A step from reality

di Rock Angel 92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1° ***
Capitolo 2: *** 2° ***



Capitolo 1
*** 1° ***


Erano ormai le cinque del pomeriggio e mi chiedevo se fossi riuscita a prendere un libro in mano durante quella fredda sera di dicembre. Mi trovavo , come mio solito, al “The Red Lion” al 48 Parliament Street, a Londra.
Vi chiederete come mai un’adolescente come me di 17 anni si trovasse in una taverna di adulti, anziché trovarsi seduta dinnanzi una scrivania a studiare o a praticare un hobby. Purtroppo non mi sono mai state concesse queste cose, e ho sempre dovuto nascondermi da Mr. Thompson nel caso volessi riuscire a farle. Ebbene si, lavoravo in quel luogo da quando ricordavo di vivere, ed è stato l’unico dove ho potuto trovare qualcuno che avesse avuto la buona volontà di accogliere una bambina come me che non aveva una famiglia.
Mi raccontano sempre che all’età di tre anni bussai a questa taverna, e mi aprì Mr. Thompson, il direttore del locale. Era un uomo sulla quarantina che aveva perso la moglie in un incidente stradale, e forse proprio per questo non adorava usare le buone maniere con qualcuno che gli si trovasse davanti ai piedi. Continuavano a raccontarmi dicendo che avevo addosso solo qualche straccio con buchi sparsi dappertutto. Non avevo segni o oggetti che potessero dare un segno di un’ipotetica famiglia che mi avrebbe abbandonata.
Ma quale famiglia? Non l’ho mai avuta. Solo ora che vi racconto posso dire di avere una famiglia, ma ne parlerò a tempo debito e ci sarà il momento in cui lo capirete.
Scorreva in fretta quel pomeriggio del 21 dicembre 2007 e non ero ancora riuscita a studiare per il test d’entrata al college che avevo il giorno seguente. Avevo scelto uno dei tanti, forse il più economico, il “College London of EF” . Si trovava a pochi minuti a piedi da Waterloo Station, dal London Eye e dai teatri del West End, e potevo benissimo raggiungerlo con facilità e in poco tempo. Di certo avrei voluto, come ogni ragazza inglese della mia età, frequentare l’ “Univeristy College” a Bloomsbury, il più prestigioso dell’intero Regno Unito. Fu fondata nel 1826, è stata la prima università britannica ad ammettere studenti di ogni sesso, razza, fede religiosa o ideologia politica. Dalla sua fondazione ad oggi, presso di essa hanno studiato o insegnato molti personaggi illustri, fra cui Mahatma Gandhi e 20 premi Nobel.
Purtroppo non potevo permettermelo, ma mi accontentavo lo stesso, o forse, sono stata abituata ad accettare ogni cosa così come la vita me la poneva. E un’altra cosa che non potevo cambiare, era il fatto che potessi studiare solo quando avessi finito di lavorare, verso le scure, buie e assonnate due della notte. Pulivo piatti e calici di birra, asciugavo posate, servivo ai tavoli, e a volte ero costretta da Thompson a fare compagnia ai vecchi e orrendi signori che ne avevano bisogno. Fortunatamente potevo dire di non aver ancora perso la verginità, e fu grazie alla mia migliore amica, una delle migliori cuoche che avessi mai visto sulla faccia della Terra,anche se avevo visto ben poco di quell’orribile mondo; si chiamava Maggie, ed era una signora molto gentile e buona con me, anch’ella sulla quarantina d’anni. E’ stata l’unica che mi è stata sempre vicina, nella buona e nella cattiva sorte, e fu,come ho detto prima, proprio lei che mi salvò una notte.
Ricordo che il locale stava per chiudere ed io mi trovavo a sorseggiare wisky di puro malto a tavolino con un vecchio signore anziano. Mi stava parlando dei tempi di guerra, di quando lui aveva combattuto insieme ai suoi amici del campo militare a Dublino per salvare l’Irlanda da una grande catastrofe. Sembrava un uomo così gentile, e nei suoi occhi riuscivo a vedere la sofferenza di quegli anni in cui ingiustamente ha dovuto prendere parte alla guerra. Con un sorso dopo l’altro,la bottiglia di wisky finì. Il buon signore mi sorrise e mi disse “tesoro puoi prenderne un’altra?”. Annuivo e mi alzai dalla sedia per andare sul retro del locale, mentre Maggie puliva qualche tavolo. Il signore, accidentalmente,si alzò anche lui e mi seguì camminando sulle punte a passo felpato. Io che ero ad aprire un nuovo scatolone di bottiglie, ad un tratto mi sentii toccare; mi girai di scatto, era quel signore. Sentivo tutto il sangue alla testa e una paura enorme salire per tutto il mio corpo, mentre lui mi stava spogliando in fretta. Intorno c’erano solo sospiri e io non facevo altro che gridare aiuto, anche se nessuno accorreva. Ad un tratto la porta del magazzino si spalancò: era Maggie. Sferrò subito un pugno contro il signore e lo lasciò cadere a terra, poi mi guardò e mi disse “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio! Vai in camera,me la sbrigherò io qui. Siamo all’ora di chiusura forza sali.”
Senza fiatare obbedii a ciò che disse e salii al piano di sopra, in quella che era la mia stanzetta. Vi era una barella per dormire,una valigia che usavo come “armadio”, una piccola scrivania e tanti libri poggiati a terra. Ciò che successe quella sera, è rimasto sempre nella mia mente, che allora era di una bambina undicenne.
Ritornando alla mia vita di una “forse-quasi universitaria”, non pensavo di poter riuscire a studiare quel giorno, e dovevo tenermi pronta a salutare quella tanto desiderata carriera al college. Così decisi di prendere in mano, all’insaputa di Thompson, un libro che avevo da tanto tempo tra le mani, che adoravo in un modo pazzesco, ma che ancora non ero riuscita a terminare. Nonostante la mia età leggevo molti libri fantasy e più di tutti Harry Potter e il principe mezzosangue.
Potrete prendermi per pazza per il semplice fatto che decisi di dedicarmi alla lettura di quel libro invece che allo studio. Si, prendetemi per pazza, ma voi non sapete cosa vuol dire studiare con il caos totale, non sapete cosa vuol dire essere rimproverata quando si cerca di studiare. E ora vi chiederete ancora, se il mio padrone mi vieta di studiare, come può permettermi di leggere un libro? Beh mi lasciava leggerlo ogni tanto, ed io accettavo volentieri.
Proprio quel giorno lo tirai fuori dalla mia valigia, e tra il servire ad un tavolo e servirne un altro, leggevo qualche pagina, ed entravo in un mondo solo mio, dove esistevamo solo io e il protagonista, Harry Potter.
Molti signori mi guardavano stupiti, come se per loro fosse difficile leggere e allo stesso tempo servire ai tavoli. Distrattamente feci cadere una forchetta sul pavimento. Mr. Thompson accorse immediatamente, quasi se come quel rumore gli fosse giunto all’orecchio come lo scoppio di una bomba. Le sue scarpe rimbombavano e improvvisamente me le ritrovai davanti ai miei occhi, mentre cercavo di rialzare la forchetta. Deglutii per la paura,sapendo di certo cosa sarebbe successo in seguito. Mi alzai lentamente e chiesi umilmente perdono, come se ciò che avessi fatto fosse un grave reato.
Mr. Thompson mi sputò in faccia non appena mi alzai e poi mi disse “se ti vedo solo un’altra volta leggere queste idiozie, ti mando dritto al cassonetto della spazzatura qui fuori, capito mocciosa? Anzi! Dammi questo libraccio!”. Senza esitare glielo porsi, e lui violentemente me lo strappò di mano, facendomi una smorfia arrogante. Lo sfogliò per tante volte, poi lo rigirava sotto sopra, a destra, a sinistra, come se volesse capire cosa c’era scritto. Non era un uomo di gran cultura, e , a dire la verità, non aveva mai imparato a leggere,perciò detestava i libri. Riusciva a stento ad usare una calcolatrice per fare i conti a fine giornata.
Mentre rigirava quel libro cercava qualcosa nella tasca destra dei suoi pantalacci stracciati, e alla fine riuscì a trovarla: era un accendino.
Premette tante volte il piccolo grilletto,e riuscì ad accenderlo. Cominciò a dare fuoco a quel libro, mentre io piangevo lievemente senza farmi notare. Vedevo la copertina sciogliersi e sparire man mano lasciando un odioso odore di diossina, vedevo le pagine volare via e diventare cenere. Ad un certo punto si fermò e lasciò cadere a terra tutte quelle carte bruciate.
Stavo malissimo, quell’uomo orribile aveva appena distrutto un sogno che vivevo ad occhi aperti, quello di leggere un libro stupendo. Probabilmente non venni a sapere come finì quella fantastica storia.
Andai a prendere scopa e paletta per raccogliere quel cumulo che ormai era diventato spazzatura, e scoprii che tra le pagine bruciate, vi era rimasto salvo un pezzetto. Sopra vi era scritto il nome del mio mito, di colei che ha dato origine ai miei sogni. La donna a cui devo la vita, la donna che porta il mio stesso nome …
Grazie mille, a lei, a Joanne Katrine Rowling.
Il mio povero cuore fece un balzo, come se fosse caduto sul fondo di un enorme precipizio, come se avesse perso parte di lui, e così fu.
Ma oramai ero abituata a cose del genere che accadevano frequentemente,e a mio dispiacere, non potevo neanche ribellarmi, perché nessuno, neanche Scotland Yard ,sarebbe stato in grado di credermi, e poi ciò che vivevo era l’unica famiglia che mi rimaneva.
Dopo aver raccolto quella robaccia da terra, Mr. Thompson mi obbligò a chiudermi nella mia piccola stanzetta al piano superiore alla taverna. Che bella notizia, almeno potetti avere un minimo di speranza per riuscire a studiare.
Mi avviai verso la scaletta a chiocciola situata sul retro del bancone, mentre la gente seduta al tavolino parlottava e spettegolava su come Il direttore del locale spendesse i soldi che guadagnava anche al di fuori dei locali notturni aperti nel week-end. Lo detestavano, eppure spesso e volentieri si accomodavano a quei tavoli e si alzavano fin quando non erano in stato di ubriachezza totale.
Cominciai a salire quelle piccole scalette e ogni gradino mi sembrava così enorme e impossibile da raggiungere, come i miei sogni.
Giunsi a quella piccola stanzetta e chiusi la porta alle mie spalle. Ebbi ancora davanti agli occhi quella camera che, pur essendo squallida,mi dava tranquillità e,in quel momento, la possibilità di studiare.
Sedetti a quella piccola sedia e presi da terra un librone enorme: “Storia del movimento psicoanalitico” di Sigmund Schlomo Freud, uno dei personaggi più famosi che siano mai nati in questa meravigliosa città.
Il mio primo esame per entrare alla facoltà di psicologia si sarebbe basato sugli ideali di quel libro.
Qualche altro ragazzo a Londra era già a sfogliarlo velocemente per dare una ripassatina, preparatissimo per il giorno dopo. Io avevo solo letto il titolo, mentre quelle 923 pagine erano rimaste dritte senza una piega, senza essere mai sfogliate.
Cominciai a leggere. Erano le otto di sera e mi chiedevo continuamente se fossi riuscita a finirlo per le otto del mattino seguente. Sentivo le voci orribili di quella gente che al piano di sotto: ridevano, bevevano, sparlavano, sbattevano i calici sui tavoli, fumavano Marlboro, cantavano canzoni volgari, o salivano alle camere del piano di sopra con belle donne.
Non sembrava reale ciò che vivevo, sembrava il destino orribile di una ragazza che avesse vissuto alla fine dell’ ottocento inglese. Purtroppo vivevo nel ventunesimo secolo, e purtroppo a Londra c’era ancora gente del genere, nonostante agli occhi di tutto il mondo sembrasse una città così perfetta, ordinata e funzionante, ma non lo era del tutto.
Pensavo e ripensavo al fatto che non avessi una vita normale, al fatto che fossi invisibile per gli altri, al fatto che il mondo non sapesse che io fossi venuta al mondo, al fatto che tutta la mia adolescenza mi fosse stata privata in modo spudorato e spregevole. E cosa sarebbe stato il mio futuro? Cosa sarebbe successo nel seguito della mia vita che sembrava non avesse un buon fine?
Capii che neanche Freud potesse rispondere a quelle domande,e alla fine decisi di continuare a leggere.
Un capogiro, il sonno, o un mal di testa … Non capii cosa mi successe all’improvviso … qualcosa mi portò a poggiare la testa sul libro e a chiudere gli occhi, per poi riaprirli il giorno dopo alle sette e trenta, quando il sole illuminava i cieli di Londra in una nuova giornata che stava prendendo forma e vita.
Alzai la testa e guardai la pagina del libro a cui ero riuscita ad arrivare: ottantasei.
Diedi un calcio alla scrivania, anche se dopo il dolore alla caviglia me ne fece pentire amaramente. Tirai fuori dalla mia piccola valigia il maglioncino rosa che mettevo nelle occasioni speciali, e dei jeans che usavo tutti i giorni. Mi vestii e aggiustai quei lunghi capelli ricci. Sgattaiolai velocemente al piano di sotto attraverso quella piccola scaletta a chiocciola, attraversai la sala della taverna vuota, e finalmente potei uscire. Erano settimane che non respiravo l’aria di Londra, così pura, così adorabile, nonostante fosse gelata in quella giornata di dicembre in cui tutti si stavano per preparare alla vacanze natalizie.
Camminavo, guardando le vetrine addobbate , vedendo i bambini sorridenti passeggiare per i marciapiedi con i loro zainetti e chiedere ai genitori “mamma, papà, quando viene Santa Claus?”, ammirando le ghirlande e le mille luci colorate che ricoprivano gran parte dei magazzini e dei grandi palazzi, ascoltando, passando di negozio in negozio, le canzoni natalizie o addirittura quella di John Lennon che tutti adoravano.
Ad un tratto quel momento di felicità dovette svanire in un lampo, quando i miei occhi incrociarono in lontananza le lancette del Big Ben che segnavano quasi le otto.
Mi affrettai per girare verso Waterloo Station, London Eye, e infine i teatri del West End.
Ad un tratto davanti ai miei occhi piombò il “College London of EF”, con la sua struttura abbastanza antica, le sue finestre bifore in stile gotico, e il suo colore marroncino chiaro, che mi davano tanto l’impressione di un mondo in cui avrei voluto sempre vivere, quello che sognavo e che ho smesso di sognare la sera precedente, dopo che Mr Thompson lo ha distrutto.
Salii quelle scalinate velocemente, per poi ritrovarmi in un enorme, illuminato da una calda luce soffusa, attraversato da echi di voci di ragazzi che parlavano o dei loro passi, affrettandosi a giungere l’aula dell’esame.
Per un attimo rimasi imbambolata ad ammirare l’ambiente che mi circondava, e solo dopo mi resi conto che anche io ero in quel luogo per sostenere un esame.
Cominciai a correre verso l’aula magna principale, situata al piano superiore. Dovetti salire in velocità ancora altri gradini, mentre cercavo di leggere qualche altra pagina del libro.
Urtai qualcuno, un ragazzo, facendolo inciampare. Ricordo che aveva in mano il mio stesso libro,ma non ne notai bene il volto o il fisico. “Scusami!” gli dissi ansiosa e preoccupata e poi continuai “… è che questo esame deve avermi proprio sconvolto”. Sentivo i suoi occhi su di me, anche se non ero ancora riuscita a guardarlo. Rimasi immobile su quel gradino, guardando il vuoto, e aspettando che lui si rialzasse e si rimettesse in sesto.
“Allora tutto bene?” gli chiesi. “Sto bene non preoccuparti. Comunque farai bene a salire in velocità, l’ispettore d’esame sta per chiudere i portoni dell’aula magna.” Mi disse mentre raccoglieva le sue cose sparse per i vari scalini. “E perché allora tu sei qui?” chiesi ancora.
Non ebbi tempo per ascoltare la risposta, dopo che qualcuno disse “Joanne Katrine Rowling è assente?”
Spalancai gli occhi, e mentre salivo gli ultimi scalini gridai “Eccomi! Sono presente!”
Mi catapultai in aula magna, e presi posto al secondo banco della fila centrale, dinnanzi alla cattedra dove erano seduti tutti gli ispettori d’esame. Davanti a me due fogli spillati e una penna. Posai il libro sotto il banco.
“Potete iniziare, avete due ore a disposizione a partire da … adesso!” disse l’ispettore principale, girando una clessidra sottosopra.
Misi penna su carta,e cominciai a rispondere alle domande, o almeno, a quelle che conoscevo.
Non ero riuscita a d aprire libro quella notte … e ancora per l’ennesima volta mi chiesi se fossi riuscita a superare l’esame ed entrare nel college …
E poi … Quel ragazzo?

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Capitolo 2
*** 2° ***


Capitolo 2

Mi concentrai pienamente su quel questionario, e ciò che riuscii ad assemblare furono solamente una decina di domande concentrate su quelle poche pagine che studiai la notte prima.
Non sapevo più cosa fare, cosa pensare. Aspettavo forse un’ispirazione, un aiuto, una mano ben valida, ma le mie speranze non avevano una foce molto sicura. Conclusi che l’unica cosa che rimaneva e che potevo fare, era quella di sorteggiare le varie possibilità tra le risposte multiple, e così feci, anche se a dirlo provo un enorme senso di vergogna e di profonda umiliazione. Mai nessuna ragazza diciottenne avrebbe fatto simile cosa ad un esame di ammissione alla facoltà di psicologia.
Sperai con tutta me stessa di aver avuto la fortuna di rispondere esattamente a qualche domanda.
Nel frattempo pensai intensamente anche a ciò che era successo la sera prima. Quel sogno distrutto da un misero accendino, appartenente ad una misera persona.
Non mi era rimasto nient’altro oramai, forse un trailer o un film alla tv, o un cartellone pubblicitario per le vie di questa splendida metropoli.
Il mio sogno era rappresentato da un ragazzo in particolare, quello che la mitica Rowling ha subito scelto a prima vista per il ruolo di protagonista.
Aveva occhi cerulei,capelli neri e un po’ castani brizzolati … non sono riuscita mai a vedere il suo fisico, sempre coperto da quella toga nera che portavano i prescelti Grifondoro.
Il tempo passò davvero in fretta e me ne resi conto solo quando notai che la sabbia nella parte superiore della clessidra stava per terminare, riducendosi all’ultimo granello. Il commissario cominciò a camminare tra i singoli banchi per ritirare il compito svolto: aveva uno sguardo serissimo, occhialini circolari pendergli sull’enorme naso,fisico goffo, barba bianca corta dall’aspetto pungente, capelli spettinati di cui l’unica espressione per definirli che mi veniva in mente fu “zucchero filato”.
Risi tra me e me, senza farmi notare. In quegli ultimi tempi erano rari i tempi i cui ridessi, c’era oramai da rimanere inerti. A 18 anni non conoscevo ancora l’amore, e ciò non faceva altro che buttarmi di gran lunga giù di morale.
Qualcun altro, non ricordo chi fosse, aprì la porta e ci indicò l’uscita. Raccolsi le mie cose in fretta e furia ed infilai il mio cappotto al caso.
Uscii e rividi qualcuno che avevo visto due ore prima. Aveva un’aria molto familiare, come se l’avessi già visto da qualche altra parte, come se fosse conosciuto da tante persone, un’aria da persona importante e matura. Aveva tra le mani lo stesso ed identico libro su cui io ho passatola notte intera, ed era seduto dinnanzi una bacheca, e spettava il risultato di un esame, fatto il giorno prima.
Ebbene si, eravamo fin troppi a scegliere questa facoltà, e hanno dovuto fare un test d’entrata per verificare chi avesse delle vere capacità intellettuali.
Presi coraggio e andai a sedere accanto a lui. Rimasi indifferente, sbattevo lentamente il piede destro a terra, tamburellavo le dita delle mani sul libro e poi passavo una mano tra i capelli.
Volevo trovare qualche scusa per rompere il ghiaccio, qualcosa che potesse far si che io abbia conosciuto una volta buona quel ragazzo … ma che scusa avrei dovuto trovare? Mi guardai intorno per trovare una risposta, ma nessuna ispirazione mi si trovò davanti.
Ad un tratto rabbrividii per il freddo e per il lieve e freddo vento che circolava tra i corridoi di quell’enorme college. Ecco,forse parlare del tempo meteorologico sarebbe dovuta essere una scusa plausibile per introdurre un discorso.
“Freddo eh?” mi disse lui, sorpassando ciò che avevo pensato di dire io qualche secondo prima.
“Si, molto freddo … non ricordo che Londra sia stata così in questi anni,o almeno è quello che ricordo da quando sono nata.”
“Quando sei nata?” mi chiese ridacchiando, e facendo nascere sulle sue labbra un sorriso meraviglioso, di quelli che rimangono nella mente per sempre.
Ridacchiai anch’io, piegandomi leggermente in avanti.
“Sono nata lo stesso giorno di una famosa scrittrice, anche se qualche annetto dopo … 31 luglio 1989” gli dissi, spostando il mio sguardo sui suoi occhi.
Mi catturarono con la loro profondità e mi trasportarono in un altro mondo, un po’ come in una città sommersa da un oceano immenso.
Lui per un attimo rimase immobile e bloccato alle mie parole, come se ciò che avessi detto fosse la cosa più assurda del mondo. Mosse le sue labbra appena, cercando di dirmi qualcosa, ma si bloccò e continuò ad uccidere i miei occhi con il suo sguardo.
Ancora una volta arrivai alla conclusione che aveva un’aria abbastanza familiare, ed ero estremamente convinta di aver visto quegli occhi qualche altra volta nel passato. Forse in televisione, forse per strada, forse passeggiare accanto alla taverna in cui ero costretta a lavorare.
Era molto strano il fatto che mi fissasse ancora in quel modo. Poco dopo riuscì a muovere quelle labbra.
“Allora, in un certo senso, tu mi appartieni.” mi disse, mettendosi una mano sul petto.
Non capii al momento. Perché aveva detto che gli appartenevo?E perché in un certo senso?
Ripiombò, ancora una volta, un gran silenzio. Ad un tratto si udirono delle voci provenire dall’aula accanto alla bacheca, opposta a noi.
“I say to promote him! Its examination has excellently been performed! Tell me you because should not do him!” gridò un professore.
“Because he is an actor! And the commission of the examination could think that we have promoted him only because he is famous! We Cannot take this risk!” replicò una professoressa, alzando sempre di più il tono di voce, cercando di prevalere sul suo collega.
“Poor boy! Could not he ever enter to belong to an alone college then because he is an actor? You're ashamed!” rispose il professore, facendo cessare quell’enorme caos venutosi a creare.
Poco dopo, lo stesso professore, uscì da quell’aula, tenendo stretto in mano un enorme cartellone e alcune puntine di colore blu. Si avvicinò all’enorme bacheca e , tra i tanti foglietti attaccati e le proposte di lavoro, fece spazio per ciò che aveva tra le mani.
Dopo che anche quelle piccole puntine ebbero preso posto, il professore si girò verso di noi e ci guardò fisso negli occhi. Poi si rigirò, rientrò nell’aula e sbatté forte la porta.
“Ecco i risultati dell’esame di oggi …” mi disse un po’ preoccupato.
“Hanno già controllato tutti gli esami?” risposi incredula e ignara di ciò che stava accadendo. Ma anche un altro dubbio tormentò la mia testa … Mi rivolsi a lui : “Tu non eri all’esame oggi!”
Si voltò verso di me, con un’aria un po’ stanca, di chi è annoiato di dire e dare troppe spiegazioni alla vita.
“In realtà io ho fatto l’esame giorni fa, ed a causa di molte complicazioni che poi ti spiegherò, non ho avuto subito “l’onore” di sapere se ero stato ammesso oppure no.”
Ad un tratto si alzò e camminò verso quella bacheca. Lo raggiunsi anche io, cercando di ottenere la vista di un “ammessa”.
Lui cominciò a scorrere il suo indice sull’elenco. Arrivò verso la fine, poi cominciò a scorrere in orizzontale. Spalancò gli occhi.
“Ammesso!!” gridò ad alta voce, facendo distogliere dal proprio lavoro tutti coloro che facevano qualcosa in quel padiglione.
“Complimenti!” gli dissi sorridendo e allungando il braccio per una stretta di mano.
Ma la mia mano non fu stretta. D’un tratto si buttò tra le mie braccia stringendomi fortemente e portando le sue braccia al mio collo.
Poi si allontanò e volse il suo sguardo ad un antico orologio pendente dal soffitto.
“E’ tardi, ora devo andare via. Arrivederci Joanne! Ci vedremo presto.” . Fece un cenno con la mano e poi corse verso l’uscita principale del college. Ma qualcosa lo fece fermare e rivoltare verso di me. Mise una mano al lato della bocca e mi gridò “complimenti per l’ammissione!”.
“Grazie!” gli gridai anch’io, salutandolo facendogli un cenno con la mano.
Mi fermai e non riuscivo a capire come lui sapesse che ero stata ammessa. A quel punto mi voltai verso il cartellone dei miei risultati, e trovai il mio nome proprio al di sotto di quello del ragazzo che poco prima era accanto a me. Aveva proprio ragione, ero stata ammessa a quella magnifica università.
Il mio cuore batteva all’impazzata, e mi veniva voglia di gridare, di saltare, di sbattere fortemente i piedi per terra.
Per semplice curiosità, poi, volli scoprire il nome di quel ragazzo. Puntai il mio dito giusto sulla parte superiore alla mia ammissione.
Vi era scritto : Daniel Jacob Radcliffe : ADMITTED.
D’improvviso passarono davanti ai miei occhi tutte le meravigliose scene di Harry Potter, delle varie pubblicità, dei cartelloni per le vie di Londra …
Rimasi impacciata, capace di fare nulla, con gli occhi persi nel vuoto.

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