito a questo modo giusto per fargli capire quanto avesse sbagliato quando ancora aveva un corpo di carne e sangue, e non di gelatina.”

Le urla del Blob ci perseguitarono mentre continuavamo a discendere le scale ed io, tappandomi le orecchie, pregai di arrivare a destinazione quanto prima. Quel posto lo odiavo già.

Duncan, vicino a me, mi sussurrò un incoraggiamento.

Non credevo possibile che quel luogo gli piacesse, ma si sentiva in dovere di proteggermi da quelle brutture. Come potevo non amarlo anche solo per quello?

Gli sorrisi benevola e cercai di farmi forza. Presto saremmo arrivati da Sebastian, e tutto sarebbe finito.

Nel volgere verso destra quando ci ritrovammo dinanzi a un bivio nel percorso, Tempest ci spiegò succintamente: “A sinistra si trova il passaggio per Helheimr, il Regno dei Morti e, onestamente, non mi va di metterci piede. E' ancora peggio di questo strazio.”

Preferii non indagare oltre. Molto meglio.

E, dalle facce di tutti i presenti, fu subito chiaro che la pensavano esattamente come me.

Cosa potesse esserci di peggio rispetto a quel luogo tetro, umido, freddo e dove una costante nebbiolina sembrava formarsi dal nulla, accarezzandoci con dita di morte il viso, restava da capire.

Ma preferivo far morire lì la mia curiosità, per una volta.

Proseguimmo oltre per una buona mezz'ora, costeggiando prigioni senza sbarre contenenti le creature più improbabili che potessero esistere, cose che neppure George Lucas in Star Wars aveva immaginato.

A quel punto, mi chiesi scioccamente se sarei più andata a vedere Thor al cinema, dopo quel viaggio.

Non poteva esserci nulla di altrettanto stravagante, in quel film, e avrebbe finito con il deludermi, ne ero quasi certa.

Erano mesi che la Marvel bombardava il web di immagini e, anche se quel poco che avevo visto mi aveva entusiasmato, ora cominciavo a ricredermi.

“E' il caso di pensare a un film?”, mi domandò Duncan, vagamente sorpreso.

“Dovresti saperlo come funziona il mio cervello. Cerco dei collegamenti con la realtà e, al momento, quello che gli si avvicina di più è il film della Marvel...non posso farci niente. Non sono così brava da accettare quel che vedo come un fatto incontrovertibile.”

“Scusa. E dire che ormai dovrei esserci abituato. Ma trovavo strano vedere quell'australiano nella tua testa, vestito con quell'armatura improbabile” , ironizzò Duncan, sorridendomi.

“Non è improbabile! E si chiama Chris Hemsworth, per la cronaca!”

“Preferisco Natalie Portman, se permetti.”

“Permetto, tranquillo”, celiai, facendo la sostenuta.

“Io opterei per l'altra brunetta... Jaimie Alexander”, intervenne Alec, spiazzandoci.

Lo fissammo sorpresi e lui, scrollando le spalle, aggiunse: “Andiamo, ragazzi... parlavate così forte che non ho potuto non sentirvi. E poi, ero incuriosito anch'io da quel film... prima di arrivare qui, almeno.”

A quel punto, una domanda mi sorse spontanea e Tempest, fermandosi un attimo per aprire un pesante portone di ferro arrugginito, si volse a mezzo verso di me e asserì: “Per rispondere alla tua domanda, sì. Qui i pensieri viaggiano con maggiore forza... ed escono con maggiore forza. Per questo riuscivate a sentirli anche fuori dalla prigione. E' un mondo strano, che ci volete fare?”

“Voglio tornare a casa” mi lagnai, penetrando nella stanza in cui ci aveva condotti Tempest.

“A chi lo dici” esalò una voce a me famigliare, dal fondo del salone.

Bastò quello a rallegrarmi.

Allungai il collo per cercare la figura di Elspeth oltre il muro umano che mi precedeva e, in fretta, oltrepassai i presenti per correre ad abbracciare la mia cara amica, esplodendo in una risata spontanea quanto liberatoria.

Saltammo sul posto come due bambine, tenendoci allegramente per mano mentre, con maggiore compostezza, Beverly si unì a noi con un sorriso speranzoso sul volto.

“Ben arrivati” mormorò poi lei, sorridendoci.

Io la abbracciai di slancio e la donna, ridacchiando per il mio entusiasmo incontrollato, dichiarò: “Non deve proprio esserti piaciuto, arrivare qui.”

“Per niente. E' per questo che sono felicissima di vedere due facce amiche” assentii con foga, baciandola sulle guance prima di scostarmi e fare le presentazioni. “Lasciate che vi presenti i nostri nuovi alleati. Loro sono Thor...”

Mi dilungai per un minuto buono per elencare i nomi di tutti i berserkir e spiegare chi fossero, e perché fossero lì.

Elspeth apparve sconcertata dalla notizia, ma si lanciò in entusiastiche strette di mano, seguite da altrettanto entusiastiche domande sul loro essere delle creature mistiche.

Di sicuro, i berserkir non si aspettarono un simile comitato di benvenuto, perché si ritrovarono a sorridere impacciati quanto imbarazzati.

Beverly la lasciò fare, preferendo che fosse la sua allieva a fare tutte le domande; lei aveva ben altro a cui pensare, in quel momento.

Si rivolse al suo Fenrir con un elegante cenno del capo e, nel sistemarsi una ciocca dei mossi capelli scuri dietro un orecchio, gli domandò: “Le tue ferite sono guarite, Fenrir?”

“Sono a posto. Qui come va? Il prigioniero ti ha scocciato?” le domandò per contro lui, guardandosi intorno alla ricerca di Sebastian. Evidentemente, si trovava in un'altra galleria, perché al momento non era visibile.

Beverly parve vagamente sorpresa dal suo interesse, ma rispose con prontezza. “Sebastian è uno scocciatore, quindi non mi ha stupita trovarlo particolarmente fastidioso. Io ed Elspeth ce la siamo cavata egregiamente, pur se nelle ultime ventiquattrore i messaggi che riceviamo sono piuttosto contraddittori.”

“Vorrà dire che lo farò parlare io” sogghignò lui, scrocchiando le dita delle mani con cupa soddisfazione. “Avete fatto un ottimo lavoro. Brave.”

Ora Beverly lo fissò a occhi sgranati ed io, intervenendo in suo aiuto, le battei comprensiva una mano sulla spalla, celiando: “Non farci caso... ha subito gravi danni al cervello, dopo le Svalbard, e ora soffre di un grave caso di 'gentilite'.”

Alec mi frizzò con uno sguardo omicida, che non fece altro che farmi sorridere di più, e portò Beverly a sospirare di sorpresa prima di mormorare: “Oh... bene. Era ora, finalmente.”

Lui la squadrò malissimo, ma la donna non vi fece alcun caso e replicò bonaria: “Pensavi davvero che mi sarei limitata a piangermi addosso perché tra di noi non ha funzionato, Fenrir? Io desidero davvero la tua felicità. Se non con me, con qualcun altro. E ora vedo che c'è speranza.”

“Non ne sarei così sicuro” brontolò lui, arrossendo suo malgrado.

“Io sono convinta del contrario. Ma sono una tua suddita fedele, Fenrir, e non mi opporrò alla tua testardaggine cronica” sorrise serafica Beverly, allontanandosi per avvicinarsi alla sua allieva.

Io rimasi accanto ad Alec, che la stava guardando a occhi sgranati e, ghignante, asserii: “Ti ha rimesso al tuo posto con una classe di prim'ordine. E ti sa guardare dentro meglio di quanto non riesca tu stesso.”

“Voi siete malate, ecco cosa. Pensare a... a come sto in un momento come questo!” sbottò lui, sbiancando in viso per la rabbia e, sì, la paura.

Alec era terrorizzato dai suoi sentimenti, e il fatto che Beverly glieli avesse schiaffati in faccia a quel modo, lo scombussolò non poco.

Gli diedi una pacca su un braccio e lo sospinsi verso il gruppo capitanato da Elspeth, dichiarando: “Una cosa non esclude l'altra, Alec. Ci si può preoccupare per i propri cari e andare a fare un po' di sana tortura al nemico.”

“Preferisco la seconda” grugnì lui.

“Non avevo dubbi” lo rassicurai, ghignando al suo indirizzo.

Anch'io, al momento, preferivo pensare alla seconda. Ne avevo una gran voglia.

 
***
 
“Aaah, finalmente delle facce nuove” ironizzò Sebastian, seduto a braccia conserte su un pagliericcio consunto.

Appariva un re assiso sul proprio trono, lì in quella gabbia senza sbarre che era la sua prigione, e quel suo modo di fare mi diede sui nervi.

Non aveva timore del luogo in cui si trovava, anzi, sembrava starci da dio.

Sorrideva sprezzante, guardandoci tutti uno ad uno e, quando finalmente si fermò per scrutarmi, ridacchiò e disse: “Sei più sciocca di quanto non credessi all'inizio. Sei venuta esattamente dove ti volevo.”

Aggrottai la fronte, e gli altri al pari mio, replicando: “Quello in gabbia, se non erro, sei tu.”

“Giààà” assentì lui, trascinando tronfio quell'unica, fastidiosa parola.

Tempest sfoderò la sua spada d'acciaio siderale – creata dai frammenti di una meteorite caduta millenni addietro – e la puntò contro il prigioniero, ringhiando: “Non ti conviene fare tanto il furbo, traditore. Non sei nelle condizioni di potertelo permettere.”

“Sciocca ragazzina presuntuosa” replicò Sebastian, levandosi in piedi per camminare in cerchio nella sua prigione. “Tu sei ugualmente stupida, come tutti loro. Ti fai bella del tuo ruolo di guardiana di Bifröst, ma non sai neppure chi si trova oltre il suo corso.”

“Che intendi dire?” sibilò Tempest, gli occhi che scintillarono come lame di ghiaccio.

Sebastian esplose in una risata stridula, selvaggia e, tutt'intorno a noi, il terreno prese a vibrare come una cassa di risonanza.

Mi aggrappai al braccio di Duncan, terrorizzata alla sola idea di rimanere schiacciata da tutti i metri e metri di roccia che ci sovrastava, ma nulla crollò sulle nostre teste.

Questo però non bastò a rassicurarci perché, sotto i nostri occhi sgomenti, Sebastian uscì come se nulla fosse dalla sua gabbia e, con un sorriso sinistro quanto soddisfatto, mutò.

Ma non fu un lupo quello che ci ritrovammo a fissare con gli occhi fuori dalle orbite, bensì una donna dall'aspetto orribile.

Metà del suo viso era come putrefatto, in liquefazione, mentre l'altra parte era perfetta, quasi bella.

“Ben trovato, fratello” esclamò, guardandomi con l'unico occhio sano, scoppiando poi in una risata sguaiata e crudele.

Hel.

Fenrir disse solo quell'unica parola, ma bastò a raggelarmi.

 
 

____________________________________
N.d.A: Vi ho sorpreso almeno un po’? ;)
N.d.A. 2: Per chi avesse visto Thor 2, le prigioni senza sbarre di Niflheimr hanno origine in tempi non sospetti, mesi e mesi prima delle prime immagine comparse sul web. E' solo una fortuita coincidenza che abbiamo pensato alla stessa cosa, anche se esposta in modo diverso. :))
N.d.A. 3: Per chi avesse dei dubbi sulla sequenza temporale, ci troviamo nel 2010, per questo parlo del primo film su Thor parlandone come se dovesse ancora uscire al cinema. In effetti, uscì a novembre di quell'anno, e nel racconto ancora non ci siamo arrivati.


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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Capitolo 20
 
 
 
 
 
Hel.

Non avevo capito male.

E, se anche non ne avessi udito il nome, quel volto per metà divorato dalla decomposizione e per metà avvolto dalla pura bellezza, mi avrebbe detto l'identità della donna che avevamo innanzi.

Sebastian era scomparso, divorato dal corpo originario dell'anima divina che aveva sempre portato dentro di sé, esattamente come era capitato a me con Fenrir.

Dubitavo, però, che lui avrebbe fatto ritorno, a questo punto.

La donna dal volto orrendo e perfetto al tempo stesso ci guardò tutti con estremo divertimento e Tempest, che teneva tra le mani la sua spada di acciaio siderale, le ringhiò contro: “Hai fatto davvero male a presentarti. Ora non avremo neppure mezza considerazione di te. Ti distruggeremo e basta!”

Hel rise di gusto, facendo ondeggiare sia la chioma bruna e fiorente che la zazzera di capelli oleosi e in decomposizione, creando un disgustoso connubio, almeno ai miei occhi.

Avrei dovuto tenerla d'occhio... dovevo sapere che, se nostro padre avesse deciso di infastidirmi, avrebbe coinvolto anche lei!

“La figliola prediletta?” ironizzai, continuando a seguire con lo sguardo le movenze scoordinate di Hel.

Qualcosa del genere. Hel è signora di questo posto, di Niflheimr ma, da quando gli umani hanno smesso di seguire il credo di Padre Tutto, anche lei è divenuto puro spirito.

“Ma... non esistono gli abitanti di Niflheimr a tenerla in vita, a conferirle solidità, per così dire?” esalai, davvero confusa.

Ero consapevole che il corpo degli dèi persisteva finché esistevano abbastanza persone a credere in loro e che, una volta scomparso il credo, essi divenivano pura energia, mero spirito.

A tutti loro, a quel punto, rimaneva solo la possibilità di reincarnarsi in corpi mortali, per rimettere piede su Manheimr, o su uno qualsiasi dei Regni abitabili, a questo punto.

Ma non avevo idea che, la perdita dei seguaci umani, potesse avere avuto dei riflessi anche su un altro mondo come Niflheimr.

Gli hrímÞursar, i giganti di brina, sono gli unici abitanti di Niflheimr, se si escludono tutti coloro che sono rinchiusi qui a causa della loro condotta immorale. E di certo, loro non hanno mai amato Hel. Gli hrímÞursar la odiano fin dall'inizio dei tempi, e sono stati al suo servizio solo per paura di essere distrutti. Quando Hel perse i suoi poteri come tutti gli altri Asi, perché nessuno credeva più nella loro esistenza, essa perse corporeità e svanì da questi luoghi, liberando di fatto gli hrímÞursar dalla sua presenza.

“Era una gran simpaticona, quindi...” mugugnai, tenendo d'occhio la nostra disgustosa ospite. “... ma non capisco ancora perché lei sia scomparsa a causa nostra.”

Negli altri Regni nessuno la teme, perciò lei non ha mai avuto potere in quelle lande. Solo gli umani la temevano e la onoravano, dandole forza e corporeità. Quando sei debole come un pulcino, cerchi di tenerti buoni soprattutto i cattivi, no?

“A ben vedere... gli elfi di Alfheimr non la temono di sicuro, e posso capire perché. Loro sono abbastanza forti e intelligenti da non temere nessuno, almeno stando al mito. Asgard era il regno degli dèi, perciò quello non conta. A Svartálfaheimr, nelle terre dei nani e degli elfi oscuri, nessuno la degna di nota perché loro non hanno paura di nessuno. E fin qui penso di non essermi sbagliata, vero?”

Ottima lettura della situazione... hai imparato bene le lezioni di Gordon.

“Visto che ci sono invischiata fino al collo, tanto valeva imparare. Anche se non immaginavo che mi ci sarei trovata così in mezzo... a uno dei Regni, intendo” , brontolai scontenta.

Immagino che visitare Vanaheimr sarebbe stato più divertente.

“Il regno dei Vani? Degli dèi della fertilità? Eccome! Di sicuro, lì sanno come divertirsi, anche in forma spirituale!”, ghignai, cercando di fare dell’ironia per non pensare a quello che avevo dinanzi, e cioè un gran brutto guaio.

Frey e Freya si sapevano divertire, sì. A Jotunhiemr, invece, sono un po' più freddini...

“Ma che divertente! Fenrir, non è il caso di fare battutacce. Basto io! Ovvio che siano freddi! Sono giganti di ghiaccio!”, lo rabberciai, pur sapendo che stava parlandomi a quel modo per infondermi un po' di coraggio.

Non è che a Muspellsheimr siano più simpatici, sebbene siano giganti di fiamma, precisò Fenrir, con tono vagamente pedante.

“Ora non dire che a Helheimr muoiono dalle risate perché...” iniziai a dire, prima di bloccarmi, rimuginare un momento e poi aggiungere dubbiosa: “... aspetta un po'... ma Hel non è regina anche di Helheimr?”

Precisamente. Ma quello è un regno pieno di creature senza vita, perciò non conta. Tutti gli dèi attingono potere dai viventi, non dai morti, perciò Helheimr non è mai stato un luogo di potere, per lei. Manheimr sì, invece.

“Mentre Niflheimr le serviva solo come distributore automatico di forza bruta, giusto?”

Esattamente. La loro paura, unita alla fede cieca degli umani, le dava sufficiente forza per rimanere corporea ma, quando la voce dell'unico dio ha iniziato a espandersi nelle terre del nord, lei ha iniziato a perdere potere... e corporeità.

“Però aspetta… se le anime sono all’interno della Madre… Helheimr come può…” mormorai confusa, avendo nuovamente perso il filo del discorso.

Perché le cose, almeno ogni tanto, non erano bianche o nere? Sarebbe stato tutto infinitamente più semplice!

Come può Helheimr essere il regno dei morti? Pensaci bene, Brianna. Cos’è la Madre?

“Il Tutto” riposi meccanicamente.

Perciò…

“Oh… quindi è anche Helheimr. Okay, comincio a capire. E a preoccuparmi, anche. Perché se Loki è a Helheimr, e Hel è qui, non potrebbe…”

Calma la mente, Brianna. Loki non può fuggire da Helheimr finché non lo decide la Madre, neppure con l’intervento di Hel che ne è signora. La Madre è superiore a noi tutti.

“Quindi non devo temere che lui sbuchi fuori da un momento all’altro?” esalai, vagamente rassicurata dalle parole di Fenrir, pur se non del tutto pacificata.

I nostri problemi sono altri, e Loki non è tra essi.

“Ma se Loki e le altre anime sono a Helheimr, che è parte della Madre, non stavate esattamente in un bel posto” brontolai a quel punto.

Non tutto Helheimr è brutto, e ognuno di noi può scegliere dove riposare, per così dire. Non si può uscirne se non per rinascere a discrezione della Madre, ma si può scegliere il luogo in cui osservare i millenni scorrere nella clessidra del tempo.

Hel, intervenendo nel nostro dialogo interiore – durato sì e no un paio di battiti di ciglia – aggiunse con ironia: “E’ davvero carino il modo in cui insegni le regole dell’Universo al tuo custode, fratello, ma davvero,… credo sia proprio il momento sbagliato!”

“Le mie più profonde scuse, se ti abbiamo disturbata” brontolai io, scrollando le spalle.

Lei ghignò, osservandomi con aria di sufficienza e, irritata, ringhiò: “Trovo solo stupidi i vostri discorsi, e tutto questo cianciare di Madre e Madre!” Indicando poi una delle radici visibili di Yggdrasil, borbottò: “Continui a pensare a lei come a un'entità indistinta, ma ha un corpo né più né meno come te! Lei è la Madre che tanto declami! Yggdrasil è colei che mi ha tenuta prigioniera per tanti secoli!”

Ne avevo sempre avuto il sospetto, ma sentirglielo dire ad alta voce lo rese più vero.

Mi era difficile immaginare come qualcosa di tangibile, di fisico, potesse avere il potere di detenere in sé la potenza di tante anime, di tanti Regni, ma non v'era menzogna nella parola di Hel.

Diceva il vero.

“Vorrei tanto ridurla in briciole, darle fuoco, ma non è nei miei poteri” ringhiò allora la dea menomata, lanciandomi un'occhiata feroce prima di illuminarsi in viso, tutta giuliva. “Ma è nei tuoi, fratello,... mi basta liberarti dalla gabbia, spingerti nella direzione scelta dal destino per te.”

Mi permetti di parlare?

“Prego. Sistemala pure”, assentii con somma gioia.

“Quel che desideri non è per me, sorella” dichiarai a gran voce, lasciando che fosse Fenrir a scegliere le parole.

“Perché non esci e vieni ad abbracciarmi? Dopotutto, puoi farlo anche tu” ironizzò Hel, allargando le sue braccia come a un muto invito.

“Brianna sta male ogni volta che lo faccio e, contrariamente a te, io tengo al mio guardiano” replicò pacato Fenrir, utilizzando la mia voce di contralto.

“Ma quanto sei generoso! Come la cara Avya! Rinchiusa lì, a pochi passi dal suo unico amore, ma impossibilitata a parlare con lui!”

La risata di Hel mi fece accapponare la pelle, ma non solo a me. Duncan era livido in viso, e gli altri nostri compagni non erano da meno.

“E tu, Tyr, così valoroso e forte, rinchiuso nel corpicino da fata di quella ragazzina. Non ti senti preso in giro? Non trovi che la scelta di Yggdrasil ti abbia sminuito?” continuò a dire Hel, fissandoci uno a uno con aria di superiorità.

Tempest non parlò, segno che neppure Tyr aveva gran che da dire alla dea rediviva.

“Tutti voi siete ridicoli! Inutili!” ci urlò contro lei, indicandosi con lo scherno dipinto negli occhi folli. “Il redento Alec, con il suo desiderio di non essere più odiato... e il buon Bryan, che tanto vorrebbe un erede per il suo clan... o il caro Joshua, … dimmi, Joshua, come ci si sente a essere così buoni e altruisti? Ti senti meglio, ogni volta che aiuti qualcuno? O il ricordo del tuo migliore amico morto ti perseguita ancora?”

Joshua accusò il colpo, così come tutti coloro che Hel interpellò in quella fiera degli scheletri nascosti.

Non sapevo nulla dell'amico di Joshua, ma evidentemente Duncan sì, perché lanciò un'occhiata significativa all'alfa, dandogli tutto il suo supporto emotivo.

“Non credere che mi sia dimenticata di te, buon Duncan. Tu, che tanto odi la tua parte ferina, che detesti il tuo lato più oscuro, più crudele. Non dirmi che non hai trovato piacevole affondare le zanne nei tuoi nemici berserkir! Vedo quanto ti è piaciuto! Lo vedo!”

“Ma... può leggerci nella mente?!” esclamai, rivolgendomi a Fenrir.

E' la figlia del maestro degli inganni, Brie, e questo è pane per i suoi denti. Gli occhi sono lo specchio dell'anima e, nel suo caso, è più vero che mai!

Decidendo di interrompere subito quello stillicidio psicologico, intervenni dicendo: “Penso che non ci sia bisogno di spiattellare certe cose, visto che i diretti interessati le conoscono già. E tentare di farci crollare mi sembra una cosa stupida. Quel che non tieni in debito conto, cara Hel, è che ciascuno di noi ha un difetto, o anche di più, ma ha anche degli amici pronti a perdonare quei difetti. L'amicizia e l'amore rendono più forti e, qui tra noi, nessuno è solo!”

“Ha parlato colei che, per tutta la vita, ha sempre fatto le cose da sola perché non voleva essere aiutata da nessuno, perché si reputava troppo superiore agli altri per abbassarsi a cercare una mano per risolvere i propri problemi” mi irrise divertita Hel, portandomi a imprecare mentalmente.

Sapeva dove colpire, non c'era dubbio, ma dovevo avere fiducia in me stessa e negli altri.

“E' vero. Ero superba, e lo ammetto” replicai con forza, stringendo la mano di Duncan per trovare coraggio. “Non mi fidavo degli altri, e non ne ho mai fatto mistero ma, soprattutto, non volevo che il mio cuore fosse nuovamente spezzato. Se provi affetto ti apri agli altri, e questo può portare ad atroci sofferenze, se l'oggetto del tuo amore ti tradisce o ti abbandona. Ma è comunque giusto farlo, o non si potrà mai vivere!”

Elspeth corse da me, mi afferrò la mano libera e aggiunse: “E' l'unione delle persone a rendere forti, non il potere della paura, o dell'odio.”

Hel aggrottò la fronte mentre Beverly andava a sistemarsi accanto al suo Fenrir, afferrandolo con fiducia ad una mano prima di sorridergli benevola.

Alec accennò un mezzo sorriso e ricambiò la stretta.

Dietro di noi, i berserkir unirono le loro mani a formare una barriera umana e Hel, nello squadrarci con immenso disgusto, esclamò: “Sono tutte baggianate! Siete solo degli sciocchi, e il fatto che siate qui ne è la chiara dimostrazione! Non avete minimamente compreso che i vostri legami vi hanno tradito!”

Aggrottai la fronte, confusa, e Hel rise sommessamente, asserendo: “Perché pensi che io sia rinata prima di mio padre, Fenrir? Per creare il terreno adatto al suo ritorno.”

“Spiegati meglio” ringhiai, accigliandomi ulteriormente al pari degli altri.

“Oh, andiamo. Sei un piccolo genio. Fai funzionare il tuo cervellino da saputella” ironizzò la donna, muovendosi dinanzi a noi come una professoressa saccente e spocchiosa. “Ho indagato per anni per trovare i Tomi Sacri sui berserkir e, quando li ho trovati, ho creato zizzania tra i clan inglesi e quelli irlandesi perché voi non poteste avere accesso all'isola, qualora foste venuti a conoscenza di quegli scritti. Nel frattempo, mio padre si è immerso sempre di più nel tessuto connettivo del branco di Alec, Fenrir del clan più potente di tutta Inghilterra. Ops, scusa, Joshua, pensavi fosse il tuo? Spiacente, è Alec ad avere gli alfa più forti.”

Né Alec né tanto meno Joshua diedero adito di essersi scomporsi per quell'affermazione, così Hel continuò nel suo racconto. “La morte del Freki di Alec giunse come un piacevole colpo di fortuna, dandoci l'opportunità di creare attrito anche tra i clan inglesi, così da destabilizzarne le forze. Purtroppo per noi, però, Alec era troppo ligio alle regole per attaccare Duncan, il guardiano di Avya, così dovemmo attendere un altro evento fortuito per scatenare una guerra. Quando però Fenrir venne a galla, grazie alla trasformazione di Brianna, capimmo che il destino ci aveva arriso. Finalmente sapevamo dov'eri, chi eri, e tutto il resto venne di conseguenza. Mio padre aizzò Fitzroy contro di te, promettendogli vendetta in cambio della tua vita, ed io cercai di creare attrito tra i branchi perché non si fidassero di te, tentando in questo modo di indebolire le vostre stupide alleanze. La ricerca dei berserkir fu l'atto successivo alla scoperta della tua identità. Mio padre li mosse contro di te, asserendo che tu eri tornato solo per distruggere loro e il piccolo con l'anima di Wotan, così ponemmo le basi per la tua morte.”

“Non dovrei stupirmi, visto chi siete, ma avete messo in pista davvero un sacco di tranelli, per innescare la bomba che ho nella testa” ringhiai, davvero infastidita da quel piano machiavellico e tortuoso oltre l’immaginabile.

Una vita intera. Hel e Loki avevano ordito il loro piano per una vita intera, attendendo pazienti di avere potere e possibilità per mettere in pratica quanto tanto agognato, e la mia trasformazione in lupo aveva solo facilitato il loro compito.

Non c'era che dire, avevano avuto pazienza da vendere.

Hel ridacchiò, divertita della mia irritazione, e replicò: “Oh, credimi, non eri solo tu al centro delle mie attenzioni. Avevo anche qualcun altro da punire.”

Ciò detto, indirizzò uno sguardo malevolo a Elspeth e Beverly e, rabbiosa, dichiarò: “Avete cercato con ogni mezzo di metterci i bastoni tra le ruote, con le vostre maledette predizioni, e per questo la pagherete!”

“Pensavi davvero che saremmo stati inermi di fronte a un nemico senza volto? Allora sei davvero più stupida di quanto pensassi!” sbottai, portandomi dinanzi a Elspeth che, tremante, mi afferrò alla vita con le mani.

Duncan si mise dietro di lei, in modo tale che fosse completamente al sicuro, e così pure fece Alec. Scostò Beverly dietro di sé e ringhiò furente in direzione di Hel, che però si limitò a scoppiare a riderci in faccia, divertita.

“Offendi pure, ragazza ma, ancora una volta, non hai dinanzi a te la visione d'insieme. Sei troppo limitata dall'affetto che provi per coloro che ami, per scorgere l'errore madornale che avete fatto.”

Ci guardammo confusi, cercando l'uno nell'altro una risposta al suo dire, ma nulla trovammo a darci conforto, cosicché Hel rispose con affettazione: “In forma di spirito e racchiusa nel ventre di Yggdrasil, non potevo tornare a Niflheimr. Non mi era concesso, senza un corpo. Muovendomi con quello di Sebastian, ho potuto agire per conto di mio padre in tutti questi anni, creandomi abbastanza nemici per poter ottenere ciò che volevo. Mi è bastato muovere i miei sudditi mannari e aizzarvi a sufficienza per permettermi di avere un accesso privilegiato proprio dove volevo andare!”

Ciò detto, fissò con ironia Joshua e Duncan, aggiungendo: “I miei due bravi paladini della legge. Così ansiosi di incatenarmi alle mie responsabilità! Mi avete portato proprio dove volevo essere! E così pure coloro di cui volevo vendicarmi!”

Nuovamente rise ed io, sentendomi davvero un'idiota, cominciai finalmente a collegare tutti i fili dell'intricatissimo gioco messo in moto da Loki e sua figlia.

Loki era stata l'esca per spingere Fenrir a risorgere ma, nell'ombra, Hel era già risorta per iniziare a porre le basi della loro complessa partita a scacchi.

Disposti su due fronti separati, si erano mossi parallelamente, l'una mostrandosi al mondo, l'altro muovendosi nell'ombra.

Hel aveva generato un sufficiente grado di dissapori in giro per mezza Gran Bretagna, ponendo le basi di un suo possibile internamento proprio dove desiderava andare con tutta se stessa.

E Loki aveva congiurato alle spalle, muovendo i fili con sapiente maestria e infilandoci in mezzo un sacco di trappole perché io perdessi la vita – e il controllo – nel frattempo.

Entrambi speravano in una mia comparsa, presto o tardi, perché sapevano che Fenrir non sarebbe tornato senza tentare di proteggere la sua famiglia.

E loro sapevano bene dove Avya e i figli si trovavano. L'avvicinamento di Fenrir alla famiglia – in qualsiasi forma – era stata solo questione di tempo.

La morte di Freki per mano mia non li aveva che aiutati.

E noi tutti eravamo stati in balia dei loro giochi senza mai renderci conto di nulla, pedine inconsapevoli sulla loro scacchiera.

“Eri così soddisfatta, cara Tempest, quando mi hai condotto qui in catene... così fiera del tuo ruolo di Heimdallr. E invece mi hai consegnato su un piatto d'argento proprio il mio Regno! Davvero brava!”

Tempest storse la bocca ma non replicò al suo insulto per nulla velato ed io, non potendone proprio più, esclamai: “D'accordo, abbiamo capito che tu sei un genio e noi dei fessi. Ma non hai tenuto conto di un fatto... dea o no, non puoi utilizzare appieno i tuoi poteri in un involucro umano quale è Sebastian, inoltre sei sola contro noi tutti. Non ti sembra un po' svantaggioso, per te?”

Hel mi fissò con aria davvero esasperata e Fenrir, accigliato, mi disse: Temo che possa fare comunque qualcosa, anche se non ha più il potere di guidare gli  hrímÞursar in battaglia.

“E cioè?” gracchiai, davvero preoccupata.

“Yggdrasil può tenere in gabbia i condannati e, finché ero in vita come regina di questi luoghi, mi stava bene. Godevo nel vederli soffrire. Ma ora le cose sono un po' cambiate... e oggi mi sento magnanima” ironizzò Hel, allargando le braccia per mostrare i palmi verso l'alto. “Qui comando io, maledetto Albero-che-tutto-regge, e non puoi dirmi cosa fare o non fare del mio Regno! Ora si farà come dico io!”

La terra vibrò a quelle parole, e le radici di Yggdrasil tremarono con veemenza in risposta all'aperta sfida gettata sul campo da Hel.

Le urla dei prigionieri si levarono fiere, quando le pareti delle loro gabbie si disintegrarono al suono di un’interminabile onda d'urto prodotta da Hel stessa e noi, sgomenti e preoccupati, ci ritrovammo a correre per la nostra salvezza.

Tempest e la sua spada sguainata in testa alla fila, gridò con foga: “Qui ci crollerà tutto in testa, se non torniamo a Bifröst. Dobbiamo ritornare su Manheimr per rintuzzare l'attacco da lì. Qui siamo troppo deboli e privi di poteri!”

“In che senso?” sbottai irritata.

“Siamo legati alla luna, Brianna, e qui la luna non c'è!” mi rispose a gran voce, correndo a perdifiato prima di bloccarsi non appena raggiunse il bivio che conduceva a Helheimr.

Non meno di una decina di creature immonde ci sbarrava la strada e, alle nostre spalle, Hel ci stava raggiungendo con passo tranquillo, sicura della sua vittoria ormai certa.

“Perché non mi hai avvertita che qui i mannari non possono trasformarsi?!” sbottai, irritata e spaventata.

Mi crederesti se ti dicessi che non ci ho affatto pensato? E che, a quanto pare, nessuno di noi ci ha pensato?

“Sì, ti credo, ovviamente... ma cavoli! Facciamo proprio la figura dei fessi!” ringhiai infastidita, osservando preoccupata i miei compagni prima di rammentare un particolare non da poco.

Certo, noi lupi eravamo legati alla luna e, solo tramite il suo potere, alla Madre.

Ma non i berserkir! Loro e la Madre avevano un contatto diretto... e lì eravamo circondati da Yggdrasil e i suoi rami, che erano la Madre. I loro poteri persistevano! Così come quelli di Fenrir. Lui poteva ciò che Hel stessa aveva fatto.

E glielo dissi.

Non se ne parla. Soffri tremendamente, tutte le volte che prendo il predominio. Si era detto che non sarebbe più successo!

“Al diavolo queste cose! Qui stiamo per rimetterci la pelle e, senza un po' di intervento divino, finiremo arrosto all'inferno nel giro di dieci minuti. I berserkir da soli non possono fare nulla, contro quei mostri, e se Hel ha qualcos'altro in mente, non so davvero come potranno salvarci. Devi aiutarli!”

Brianna...

“Trasformati! Usa il mio corpo!”, gli urlai, strizzando gli occhi per trattenere un urlo di dolore, che sapevo sarebbe eruttato dalle mie labbra con forza, quando lui avesse preso le sembianze di lupo.

Non potendo altro, Fenrir fece come ordinatogli ed io, urlando nonostante tutto, venni relegata in un angolino della mia mente mentre la battaglia iniziava con ferocia.

I berserkir riuscirono come sperato a prendere le sembianze di orso e, coraggiosamente, iniziarono a combattere contro i nemici spinti contro di noi da Hel.

Tempest, tenendo in mano la sua spada, menò fendenti con sorprendente velocità e prontezza ma, pur se forte, non avrebbe potuto resistere in eterno.

Fu a quel punto che Fenrir esclamò: “Tyr! Devi aiutarmi, o qui finiremo davvero male!”

Combattere fianco a fianco? Non ci è mai capitato...

L'ironia con cui lo disse mi fece rabbia. Ma era il momento di fare delle battutacce di spirito?!

Fenrir però rise e replicò: “Sarebbe la volta buona, non ti pare?”

Ben detto, ma devo chiedere il permesso a Tempest per...

“Muoviti a prendere il mio posto!” , sbottò Tempest, interrompendo il loro dialogo con un’imprecazione. “Se lo può sopportare Brianna, posso anch'io!”

Prima usa gjallarhorn, non si sa mai... potrebbe tornare utile!

“Il mio corno da guerra? Ma per... oh, ho capito. Giusto!” assentì lei, afferrandolo in tutta fretta mentre Fenrir azzannava uno dei nostri nemici per tenerglielo lontano.

Con tutto il fiato che aveva in corpo, Tempest diede voce al corno da guerra dal nome gjallarhorn, che serviva per chiamare a raccolta tutti gli dèi celesti per la battaglia finale.

Speravo davvero non si sarebbe giunti al Crepuscolo degli dèi, ma era meglio dare fiato alle trombe, letteralmente.

Ciò fatto, Tempest si piegò su un ginocchio lanciando un grido improvviso quanto colmo di dolore e, nel giro di pochi attimi, al posto della ragazza fece la sua comparsa un uomo dalla bionda chioma e completamente bardato per la guerra.

Il moncherino al braccio destro mi confermò che si trattava di Tyr e, quando tutti lo videro, non seppero trattenere un sospiro di sollievo.

Era giunto il momento di muoversi contro Hel.

Strizzando l'occhio al lupo che era Fenrir, e che lo sovrastava di molto, Tyr esclamò: “E' un piacere rivederti, cagnaccio!”

“Anche per me! Ora, però, dovresti tenere al sicuro i miei figli, mentre io mi occupo di mia sorella!” ghignò Fenrir, guardando il vecchio amico di un tempo.

“Sarà un onore! Vai e spaccale il culo!” esclamò Tyr, levando alta la spada prima di lanciare un grido di battaglia.

Fenrir lanciò un ultimo sguardo a Duncan e gli altri, che fino a quel momento si erano prudentemente tenuti in disparte, non potendo partecipare attivamente alla battaglia
e, con un cenno del muso, partì per la battaglia finale.

Ci allontanammo dai combattimenti per andare incontro a Hel, che parve non gradire la comparsa di così tanta controffensiva divina e, quando finalmente Fenrir la raggiunse, lei esclamò: “Cosa pensi di aver risolto, con gjallarhorn!? Nessuno verrà in vostro soccorso!”

“Non si può mai dire! Inoltre, ora hai altro di cui occuparti, sorella! Devi vedertela con me!” ringhiò Fenrir, balzandole addosso con un salto poderoso.




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N.d.A.1: Ho voluto inserire di proposito tutti i regni norreni perché, nello Spin-off che dedicherò a Cecily, Fenrir della Cornovaglia, ne riparlerò. Spero di non avervi creato troppa confusione in testa. ^_^
N.d.A. 2: Direi che, dopo le spiegazioni di Hel, si è capito come si è giunti a questo punto. Se dovessero rimanervi dei dubbi, comunque, ditemelo. 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Capitolo 21
 
 
 
 
La battaglia infuriava in più punti, con i berserkir a combattere contro i criminali dei più svariati reami, e Tyr a dar loro una mano per non permettere a nessuno di avvicinarsi a Duncan, Elspeth o gli altri lupi.

Fenrir, dal canto suo, stava cercando di avere il sopravvento sulla sorella che, nonostante la disabilità, si dimostrò essere un'avversaria degna di nota.

La paura che tutto potesse trasformarsi nel Ragnarök era forte, perché la perdita di controllo era proprio lo stoppino ideale per dar fuoco al potere insito dentro di me e Fenrir.

Anche se dubitavo potesse essere peggio di quel che vedevo in quel momento.

C'erano corpi disseminati ovunque, più interiora di quante avrei voluto vedere e, purtroppo, alcuni berserkir avevano già perso la vita sotto i colpi dei più potenti guerrieri che avessi mai visto in vita mia.

Tyr ce la mise davvero tutta, menando fendenti con la sua possente spada e scagliandosi contro gli avversari con tutta la potenza del suo braccio, ma fu impossibilitato a sfruttare parte dei suoi poteri divini per non ferire Tempest.

Così come Hel. Così come Fenrir.

Erano come menomati, pur se risultavano le creature più forti in quel regno di tenebra e violenza.

Fu però Hel a decidere delle sorti dello scontro... e del suo destino.

Quando Fenrir riuscì finalmente ad afferrarla, lacerandole le carni all'altezza della coscia destra, lei urlò di dolore ma non si diede per vinta.

Divenne pura luce e, in un lampo, seppi cosa stava facendo.

Stava rifiutando il suo corpo di carne e sangue.

Ormai era a Niflheimr, nel suo regno e, per almeno qualche prezioso attimo, avrebbe potuto usare al massimo fulgore i suoi poteri, una volta al di fuori dell'involucro di carne rappresentato da Sebastian.

Sarebbe stato un tempo brevissimo, poco più di alcuni respiri, ma sarebbe bastato a distruggerci tutti.

Fenrir si ritirò in fretta, pensandola esattamente come me ma Hel lo trattenne, strattonandolo per il pelo della gorgiera.

Rise come una folle, divenendo sempre più brillante e calda e, al limite della pazzia, urlò: “Quando mi libererò del tutto di quest’inutile gabbia, tu non potrai evitare il Crepuscolo, e noi avremo vinto!”

“Fermati, Hel! Non puoi davvero sacrificare la vita del tuo guardiano per avere la vittoria su di me! E' un sacrilegio!” le gridò contro lui, cercando di liberarsi.

Hel sgranò gli occhi da pazza e replicò: “Che vuoi che mi importi? E' solo uno stupido umano! Se avessi potuto ricreare il mio vecchio corpo lo avrei fatto ma, non potendo, mi sono dovuta accontentare di quello sciocco, così pieno di sé da volere il mondo ai suoi piedi! Non merita di vivere un solo attimo di più!”

Ciò detto, iniziò a ridere sguaiata, avvicinando sempre di più a noi il suo viso tumefatto e bellissimo perché il suo potere, una volta liberato, centrasse in pieno Fenrir.

Liberati! Liberati!

“Non riesco, Brianna! Non riesco!”

Io fissai inorridita quel volto, già presagendo il gusto amaro della sua energia distruttrice quando, all'improvviso, una frusta ci divise, mandandoci riversi sulla roccia scura e umida.

Un imponente terremoto squassò le membra stessa del pianeta, bloccando sul colpo tutti i combattenti, evasi compresi.

Fenrir uggiolò preoccupato, rimettendosi in piedi a fatica sulle zampe mentre Tyr, accanto ai licantropi, li proteggeva con il suo mantello dai detriti che cadevano dal soffitto a volta della grotta.

Incapace di comprendere, mi guardai intorno attraverso gli occhi di Fenrir e, quando inquadrai finalmente la figura di Hel, compresi chi ci aveva divisi.

Non una frusta, ma una … radice.

Yggdrasil, da sempre neutrale, era intervenuta per salvarci.

Yggdrasil, da sempre spettatrice silente, si era mossa per noi.

Yggdrasil, da sempre muta testimone dello scorrere del tempo... era incazzata nera.

Pensi davvero di essere tu a comandare, figlia di Loki? Pensi davvero di potermi dare ordini? Pensi davvero che io mi faccia sottomettere da te?

La voce stentorea dell'entità infinita chiamata Yggdrasil rimbombò tra le pareti della grotta come il colpo di un gong e, pur nella forma di Fenrir, mi sentii piccola, insignificante e miseramente inutile.

Fenrir uggiolò, ripiegando il muso in avanti, ossequioso, ma Hel non ne volle sapere di cedere e, fiera quanto folle, esclamò per diretta conseguenza: “Sei solo un maledetto, stupido albero! E, come tutti gli alberi, una volta tagliate le sue radici, muore!”

Non avrei mai pensato di poter essere testimone di un atto così scellerato in vita mia ma... ehi, di pazzi è pieno il mondo!

Non compresi con che logica dissennata Hel si lanciò contro una delle radici di Yggdrasil armata di ascia, ma fu ciò che vidi.

Che vedemmo tutti.

Il tempo parve fermarsi, proprio come in quelle slow motion che si vedono nei film, in cui il regista sapientemente rallenta il protagonista, o il villain, perché le sue mosse rimangano impresse nello spettatore.

Beh, lì avvenne la stessa cosa.

Sapevo che non stava realmente accadendo, ma l'impressione fu quella.

Hel si lanciò contro la Madre, preda della sua follia senza nome, e levò l'arma contro di lei, scagliandosi con tutta la sua forza.

Il riverbero del colpo, molto probabilmente, si avvertì in tutti i Nove Regni.

Lì a Niflheimr, l'onda d'urto si riversò su di noi come uno tsunami di immane potenza, scaraventandoci a terra senza troppi complimenti.

Tyr cercò di parare il colpo meglio che poté, impedendo di fatto che i suoi protetti finissero nell'abisso che ci circondava, ma non fu facile.

Fenrir ruzzolò a terra, azzoppandosi ed io, all'interno della mia mente, avvertii senza problemi il dolore riverberare in tutto il corpo.

Non vi badai, ad ogni modo, come nessun altro badò ai lividi e alle escoriazioni provocati da quell'onda di piena energetica.

Quel che i nostri occhi scorsero in quell'attimo eterno bastò a sedare qualsiasi male.

Non solo Hel non riuscì a scalfire minimamente le radici di Yggdrasil, ma la pianta si mosse con sorprendente agilità e, colpendo al ventre la dea, spezzò il legame col corpo fisico che era stato Sebastian.

Le due entità si scissero ed il corpo umano – ormai privo di vita – di Sebastian crollò a terra come una bambola di pezza, mentre la figura ora evanescente di Hel venne aggrovigliata in una spirale infinita di radici.

Inutili furono i suoi tentativi di scappare, inutili le sue proteste, inutili le sue minacce.

Yggdrasil era irremovibile.

Fenrir?

“E' solo una contusione. Sto bene, Brianna”, replicò lui, rialzandosi a fatica prima di osservare pensieroso i nostri compagni di lotte.

Chi più chi meno, ma sembravano stare tutti bene, con l'eccezione dei berserkir morti durante la precedente colluttazione con i prigionieri di Niflheimr.

Tirai un metaforico sospiro di sollievo e dissi: E ora che succede?

“Non lo so. E' la prima volta che Madre interviene. Davvero non saprei dirti.”

Il tono sconvolto di Fenrir mi fece comprendere quanto unica fosse questa occasione e, nel restituirmi il corpo, avvertii finalmente anche sulla mia pelle l'energia enorme e distruttiva messa in campo da Yggdrasil.

Duncan si mosse verso di me e, toltosi la camicia, me la fece indossare prima di chiedermi: “Riesci a reggerti in piedi?”

“Per ora ce la faccio. Tu, tutto bene?” gli domandai, appoggiandomi a lui.

Volgendosi per sorridere a Tyr, che ancora non aveva ripreso le sembianze di Tempest, assentì e dichiarò: “Il nostro protettore ha fatto un lavoro egregio.”

“Sarà meglio che questo protettore in particolare rientri nei ranghi. Credo che il mio compito sia terminato” asserì Tyr, lanciandomi un'occhiata infelice e speranzosa insieme. “E' stato un piacere combattere al tuo fianco, Fenrir, almeno per una volta.”

“Anche per me lo è stato, Tyr” replicai, lasciando che a parlare fosse la mia anima divina.

Doveva essere strano, per creature così potenti, chiedere costantemente il permesso per fare qualsiasi cosa, loro che erano stati dèi di incommensurabile possanza.

Questo ci insegna ad essere umili.

“E se il mondo cambiasse, e ci fossero abbastanza seguaci del Culto per ridarvi un corpo di carne e sangue con cui camminare su Manheimr, o Asgard?”

Forse lo faremmo con uno spirito più … umano.

“Sarebbe divertente scoprirlo”, commentai, scrollando le spalle.

Dubito che gli umani lasceranno gli attuali Credi per tornare ai vecchi pantheon... ma tutto può accadere, come abbiamo appena visto.

“Già”, assentii, tornando a volgere lo sguardo verso Hel, ancora imprigionata nelle maglie di Yggdrasil.

“Non puoi distruggermi! Non puoi!” strillò spiritata Hel, dimenandosi come un'anguilla impazzita.

Perché credi non l'abbia già fatto, sciocca creatura!? Yggdrasil non distrugge mai! Crea e basta! Ma per te che hai tradito il tuo guardiano mortale e hai attaccato ME, ho in serbo una lezione davvero esemplare.

Il tono sardonico con cui Yggdrasil parlò mi fece rabbrividire e, mentre Tempest riprendeva le sue sembianze umane, subito soccorsa da Bryan e dalla sua maglietta dei Red Hot, uno squarcio nell'essenza stessa della roccia si aprì dinanzi a noi.

Ora, chiariamo un punto.

Io sono sempre stata una persona molto scettica riguardo ai ponti spazio-temporali, alle increspature stellari, a tutto ciò che ha anche un minimo aggancio con Guerre Stellari o Star Trek.

Non sono mai stati film per me. Io sono una da C.S.I., per intenderci.

Ma quello che comparve innanzi a noi, stravolgendo l'essenza stessa delle pietre fino a formare un... beh, un buco nel vero senso della parola, non poteva che essere un wormhole, un passaggio spazio-tempo.

La voragine si ampliò sotto i nostri occhi, spalancati e sgomenti e, da esso, fuoriuscirono delle creature ricurve e gibbose, con rozze armature brune a coprire i corpi tozzi e dalle pelle glabra.

Erano qualcosa di molto simile agli uruk-kai visti nel film Il Signore degli Anelli, …peccato che questi fossero molto, molto più brutti.

Quello con l'armatura più preziosa tra tutte si avvicinò a Hel ancora imprigionata e, ghignando ferocemente, si espresse in una lingua gutturale quanto grottesca.

Nessuno di noi comprese un accidenti di quello che la creatura disse, ma Hel non parve per nulla soddisfatta di quello che sentì, perché la sua ansia crebbe a dismisura e i suoi tentativi di fuga si fecero febbrili.

Yggdrasil però non mollò la presa e, sempre con tono irridente, dichiarò: “Volevi un corpo umano con cui danneggiare le mie creature e me? Bene; sarai accontentata. Dworth, avvicina quel corpo alla mia prigioniera.”

Quando la creatura si mosse, compresi che lo strano suono emesso da Yggdrasil era il suo nome.

Impassibili, lo osservammo sollevare il corpo inerme di Sebastian, avvicinarlo a Hel e sorreggerlo come fosse un fuscello.

Il che la diceva lunga, sulla sua forza.

Hel si mosse con sempre maggiore violenza, menando calci, pugni e morsi, ma Madre non vi badò minimamente.

Abbandonati al legame che avevi con quest'essere mortale, e torna ove ti avevo destinata con somma generosità. Non ti avevo donato un corpo così forte e sano perché tu lo distruggessi in maniera così becera. Non ci si fa beffe dei doni di Madre così impunemente!

“Ma... ma lui è morto ed io... io...” gracchiò Hel, comprendendo meglio di noi cosa volesse dire riemergere in un corpo morto.

Sarebbe stata uno zombie, una creatura né morta né viva, con capacità scarsissime di comprensione e con un'assoluta mancanza di discernimento.

Non avrebbe più potuto fare nulla, in un corpo del genere.

Yggdrasil fu sorda alle sue richieste di perdono e, quando una luce incandescente la avvolse, tutti noi ci proteggemmo da quel bagliore come meglio potemmo.

Quel che ne scaturì non ci sorprese più di tanto.

Quel che un tempo era stato un potente guerriero, Fenrir dell'Isola di Man, ora era solo una creatura pallida, adunca, priva anche di un minimo bagliore umano nello sguardo.

Grugnì, rantolò per qualche passo e alla fine Dworth lo afferrò per le braccia, trascinandolo nel varco senza mai lasciarlo andare.

In un lampo, il passaggio dimensionale si chiuse e tutto tornò normale.

Per quanto poteva esserlo quella situazione ai limiti del concepibile.

Come erano usciti senza permesso, così i prigionieri tornarono nelle loro gabbie, sospinti da indistinte forme di nebbia che intuii essere gli hrímÞursar, i giganti di brina di Niflheimr.

Tornai a scrutare con reverenziale timore le radici di Yggdrasil che, con movimenti sinuosi e lenti, stavano tornando a riprendere la loro posizione originale nelle alcove di roccia e, dubbiosa, domandai: “Cosa succederà a Hel?”

Dimorerà nelle prigioni dei Nani a Svartálfaheimr e, poiché ora è una non-morta, sarà per un periodo di tempo piuttosto lungo, rispose Madre, tornando nella propria sede con un ultimo fruscio sinistro.

Rabbrividii e chiesi ancora: “Per Sebastian non si sarebbe potuto fare nulla, dunque?”

Dimostri cuore, giovane wicca ma no, per lui non c'era più redenzione alcuna. Si è gettato nelle braccia di Hel e Loki volontariamente. E' stato cosciente fino all'ultimo di ogni cosa, pur se ovviamente non si aspettava che Hel lo tradisse, uccidendolo. Questo ha condannato Hel al tormento eterno. Quanto a Sebastian, beh... lui è morto sereno, se così si può dire.

“Perché noi tutti possiamo capire quel che dici, mentre con quel... nano?... non abbiamo compreso nulla?”

Perché io parlo alle vostre menti, e lì ogni lingua è una sola. Ora, però, il tempo delle domande si è esaurito, e non potete più rimanere qui a Niflheimr. Tornate a Manheimr e offrite degna sepoltura ai vostri morti.

“Così faremo, Madre” mormorai ossequiosa, reclinando il capo prima di avviarmi zoppicante verso i miei compagni che, per tutto il tempo, erano rimasti in religioso silenzio ad osservare quello spettacolo senza precedenti.

“Stare zitta, mai, vero streghetta?” mi sibilò contro Alec, tenendo un braccio attorno alla vita di Beverly per sorreggerla. Aveva una vistosa ferita a una gamba, che aveva bisogno di essere curata quanto prima.

Gli feci la lingua, lasciando che Duncan mi aiutasse a camminare e, scrollando le spalle, asserii: “Non potevo non chiedere.”

Alec si limitò a scuotere il capo, esasperato, mentre Bryan, Joshua e Tempest aiutarono i berserkir rimasti a recuperare i corpi esanimi dei loro compagni.

Elspeth, accanto a me, era silenziosa e con il capo chino, le braccia strette attorno al corpo esile e i lunghi capelli bruni che ne mascheravano in parte i lineamenti.

Non dubitavo che fosse scossa, ma Niflheimr non era davvero il luogo in cui parlare, né tanto meno il posto più adatto per cercare di dare un qualche genere di appoggio morale.

Avrei dovuto aspettare, per prendermi cura di lei.

 
***

La casa di Tempest risultò essere più ampia e moderna di quanto non avrei immaginato, guardandola dall'esterno.

Sua madre e sua nonna, rispettivamente Bridget e Adrienne, ci accolsero con la sorpresa dipinta sui loro volti e, in fretta, estrassero tutto il necessario per curare le nostre ferite.

Da quel che seppi direttamente da Tempest, suo padre e suo nonno erano fuori a pesca.

I lupi di Joshua e di Bryan furono messi a guardia delle porte che conducevano a Bifröst e Niflheimr e, stremati, noi ci accomodammo sulla prima superficie solida disponibile.

In quel momento, con la caviglia fasciata di fresco e un bendaggio alla testa, ero seduta su una panchina all'esterno della casa e, con Elspeth accomodata accanto a me, osservavo il giardino curato e, poco oltre, la sagoma del faro bianco e alto.

Ci stringevamo la mano, in silenzio, lasciando che il vento salmastro ci gonfiasse i capelli rilasciati mollemente sulle spalle.

Fu lei a spezzare quel silenzio per prima.

“E' successo davvero, giusto?” mormorò, roca.

“Temo di sì... ed è tutta colpa mia se ci sei finita dentro” sospirai, sentendomi tremendamente colpevole.

Elspeth si volse verso di me, sorpresa, ed esalò: “E perché, scusa?”

“Se non ti avessi detto la verità sui tuoi poteri, e i miei, a quest'ora saresti a casa, in compagnia delle nostre amiche, a goderti la fine dell'estate prima dell'inizio dell'università” replicai piccata, trovando assurdo che lei non capisse le mie ansie.

Possibile che non si rendesse conto di quanto stavo male per lei?

Ellie allora mi sorrise benevola e, nel piegarsi in avanti, si sdraiò sulla panchina fino a poggiare il capo sulle mie cosce. Con naturalezza, poi, mi disse: “Non capisci che per me, tutto quello che è accaduto oggi, non è che la riconferma di ciò che ho sempre pensato del mondo? Dell'universo?”

“Ora mi sono persa” ammisi, fissandola scettica.

Lei ridacchiò, e aggiunse: “Certo, ho avuto molta paura e, onestamente, l'arrivo di quei døkkálfar mi ha spaventata a morte ma...”

La interruppi, fissandola malissimo ed Ellie, scoppiando in una risatina allegra, si spiegò meglio. “I nani... scusa, mi piace chiamare le cose con il loro nome.”

“Sei scusata... tranne che per questa tua insana passione per il rischio. Ma non hai capito che abbiamo quasi perso la vita, là dentro?!” esclamai, sconcertata da tutta la sua calma.

Estremamente seria, Ellie replicò: “Non sono sciocca, Brie, lo so benissimo. Ma fa parte di quel che sono. Quando Joshua ha interpellato Fred per chiedere la mia presenza qui, ho accettato senza remore. Sapevo che, permettendoti di mostrarmi il tuo mondo, il nostro mondo, avrei potuto incorrere anche nel suo lato più oscuro, non soltanto in quello più luminoso e puro che fin qui mi è stato offerto.”

“Ellie...”

Lei sorrise, scrollando una mano come se nulla fosse successo. “Fred è un Fenrir generoso e protettivo. Non era molto d'accordo ad acconsentire e lasciarmi partire, infatti alla fine mi sono dovuta impuntare, ma lo ha fatto solo perché tiene a me e alla mia personale incolumità. Lui e Becca sono come una seconda famiglia, per me, e questo è merito tuo, non un tuo discapito.”

“Avrei comunque preferito che tu non corressi tutti questi rischi” precisai, scrollando una spalla.

“Pensi sarei stata meglio, sapendo che li avevi corsi solo tu?” mi ritorse contro lei, ammiccando. “E poi, senza le tue scorribande in giro per mezzo mondo, come avrei potuto conoscere Alexandar?”

Quel nome mi piovve addosso a sorpresa e, sgomenta, gracchiai: “Come, scusa?”

Elspeth scoppiò a ridere, un dolce rossore le imporporò le gote ed io, sospettosa, le puntai un dito contro esclamando: “Non mi dire che vi siete risentiti, dopo la mia chiamata?!”

Lei annuì, colpevole, e a mo' di spiegazione mormorò: “Devi sapere che Alexandar verrà in Scozia, prossimamente, per girare uno spot, e così... beh, insomma...”

Mi tappai le orecchie, non sapendo se ridere o piangere, ed esalai: “No, non voglio saperlo. Preferisco vivere nell'ignoranza.”

“E detto da te, streghetta, è un record!” esclamò Alec, comparendo sulla porta d'entrata della casa in compagnia di Tempest.

“Mi basti tu da psicanalizzare, credimi” sospirai, fissandolo con un ghigno. “Volevate dirci qualcosa?”

“I rattoppi di fortuna sono a posto e, di comune accordo, vorremmo tornare tutti ad Aberdeen. Obiettivamente, ne ho abbastanza per le prossime sei vite di dèi, battaglie su altri mondi e quant'altro” borbottò Alec, appoggiandosi, a braccia conserte dietro la schiena, contro il muro intonacato di bianco della casa di Tempest.

La ragazza annuì, passandosi una mano nervosa tra la corta chioma bruna e, fissandomi con i suoi intensi occhi azzurro turchese, asserì: “Sono d'accordissimo con Fenrir di Bradford. Ed io che pensavo che essere Heimdallr fosse noioso! Non dirò mai più niente contro il mio lavoro! Che sia noioso a vita!”

“Personalmente, non vedo l'ora di mettere i piedi sotto un banco e annoiarmi a morte a lezione di biologia molecolare” dichiarai con un sorrisone.

Elspeth si levò in piedi e, stiracchiandosi come un gattino, replicò: “Sarà un piacere scrivere un libro su questa storia. Diventerò ricca! Il mio fantasy andrà a ruba e ne faranno un film a Hollywood, con Channing Tatum come protagonista maschile ed Emma Watson nella parte della nostra potente wicca.”

Noi tre la fissammo basiti e Alec, lanciandomi un'occhiata significativa, indicò Ellie con il pollice, chiosando: “Sai che è matta, vero? Ne sei consapevole?”

“Comincio a crederlo” asserii, non sapendo bene che altro dire.

Emma Watson? Ma era matta?



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N.d.A.: E con l'uscita di scena di Hel, direi che almeno un sospiro di sollievo lo possiamo tirare :)

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Capitolo 22
 
 
 
 
 
 
Rientrare ad Aberdeen fu un toccasana per tutti.

Promisi a Tempest di rimanere in contatto tramite Skype ogni qual volta ci sarebbe stato possibile parlare liberamente; nessuna delle due voleva che Fenrir e Tyr si perdessero di vista.

Bryan fu ben lieto che tutta quella faccenda fosse finalmente chiusa e, ben volentieri, ci riaccompagnò sulla terraferma, con la speranza che la prossima riunione tra clan non dovesse vertere su un altro attacco divino.

Ce lo augurammo tutti.

Di comune accordo, i berserkir morti in battaglia vennero tumulati nel Vigrond del branco di Bryan, che si offrì più che volentieri di officiare un rito funebre per loro.

Come in precedenza avevo fatto per le mie sentinelle, allo stesso modo benedissi il loro trapasso per il regno della Madre – che ora non mi sembrava più un'entità così astratta – e donai il mio sangue per le loro anime immortali.

Thor mi ringraziò più volte per quel gesto, durante il nostro viaggio di ritorno verso Aberdeen ed io, più volte, ci tenni a dire quanto il loro sacrificio mi avesse toccato, portandomi a compiere quel gesto benedicente.

Non importava che fossero di un'altra razza; si erano battuti per la salvezza di tutti, e meritavano il giusto tributo.

Quando però giungemmo a casa di Bright ed Estelle, il berserkr mi sorprese.

Congedò i guerrieri perché tornassero ai loro villaggi in Norvegia dopodiché, rivolto ad Alec, disse: “Vorrei venire con voi a Bradford e instradare la tua völva ad un livello superiore di conoscenza. Ne ha le capacità e la forza, e ritengo sia giusto estendere anche a voi il nostro sapere sull'Oltremondo.”

Alec soppesò attentamente le sue parole prima di annuire e, lanciato uno sguardo alla sua veggente, le domandò: “Te la senti, Bev?”

“Come il mio Fenrir...” cominciò col dire Beverly, venendo subito interrotta da un'occhiataccia di Alec.

Azzittendosi subito, gli sentì dire a sorpresa: “Cosa ne pensi tu. Ti va, o ti basta quel che sai?”

“Certo che la diplomazia è il tuo forte” commentai ironica.

Lui non mi badò minimamente, completamente concentrato sulla sua veggente che, ritrovandosi a sorridergli con rinnovata fiducia, annuì e disse: “Accetto volentieri. Sono onorata di poter studiare con un eminente stregone come lui.”

“Andata. Accompagnala a Bradford, allora, Thor... ma non ti sognare di torcerle un capello, durante il tragitto, o giuro che farò spiedini dei tuoi ragazzi là sotto” precisò Alec, ponendosi petto contro petto con il possente guerriero berserkr.

Ci fu qualche risatina tra gli uomini-orso, il mio sospiro esasperato, l'aria apparentemente indifferente di Duncan e il ghigno di Elspeth.

Ma fu Bev a sorprenderci tutti.

Scoppiò a ridere e, afferrato per un braccio Alec, lo scostò da Thor dicendo: “Sono una sentinella, oltre che una veggente, Alec, non sono esattamente una sprovveduta.”

Era forse la prima volta in assoluto che la sentivo parlare in modo meno ossequioso del solito, con lui, e la cosa sconcertò me come fece sorridere l'uomo.

Forse, dopotutto, c'era speranza per il branco di Alec.

Annuendo, Fenrir di Bradford si calmò immediatamente e disse: “Bene, mi fido di te, Bev. Avverti tu gli altri, mentre io termino la missione qui.”

“Sarà un piacere” assentì la donna, rivolgendomi un sorrisino felice prima di avviarsi verso casa per salutarne i padroni, in vista della loro imminente partenza.

Thor si limitò a fissare ironicamente Alec, chiedendogli: “Ti saresti davvero battuto per lei, e senza motivo?”

“E' un membro del mio branco. Devo essere sicuro che stia bene” precisò lui, imperterrito.

Io ridacchiai e, nel rivolgermi a un confuso Thor, gli dissi: “Avrai a che fare con un tipo piuttosto ruvido, ti avverto. Sempre disposto a rischiare questo viaggio?”

“Ho le spalle robuste, e ne vale la pena. Beverly ha un talento ancora acerbo, e sarà un onore farlo sbocciare” dichiarò il berserkr, con sguardo orgoglioso.

“Ed il mio?” domandò curiosa Elspeth, intervenendo in quella strana discussione.

“Il tuo, giovane fanciulla, è già al suo limite, pur se è discretamente potente. In ogni caso, se vorrai, addestrerò anche te” asserì Thor, sorridendole.

“Ci penserò. Devo capire come far incastrare tutto nella mia complessa agenda scolastica” ridacchiò Ellie, mimando di sfogliare un immaginario libretto.

Tutti noi scoppiammo a ridere della sua mimica ma, quando scorsi Erin sulla porta di casa, il mio buonumore scemò di colpo, sorpresa dalla tristezza insita nel suo sguardo.

Cos'era successo, in quei giorni di lontananza, che l’aveva intristita tanto?

 
***
 
Abbandonare Aberdeen fu difficoltoso, e non solo per le coccole infinite di Estelle.

Fui felice di ritrovarmi tra persone care e amate e abbandonarle così, senza neanche avere il tempo di parlare ampiamente di tutto ciò che avevamo visto, e sentito, mi fece sentire in colpa.

Ma era giusto che tornassimo a Belfast quanto prima per riabbracciare Penny e rassicurarla sulla buona salute di sua madre, oltre che sull’ottima riuscita della missione.

Quasi non ci credevo ancora.

Loki era spezzato, e così pure sua figlia. I berserkir erano divenuti nostri alleati, Wotan era dalla nostra parte, e avevamo infine scoperto che Tyr si era reincarnato per stare al fianco del suo amico Fenrir.

Certo, tenermi in contatto con Tempest non sarebbe stata la cosa più semplice del mondo, ma cosa ci poteva fermare, ormai?

Mi sentivo leggera, soddisfatta, priva di peso e infinitamente stanca.

Avrei dormito per i prossimi dieci giorni e, il primo che si fosse azzardato a svegliarmi, lo avrei divorato.

C'era solo una piccola, minuscola cosa da risolvere.

Il malumore di Erin.

Si era espressa a monosillabi, durante la nostra frettolosa spiegazione riguardante la fine macabra di Sebastian e, anche dopo essersi sincerata della buona salute di Alec, non era apparsa più serena.

Anzi, a ogni miglio che ci separava da casa sua, il suo umore si fece più nero.

Alec, per contro, appariva perfettamente controllato, scherzava con Duncan – seduti dinanzi a noi, sull'aereo – e sembrava non essere stato minimamente toccato dagli eventi unici vissuti solo due giorni prima.

“Sicura che vada tutto bene?”

“Perché non dovrebbe? Abbiamo sconfitto i cattivi, Marcus è stato vendicato e ora possiamo tornare alle nostre vite di sempre”, mormorò mogia Erin, nella mia testa.

“E allora perché sembra che ti abbiano strappato le unghie a morsi?”

Erin mi fissò sgomenta, forse stupita dalla scelta della mia metafora, ma io spallucciai. Era mia intenzione scuoterla, perciò che si sgomentasse pure.

“Andiamo, Erin, hai un muso che tocca terra, e non hai parlato praticamente per nulla con Alec.”

“E perché avrei dovuto farlo, scusa?”, protestò lei, accigliandosi visibilmente.

“Perché è chiaro come il sole che la sua mancanza ti ha pesato molto, e il fatto che la nostra avventura sia ormai finita ti mette a disagio, perché vuole anche dire che lui tornerà a Bradford senza di te”, le feci notare senza alcuna delicatezza.

Non era il momento di essere carini e coccolosi.

“Beh, ma potrebbe anche dirmi qualcosa lui, no, se è tanto interessato a volermi con sé? Perché il punto è questo, Brianna. Lui non mi vuole. Sennò me l'avrebbe detto, ti pare?”

“Stiamo parlando dello stesso Alec Dawson, per caso?”, replicai scettica. “Pensi davvero che, con tutti i problemi che ha avuto, lui si ritenga una persona degna di essere amata?! E' pieno di dubbi, timori, non si stima per nulla e non pensa proprio che una donna, una qualsiasi, possa anche soltanto pensare di volergli bene. Figuriamoci tu, che ai suoi occhi sei perfetta.”

Erin mi fissò come se avessi avuto due teste e una coda biforcuta, ma io non mi fermai, continuando nel mio assalto.

"Siete due anime affini, maledizione, e questo per lui è un freno ulteriore, perché sa che sarebbe qualcosa di stupendo stare con te, ma crede di non poterti dare nulla per via di ciò che ha passato.”

“Anime... affini?”

“Sì. Ne aveva il sospetto e una notte, mentre dormivi, ha controllato. Era così spaventato, quando me ne parlò!”

“Non ne sapevo nulla” esalò Erin, sempre più sconvolta.

“E' rimasto barricato per non confonderti. Le anime affini possono creare un sacco di casini, quando si toccano, e rischiano di confondere le idee. Lui non lo voleva. Desiderava che tu fossi libera da dubbi.”

“Quello... stupido!” ringhiò tra sé Erin, stringendo le mani a pugno fin quasi a far sbiancare le nocche.

“Devi fare tu il primo passo, o lui non lo farà mai, perché si crede un relitto d'uomo, di certo non una persona degna di fare da padre a Penny, o da marito a te”, la sollecitai, afferrando le sue mani con le mie per dare maggiore enfasi ai miei pensieri.

Erin ristette in silenzio, senza rispondere alcunché ed io, tornando a sedermi compostamente, non aggiunsi altro.

Quel che potevo fare, per quei due, l'avevo fatto.

Ora, dipendeva da loro.

Questo è un destino che non ti compete, Brie.

“Lo so, Fenrir, ma mi spiace vederli così sulle spine.”

Hai fatto quel che potevi. Ora, devono imboccare loro la via che vogliono.

“Vero” assentii. “Ti ha fatto piacere combattere con Tyr? Parlare con lui?”

Io e Duncan avevamo provato a fare la stessa cosa per Fenrir e Avya un sacco di volte ma, ad ogni nostro nuovo tentativo, la voce ci moriva in gola, impedendoci di far comunicare i due antichi amanti.

E comunicare l’un l’altro i rispettivi pensieri non era la stessa cosa che permettere loro di comunicare liberamente.

E' stato un desiderio che si realizza. So che per te e Tempest sarà dura mantenere un'amicizia a distanza, ma credo che Madre ci abbia mantenuti separati perché, troppo vicini, avremmo concentrato un potere troppo forte da essere insostenibile.

“Pur se contenuti in corpi umani?”

Esatto. Ma sarà comunque un piacere parlare con lui e Tempest via Skype. Comincio ad abituarmi all'idea.

“Fico! Un dio millenario che usa Skype. Sarebbe da mettere su Facebook. Avresti un sacco di likeironizzai, sorridendo leggermente.

Lasciamo perdere... non voglio un mio account personale.

“Non tentarmi... come ti potrei chiamare? Fenrir The One? The Great Fenrir? The...”

Brianna!

Bloccandomi subito, feci la lingua e asserii: “La smetto, la smetto. Però sono felice per te.”

Grazie.

“Anche se mi spiace non aver potuto chiedere a Madre di...”

Brianna, esalò lui, esasperato.

“Sto zitta, promesso.”

Bene.

Sorrisi tra me per il suo tono lamentoso e, chiusi gli occhi, mi riposai un poco prima dell'atterraggio all'aeroporto di Dublino.

Lì, già pronto con l'auto, avremmo trovato Richard e, finalmente, avremmo potuto mettere la parola fine sull'intera faccenda.

 
***
 
La villa di Erin era esattamente come la ricordavo, fatta eccezione per il fatto che, in quel momento, era circondata dagli alfa più potenti del branco, riunitisi per onorare il ritorno di noi tutti.

Penny era racchiusa in quell'abbraccio protettivo e, quando vide l'auto fermarsi nel cortile, si aprì in un sorriso spontaneo e corse verso la madre, che fu la prima a scendere per farsi abbracciare da lei.

Ne seguì un applauso commosso e, quando fummo scesi tutti, le strette di mano e gli abbracci si sprecarono.

Vi furono congratulazioni, domande su domande, risate collettive e collettivi sospiri di sorpresa e, solo quando il cielo si fece color dei rubini, il branco si sciolse e ci fu concesso un po' di riposo da quel fuoco incrociato.

Sapevo quanto tutti loro fossero stati in pena per noi, e Patricia aveva passato gran parte del pomeriggio appiccicata al fianco del fratello, mentre Andrew e Phillip imparavano a conoscere quel nuovo Alec.

Tutti avevano ogni ragione del mondo ma, onestamente, avrei sopportato meglio quel caos in un altro momento, non quel giorno.

Avevo bisogno di riposo. E non pensavo di essere l'unica a volerlo.

Quando infine scesi con Duncan in sala da pranzo per consumare una cena leggera, trovai lì Alec e Penny, impegnati in quella che sembrava una seria conversazione su quel che era avvenuto a Niflheimr.

Bicchieri, posate e tovaglioli erano stati usati come improvvisati modellini per la battaglia e Alec, con una dovizia di particolari davvero discutibile, stava spiegando alla bambina chi aveva fatto cosa.

Penny lo ascoltava assorta, annuendo a più riprese e ridendo nervosa quando Alec accennava ai combattimenti ma, quando l'uomo giunse al momento della morte di Sebastian, temetti il peggio.

Lui, però, glissò abilmente e infiocchettò il tutto con parole delicate, facendomi pensare per l'ennesima volta che neanche in una vita intera avrei capito Alec Dawson, pur essendomi trovata nella sua testa.

Era un labirinto intricato, una casa degli specchi irrisolvibile, un Cubo di Rubik dalle mille facce.

Insomma, auguri a risolverlo!

Ma con quella bambina era adorabile. E non solo perché gli ricordava Mary Ellen.

Ma perché era lei. La sua Penny, in fondo.

Quando si accorsero di noi, Penny ci sorrise ed esclamò: “Allora hai combattuto come un lupo gigante, vero!?”

“Eh, già. Ed è stata una lotta davvero incredibile, con Madre che è spuntata dal nulla per farla pagare a chi di dovere” assentii, sedendomi a tavola con loro.

Più seriamente, Penny mormorò: “Alec mi ha detto che mamma è rimasta ad Aberdeen perché il posto che avete visitato è davvero brutto e spaventoso, e preferivate che lei non lo vedesse. Sono contenta che sia andata così.”

“Meno male” le sorrisi, dandole un buffetto sul naso.

“Sai, dopo aver visto papà morire, non aveva bisogno di altri ricordi brutti” assentì con forza la bambina.

Il suono dei passi di Erin e della governante ci spinsero a cambiare discorso e, quando entrarono con la cena, tutti noi sorridemmo tranquilli.

Non era proprio il momento di parlare di cose tristi.

Discorremmo del più e del meno per tutta la durata della cena, accennando a qualche aneddoto curioso del viaggio e al nostro incontro con Elsa.

Penny, al solo sentirla nominare – e nel venire a sapere del suo viaggio iniziatico – squadrò la madre con estrema serietà e dichiarò: “Anch'io voglio farlo!”

“Non se ne parla!” sbottò lei, sgranando gli occhi.

“Ma Elsa l'ha fatto!” protestò Penny, puntando i pugni sul tavolo, cocciuta.

“Già, ma lei ha dodici anni, e comunque si è fatta male e ha rischiato grosso, in quella foresta” replicò lapidaria Erin, scuotendo il capo. “I berserkir hanno i loro motivi, se fanno affrontare simili pericoli alle loro bambine. Non potendo contare sulla furia del berserkr, devono essere forti per poter affrontare le avversità della vita, e questo le aiuta a forgiare i loro spiriti, ma tu non ne hai bisogno. Tra qualche anno sarai lupa, e potrai difenderti senza problemi.”

Penny mise il broncio e le gote le si fecero di fiamma, mentre calde lacrime le illuminarono gli occhi chiari.

Una corrente gelida percorse l'intera stanza e Alec, da bravo maschio, intervenne nel momento più sbagliato in assoluto.

“Andiamo, Erin, dopotutto non mi sembra una richiesta così tremenda. Quando avrà dodici anni, la farai andare in campeggio e...”

“Tu non sei suo padre! Non hai voce in capitolo sulla sua educazione!” gli ringhiò contro Erin, raggelandoci sul posto.

Alec si azzittì immediatamente, reclinando colpevole il viso mentre Penny, a occhi sgranati, fissò la madre con qualcosa di molto simile all'odio a illuminarle le iridi chiare.

Io, Duncan, Richard e la governante restammo in religioso silenzio ed Erin, inorridita da quanto aveva appena detto, e soprattutto dal tono con cui l'aveva proferito, si scusò con noi tutti e fuggì dalla stanza in lacrime.

“E' stata cattiva!” protestò Penny, in lacrime, fissando addolorata Alec. “Non doveva parlarti così!”

L’uomo allora scostò la sedia e prese in braccio la bambina per averla perfettamente di fronte dopodiché, scuotendo il capo, replicò: “E invece ha fatto bene, Penny, perché avrei dovuto starmene zitto. Ha ragione a dire che non sono tuo padre, e non posso dirti quello che devi, o non devi fare.”

Penny si accigliò caparbiamente e borbottò: “Allora neanche papà Marcus avrebbe dovuto farlo.”

Quell'accenno ci fece impallidire tutti, Alec compreso e la bambina, con un sospiro, abbracciò l'uomo e mormorò contro il suo petto: “Lo so che papà Marcus non era il mio vero pa'. L'ho scoperto l'anno scorso, quando è morto. Mamma era furibonda con tutto e tutti e Richard cercava di calmarla... così lei disse che avrebbe dovuto morire Sam, che non mi aveva mai voluta, invece di Marcus, che era stato il padre migliore del mondo, per me.”

“Oh,cielo...” esalò Richard, fissando spiacente la bambina. “Non avevo idea che ci avessi sentiti.”

“Fa lo stesso” sussurrò Penny, sorridendogli mestamente. “Papà Marcus mi amava. Era bello e forte e mi dava tanti baci. Mi coccolava e mi diceva sempre che ero la sua bambina adorata. Perciò, era il mio papà. Punto.”

“E' così, Penny. Marcus era tuo padre, se non per linea di sangue, sicuramente lo era con il cuore” assentì Alec, carezzandole la chioma bionda.

“Però la mamma non doveva trattarti così, in ogni caso” replicò alla fine Penny, allungandosi per dargli un bacio sulla guancia sfregiata prima di abbracciarlo al collo. “Tu puoi dirmi cosa posso fare, perché sei mio amico.”

Alec tremò tutto a quelle parole e, con gli occhi strizzati per non lasciare sfuggire le lacrime che sentiva sicuramente pizzicargli gli occhi, la strinse a sé con forza, mormorando contro i suoi capelli: “Sì, ovvio che sono tuo amico!”

“Ti difenderò io dalla mamma” gli promise Penny, con veemenza.

Alec allora scoppiò in una risatina tremula e, nel metterla giù, si alzò in piedi e disse: “Sarà meglio se invece mi vado a scusare, prima che torni con un'ascia e mi apra in due la testa.”

Penny sgranò leggermente gli occhi alla sola idea, ma replicò: “Di solito, usa il battipanni quando vuole veramente minacciarmi. Ma non lo usa mai.”

“Solo perché sei piccola. E' una fortuna, a volte. Con me, potrebbe usare la lavatrice intera, e tirarmela addosso” brontolò Alec, uscendo dalla stanza con le mani infilate nelle tasche e l'aria di non sapere bene cosa fare.

Noi ci guardammo dubbiosi l'un l'altro e Richard, preoccupato, ci chiese: “Devo sapere qualcosa che non so?”

“A saperlo!” sbottai, levandomi in piedi per raggiungere Penny.

La bambina afferrò la mia mano e mi trascinò fuori dicendomi: “La mamma, quando è veramente arrabbiata, è incontenibile... fa paura.”

“Ti è mai capitato di vederla così?”

“Alcune volte, ma mai rivolta verso di me. Ma da quando so di... beh, di Sam, ho pensato a un sacco di cose, e penso che alcune volte fosse così nervosa per colpa sua” mi spiegò Penny, camminando a piè sospinto per uscire di casa.

“Quando riceveva sue notizie, eh?”

“Forse” assentì lei, torva in viso.

“Io non ci penserei troppo. A Sam, intendo. Non vale la pena sprecare tempo per lui, sai?”

“Oh... ma non ci penso, infatti. Non so neppure chi sia, e papà Marcus è stato un ottimo papà. Mi bastava lui” scosse il capo Penny, sorridendomi prima di condurmi fuori di casa. “Di là. La mamma va sempre al gazebo, quando è furiosa.”

“D'accordo, andiamo a...” iniziai col dire prima di bloccare entrambe dietro l'angolo della villa, non appena le voci concitate dei due adulti mi giunsero alle orecchie.

Feci segno a Penny di non parlare e, attenta, ascoltai ciò che si dissero. Sapevo di stare brutalmente origliando, ma se potevo evitare una rissa, dovevo farlo.

“Senti, mi hai già chiesto scusa mille volte, Alec. Ho capito. Io sono stata cafona, tu impiccione. Chiudiamola qui e facciamola finita. Non voglio terminare questa avventura con una lite” brontolò Erin, torva. La sentii camminare avanti e indietro sulle mattonelle ruvide, ansiosa nonostante volesse apparire calma.

“Non abbiamo chiuso niente. Si vede lontano un miglio che sei infuriata con me, e non a causa di Penny” precisò Alec, apparentemente più in sé rispetto a Erin.

Lei allora si bloccò sul colpo e la sua aura si espanse come un vento caldo, impetuoso, accarezzandomi la pelle e arroventandola. Okay, era oltre la furia.

“E' inutile che ti scaldi tanto... dimmi cosa ti rode e facciamola veramente finita” la istigò Alec, ed io imprecai tra me per i suoi modi da cavernicolo. Ma era quello il modo di trattare una donna innamorata?

“Vuoi davvero saperlo?! Beh, penso che tu sia un idiota! E un maledetto fifone!” gli sbraitò contro lei, facendomi accapponare la pelle. La sua aura era divenuta tagliente come un coltello.

“Ahia” esalò Penny, guardandomi preoccupata.

“Cos'hai detto, scusa?” mormorò Alec, con un tono non esattamente cordiale.

“Non mi rimangio quello che ho detto. Hai paura di ammettere che provi qualcosa per me, perché ti sei convinto che quello che ti è successo ti abbia reso meno uomo degli altri! Beh, ti sbagli!” gli gettò contro Erin, ora piangendo.

Alec non disse nulla, ma avvertii la sua aura sfrigolare. Il colpo era andato a segno.

Lei allora continuò e, afferratolo alle spalle, lo scosse con violenza ed esclamò: “Adoro quel che hai fatto con Penny, sei stato perfetto con lei, … ma perché non puoi essere così anche con me?!”

Penny sobbalzò accanto a me ed io, trattenendo il respiro, attesi impaziente la risposta di Alec, sperando ardentemente che non facesse cazzate.

“Lo vorresti... davvero?” mormorò lui, incredulo.

Io sgranai gli occhi, incredula non meno di lui. Ma era la risposta da dare?!

A quel punto percepii il cuore di Erin perdere un battito, riprendere velocità mentre il suo corpo si caricava di adrenalina... nel braccio?

Un attimo dopo, avvertimmo senza problemi lo schiocco di un ceffone.

“Ahia!” esclamò Alec, piccato.

“Ora ne ho la riprova. Sei solo UN IDIOTA!” Le ultime parole le urlò così forte che Penny si tappò le orecchie.

“Quello deve aver fatto male” mormorò accanto a noi Richard, sorprendendoci entrambe. Vicino a lui, Duncan annuì comprensivo.

Io li fissai torva e grugnii: “E meno male che la curiosità è donna.”

“Non potevamo perdercelo” sentenziò Richard, tendendo le orecchie per seguire il resto del battibecco.

“E' proprio vero che a fare le cose per bene si fanno sempre delle cazzate” brontolò allora Alec, sorprendendoci non poco.

“Perché? Ti sembra di aver agito da...” iniziò col dire Erin, prima di venire azzittita di colpo.

Che diavolo stava succedendo?

Ne seguirono dei brevi rumori, come di una colluttazione e, subito dopo... un mugolio? Eh?

In blocco ci spostammo per meglio comprendere, quasi finendo carponi sull'erba per la troppa foga ma, quando squadrammo ciò che stava avvenendo nel gazebo, la prima cosa a cui pensammo fu coprire gli occhi di Penny.

Alec teneva prigioniera Erin nella sua invincibile morsa, schiacciandola contro il ferro intrecciato che sosteneva il gazebo, e non pareva avere nessunissima intenzione di scostarsi dalla sua bocca, che stava divorando avido.

Lei, per contro, era avvinghiata a lui come se non desiderasse trovarsi in nessun altro posto e, da quel poco che potevamo avvertire nell'aria, ben presto quello spettacolo sarebbe stato davvero vietato ai minori.

In fretta, ci dileguammo per non dovercene pentire in seguito e, trascinando di peso Penny in casa, tirammo tutti un sospiro di sollievo.

Non la bambina però che, piccata, ci fissò malissimo ed esclamò: “Perché non ho potuto guardare Alec che baciava la mamma? Eh? Perché?”

Tutti noi scoppiammo a ridere e, per la prima volta da molto tempo, mi sentii completamente, veramente felice.

 
***
 
“... e mi raccomando, non fare impazzire nessuno, o potrebbero decidere di rimandarti indietro subito” finì di raccomandarsi Erin, dando una sistemata al fiocco tra i capelli della figlia.

“Sarò bravissima, te lo prometto” assentì con estrema serietà Penny, la mano stretta in quella di Alec.

Erin allora si rivolse all'uomo e, sorridendogli timidamente, gli carezzò la guancia sfregiata e aggiunse: “In quanto a te, ti strapperò un pelo alla volta dal petto, se le succederà qualcosa, è chiaro?”

“Ahia, …suona dolorosa, come punizione” si lagnò lui, pur sogghignando.

“Ti sto affidando mia figlia. Non mi sembra che tu debba per forza fare dell'ironia” brontolò lei, accigliandosi immediatamente.

Penny sospirò esasperata e, tirando la manica della camicia di Alec, si fece prendere in braccio.

Da quella posizione elevata, guardò direttamente in viso la madre e asserì: “Alec è un lupo fortissimo e mi ha detto che nel suo clan ci sono dei lupi ancora più forti di lui, che mi proteggeranno sempre. Non basta?”

“E' da te che ha imparato a rispondere per le rime” brontolò Erin, scuotendo il capo, l’espressione a metà tra l’afflitto e il divertito. “Come hai potuto fare tanti danni in così poco tempo?”

Ridacchiando, Alec scrollò le spalle e, scambiando un cenno d'intesa con la bambina, replicò: “E' solo perché è molto intelligente, e capisce al volo cosa imparare.”

“Sì, come no...” sbuffò Erin, levandosi in punta di piedi subito dopo per dargli un veloce bacio sulle labbra. “Arriverò appena posso. Voi, nel frattempo, non divertitevi troppo senza di me.”

“Non ci contare” la sfidò lui, dandole una leggera spintarella sulla fronte con un dito.

Okay, quello era il sosia di Alec, vero?

Non poteva essere lui lo stesso lupo incazzoso che avevo conosciuto tempo addietro, che ora giocava e scherzava come se nulla fosse?

Duncan, al mio fianco, mi sussurrò all'orecchio: “Fa uno strano effetto, eh?”

“Dammi un pizzicotto, forse sto sognando” gracchiai, incredula.

Alla fine non era successo nulla di estremamente hard, nel giardino, pur se quel bacio infuocato ci aveva fatto pensare a chissà che cosa.

Erin e Alec avevano parlato per gran parte della notte e, la mattina seguente, lui aveva espresso il desiderio di portare Penny con sé perché il branco la conoscesse.

La madre si era dichiarata d'accordo e aveva promesso loro di raggiungerli non appena le cose, con il futuro Fenrir, si fossero messe un po' a posto.

Ci sarebbe voluto qualche mese per trovare il degno sostituto che prendesse il posto di Erin alla guida del branco di Belfast, in attesa che il nuovo Fenrir fosse abbastanza grande per prenderne le redini, ma ci sarebbe riuscita.

Richard si era già offerto per sostenere ad interim quella carica, pur essendo già Hati del branco e, da quel poco che avevo capito, più di un alfa si era dichiarato d'accordo.

Non sarebbe stata una cosa breve, ci sarebbe voluto qualche tempo per sistemare tutto, ma alla fine Erin avrebbe raggiunto Alec a Bradford.

Sarebbe diventata la sua Prima Lupa, se nessuno avesse chiesto un'Ordalia, ma dubitavo che Erin si sarebbe fatta battere, anche quanto.

Quando infine salimmo in auto per andare a prendere l'aereo, guardai un sorridente Alec e gli domandai: “Sei felice?”

“Se mi spieghi cosa vuol dire” ironizzò lui.

Lo fissai malissimo e allora Alec replicò più seriamente: “Sì, lo sono.”

“Bene” annuii tra me, sorridendo giuliva.

“Ora dormirà meglio, la notte” ironizzò Duncan, rivolgendo uno sguardo divertito ad Alec, che ghignò.

“Pensavo non dormisse affatto per altri motivi, con te nel suo letto” sghignazzò Alec, portandomi ad arrossire copiosamente.

“Alec, insomma! C'è Penny!” esclamai, tappando le orecchie alla bambina. “E' così che intendi educarla?”

Alec allora fissò la bambina, scostò con gentilezza le mie mani e, rivolto a Penny, mormorò: “E' già perfetta così.”

Non potei replicare. Era vero.

Era perfetta così.

Anche la mia vita, la nostra vita, con i suoi alti e bassi, gioie e dolori, andava bene così.


_____________________________

N.d.A: Ci siamo quasi... manca solo l'epilogo e, per quel che riguarda la trilogia legata a Brianna e Duncan, ho concluso.
Legata al mondo dei licantropi, però, posterò tra qualche mese un'altra storia, uno Spin-Off dedicato a Cecily, Fenrir di Cornovaglia, e sarà ambientato a 7 anni di distanza dagli eventi fin qui narrati, così avrete modo di scoprire cos'è successo un po' a tutti i personaggi della trilogia.

 

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Capitolo 23
*** Epilogo ***


Epilogo
 
 
 
 
Il Solstizio d'Inverno non poteva essere giorno migliore, per un simile evento.

Specialmente perché, quella notte così speciale, un'eclissi di luna avrebbe benedetto il cambiamento.

Il giorno più breve dell'anno, la notte più lunga.

Un buon giorno, per un nuovo inizio.

Il Vigrond risplendeva di lanterne di carta colorata, ogni alfa era stato chiamato dalle tre contee per presenziare a quell'evento e, cosa davvero più unica che rara, a un umano era stato accordato il permesso di assistere.

Ma Mary B era sempre stata una persona speciale.

Lì, alla luce chiara della luna, ormai prossima a scomparire per dare il via all'eclissi, io levai le mani verso il cielo terso ed esclamai: “Madre, potente Yggdrasil che tutto sorreggi, accogli tra le tue braccia un nuovo figlio! Benedici il suo cambiamento, sostieni il suo coraggio, accresci la sua forza!”

Egli è pronto, Signora dei Lupi?, domandò la quercia sacra nella mia mente.

“Egli è pronto, quercia sacra, la sua mente è limpida e il suo cuore puro” assentii, volgendo lo sguardo per incrociare gli occhi di mio fratello, sangue del mio sangue.

Allora, che il suo destino si compia. All'annerirsi della luna, compi la magia.

Annuii e, afferrate le mani di Gordon, le strinsi nelle mie e mormorai: “Sei certo di volere un morso? Posso graffiarti e accadrebbe comunque quel che deve accadere.”

Lui mi sorrise, come sempre spavaldo e sicuro di sé e, con voce solo leggermente tremante, dichiarò: “E' un mio desiderio, wicca. Puoi esaudirlo?”

“Lo farò” assentii, lanciando una breve occhiata preoccupata in direzione di Mary B, che era in piedi accanto ad Erika.

Lance, Jerome e Duncan erano attorno a me, a sorreggere la mia Triade di Potere.

Mary B mi sorrise ed Erika sollevò due dita in segno di vittoria, cui seguì il sorrisone di Gordon ed il mio, più cauto.

Sembravano così sicuri di loro... eppure il pericolo non era ancora alle spalle. La mutazione poteva non riuscire e...

“Ehi, sorellona” mi riscosse Gordon, poggiando la sua fronte alla mia.

“Mi hai spiegato mille volte cosa potrebbe succedere, ma voglio così lo stesso. Per te, per Erika, per me... è giusto così.”

“Ti chiamerò col sangue, così sarà più sicuro. Sentirai certamente dolore, la prima volta, ma...”

Gordon mi azzittì con un sorriso sicuro ed io, annuendo, lanciai un ultimo sguardo alla luna, ormai completamente coperta, e mi preparai a dare il via alla mutazione.

All'ombra dell'eclissi, lo morsi ad un polso, le zanne ben in evidenza penetrarono nella sua carne, lacerandola e producendo un fiotto di sangue caldo che mi scivolò in gola, facendomi fremere.

Era sangue che conoscevo bene, sangue della mia famiglia, sangue con una memoria antica.

Lasciai la presa quasi subito e Gordon, piegandosi in ginocchio, si coprì la ferita con la mano libera, cominciando a respirare con forza, il cuore che batteva all’impazzata.

Io non aspettai oltre.

Mi recisi il polso e lo poggiai sulla bocca di mio fratello, esclamando: “Senti il richiamo del sangue, Figlio della Luna. Vieni a me, giungi dalla tua Signora!”

Gordon esplose in un grido rivolto alla luna, la bocca lorda del mio sangue.

Io mi allontanai – o fu Duncan a trascinarmi via – ed osservai con il terrore nel cuore il corpo di mio fratello contorcersi sulla neve, spezzarsi, frantumarsi sotto i colpi e i morsi violenti del lupo che stava cercando di eruttare dal suo corpo.

La luna si era quasi liberata del suo nero mantello e, entro breve, il suo potere si sarebbe scagliato su Gordon in tutta la sua potenza, e non centellinato con cura come stava avvenendo in quei tremendi istanti.

Erika e Mary B erano aggrappate l’una all’altra, ma nessuna calò lo sguardo. Nessuna mostrò un seppur minimo cedimento, e neppure io lo feci.

Osservai il coraggio di mio fratello, la sua forza, i suoi tormenti e, quando finalmente fu invaso dalla luce della luna in tutto il suo fulgore, eruppe in un grido che si mescolò all’ululato del lupo.

Pelo fulvo e bruno scaturì dalla sua pelle, mentre il suo corpo cambiava forma, distruggendo gli abiti che aveva indossato fino a quell’istante.

Lunghe e forti zampe affondarono nella neve, artigliando il terreno sottostante mentre una lunga coda danzò dinanzi ai miei occhi che, caparbiamente, lasciarono per ultimo il volto di colui che amavo.

“Brie… guarda tuo fratello…” mormorò al mio orecchio Duncan, la voce orgogliosa e ricca di emozioni debordanti.

Mi volsi a fatica, sorretta dalle mani della mia Triade di Potere e, sgranando un poco i miei occhi color brandy, sorrisi e mi lasciai andare ad un singhiozzo nervoso quando scorsi il suo muso perfettamente formato.

Caldi occhi verde acqua scintillavano in quel musetto color cioccolato e, dopo un attimo di incertezza, corsi ad abbracciarlo, affondando il viso nella sua gorgiera morbida e profumata di terra e neve.

Lui mi leccò il viso più e più volte, scodinzolando felice e soddisfatto ed Erika, trascinando con sé un’incredula Mary B, si unì a quell’abbraccio mormorando: “Sei un lupo stupendo… oddio, Gordon… mi hai fatto morire di paura…”

Gordon allora si sedette sulle zampe posteriori, osservò noi tre con eguale affetto e, dopo aver abbaiato un paio di volte, si volse a scrutare Duncan per poi reclinare ossequioso il muso.

Riconosceva Fenrir come suo capo, e di ciò fui estremamente orgogliosa.

Duncan però lasciò perdere le formalità e, abbracciato a sua volta il lupo che era diventato mio fratello, asserì: “Benvenuto tra noi, fratello mio, mio lupo. Benvenuto.”

“Benvenuto!” gridarono in coro gli alfa del branco, esibendosi in un applauso.

Benvenuto, Figlio della Luna, mormorò la quercia sacra.

“Sarà un bravo lupo” dichiarai mentalmente, rivolta alla pianta secolare.

Come la sorella. Non ho mai dubitato che saresti riuscita nel compito affidatoti dal destino.

“Ne eri interamente a conoscenza?”, esalai sconvolta.

Si può leggere una pagina alla volta, in un libro.

Io allora borbottai un’imprecazione prima di dire: “Aver avuto delle anticipazioni, però, mi avrebbe aiutato ad evitare errori.”

Ogni errore porta esperienza e, se ben ricorderai, io stessa ne ho commessi. E da ciò ho tratto i miei insegnamenti. Anche Yggdrasil può imparare.

Sorrisi nel sentirle dire quel nome, e le domandai: “Siete tutte sue emanazioni, vero? Voi querce sacre, intendo.”

Madre è Tutto. Perciò sì. E lei, come me, è fiera di te e di Fenrir. Perciò ha pensato di concedervi un piccolo premio.

“In che senso?”, mormorai dubbiosa. La Madre non era imparziale?

Mai più, in nessun tempo, Loki potrà incarnarsi in un Figlio della Luna o in un berserkir. Le razze care a Fenrir e Wotan gli saranno per sempre precluse.

“E… e Hel?”

Se ben ricordi, la sua anima è imprigionata nel corpo non-morto di Sebastian.

“Quindi, non rimetterà più piede nel grembo della Madre?”, domandai, vagamente nervosa.

La sola idea mi raggelava.

Il Crepuscolo degli dèi è lontano… avrà tempo per imparare.

“Già” gracchiai.

Era proprio vero che, quando facevi incazzare i Grandi Capi, erano dolori.

Ho un altro regalo… per Mary Beth.

“Come, come?”, esclamai, ora attentissima.

Falle gli auguri da parte mia.

“Per cosa?! Quercia, … ehi, di’ qualcosa! Ehi!” , gridai più e più volte, inascoltata.

Sbuffando, intrecciai le braccia ricoperte dalla giacca a vento mentre tornavo ad osservare il mio branco felicitarsi con Gordon per la riuscita della sua mutazione e, dubbiosa, osservai Mary B.

Era felice, ovviamente, e aveva le lacrime agli occhi mentre Lance, stretto a lei, le spiegava con dovizia di particolari cosa fosse successo esattamente a Gordon.

Fu in quel momento che compresi, nel modo in cui lei teneva le mani in grembo, nel dolce tepore del suo sguardo, interamente rivolto all’uomo che amava e che le stava parlando con voce sommessa.

Aprendomi in un sorriso, corsi da lei per abbracciarla e, al suo orecchio, le sussurrai: “Sarai una madre meravigliosa… ed io sarò una sorella maggiore ancora una volta…”

Lei mi scostò da sé con gli enormi occhi verde scuro che mi fissavano senza parole mentre Lance, accanto a noi, pareva essere stato colpito in testa da un missile balistico.

Io mi limitai ad annuire e, col il fluire della neve dal cielo in una candida quanto inaspettata nevicata, offrii al branco quella nuova, lieta novella.

Ci sarebbe stato un altro lupo, un’altra vita, un’altra stella.

Il pericolo era lontano, avevamo combattuto, sofferto, perso amici e incontrato di nuovi ma, alla fine, avevamo prevalso.

Non avrei mai abbassato la guardia, poiché ero portatrice di un’energia troppo potente per essere presa alla leggera ma, per quella notte, mi sarei concessa un momento di tregua.

Per quella notte, sarei stata soltanto Brianna.

 
 
FINE
 
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N.d.A.: E con questo epilogo, chiudo la trilogia legata direttamente a Brie e Duncan. Ci saranno altre storie, brevi e lunghe, ma non vedranno più come protagonisti la nostra wicca e il nostro Fenrir.

La prossima storia a cui mi dedicherò, seguendo il percorso del lupo, sarà quella di Cecily, Fenrir di Cornovaglia, e si intitolerà “Avventura al chiaro di luna”.

Mi occorreranno un po’ di mesi per allestirla, perciò per qualche tempo non ci saranno aggiornamenti nella cartella della serie “Trilogia della Luna”.

Tenetela comunque d’occhio, non si sa mai. ;-)

Ed ora i ringraziamenti, che dovrebbero durare pagine e pagine, perché li meritate tutti, voi che mi avete seguito in questa avventura.

Grazie ai vostri commenti, ai vostri consigli e suggerimenti, questa storia ha potuto prosperare e, per merito di molti/e di voi, si svilupperà in più direzioni.

Non smetterò mai di ringraziarvi, perciò fateci l’abitudine. ;-)

A presto!

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