Buongiorno, Trieste!

di Uccellino Assurdo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cap. I ***
Capitolo 3: *** Cap. II ***
Capitolo 4: *** Cap. III ***
Capitolo 5: *** Cap. IV ***
Capitolo 6: *** Cap. V ***
Capitolo 7: *** Cap. VI ***
Capitolo 8: *** Cap. VII ***
Capitolo 9: *** Cap. VIII ***
Capitolo 10: *** Cap. IX ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Salve a tutti!Questa è la prima volta in assoluto che scrivo una fanfic e che ho l’ardire di pubblicare qualcosa di mio. Non sono sicura delle mie capacità ma cercherò di fare il mio meglio per riuscire a rendere le emozioni, i sentimenti e l’anima dei personaggi che ho così impudentemente rapito da Hetalia! Se qualcuno volesse lasciare un commento, positivo o negativo, mi farebbe molto piacere … siate pure spietati!

E adesso, ecco a voi…

 

BUONGIORNO TRIESTE

 

 

 

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.

(Umberto Saba da Trieste)

 

 

 

Prologo

 

Anche quella mattina la sveglia suonò puntuale alle sei. Romano, ancora con gli occhi cisposi per il sonno, la guardò per un secondo con uno sguardo di disappunto misto a rassegnazione ma poi, sconfitto, allungò il braccio fuori dalle coperte per spegnerla e si decise ad alzare. I raggi del sole filtravano a fatica dalle imposte, gettando disegni fantasiosi sulle coltri del letto e sulle pareti.

«Ali…» chiamò con la voce impastata «Ali, dai svegliati, sono le sei…»

La ragazza che era sdraiata accanto a lui  sembrava ancora nella fase REM inoltrata. Rispose con una specie di tenue grugnito interpretabile in tutti i modi e nessuno, si limitò a voltarsi dall’altra parte e nascondere la testa sotto al cuscino.

« Alice, porco cane, ogni maledetta mattina la stessa storia! » sbottò Romano, già mezzo vestito in tempo record « Ti vuoi alzare o no?! »

« No! » avrebbe tanto voluto rispondere Alice, tanto più che lei riusciva a dormire anche con tutti i rumori che il fratello continuava a fare in giro per la stanza e indipendentemente dalle maledizioni, i rimproveri e gli improperi che questo le mandava.

« Va bene … scendo a preparare la colazione. Usciamo alle sette meno un quarto, se entro quell’ora non sei lavata, vestita, preparata e sfamata dimenticati della pasta a cena! » le intimò Romano.

Alice parve svegliarsi tutt’ a un colpo.

« Ah, Romano, aspetta  sono sveglia!», piagnucolò con aria disfatta. «Mh … buongiorno fratellino!», si stropicciò gli occhi, stirò le braccia sorridendo, si alzò e aprì le persiane della portafinestra che dava su un balconcino.

« … e buongiorno a te, Trieste!»

Trieste anche quella mattina si offriva con quella sua scontrosa grazia e strana sensualità, un continuo arcobaleno di culture, lingue, suoni, colori diversi che si incontravano sulle vie affollate, per i mercati, nelle piazze, fino a creare un insieme unico, di modernità e familiarità.

 

Romano non riusciva a decidersi a far finalmente capire alla sorella che non era opportuno a quell’età dormire nello stesso letto di un ragazzo, fosse anche suo fratello. Ci aveva provato, a dirglielo, ma ogni volta lei lo guardava con quegli occhi socchiusi e in procinto di scoppiare in lacrime come se le avesse frantumato il cuore in mille pezzi e trovava una scusa: si era iniziato con gli gnomi nascosti sotto al letto, per passare a strane creature che spuntavano dal buio, temporali spaventosi, suoni misteriosi, incubi tremendi fino a fermarsi alla scusa ormai rimasta stabile da anni: «Ho paura di dormire da sola!» E il tutto detto con un’ovvietà e una seraficità che Romano non avrebbe potuto rifiutare neanche se avesse voluto.

In realtà Romano non avrebbe rifiutato davvero nulla alla sorella, le avrebbe dato la vita. «Grazie al cazzo…», avrebbe detto, « …ho solo lei! Siamo soli! »

Da quando i genitori dei fratelli Vargas erano venuti a mancare, ormai tredici anni prima, Romano si era preso cura della sorellina in tutti i modi, era deciso che nulla mai avrebbe potuto separarli, che nessuno avrebbe solo dovuto pensare di far del male a ciò che rimaneva della sua famiglia.

 Certo, all’ inizio non era stato facile, per
quelli che erano solo due bambini, ricominciare a camminare da soli nel faticoso sentiero della vita. Tutto ciò che era loro rimasto era quella casa, che ancora conservava da qualche parte il profumo della mamma, le sue lenzuola ricamate a mano, i libri del papà, che ormai prendevano polvere nella grande libreria, i dipinti nella cornici dorate appesi alle pareti lacere, le porcellane istoriate e i pochi ritratti di famiglia. Avevano più  volte avuto bisogno di denaro, molte volte, ma mai era loro venuto in mente di procurarselo vendendo una sola spilla appartenuta ai loro genitori. In un modo o nell’altro, erano riusciti ad andare avanti, sempre insieme.

«Dai, sbrighiamoci e usciamo, è già tardi e non ho voglia di sentirmi dire da quel bastardo spagnolo che sono arrivato in ritardo anche oggi!» disse il ragazzo, mentre Alice versava il latte caldo nelle tazze.

«Ma è davvero così antipatico questo signor Fernandez Carriedo?» chiese la sorella prendendo anche lei posto a tavola.

«Bha, insopportabile!», bofonchiò Romano, « a proposito… oggi chiudiamo completamente con questa storia degli austriaci, dì chiaramente al signor Edelstein che questo sarà l’ultimo giorno che presterai servizio nella sua casa».

Alice lo guardò con sguardo malinconico. Roderich Edelstein, amico del padre dei fratelli Vargas,  era stato il loro tutore legale fino al compimento della maggiore età e benché Romano non avesse mai accettato di risiedere nella sua casa riconosceva che solo grazie a lui ed al suo interesse erano riusciti a salvare dai creditori quel poco di denaro rimasto sul conto dei loro genitori dopo la loro morte. Anche in seguito Roderich era sempre stato presente per tutti quei problemi pratici, burocratici e persino economici che i due avevano incontrato in quegli anni; era stato grazie a lui che Alice aveva avuto la possibilità di avere una buona istruzione studiando insieme alla sorella di Roderich, Elizabetha, riuscì ad imparare il tedesco e persino a suonare il pianoforte proprio come avrebbe voluto la mamma, e lei cercava di sdebitarsi aiutando nelle faccende domestiche e in cucina. Ecco, magari che si fosse limitata a cucinare forse sarebbe stato meglio, ma questa è un’altra storia…. In ogni caso l’idea di non vedere più il Signor Roderich, che giudicava quasi un secondo padre, non la rendeva felice.

«A me fa piacere aiutare come posso, in fondo dobbiamo molto al signor Roderich e poi non voglio non poter più vedere Elizabetha!» si lamentò Alice.

«Nessuno ti obbliga a non vederla più, potrai tornare a trovarla, ma non voglio che mia sorella faccia la serva!» disse Romano.

«Ma… non sono una serva, io ed Elizabetha siamo amiche e voglio bene anche al signor Roderich…» rispose la ragazza, con gli occhi fissi sulla tazza di latte.

«Quel pezzo di ghiaccio espressivo come un palo…sì, sì, risparmiami la solita litania: ma se lo sentissi quando suona capiresti che ha un cuore gentile e bla bla!», disse Romano facendo il verso alla sorella, «è il momento che ti trovi un lavoro vero!». Si alzò dalla tavola.

«Ma…» cominciò a dire Alice.

«Niente ma… mettiti il cappotto e usciamo che è tardi!»

I due fratelli uscirono di casa insieme; come ogni mattina Romano accompagnava, con la sua vecchia bicicletta un po’ malandata, la sorella fino a casa Edelstein e poi proseguiva dritto per andare a lavorare.

«Buongiorno, buongiorno!», gridava Alice sventolando le mani a tutte le persone che incontrava per strada e chi salutava con un sorriso intenerito, chi alzando leggermente la testa o facendo segno con la mano. Ma rispondevano tutti.

«Ma la vuoi finire di fare ogni santo giorno questa storia?», chiese infastidito Romano.

«Perché? È buona educazione salutare i vicini», rispose la ragazza, «non dovresti essere sempre così scostante!». Romano grugnì qualcosa e continuò a pedalare.

Quel giorno Trieste aveva la luce di una città appena risvegliatasi da un lungo sonno; la notte doveva aver piovuto perché le strade erano bagnate e ancora qui e lì dalle tegole spandeva un po’ d’acqua, ma l’aria era tiepida e il cielo sereno, già la gente iniziava ad affollare e risvegliare le strade. Alice pensò quanto fosse bella la sua città al mattino, quando tenendosi stretta al fratello sfrecciavano insieme per quelle vie appena illuminate dal sole, e quanto fosse bella alla sera, quando lei e Romano tornavano a casa e per la città ritornava il silenzio. Non avrebbero mai lasciato Trieste e la casa dei loro genitori, sarebbero rimasti là, insieme, a prendersi cura l’uno dell’altra e questa convinzione la faceva rassicurare e sentire felice; anche quel mattino era certa che nulla avrebbe potuto far traballare la serenità dei suoi giorni.

I due si lasciarono davanti al cancello d’ingresso della grande casa.

«Buona giornata sorellina, stai attenta a non farti male», Romano addolcì il tono e lo sguardo vedendo un velo di malinconia che adombrava la sorella. Ma Alice gli sorrise dolcemente e lo salutò: «Buona giornata e buon lavoro anche a te, Romano!» e gli diede un bacio sulla guancia.

E anche quella mattina il cielo iniziò a risplendere sopra Trieste.

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Capitolo 2
*** Cap. I ***


Finalmente aggiorno questo mio tentativo di fan fiction! Chiedo umilmente perdono per l’atroce ritardo con cui presento questo secondo (in realtà primo) capitolo, prometto che cercherò di essere più celere. Avverto che lo svolgimento della storia sarà abbastanza lento quindi non si entrerà immediatamente nel vivo della vicenda, ma se vorrete seguirla farò di tutto per non annoiarvi! Commentate e criticate pure, tutto è ben accetto! E ora… buona lettura!

I

Quella mattina Romano arrivò in ritardo a lavoro. Da quando Alice non andava più ogni giorno a casa Edelstein cercava di attardarsi quanto più poteva per lasciare il meno possibile sola la sorella e, come al solito, si premurava in raccomandazioni varie:

«Non aprire a nessuno, potrebbero essere malintenzionati. Se esci ricordati di portare le chiavi. E per strada non dare retta a chi non conosci, anzi non dare retta a nessuno!».

Alice annuiva pazientemente; ormai era una settimana che non faceva altro che rimanere in casa ad occuparsi delle faccende domestiche, a cucinare, aspettando il ritorno di Romano e se usciva lo faceva solo per fare la spesa… I tentativi di trovare qualche lavoretto non avevano dato buoni frutti, anzi, si erano rivelati un disastro: in una sola settimana era stata licenziata dal panificio, da una pasticceria e da un negozio di stoffe … Non era nell’indole di Alice stare troppo tempo in inattività; si annoiava, la solitudine la intristiva e, quel che era peggio, l’amara sensazione di essere un peso per il fratello si faceva sempre più pressante.

«Mi raccomando allora! Non ti mettere nei guai. Io sarò di ritorno stasera, cercherò di finire prima che posso»

«Va bene, buona giornata!»

Il mercato al quale Romano lavorava non era molto distante da casa e andando più veloce del solito in bicicletta (non aveva più pensiero che dietro ci fosse Alice) si poteva arrivare in meno di dieci minuti; arrivò appena in tempo per aiutare Antonio a finire di mettere sulla bancarella le ceste e cassette con la frutta e la verdura che già arrivarono i primi clienti.

«Dormito bene stanotte, Romanito?», chiese Antonio con un sorriso rivolto al suo aiutante.

«Se con la celata ironia di questa tua domanda stai cercando di dirmi che anche stamattina sono nel mostruoso ritardo di dieci minuti la risposta è sì: sono in ritardo! Farò gli straordinari dopo se la cosa ti disturba tanto!» , rispose con invidiabile garbo Romano, «ah, e poi un’altra cosa, e spero di non doverla più ripetere…»

Antonio lo guardava aspettando.

«…smettila di chiamarmi Romanito!!», si girò avvelenato, «sembra il nome di una marca di gassosa!»

«Va bene, Romanito!», disse Antonio, «anche quest’oggi sei di buon umore!».

Lo avrebbe ucciso. Se non avesse avuto così bisogno di lavorare.

Romano aveva iniziato a lavorare al mercato centrale, nel banco di frutta e verdura di Antonio, quell’ estate: certo, quello spagnolo era insopportabile con quel perenne sorriso strafottente stampato in faccia e l’aria di chi non avesse problemi al mondo, ma la paga era buona e Romano era il tipo che, se voleva, riusciva a sopportare senza lamentarsi poi troppo. A dire la verità non era mai stato rimproverato né per il ritardo, né per i vari guai combinati (e ne combinava!), anzi lo spagnolo era pure fin troppo gentile, sempre cortese e paziente, sotto certi punti di vista poteva essere considerato il datore di lavoro ideale. Anche se questo non intaccava certe sue stranezze.

«Buongiorno, figliolo!»

«Signora Marotti, buongiorno a lei!», salutò con voce squillante e cortese un’anziana signora, cliente abituale, «…già in giro a quest’ora? Dovrebbe starsene a letto con questo freddo! Cosa posso fare per lei?»

La signora sorrise mostrando una piccola borsa di iuta spelacchiata. «Darmi mezzo chilo di quelle deliziose mele che mi hai venduto la scorsa settimana, ai miei nipotini sono piaciute molto!»

Antonio allargò ulteriormente il sorriso e mise la frutta in un sacchetto; Romano si accorse che fu particolarmente generoso, non poteva essere mezzo chilo. Il sacchetto venne pesato.

«Ecco a lei, esattamente mezzo chilo come richiesto!»

«Grazie caro…per quanto riguarda il pagamento…»

Antonio mise le mani avanti e scosse la testa, «Si figuri, metto sul conto come al solito, pagherà quando le fa più comodo!»

La signora annuì e ringraziò di nuovo, con una strana aria di dolcezza e tristezza insieme. In effetti quel bastardo spagnolo già l’altra volta aveva fatto credito alla vecchia, pensò Romano, se fosse andato avanti così avrebbe presto dovuto chiudere baracca! Ma questo, in fondo, non era affar suo: lui lavorava e veniva pagato, andava bene così.

«È poi riuscita a trovare lavoro tua sorella?»

Romano si ridestò dai suoi pensieri. «Non ancora…», si rimise ad aggiustare le cassette di frutta, «lei… non è molto portata per i lavori pratici», glissò.

«Sai, una cliente mi ha fatto sapere che cercano ragazze in una sartoria qui vicino, perché non…»

«Ti ho già detto che non sarebbe un lavoro adatto a lei!», rispose stizzito Romano, «e poi non mi aspetto questo per lei, ha studiato, voglio che trovi un lavoro rispettabile»

Questa volta Antonio rispose con un tono quasi offeso, quasi amareggiato, aggrottò leggermente le sopracciglia: «Perché, una sarta non è rispettabile?»

Il ragazzo si pentì di quanto detto: «Non intendevo questo, è solo che… E poi non sono affari tuoi!» Avrebbe voluto dire che la sua famiglia, i suoi genitori, facevano parte dell’alta borghesia, prima che i fili del destino si fossero messi in mezzo e non avessero perso tutto in maniera così tragica, che almeno Alice doveva quindi avere la possibilità di costruirsi una vita il più vicino possibile alle aspettative dei loro genitori e che era proprio per questo che lui, Romano, lavorava quanto gli fosse possibile per far vivere felice la sorellina. Ma tacque. Tutto questo Antonio, che sembrava così inspiegabilmente entusiasta del suo banchetto di frutta e verdura in mezzo ai figli del popolo, non lo sapeva né l’avrebbe potuto capire. O almeno così credeva. Da quando lo conosceva non avevano mai parlato della sua famiglia, del suo passato, del perché dalla sua Spagna fosse finito proprio a Trieste; non che a Romano interessasse più di tanto, ma certe volte aveva voglia di sapere cosa mai passasse per la testa a quello spagnolo che sembrava sempre sorridere al mondo. In quello gli ricordava Alice.

«Va bene così Romanito; scusa, hai ragione, non sono affari miei». Sembrava essere ritornato di buon umore, la leggera aria di rimprovero che gli aveva un attimo prima offuscato lo sguardo si rischiarò come se non ci fosse mai stata, «adesso, per favore, pensaci tu a servire i clienti per un attimo, io vado a prendere un’altra cassetta e la porto»

«Va bene…»

Forse in nessun altro posto si respirava la vita di Trieste come al mercato centrale, dove ogni giorno, fra bancarelle e vociare confuso, la gente si riversava e rimescolava; Romano si rendeva conto sempre di più di quanto grande e composita fosse la sua città, era ormai normale sentire mischiati i più vari idiomi europei, ormai era in grado di riconoscerli soltanto in base all’accento o all’inflessione della voce dei parlanti, anche quando parlavano in italiano. Ecco, per esempio, quei due che sembrava stessero avvicinandosi proprio a lui non erano di certo triestini. Si trattava di due ragazzi poco più grandi di Romano: uno, quello più alto e dai capelli di un biondo così chiaro da sembrare bianchi, aveva un accento indiscutibilmente tedesco, il giovane che lo accompagnava invece, dall’aria un po’ svagata ed elegante, doveva essere di sicuro francese o giù di lì. Ma più che questo quello che adesso preoccupava Romano era che quei due puntavano effettivamente proprio verso di lui, gli erano in pratica già davanti.

«Ehi, giovane», cominciò quello che Romano aveva identificato come tedesco, «cerchiamo Antonio, sappiamo che lavora qui. Sei il suo aiutante?»

«Scommetto di sì», insinuò il francese con aria quasi lasciva, «è proprio da Antonio trovarsi aiutanti tanto carini!»

In due o tre parole e altrettanti secondi i due riuscirono a destare nell’”aiutante tanto carino” un vivo senso di dispetto misto a disgusto.

«No, è proprio da Antonio trovarsi amici tanto…» cominciò a dire, alterato, ma venne tempisticamente interrotto da Antonio, appena tornato.

«Gilbert! Francis!» gridò entusiasta lo spagnolo. Abbracci, pacche, convenevoli. Evidentemente, pensò Romano, quei tre si conoscevano da vecchia data.

«Non sapevo che fossi già tornato, Gilbert», chiese lo spagnolo ancora con la mano sopra la spalla dell’amico.

«È solo da un paio di giorni, devo sistemare un po’ di cose. Sì, immagino che la mia nobile presenza ti sia mancata in tutto questo tempo!»

«Ah, ah! Certo, come sempre!»

«Allora, tu quando smonti da questa baracca?»

«Piuttosto quando smonti la baracca?», intervenne Francis, «ti pare il caso di fare il fruttivendolo con tutte le bellezze che offre Trieste?» e occhieggiava intanto le ragazze intorno, illuminandosi.

«Vi assicuro che non c’è posto migliore per gustarsi le bellezze di Trieste! Comunque sarò impegnato fino a tardo pomeriggio…»

«Allora ci vediamo stasera, prendiamo qualcosa da bere e ci facciamo quattro chiacchiere, che ne dici?»

Romano assisteva riluttante a quella patetica rimpatriata. Bene. Un tedesco rozzo, presuntuoso, ubriacone e probabilmente di intelligenza inferiore alla media e un francese saccente, depravato e non si sa che altro. Proprio in loro doveva incappare quella benedetta mattina.

«Sicuro!», esclamò Antonio, «a proposito, non vi ho presentati: Romano questi sono Gilbert e Francis, questo è Romano, il mio…»

«… aiutante tanto carino!», finì Francis, «Non c’è che dire, i tuoi gusti sono sempre stati sopraffini!»

Romano partì. « Vuoi che ti faccia sentire il gusto di questo pugno in faccia, francese zozzo depravato?!» e fu lì lì per alzare il braccio ed adempiere alla promessa. Antonio lo trattenne imbarazzato, «Eh, eh, Francis, chiudi il becco…»

«Ma… è un passionale!!» esclamò entusiasta il francese, «allora è per lui che non ti si vede più in giro!»

«Ti spacco il…!!»

«Romano, calmati, Francis… smettila!» fece Antonio, sempre più imbarazzato.

Ma da quale bolgia dell’inferno erano scaturiti quei due abietti esemplari di razza umana?

«Allora a stasera!», salutarono i due.

«A stasera…», rispose spagnolo sorridendo suo malgrado; si girò verso un Romano ancora furente, «perdonami Romano, quelli sono…»

«Non mi interessa!»

«… i miei due più cari…»

«Ti ho detto che non mi interessa!»

«… amici, li ho incontrati…»

«Non lo voglio sapere!»

«… a Trieste»

Già, Trieste. Le bellezze di Trieste, se non fosse che ultimamente questa città aveva sempre più la capacità di attirare a sé il marciume umano più repellente.

«Ma sono bravi ragazzi! Lo so che può sembrare che abbiano modi un po’ sanguigni all’inizio ma…»

«Fammi lavorare che è meglio!»

Proseguirono il lavoro fino a tardo pomeriggio, fino a quando il cielo si rabbuiò e una fitta coltre di nubi incupì l’aria. «Mi sa che si metterà a piovere», dichiarò fra sé e sé Romano; avrebbe fato meglio a tornare da Alice il prima possibile.

«Vai pure, finisco io di mettere a posto», disse Antonio, «se ti raggiunge la pioggia mentre sei ancora per strada ti verrà un raffreddore»

«Va bene, allora vado…»

«Ah, Romanito…!»

«Cosa c’è?», e si girò scocciato verso lo spagnolo; si vide allungare un sacchetto di cartone. «Sono avanzati e sono già troppo maturi», spiegò, «se li lascio fino a domani temo che marciranno». Erano pomodori ed erano grandi, rossi e lucenti, maturi sì ma di certo non prossimi a marcire; sembravano deliziosi e Romano ne andava pazzo, nondimeno rimase colpito dal gesto e, notando il suo sguardo perplesso, Antonio si affrettò a dire «Non ti offendere! È solo che io non me ne faccio niente, sono solo. E poi stasera cenerò fuori probabilmente; portali con te, mangiali con tua sorella». Li offrì con tanta naturalezza, quel bastardo fottuto, che Romano potè solo prenderli senza dire una parola.

«Ah, e poi», continuò lo spagnolo, «nel caso volessi uscire con me, Gilberte Francis, ci farebbe piac…», il resto gli morì in gola quando vide lo sguardo semi allucinato e omicida del ragazzo. «Come non detto…!»

Ormai stava per mettersi a piovere.

II

Romano arrivò di corsa a casa prima che la pioggia, dapprima leggera, si trasformasse in acquazzone. Davanti al cancelletto vide una figura minuta che sembrava lo attendesse; era Alice che teneva in mano un piccolo ombrello, appoggiata al muricciolo e con lo sguardo chino.

«Quella scema avrà dimenticato di nuovo le chiavi di casa…». Andandole incontro Romano si accorse che aveva gli occhi pieni di lacrime. «Alice, che è successo!?», gridò preoccupato precipitandosi verso di lei.

Alice guardò il fratello e sciolse la cortina di lacrime che le serrava gli occhi. «Fratellone», iniziò singhiozzando, «ti ricordi il fioraio all’angolo della strada?»

Romano capì prima che la sorella finisse di parlare: sicuramente era andata a chiedere lavoro lì e l’esito era stato quello abituale.

«Oh, Alice…», cominciò, «non c’è bisogno di piangere per una sciocchezza simile, vedrai che…»

«Sono un disastro!!!», scoppiò a piangere la ragazza, «sono una buona a nulla, riesco solo a combinare guai!»

Ramano si intenerì alla vista della sorellina in lacrime; «Sarebbe meglio per te che io non ci fossi!»

«Ma smettila di dire scemenze!», le inveì severo, «domani andrà meglio e se anche non fosse ci penserò io a te, come sempre. Piuttosto…», le mise davanti il sacchetto che gli aveva dato Antonio.

«Cosa c’è qua dentro?»

«Guardaci!». Lei lo fece, ancora tirando su col naso.

«Pomodori!», esclamò la ragazza tornata repentinamente allegra.

«Sì, e sai cosa ci possiamo fare?»

«La salsa… per condire la pasta!!», suggerì Alice entusiasta.

«…o la pizza!», finì Romano.

III

I tre ragazzi erano seduti ad un tavolo di una tavernetta poco lontana dalla piazza centrale; avevano trascorso tutta la serata in allegria, a parlare, ridere e bere.

«Come sta tuo nonno adesso, Gilbert?»

Il giovane poggiò sul tavolo il boccale di birra che aveva appena portato alla bocca. «Bhe… non ha niente di particolare ma è ormai anziano. Ha deciso di ritirarsi e dice di voler vivere i suoi ultimi giorni nella sua terra, in Germania. Sai, più si invecchia più ci si rammollisce l’animo e si cede a queste sciocche romanticherie».

«Capisco…»

«Quindi cosa ne sarà della fabbrica?», chiese Francis; stranamente sembrava ritornare presente solo dopo che le cameriere si allontanavano. «Non dirmi che l’ha affidata a te! Con queste tue manie militari da guerrafondaio non ti ci vedo proprio dietro una scrivania a scartabellare fra fatture e conti!»

«No, no!», tagliò corto, «non è roba per me! Se ne occuperà mio fratello, è più tagliato di me per questo genere di cose. Ci penserà lui a gestire l’azienda».

«Quel tuo fratello di cui ci parli spesso? Come si chiama… Ludwig! Non è mai stato a Trieste, vero?»

«Già, ma sono sicuro che si abituerà presto, come d’altronde ho fatto io». Si interruppe come se gli fosse venuto in mente un particolare. «Già, Antonio! Tu sei a contatto con molta gente…»

«Sì, perché?», lo guardò interrogativo.

«Ludwig non si può occupare di tutto da solo. Conosci per caso qualche ragazza adatta a fargli da segretaria? Niente di che: conoscenza dell’italiano e naturalmente del tedesco, una buona istruzione complessiva. Ce ne saranno a migliaia a Trieste!»

Antonio allungò le labbra in un sorriso. «Sì, ma ne conosco una che è unica!»

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Capitolo 3
*** Cap. II ***


E con un imperdonabile ritardo ecco a voi il nuovo capitolo! (Le traduzioni delle frasi in lingua straniera si trovano alla fine).

II CAPITOLO

«Non se ne parla nemmeno!», sbottò avvelenato Romano.

«Ma perché? È esattamente quello che cercavi». Come al solito Antonio faceva fatica a capire cosa passasse per la testa del suo aiutante; il giorno prima si era mostrato preoccupato di trovare alla sorella un’occupazione consona alle sue esigenze e competenze, oggi invece, alla proposta pressocchè perfetta di impiegarla presso l’azienda dell’amico, si era ritorto contro come una iena rabbiosa.

«Hai detto stesso tu che Alice ha studiato presso una famiglia austriaca, che conosce perfettamente il tedesco, mi sembra adattissima per…»

«Hai capito che ti ho detto di no o te lo devo specificare a suon di calci nelle palle?!».

«… se è per il fratello di Gilbert puoi stare tranquillo; non lo conosco personalmente ma se è solo la metà di quello che è il fratello…»

«Ah sì, se è solo la metà di quel bellimbusto baldanzoso andiamo proprio bene!»

Antonio sospirò stancamente; nel breve tempo in cui avevano lavorato insieme aveva imparato che quando Romano si incaponiva su qualcosa difficilmente si sarebbe riuscito a smuoverlo dai suoi intenti e dalle sue convinzioni. E in fondo quella sua testardaggine senza scampo era una delle cose che lo rendeva speciale. Quello che non gli era chiaro era il motivo per cui dovesse rifiutare tanto strenuamente un lavoro come quello che gli stava proponendo.

«Ascolta Romano», ricominciò con fare comprensivo, «non pensi che dovrebbe essere Alice a decidere il da farsi? Non sono nessuno per permettermi di dirtelo ma credo che le farebbe bene se tu la lasciassi diventare più… autonoma, ecco… falla distaccare un po’ da te».

«Distaccare?!», gridò inorridito, «per quale ragione dovrebbe distaccarsi da me? Sono suo fratello, hai capito, bastardo di uno spagnolo incosciente e menefreghista?!»

Pazienza santissima. «Dico solo che sei iperprotettivo. Dalle almeno la possibilità di provare, poi, se dovesse presentarsi qualsiasi tipo di problema sarò il primo ad intervenire…»

«Devo fare in modo di prevenirli i problemi, non dare possibilità che si presentino!»

«È vero, ma se non cade almeno una volta un giorno non avrà abbastanza forza per rialzarsi da sola», disse dolcemente Antonio, «dalle una possibilità. Non saresti contento anche tu di vederla più serena?»

«Ma che ne sai di come mia sorella possa essere serena…», rispose torvo Romano, ma già stava riflettendo sulle parole di Antonio e gli vennero improvvisamente in mente le lacrime di Alice davanti casa, solo la sera prima. La verità era che, più che non fidarsi dello sconosciuto fratello di Gilbert, non gli sorrideva l’idea che lui e soprattutto Alice avessero contatti di qualsiasi tipo con tedeschi o austriaci. La famiglia Edelstein per tutti quegli anni aveva rappresentato un’eccezione (fra l’altro malamente sopportata più per fastidiosa ma doverosa gratitudine che per altro), ma di certa gente non ci si poteva fidare. Forse però valeva la pena concedere un po’ di fiducia almeno ad Alice.

«Dammi quell’indirizzo…», fece rivolto verso Antonio. «Tanto lo so che me ne pentirò…».

II

Eccezionalmente quella mattina Romano concesse ad Alice di arrivare da sola al nuovo luogo di lavoro. O perlomeno di fare finta di arrivarci da sola, visto che a tre quarti di strada la dovette scortare come al solito lui, in bicicletta, accompagnando ogni pedalata con consigli teorici e pratici a cui la ragazza era ormai abituata. «Cerca di non dare troppa confidenza, se malauguratamente il tuo capo dovesse rimproverarti troppo aspramente ci penserò io a raddrizzarlo e ricordati che questo è un impiego momentaneo: appena troviamo qualcosa di meglio tu da là sloggi!»

«Veee!», gongolò Alice.

«Che? Alice… tu mi stai ascoltando, vero?»

«Sì, certo fratellone», cantilenò contenta, «Speriamo di lavorare con gente simpatica! Sai che mi sono allenata con la macchina da scrivere? Per questo genere di lavori è importante, vero? Fra un po’ diventerò velocissima!».

«No, non mi stai ascoltando…».

La lasciò ad un incrociò dal quale sarebbe arrivata a destinazione in meno di cinque minuti a piedi; probabilmente quelle persone con il pranzo a sacco in spalla erano proprio operai visto che da quella parte non c’erano altro che fabbriche e Alice si sentì felice al pensiero che come a loro anche a lei sarebbe aspettato un giorno di vero lavoro, che le avrebbe permesso di sentirsi utile e avrebbe permesso al fratello di essere fiero di lei. Sembrava entusiasta ed elettrizzata dalla novità.

«Sicura che non vuoi che ti accompagni fin lì davanti?»

«Certo, non preoccuparti per me. Ormai sono grande, me la so cavare da sola!»

«Va bene, allora… buon lavoro», salutò cauto e preoccupato, «mi raccomando, eh!». E la seguì con lo sguardo fino a quando non svoltò l’angolo e si girò a fargli un cenno con la mano.

Le acciaierie Beilschmidt si ergevano imponenti nel bel mezzo di uno dei quartieri industriali più importanti di Trieste. Erano una delle tante aziende metallurgiche che, ahimè, si sarebbero trasformate in fabbriche di armi a scopo bellico durante la tragica e inevitabile Grande Guerra. Erano state fondate, ormai più di mezzo secolo prima, da Hans Beilschmidt che si era trasferito dalla sua amata Germania a Trieste approfittando della sua ottima posizione e aveva dato vita ad una delle acciaierie più proficue e solide della città. Hans aveva dato tutto sé stesso per portare avanti nel modo migliore possibile l’azienda e lo aveva fatto fino a quando non avvertì anche lui l’inevitabile peso del cumulo degli anni; toccava adesso quindi ai suoi eredi portare le redini della prestigiosa e ancora inossidabile azienda di famiglia.

Alice rimase per un attimo a bocca aperta davanti a quello che sarebbe stato il suo luogo di lavoro. Certo, non si poteva dire che fosse propriamente “ameno”, era in realtà molto tetro, grigio e triste ma questo non bastò a togliere alla ragazza quel sano entusiasmo che l’aveva sorretta fino a ora. Dentro era ancora peggio.

«Scusi, mi saprebbe dire dove si trova l’ufficio del signor L. Beilschmidt?», chiese ad un uomo di mezza età, probabilmente un operaio. Glielo indicò e lei si diresse da quella parte con il cuore in gola e le mani irrigidite dall’emozione che ancora stringevano il foglietto con su scritto l’indirizzo ed il nome del datore. Chissà poi per cosa stava la L puntata del nome; l’avrebbe tranquillizzata un pizzichino di più forse sapere il nome del suo capo. Perché mai poi.

Bussò alla porta. «Avanti», rispose una voce stentorea, in tedesco.

Alice entrò. «Guten Morgen Herr Beilchmidt…Ich bin die neue Sekretarin!(1)». Alzò finalmente gli occhi su Herr Beilchmidt; non se lo aspettava: era un uomo molto giovane, forse solo di poco più grande di Romano ma alto, imponente e, se non ci si fosse fermati a guardarlo più attentamente, si sarebbe detto minaccioso. Aveva capelli biondi pettinati ordinatamente e artici, bellissimi occhi azzurri; dava nell’insieme un senso di rigore marziale, freddezza studiata e doveroso contegno, ad Alice parve di vedere in quegli occhi qualcosa di assai vicino alla timidezza. Per pochi istanti che sembrarono infiniti Herr Beilschmidt guardò la giovane che aveva davanti e in quei pochi istanti Alice sentì percorrerla uno strano brivido, non del tutto spiacevole, che non seppe se addebitare al nervosismo, alla suggestione o ad altro di ancora sconosciuto. Finalmente Beilschmidt ruppe il silenzio.

«Lei deve essere la signorina Vargas»

Alice si riscosse e trovò la voce per rispondere: «Ehm, sì..! Alice Vargas! Ich freue mich Ihre Bekanntschaft zu machen! (2)»

«Non c’è bisogno che parli il tedesco con me, conosco la mia lingua. Anzi, mi è più utile se parla italiano, sono a Trieste da poco e sto cercando di migliorarlo…»

«Ah, ma non c’è bisogno, lei lo parla benissimo!», disse sollevata ed educata Alice, «sarò felice di aiutarla comunque!». Forse il suo capo non era poi così male, almeno stavano iniziando una conversazione piacevole. Purtroppo le aspettative dialogiche di Alice vennero deluse, perché quella fu la frase di circostanza più lunga pronunciata dal signor Beilschmidt per tutto il corso della giornata. Per il resto il discorso virò subito sul tema lavoro: le spiegò sbrigativamente ma efficacemente quelli che dovevano essere i suoi compiti, dove si trovavano conti, fatture, registri.

«Le lettere che arrivano dai fornitori delle metterle sulla mia scrivania da questa parte, quelle in uscita dall’altra…». Alice ascoltava tutto con attenzione, faticando un po’ ad andar dietro al suo nuovo capo che, per non conoscere l’italiano, andava anche troppo spedito. «I registri dei salari si trovano su questo scaffale, qui invece ci sono le fatture divise per anni…».

Il signor Beilschmidt spiegava tutto diligentemente ma senza far trasparire emozioni, anzi, non la guardava ormai neanche più, limitandosi a mostrarle documenti e indicarle le mansioni principali. «Sa scrivere a macchina?», chiese ad un tratto.

«Sìì!!!», esclamò la ragazza, «Sono velocissima!!!». Mentiva spudoratamente, aveva preso per la prima volta una macchina da scrivere la sera prima. Ma era lo stesso felice di essere stata tanto “lungimirante” da prevedere che il suo tardivo interesse per la scrittura meccanica avesse una qualche utilità.

Le indicò una piccola e semplice scrivania poco lontana dalla sua, dove si sarebbe dovuta sedere.

«Quindi lavoreremo nello stesso ufficio!», osservò entusiasta Alice rivolta al suo datore, «Per fortuna! Così almeno non mi annoierò a stare da sola per tutto il giorno! Anche quando dovevo fare i compiti se mi mettevano in una stanza da sola senza Elisabetha non riuscivo mai a concentrami e finirli in tempo per l’arrivo del maestro!»

Il signor Beilschmidt aggrottò le sopracciglia. «Bene! Ora che mi ha spiegato tutto voglio mettermi al lavoro immediatamente!», continuò, «Le prometto che farò del mio meglio e che non si pentirà di avermi dato fiducia!»

«Sì…», fece serio e imperturbabile l’uomo, nascondendo una punta di perplessità, «si metta al lavoro adesso».

«Agli ordini!!», scattò sull’attenti. «Ah, posso fare una domanda?»

«Dica»

«Posso chiamarla signor Beilschmidt?»

«Certo»

«E la L per cosa sta?»

L’uomo rimase per un attimo spiazzato e senza parole, incapace di risolversi se rispondere o meno. Quella ragazzina gli stava chiedendo il nome di battesimo? «Ludwig», lasciò uscire quasi distratto, senza neanche rendersene conto.

«È un bel nome! Meno inquietante di Beilschmidt», sorrise Alice, «Adesso è meglio che mi metta al lavoro!»

Ludwig rimase ancora una volta senza parole; stette per alcuni secondi a guardare la ragazza che aveva chinato il capo sulla macchina da scrivere, poi tornò anche lui al suo lavoro. Non dissero più una parola fino all’ora di chiusura.

III

Al ritorno dal mercato Romano, prima di tornare a casa, passò dalla pasticceria e comprò due grosse paste alla crema cosparse di zucchero a velo, le preferite di Alice. A quell’ora la ragazza avrebbe già dovuto finire il suo primo giorno di lavoro e lo stava di certo già aspettando per cena. Romano era già psicologicamente pronto per consolarla, era convinto che anche questa volta la cosa si sarebbe risolta con uno dei soliti guai di Alice e con il conseguente licenziamento record repentino del quale si sarebbe dovuto sorbire le lacrime. Ma lui non aveva niente da rimproverarsi: aveva dato fiducia alla sorella, le aveva permesso di provare, l’aveva fatta camminare con le sue gambe e se fosse caduta lui sarebbe stato lì a risollevarla; la lezione sarebbe servita per farle capire una volta per tutte che lavorare per i tedeschi porta solo guai.

Poggiò la bicicletta nella piccola rimessa del cortiletto ed entrò in casa, convinto di vedere un’ Alice singhiozzante e disperata. La ragazza era in cucina circondata da un delizioso profumino e dal rumore gorgogliante della pentola ribollente sul fuoco.

«Fratellone! Bentornato!», esclamò festosamente accorgendosi del ragazzo. Sembrava gioiosa. «Stasera ho preparato una cenetta speciale per festeggiare il mio primo giorno di lavoro!»

Romano rimase a bocca aperta; non era quello lo stato d’animo con cui si aspettava di venire accolto. Alice adocchiò subito l’involtino di familiare carta azzurra che il fratello teneva sotto il braccio. «Oh, Romano, sono le paste alla crema, vero?», chiese con un gran sorriso, «grazie! Hai avuto il pensiero di comprarle per farmi una sorpresa e festeggiare insieme… adesso siamo al completo, abbiamo anche il dessert! Ti voglio tanto bene!», e lo investì con un esultante abbraccio pieno d’affetto.

«Quindi… è andato tutto bene?», chiese, ancora confuso.

«Certo, benissimo! Oh, Romano quante cose che ho da raccontarti!».

Parlarono, o per meglio dire parlò solo Alice, ininterrottamente, per tutta la durata della cena…«…poi mi ha chiesto se sapessi usare la macchina da scrivere e io gli ho detto che sono bravissima e mi sono messa subito a lavorare, sai non è difficile come credevo, non ho combinato nessun guaio, mi è sembrato che fosse soddisfatto del mio lavoro, quando l’ho salutato mi ha risposto “a domani” il che significa che non mi ha licenziato, domani posso tornare…». Dal miasma infinito di parole che Alice pronunciò Romano dedusse che le cose erano sotto controllo. O comunque lo erano per il momento. Stranamente sentiva una specie di risentimento verso la sua aspettativa di fallimento da parte di Alice, ma si rese conto che era un sentimento egoista e crudele; voleva veramente che la sorellina fosse sempre così entusiasta.

«E questo Beilschmidt che tipo è? Un buzzurro come il fratello?»

Alice si sentì in imbarazzo in maniera immotivata. Per una frazione di secondo rivide gli occhi del signor Beilschmidt che la guardavano per un tempo che le sembrò congelato e, anche se non riusciva a capirne la ragione, non voleva condividere con nessuno l’emozione provata. Neanche con Romano.

«Secondo me è un signore molto distinto e molto gentile», rispose sorridendo, con gli occhi sul piatto e perdendo improvvisamente il brio movimentato di pochi secondi prima. Un cambiamento che non sfuggì a Romano: «Ti ha detto qualcosa?», domandò con fare ostile.

«Mi ha detto», rispose, ancora sognando, «di chiamarsi Ludwig». Per qualche strana ragione a Romano questo signor Ludwig Beilschmidt iniziò a stare sull’anima ancor prima di aver avuto il “piacere” di conoscerlo.

IV

«Ah, Romanito, te lo avevo detto che sarebbe andato tutto bene! E tu convinto a non volerla lasciar andare…»

«Scusi, potrei avere un chilo di quei pomodori?»

«Subito! Romanito…»

Romano rimuginava sopra le casse da frutta da tutta la giornata. Sì, effettivamente sembrava che tutto procedesse senza particolari intoppi per la sorella: Alice lavorava ormai da una settimana nella fabbrica Beilschmidt e ritornava a casa ogni giorno più entusiasta, preparava la cena per lei e Romano e iniziava a raccontare con allegria e spensieratezza la sua giornata, miracolosamente priva di particolari guai; sembrava aver trovato serenità e di questo Romano non poteva essere più felice. Eppure qualcosa dentro di lui lo rendeva inquieto, sospettoso, ansioso, come se quella situazione portasse verso una strada colma di difficoltà.

«Romanito…?»

«Eh…?», fece distratto. Una signora lo stava fissando perplessa.

«I pomodori…»

«Ah», riprese quasi risvegliandosi, «scusi, ecco a lei!»

«Che cos’hai, sembri assente oggi», chiese Antonio.

«Non ho niente!», si affrettò a servire la cliente e a sistemare le verdure rimanenti, senza guardarlo.

«Forse dormi poco!», riprese lo spagnolo sorridendo, poi si fece impensierito, «Non sarai malato…» e alzò la mano per poggiarla sulla fronte di Romano.

Il ragazzo si tirò indietro di colpo, non meno rosso dei pomodori che aveva appena venduto, come se fosse stato percorso da una scarica elettrica. «Ti ho già detto che sto bene! Non c’è bisogno che mi tocchi!».

Antonio ritrasse la mano, mortificato; abbassò gli occhi, «Scusami…»

«Sei un po’ troppo apprensivo per i miei gusti…»

«È solo che ho a cuore la tua salute! Mi pare legittimo»

«E perché?»

«Perché tu sei il mio prezioso … ». Romano iniziò a sudare freddo e divenne ancora più rosso.

«… aiutante!». Ovvio. Cos’era se non un semplice aiutante.

«Comunque sto bene … ero solo sovrappensiero»

«Tranquillo», disse Antonio, «lo so che sei preoccupato per la tua sorellina». Non sembrava essersela presa troppo per prima, ritornò a sorridere. «Anche tu però mi sembri un fratello un po’ troppo apprensivo, Romanito!»

Romano sbuffò. «Non ho nulla per cui essere preoccupato», iniziò, «Alice lavora tranquilla, non si è mai lamentata per nulla, anzi sembra entusiasta». Riprese ad allineare una vicino all’altra sul banco le cassette, con energia ritrovata. «Ogni sera dopo cena mi fa la rassegna completa di fatti e antefatti della sua interessantissima attività lavorativa: ho imparato a scrivere a macchina, ho chiacchierato col custode, ho sistemato uno scaffale, ho fatto il caffè e soprattutto…»

«Cosa?»

«… il signor Ludwig!!», proruppe con gli occhi rabbiosi, dando uno strattone non tanto gentile a una povera cassetta di patate innocenti. «Il signor Ludwig mi ha detto, il signor Ludwig ha fatto, il signor Ludwig ha pensato, il signor Ludwig qua, il signor Ludwig là, il signor Ludwig un gran paio di p … !»

«A quanto le carote?», chiese una signora.

Romano si morse la lingua imbarazzato, mentre Antonio serviva la cliente, sghignazzando. La donna prese la sua spesa e si affrettò ad andare via, gettando di quando in quando sguardi fra lo scandalizzato e l’offeso a quel maleducato di un ragazzo.

«Senti un po’, bastardo…», fece dopo un po’, «sia chiaro che non è un’idea mia ma… Alice ti vuole invitare a cena»

Antonio sgranò gli occhi. «Vuole invitare me?»

«Vuole ringraziarti per averle trovato il lavoro da quel crucco… »

«Sono commosso, accetto con piacere!», rispose subito ilare, «Una cena a casa Vargas…un onore!»

«Bada che io non c’entro niente con questa iniziativa, ha deciso tutto lei», si affrettò ad aggiungere Romano, «non abbiamo mai ospiti a cena e non ci tenevo proprio ad abbandonare la tradizione!»

V

Dopo solo una settimana di lavoro in fabbrica Alice si poteva dire che aveva imparato quasi tutto: ormai non era più impacciata ed insicura, sapeva perfettamente dove trovare documenti e materiale che le occorreva senza dover chiedere al signor Beilschmidt, svolgeva diligentemente e con piacere i compiti che di volta in volta le venivano richiesti e si mostrava gentile e competente con fornitori ed operai.

Il signor Beilschmidt, o Ludwig come era diventato per Alice, si limitava ad annuire al lavoro fatto, apparentemente senza emozioni, qualche volta senza neanche alzare gli occhi dalla scrivania, ma le rare volte in cui diceva «Ben fatto» o «Grazie» il cuore di Alice brillava di gioia. Quel giovane tedesco aveva qualcosa di diverso da chiunque avesse mai conosciuto, lo aveva notato fin dal primo giorno, qualcosa di buono e triste e sensuale e forte e tenero in quegli occhi che sembravano non posarsi mai su nessuno. Ad Alice piaceva.

«Buongiorno, signor Lud… Beilschmidt!», salutò altisonante.

Lui come al solito era arrivato in ufficio prima ed era già affaccendato sopra una pila di fogli che sembravano attirargli molta attenzione.«Buongiono, signorina Vargas», rispose distrattamente.

«Ha visto che bella giornata oggi, c’è un sole splendido!». Si diresse verso l’ampia finestra e ne scostò le tende serrate; una calda luce gioiosa e rassicurante inondò la stanza. Al signor Beilschmdt la cosa non sembrò dispiacere più di tanto visto che si limitò a battere un po’ gli occhi per abituarli alla luce, senza dire niente.

«Ha del lavoro importante da finire? Le serve una mano?»

«Momentaneamente no…», rispose l’uomo senza alzare gli occhi dai documenti che stava leggendo.

«Allora…», fece Alice pensando, «posso… farle un caffè?». Beilschmidt la guardò: era ormai assodato che il caffè italiano stava diventando una dipendenza non indifferente per il tedesco, soprattutto da quando aveva scoperto che la sua giovane collaboratrice era particolarmente abile nel prepararlo.

«Un caffè lo gradirei, in effetti». Lieta di essere utile Alice si mise subito al lavoro, accendendo un piccolo fornello che si trovava nell’ufficio stesso e sistemando zuccheriera e tazzine su un vassoio.

Beilschmidt sistemò ordinatamente i fogli su cui stava lavorando e li mise da un lato, poi alzò improvvisamente dalla sua sedia e si diresse alla porta. «Mi assento un attimo, torno subito»

Alice fece un cenno d’assenso e continuò il suo lavoro. Diede una rassettata veloce alla stanza e alla scrivania e gettò un’occhiata sui fogli, probabilmente doveva essere qualcosa di importante se il signor Ludwig sembrava così preso. Fu richiamata ai suoi doveri dal rumore gorgogliante della caffettiera; la mise sopra il vassoio e soddisfatta si accinse a sistemarlo sulla scrivania del suo datore, così che trovasse tutto pronto.

Non ci è concesso sapere con quali magiche arti riuscì a compiere quanto segue ma, in un lasso di tempo infinitesimale, Alice inciampò su qualcosa di invisibile (o più verosimilmente su sé stessa) facendo finire disastrosamente caffè, caffettiera e zucchero sulla linda scrivania del signor Beilschmidt. La ragazza ci mise qualche secondo a realizzare quello che aveva combinato: i documenti su cui stava lavorando Beilschmidt giacevano lì, completamente inzaccherati di caffè bollente, altre chiazze erano sparpagliate su penne, agende e quant’altro si fosse trovato alla portata della furia di quella rovinosa caduta, compreso un cappotto appoggiato sullo schienale della sedia. Ecco, era fatta anche questa volta; una settimana era fin troppo. Alice non ebbe neanche la forza di alzarsi e tentare di pulire alla bell’ e meglio, rimase seduta sul pavimento a guardare attonita quello che aveva combinato, scoppiando in un pianto dirotto.

In quel mentre rientrò Beilschmidt. Appena vide Alice per terra, scossa dai singhiozzi, si precipitò su di lei. «Mein Gott ! Signorina, cosa è successo?!»

«Mi dispiace, mi dispiace…», riusciva solo a dire, «volevo solo preparare del caffè!»

Il ragazzo si guardò intorno, avvertendo l’odore fra il dolciastro e l’amarognolo della bevanda e come era finita sulla sua scrivania.

«Mi dispiace, sono scivolata e… se mi vuole licenziare la capisco!»

Ludwig la guardò per un attimo e la aiutò ad alzarsi porgendole una mano: «Licenziarla? Non le sembra di esagerare?»

«Ma… i documenti che stava leggendo sono rovinati, erano importanti!»

«Affatto, erano solo vecchi conti che analizzavo per stimare i profitti dell’azienda negli anni passati»; doveva confessare che, benché lei continuasse a singhiozzare, asciugandosi gli occhi, quella scena lo aveva quasi divertito e… intenerito. «Non è successo niente. Si è fatta male?».

Alice scosse la testa, lo guardava come trasognata. «Davvero non vuole licenziarmi?»

«Non ne vedo il motivo, per un’inezia simile», rispose tranquillamente, «lei è troppo emotiva, signorina».

«Il fatto è che… sono una pasticciona», disse e ripensò a tutte le volte che i suoi datori i lavoro, esasperati, l’avevano mandata via.

«È un’ottima collaboratrice. Ora ripulisca tutto e si metta al lavoro».

Da quel giorno cambiò qualcosa di impercettibile in Alice. Adesso era ancora più convinta della necessità di mantenere a tutti i costi quel lavoro; non avrebbe resistito a non vedere più il signor Ludwig.

NOTE

(1)Buongiorno signor Beilschmidt… io sono la nuova segretaria!

(2)Sono lieta di fare la vostra conoscenza.

(3)Dio mio!

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Capitolo 4
*** Cap. III ***


Sì, sono ancora viva e non mi sono dimenticata di questa fan fiction. Mi scuso ancora una volta per il ritardo ma, purtroppo o per fortuna, non ho in questo periodo molto tempo a mia disposizione. Ma, per tutti coloro che mi seguono: non preoccupatevi, Buongiorno, Trieste! continuerà e verrà conclusa sicuramente, quindi spero vogliate continuare a seguirla! Per commenti, domande, richieste, critiche e insulti… fatevi avanti!

Grazie a tutti e perdonate gli eventuali errori! Buona lettura

Cap. III

I

Anche quella sera Alice era allegra; stava trafficando affaccendatamente in cucina canticchiando a mezzavoce un motivetto incomprensibile: «Disegna un cerchio è la Terra! Stai un po’, questa è la Terra! Ah, un mondo favoloso che si può vedere con un pennello…»

Romano, accanto a lei, tagliuzzava verdure e la guardava perplesso di tanto in tanto. «Ma dove l’hai trovata questa canzonetta assurda?»

«Non lo so, mi risuona sempre in testa! Qualcosa dovrà pure significare»

«…»

«Oh, Romano sei ancora con quei peperoni? Il signor Carriedo sarà qui a momenti.»

«Pfui», sbuffò Romano, «guarda che non c'è bisogno di premurarsi tanto per quello lì, non ho ancora capito perchè ti è saltato in mente di invitarlo a cena».

«Perchè è stato lui a raccomandarmi al signor Ludwig, e di questo gli sarò grata per sempre!»

A Romano vennero stranamente dei brividi. «Fai che vuoi...», disse, «e comunque fai con calma, figurati se quel bastardo arriva puntuale».

In quel momento esatto si sentì un fragoroso scampanellìo proveniente dall'ingresso. «Deve essere il signor Carriedo!», esclamò la ragazza e si diresse di corsa ad aprire la porta. «Buonasera, benvenuto nella nostra ca...».

Alice ammutolì per la sorpresa. Chissà perchè aveva sempre immaginato lo spagnolo che lavorava con il fratello come un signore di mezz'età un po' burbero e scostante, un padrone severo del quale Romano si lamentava spesso, lo "spagnolo bastardo" appunto. Invece si trovò di fronte un bel ragazzo dal viso fresco e aperto e con un sorriso gentile; la simpatia che provò a pelle per lui fu subitanea.

«Tu sei Alice, vero?», chiese l'ospite, «Piacere, io sono Antonio Fernandez Carriedo; Romano non mi aveva specificato di avere una sorellina così graziosa!»

Alice arrossì, ancora di più quando le porse un piccolo mazzo di fiori. «Solo un pensiero per ringraziarti della tua gentilezza!»

Arrivò Romano, visibilmente irritato.«Cerca di fare poche chiacchiere ed entra! I fiori non erano necessari...»

«Scusa Romanito, la prossima volta li porterò anche a te se ci tieni!», e rise.

Seppur non più ricchi Alice sapeva come ricevere adeguatamente un ospite così lo invitò ad accomodarsi nel salotto e sistemò il mazzettino di fiori in un piccolo vaso.

«Grazie, signor Carriedo, è un piacere averla con noi! La ringrazio per tutto quello che ha fatto, se non fosse stato per lei...», iniziò cerimoniosa Alice.

«Ma di niente! Questo e altro per la sorellina di Romano e poi, ti prego, chiamami Antonio e dammi del tu!»

«Antonio, allora...Puoi accomodarti, la cena sarà pronta fra poco, intanto Romano ti farà compagnia», disse, facendo un gesto al fratello che intanto aveva assistito a quei convenevoli in modo manifestatamente irritato.

Rimasti solo con Antonio però iniziò a sentirsi in imbarazzo: al di là del lavoro non si erano mai frequentati, non avevano mai avuto il tempo di sedersi a fare una chiacchierata aspettando la cena, senza contare che Romano non era tipo da saper intrattenere gli ospiti e cose del genere. Per un attimo scese un silenzio imbarazzante.

La casa aveva mantenuto una patina dell'antica raffinatezza borghese che un tempo l’ aveva contraddistinta, le tende di pizzo, i mobili antichi, i soprammobili, le cornici con ritratti e le vecchie foto di famiglia collezionate sopra le mensole, le foto che più di una volta nella giornata i due fratelli si fermavano a guardare. Fu a queste che si diresse Antonio con sguardo incuriosito.

«Mi piacciono le foto; questi siete tu ed Alice?»

«Sì, sono vecchie foto», rispose Romano, sollevato da un lato di avere almeno un diversivo di cui parlare, ma dall'altra infastidito che fosse proprio riguardante la sua famiglia.

«Ah, ah! Da piccoli vi somigliavate, che teneri! Avete anche lo stesso ricciolo ribelle!»

«Già...»

«E lei chi è?». Era il ritratto ovale di una giovane donna con lunghi capelli castano scuro e splendidi occhi neri, aveva uno sguardo che lasciava trasparire grande fermezza di carattere ma anche fragilità; i suoi occhi sembravano voler penetrare il cuore di chi la guardava. Antonio non ci mise molto a riconoscere negli occhi di quella bellissima donna quelli di Romano. «Tua madre?», si rispose anticipando Romano.

«Sì, era mia madre», rimandò il ragazzo, spostando lo sguardo dal ritratto e allontanandosi. Voleva chiudere quella conversazione.

«Era davvero splendida!» esclamò con rispettosa e sincera ammirazione lo spagnolo. «Ti assomigliava...», aggiunse poi. Romano arrossì di colpo: era un complimento? O forse una semplice osservazione senza fini?

«Lo dicono in molti. Alice invece somiglia più mio padre, anche caratterialmente».

Pregò che Alice avesse finito con quella maledetta cena. Forse lo spagnolo gli avrebbe chiesto dove erano i loro genitori, come fossero morti, altre domande sulla sua famiglia a cui Romano non voleva rispondere; invece non chiese nulla, si limitò ad annuire leggermente sulla foto e si risedette sul divano.

«La cena è pronta!», squillò una voce proveniente dalla sala.

Le ore che seguirono trascorsero veloci e piacevoli; Alice e Antonio si mostrarono trovarsi immediatamente d'accordo e passarono la serata a ridere e chiacchierare come vecchi amici; erano a quanto pare anime affini.

«Complimenti, era tutto squisito! Era da tempo che non mangiavo così bene, sei una cuoca eccezionale!»

«Grazie, ma mi ha aiutato anche Romano! Sai, anche a lui piace molto cucinare», rispose Alice rivolgendosi al fratello, che era rimasto per un'ora buona in silenzio a rimuginare su come facessero quei due a fare da soli tutto quel rumore, per giunta con la bocca occupata nel mangiare.

«Io non sono molto portato invece, a casa mia l'unica che si diletta ai fornelli è mia sorella»

«Oh Antonio, hai una sorella?»

«Sì, ho anche un fratello»

«Davvero?! E dove sono?»

«A casa, in Spagna, con i nostri genitori»

Antonio con dei fratelli, dei genitori, una casa in un paese lontano.

«Come vivevi in Spagna prima di arrivare a Trieste? I tuoi genitori di cosa si occupano?», chiese Alice.

«Alice!», la rimproverò Romano, «fatti gli affari tuoi!».

La ragazza sembrò rimanerci male; «Ma cosa ho detto che non va...?»

«Ma niente!», si affrettò Antonio, «non mi hai chiesto niente di male!». Eppure sembrò cercare con più cura del solito le parole da pronunciare: «I miei hanno...dei terreni, campi da coltivare...»

«Ah, dei contadini!», esclamò Alice realizzata.

Lui annuì con un sospirò quasi sollevato.«Sì, sono dei contadini...»

Antonio con dei fratelli, con i genitori contadini, una famiglia semplice che coltivava la terra, magari proprio pomodori, sotto il sole cocente della Spagna. Nella mente di Romano, a tasselli, stava prendendo forma la figura del ragazzo con cui lavorava. Probabilmente aveva vissuto un'esistenza serena e semplice ed era partito per l'Italia in cerca di fortuna, come molti altri.

«Parlami della tua casa Antonio!», continuò Alice.

Antonio non rispose, si limitò a sorridere ma con una soffusa malinconia nello sguardo. Rimase per un attimo in silenzio.

«Non ho molto da raccontare...».Sembrava stesse per dire qualcosa, lentamente, ponderatamente, come se volesse cercare le parole giuste per qualche concetto inesprimibile. Romano lo fissava. Non capiva perché poi avrebbe dovuto avere una qualche curiosità sul passato di Antonio, un passato probabilmente ordinario e addirittura noioso.

«Ah! Stavo per dimenticarmene!», esclamò Alice d’u tratto. Corse in cucina e tornò un momento dopo, soddisfatta, con una torta dall’apparenza soffice e dorata. «Mancava il dessert, è una torta di mele».

«Ma che perfetta ospitalità», fece Antonio estasiato alla vista del vassoio, «hai addirittura preparato il dolce!»

«Non l’ho fatta io…»

«Alice, non…»

«…è stato Romano!».

Due occhi verdi, stupiti e divertiti, si posarono sopra di lui. «Romano è bravissimo a preparare dolci e ti ho detto che sa anche cucinare molto bene! La sua salsa di pomodoro è squisita e non ti dico come fa la pizza!»

«Guarda, guarda…un aspetto che non avrei mai pensato in lui», disse Antonio, mentre il ragazzo era ormai rosso dall’imbarazzo.

«L’ho solo aiutata per fare più in fretta», fece, «e per evitare che combinasse troppi guai in cucina».

«Che ragazzo encomiabile!», disse con leggerezza lo spagnolo, accettando prontamente la sua porzione di dolce, «gran lavoratore, fratello responsabile, abile cuoco e bellissimo… beata colei a cui darai il tuo cuore!». Romano, che stava sprofondando, venne infossato ancora di più con quella.

«Ah, è vero! Romano, secondo me saresti un marito perfetto!», rispose Alice, «Antonio, mio fratello non ha ancora una fidanzata, è troppo timido, non conosci una bella ragazza da presentargli?»

«Va bene, Alice, basta così adesso!»

«Non molte, ma potrei chiedere al mio amico Francis, a lui le ragazze non mancano di certo; ti ricordi Francis, vero Romano?»

«Non mi interessa ness…»

«Oh, sì Antonio ti prego! Trovagli una bella fidanzata! Ho sempre desiderato avere una cognatina!»

«Se vuoi organizzo un’uscita, a Francis e Gilbert sono sicuro che farebbe piacere riveder…»

«Ma porc…!», sbraitò furibondo Romano, «ingurgita una volta per tutte quella maledetto pezzo di torta e strozzatici!!». E si alzò d’un tratto a sparecchiare, scappando prontamente in cucina.

«Mi ha fatto immensamente piacere conoscerti Antonio», disse Alice, allo stipite della porta d’ingresso, a conclusione della serata, «dobbiamo assolutamente rivederci!»

«Sicuro! Ma la prossima volta Romano dovrà farmi assaggiare la sua pizza»

«Contaci…», sputò a mezzavoce.

«Allora arrivederci; ho passato una piacevolissima serata», salutò lo spagnolo.

«A presto!»

«E prendi questa strada qui dietro, fai prima ad arrivare…», aggiunse Romano, …e fai prima a toglierti di torno, pensò.

«Che ragazzo carino!», sentenziò convinta Alice, salutando ancora una volta la figura dello spagnolo che si allontanava, «sono contenta che sia tuo amico».

«Io e lui non siamo amici», si affrettò a precisare il fratello, «semplicemente lavoriamo insieme».

«Non ti piace?»

«No che non mi piace!»

«A me sì…e secondo me anche a te!», e sorridendo rientrò in casa.

II

Eravamo a marzo e con l’arrivo della primavera le giornate fredde e piovose vennero scacciate dal leggero sole della bella stagione, il tempo si rischiarò fino a mostrare il terso colore del cielo e l’aria divenne frizzante e leggera. Era la stagione preferita di Alice, che poteva finalmente dedicarsi a lunghe passeggiate con Elizabetha, nel tempo libero, come era loro abitudine. Il sabato, giorno libero dal lavoro, di solito ne approfittavano per andare al mercato o a fare un giro per i negozi.

«E allora ti ha permesso di rimanere in fabbrica?», chiedeva Elizabetha, visibilmente incuriosita.

«Sì», annuì convinta Alice, «avresti dovuto vedermi, ero tutta sporca di caffè, ma lui è stato gentile; mi ha detto che sono un’ ottima impiegata e che sarebbe bastato stare più attenta a non farmi male! Il signor Ludwig è davvero un signore gentile!», ripeteva trasognata. Ormai i loro discorsi vertevano principalmente sulla vita lavorativa di Alice ed Elizabetha, sicuramente meno ingenua, aveva subodorato già da un po’ di tempo come stessero le cose. Ormai conosceva Alice da troppo tempo, erano praticamente cresciute insieme, e si intenerì a capire i sentimenti dell’amica prima che ci riuscisse lei stessa. «E Romano di tutto ciò che pensa?», chiese, con una punta di preoccupazione.

«Cosa dovrebbe pensare, è felice che mi trovi bene al lavoro…».

«Ed è felice anche che parli continuamente del signor Ludwig con quell’aria imbambolata e le pagliuzze negli occhi?», aggiunse Elizabetha con malizia.

Alice avvampò. «Co…cosa vuoi dire?! Mi sembra normale provare rispetto per il proprio datore di lavoro!».

«Sì, sì, rispetto», rispose, «a proposito, guarda, non è Romano quello laggiù?». Le ragazze camminando erano arrivate al mercato centrale che di sabato mattina era particolarmente gremito di gente; da lontano scorsero proprio Romano intento a parlare con una coppia di giovani e Antonio.

«Grazie ma non mi interessa uscire con voi…», diceva Romano, facendo finta di preoccuparsi di sistemare meglio le zucchine.

«Ma come, Antonio diceva che volevi una ragazza», lo scherniva Francis, «te ne presenterò quante ne vuoi!». Romano non ci vide più: «Sarebbe meglio che voi e quel dannato spagnolo bastardo vi facciate gli affari vostri se non volete trovarvi questa infilata in punti inconsueti!», sbraitò agitando una zucchina.

«Romanooooo!!», cantilenò Alice agitando la mano da lontano.

«Che ci fate voi qua?»

«Che domande», rispose Elizabetha, «siamo venute a fare la spesa! Tu che ci fai con quella zucchina in mano piuttosto?». Romano poggiò delicatamente l’ ortaggio insieme ai suoi simili.

«Alice, che piacere rivederti!»

«Ciao Antonio!». I soliti convenevoli, mentre il depravato e il buzzurro fissavano un po’ troppo marcatamente e sospettosamente le due fanciulle.

«Oh, ma allora il nostro piccolo Romano in fondo conosce l’universo femminile…ed è anche un universo molto grazioso», disse Francis prendendo languidamente la manina di Alice e portandola alle labbra, congelandosi a metà strada quando si accorse che Romano stava nuovamente brandendo la zucchina. «Io sono Francis, piacere…».

Anche Elizabetha era piuttosto risentita. «Cerca di tenere le mani lontane dalla mia amica se non vuoi una padellata in testa!».

I ragazzi scoppiarono a ridere. «Una padellata!?», intervenne Gilbert ridendo sguaiatamente, «cos’è questo, un nuovo modo delle italiane di presentarsi? Più che una ragazza mi sembri un generale d’armata se non fosse per il davanzale che ti ritrovi! Ah, ah, ah!».

Ciò che accadde nei secondi che seguirono fu istantaneo ma agghiacciante. Perché Elizabetha, impassibile, estrasse dalla borsa della spesa una padella. E colpì Gilbert. Un doloroso suono metallico riecheggiò per tutta la piazza.

«Ma da do…dove l’hai tirata fuori?», balbettò Antonio, guardando esterrefatto l’amico che imprecava in lingua non ben specificata.

«L’ho comprata stamattina», rispose la ragazza rimettendo a posto l’arma, «così la prossima volta il tuo amico ci pensa due volte prima di aprire bocca».

III

In pochi mesi l’ufficio del signor Ludwig, prima austero e spoglio, si trasformò grazie ad Alice in una specie di serra. Piante, rampicanti e vasi di fiori vennero piazzati in tutti i buchi disponibili: Ludwig all’inizio sbruffò per quel fastidioso tentativo di ingentilire l’ambiente di lavoro, che andava benissimo anche prima per quanto lo riguardava, ma aveva poi dovuto ammettere che lavorare immerso nel verde non era poi male. Quello che non era ancora riuscito ad ammettere era che neanche la presenza di Alice in ufficio era poi male.

«Le va di fare una pausa?», chiese gentilmente Alice, «le faccio del caffè». Ludwig annuì. Alice aveva ormai capito che il suo capo era piuttosto parco di parole e si alzò a preparare da bere.

«Sa, ho conosciuto suo fratello!», continuò, «è un ragazzo…estroverso…». Aveva ancora in mente la sanguinosa scena a cui aveva dovuto assistere qualche giorno prima, fra bestemmie, giuramenti di odio eterno e vendetta e anatemi lanciati da una parte e dall’altra. Alice, spero proprio per te che il fratello non assomigli a quel bifolco bellimbusto e maschilista!La prossima volta non gli lascerò tutti i denti in bocca! , aveva detto Elizabetha, mai vista così infervorata verso qualcuno. Un’antipatia a pelle…! Certe volte capita fra persone…

«Ehm, sì, mi ha raccontato del suo incontro con lei e con…ehm, la sua amica», rispose Ludwig imbarazzato, «le mie scuse da parte sua. Quel cretino mi ha sempre portato problemi!», aggiunse.

Alice si sorprese a sentirlo parlare così, ma ne era piacevolmente divertita. Era felice che piano piano lui si stesse sciogliendo. Rispetto ai primi giorni, nei brevi momenti di pausa, capitava che chiacchierassero del più e del meno; Alice non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli qualcosa di privato anche se ne aveva grande curiosità, ma anche solo restare così a parlare di bazzecole era per lei piacevole e prezioso.

«Si figuri, anche io ho un fratello maggiore, sa!»

«Sì, ma non credo che suo fratello vada in giro a molestare le signorine facendo commenti poco eleganti…»

«Neanche io però vado a prendere a padellate la gente!», esclamò la ragazza.

Ludwig si mise a ridere, era la prima volta da quando si erano conosciuti. Alice dovette arrossire violentemente perché si sentì un calore improvviso riempirgli il viso e il cuore prese a battere in modo così forte che ebbe paura che lo si sentisse. Non avrebbe mai pensato di avere una reazione del genere solo a vederlo sorridere così. I freddi occhi azzurri di Ludwig presero per un attimo una sfumatura nuova, più calda e luminosa; non aveva mai visto qualcosa di più bello. «Lo faccia ancora…»

«Cosa?», chiese Ludwig riprendendosi.

«Sorrida ancora», rispose, «dovrebbe farlo più spesso».

Ludwig distolse imbarazzato lo sguardo da lei. «Sarà meglio che ci rimettiamo al lavoro!». Alice rimise tutto in ordine e ritornò alla sua scrivania.

«Signor Ludwig?»

«Dica»

«Le piacciono le fiere?».

Ludwig rimase interdetto. «Come prego?»

«Sì, le fiere! Le feste di quartiere, dove portano le giostre, le bancarelle con i dolci e i giocattoli, lo zucchero filato, la banda!».

«Non saprei…non me lo hanno mai domandato. Credo di sì…»

Alice approfittò subito della risposta positiva. «Domenica prossima ci sarà una fiera nel mio quartiere; io e Romano ci andiamo ogni anno, ma questa volta lui è impegnato. Vuole venire lei con me?».

In un modo o nell’altro quella ragazza riusciva sempre a lasciarlo sbalordito. Ludwig boccheggiò un attimo mentre la fissava: le stava proponendo in pratica di uscire insieme. Si rendeva conto di cosa significava uscire da sola con un uomo in pratica sconosciuto, per giunta in pubblico? Si rendeva conto che molti avrebbero potuto interpretare certe proposte in modo quanto meno malizioso o interessato? Evidentemente no, perché continuava a guardarlo con il suo solito sorriso e un’aria talmente ingenua da fargli capire che per lei si trattava solo di un’innocente passeggiata. «Ah, credo che…», balbettò, «credo che sia meglio che finisca quel lavoro altrimenti domenica prossima non avrà il tempo neanche di uscire fuori di casa!»

Alice sorrise soddisfatta e, sorridendo fra sé e sé, si rimise a lavoro. Molte volte quel giorno alzò gli occhi dai suoi conti e fatture e li diresse verso Ludwig, chiedendosi come sarebbe stato vedere ancora una volta il sorriso che lo aveva illuminato qualche ora prima e immaginando di passeggiare insieme a lui in una bella giornata di sole, fuori da quell’ufficio, in mezzo alla musica e ai colori.

Forse si sarebbe sorpresa a sapere che anche Ludwig faceva di nascosto esattamente la stessa cosa.

«Romano, ti devo chiedere un favore»

«No, a prescindere»

«Ti prego, mi sdebiterò!», chiese umile Antonio a mani giunte, «ricordi il contadino che mi porta ogni domenica la frutta direttamente dalla campagna?»

«Sì, e quindi?»

«Questa domenica non può venire, a quanto pare sua figlia si sposa», continuò, «ma ha detto che mi farà trovare la frutta pronta e sistemata nelle cassette se andrò a prenderla io direttamente! Dovresti venire con me, non ti arrabbiare, ma mi serve aiuto»

«E come hai intenzione di portare venti casse di frutta dalla campagna alla città?», rispose con il consueto garbo Romano, «te le carichi in spalla?! Hai intenzione di affittarti un mulo? Perché non c’è scritto mulo sulla mia fronte! E poi di domenica, sei pazzo?! Avevo pure promesso ad Alice di accompagnarla alla fiera!»

Antonio si assorbì eroicamente tutte le sbraitate. «Il mio vicino di casa mi presta il suo carro. Lo so che è domenica ma mi serve davvero, ti pagherò ovviamente». Romano lo guardò. Gli faceva troppa compassione quel cretino: «E va bene… ma mi devi un favore e un mucchio di soldi!»

«Grazie Romanito! E poi, dai, pensa che faremo una bella passeggiata in campagna!»

Romano sospirò. «Alice se la prenderà di sicuro…!»

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Capitolo 5
*** Cap. IV ***


 

Cap. IV

 

Romano si svegliò di buon’ora quella mattina di domenica, lasciando dormire Alice di un sogno che sembrava più sereno del solito; uscì velocemente dal cancelletto, ancora mezzo addormentato, inforcò la sua bicicletta e si diresse pedalando verso casa di Antonio.

Trieste a quell’ora era quasi deserta, ancora non tutte le finestre erano state aperte per far entrare il sole nelle case, i negozi erano chiusi, neanche le campane ancora suonavano per augurare il buongiorno alla città; però, passando dalla grande piazza principale, Romano si accorse che già erano in atto i preparativi per la fiera che sarebbe iniziata il pomeriggio: qua e là c’erano uomini che allestivano bancarelle di dolci, giochi a premi, alcuni decoravano le strade vicine, altri sistemavano giostre e luci. Lui e Alice ci andavano ogni anno, da soli, come una volta andavano accompagnati dai loro genitori, per mano. E a causa di Antonio questa volta l’avrebbero persa! Per fortuna Alice non se l’era presa più di tanto, dicendo che avrebbe proposto ad Elisabetha di andare insieme.

Il piccolo appartamento di Antonio non era molto lontano dalla piazza; era una stanza che si trovava in uno stabile piuttosto malconcio e dimesso, attorno a case popolari quasi in rovina che venivano date in affitto a prezzi stracciati. Nel mal tenuto cortile attiguo Romano vide che il carro che lo spagnolo si era fatto prestare era già pronto, si limitò quindi a bussare sulla porta di legno, prima timidamente, poi con più insistenza quando si accorse che nessuno dava risposta. Con una certa apprensione notò che la porta era aperta: quell’ incosciente non provvede neanche a chiudere a chiave la porta, nel quartiere in cui vive!

Entrò a mezzo busto e guardò dentro; non c’era nessuno ma dalla stanza, da cui lo separava una piccola rampa di scale, gli sembrò di sentire qualcosa. Erano forse bisbigli, sussurri, una specie di cantilena in una cadenza che aveva qualcosa di dolce e, nello stesso tempo, grave. Si avvicinò all’entrata della camera; era arredata in maniera alquanto spartana, con pochi mobili, ma ordinata e pulita; ma quello che colpì Romano fu il piccolo crocefisso sul muro scrostato verso cui Antonio era inginocchiato, e quel bisbiglio cantilenante era la sua preghiera. Il ragazzo lo scorse, ma continuò nella sua preghiera, lanciando uno sguardo bonario che diceva di attendere ancora un attimo.

«…dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui…»

Antonio era lì inginocchiato e pregava. Con un rosario in mano, le labbra che si muovevano piano quasi sfiorandolo, gli occhi chiusi, pregava. Romano si ritrasse imbarazzato, come se si fosse illecitamente insinuato in un momento di intimità profonda, segreta, intoccabile.

«Romanito, sei in anticipo oggi…è una novità!», lo canzonò lo spagnolo, finita la sua mansione e rialzatosi. «Prendo un paio di cose e partiamo subito»

«Scusa…», disse Romano, guardando in basso, senza sapere precisamente neanche lui di cosa si stesse scusando. «Ho visto che la porta era aperta, non avrei dovuto…»

«Ah ah, sì, è un brutto vizio, la lascio sempre aperta! Tanto non entrerebbe mai nessun ladro qui! Hai fatto bene a venire a chiamarmi»

«Veramente…»

«Su, andiamo. Guarda che bella giornata!»

 

II

Ludwig stava aspettando all’angolo dove Romano era solito lasciare la sorella per andare a lavoro. Era stata Alice a dirgli di aspettare lì e ora lui stava appoggiato a un muricciolo, stranamente emozionato e nervoso, a guardare di tanto in tanto in entrambe le direzioni, quasi timoroso di vedere colei che attendeva. Alice arrivò puntualissima; appena scorse la figura alta di Ludwig il cuore le salì in gola: era davvero Ludwig quello che la stava aspettando, era venuto, non l’ aveva presa in giro; avrebbe trascorso con lui un’ intera giornata, senza l’assillo del lavoro, senza doveri, senza orari, senza timori. Illuminato dal sole il viso dell’uomo parve ad Alice ancora più bello, i suoi occhi ancora più brillanti, tutto le sembrava immerso in una nuova meravigliosa luce. Era raggiante di felicità.

«Buongiorno! Sono felice che lei sia venuto!».

 Ludwig fece un cenno col capo, leggermente imbarazzato e confuso. «Signorina», iniziò, « non fraintenda, non voglio dire che non mi faccia piacere passeggiare con lei, ma mi sento in dovere di dirle che potrebbe sembrare sconveniente per una ragazza per bene  proporre ad un uomo un appuntamento…»

Alice lo guardò con uno sguardo sorpreso e interrogativo: «Sconveniente? Fare una passeggiata?»

«Suo fratello sa che oggi lei è qui con me?»

«Bhe, certo che gli ho detto che sono uscita…», in realtà qualcosa le aveva impedito di essere del tutto sincera con Romano e si sentiva in colpa, ma in qualche modo sapeva che il fratello non sarebbe stato contento a saperla frequentare un tedesco, anche solo per amicizia.

Ludwig aggrottò le sopracciglia, senza guardare la ragazza: «Uscire con un uomo quasi sconosciuto potrebbe essere pericoloso, non deve mostrarsi così aperta con tutti… alcune persone potrebbero approfittarsi di lei»

«Ma lei non è uno sconosciuto, signor Ludwig!»

Ludwig la guardò ancora una volta e ancora una volta si rese conto del totale candore e della mancanza di calcolo di quella piccola ragazza di fronte a lui; sarebbe stato preoccupante se questa sua ingenuità si fosse manifestata con le persone sbagliate.

«Cosa vuole iniziare a fare? Dove preferisce andare?», domandò Alice

«Ah…io, non so…»

«Allora andiamo là!» disse, indicando le giostre.

«Vuole salire lì sopra?», chiese perplesso Ludwig. «Sììì, è divertentissimo, deve assolutamente provare!», cinguettò.

Ludwig la seguì, sconfitto. Quel giorno si propose che l’avrebbe seguita ovunque.

 

III

«Ma io perché ti seguo, perchèèè?!?»

«Romano, andiamo…sono cose che succedono». Antonio cercava di placare le ire del suo aiutante, indaffarato a issare sopra al carro le casse di pomodoro precedentemente scese.

«Saremmo già dovuti essere a casa da un pezzo! E invece mi trovo ancora qui a ricominciare tutto il lavoro», continuava Romano. In breve ecco cos’era successo: durante il viaggio di ritorno, dopo aver impiegato una buona porzione della mattina ad arrivare alla campagna e a porre ordinatamente sul carro le casse di verdura, arrivati a una bianca strada cosparsa di ciottoli, proprio in mezzo alla campagna, il carro ebbe uno scossone. In base alle seguenti imprecazioni da parte di Romano, ci volle poco a capire che il problema era alla ruota , che si era mezza svitata dal montante.

«Una cosa da niente, basterà scendere un attimo e fissarla meglio. Ci vorranno al massimo dieci minuti». Sì, ma dovettero prima svuotare il carro, smontarono la ruota, la rifissarono, tastarono la resistenza  e si apprestarono a rifare il carico: l’ora di pranzo, intanto, era passata da un pezzo.

«Dio, sono esausto!», esclamò Romano con voce sfinita, caricando l’ultima cassa. «E sto morendo dalla fame!!»

«Ho portato qualcosa da mangiare, possiamo sederci un po’ e riposare»

Normalmente Romano avrebbe declinato frettolosamente l’offerta, desideroso solo di tornarsene a casa il più presto possibile, ma stavolta era troppo stanco e affamato per lamentarsi; non vedeva l’ora di sedersi e addentare un panino. E poi, doveva ammettere, il posto in cui si trovavano, fra verdi prati verdeggianti e fioriti illuminati dal sole, non era del tutto spiacevole.

«Guarda che bello, Romanito! Siamo fortunati, è proprio una bella giornata!»

«Sì, proprio una bella giornata…», rimandò sarcastico.

Si sedettero all’ombra di un ampio albero. Dopo aver placato i morsi della fame, Romano si tranquillizzò e cominciò a godersi il tepore del riposo, seduto sull’erba insieme a quel buono a nulla di uno spagnolo che quella mattina di domenica lo aveva trascinato fin lì e ora se ne stava beato e sorridente a contemplare quei cazzo di campi.

«Non ti piace la campagna? A me molto!», fece ad un tratto.

«Ci sarai abituato», rispose il ragazzo. Poi, giusto per intavolare una conversazione, «Era grande la proprietà dei tuoi genitori?»

«Mh, dipende cosa intendi per grande, direi non molto»

«Ci lavoravate anche tu ei tuoi fratelli?»

«Chi più chi meno»

Rispondeva come al solito sereno, ma a Romano dava l’impressione di essere come evasivo; strano per uno come lui che chiacchierava fino allo sfinimento quando gli si dava l’occasione. «È da molto che non torni in Spagna?»

«Da un po’ di tempo»

«Quanto?»

«Da quando sono venuto in Italia, da sei anni circa»

Sei anni?! Per sei anni non era tornato a casa? Da sei anni aveva lasciato il suo paese, la sua casa, la sua famiglia per…quello? Lavorare in un mercato?

«Ma…». Romano voleva domandare perché, ma si fermò nel momento stesso in cui, voltandosi, vide lo sguardo del suo amico. Non sorrideva più, continuava a guardare languidamente i campi, ma qualcosa gli disse che la sua mente era in quel momento molto più lontana.

A Romano sembrò il caso di cambiare argomento. Lo sguardo gli cadde su la croce che lo spagnolo portava al collo, ricollegandola a quanto visto quella mattina. Non era una catenina vistosa, ma si era accorto che la indossava sempre, probabilmente doveva essere molto credente.

«Ho notato che la indossi sempre, quella collana», disse.

Antonio sembrò ridestarsi. «Cosa? Ah, questa», fece, traendola dalla camicia, «sì, è molto importante per me; è un regalo da parte di una persona speciale, che mi ha molto amato e che ho molto amato».

Romano trasalì. «Chi?», chiese, con un leggero tremolìo nel tono di cui non si seppe spiegare il motivo.

«Me la regalò mio nonno; è un ricordo che mi lega a lui»

«Tuo…nonno?». La notizia gli fece stranamente piacere.

«Sì», se la tolse facendosela dondolare di fronte, «il giorno della mia Prima Comunione mi chiamò nella sua stanza; all’epoca era già malato e sapevamo tutti che non gli restavano più molti anni da vivere. Era seduto sulla sua solita sedia. «Ho qualcosa per te», disse e mi mostrò la croce. Sapevo che era una collana di valore e per lui molto importante, quando la tirò fuori mi sfavillarono gli occhi. «Wow, davvero nonno, è per me? E la posso tenere?!»

«Certo!» rispose ridendo. «Questo è un regalo che mia moglie, tua nonna, mi fece tanti anni fa, quando ci fidanzammo. Ora io la dò a te… so che tu saprai dargli il vero valore che merita. Spero che con questa Dio possa sempre proteggere il tuo sorriso». Qualche anno dopo morì. Non lo dimenticherò mai, mi ha insegnato e raccontato tante cose, e riuscivo a essere completamente me stesso solo con lui, sentivo che gli avrei potuto raccontare qualsiasi cosa, lui mi avrebbe capito e… perdonato».

Romano vide quello strano sguardo malinconico e intenerito, e nel fondo quasi amaro, che era lo stesso passato negli occhi di Antonio quando, quella sera a casa sua, Alice gli aveva domandato della sua famiglia.

«Deve averti voluto molto bene».

«Sì», rispose. «Vabbe’, lo ammetto, ero il cocco del nonno!»

Romano si concesse una risatina. «Bhe, è una bella collana in effetti»

«Ti piace?», chiese, facendola pendolare.

«Sì»

«Te la regalo»

Romano sbigottì. «Cosa?!»

«Sì, vieni qui», disse lo spagnolo, cingendogliela al collo, sordo alle sue lamentele imbarazzate.

«Ma non la voglio la tua croce!», si agitava, «mi hai appena detto che te l’ha regalata tuo nonno!»

«E adesso la dò a te», rispose Antonio, «così proteggerà la tua felicità!»

 

IV

Nel tardo pomeriggio Alice si ritirò a casa, con l’animo di chi si risveglia a malincuore da un lungo sogno meraviglioso.

Lei e Ludwig avevano trascorso insieme quasi tutta la giornata girovagando fra le bancarelle e le giostre e chiacchierando. Alice come al solito era quella che parlava di più, ma un po’ alla volta anche il ragazzo iniziò a aprirsi e a raccontare qualcosa di sé. «Su quello bianco! Voglio salire su quello!», gridava Alice, mostrando all’addetto alla giostra il cavallo sul quale voleva salire per il giro. «E lei non vuole salire?», chiese rivolta a Ludwig.

«Non l’ho mai fatto e non intendo farlo a questa età», rispose imbarazzato, mentre la gente intorno ridacchiava.

«Come, neanche da piccolo?», fece delusa Alice, «il suo papà e la sua mamma non la portavano alle giostre?»

«I  miei genitori non erano propensi a certi passatempi, ci tenevano piuttosto al rendimento scolastico e ritenevano che il premio migliore fosse la consapevolezza di aver fatto il proprio dovere»

Alice sbuffò: «Uff, ma che pretesto infame per non portare in giro il figlio, dovevano essere una noia!»

«Come, prego?»

«Allora ci salgo io! Lei stia qui, non se ne vada!»

Che ragazza strana, pensava Ludwig, mentre la guardava girare su quel marchingegno di dubbia eleganza, entusiasta ed eccitata come una bambina ad una festa. Certo, forse anche a lui avrebbe fatto bene a ridiventare bambino ogni tanto.

Aveva voluto prendere un cono gelato, ma le era caduto rovinosamente a terra costringendo Ludwig ad andare a comprarne un altro; aveva voluto provare il tiro a segno per vincere ad ogni costo un orrendo gatto obeso di peluche, ma un proiettile di plastica le era finito di rimando in fronte lasciandole un segno rosso. Praticamente era una rovina ambulante attiraguai. Ma per tutto il tempo non aveva mai smesso di sorridere ed essere di buon umore, tanto che Ludwig non potè fare a meno di rilassarsi a sua volta in compagnia di quella buffa e maldestra signorina. Stare con quella ragazza riusciva come non mai a tranquillizzarlo e a fargli sentire quella morbida serenità che da lungo tempo non viveva; proprio lui, conosciuto per la sua austerità e il suo rigore quasi marziale, si era fatto trascinare dalla solarità dirompente e innocente di quella che sarebbe dovuta essere semplicemente la sua segretaria.

Alla fine, a malincuore, Alice si rese conto che si stava facendo tardi e non voleva che Romano tornasse a casa prima di lei. «La devo salutare, torno a casa»

«Se permette la accompagno, non è il caso che torni a casa da sola»

«Non si disturbi, non abito lontano», cercò di declinare Alice.

«Mi lasci fare» e le offrì il braccio, non senza una certa emozione, che Alice prontamente accettò.

Adesso che avevano lasciato il vociare rumoroso e le musiche della fiera e camminavano insieme nel silenzio della strada quasi deserta, l’ imbarazzo di Alice iniziò a farsi sentire. Stringeva il braccio del signor Ludwig, e forse a degli occhi esterni loro due potevano sembrare in quel momento una coppia di innamorati che rientravano da un appuntamento romantico o una giovane coppia perbene che rincasava. Innamorati, ripetè mentalmente Alice, e quella parola la fece arrossire e provare un calore dentro dolcissimo. Fosse lontana fino a domani la mia casa…

«Quindi lei…», iniziò il tedesco, «non ha più i genitori, mi diceva»

«No»

«L’ unico parente che le è rimasto è suo fratello»

«Sì. In realtà avremmo anche un nonno da qualche parte, il padre della mamma, ma non l’abbiamo mai visto. Non so bene cosa sia successo ma credo abbia litigato con i miei genitori», rispose Alice, «peccato, avrei voluto conoscerlo!», sospirò.

«Capisco, quindi bisognerebbe rivolgersi a suo fratello…»

«Per cosa?»

«Dicevo per dire… e», prese fiato un attimo, «presumo non abbia un fidanzato»

«Fidanzato!?»

«Ce l’ha?», chiese deglutendo.

«No!», rispose la ragazza, «una volta Romano ha detto che se si fosse presentato un fidanzato che non gli fosse andato a genio lo avrebbe…cosa ha detto? Ah, sì…lo avrebbe riempito di piombo dove non batte il sole. Ma non ho capito cosa volesse dire».

Solo un verso enigmatico si sentì provenire dal tedesco.

Si salutarono pacatamente di fronte casa. «Ci vediamo domani mattina, signorina»

«A domani, signor Ludwig! Mi sono molto divertita». Lui rispose con un lieve sorriso e un cenno.

Romano per fortuna non era ancora tornato. Chi lo sa, chi lo sa, si ripeteva mentalmente Alice salendo le scale. Si tolse i vestiti e mise il pigiama, si sciolse i capelli e guardandosi così nello specchio della sua stanza ancora si chiedeva, chi lo sa, chi lo sa. Una volta Elizabetha le aveva regalato un fermaglio per capelli bellissimo, ma non lo aveva mai indossato visto che preferiva tenere i capelli raccolti in una pratica treccia, adesso dove era mai finito.

A ben pensarci non stava poi così male con i capelli sciolti, appariva più adulta. Forse.

Ma chi lo sa, si chiedeva, se mi sono innamorata. E guardandosi ancora allo specchio, in una maniera che mai prima d’ora aveva fatto, sorridendo al ricordo del  braccio di Ludwig che aveva tenuto stretto e alla sensazione che gli davano i suoi occhi illuminati dal sole, si diede una risposta.

Quando Romano rientrò lei già dormiva. Nel proprio letto.

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Capitolo 6
*** Cap. V ***


Ecco che vi porto il V capitolo. So di essere molto lenta, ma il tempo che ho a disposizione non è mai molto e cerco di limare e ricontrollare più volte il capitolo prima di postarlo (anche se sicuramente ci saranno qui e lì refusi che mi sono sfuggiti). Ringrazio tutti coloro che, nonostante i suoi molti limiti e difetti, continuano a leggere questa fan fiction e, come al solito, invito chi voglia lasciare messaggi, commenti, recensioni ed insulti a farlo pure; non possono che farmi piacere!

A tutti una buona lettura e alla prossima (spero presto!).

Cap. V

Da qualche tempo a quella parte il comportamento di Alice destava in Romano una preoccupazione non indifferente; non si poteva dire che la sorella fosse triste o spenta ma ultimamente era più tranquilla del solito: guardava trasognata il nulla, sorrideva e arrossiva da sola, spesso la vedeva scribacchiare nel suo vecchio album da disegno, alternava momenti di mutismo sognante ad altri in cui cantava quelle sue ridicole canzonette senza senso.

«Devi credermi, ha qualcosa di strano; rimane imbambolata per ore, non mi risponde quando le parlo, sembra che stia nel mondo dei sogni…il colmo è arrivato ieri sera!»

«Che ha fatto?», chiese Antonio.

«Ha scotto la pasta!», rispose tetramente Romano.

«Oh, Virgen Santa…».

«Ebbene sì, è troppo strana, anche se…». Si fermò dal dire quello che stava pensando in quel momento, ma la verità era che Alice gli sembrava più bella. Anche quella mattina, a colazione, la ragazza aveva una luce particolare negli occhi, un sorriso più incantevole del solito, un aspetto più fresco: forse era l’abitudine che aveva preso di lì a qualche tempo di sciogliere i capelli o acconciarli con nastri e fermagli, e ultimamente metteva più cura nel vestire; avrebbe potuto sbagliare, ma a Romano sembrò di aver intravisto addirittura un filo di trucco. Ma doveva essere una sua impressione. Era sicuramente solo una sua impressione.

Ad Antonio faceva piacere che Romano si confidasse così con lui. «Chi lo sa…», disse, «secondo me è innamorata!»

Romano si girò verso lo spagnolo con sguardo di fuoco, «Inn…amorata?».

Una terribile consapevolezza iniziò a farsi strada nella sua mente. Non sarà…quel tedesco? Quel bastardo, maledetto, lurido mangiapatate, non poteva essere, era da escludere, non la sua sorellina, non Alice!

«Cosa c’è», chiese Antonio, accorgendosi di come l’amico dopo le sue parole fosse sprofondato in un umore nero, «se fosse così dovresti esserne felice, è una bella cosa essere innamorati!»

«Ci sono amori che è meglio che non nascano!»

«Cosa dici, perché?»

«Perché sono amori sbagliati, faranno solo soffrire». La sua mente tornò alle lacrime di sua madre, piangente e disperata, aggrappata a lui e ad Alice, il giorno in cui le comunicarono la morte del marito. Nessuno di coloro a cui voglio bene dovrà piangere più così, pensò quel giorno Romano.

Antonio dal suo canto rimase per un po’ in silenzio, poi si voltò verso l’amico e disse: «Io non sono nessuno per sapere cosa sia giusto o sbagliato, ma credo che nessuna forma d’amore possa essere considerata sbagliata, neanche quella che ti porta dolore. L’amore è l’unica cosa che ti fa sperare che il mondo non sia quella massa di disperazione e ingiustizia che tante volte sembra».

Romano non riuscì a rispondere.

II

Era arrivata l’estate. Il sole che entrava ogni giorno dalle finestre ormai sempre spalancate dell’ufficio del signor Ludwig era splendente e caldo, e questa sensazione veniva accentuata quando un’altra luce ancora più brillante invadeva la stanza.

«Buongiornooo!», cantilenava Alice, ogni mattina e si metteva allegramente al lavoro.

«Buongiorno, signorina…», rispondeva Ludwig, il più delle volte accennando un sorriso. Quel sorriso che aveva sorpreso Alice la prima volta era ora diventato molto più frequente e molto più bello di quanto lei avrebbe creduto. Anche se negli ultimi giorni Ludwig sembrava come agitato da qualcosa di incomprensibile.

L’occasione che aspettava e che nello stesso tempo temeva si presentò al rientro a casa quella sera. «Torna a casa da sola?»

«Sì!», rispose la ragazza sperando nella proposta che sarebbe effettivamente seguita.

«Se non la disturba possiamo fare un tratto di strada insieme, vado da quelle parti». Alice aveva capito che non era vero, e la cosa le fece immensamente piacere.

Camminavano in silenzio già da un po’ quando lei si rese conto che Ludwig, rosso in viso, sudava copiosamente e si asciugava continuamente con un fazzoletto ormai fradicio.

«Fa caldo, vero?»

«Oh sì, moltissimo. Non ho mai sentito tutto questo caldo», commentò lui; poi prese coraggio: «Sa, ho ricevuto giorno fa una lettera di mio padre dalla Germania».

«Oh, mi fa piacere! Non lo sentiva da molto? Sta bene?» rispose Alice come se si fosse trattato di un suo parente o conoscente.

«Non è per questo, lui mi ha proposto di tornare per un breve periodo in Germania per…», si schiarì la voce, «farmi conoscere una giovane donna che, a suo parere, sarebbe per me la moglie ideale. Non so perché ma si è convinto sia arrivato il momento di sposarmi».

Ad Alice si fermò il cuore. «E lei cosa ha risposto?»

«Ho rifiutato»

«Perché?»

«Gli ho scritto che ho già chiesto la mano ad una ragazza di cui mi sono innamorato e di cui attendo la risposta, e che quindi non avevo intenzione di sposare nessun altra fuorchè lei». Conciso, chiaro, diretto, esattamente come lui.

Quella strada inondata dalla luce del sole d’estate, che solo perché era insieme a Ludwig, sembrava il paradiso, si trasformò per Alice in un buio, freddo tunnel in cui ogni attimo passato divenne una tortura.

«Oh, i miei…i miei più sinceri auguri, signor Beilschmidt», riuscì a trarre fuori dalla gola, in uno spasmo.

Innamorato di una ragazza a cui aveva chiesto di sposarsi, forse era una di quelle belle donne tedesche, bionde e flessuose, eleganti e raffinate che ogni tanto vedeva passeggiare per la città, una donna che avrebbe fatto una magnifica coppia con lui. Cosa poteva aspettarsi allora lei, piccola e insignificante, goffa e petulante, che non sapeva far altro che piagnucolare e macchiare un intera stanza di caffè bollente. Eppure, perché adesso un dolore così forte le serrava il petto e la gola, tanto da non farla quasi respirare, perché non voleva far altro che arrivare il prima possibile a casa? Perché, nonostante il caldo di quel giorno, lei sentiva un freddo insopportabile attanagliarle il cuore?

«Spero che lei accetti la sua proposta, spero…», e non potè fermare le lacrime e i singulti, «spero che sia felice, perché…signor Beilschmidt, lei merita di esserlo e io…io sono…».

Ludwig si maledisse mentalmente e maledisse come fosse riuscito, nonostante le sue intenzioni, a farla scoppiare a piangere; niente da fare, non ci sapeva fare con i rapporti umani.

«Ma no, non ha capito niente! Aspetti!», e agitato la fece sedere su una panchina a un lato della strada. Vederla piangere a causa sua gli strinse il cuore; con uno sforzo che dovette sembrargli inumano le prese una mano fra le sua, grandi e tremanti. Cercò di guardarla negli occhi, sempre con voce fremente e agitata: «Io non sono bravo a dire le cose e non so come trattare con le persone, alla fine risulto sempre freddo o addirittura minaccioso, quindi questa non sarà una dichiarazione molto romantica».

Alice lo guardava con gli occhi ancora pieni di lacrime. «Quindi, ecco…», frugò nelle tasche nervosamente tirandone fuori una scatolina di velluto. «La ragazza di cui parlavo prima era lei… insomma, non so come si dice in italiano ma…Ich Liebe Dich! ».

Visto che Alice continuava a fissarlo muta, con i grandi occhi sgranati e stupefatti, reputò di dover essere più chiaro e, trattenendo il respiro, convogliando tutto il coraggio che stava abbandonandolo, ricercando le parole più adatte, buttò d’un fiato: «È riuscita a dare alla mia vita quella luce e quel calore che da troppo tempo mancava e che ho provato solo nei momenti in cui ho camminato al suo fianco… vuole continuare a camminare insieme a me per tutta la vita?»

Alice lo fissava ancora agghiacciata.

«Lei mi vuole rendere le cose ancora più difficili», sospirò disperato Ludwig. Stava iniziando a rilasciare la tensione accumulata: «Per favore dica qualcosa, qualsiasi cosa! Le sto dicendo che la amo…Ich Liebe Dich! ICH LIEBE DICH!!», gridò ormai esasperato e con la mente piena di emozioni sconosciute e per lui ingestibili.

Alice fece un micromovimento.

Sicchè Ludwig si aspettò che accadessero due cose: la prima, la più terribile, era che la giovane non accettasse, rifiutasse garbatamente la proposta dimostrandogli di aver equivocato, o peggio scappasse scandalizzata; la seconda era che, guardandolo teneramente ma timidamente negli occhi, annuisse silenziosamente mentre lui emozionato le metteva il semplice anello al dito. Be’, non accadde niente di ciò. Perché appena pronunciata l’ultima sillaba Alice tirò a sé Ludwig, premendo le labbra sulle sue, senza nessuna apparente intenzione di lasciarlo.

«Signorina, non..», annaspò lui, dopo un primo momento di languido abbandono, cercando imbarazzato ma a malincuore di divincolarsi, «non in mezzo alla strada!»

«Non sono più una signorina per te, sono Alice», rispose lei tenendoglisi ancorata, «e tu sei il mio Ludwig!»

III

La mattina di qualche giorno dopo, Alice si avvicinò al fratello con l’atteggiamento di chi sta il cercando il momento buono per parlare. «Romano, devo parlarti di una cosa»

«Adesso no, devo andare a lavorare», rispose Romano ormai quasi alla porta.

«No, preferirei stasera»

«Stasera ho da fare, è urgente?»

Alice lo guardò confusa per un attimo: da quando in qua suo fratello aveva da fare di sera? «Dove devi andare?»

«Quel bastardo spagnolo mi ha estorto la promessa di uscire insieme a lui e quegli esagitati dei suoi compari… »

La ragazza si illuminò di eccitazione. «Ah, Romano! Sono così contenta che tu abbia trovato degli amici! Lo sapevo che frequentare Antonio ti avrebbe portato soltanto bene. L’ho capito subito che eravate amici per la pelle!!», esclamò entusiasta e in movimento, dimentica della delicata notizia che aveva intenzione di riferirgli.

«Non sono affatto amici!», si affrettò di sottolineare, «mi ha costretto, e io per zittirlo una volta per tutte ho accettato. Ma non ti preoccupare, ho intenzione di tornare più presto che posso!»

In realtà le intenzioni di Romano avevano un doppio fine; aveva capitolato solo perché Antonio si era lasciato scappare l’eventuale presenza, quella sera, del fratello mangia patate maggiore, ovvero quell’onnipresente “signor Ludwig” che tanta preoccupazione stava iniziando a dargli. Voglio vedere in faccia e di persona questo crucco e sincerarmi che davvero i miei sospetti siano infondati… quando capirò che non è possibile che Alice abbia coinvolgimenti di qualsiasi tipo con quel tizio mi sentirò molto meglio.

«Vee, allora vai pure, fratellone! E divertiti, ti parlerò dopo!»

Quella sera, dopo aver sistemato il banco al mercato, Antonio e Romano si diressero al centro. Si trovarono ad una locanda che a quanto pare i tre amici frequentavano spesso. Era un posticino grazioso, dovette ammettere Romano, frequentato a prima vista da universitari, forse intellettuali, dove si beveva e mangiava in compagnia di un’orchestra molto simpatica. Credevo mi portasse in qualche bettola da ubriaconi, pensò.

«Guarda guarda», disse ironico Gilbert, «stasera anche il nostro triestino preferito ci onora della sua presenza!»

«Certo, buonasera Gilbert», rispose Romano non meno velenoso, «il tuo bernoccolo da padellata è guarito? La botta è risuonata per tutta la piazza, si vede che la padella ha colpito qualcosa di cavo»

«Taci, moccioso!», lo zittì, «tu e quella piccola gallina da combattimento! Certo che ha un bel caratterino», e ripensandoci si massaggiò il punto sulla testa dove era stato colpito. Peccato, perché se quella vipera non fosse stata così petulante e violenta, sarebbe stata persino carina; ci stava facendo giusto un pensierino prima della padellata.

«Non fare il solito», lo ammonì Francis, «e poi a me Romano piace molto! Vedrai, ti divertirai stasera!»

Con una rapida occhiata l’italiano controllò che ci fosse anche qualcuno di simile ad un tedesco con la compagnia, ma non era con loro a quanto pare.

«Gilbert, tuo fratello non è venuto», chiese Antonio.

«Macchè! Non è voluto uscire, ultimamente vive in un mondo tutto suo! Trieste lo ha rimbambito!»

Dannazione, sono venuto per niente! , pensò Romano.

«E lei invece è arrivata?», chiese a un tratto Antonio, guardandosi intorno.

«Oh, oui, ci sta aspettando al tavolo; guarda, proprio laggiù!» e Francis indicò il tavolo dove era seduta una ragazza che guardava nella loro direzione e agitava una mano. Era molto carina, alta, formosa, con morbidi capelli biondi e vispi occhi verdi; Romano si dimenticò dell’odiato e sconosciuto tedesco.

«Antonio! Ciao, sono felice di rivederti!», esclamò lei.

«Anche io, sei sempre più bella!», rispose, «vi presento: lui è Romano, lavora insieme a me; Romano lei è una nostra amica, Anri!»

«Piacere!», disse lei, manifestando un indubbio accento francese.

«Ah, ehm, piacere», rispose emozionato il ragazzo. «È francese?», chiese poi di parte ad Antonio.

«No, è belga! (1)», disse, «Lo avevo promesso a tua sorella, che ti avrei trovato la fidanzata!»

«Cosa vuoi dire, che l’hai portata per presentarla a me?!!»

«Io ti ho semplicemente invitato a una chiacchierata fra amici, poi suppongo possa accadere di tutto…», fece serafico lo spagnolo.

«Bastardo…»

«Ah, ah! Non ti piace?»

«Chi?!»

«Anri, secondo me formereste una coppia perfetta! È bella!»

Sì, era bella, molto bella, questo Romano lo doveva ammettere. E più volte quella sera, mentre i quattro amici bevevano e ridevano fra loro delle vecchie avventure e disavventure di cui Romano non poteva far parte, si era ritrovato a fissare il viso, le mani, il seno di quell’affascinante giovane che rideva spensierata, distogliendone subito gli occhi.

«E tu Romano, non dici niente? Non ha i detto una parola per tutta la sera», disse Francis, reso più allegro dal vino, «stiamo parlando solo noi! Raccontaci qualcosa!»

«Non ho nulla di divertente da raccontare», fece lui laconico.

«Mh, se sei così musone e scostante le ragazze si annoieranno subito a stare in tua compagnia», continuò nemmeno tanto serio il francese, prendendo un altro bicchiere.

«Io lo trovo molto carino, invece», disse Anri, sorridendogli in modo sbarazzino.

Romano avvampò. «Sentito, ragazzino?», fece Gilbert, «a quanto pare hai fatto colpo!»

Aveva notato che il locale era conosciuto e frequentato dai tre amici, perché qualche volta ragazzi e ragazze passavano dal tavolo dando un cenno o un saluto. «Ci venite spesso qui?»

Francis accese una sigaretta. «Sì, dal primo anno di università…»

«Perché tu vai all’ università?», chiese scettico.

«Sì, ci siamo conosciuti lì, io, Gilbert e Antonio!»

Questa poi. Voleva dire che quello spagnolo bastardo aveva frequentato l’università? Si era laureato? Le cose che lo riguardavano chissà perché sembravano sempre avvolte dal mistero, da una patina di ambiguità che Romano non si spiegava.

Le sue riflessioni vennero interrotte quando le luci della piccola sala vennero smorzate e l’ aria si riempì del suono di una dolce, lenta musica; l’orchestra aveva iniziato un pezzo languidamente romantico e già alcune coppie si erano alzate per prendere parte alle danze.

«Portatemi a ballare», disse Anri.

«Ti ci porta Romano»

«No, io non so ballare…»

Ma Anri si era già alzata porgendo la mano e il suo sorriso a Romano, che, col cuore in gola, si alzò gettando un ultimo sguardo ad Antonio. L’amico gli fece un segno d’assenso e lo guardò allontanarsi.

«Ma guardalo quel ragazzino, non sa neanche dove mettere le mani!», sghignazzava Gilbert, riempiendosi un altro boccale di birra. Infatti Romano era comicamente impacciato, non riusciva a sostenere lo sguardo della compagna, che ogni tanto gli diceva qualcosa ridendo. Un po’ alla volta si avvicinò a lei, poggiando le mani incerte sui suoi fianchi, mentre lei le cinse con le braccia le spalle iniziando a muoversi sinuosamente, seguendo la lenta musica.

Antonio guardava i due ragazzi uniti in quella sorta di abbraccio indugiante, li guardava e si disse che era tutto esattamente come doveva essere. Lui lì seduto e loro, soli, muti, uniti in un’ impenetrabile, languida, tenera musica; Anri che si stringeva sempre più vicina a Romano e lui che a poco a poco si rilassava contemplando, ad occhi chiusi, quell’attimo così diverso e nuovo. Sì, aveva fatto bene a portare lì Romano. Il suo Romano, che adesso ballava stretto ad una ragazza e sembrava così teneramente felice.

«Scusa», disse a un cameriere, «me ne porti un’altra, per favore?», indicando il boccale di birra.

«Vacci piano, lo sai che non reggi l’alcool tu!», disse sbraitando Gilbert, che ormai sembrava piuttosto esaltato anche lui.

Ma ormai Antonio non lo ascoltava più, continuava a guardare solo la coppia nella pista, Anri che stringeva Romano e adesso aveva iniziato a sfiorargli delicatamente i capelli. Chissà cosa provava, pensò. Toccare i capelli di Romano, il suo ricciolo ribelle, il suo viso, le sue labbra, la sua pelle, le sue mani, sentire il suo calore, stringerlo a sé, cosa avrebbe provato? E un bacio, un solo bacio… cosa non avrebbe fatto per sfiorare con le sue le labbra di Romano; un contatto anche di un solo, misero, fugace secondo gli sarebbe bastato tutta la vita.

«Antonio?». Francis lo guardava sottecchi, aveva notato lo strano sguardo che aveva assunto nell’osservare i due ragazzi, e le birre che stavano diventando troppe per lui.«Antonio, cosa c’è che non va?»

«Niente», negò lui, «davvero, non c’è niente. Tutto è esattamente come dovrebbe essere». Svuotò l’ultimo bicchiere d’un sorso. «Fammene portare un’altra…»

IV

Era ormai l’una di notte passata quando, per le strade di Trieste, si intravidero tre figure emergere da lontano barcollando; in realtà a barcollare era solo una, le altre due tentavano alla bene e meglio di sorreggerla o di trattenerla, a seconda dei casi.

«Tu, bastardo ubriacone senza ritegno!», imprecava a denti stretti una.

«Toni, mon ami, te lo avevo detto di non esagerare…», cercava di dire l’altra. «Gilbert ha accompagnato Anri, visto che abita vicino a casa sua, mi serviva qualcuno per portare a letto questo incosciente; grazie, petit Romano!»

«Lasciamo perdere guarda, lo sapevo che non era serata…»

«Su, non abita lontano»

Ad un tratto Antonio si divincolò, prendendo a cantare a squarciagola per strada: «Vamos, España! Vamos, España! Izo la Rojigualda!! (2)»

«Che cazzo canta ora, questo idiota?!», inorridì Romano.

«Non ti preoccupare, è nella norma! Fa sempre così quando si ubriaca… è la prima fase!»

« Protegeré todo lo que me importa ¿Me dejas que te anime? ¿Me dejas? ¿Eh, me dejas? (3) », continuava a intonare, rivolto a Romano, sempre con lo sguardo annacquato e offuscato dall’alcool.

«E quale sarebbe la seconda fase?». Antonio si zittì un attimo, per poi riversarsi in un angolo a vomitare.

«Questa»

Riuscirono in qualche modo a riportarlo a casa; Francis sembrava ormai avvezzo, notò Romano. Lo stese sul letto e lo fece mandar fuori tutto, reggendogli delicatamente la testa. «Dai, Toni, da bravo, butta giù tutto…».

Romano si sentì quasi fuori posto, non era abituato a quel genere di emergenze. «Che posso fare?»

«Cerca dei limoni e facci una spremuta. Credo che almeno limoni ne abbia in questa casa!». Romano eseguì docilmente gli ordini; tutto sommato, per quanto il francese gli stesse antipatico, doveva ammettere che sembrava effettivamente un buon amico per Antonio; per tutto il tempo lo assistette senza lamentarsi e in modo molto fraterno e dolce. Pensò che doveva essere così che si comportano gli amici.

«Come sta?», chiese, portandogli la limonata.

«Tranquillo, è solo una sbornia, ne ho viste di peggio!», rise Francis, «si è liberato; ora dormirà come un masso fino a domani e si sveglierà con un grosso mal di testa, dopodiché sarà di nuovo il nostro solito Antonio!».

Si lavò le mani e prese una sigaretta. «Chissà se ha un fiammifero da qualche parte…»

«Sì, sono qui…»

«Grazie», si accese a sigaretta e si sedette vicino al letto, guardandosi intorno, «sai, sono anni che lo conosco, e non ho mai capito cosa gli sia venuto in mente a venire ad abitare in questa topaia! Fra poco gli cadrà il soffitto in testa!»

«Non se ne è mai lamentato, ma credo che se potesse la cambierebbe…», disse Romano; non voleva entrare in merito a cose che non lo interessavano.

«Se potesse! Potrebbe eccome! Se solo non si fosse messo in testa di mettersi a fare il fruttivendolo, con tutti i soldi che ha!»

Romano rimase sbigottito e per un attimo credette di non aver capito: soldi, Antonio? «In che senso, scusa?», non potè fermarsi dal chiedere.

«Ma sì, se solo non fosse così testardo e orgoglioso da non chiedere soldi al padre in Spagna, potrebbe vivere come si conviene a uno come lui»

«Come lui? A me ha detto solo che i suoi avevano dei terreni in Spagna, ho creduto fossero dei contadini»

Francis lo fissò sgomento e divertito. «Contadini? i genitori di Antonio…contadini?!». Scoppiò a ridere, tossicchiando per il fumo della sigaretta. «Ma allora non ti ha detto proprio niente, non sai che è Antonio?»

Romano scosse la testa. «Antonio è il figlio Juan Armando Fernandez Carriedo… il più grande e ricco latifondista di tutta Madrid!»

V

Antonio iniziò a dare segni di vita qualche ora dopo, quando Romano era già andato via. Francis, che era rimasto seduto vicino a lui, si riscosse e si avvicinò all’amico. «Mmh…Romano…», mormorò lo spagnolo, ancora in una dormiveglia agitata.

Francis sorrise fra sè e sé, ma di un sorriso amaro. «Sciocco amico mio», mormorò scostandogli delicatamente i capelli dalla fronte imperlata di sudore, «ti sei innamorato di quel ragazzino. E pur di stargli vicino saresti disposto a guardarlo da lontano per sempre e ingoiare veleno per tutta la vita, senza fargli capire mai nulla...e lo hai pure buttato fra le braccia di Anri! Sei davvero la persona più stupida che abbia mai conosciuto».

Antonio si rigirò ancora sul letto, lamentandosi sommessamente. Francis gli sfiorò le labbra con le sue. «Se avessi mai guardato me come guardi lui non avresti avuto questo genere di problemi, sai?».

Andò via solo quando il respiro di Antonio ritornò ad essere sereno.

Note:

  1. Si tratta di Belgio naturalmente! Anri è uno degli eventuali nomi che Himaruya ha suggerito per lei.

  2. Andiamo Spagna! Andiamo Spagna! Alzo la Rojigualda! (il nome della bandiera spagnola). È un verso di “La pasion no se detiene”, character song di Spagna. Anche i versi successivi sono della stessa canzone.

  3. Proteggerò ciò che mi è caro. Lascia che ti rallegri! Giusto? ehy, giusto?

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Capitolo 7
*** Cap. VI ***


Capitolo VI

I

Quella fine di giugno era soleggiata e calda più che mai; i raggi si posavano delicatamente sulla piazza del mercato, brillava sulla merce esposta nei banchetti, accarezzava la pelle dorata e i capelli di Antonio e riscaldava l’aria di un calore avvolgente e confortante.

Eppure il clima al mercato, quel giorno, era più agitato del solito: uomini e donne si affaccendavano febbrilmente nelle loro mansioni, tutti parlavano animatamente, si muovevano a passo veloce da un banco all’altro, quasi per finire il più in fretta possibile le loro faccende e tornare a casa; persino le ragazze, che di solito si attardavano a scambiare due parole con Antonio, con il pretesto di essere state mandate dalle madri e fare la spesa, quella mattina sembravano preoccupate e inquiete. Non era la solita vivace e fervida animosità triestina: negli atteggiamenti, negli occhi, nel tono della voce di tutti c’erano preoccupazione, confusione, paura.

Soprattutto, si accorse Antonio, molti uomini e addirittura qualche donna, erano con il giornale aperto a discutere. Dai discorsi che qua e là tentò di cogliere, riuscì solo a decifrare alcune parole ricorrenti: serbo, attentato…guerra.

Fu solo quando arrivò Romano, pallido e assorto, che riuscì a capire perché quella luminosa giornata a Trieste fosse gravata da un’atmosfera così pesante. «Hanno ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando»

«Cosa…?». Antonio non registrò immediatamente la portata di quanto sentito, ma gli bastò guardare gli occhi di Romano che si alzarono su di lui, sgranati e sconvolti.

Quel giorno era iniziato con una morte.

II.

Il due luglio del 1914 Trieste era nera di morte; il luttuoso, cadenzato e funereo suono delle campane e i palazzi e le strade listati a lutto gettavano un’ombra che presto avrebbe coperto il cuore di tutto il mondo.

Una folla accaldata, incupita, si accalcava ai lati delle strade, seguiva il lungo e angoscioso corteo funebre. Il corso, Piazza grande, le vie principali erano gremiti di gente che, per curiosità, per dovere o per vero rispetto era andata a porgere l’ultimo saluto all’arciduca assassinato e alla moglie; li avrebbe seguiti fino alla stazione meridionale della città, dove un treno avrebbe portato le loro spoglie nella natìa Vienna.

«Un disastro. Questa cosa porterà ad una guerra, credimi; le tensioni in Europa sono fin troppo aspre». Antonio si volse verso l’amico, guardandolo in viso; Gilbert continuò: «Ho come la sensazione che presto mio padre mi farà richiamare a casa…».

In mezzo alla folla quel giorno si trovavano anche i fratelli Vargas.

Nello stato d’animo in cui Alice si trovava negli ultimi tempi un funerale di tale ampia portata non era proprio quello che desiderasse vedere in giro per la città, e poi, visto che non si era mai interessata a questioni politiche, non capì il peso di quell’avvenimento. Ma Romano, che si trovava accanto a lei, mentre guardava sfilare il macabro corteo, colse tutto il senso di pericolo che questo trascinava, come un veleno, per le strade di Trieste. L’Austria non sarebbe rimasta a guardare l’affronto subito senza reagire, e se avesse reagito le conseguenze delle sue azioni si sarebbero fatte sentire anche su Trieste. Sì, perché, per quanto cercasse di dimenticarlo, la sua città era austriaca.

No, noi non apparteniamo a tutto ciò…

Per qualche giorno dopo i funerali la città rimase a lutto, negozi e fabbriche furono momentaneamente chiusi e questo portò, con grande risentimento da parte di Alice, la difficoltà di vedere Ludwig. Si diedero appuntamento fuori una mattina, ma un’ombra incupiva quelli che sarebbero dovuti essere giorni di felicità perfetta.

«Non doveva accadere proprio adesso», disse amaro Ludwig, con una mano sul viso di Alice.

«Perché ti preoccupi, sono questioni che risolveranno fra di loro i governi, noi non c’entriamo! Dobbiamo pensare solo alla nostra felicità adesso!», rispose la ragazza, sorridendo. Non riusciva che a vedere e pensare altro che a Ludwig e al luminoso futuro che li avrebbe attesi.

«Non è così semplice», le sorrise lui, «le questioni austriache interessano anche Trieste e quello che è successo…potrebbe far scoppiare una guerra!»

Alice sgranò gli occhi; quella parola le rimbombò in testa. Non immaginava come sarebbe stata la vita durante una guerra e ora quella prospettiva la sconcertava. «Guerra…?»

«Non volevo spaventarti, amore», la abbracciò sprofondando il viso fra i suoi capelli, «voglio che ci sposiamo al più presto, così potrò portarti via con me! Non dovrai preoccuparti più di nulla!».

Alice si godette per alcuni minuti il calore di Ludwig. Non aveva ancora detto nulla a Romano, né del matrimonio né della decisione di Ludwig di ritornare in Germania nel caso la situazione a Trieste fosse precipitata; ma non poteva più aspettare. «Devo farmi coraggio e parlare con lui il più presto possibile».

III

Romano e Antonio erano seduti su un muricciolo della Piazza grande e il primo, tanto per cambiare, era di umore più cattivo del solito.

«Che razza di giornate di merda!», sputò, «fermano l’intera città per tenere il lutto a un principe austriaco, lo colmano di onori più da morto che da vivo, gli fanno solenni funerali…e di chi ha combattuto per liberare Trieste non è rimasto neanche un pallido ricordo».

Antonio lo guardava in silenzio. «Non sono in lutto proprio per nessuno! Sono italiano io, italiano!», continuò il giovane, «sono italiano!»

«Sì, Romanito, sei italiano», rispondeva l’altro paziente.

«Tu poi! Maledetto ipocrita!», gli inveì contro ad un tratto Romano, «ho un conto in sospeso con te! Tutto questo trambusto me lo aveva fatto scordare!»

Antonio lo guardò ancora senza capire, poi fece: «Ah, è per la scorsa notte!». Francis gli aveva raccontato la mattina dopo quanto successo, anche se non proprio tutto, e lui si battendosi una mano in fronte e sospirando aveva subito pensato a come gliela avrebbe fatta pagare Romano.

«Romanito, scusami!», pregò a mani giunte, «È che io non reggo l’alcool, non è che abbia bevuto tanto quanto poteva sembrare, ma…»

«Non parlo di quello», fu interrotto.

Romano lo guardava con quei suoi occhi scuri e luminosi. «È vero che tuo padre è un ricco latifondista?»

Antonio rimase sbalordito. «Sì, è vero». Rispose dignitosamente.

«E perché allora mi hai raccontato che i tuoi sono contadini?»

«Io ho detto che hanno terre, poi Alice ha capito questo e io semplicemente non l’ho contraddetta.»

«Se sei ricco perché vendi verdura al mercato?! E vivi in quella catapecchia? E ti vesti così? E non fai quello che fanno i ricchi?», gli inveì contro il più giovane, «ti stai prendendo gioco di me?! Perché non mi piace essere preso per il culo! Tanto meno da uno spagnolo bastardo come te, che avrà vissuto tutta la vita nella bambagia e se ne viene qui a fare lo sporco ipocrita traditore!».

Non sapeva dirsi neanche lui il motivo della sua rabbia. Se fosse stato in Antonio si sarebbe mandato a quel paese e invitato a farsi i fatti suoi già da molo tempo e in maniera poco delicata. Ma era come se si fosse sentito tradito.

«Mi tratti da amico e poi… mi nascondi ciò che davvero sei. Mi nascondi le cose importanti dietro quel tuo eterno fottutissimo sorriso! E io non ti capisco». Si voltò, portando le dita sulle tempie. «E non mi capisco neanch’io…cazzo, non so neanche che sto dicendo».

«Romano, ascolta, non ti voglio mentire», disse Antonio, facendolo voltare nuovamente per guardarlo. «Quando sono dovuto partire dalla Spagna per iscrivermi in un’università europea ho deciso di vivere in una città moderna, dinamica e fervida: Trieste, con la sua multiforme natura, con la sua cultura, con la sua bellezza, era la meta perfetta, così mi sono trasferito qui. Per qualche anno mio padre mi ha aiutato, ma poi ho avvertito la necessità di tagliare definitivamente i ponti; non volevo essere più il figlio di Juan Fernandez Carriedo, ma semplicemente ciò che sono e se il prezzo da pagare per questa libertà era quello di rinunciare a qualche sciocca comodità…bhe, non mi è pesato per nulla. La libertà di essere semplicemente Antonio mi è molto più cara. Non ho più richiesto né accettato l’aiuto economico della mia famiglia e mi è andato bene così, volevo vivere la città nella sua vera anima, nel popolo, nelle piazze, nei mercati, nei caffè in cui si parlava di rivoluzioni culturali, per le strade…».

Sospirò e riprese poco dopo. «Non ti ho mai voluto mentire, Romano. Solo che…non voglio che tu sappia cose che ti farebbero allontanare da me.»

«Se me lo avessi detto lo avrei capito, perché mai avrei dovuto allontanarmi?», fece Romano. «E poi, perché hai voluto tagliare i ponti con la tua famiglia? Mi hai detto tu di essere affezionato ai tuoi fratelli, mi hai parlato di loro, di tua madre, della Spagna, non provavi odio per loro…perché li hai abbandonati?»

A questo Antonio non rispose, abbassò lo sguardo, e Romano, come ridestandosi, capì di essere andato troppo oltre. «Non sono affari miei…».

«Scusami…», mormorò, e voltandosi andò via.

Antonio, guardandolo mentre si allontanava, sentì morire in gola le parole che in quel momento avrebbe voluto dirgli. Tutta la mia vita è affar tuo…

IV

Il 28 luglio di quell’anno l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. Trieste era ufficialmente in guerra. Non ci volle molto tempo perché anche la Germania entrasse, in quanto alleata all’Austria, dentro la scacchiera bellica.

La città non aveva più lasciato il triste alone di morte che il corteo dell’arciduca aveva trascinato; gli abitanti sapevano di trovarsi nella posizione di città contesa fra l’Italia e l’Austria, ma nella situazione attuale era chiaro che anche i triestini avrebbero dovuto scendere in campo.

Francis arrivò una mattina, con un sacco da viaggio in spalla, a salutare Antonio; era una giornata d’estate grigia e senza sole, in cielo le nubi minacciavano oscuri presagi.

Sul volto di Francis un triste sorriso. «Au revoir, mon chèr ami», disse abbracciandolo e tenendolo stretto un minuto in più, «avrei voluto passare la vita a fare l’amore anzichè la guerra, ma oggi anche Venere si deve piegare a Marte!»

Antonio cercò di salutarlo come quando si saluta un amico che parte per un breve viaggio e si è sicuri di rivederlo al ritorno dalle vacanze, rilassato e abbronzato…invece ad aspettarlo c’era il fronte. Nessuno dei due parlò di Gilbert, ma entrambi sapevano che anche lui era andato via qualche giorno prima per tornare nel suo paese; era venuto anche lui a salutare Antonio per l’ultima volta. «Dicono che la guerra durerà solo un paio di mesi; prima di Natale faremo tutti ritorno a casa. Ci ritroveremo anche troppo presto a ubriacarci per locali, ne sai qualcosa, vero?», disse sghignazzando, girandosi la sigaretta in bocca, nel suo abituale atteggiamento da gradasso. Ma si sentiva nella sua voce una nota come di pianto. «Non ti preoccupare per me, lo sai che ho la guerra che mi brucia nelle vene!»

«Sì, ma cerca di non bruciare troppo, soldato!», rimandò Antonio.

Francis non voleva ricordare che se avesse incontrato ancora l’amico l’avrebbe dovuto considerare ora nemico.

«Arrivederci anche a te, petit Romano!», fece a Romano, che osservava la scena addossato a un muro poco lontano. Rispose con un cenno alla testa e per un attimo pensò che forse avrebbe dovuto avvicinarsi e dargli almeno la mano, per augurargli di fare ritorno sano e salvo.

«Antonio», disse Francis con voce seria, «a parte gli scherzi, cosa hai intenzione di fare tu adesso?»

«Cosa intendi dire?»

«Non penserai di rimanere a Trieste, vero? Il governo austriaco ha già iniziato la mobilitazione generale dell’ esercito… e fra le file saranno costretti ad arruolarsi anche i triestini. Antonio, questa città fra poco sarà messa in ginocchio!»

Lo spagnolo volse lo sguardo per un attimo verso il ragazzo poco lontano; «Cosa dovrei fare, allora?»

«Torna subito in Spagna! Non ci sono pericoli che la Spagna possa partecipare al conflitto, non ha alleanze o interessi, in questo momento è un posto sicuro. Vai via da questo paese!», rispose Francis, questa volta animandosi.

Si guardarono per un istante infinito dritto negli occhi e in quell’istante muto si dissero tutto. Francis sospirò con un mezzo sorriso. «Lo dovevo immaginare. Mi sono sbagliato, Toni, questa volta Venere piega Marte…».

Il giovane in partenza salutò ancora l’ amico con un ultimo abbraccio e fece un gesto di saluto a Romano; anche lui si sarebbe dovuto unire all’esercito austriaco ormai e magari la prossima volta che si sarebbero incontrati sarebbe stato dall’altra parte della trincea.

Romano, intanto, aveva l’animo sconvolto da mille sentimenti e domande. Una guerra imminente, lui costretto a combattere per un’ideale inesistente e senza patria, scaraventato lontano dall’unica patria che sentiva davvero sua. «Non lo farò mai, si diceva, non combatterò mai per l’Austria, mai! Preferirei… preferirei morire!».

E Alice? Cosa ne sarebbe stato di Alice, sola e indifesa in una città devastata dalla guerra? Più cercava di darsi risposta, più il groppo che aveva in gola si ingrandiva e non lo faceva respirare.

La minaccia del cielo plumbeo si avverò e iniziò a cadere una leggera ma fitta pioggia estiva. «Siamo ad Agosto e piove…non sembra portare fortuna».

«Torna a casa, Romano. A quest’ora non verrà più nessuno», disse Antonio, «dai, ti accompagno con l’ombrello». Poteva immaginare cosa avesse dentro in quel momento il suo Romano ma entrambi non dissero niente e camminarono insieme sotto la pioggia in silenzio.

V

Davanti al cancello di casa Vargas, anche Alice e Ludwig erano insieme sotto la pioggia, ma non in silenzio. Alice piangeva senza sosta né consolazione, come una bimba strappata a forza della mamma; il suo amore la stava lasciando, il suo Ludwig stava andando a combattere. «No, no! Non ti lascio andare!», piangeva aggrappandosi a lui, «cosa c’entriamo noi con la guerra, perché devono distruggere la nostra felicità! Non voglio che tu vada via…col pericolo che non torni più da me!». Sapeva che non l’avrebbero trattenuto le sue lacrime, ma nessuna ragionevolezza o compostezza le importavano più.

Ludwig aveva posticipato la partenza per rimanere qualche giorno in più con Alice, ma non c’era più tempo e la sua famiglia, di antiche tradizione militare, non avrebbe più giustificato un suo ulteriore ritardo; fra l’esercito sia lui che Gilbert avrebbero avuto cariche da ufficiali, il suo dovere era servire meglio che poteva il paese. E Alice l’avrebbe aspettato, fra qualche mese sarebbero stati di nuovo insieme, stavolta per sempre. Ma il momento della separazione era insopportabile.

«Non esiste guerra, arma, bomba, esercito che mi faccia rimanere lontano da te», le disse asciugandole le lacrime. «Questa guerra sarà breve; hanno detto ai nostri soldati: tornerete a casa prima del cadere delle prime foglie. E anche io, prima del cadere delle foglie, tornerò da te».

La baciò. Era un bacio così denso di amore, promesse, dolore e indugiosa passione che Alice lo marchiò a fuoco nel suo cuore e nelle sue labbra per sempre. Era un bacio così pieno di tenerezza, speranza e disperazione che a Romano, quando li vide insieme in piedi, abbracciati, si gelò il sangue nelle vene.

Era appena arrivato con Antonio e sua sorella era lì, stretta a uno sconosciuto, anche se dentro di sé sapeva bene che quell’uomo non poteva essere che Ludwig. Si lanciò verso di loro frantumando il loro abbraccio e gettando per terra il tedesco. «Cosa stai facendo a mia sorella?!»

«Romano, non è come pensi!», gridò Alice trattenendo il fratello. «Lui è Ludwig Beilschmidt, te ne avevo parlato…noi…noi ci amiamo, Romano, abbiamo deciso di sposarci!», aggiunse.

«Lo sapevo, lo sapevo che mi tenevi nascosta una cosa del genere!»

«Non te lo tenevo nascosto, solo che… stavo aspettando il momento giusto per dirtelo!», rispose Alice imbarazzata.

«Mi hai mentito!! Per…per vederti con questo bastardo!»

Ludwig si alzò, ricomponendosi e con tranquillità ma decisione si presentò a Romano. «Ti prego, non prendertela con lei, la colpa è mia. Avrei dovuto rivolgermi a te per chiederle la mano ma è successo tutto di fretta. Mi scuso, non avremmo voluto che lo scoprissi in questo modo».

Romano lo guardava con uno sguardo da cavar fiamma, ma Ludwig continuò. «Voglio che tu sappia che amo davvero tua sorella, farei di tutto per lei, le darei la mia vita…e ho intenzioni serie: spero tu ci dia la tua benedizione per il matrimonio».

Alice si era avvicinata e aveva messo una mano fra le sue. «Fratello, è vero. Perdonami se non te l’ho detto prima…», disse. «Fra qualche mese, quando la guerra sarà finita e Ludwig tornerà ci sposeremo, io…credo che sarò molto felice con lui». I suoi occhi, nonostante il senso di colpa per il fratello e il dolore per la partenza dell’amato, erano pieni di amore, e questo amore ferì Romano ancora di più. Alice era del tutto decisa, il suo sguardo parlava chiaro. Mentre il suo mondo di Romano si stava sgretolando lentamente intorno a lui.

«Questa è la tua decisione?», chiese Romano, ancora tremante per la rabbia.

«Sì», fece risoluta Alice.

Romano si morse le labbra e sentì le lacrime che stavano affiorando. «Bene…allora non credo tu abbia più bisogno di me!», gridò.

«Romano, cosa dici?», rispose lei, « sei mio fratello, avrò sempre bisogno di te!».

Ma già lui non ascoltava più, e riuscì solo a fuggire prima di scoppiare in lacrime, dopo aver gettato un ultimo sguardo furioso ai due. Corse con tutto il fiato che aveva per sfuggire e lasciarsi dietro ogni cosa, come se tutto potesse tornare come prima, come se correndo potesse fuggire dalla guerra, dal dolore, dalla solitudine, dalla delusione.

«Romano, dove vai?», gli gridò Alice. E Antonio, che aveva assistito alla scena, gli corse dietro.

Rimasero solo Alice e Ludwig, ancora stretti in un abbraccio, mentre la pioggia continuava a battere incessantemente e a lavare gli ultimi residui di serenità nella loro Trieste.

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Capitolo 8
*** Cap. VII ***


Se un giorno tornerò

voglio che tu mi dia un ciclamino

colto o a Percedol o a Slivia.

S’è di marzo appena o febbraio

una primula pallida tenuta in seno a scaldare.

Se torno nel pieno dell’inverno

il fiore del tuo sorriso.

Ma se non torno, un ricordo

d’amore soltanto e presto dimentica,

senza rimpianto.

(Anonimo soldato triestino)

Antonio rincorse Romano, che correva a perdifiato, fino a quando non lo perse di vista; lo ritrovò dopo un po’ sotto il porticato di una chiesa vicino alla Piazza, seduto sulle scalinate, mentre le ultime gocce di pioggia spandevano pigramente dai cornicioni. Teneva le braccia sulle ginocchia e aveva ancora gli occhi rossi.

«Mi ha mentito per tutto questo tempo», disse appena vide arrivare Antonio, «con un tedesco…è impossibile, un tedesco! Mia sorella…», e si morse ancora le labbra.

Antonio si sedette vicino a lui. «Ci tieni ad Alice?»

«Ovviamente»

«E allora non vuoi che lei sia felice?»

«Cosa c’entra questo?», chiese.

«C’entra, perché stare con lui è la sua felicità»

Romano rivide la scena che si era presentata poco prima di fronte ai suoi occhi. La felicità di Alice poteva mai risultargli più lontana ed incomprensibile? «Non un tedesco…o un austriaco, non quelli che…» e si interruppe.

«Quale problema dovrebbe esserci?», chiese l’amico.

«Mio padre», iniziò allora Romano, «era un irredentista». Questa parola Antonio l’aveva già sentita, più di una volta; serpeggiava nei locali frequentati dagli universitari e dai borghesi, qualche volta aveva sentito parlare di questi gruppi di triestini convinti nell’italianità della loro città a discapito di tutto, e, pur non essendo direttamente coinvolto, condivideva il loro punto di vista.

Romano continuò: «Ricordo che da piccoli a casa, ci parlava sempre, ci diceva che un giorno l’ Italia sarebbe stata davvero unita e anche Trieste ne avrebbe fatto parte. Diceva che dovevamo considerarci italiani e lui avrebbe combattuto per darci la possibilità di dirci tali! Anche mia madre, ascoltandolo, sorrideva; forse pensava alla sua terra lontana che un giorno avrebbe voluto rivedere, il suo assolato sud, che aveva lasciato per seguire mio padre. E poi…poi un giorno degli uomini bussarono a casa e vidi mia madre scoppiare in lacrime invocando il suo nome; il governo austriaco aveva scoperto le macchinazioni che mio padre ed i suoi compagni stavano orchestrando contro l’Impero, erano stati catturati e condannati a morte. Nessuno di noi ebbe il tempo di salutarlo per l’ultima volta, di poterlo per l’ultima volta abbracciare. Non ci diedero neanche la possibilità di piangere sulla sua tomba: il corpo di un traditore dell’impero non è degno neanche delle ultime esequie. Credo che il suo corpo sia stato gettato in qualche fossa comune, insieme ai cadaveri dei compagni uccisi con lui quel giorno. L’ho spesso sognato: nei miei sogni guardava con sguardo fermo e chiaro il plotone di esecuzione che stava per scaricargli addosso i fucili, gridando fieramente che Trieste era italiana; forse è morto davvero così.

Giurai di proteggere per sempre mia madre ed Alice, come una volta mi aveva fatto promettere lui, forse pensando al pericolo che correva. Ma non ce l’ho fatta. La mamma non si riprese più. Rimaneva giornate intere a piangere sola, nella sua stanza, non sorrideva più, non parlava più, era come se un abisso profondo di disperazione l’avesse risucchiata…noi avevamo perso un padre, ma lei aveva perso la parte più profonda della sua anima, che non avrebbe mai più potuto riavere. Sì ammalò e in poco tempo morì.

Avevo vissuto fino a poco tempo prima, con Alice e i miei genitori, in un mondo fatto di amore. Adesso non provavo altro che odio, rabbia, risentimento: per coloro che avevano ucciso la mia felicità a colpi di fucile, per chi non ci aveva saputo proteggere, ma anche per mio padre, che ci aveva abbandonati, e mia madre a cui, nonostante il bisogno che avevamo di lei, da soli non eravamo bastati.

Ecco perché…non voglio austriaci e tedeschi, non voglio qualcuno che faccia soffrire Alice, non voglio qualcuno che…sta andando a combattere e non si sa se ritornerà mai più, non voglio vedere anche lei annientata come mia madre, non voglio che la porti lontano da me, non voglio…non voglio più rimanere solo!».

L’acquazzone estivo si era placato, lasciando soltanto gli acquitrini delle strade bagnate e un’ aria densa di piccole goccioline di pioggia e profumata di sera.

Antonio ascoltò in silenzio tutto il racconto dell’amico; poi protese la mano verso di lui e lentamente gli accarezzò i capelli. Romano lo lasciò fare, come se in quel momento non aspettasse altro che una mano amica lo carezzasse come da tempo nessuno più faceva. Si sorprese a sentire nel delicato tocco di Antonio, le mani di suo padre, di sua madre, di Alice, di qualche sogno adolescenziale fatto in una notte d’estate. Il contatto con le agili dita del ragazzo, immerse nei suoi capelli, gli diede un languido brivido che lo percorse per tutto il corpo e, non riuscì a capire il perché, gli venne voglia di avvicinarsi di più a lui, di consegnarsi inerme ad un abbraccio di salvezza. Doveva essere l’umidità di quella sera, quell’aria piena di guerra, addii, lacrime e baci. Lentamente poggiò la testa sulla sua spalla.

«Antonio…?», gli chiese.

«Dimmi»

«Torni in Spagna?». L’aveva sentito parlare con Francis e aveva sentito il legittimo consiglio che l’amico gli aveva dato; ma in quella domanda c’era tutto l’accorato bisogno di avere un’ultima àncora di salvezza a cui aggrapparsi.

Ma il ragazzo rispose: «No».

«Perché, brutto idiota? Tornatene a casa…». Antonio ancora aveva le mani sprofondate negli scuri e umidi capelli di Romano e lui, con quella carezza cullante e intossicante che lo stordiva, continuava a ripetere: «Tornatene a casa, tornatene dalla tua famiglia…non hai niente da fare qui, non hai nessuno di cui preoccuparti».

No, non è vero, Antonio, rimani, rimani, rimani con me. Continua a sorridermi e ad essere gentile anche quando faccio lo stronzo, continua a guardarmi e a chiamarmi per nome, continua ad accarezzarmi i capelli per sempre.

«Torna a casa. Ha ragione Francis, questa città sarà messa in ginocchio. Non ho il tempo di preoccuparmi anche per te…».

«Non lo fare. Ma io non me ne andrò».

«Perché, maledizione, perché?!! Non farmi dannare anche tu, con questa tua maledetta testardaggine!».

«Ti amo».

La frase rimase per un attimo sospesa nell’aria umida di goccioline piovane, si conficcò nella mente di Romano e si sciolse con lentezza straziante nel suo cuore. «Ma…che dici?», esclamò incredulo, incapace di articolare una frase logica.

«Quello che ho detto: ti amo. Ti amo da sempre e per sempre, forse ti amavo ancora prima di nascere e probabilmente ti amerò anche dopo la morte».

Romano non seppe dire altro che: «P…perché?»

«Perché così ha voluto Dio».

Dio. La guerra, sua sorella con il tedesco, il racconto dei genitori, le lacrime, la pioggia, il suo ti amo e…Dio. Romano alzò lo sguardo al cielo: «Dio e tutti voi volete farmi uscire di senno, è un complotto contro di me! Si può sapere che hai in mente?!».

Saettò lo sguardo di nuovo verso Antonio, ma non sorrideva. Era serio questa volta, terribilmente serio, e scrutando nella profondità dei suoi occhi Romano riuscì a vedere tutta la verità e l’ intensità di quel sentimento che portava e la fatica con il quale l’aveva espresso. In quegli occhi c’era un’amarezza che mai su di lui aveva visto.

«Adesso…», pronunciò sommessamente Antonio, «ti…ti faccio schifo?»

Romano scosse lentamente la testa. «No». In un attimo tutti i tasselli presero posto e Romano iniziò a capire molti dei silenzi, delle frasi lasciate a metà, degli sguardi, dei segreti dell’amico. Non voglio che tu sappia cose che ti farebbero allontanare da me…

«È per questo che hai lasciato la Spagna?»

Antonio fece un altro sorriso triste: «Si vergognavano di avere un figlio come me…».

Quindi era questa la verità. Non una famiglia amorevole e felice, non una vita spensierata e semplice, non un sole che lo aveva sempre baciato, regalandogli un sorriso eterno: anche nella primavera del suo cuore si trovava un isola deserta e selvaggia piena di paure, come in tutti.

Romano non tenne il conto del tempo in cui rimasero ancora lì, in silenzio e vicini, senza scambiare una parola, ognuno cercando di penetrare il mistero dell’altro. Quando alzarono il viso stava già iniziando ad albeggiare.

II

Romano sapeva bene dove andare e a chi rivolgersi. Non perse tempo, non c’era tempo; I coscritti triestini già da giorni venivano riuniti nella Caserma Grande, dove affluivano anche gli altri i soldati giuliani, per essere mandati al fronte. Romano non sarebbe riuscito a sfuggire ancora per molto e prima di consegnarsi al suo destino voleva sapere.

La mattina dopo si avviò verso il locale un tempo frequentato dal padre. Non ci entrava dalla morte del genitore e comunque lo aveva accompagnato solo poche volte, ma ricordava perfettamente la strada e il vicolo nel quale, un po’ fuori mano e quasi nascosto, si trovava il piccolo caffè. Era un ambiente piuttosto piccolo ma confortevole, elegante nella sua sobrietà, il genere di posto che si cerca per trovare tranquillità leggendo un giornale; e infatti molti erano gli uomini seduti a sorseggiare liquore o caffè e attenti a leggere le ultime notizie, tanto ancore più importanti proprio per questa città.

Romano si avvicinò al banco. L’ uomo dietro, ormai ingrigito dopo più di tredici anni, lo ricordava, spesso si era intrattenuto a parlare con suo padre; non poteva essere sicuro che anche lui si ricordasse ma ormai doveva tentare il tutto per tutto: era anche possibile che dopo tutti quegli anni quel locale non serbasse alcun ricordo degli ideali passati.

«Buongiorno», fece Romano.

«Buongiorno; cosa prende?», rispose cortese ma sbrigativo l’uomo.

«Un caffè, grazie». Fece finta di guardarsi intorno, poi disse vago: «Questo posto è rimasto esattamente uguale a com’era quando mi ci portava mio padre, lui veniva spesso».

«Ah, allora lo dovrei conoscere, qui i clienti abituali sono pochi e li conosco tutti. Chi è suo padre?».

«Chi era purtroppo. Vargas…».

L’uomo dietro il bancone ebbe un fremito e alzò lo sguardi verso il giovane. «Ma è passato molto tempo da allora e sicuramente non si ricorderà più di lui; e neanche i suoi amici».

«No, no, ragazzo mio. Lo ricordo molto bene tuo padre e ti assicuro che molti clienti del mio locale si ricordano di lui con grande…rispetto». Sembrò fermarsi a riflettere su qualcosa e gettò un’occhiata ai tavoli dove erano seduti i suoi avventori, poi abbassando la voce. «Ma tu, per caso…vorresti fare due chiacchiera con questi amici, vero?».

Romano sorrise soddisfatto: il barista aveva capito tutto, si ricordava della parte attiva avuta da suo padre anni prima e sicuramente i suoi “amici” facevano ancora gruppo in quel locale. Era lì che gli irredentisti di Trieste si incontravano. «Sì!», rispose con convinzione.

«Allora ti consiglio di venire più tardi, la sera verso le dieci, sai… questi amici preferiscono vedersi quando c’è tranquillità e poche persone in giro e sai meglio di me che trovare tranquillità in quest’ultimo periodo a Trieste è sempre più difficile da trovare».

La sera stessa Romano ritornò. Questa volta l’atmosfera era molto più familiare; furono molti quelli che riconobbe, antichi compagni del padre, e loro riconobbero lui perché si fecero avanti tendendo la mano e facendogli posto al tavolo dove sembrava ci fossero discussioni in atto. Li ricordava: quello che si alzò per prima era Alfredo, era un amico di famiglia, qualche volta i suoi lo avevano invitato a cena; quello seduto in fondo era Federico, l’altro era Giordano. Ma c’erano anche ragazzi, persone che Romano non aveva mai visto, anche molto più giovani di lui: studenti, giornalisti, avvocati, scrittori,, ma anche semplici figli del popolo erano riuniti in quella stanza per parlare del destino di Trieste, e adesso c’era anche Romano.

«Ti aspettavamo, sapevamo che un giorno ti avremmo avuto dei nostri», disse Alfredo, «scorre in te il sangue di tuo padre. Noi non dimentichiamo i nostri compagni, diamo onore al loro sacrificio e li additiamo come esempio ai più giovani: non c’è nessuno qui che non morirebbe volentieri gridando il suo amore per l’Italia, come fece Vargas».

Romano non aveva voglia né tempo di perdersi in discorsi idealistici e politici. «Io sono qui perché voglio sapere cosa devo fare. Non voglio combattere per gli Austriaci».

Prese parola uno dei più anziani, che fino a quel momento non aveva parlato: «La situazione è questa: l’Italia non si è sentita il dovere di intervenire in questa guerra, come hanno fatti altri alleati dell’ Austria. Questo perché la Triplice Alleanza tecnicamente è un patto difensivo e non a scopi offensivi, quindi l’Italia ne ha approfittato per rendersi neutrale, tuttavia…»

«Tuttavia alcuni di noi ritengono che sia opportuno e ci siano le possibilità, che l’Italia entro qualche mese entri in guerra».

Romano trasalì. «L’Italia potrebbe entrare in guerra a fianco dell’Austria?»

«Non necessariamente», riprese il più anziano, «per come sono messe le cose l’ideale sarebbe che si trovasse un compromesso con in Paesi dell’Intesa, potrebbe essere il pretesto per avere liberi alcuni territori italiani da troppo tempo in mano a stranieri. Fra cui, naturalmente, Trieste».

Romano era sempre più confuso: «Ma io, ora come ora cosa dovrei fare? Il Reggimento di triestini verrà mandato a combattere sui Carpazi, stanno già mobilitando le truppe!».

Fu Alfredo a parlare. «Lascia Trieste il più presto possibile, massimo un paio di giorni, e cerca riparo in Italia. Tieni anche in considerazione che purtroppo le autorità austriache sanno che sei figlio di un irredentista, con tutto ciò che ne può conseguire».

«Io non voglio scappare!!»

«Non scapperai. Aspetterai. Con le pressioni che il governo italiano sta subendo dai vari gruppi di interventisti sarà questione di mesi. Combatterai, come combatteremo tutti, ma sarà dalla parte della nostra patria. Moriremo, ma moriremo da italiani. Ora come ora l’unica cosa che possiamo augurarti è questa».

Riparo in Italia. Ma dove? Tutta la sua vita era sempre stata a Trieste. E Alice? Quell’incontro invece di chiarirgli le idee le aveva solo confuse ulteriormente.

«Ragazzo, decidi tu cosa sia meglio per te e chi ti sta accanto», gli disse paternamente Alfredo, mettendogli le mani sulle spalle. «Hai il completo appoggio di tutto il gruppo e il nostro aiuto, per quanto te ne possiamo offrire. Purtroppo per adesso non possiamo che aspettare dove ci trascinerà la corrente della Storia».

III

Non si erano più parlati da quella notte tanto breve quanto piena di rivelazioni, e ancora Romano faceva fatica a stargli vicino senza sentire un malessere e quasi senso di colpa verso di lui, anche se non sapeva da dove provenisse. Tuttavia era davvero l’unico a poterlo aiutare.

«Antonio, devo chiederti una cosa».

«Dimmi».

«È vero quello che mi hai detto la scorsa notte?».

«Assolutamente sì», disse fermo e risoluto. Romano arrossì. «Mi dispiace ma, io non…».

«Lo so. Tranquillo, lo so. Non mi aspetto nulla da te, solo che non riuscivo più a starti vicino senza dirti quello che provo…non voglio niente di ciò che tu non mi puoi dare».

Romano era sempre più imbarazzato e in colpa. «Lo so che sono un egoista a chiederti questo ma, se è vero quello che mi hai detto, faresti una cosa per me? Sarebbe davvero l’unico modo per dimostrarmi il tuo…affetto».

«Ti darei la mia vita mille volte; cosa vuoi che faccia?»

Quel maledetto bastardo, che continuava a dire quelle cose con tutta la naturalezza del mondo, quella voce, quegli occhi…lo facevano sentire ancora più in colpa. «Ti prego…», balbettò, «torna in Spagna!»

Antonio scosse la testa: «Non ti lascio».

«Torna…».

«No».

«Ascoltami…»

«Non ti lascerò mai da solo!»

«Ti prego, torna…», disse esasperato, «… e porta con te Alice!»

IV

La stazione di Trieste era piena di gente, i treni carichi. Era soprattutto gente che tornava nel proprio paese o cercava un rifugio per sfuggire alla guerra, ma molti, soprattutto i giovani venivano rimandati indietro e si sapeva che, tempo qualche giorno, Trieste avrebbe definitivamente tagliato la linea ferroviaria che collegava la città al resto d’Italia.

I tre ragazzi erano arrivati la mattina presto, Alice e Antonio avanti e Romano dietro, ad occhi bassi.

Alice aveva passato le ultime notti a piangere, il capo abbassato celava ancora i suoi occhi rossi ma limpidi e schietti come sempre. Ludwig non aveva voluto che venisse a salutarlo il giorno della partenza, voleva che il loro saluto fosse racchiuso nella promessa di quel loro ultimo bacio; per quanto riguarda Romano non era riuscita a rivolgergli più la paura. Sapeva che anche il fratello dentro di sé. Per motivi diversi, soffriva quanto stava soffrendo lei, ma invece di lenire reciprocamente quel dolore, come fecero alla morte dei genitori, ognuno lo teneva racchiuso dentro il proprio cuore come un orrendo tesoro.

«Vedrai, ti piacerà la Spagna», cercava di farle coraggio Antonio. « In questa stagione i campi sembrano d’oro e il sole più brillante che mai; i miei fratelli si affezioneranno a te e i miei genitori ti tratteranno come una figlia. Troverai tanta gente che ti vuole bene!». Ma sapeva che qualsiasi parola avesse detto, niente sarebbe bastato per calmare la sua anima e distoglierla dal suo pensiero fisso, né avrebbe potuto mai darle torto. E per quanto riguardava lui: tornare in Spagna dopo più di sei anni. Non aveva avuto ancora il tempo di pesare l’ idea.

Il fischio del treno li portò dolorosamente alla realtà: il momento dell’addio era giunto anche per loro.

Se ne stanno andando, se ne stanno andando tutti, Questi sono gli ultimi attimi che passo con loro e non ho il coraggio di guardarli, non ho il coraggio di dire niente di quello che dovrei dire, neanche una parola , pensava Romano.

Salì Antonio portando su le valigie e aiutò poi Alice. Da là sopra la ragazza gettò un ultimo sguardo al fratello, iniettato di lacrime. «Romano, perdonami», disse singhiozzando e catapultandosi fuori dal vagone fra le braccia del fratello, «io ti voglio bene, ma vogli anche bene a Ludwig. Vorrei che alla fine di questo incubo potessimo ritrovarci tutti insieme e vivere felici per sempre. Non voglio che non torniate più da me! Promettimelo! Promettimi che ritorneremo tutti insieme!».

«Te lo prometto!», disse e la strinse forte come se stessero per portargliela via. E non avrebbe più potuto dire altro; stava davvero salutando la sorella per sempre?

«Mi prenderò cura di lei». Antonio alle spalle della ragazza lo guardava con sguardo tenero e rassicurante. Di certo con lui sarebbe stata al sicuro e infine era davvero solo quello il modi di provargli il suo amore.

«Lo so. Grazie. E addio».

«Arrivederci, Romanito», sorrise dolcemente Antonio. Né una stretta di mano, né una pacca, né un abbraccio amichevole. Solo il suo sorriso, delicato e galleggiante nel vuoto come una carezza.

E per la prima volta, nonostante tutto, rispose a quel sorriso.

L’aria si congelò intorno a loro, le porte delle carrozze vennero chiuse e il treno iniziò a muoversi. «Ci rivedremo tutti! Ci rivedremo a casa, a Trieste!», gridava dal finestrino Alice, «Non dimenticarti che me l’hai promesso!»

«Stai tranquilla!», gridò di rimando Romano, «saremo tutti felici!», ma il treno era già lontano all’orizzonte; correndo si portava via le persone che più amava.

Portandosi una mano al petto toccò la croce che gli aveva regalato, in una serena giornata di sole fra i campi fioriti, in un tempo che non sembrava più reale, Antonio. Così proteggerà la tua felicità!

La strinse nel pugno. «Questa volta sono rimasto completamente solo».

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Capitolo 9
*** Cap. VIII ***


Pensavate avessi abbandonato Buongiorno, Trieste! ? E invece eccovi l’ottavo capitolo! Questo capitolo era pronto da tempo ma ho dovuto fare dei tagli e dei cambiamenti per riorganizzarlo interamente, perché sarebbe altrimenti stato troppo lungo…ma lo studio, il lavoro e gli impegni della vita quotidiana mi hanno fatto rallentare. So che sono lentissima ad aggiornare e che è passato così tanto tempo che vi sarete dimenticati di questa fanfic, quindi a coloro che mi seguono le mie scuse ma anche la promessa che la storia proseguirà e si concluderà!
Come al solito per consigli, chiarimenti, domande, critiche, insulti commentate pure! Grazie a tutti.
 
 
 
 Cap. VIII
 
 
La mia terra (…),
lì dove la mia anima sembra una povera chitarra che piange
cantando
e scende il pomeriggio nelle acque oscure del fiume.(P. Neruda)
 
 
I
Madrid
La villa Fernandez Carriedo sia trovava al centro dell’immensa tenuta agricola che apparteneva da generazioni alla famiglia; ettari ed ettari di terreni baciato dal caldo sole spagnolo si stagliavano all’orizzonte. Non fu difficile farsi aprire i cancelli quando Antonio e Alice scesero dalla carrozza che li aveva portati fin lì, visto che il vecchio custode di guardia all’ingresso riconobbe subito il giovane padrone.
«Don Antonio, siete proprio voi?», chiese esterrefatto il buon Pedro; anche se aveva visto crescere Antonio e i suoi fratelli e li avrebbe riconosciuti a chilometri di distanza non riusciva a credere di trovarsi di fronte quel benedetto ragazzo. Ormai molti in quella tenuta erano convinti che non sarebbe più tornato dall’ Italia.
Antonio lo salutò come un vecchio amico più che come un servitore e l’uomo parlava proprio come se fosse un suo parente, un vecchio zio  o un nonno . «Pedro!», disse abbracciandolo.
«Don Antonio, siete diventato un uomo!», fece il più anziano, guardandolo con gli occhi umidi. «Qui nessuno vi ha dimenticato, vostra madre ha pregato ogni giorno di rivedervi, ogni giorno, da quando siete andato via. E anche i vostri fratelli, non fanno che parlare di voi! Oh, non sapete che gioia date a tutti nel ritornare!».
I due ragazzi che sedevano nel giardino che circondava la villa guardavano interrogativi le figure che si avvicinavano, accompagnate dal custode. Fu il fratello a riconoscere per primo la figura più alta: «Antonio?», fece incredulo. A quelle parole anche la ragazza sussultò. Era proprio lui , per quanto incredibile fosse.
«Antonio, Antonio, sei tornato!!», gridò Ferdinando  correndogli incontro come un forsennato e quasi investendolo. Si scambiarono velocemente e spasmodicamente frasi che Alice non capì, abbracci, pacche sulle spalle e sulla testa, strette di mano che per quanto potessero sembrare convenevoli, facevano trasparire tutto l’affetto di un fratello che si pensa perduto. La ragazza invece, rimase dove si trovava, incapace di parlare, muoversi, fare qualsiasi cosa, guardandolo come un’apparizione.  Antonio si volse verso di lei, donandole uno dei suoi sorrisi più belli: «Isabella…».
Lei contorse il viso in una smorfia di pianto, si diresse verso Antonio con piccoli passi veloci e febbrili e gli conficcò la testa nell’ incavo della spalla, abbracciandolo stretto, senza dire una parola.
«Non ci avevi scritto niente nell’ultima lettera! Ci hai voluto fare una sorpresa, vero?», continuava Ferdinando, «Adesso vado a chiamare nostra madre, dovrò stare attenta che non svenga appena ti vede, ma devo subito avvisarla!» e fece per fuggire di nuovo, eccitato, quando finalmente si rese conto della ragazza che accompagnava il fratello.
«Ma lei chi è?», chiese, poi fece come ad aver capito, «Ah, ma certo! Antonio, ella es tu novia!!» e la prese per mano.
«No, no, Ferdinando, non è la mia novia! Ve lo spiegherò più tardi con calma, comunque è una mia amica, si chiama Alice. Alice, questi sono i miei fratelli, Ferdinando e Isabella. Lo so che non capisci una parola ma vedrai che piano piano imparerai!»
«È italiana? L’hai incontrata a Trieste?», chiedeva ancora Ferdinando, «Allora, è la tua novia
«Non lo è», continuava paziente il maggiore. E Isabella aveva staccato la testa dalla spalla del fratello per guardare anche lei la novia italiana.
Alice guardava quella scena, lei che aveva appena lasciato tutto ciò che aveva amato, e non riusciva ancora a capacitarsi. La gioia esuberante di Ferdinando e quella sbigottita e muta di Isabella, l’atmosfera di unità familiare ritrovata, l’affetto smisurato e ancestrale fra fratelli…davvero Antonio aveva lasciato tutto quello? Davvero c’erano ancora una madre e un padre ad aspettarlo a casa?
Una snella e minuta figura di donna si fermò vicino al grande portone d’ingresso: evidentemente Pedro non aveva perso tempo ed era andato subito a chiamare la señora, che ora stava lì, con il sottile corpo avvolto nel sobrio ma fine scialle di filo, come se avesse avuto timore che, avanzando, la visione dinnanzi a lei fosse scomparsa come un vano sogno.
Due occhi colmi di lacrime e felicità saettarono su Antonio. «Fiijo meo», disse la madre abbracciandolo e baciandolo in fronte. «Ho pregato ogni giorno che Dio mi facesse la grazia di riportarti da me…e Lui mi ha ascoltato!». Il figlio non potè far altro che ricambiare l’abbraccio, indugiando in quella stretta più di quello che la reverenza consentiva a un figlio rispettoso nei confronti dei nobili genitori.
L’ accogliente sorriso della Señora si posò anche su Alice, invitandola a varcare la soglia di quella grande tenuta.
 
II
Trieste.
Romano aveva passato le ultime giornate, rincasando solo la sera tardi, al locale. Aveva imparato, nel breve tempo a disposizione, che davvero quegli uomini condividevano le sue idee  e forse valeva la pena fidarsi di loro. Fu con questo stato d’animo che decise di confidare ad Alfredo le sue preoccupazioni: se davvero l’unica soluzione che gli prospettavano era di abbandonare la città, realizzarla si sarebbe rivelato più difficile che rimanere a combattere per gli austriaci. Ogni giorno gli uomini triestini in età di leva venivano convocati alla Caserma Grande e il solo pensiero che tanti ragazzi come lui stavano andando a rischiare la vita mentre lui scappava come un coniglio gli era insopportabile.
 Tutti, tutti erano partiti per il fronte; Gilbert, Francis, quel maledetto Ludwig e persino Roderich che, nonostante la sua abituale compostezza e calma, non aveva avuto ripensamenti quando era stato chiamato al suo dovere.
«Se si trattasse di liberare questa città o di difenderla, io combatterei. Davvero, combatterei fino a morire», diceva quella sera a Alfredo. «Ma questa non è la guerra di Trieste».
«No, ma potrebbe diventare la guerra per Trieste», rispose l’uomo. Aveva pensato in quei giorni alla sorte di quel ragazzo; aiutarlo gli sembrava un dovere e una specie di obbligo morale nei riguardi del padre, il compagno sacrificato ai suoi stessi ideali. «Se ripari in Italia puoi arruolarti nell’esercito regio; se combatterai sarà per la patria che ritieni tua».
«Posso farlo anche in quanto cittadino di Trieste?».
Alfredo sorrise, guardando distrattamente il bicchiere che aveva in mano. «Ma tu non sei solo cittadino di Trieste…o sbaglio?».
«Che vuoi dire?».
«Tua madre…».
Romano si scosse. «Cosa c’entra mia madre?»
«Non era di Trieste».
«No, lei era originaria del Sud, poi la sua famiglia si trasferì… a Roma, mi pare. Ma continuo a non capire cosa c’entri questo».
Alfredo prese qualcosa dalla giacca, un foglietto scritto a penna. «Tu non sei solo, Romano. A Roma ti sono rimasti dei parenti». Allungò il pezzo di carta sul tavolo verso il ragazzo. «Mi sono permesso di fare qualche ricerca, basandomi su un paio di confidenze che tuo padre mi aveva fatto quando era ancora con noi. Tuo nonno è ancora vivo e vegeto a quanto pare e qui trovi il suo indirizzo. Se ti facessi adottare da lui, cosa della quale avresti diritto e forse anche dovere visto che sei l’unico parente rimastogli, saresti legalmente cittadino italiano».
Romano ascoltava allibito, guardando il foglietto.
«Direi che a questo punto puoi fare i bagagli e andare a trovare il caro nonnino, che ne dici?», esclamò Alfredo con allegria, come avesse magicamente risolto tutto. Ma il giovane gli rivolse uno sguardo rabbioso.
«Mio…nonno?!», sputò quel nome come se si fosse trattato di un’offesa. «Io non ho e non ho mai avuto alcun parente che non siano stati i miei genitori e mia sorella. Non ho intenzione di conoscere, parlare, rapportarmi in alcun modo con coloro che giudico solo estranei, né tantomeno sapere se sono vivi o morti!», esclamò, cercando di reprimere la rabbia che gli ribolliva dentro.
«Ma…»
«La questione è chiusa qua! Se devo lasciare la città lo farò… anche dovessi fuggire da una sfilza di proiettili o un intero esercito che mi bracca, anche se dovessi passare la vita a girovagare per l’Italia come un vagabondo, a fuggire come un criminale, a mendicare per le strade come un pezzente, a mangiare la terra su cui cammino e a riversare il mio sangue intero su un campo di battaglia!! Ma no andrò mai, mai da quel maledetto!» e finì quella sua incessante piena di parole solo per alzarsi di colpo e dare le spalle ad Alfredo che lo guardava ancora atterrito.
«Ragazzo, questo è il tempo di dimenticare e perdonare…», ebbe solo il tempo di dire.
Ma Romano si era ormai già avviato all’uscita, lasciando sul tavolo il foglietto stracciato.
Dimenticare? Come per anni quell’uomo si era dimenticato dell’esistenza di sua figlia e dei suoi nipoti per quanto la madre, e questo lui lo sapeva, continuasse a mandare lettere, notizie, foto e a parlare con i bambini di questo sconosciuto nonno che abitava in una città lontana lontana e, forse, un giorno sarebbe andato a trovarli. Ma questo mai avvenne e mai ci fu una risposta alle lettere che la madre, con ostinata e irriducibile speranza, si aspettava sempre di ricevere.
Perdonare? Aveva perdonato forse quell’uomo la propria figlia, per il solo affronto di aver amato un uomo che a lui non piaceva? Di aver scelto di seguire la sua felicità invece che sottomettersi ai capricci paterni? Eppure sapeva quanto lei continuasse, nonostante tutto, ad amare e ricercare quel padre che l’aveva ripudiata.
-Non ha fatto niente persino quando lei è morta, non ha mai cercato né me né Alice, pur sapendo che eravamo rimasti soli!- rimuginava amaramente Romano.
-E io dovrei strisciare da lui ad elemosinare la sua considerazione, il suo aiuto, addirittura il suo nome? Anche se fosse non mi accetterebbe mai, continuerei ad essere per lui quello che sono sempre stato fin da quando sono nato: nulla. Solo la traccia vivente dell’imperdonabile peccato di sua figlia, una macchia che non potendo essere cancellata semplicemente si fa finta che non ci sia, l’unica penosa vergogna di una vita irreprensibile!
Ad un tratto gli ritornarono in mente le parole di Antonio: Si vergognavano di avere un figlio come me. Come lui, certo, “in quel modo”, era comprensibile, eppure non riusciva ad associare Antonio a niente che non fosse onesto, pulito.Bello.
Vergognarsi di uno come Antonio, che tutti avrebbero voluto avere vicino…Ecco, se ci fosse lui adesso sicuramente lo avrebbe calmato con qualche frase conciliante, oppure lo avrebbe fatto sfogare fino alla fine in silenzio semplicemente ascoltandolo e Romano poi si sarebbe infuriato e gli avrebbe tirato addosso qualche parolaccia non meritata. Sorrise, ma si smorzò subito.
-Antonio- pensò, -ti farò vedere quanto anch’ io posso essere forte.
 
III
Madrid
I racconti, i ricordi e le domande di sei anni di vita non potevano essere esauriti in una manciata di ore, eppure i fratelli Fernandez- Carriedo si stavano mettendo d’impegno.
Alice per la prima volta dopo molti giorni tornò a sorridere, l’ atmosfera spensierata e lieta che avevano creato era riuscita a farle dimenticare per un momento tutta la tensione accumulata e faceva risorgere in lei la speranza che tutto si sarebbe risolto.
La madre guardava teneramente i figli e sorrideva fra sé e sè, seduta un po’ in disparte, come se si saziasse solo di sentire le loro risate e sapere che voltandosi li avrebbe visti. Si adombrò solo quando una delle serve venne a portare un messaggio.
Il signore era arrivato. Sì, ed era stato già informato della lieta notizia del ritorno del primogenito a quanto pare, perché voleva vederlo, lo richiedeva nel suo studio.
La madre guardò con attesa e preoccupazione il primogenito che senza dire una parola lasciò i fratelli ed Alice sotto il bel gazebo del giardino ed entrò in casa. Anche lei lo seguì.
Sei anni erano ormai passati da quando Antonio aveva visto l’ultima volta il padre, sei anni da quando era entrato l’ultima volta in quell’austero, freddo studio teatro di uno dei momenti più terribili della sua vita, sei anni da quando il padre si era congedato da lui urlandogli contro parole che mai un figlio vorrebbe sentirsi dire, sei anni da quando aveva visto quegli occhi guardarlo con tutto il disprezzo e il biasimo che si può convogliare in uno sguardo.
E adesso era tornato: con più esperienze, più anni, forse più giudizio e, soprattutto, accompagnato da una ragazza italiana. Che vittoria sarebbe stata per lui! Dopo gli studi il figlio torna a casa portando con sé non solo racconti e conoscenze nuove ma anche una moglie italiana; le malelingue che avevano iniziato e serpeggiare sei anni prima si sarebbero definitivamente spente e tutto sarebbe stato  come doveva essere: avrebbe vissuto con la sua bella consorte e preso parte all’amministrazione della sua tenuta , come voleva la tradizione, come adesso stava facendo suo padre.
«Buongiorno, padre», salutò educatamente Antonio. Aveva un nervoso sorriso sulle labbra, si avvertiva chiaramente l’ abisso rispetto al calore con cui aveva salutato poco prima la madre.
Juan Armando Fernandez Carriedo stava seduto alla grande scrivania della sua stanza; non si alzò, né un moto né uno sguardo lasciarono trapelare sorpresa o gioia nel rivedere il figlio.
«Così…sei tornato».
Il ragazzo fece un lieve segno con la testa in segno di assenso.
«Sono certo che in questi  anni hai avuto modo di pensare, di riflettere, di valutare le cose davvero importanti, di prendere le tue decisioni con maturità...» Si interruppe per prendere un sigaro, portarlo alle labbra e accenderlo.
« È un bene tu sia tornato in questo periodo:  la tenuta va riorganizzata e gestita ogni giorno con il doppio della fatica ed è il momento che te ne prenda carico anche tu , ti dovrai occupare tu delle questioni dei contadini, le paghe, i rapporti con loro…sei sempre stato bravo con queste cose, no?».
Gettò dalle labbra una folata di fumo, guardandolo. «Sapevo che sarebbe stata una buona idea mandarti per qualche tempo fuori».
«Qualche tempo? Sei anni!», esclamò mentalmente Antonio. «Sei anni in cui non ho potuto rivedere la mia terra e la mia famiglia, perché avevo paura di te!». Ma non disse niente, rimase impassibile ed ascoltare l’uomo davanti a lui che ancora non gli aveva dato, non un abbraccio, ma tanto meno una parola paterna di bentornato.
«Quella ragazza che hai portato…», iniziò a dire come se se ne fosse appena ricordato, «…hai intenzione di sposarla?». La domanda era naturalmente retorica, forse intendeva «quando hai intenzione di sposarla?».
Antonio sembrò raccogliere tutto il suo respiro nel rispondere: «La signorina Vargas non è con me nei rapporti che avete immaginato, tali da ipotizzare neanche lontanamente un matrimonio. Mi è stata affidata da…un caro amico. Una volta finita la guerra tornerò a prenderla e la riporterò a Trieste, dove spero che ci siano ad aspettarla ciò che resta della sua famiglia e dei suoi sogni. Fino a quel momento vi chiedo di trattarla come una figlia e di dargli la serenità e l’affetto che merita.»
« Tornare? Che significa?». Questa volta fu la signora a prendere parola. «Sei appena arrivato, dove vuoi andare? Tutta l’Europa è in guerra!».
«A Trieste ho lasciato qualcuno. Qualcuno che non voglio perdere, che voglio proteggere e se necessario… morire».
«Cosa intendi dire…?», chiese con apprensione la donna.
«In Italia accettano volontari. Andrò a combattere per la città dove ho vissuto in questi anni, per le persone che là ho imparato ad amare».
Un pesante sospiro fu la risposta del padre. «Per un attimo, un solo attimo, ho pensato che ti fossi ravveduto, che fossi, per così dire…guarito».
«Guarito? Questo che sono per voi, una malattia…»
«Antonio ma cosa dici? Tuo padre non voleva dire questo! », si affrettò a dire la signora, con tutti i lineamenti del viso in movimento per l’agitazione. Le mani tremavano cercando di accarezzare i figlio. «Ma tu cerca di ragionare, non puoi davvero voler andare a combattere in Italia! Per cosa poi? Non è il tuo paese, non è la tua gente, non è la tua guerra….».
«Lasciatelo perdere, ho sbagliato a credere che il tempo lo avrebbe fatto maturare: non è che ancora  un ragazzino che crede che la vita sia un gioco, che la guerra sia un passatempo», intervenne l’uomo. « Vorrà tornare con la coda fra le gambe a casa appena assaggerà solo lontanamente cosa significa combattere…»
« Vi chiedo perdono se non sono stato il figlio che desideravate, se vi ho deluso, ma tutto il vostro biasimo non riuscirà a farmi cambiare idea».
La madre non riusciva a trattenere il pianto, così diverso ora da quello di gioia che l’ aveva investita qualche ora prima mentre riabbracciava il figlio. «Antonio, cosa stai dicendo!? Virgen Santa, non puoi parlare così sul serio, non sai quello che dici!». Si rivolgeva ora a lui ora al marito, «E voi non lo permetterete, non permetterete che nostro figlio faccia una cosa del genere!».
Ma il viso dell’ uomo non faceva trapelare emozioni.
Il ragazzo prese delicatamente le mani della madre.« A lui non cambia che io vada o rimanga, l’unica cosa che vuole è non ledere l’onore della famiglia, non è forse vero? L’unica cosa che vi importa è che io non vi faccia vergognare». Riportò la mente a sei anni prima, quando in quella stessa stanza un ragazzino chiedeva in lacrime perdono per qualcosa che neanche lui sapeva.
«Ditegli qualcosa! Non fatemi perdere mio figlio ancora una volta!», esclamava la donna.
Il padre non fece una piega. «Oggi ti ho riaccolto dopo sei anni. Ma se te ne vai da questa casa considerala una partenza definitiva. Non voglio vederti mai più davanti ai miei occhi».
Antonio lo guardò dritto per un’ultima volta, fece un lieve, educato cenno di congedo ed uscì. Fu solo ormai fuori da quella stanza che riuscì a sciogliere il terribile dolore che aveva in gola, scoppiando, come tanti anni prima, in lacrime.
 
IV
Trieste
Romano cercò di fare mente locale per prendere il necessario per il viaggio che lo attendeva. Quella notte, approfittando delle tenebre e dell’aiuto offerto da Alfredo e dai suoi compagni, avrebbe lasciato Trieste.
«Ascolta, ho degli amici in alcune città italiane che ti daranno una mano, ho preparato delle lettere per loro in cui spiego la situazione», disse Alfredo quella sera. «In un foglio ho anche scritto l’ indirizzo di Roma che tu ben sai…indipendentemente che tu voglia usarlo o meno».
Romano accettò semplicemente il piccolo cartiglio senza parlare.
«Al confine troverai uno dei nostri che riuscirà a farti uscire dalla città…ma dopo te la dovrai cavare da solo, almeno per il momento. Probabilmente molti soldati triestini diserteranno e scenderanno in Italia fra non molto tempo».
«Me la caverò, tranquillo», rispose il ragazzo. «Grazie per tutto. Davvero».
L’uomo diede un paterno abbraccio d’addio al più giovane. «Che Dio ti accompagni, Romano. Adesso e se sceglierai di imbracciare un fucile per l’Italia».
Romano annuì. «Controlla tu la mia casa, ci ho lasciato tutti i ricordi felici e spero di ritornarci un giorno. Vorrei che Alice aprisse la finestra della sua stanza e si affacciasse su una città libera e senza guerra».
In cielo le stelle continuavano, serene,  a splendere su Trieste.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** Cap. IX ***


Salve a tutti!
 Questo capitolo è interamente incentrato su Antonio: la mia intenzione era trattare del suo passato in un paio di piccoli paragrafi o flash back, ma molti che hanno letto la storia  hanno espresso la curiosità di sapere qualche particolare in più su questo personaggio, quindi alla fine gli ho dedicato il capitolo!
Grazie a tutti coloro che leggono, criticano , commentano e hanno la santa pazienza di aspettare i miei lentissimi aggiornamenti! Spero che il capitolo sia di vostro gradimento.
Buona lettura! <3
 
 

 
Cap. IX
 
Antonio si preparava a ritornare a Trieste. Nonostante le lacrime della madre e dei fratelli e lo sguardo interrogativo di Alice, la sua è permanenza a casa durò poco.
Guardava le sterminate a assolate campagne del suo paese convincendosi che non sarebbe stato un addio; cercò di concentrarsi sui ricordi belli pieni di dolcezza della sua infanzia ma dopo il colloquio col padre non riusciva a togliersi dalla testa la scena simile accaduta ormai sei anni prima.
Ero solo un ragazzino. Ma ora sono un uomo, e vivrò come un uomo. Stavolta parlerò, lotterò e vivrò o morirò come un uomo ma non voglio più nascondermi.
Guardando quei paesaggi che tanto aveva guardato nel poco lontano passato, la sua mente tornò all’ultima estate della sua adolescenza.
 
 
La storia di Antonio
 
I
Madrid – 1908
Il ragazzo arrivò agli alloggi dei coloni di buona mattina, quando già i contadini si preparavano ad andare a lavorare e le donne portavano a lavare il bucato alle vasche comuni.
«Hola, señoras! », esclamò, facendo un lieve cenno con la mano in direzione delle donne che si dirigevano ai lavatoi con cesti e saponi. «Buongiorno, señor, buongiorno»
«Stamattina sono in anticipo, i bambini saranno arrivati?»
«Sì señor, la stanno aspettando», rispose una di loro, «mia figlia non vede l’ora di farle vedere come ha imparato bene a fare le addizioni!»
«Bene, allora non li faccio attendere. Buon lavoro e buona giornata!» e accelerò il passo allegramente.
«Quello è il figlio maggiore del señor Carriedo, vero?», chiese una donna ad una vicina, «mi avevano detto che è un bravo giovane»
«Sì, don Antonio è il più bravo e il più bello!», fece trasognata una ragazza. «Ogni mattina, quando arriva con quel sorriso luminoso è come se il sole sorgesse di nuovo!»
«Ma sentila! Cerca di non guardare troppo tu, è pur sempre il figlio del padrone!»
«In ogni caso è vero: è un ragazzo d’oro, non ha nessuna affettazione, nessun  atteggiamento da padrone, non riesco a credere che sia figlio di suo padre…e chi mai avrebbe fatto quello che sta facendo lui per i nostri ragazzi?».
Antonio si recava tre volte a settimana a giorni alterni alla zona colonica; dopo vari tentativi finalmente quell’autunno era riuscito a farsi concedere dal padre il permesso di dare lezioni al gruppo di bambini che alloggiavano lì. Erano tutti figli dei contadini che difficilmente avrebbero trovato un’altra opportunità per imparare a leggere, scrivere e contare, quindi Antonio si dedicava anima e corpo al suo compito, ripagato dall’entusiasmo e dell’affetto dei piccoli. Una vecchio granaio smesso, opportunamente riorganizzato e dotato di sedili e banchi messi insieme alla bell’ e meglio, era diventato la loro scuola e lì davanti si trovava il piccolo gruppo di ragazzini che aspettava con sorrisi sdentati e infantili il loro maestro.
«È arrivato il señor Antonio! Señor, señor!», fecero vedendolo e attorniandolo festosamente.
«Ho fatto tutti i compiti che mi avete assegnato l’ultima volta!»
«Io mi sono allenato nella lettura! Voglio che mi sentiate leggere!». Antonio ascoltava e seguiva tutti e controllava i quadernini smussati di ognuno. «Sì Jorge, almeno fammi entrare prima…»
«Gabriel, devi scandire bene le parole, non scrivere tutto attaccato!»
«Annita, sei stata bravissima! Non hai fatto neanche un errore». La soddisfazione e l’orgoglio che vedeva negli occhi dei suoi piccoli scolari lo ripagava di tutto il tempo speso dentro quel vecchio granaio.
«Carlos, cosa sono questi scarabocchi sul quaderno?! Non è un album da disegno!»
«Non sono scarabocchi: è il protagonista della storia che ci avete letto qualche giorno fa, don Quijote che combatte contro i mulini a vento!», rispose il bambino mostrando coi ditini le ipotetiche lance e le pale del mulino.
«Ah…sì…guardando meglio è proprio lui. Sei un vero artista, Carlos!»
Alla fine delle lezioni del giorno i ragazzi uscirono chiassosamente dal capanno, non prima di aver salutato il loro giovane maestro e lasciato altri quadernini, fogli, disegni vari e per gentile concessione di Annita, come dono, un cestino in vimini spelacchiato di sua personale fabbricazione. Antonio si stava preparando ad uscire a sua volta quando notò all’ingresso del granaio una figura che sembrava lo aspettasse.
«Luis, sei tu?», disse riconoscendolo. «Entra pure, non stare lì in piedi!»
Luis aveva circa l’età di Antonio, arruffati capelli color cenere e due vispi occhi castani contornati da leggere lentiggini; ad Antonio aveva sempre ispirato simpatia.
Il ragazzo entrò leggermente imbarazzato, togliendosi il semplice berretto dalla testa. «Sono venuto a portarvi questi, señor». Allungò dei quadernini quadrettati. «Sono da parte di Ines, la mia sorellina. Oggi non è potuta venire perché ha l’influenza, ma ha insistito tanto perché voi vedeste lo stesso i suoi compiti così mi ha obbligato a portarveli»
«Oh, infatti ho notato che oggi mancava la piccola Ines, spero si riprenda presto!»
«Sì, non vede l’ora di tornare ad ascoltare le vostre lezioni…credo che sia così per tutti»
«Sono tutti bravissimi, in poco più di qualche mese hanno fatto dei progressi da giganti, sono davvero fiero di loro!»
Luis arrossì come se il complimento fosse stato fatto a lui. «Sono fortunati, lo sanno e si impegnano. Se qualcuno avesse fatto quello che fate voi per questi bambini quando io avevo la loro età, anche io…»
Si interruppe; Antonio notò che si era imbarazzato e credette di capire il motivo: «Sai leggere e scrivere, Luis?» Chiese con rispetto.
Luis abbassò gli occhi e arrossì, agitando la testa in segno di diniego.
«Ti piacerebbe imparare?»
«Eccome se mi piacerebbe, senor! Ogni tanto ascolto le storie che leggete ai ragazzi e immagino come sarebbe bello poter capire quello che c’è scritto in quei libri senza dipendere dalla lettura altrui», rispose con fervore. «Ma ad un contadino non serve a niente conoscere la storia di cavalieri pazzi che combattono contro  mulini a vento…».
Ad Antonio piaceva il candore e la semplicità di Luis, quella sua capacità di meravigliarsi per le piccole, semplici cose, come fosse un bambino, la sua sincerità spiazzante. Anzi, in realtà, forse, gli piaceva troppo. Ecco perché con uno strano timore che non accettasse gli propose: «Se vuoi…te lo insegno io».
Il ragazzo alzò gli occhi colpito: «Mi insegnereste a leggere?»
«Certo! Tu sei un ragazzo intelligente, ci vorrà poco tempo e leggerai e scriverai meglio di me! ».
Luis si illuminò di gratitudine e felicità ma qualche secondo dopo il suo sguardo si abbassò nuovamente: «È meglio di no. Lo so che è infantile dirlo ma…mi vergogno a frequentare le lezioni con bambini, mi sentirei a disagio, fuori posto; è come se per me fosse troppo tardi ormai»
«Non è mai troppo tardi quando si vuole imparare con tutto sé stesso a fare qualcosa!»
Era ancora più fermamente sicuro di volere insegnare a quel ragazzo. Ma visto che il giovane continuava a rimanere immobile, visibilmente rassegnato e imbarazzato, aggiunse: «Va bene, allora facciamo una cosa…», disse, « a che ora hai la pausa?»
«Per il pranzo ho un’ora intera disponibile, señor»
«Bene! A quell’ora, subito dopo la lezione coi più piccoli, verrai in questo capannone e ti insegnerò a leggere e scrivere. Saremo da soli, nessuno ci disturberà visto che a quell’ora sono tutti a pranzo, e nessuno lo verrà a sapere. Dunque, così pensi possa andare?»
«Farebbe davvero questo per me, señor?», chiese Luis con trasporto. «Verrebbe davvero qui un’ora in più solo per insegnare a me?»
«Sì. Se prometti di impegnarti!».
«Lo farò, glielo prometto! E mi sdebiterò un giorno!»
Antonio pensò che vedere il suo sorriso equivaleva ad una ricompensa più che sufficiente.
 
II
«Oh, Antonio! Vai ancora a far scuola a quei ragazzini? Con questa storia non ci badi più!».
Erano seduti alla tavola sulla terrazza a fare colazione e Isabella riempiva il suo pane tostato di marmellata mentre continuava a brontolare. «Passi tutto il tempo nella zona colonica a leggere libri a quei contadinelli!»
«Quando eri piccola leggevo anche a te le storie, adesso sai leggere e puoi farlo da sola!», ribatté Antonio.
 «Però almeno questa settimana andiamo a pesca?», chiese Ferdinando, « La scorsa domenica avevi detto che mi avresti portato e invece mi hai lasciato da solo…»
«Sì, Ferdinando, te lo prometto, questa volta ti ci porto…»
«Se viene lui vengo anch’io!»
«Le femmine non possono venire a pescare»
«Perché, cos’ho meno di te? Chi dice che non posso?», fece Isabella indispettita.
«Nostra madre non ti farà mai venire, dice che sarebbe sconveniente per una señorita!».
Isabella stava già iniziando il piagnisteo quando: «Cosa sarebbe sconveniente?». All’arrivo della signora i tre figli si alzarono educatamente.
«Buongiorno, madre!»
«Buongiorno, ragazzi», rispose la donna facendo cenno ai giovani di sedersi.
«Come va la tua attività di insegnamento, mio caro?», chiese al figlio maggiore.       
«Molto bene, madre!», esclamò Antonio animandosi per l’entusiasmo. «I bambini studiano e si impegnano moltissimo; dovresti vedere i loro visini incuriositi e sorpresi quando imparano qualcosa di nuovo e come sono avvinti dalla lettura dei libri che porto loro! Pensavo di fare una piccola biblioteca di narrativa per ragazzi nel capanno, così potrebbero prenderli in prestito quando vogliono, credi sia una buona idea?». Evitò naturalmente di dire che la sua attività didattica si era da poco allargata anche agli adulti.
La madre sorrise compiaciuta all’entusiasmo del figlio: «Certo, tesoro. Se ti fa piacere».
«Pensi ancora a quell’inutile perdita di tempo?»
Don Juan arrivò sia avvicinò con passi lenti alla sua famiglia; dall’abbigliamento sembrava tornare dagli alloggi dei contadini.
«Buona giornata, padre», salutarono i tre figli, alzandosi ossequiosamente. L’uomo si diresse verso Antonio, senza dare cenno di aver sentito. «Il guardiano mi ha detto che hai parlato con i fornitori riguardo la vendita delle sementi»
«Sì, padre. Sono riuscito a farmele vendere ad un prezzo inferiore rispetto a quelle dell’anno scorso e mi è stato assicurato che sono di ottima qualità»
«Un prezzo inferiore? Quando li ho contattati mi hanno chiesto un rincaro del trenta per cento rispetto all’anno scorso»
«Sì, anche a me, ma ho semplicemente spiegato che conoscendo il mercato so che quel rincaro era ingiustificato e in caso avremmo cambiato fornitori; non è loro convenuto vista l’importanza della nostra proprietà così le ho comprate al prezzo che mi sembrava onesto!»
«Bene. E i capi di bestiame?»
«Me ne sono occupato personalmente. Venduti, come mi avevate detto»
«Altre novità?»
«Abbiamo bisogno di sostituire alcuni attrezzi ormai usurati, domani andrò a controllare dove comprarli alle condizioni migliori. Per il resto, tutto procede tranquillamente. Ah, una coppia di contadini ha appena avuto un bambino, ho provveduto a mandare loro un cesto di buon augurio con il necessario per il neonato»
«Questo io però non te l’avevo chiesto….»
«Lo so. Ma ho lo stesso pensato che dimostrarsi gentili con i contadini avrebbe lo stesso ripagato in futuro; eviteremmo così eventuali malcontenti»
Don Juan sospirò in modo rassegnato. «Hai ancora convinzioni ingenuamente idealistiche che non so quanto possano pagare, in ogni caso per il resto…ben fatto. Sei stato bravo». E appoggiò la mano sulla testa del figlio prima di andarsene.
Quel semplice gesto e quelle parole furono la cosa più vicina ad una carezza che Antonio aveva mai ricevuto dal padre. Dovette sforzarsi per trattenere l’emozione che sembrò scoppiargli in petto.
La madre, guardando soddisfatta la scena prese la parola. «Tuo padre sa con quanta solerzia tu ti stia impegnando nella gestione della tenuta e quanto tu stia maturando. Sei ancora giovane ma stai diventando giorno dopo giorno un uomo…lo sa, ed è orgoglioso di te».
Ad Antonio gli occhi si illuminarono dalla felicità, abbracciando la madre.
 
III
I due ragazzi sedevano vicini, con entrambi i visi chini sul libro. Luis leggeva lentamente, aiutandosi a seguire la riga di lettura con l’indice; Antonio sorrise a quel vezzo che aveva in comune con i bambini. Era da alcune settimane che i due si incontravano, all’insaputa dei più, nel vecchio capanno; Luis aveva già imparato a scrivere, seppur lentamente e con qualche errore, e a leggere prima parole, poi frasi, adesso intere pagine. Le correzioni diventavano sempre di meno e ogni giorno il ragazzo tornava al suo lavoro più entusiasta sentendo di migliorare sempre di più.
Per Antonio quegli appuntamenti segreti con il giovane contadino erano diventati un piccolo irrinunciabile piacere quasi quotidiano. La fresca spontaneità del ragazzo, la sua mancanza di calcolo, lo facevano assomigliare sempre di più, ai suoi occhi, ad un bambino. Antonio cercava di non domandarsi e di non rispondere al perché troppe volte era arrossito guardandolo, perché lo guardasse troppo spesso, perché troppo spesso si trovasse a pensare a lui nei  momenti più diversi della giornata, soprattutto la sera prima di dormire. Non si voleva domandare il perché di certi sogni di cui si vergognava la mattina dopo, né del senso di disagio che lo assaliva quando ogni domenica usciva dal confessionale della chiesa con la sensazione di non aver detto tutto. Non si voleva domandare perché era il viso del ragazzo a scomparire del liquefarsi del piacere solitario che si concedeva nelle stanze chiuse.
«Stai migliorando con grande velocità, Luis!», esclamò ascoltandolo mentre leggeva ancora un po’ stentatamente.
«Dite davvero, señor?», chiese alzando gli occhi dal libro.
Antonio annuì. «Sì, ma ti prego, smettila con questo “senor”, non sono così tanto più vecchio o più signore di te».
«E come dovrei chiamarvi?»
«Antonio e dammi del tu»
«Del tu a voi?!!», esclamò più scandalizzato che sorpreso. «No, no, non potrei mai farlo!» e scosse la testa come a scacciare anche solo l’ipotesi di tale affronto. «Voi siete il padrone…»
«Sono il padrone di questo posto, non tuo. Nessun uomo è padrone di un altro». Luis lo ascoltò come se non si aspettasse quelle parole. «Io e te abbiamo la stessa età, forse siamo simili, come tutti i giovani abbiamo sogni che vorremmo realizzare. Tu non ne hai sogni Luis?»
Il ragazzo lo guardò confuso, senza sapere che dire. Non aveva mai pensato a cose come i sogni e gli ideali, aveva sempre lavorato nei campi insieme ai genitori e non riusciva ad immaginare un futuro diverso da questo. L’unica cosa di cui era sicuro era la gratitudine che provava per Antonio in quel momento.
«Siete strano…», fece, alzando gli occhi su Antonio,  «dite cose strane, fate cose che gli altri come voi non si sognerebbero mai di fare, parlate di cose che non sempre capisco, però…sono contento di essere qui con voi e di avervi conosciuto».
Ad Antonio il cuore saltò un battito.
Fu in una tiepida mattina di maggio, mentre i raggi filtravano dalla finestra  dentro un vecchio granaio smesso che una forza sconosciuta, senza coscienza, senza rimorsi, senza ragione, senza colpa o peccato lo portò vicino, troppo vicino a quel ragazzo.
Così vicino che quasi Antonio non si accorse, chinandosi sul quaderno dove Luis era intento a scrivere, che la distanza fra i loro due visi si stava riducendo sempre di più, che in un attimo prolungato all’infinito aveva già alzato il mento del ragazzo verso di lui, che la sua bocca si era appoggiata a quella dell’altro premendola leggermente.
Il tempo si congelò. Antonio non ebbe il tempo di provare imbarazzo, paura, disagio. Sapeva soltanto, in qualche remoto anfratto della sua anima, che nonostante quanto inculcatogli dalla morale, ciò che stava facendo non era sbagliato. Glielo diceva il cuore che martellava nel petto, la mano e le labbra che tremavano, il calore che pervase tutto il corpo, il respiro corto, l’ anima che esalava nella bocca dell’altro.
Ma si ricredette. Amaramente.
Luis si ritrasse violentemente, facendo cadere con fragore la sedia su cui era seduto e sostandosi come se una belva sanguinaria lo avesse morso. «Cosa state facendo?!»
«Luis, perdonami, era solo…»
«Non avvicinatevi!», gli gridò contro. Sembrava molto diverso dal pacifico ragazzo che aveva conosciuto in quelle settimane. «È per questo che mi avete fatto venire qui?»
I sottintesi di quella frase colpirono Antonio come una stilettata al cuore.
«Oh, no, no!», si affrettò a dire, sporgendo una mano come per rassicurarlo. «Non devi neanche pensare una cosa simile, l’ho fatto…»
«Non mi toccare! Non mi toccare mai più!»
Cosa vedeva in quegli occhi, prima così puliti e sereni? Odio, disgusto, delusione, paura. Luis aveva paura di lui. «Luis, ti prego, io non…»
Fuggì dal granaio senza voltarsi. Ad Antonio, affranto, rimase solo il quaderno a fogli ingialliti  pieni delle sue parole incerte.
 
IV
Fuori dal granaio non c’era nessuno. A quell’ora i bambini erano soliti aspettare Antonio per la consueta lezione. Si fece mentalmente il calcolo per chiarirsi se fosse quello il solito giorno, quello il solito granaio, quella la solita ora in cui era abituato a vedersi salutare festosamente dal suo nugolo di scolari.
Antonio fece un giro nei dintorni. Quello che portava con un po’ di impaccio un secchio ricolmo d’acqua non era forse Carlos?
«Carlos, non dovresti essere a lezione a quest’ora? E sai dove sono i tuoi compagni?»
«Buongiorno, maestro!», rispose il ragazzino un po’ titubante. «Io oggi devo aiutare la mamma…»
«Ho capito, ma tutti gli altri…?»
«Io non lo so…forse anche loro oggi devono aiutare».
Una donna, la madre di Carlos, arrivò a passo accelerato afferrando il bambino dalle spalle. «Cosa state facendo a mio figlio?!», esclamò allarmata.
Antonio la guardò confuso. «Niente, io volevo solo sapere come mai oggi non ho trovato nessuno ad aspettarmi…»
La donna lo guardò con un misto di timore e disgusto, malamente celato dal rispetto che necessariamente doveva verso il padrone. «Questo dovreste chiederlo a voi stesso. E comunque a casa abbiamo bisogno anche dell’aiuto di Carlos, bisogna lavorare tutti e lui ormai ha imparato dalle vostre lezioni il necessario che serve ad un contadino. Vi ringraziamo ma lui non frequenterà più e credo che questo valga anche per gli altri ragazzini». Sembrava spaventata da lui.
Il piccolo Carlos guardava ora la madre ora Antonio, non capendo appieno il motivo per il quale era costretto a lasciare il maestro a cui si era affezionato e le sue divertenti lezioni; sapeva soltanto che la mamma gli aveva proibito di parlare e stare insieme a lui.
Antonio non capiva. Non era possibile che quella donna  pensasse che lui potesse far del male a Carlos, non era possibile che lo pensassero i genitori degli altri bambini, non era possibile che loro avessero proibito ai figli di venire alle sue lezioni. Perché poi? All’improvviso si fece strada un pensiero.
Luis…lui avrà…avrà detto in giro qualcosa? Qualcosa che riguarda quello che è successo quel giorno? E questi genitori non mi vogliono affidare i loro bambini perché pensano che io…
Ad Antonio il mondo iniziò a girare intorno vorticosamente. Se la voce si spargesse, se arrivasse agli altri coloni, se arrivasse…a suo padre?
 
V
I tre ragazzi ritornavano a casa con le canne in spalla, Isabella portava orgogliosa un cesto coperto da una tovaglietta bianca. «Guardate quanti pesciolini avete preso grazie a me!»
«Tu non hai fatto niente! Li hai solo messi dentro alla cesta dopo che noi li tiravamo fuori dall’acqua», protestò Ferdinando.
«Non è vero! Antonio, diglielo anche tu che non è vero». Antonio aveva portato a pesca i fratelli come promesso ma era rimasto silenzioso e immalinconito per tutto il mattino, con l’aspetto di chi è presente solo fisicamente ma la cui mente voga per porti lontani. In quei giorni aveva cercato Luis per parlare dell’accaduto, per scusarsi, chiarirsi, tentare di dargli una spiegazione plausibile, ma non era riuscito a trovarlo o forse il ragazzo era riuscito a non farsi trovare.
«Anto, cosa ti prende? Non hai detto una parola per tutto il tempo…»
Un gruppetto di adolescenti era seduta su un muricciolo poco lontano da dove passarono i tre; Antonio riconobbe due o tre di loro, abitavano nella zona colonica, li aveva intravisti spesso.
I ragazzini appena videro i fratelli bisbigliarono qualcosa fra di loro, ridacchiarono, ammiccarono maliziosamente. Più chiaramente si sentì aleggiare nell’ aria una parola che sperò che i suoi fratelli non avessero sentito. Maricón.
Antonio istintivamente accelerò il passo per poterli più velocemente sorpassare, ma lo stesso quella parola continuava a uscire dalle loro bocche, sempre più accompagnata da gomitate d’intesa e sorrisetti maligni, quasi innocenti nella loro inconsapevolezza di fare tanto male. Maricón, maricón. Finchè non trovarono tanta baldanza da alzarsi  e gridare dietro ai tre: «Maricón! Maricón!! », provando compiacenza per la loro tracotanza.
«Cosa stanno farneticando quei mocciosi?», disse Ferdinando gettando un’occhiata accigliata. «Non lavorano per noi? Se mi danno fastidio lo dirò a nostro padre»
«Lasciateli perdere, sono solo ragazzini…», tremò la voce di Antonio.
«Maricón, maricón
«Fratello, che significa maricón?», chiese Isabella, stringendo di più la mano ad Antonio.
«Non è niente, vogliono solo scherzare, lasciateli perdere…», rispose, cercando la forza per non sentire, continuare a camminare senza voltarsi e parlare nonostante il groppo in gola.
 
 
VI
Non passò molto tempo prima che Antonio si trovasse ad essere chiamato  da don Juan.
«Voglio solo sapere una cosa e solo questa ti chiederò: quello che mormorano quei maledetti contadini che tu tanto hai in considerazione, quello che vanno raccontando dentro la proprietà e fuori di qui…è vero?»
Altri avrebbero forse mentito guadando il cipiglio di disprezzo sul viso di don Juan, ma non Antonio. Aveva paura, vergogna, imbarazzo. Ma  nel fondo rimaneva pur sempre una luce a sorreggerlo: quello era suo padre; lo amava, chi più di lui lo avrebbe, se non compreso, almeno perdonato?
«Sì, è la verità», mormorò in un ansito.
«Sei uno di quelli, un maricòn? Mio figlio?!». A Juan la voce tremava. Ancora quella parola, stavolta sulla bocca di suo padre; Antonio potè solo rispondere. «Io…non lo so. Luis mi piaceva. Io sono solo io».
Il viso dell’uomo divenne una maschera di rabbia e sprezzo.
«Padre…»
«Taci!!», gli urlò, con ancora il viso tra le mani. Il ragazzo abbassò di nuovo il capo.
«Beninteso, non mi riguarda o non mi importa niente di quel ragazzino che ti sei portato nel capannone, lui e la sua famiglia sono già stati mandati via».
« Hai licenziato Luis e i suoi?» si rianimò Antonio.
«In questo momento è l’ultimo tuo problema», gli rispose di rimando.
«Se fosse stata una ragazza avrei potuto capire, avremmo messo a tacere ben più di un bacio…»
Antonio provò un momento di subitaneo disgusto a cogliere le allusioni del padre, ma era troppo umiliato per ribattere qualsiasi cosa.
«…ma questo è troppo. Mio figlio. Riponevo in te la mia fiducia, fra qualche anno ti saresti occupato tu della proprietà; invece hai preferito lordare l’onore della famiglia con uno dei vizi più abietti dell’uomo!»
L’atmosfera della stanza si stava facendo sempre più pesante e ad Antonio quelle dure parole velate di rabbia gravavano come macigni sull’anima. «Vi prego, perdonatemi, ma non ho fatto niente di…»
«Stai zitto! Le persone come te vanno contro la Patria, la Famiglia e Dio!», gli ringhiò contro l’uomo. «Mi vergogno di averti come figlio»
Juan cercò di ritornare in sé e con più calma continuò: «Vattene».
Antonio non aspettava altro che uscire a quella stanza e terminare quel supplizio e già stava muovendosi per congedarsi, ma il padre continuò. «Dalla Spagna».
«Per qualche anno», continuò. «Potresti studiare lì, ti farà bene visitare un paese straniero. E quando ti sarai fatto passare dalla testa certi vizi tornerai più sano e responsabile di prima. Chissà che non sia altro che un capriccio passeggero».
Alla fine era questa per lui la soluzione. Allontanarlo della sua vista, dalla sua casa, dal suo paese per non far sporcare questi con l’onta che lui avrebbe portato; lo stava mandando via.
Antonio non ebbe la forza di parlare; oppresso dalla mortificazione e dall’amarezza semplicemente annuì e uscì dalla stanza. Fu così che arrivò a Trieste.

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