Il tempo è un lusso che non ci possiamo permettere

di MrsCrowley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** This is only a game ***
Capitolo 2: *** La droga t'inganna. La droga ti spegne. La droga t'uccide. ***
Capitolo 3: *** L’ultimo nemico che sarà sconfitto è la morte ***
Capitolo 4: *** L'odio è un tonico, fa vivere, ispira vendetta ***



Capitolo 1
*** This is only a game ***


Prologo

 

This is only a game


A ''Trainspotting'', che mi ha aperto un universo.

E a Giuliana, che me l'ha fatto leggere.

E a tutti quelli che ci sono troppo dentro.

 


Ognuno di noi ha un modo diverso di reagire alle situazioni. C’è chi semplicemente sprofonda in un oceano da dove non riesce più a risalire, chi cerca di vedere il lato migliore di tutto e poi ci sono quelli della peggior specie, chi contraccambia ogni cosa con la stessa moneta.

Così erano i nostri tre eroi. Erano belli, giovani e avevano tutto dalla vita. Dei padri influenti che assicuravano loro un futuro bancario più che rispettoso, delle fidanzate disinibite e innamorate, degli amici che li veneravano. Si conobbero una sera, seduti in uno dei locali più lussuosi di tutta Amsterdam.
Erano lì con i loro genitori per questioni di affari, visto che tutti i più grandi capi bancari si sarebbero dovuti riunire per discutere di finanza, di affari riguardanti la Borsa che a loro interessavano davvero ben poco.
A loro interessava solo la città dove si trovavano.
Anche la persona più sana di mente perde ogni sua inibizione e ogni suo freno, ad Amsterdam. Non sei più in te stesso, quando ti trovi in quella città. Loro questo non lo sapevano, non prima di trovarsi a bere, seduti allo stesso tavolino. Non prima di raccontarsi l’uno all’altro e di capire che non era quello che volevano dalla vita.
Loro avevano bisogno dell’anarchia. Avevano bisogno di governarsi da soli.
Avevano bisogno di non sentirsi dire da nessuno cosa fosse giusto e cosa invece fosse sbagliato fare. Volevano prendersi ogni cosa dalla vita, e quando qualcuno vuole trasgredire ogni regola non esiste posto migliore di Amsterdam. Tutti decantano tanto i divertimenti di Las Vegas, ma i tre ragazzi avevano in mente modi ben migliori di investire tutto il loro denaro.
Modi che di certo non riguardavano il gioco d’azzardo.
Nessuno di loro aveva mai fatto uso di sostanze illegali, vissuti in quel perbenismo sociale ed educati a dover diventare un giorno dei grandi uomini di affari.
Christian, Adrian e Oliver. Questi i loro nomi.
 
Cosa volete saperne però voi criticoni, del dolore?
Cosa volete saperne del colore che assume?
Voi che siete sempre pronti a sputare merda su tutto, lo sapete che forma c’ha il dolore? Il vostro incubo peggiore è mai divenuto realtà?
Sareste pronti a entrare nella dimensione del dolore più profondo?
Non credo. Non credo che voi siate pronti ad affrontare il dolore, la consapevolezza di dover morire. Il vostro incubo peggiore non è ancora diventato realtà.

Ma il dolore rende sadiche anche le più brave persone, per questo vi devo raccontare ogni cosa.
Io non sono nella lista delle ‘brave persone’, sono nella lista di persone che vostra madre da bigotta non vi permetterebbe di frequentare. Il sadismo è il mio modus operandi. E voi siete pronti, a leggere il dolore?

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Capitolo 2
*** La droga t'inganna. La droga ti spegne. La droga t'uccide. ***


Capitolo 1.

La droga t’inganna. La droga ti spegne. La droga t’uccide.

Tu la consumi, lei ti consuma. Ne vale davvero la pena?

 

 
E pensare che proprio lui, un tempo, aveva tutto dalla vita.
A guardarlo in questo momento probabilmente non si direbbe.
Rampollo di una famiglia della neo borghesia inglese, avrebbe potuto ereditare una grande fortuna e sposare una delle ragazze più ambite di tutta Londra. E invece, con gli occhi fuori dalle orbite, cammina per la stazione reggendosi a stento in piedi. Gli occhi un tempo grigi, adesso sono così scuri che l’iride sembra aver inghiottito ogni pigmento di colore. Il nero lo divora e lo acceca, il nero acceca ogni parte della sua anima. Nero e grigio si fondono, in quelle che sono diventate grandi pozze antracite. Tra le vene non gli scorre più sangue, ma un misto di vari tipi di veleno che solo stesso ogni giorno si somministra. Continua a trascinarsi in giro e a farsi vedere dalla gente, fumando la sua sigaretta che di tabacco non ha nulla e lasciandosi dietro una scia di oppio. I poliziotti ormai lo lasciano stare, considerandolo innocuo. Ogni tanto qualcuno gli si avvicina, e gli chiede come ha fatto a ridursi così. Solo in quei momenti il nero che lo corrode sembra andare leggermente via, lasciando traboccare tutto il suo dolore. Ma il nero è più forte del dolore ormai, si è arreso da tempo. Non ha più voglia di vivere. Tutti dicono che è stata la droga a dargli al cervello, lui lo sa cosa pensano i ragazzi quando gli passano accanto, sa cosa dicono di lui e non gli piace affatto. Più volte gli ha lasciato contro le sue bottiglie di birra, precedentemente scolata, come se fosse un antidoto. Ma non esiste nessun antidoto alla morte che incombe su di lui, e quando si specchia negli occhi fissi della gente, gente ignara che gli si avvicina nella speranza di dargli una mano, solo in quei momenti lui riesce a combattere il nero. In quei momenti esce fuori tutto il suo dolore, tutte le sue lacrime.
Quelli sono i suoi unici momenti in cui torna ad essere lucido. Ricorda ancora come se fosse ieri la sua prima volta. Si trovava in quella maledetta città, in compagnia di altri tre ragazzi come lui. Aveva perso le tracce di loro, non sapeva più neanche se fossero vivi o morti. Magari loro erano ancora vivi e sani, e lui invece ci stava per lasciare le penne. Dio solo avrebbe potuto sapere quanta paura aveva lui di morire. Christian però non credeva in Dio e non ci crede tutt’ora, per questo non trova rifugio nella preghiera. Lo considera ancora un gesto per deboli, per persone che hanno bisogno di una chimera a cui appigliarsi.
Non ha paura di morire perché teme l’Inferno, fin da adolescente la sua più grande paura è stata il vuoto, il nulla, l’indecisione. Per lui la vita era fatta di bianco o di nero, non esisteva nessun altro dolore. E adesso tutto intorno a lui invece era diventato grigio, solo la sua anima continuava ad essere nera. Si era ridotto allo stato di spettro, anche la sua pelle era diventata grigiastra. Tutto in lui era grigio. Sarebbe morto di una morte grigia, lo sapeva.
La droga t’inganna. La droga ti spegne. La droga t’uccide. Troppe volte gliel’avevano detto.
***
La droga t’inganna.
- Dai muoviti, cosa vuoi che sia infondo? Si tratta di uno spinello! – i due ragazzi seduti davanti a lui, con lo spinello già in bocca, lo guardavano commiserando la sua debolezza. Con audacia aveva allungato la mano e inspirato profondamente, lui che non aveva fumato mai neanche una sigaretta. Era come se qualcosa gli fosse entrata dritta nel cervello. Si sentiva carico ed esplosivo. Era questo che si provava?
Di quella sera ricorda due cose: lo spinello era incartato in una carta vergata grigia. Grigio antracite. E quella sera Christian nel pieno dell’ebbrezza andò a letto con una ragazza la prima volta. Di lei non ricorda neanche il nome, tutto ciò che gli rimane di quella ragazza sono grandi occhi grigio freddo, freddo come la sensazione di vuoto che aveva provato lui davanti al suo stesso liquido biancastro.
***
Quella era stata la sua prima volta. Non solo sotto le coperte, no, anche con le sostanze stupefacenti. Da allora Christian aveva due buoni amici, e soprattutto una potente alleata: la droga. Erano passati solo un paio di mesi, e lui aveva provato di tutto. Sgranò gli occhi sorpresi, il giorno in cui i due amici piombarono davanti a lui con un sorriso più largo del solito e lo trascinarono dietro la stazione.
- Che diavolo avete in mente? – chiese lui preoccupato, ma nessuno sembrava preoccuparsi di dargli una risposta.
- Ti abbiamo voluto così tanto bene da lasciare anche uno schizzo per te, stronzo, e tu così ci ripaghi? – chiese Adrian con quel ghigno che non gli lasciava mai il volto, piuttosto stizzito. Gli strinse un laccio sul braccio sinistro, sulla pelle morbida che divenne in quel momento tesa. Sentiva la vena pulsare violentemente contro quel laccio, sentiva il sangue che affluiva più veloce del solito e il braccio dolergli lentamente. Aveva stranamente la salivazione pressoché nulla.
- Sei proprio un pezzo di merda – concluse Oliver divertito, prendendo un ago. Una strana sostanza all’interno, precedentemente disciolta. Christian deglutì a fatica, guardandola rapito, senza muovere neanche un muscolo. Anche il cuore pareva essersi fermato. Era grigia.
Lui non apriva bocca, non aveva forza di farlo. Fu un secondo. Adrian gli punzecchiò la vena violacea già ben evidente, e Oliver gli piantò la siringa all’interno dell’avambraccio. Christian chiuse gli occhi emettendo un gemito di dolore, che si trasformò subito in piacere. La testa gli vorticava. E quella sostanza grigia rendeva tutto il suo corpo vivo, come mai si era sentito. Era pronto a qualsiasi cosa.
- Il grigio è il mio colore preferito – farfugliò buttandosi a terra disteso, gli occhi grigi spalancati, la bocca semi aperta, quasi in trance. Estasi. Pura e sana estasi.
***
La droga ti spegne.
Odiava il grigio e qualsiasi cosa lo riguardasse. Le pareti della sua camera erano grigie. I suoi denti, a furia di tabacco e sostanze varie, erano grigi. La sua pelle era grigia. L’eroina era grigia. La sua vita era grigia. Ma il grigio non gli piaceva più, non riusciva più ad accenderlo. Lo aveva reso smorto e quasi malaticcio, adesso, si sentiva strano e non aveva forza di muovere neanche un passo. Si tirava in piedi solo per andare a prendere dell’altra ero e potersi di nuovo bucare.
Quando ti droghi è un poco come quando sei innamorato. Non capisci nulla, e non esiste nulla al di fuori di lei. Lui era un bravo amante, fedele, non come tanti stronzi che se ne facevano una dietro l’altra. Lui si faceva solo di ero. Esisteva solo lei. E diciamocelo, qualcuno avrebbe potuto volere di meglio?
Dolore. Dolore lancinante. Dolore all’interno. Un dolore che non sapeva placare. Le palpebre gli calavano pesanti sugli occhi, chiudendosi da sole. Non riusciva a prendere sonno da tre notti di fila. Era stano, era infuriato, e aveva bisogno di un altro schizzo se non voleva impazzire. Come un televisore rotto, si alzò a scatti e andò a prepararsi il necessario. Si addormentò sul pavimento ormai sporco e sudicio, non lavava a terra da secoli. Sporco, grigio. Tutto era grigio. Tutto era spento.
Lui era spento.
***
La droga t’uccide.
Che fine avesse fatto non avrebbe saputo spiegarlo neanche a se stesso. Ricordava a stento il suo nome. Chi era? Cos’era? Non avrebbe saputo farlo. Una donna si china davanti a lui. Si trova in una stazione ferroviaria ma non sa come vi è giunto. In bocca l’odore amaro di chi ha vomitato l’anima, l’odore di alcool bevuto in precedenza. Le gambe pesanti, la testa indolenzita. Deve essersi preso una sbornia. La donna si china ancora di più, squadrandolo. E in quel momento nota qualcosa che gli fa prendere piena consapevolezza di sé. In quella coltre di capelli scuri che le scendono arruffati sul viso, spiccano due occhi grigi che la frangia svolazzante tenta quasi di coprire. Due occhi che però lottano per essere visti. Due occhi che gli fanno perdere forse dieci anni di vita, come se lui ne avesse tanta ancora davanti.
- Posso esserti utile? – gli chiede quella voce gentile. Cauta. Lui la guarda incuriosito, solo i ragazzini di solito gli si avvicinavano. Quei due occhi grigi gli avevano fatto tornare a mente chi era e perché si trovasse lì.
- Sì signora. Lei ha figli? – domanda quasi disperato. La donna pare non capire, ma annuisce senza chiedere spiegazioni.
- Li tenga lontani dalla droga. La droga t’inganna. La droga ti spegne. La droga t’uccide. – è tutto quello che riesce a dirle, a quella bella donna. Lei si siede a terra, lasciandosi scivolare di fronte a lui.
- Mio figlio è scappato di casa un mese fa. Ha iniziato a farsi e i..io.. Io gli ho vietato di avere s-s-soldi. E l-lui è an-an-andato via. – dice la donna piano, come se temesse anche di farsi sentire. Qualcosa mi si stringe contro il petto.
- Gli dica allora, che qui in stazione ha conosciuto un quarantenne. Un ragazzo un tempo bello e piacente, ricco – continua lui, tirando fuori una foto di sé da giovane e porgendola alla donna. I suoi occhi grigi erano un tempo splendenti come quelli della creatura di fronte a sé. Anche se non avevano il dolore che c’era adesso in quegli occhi gentili. Quegli occhi gentili avevano lo stesso dolore di quelli di Christian in quel momento, ma non erano ancora divorati dal nero. Non erano ancora antracite. Christian parve assorbire un poco della loro purezza, e si fece forza.
- Iniziai a drogarmi dieci anni fa, glielo dica. Era tutto un gioco per me, e all’epoca la droga mi era sembrata una grande amica, una potente alleata contro il perbenismo della mia famiglia. Dica a suo figlio che adesso non ho più lucidità, se non brevi momenti. Gli dica che mi trascino avanti per non affrontare la morte. Gli dica che l’HIV mi sta portando via lentamente, e che la droga mi ha spento così tanto che non ho neanche la forza di lottare. La prima persona a cui dico di essere malato è proprio lei.- le sue parole sono sentite, dette con il cuore. Sussurra l’ultima frase quasi a non volersi far sentire. Ammettere la malattia non è il primo passo per lottarla, non per lui. Quello è solo l’ultimo passo verso la morte.
Christian ha scelto di annegare, in tutto quel grigio. E’stato stretto dalla sua morsa e non è più riuscito ad andare oltre. Christian ha scelto di non reagire, di lasciarsi uccidere. Ma le ultime parole che pronunciò a quella donna, furono le ultime che disse in vita sua, e quelle più vere.
- Non è stata la malattia a uccidermi, è la droga a portarmi via. È sempre stata colpa sua.- e con un ultimo sospiro, la grigia vita uscì via dal suo grigio e stano corpo. La sua anima era grigia. La donna che aveva incontrato quel giorno, riuscì a recuperare suo figlio parlandogli di Christian. E per sdebitarsi con quell’uomo, il suo Salvatore e il suo eroe, aveva fatto scrivere delle parole sulla sua tomba.
Un ragazzo giovane, dai ridenti occhi grigi, camminava sotto braccio con sua madre. La donna portava in mano dei fiori, bianchi. Fu il ragazzo a posarli su di una bara.
- Quello era tuo padre. E tuo padre è morto, ucciso dalla cosa che ti ha fatto nascere. Dalla cosa che ti stava per portare via da me. - sussurrò la donna.
Non è stata la malattia ad uccidermi, è la droga a portarmi via. Il giovane lesse e rilesse quella frase. Sua madre gli aveva raccontato dell’incontro con quell’uomo e di come era nato. Per lui era stato solo sesso, o forse solo destino. Il destino aveva voluto che suo padre gli avesse salvato la vita, senza forse neanche saperlo. Suo padre era morto per mano della droga, ma lui non lo avrebbe potuto fare. Lui aveva lottato. E anche se non l’aveva mai conosciuto, sapeva che quell’uomo sarebbe stato fiero di lui.

 
 

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Capitolo 3
*** L’ultimo nemico che sarà sconfitto è la morte ***


Capitolo 2.

L’ultimo nemico che sarà sconfitto è la morte


Stanco, un ragazzo ormai non più tanto giovane e dallo sguardo blu elettrico scese giù dal letto. Viveva ancora nella grande casa dei suoi genitori. Non l’aveva abbandonata, e i suoi gli avevano concesso di fare qualsiasi cosa avesse voluto, di godersi appieno gli ultimi giorni di vita che gli spettavano. Non che avesse bisogno del loro consenso,  Adrian. Alzò gli occhi puntandoli verso la finestra, dove splendeva un cielo blu come i suoi occhi. Si sentiva stranamente felice, euforico. Quella sarebbe stata la sua ultima settimana di vita e lui aveva una lista lunghissima di milioni di cose che avrebbe voluto fare prima di lasciare questa vita. Non aveva paura della morte, una volta che fosse giunta l’avrebbe salutata come si fa con una vecchia amica.
Una parte di lui, aveva sempre saputo che sarebbe finita così. A dire il vero pensava di restarci secco a ventisette anni, in una stanza d’albergo, sopraffatto dal suo stesso vomito. Non era stato così però, sarebbe morto nella lussuosa residenza dei suoi genitori, con qualche anno di più dietro le spalle.

***

Chi sa che la vita non sia un morire; e ciò che noi denominiamo morte, non si chiami laggiù vita?
Così diceva Euripide, e fino a un mese fa la pensava anche lui così. La morte era solo un ciclo, nient’altro che l’inizio di una nuova era. La morte era ciò che per il bruco era la larva, qualcosa di ignoto da cui nasce però una splendida farfalla. Lui non ne aveva paura. Non ne aveva paura fino a quando, durante un controllo in ospedale, una bionda infermiera si era avvicinata a lui. Spavaldo Adrian credeva di aver fatto colpo, ma gli cadde addosso una doccia d’acqua gelata che placò per sempre la sua eccitazione.
- Tu sei malato, gravemente. – gli era stato detto così, senza forse il minimo tatto. Come se sapere le cose in quel modo sarebbe stato più facile.
- Non è vero. – aveva risposto prontamente, alzando un sopracciglio. Quante volte aveva lottato contro quel pregiudizio? Per tutti, drogarsi significava essere malati. Volevano capirlo una buona volta che non era così?
- Le cartelle cliniche parlano chiare. Lo abbiamo trovato nel tuo sangue – rispose la donna con cipiglio severo, usando però lo stesso tono conciliante che si usa con i bambini. Adrian sentiva il sangue nelle vene ribollirgli, lo stava trattando come un deficiente?
- Solo perché tu non hai mai provato la bellezza di una siringa, non significa che io sia malato. Mi drogo, e ne vado fiero. Ne sono felice. – rispose con fare provocatorio, passandosi una mano tra i capelli scuri. La ragazza si sedette accanto a lui, prendendogli una mano.
- Hai mai condiviso le siringhe? – chiese incuriosita, fissandolo. Lui annuii stancamente, le condivideva spesso, non gli bastavano tutti i soldi che i suoi gli passavano, ormai doveva spararsi uno schizzo ogni quattro ore e la roba costava vertiginosamente. Effetto della crisi del cazzo e di tutti quegli stupidi ragazzini che iniziavano a drogarsi soltanto per il gusto dello sballo e non lasciavano più la roba per chi ne aveva davvero bisogno, come lui.
- Lo immaginavo. – riprese la ragazza. Lo stava irritando, voleva sentirsi chiedere dove stava andando a parare? No, lui non era il tipo che gliel’avrebbe lasciata vinta con così tanta facilità. Alzò gli occhi al cielo, incrociando le braccia al petto ignorandola.

***

- Hai contratto il virus, Adrian. – disse la voce spezzata di sua madre, entrando in camera sua quel pomeriggio. Cos’avevano tutti quel giorno, a continuare a ripetergli che era malato? Il ragazzo finse di star dormendo, e la donna piangendo si avvicinò a lui.
- Dio, perché mi hai fatto questo? Il mio unico figlio, un tossico. E morirà tra un mese, me lo stai portando via, perché? – Adrian sbarrò gli occhi irritato. Guardò in cagnesco sua madre, che si raggomitolò sulla sedia, continuando a stringergli la mano e piangendo silenziosamente.
- Dio non esiste, ma’ – fece lui, alzando le spalle. Alla stronzata del Paradiso non aveva mai creduto, e i suoi spesso lo avevano rimproverato per questo, ma lui non era un allocco. Lui era un tipo forte, uno che sapeva come stavano le cose. E Dio non era altro che pura immaginazione.
- Ti ho appena detto che sei malato, e tu.. tu rinneghi Dio? – domanda sbigottita. Quella donna che l’aveva portato in grembo, adesso guardava il figlio di fronte a lei senza neanche riconoscerlo. Gli occhi ancora umidi, le divennero d’un tratto vuoti e vitrei, come se avesse perso l’anima. Ma si può vivere senza anima, a patto che cuore e cervello continuino a funzionare. È un’esistenza orribile e atroce, non hai più la consapevolezza di essere, non hai più i ricordi. Ma vivi. La donna si aggrappò con le unghie sulla sedia, guardando verso il figlio.
- Era un rischio che sapevo di poter correre. Ho l’AIDS, e allora? La state facendo troppo tragica – si lamentò lui, per nulla preoccupato. Negli occhi azzurri brillò un lampo di sfida. Si era preso tutto dalla vita, non aveva rimpianti, perché avrebbe dovuto temere la morte? Quella per lui sarebbe stata soltanto un’altra splendida avventura.
- Cosa stai dicendo? – chiese confusa la donna, aveva la sensazione che suo figlio avesse perso il senno.
- La morte è l’ultimo nemico che sarà sconfitto infondo, no? – gli chiese con un ghigno, lei scosse la testa.
- Tu sei pazzo! La droga ti ha annebbiato anche il cervello! – sbottò lei piangente, meritandosi un’altra truce occhiata dal ragazzo. Non lo riconosceva più.
- Mi sbagliavo ma’. Il pregiudizio è l’ultimo nemico che sarà sconfitto. – disse, chiudendo gli occhi. Per lui il discorso era chiuso, non aveva più senso continuare. Aveva un mese di vita, e in questo mese avrebbe fatto tutto quello che ancora non aveva fatto.

***

L'unico modo per sconfiggere la morte consiste nel non temerla. Lui non ne aveva paura, lui era pronto. Erano passati trenta giorni da quando aveva saputo di dover morire, il suo mese era praticamente finito, ma non ci faceva troppo caso. Guardò il cielo stellato, quel blu intenso gli diede un poco di calore. Si sentì stranamente più vivo, più vivo di quanto fosse stato in tutti quegli anni. E iniziò a tornare in dietro con la memoria, indietro nel suo passato. Chissà che fine avevano fatto quegli altri due ragazzi che aveva conosciuto ad Amsterdam quella sera e con cui aveva diviso così tante esperienze. Loro forse erano stati sfortunati, non erano ancora malati.
Chiuse gli occhi, assaporandosi il torpore del sonno. Non voleva pensare alla droga, al sesso, all’alcool o alla malattia adesso. In quei giorni si era dato alla pazza gioia, aveva fatto di tutto. Distratto, aprì gli occhi per guardare il cielo e vi si specchiò. Gli parve di volare in esso, sospinto dal vento che accarezzava piano il suo corpo.
Era una sensazione bellissima.
Lui aveva sempre desiderato di poter volare, volare davvero, non salire su un aereo o cose del genere. Voleva librarsi in aria, non poteva chiedere di meglio.

***

Un urlo terrificante riempì l’aria. La donna aveva salito le scale come tutte le mattine per andare a svegliare suo figlio. Ma suo figlio aveva gli occhi spalancati, rivolti verso la finestra, e un sorriso vittorioso dipinto sulle labbra. Un sorriso sognante. Un brivido percorse la schiena della donna, mentre si accasciava a terra, prendendo la mano ormai fredda del ragazzo, e portandosela sulle labbra.
Una madre non dovrebbe mai sopravvivere a suo figlio. Si rimproverava aspramente per essere vissuta più a lungo di lui. Guardò gli occhi blu del ragazzo – i suoi stessi occhi blu – e fece una cosa che mai nessuno si sarebbe aspettato da lei. Andò in bagno, e prese la siringa del figlio. Non la iniettò di nulla, ma se la ficcò nelle vene. Voleva prendere anche lei quel virus.
Voleva morire, e raggiungere suo figlio. Ma non voleva sporcarsi il sangue con la droga. Poi ripensò amaramente alle parole del figlio.
L’ultimo nemico che sarà sconfitto è il pregiudizio.
Ah sì? Chiese contrariata. Cercò le pasticche, frugando in tutti i cassetti. Alla fine le trovò.
Una. Due. Tre. Quattro. Cento. Poi perse il conto. Si trascinò vicino al figlio, abbracciandolo e mettendo in bocca un’ultima compressa.
- Ce l’ho fatta. L’ho sconfitt…- sussurrò, specchiandosi nei suoi occhi.
Vennero ritrovati così, alla sera, quando un uomo tornava da lavoro per cenare con la sua famiglia. Su quella casa aleggiava uno strano profumo di morte e disperazione.

Ma lui, Adrian, dalla vita si era preso tutto. E adesso era pronto a volare, nel cielo blu.

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Capitolo 4
*** L'odio è un tonico, fa vivere, ispira vendetta ***


Capitolo 4

L'
odio è un tonico, fa vivere, ispira vendetta


- Mamma – chiamò una ragazzina, sbattendo violentemente il libro che aveva poggiato sulle ginocchia. Una donna le si avvicinò con un sorriso. Era raro che sua figlia la chiamasse con quel tono così flebile, di solito attirava l’attenzione urlando. La ragazza aveva gli occhi gonfi, arrossati e vuoti. La madre si sedette accanto a lei, poggiando la schiena contro la parete bianca e fredda e aspettando che parlasse. Serrando i pugni, con le nocche bianche, la ragazza alzò lo sguardo sconfitta.
- E’morto – sussurrò, le mani sul volto come a proteggersi da qualcosa di invisibile, o forse di visibile solo per lei. Non capendo, la madre la fissò attonita, sbarrando gli occhi.
- Fred.. Perché lui? Perché esseri inutili come la Umbridge no, e Fred sì? – la ragazza incrocia le braccia sul petto, e la donna sorride scompigliandole i capelli. A quel rifletto, la ragazza alzo lo sguardo verso la madre. Con un leggero sorriso, decide di farle provare un poco del male che lei sta provando in quel momento.
-  Sai, Fred aveva i capelli rossi. Rossi come papà – mormora, vedendo lo sguardo della donna spegnersi. Aveva bisogno di farle del male, per sminuire il suo dolore in quel momento. La ragazza serrò le braccia attorno alla vita, stringendosi a sé e raggomitolandosi su se stessa, come a volersi proteggere da quella morsa dolorosa. Con la consapevolezza che avrebbe cruciato chiunque le avesse detto che era solo un libro, si rintanò in camera sua, riprendendo quel prezioso cimelio che prima aveva scaraventato lontano. Non aveva più molta voglia di leggere adesso, però.

* * *

- Oliver! – urlò una ragazza, bussando forte sulle porta di casa sua.
E questa chi cazzo è adesso? Pensò lui stizzito, che si stava godendo un meritato riposo dopo una notte passata insonne. Andò ad aprire di malavoglia, e si trovò davanti una ragazza dai capelli castani, lucenti, che lo guardava intimorita. Come se avesse saputo di non dover essere lì. Si erano conosciuti due sere prima, Oliver era ancora se stesso all’epoca. Era un ragazzo normale, uno che si bucava ma che fondamentalmente stava bene, non era in dipendenza, non aveva dolore. Era uno a posto, nessuno sapeva del suo problema con la droga, neanche i suoi genitori. Era un manager di successo, agli occhi della gente.
Poi qualcosa era andata storta nella sua vita perfetta. La sua copertura stava per cadere e lui semplicemente non era pronto per affrontarlo.
Codardo.
Il pomeriggio prima si era sentito male, e si era trascinato fino all’ospedale. Dopo ore passato a fare esami, erano arrivati i risultati.
Era sieropositivo.
Cazzo, tra tutte le piaghe del mondo proprio quella doveva succedergli? Si era mantenuto piuttosto calmo, sorridendo freddamente e tornandosene a casa. Era malato, ma non ancora in pericolo di vita, e lui non aveva intenzione di morire facilmente. Avrebbe combattuto da eroe, e avrebbe portato con sé quanti più nemici possibili. Non sapeva se fosse stata una siringa infetta o un rapporto non protetto, la causa della contrazione.
Da sempre misogino, decise di dare tutta la colpa alle donne. Con loro se la sarebbe presa. Erano la loro cavia preferita, dopotutto. Quella biondina sarebbe stata la prima vittima, lo decise con freddezza calcolata.

* * *

Mesi dopo quell’incontro, Oliver aveva mietuto già molte vittime. Nessuna ovviamente sospettava di lui, nessuna sapeva che lui era malato. Dopo una settimana dall’incontro, chiamava sempre le fortunate ragazze che aveva scelto con cura. Bello e ricco com’era, nessuna sapeva dirgli di no.
Se le ragazze, dopo una settimana, rifiutavano.. era perché avevano contratto il virus.
Se non lo facevano era perché ancora non avevano sintomi, ed era necessario che li avessero. Nessuna doveva restare illesa.
Anche la prima ragazza, dopo quattro settimane non aveva più voluto vederlo. Si ricordava di lei, aveva una foto di tutte le sue vittime, un diario che aggiornava periodicamente con date e recapiti telefonici.
Era una tiepida giornata soleggiata, quando il suo cellulare squillò.
- Pronto? – disse annoiato, chiedendosi chi si prendesse la briga di chiamarlo a quell’ora. Erano ancora le nove del mattino.
- Oliver.. – una voce femminile, affannata, lo sorprese. Aggrottò il sopracciglio senza dire nulla, restando in ascolto. Ovviamente, non aveva riconosciuto la voce.
- Scusa per come ti ho scaricato, è che c’è una cosa che dovevo dirti e non sapevo come farlo. Adesso forse è troppo tardi, ma devi saperlo.. – disse con voce asciutta, ma spezzata. Sembrava che stesse soffrendo. Doveva dirgli che aveva contratto il virus? Oliver sorrise, quasi folle. Non vedeva l’ora.
- Sono in sala parto. Nostra figlia nascerà tra poche ore. – quella cosa lasciò di stucco il ragazzo. Deglutì pesantemente, e per qualche sadico motivo decise di recarsi a quel dannato ospedale. Fu la prima ed unica volta che vide sua figlia. Era identica a sua madre, di lui non aveva niente se non il sorriso.
Peccato.Avrebbe dovuto avere i miei capelli rossi. Sogghignò guardandola. La sua vita era sempre stata rossa. Prima era un ragazzo passionale, sentimentale, romantico e sensuale. Adesso era diventato un freddo e astuto calcolatore, freddo come i suoi occhi di ghiaccio e vendicativo come i suoi capelli rossi. Un contrasto spiazzante, sia a livello fisico sia nelle profondità della sua anima. Fuoco e ghiaccio si fondevano dentro di lui, pericolosamente. Era un pericolo per chiunque capitasse sulla sua strada.

* * *

Ovviamente, non aveva più visto quella bambina. Non ufficialmente almeno.
Da quando lei andava a scuola, la spiava tutti i giorni. Ormai faceva le superiori, era abbastanza grande. E lui era troppo stanco per continuare a trascinarsi. Doveva compiere la sua missione. Aveva ucciso fin anche troppe donne, ma non aveva perso la sete di vendetta.
- Devo trovare qualcun’altra – si disse, in tono pensieroso.
- Che ne pensi della tua stessa prole, Oliver? – rispose una vocina compiaciuta dentro la sua testa. Quella era forse l’idea più geniale che avesse mai avuto. E non erano state poche, a dire il vero.

* * *

La polizia lo stava cercando. O meglio, stava cercando il serial killer che trasmetteva a donne bellissime il virus dell’HIV. Nessuno avrebbe potuto sospettare di lui, mai. Era ancora un imprenditore geniale, e nessuno sapeva della sua malattia. Non l’aveva mai dichiarata. Era tutto calcolato, da sempre.
Una sirena passò davanti alla sua auto, era fermo immobile ad aspettare che le scolarette uscissero. Sua figlia avrebbe dovuto prendere il pullman, ma lui si sarebbe presentato a lei. E sapeva anche come attirarla.
- Non ho potuto fare a meno di sentirti discutere con la tua amica – le disse, mentre lei si dirigeva stanca e inferocita verso la fermata. Alzò gli occhi per guardarlo, e sorrise un secondo. Era ancora un bell’uomo, dopotutto. Quel pensiero gli scaldò il cuore, anche se solo per qualche secondo.
- Anche io ho preso troppo male la morte di Fred. E anche quella di Bellatrix. E di Sirius. E di Lupin. E di Dobby. E di Piton. Di tutti, a dire il vero – se c’era una cosa che apprezzava di sua figlia, era che adorasse Harry Potter. Questo però non l’avrebbe salvata. Prese per mano la ragazza, conducendola con sé.
- Che ne dici di fare infuriare tua madre e di farti accompagnare a casa da uno sconosciuto? – chiese, con un sorriso. La ragazza annuì ed estrasse il cellulare, componendo velocemente un messaggio. Forse stava raccontando alle sue amichette l’incredibile avventura, forse avvertiva sua madre di non andarla a prendere. Eravamo in macchina, eravamo già partiti quando lei mi squadrò profondamente.
- Io lo so chi sei – disse con lentezza, sfoderando il suo sorriso. Il mio sorriso. La guardai accigliato.
- Sei venuto a prendermi, vero?- chiese divertita, continuando a sorridere.
- Sono l’ultima che vuoi finire, prima di lasciarci la pelle, vero? – chiese ancora, senza perdere il suo sorriso. Il tono però le si era indurito, gli occhi erano diventati di ghiaccio.
- Vero, papà ? – ringhiò, facendomi frenare prepotentemente. Volevo chiederle come facesse a saperlo, ma non lo feci. Avrebbe detto tutto lei infondo.
- Sei fortunato. Sono già malata, perché mi hai trasmesso il virus da quando sono al mondo. Sono in cura da sempre. Remus mi ha insegnato a non vergognarmi di quello che sono, a essere forte e a cercare di essere felice lo stesso. A cercare l’amore, quello vero. Quello che ti accetta per come sei, senza paura. – disse tutto d’un fiato, gli occhi tristi. L’uoh
mo la fissò, e sentì il rosso del sangue imporporargli le guance.
- Io non ce l’ho con te. Volevo che lo sapessi. Ma vienimi a trovare più spesso. Potremmo leggere insieme. Potresti imparare anche tu.. – il suo tono adesso era quasi di preghiera. In che situazione del cazzo si era andato a ficcare? Quella ragazzina era un pericolo, avrebbe potuto rivelare tutto e io sarei stato nei guai. In guai grossi.
- Come hai fatto a scoprirmi? – fu tutto ciò che rispose, guardandola allibito. Non si sarebbe aspettato per nessuna ragione una reazione del genere da quella piccola.
- Sei mio padre, e anche se fisicamente non mi assomigli, hai il mio stesso cervello. Anche io per un istante ho desiderato di passare il virus a tutti, così forse me lo sarei tolta io. Ma sarebbe stato sciocco, e non volevo fare il tuo stesso errore. Pensavo fosse stato un errore. Poi dopo tutti i casi di donne che avevano contratto il virus in città, ho capito che non era così. Tu lo facevi volontariamente. – non c’era odio nella sua voce, non c’era nessun tipo di emozione. I suoi occhi erano spenti e vuoti. L’uomo ci si specchiò per un attimo. Erano vuoti come i suoi.
- Ho sempre pensato che avresti dovuto avere i miei capelli – le rispose, con un sorriso. Almeno aveva la sua testa, però.
- E adesso, correrai a denunciarmi vero? – chiese, senza timore. La ragazza scosse la testa, e lesse la muta domanda negli occhi dell’uomo. Si stava chiedendo per quale motivo non lo avrebbe denunciato.
- Sei mio padre. E ti piace Harry Potter. – disse con un largo sorriso, poi lo guardò stranita.
- Domani vieni a prendermi, alle tre di pomeriggio. Andiamo a prendere un gelato.  Per favore. – l’ordine all’inizio perentorio era diventata poi una richiesta supplichevole. Affascinato, l’uomo annuì.

* * *

Cazzo, ci sono restati tutti secchi. Disse, leggendo sul giornale della morte di Adrian e di Christian. Non ci riusciva quasi a credere. Lui invece era vivo, anche se non sapeva per quanto ancora. L’idea della vendetta lo aveva tenuto in piedi abbastanza a lungo. Erano già le tre, stava sfrecciando per andare a prendere sua figlia. Cosa che non era affatto da lui. Non sapeva il motivo per cui lo stava facendo.
- Papà.. credo che tra poco morirò – gli disse preoccupata. Lui non rispose, ma la accompagnò a casa sua. Lentamente, iniziarono a parlare. A conoscersi. Una sirena passò vicino casa sua, e la ragazza impallidì. Il respiro le venne a mancare, e le gote divennero di un tenue colore biancastro. Era fredda. Lo guardava, riuscendo appena a chiudere le palpebre. Oliver sapeva quello che stava succedendo. La sirena continuava a girare vicino casa sua. Erano una, due, tre macchine.
Lo avevano scoperto.
- La mamma.. ha capito.. tutto.. – disse la ragazza, chiudendo gli occhi. Non li riaprì mai più.
Oliver, con passo leggero, scansò quel corpicino a cui per qualche ora aveva voluto davvero bene e si diresse in bagno.
Non mi avrete, mai. Pensò. Si guardò allo specchio, e prese la siringa. La riempì di una dose di eroina fin troppo forte, e per precauzione sciolse nel cucchiaino qualche pillola in più. Aggiunse tutto al miscuglio.
Tornò accanto a sua figlia, stendendosi. Chiuse gli occhi, e si sparò nelle vene quel mix micidiale.
Una goccia di sangue colò lungo l’avambraccio, ma lui non la vide. Non vide più niente. Sentì una presa troppo forte, il cuore che sembrava esplodergli. Strinse la mano di sua figlia.
Sto per raggiungerti pensò, troppo debole per dirglielo ad alta voce. Lui sentì la stretta ricambiata, ma non seppe dire se fosse stata solo una sua fantasia. Poi, tutto iniziò a vorticare e a diventare rosso. Il sangue affluiva al cervello, troppo velocemente. Così come era iniziato, tutto finì.

* * *

L’odio è un tonico. Fa vivere. Ispira vendetta.
Quando la vendetta è compiuta e l’odio passa, passa anche la vita.
La sua vendetta non avrebbe più avuto senso. Anche lui, Oliver, il mostro, aveva scoperto di avere un cuore.
Aveva scoperto di averlo e poche ore dopo l’aveva perso. Meritava di finire nel più profondo degli Inferni.
Nel rosso scarlatto, rosso come i capelli che sua figlia avrebbe dovuto avere.
 

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