Moonlight's Eyes.

di Colley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


CAPITOLO I: Hayley

 

Le scale della mia palazzina sono ricoperte da uno strato di polvere. Una volta il pavimento era bianco. Non saprei dire che tonalità di bianco, non sono brava con i colori. Ma una cosa la so: era bianco. Anche il corrimano non scherza! Si notano le manate della vecchietta del terzo piano che, sfortunatamente, deve poggiarsi su quel lurido pezzo di legno per salire.
La sporcizia. È una cosa che non sopporto. Be’, a dirla tutta, casa mia non è da meno, ma non per mia volontà.
Il fatto è che vivo da sola. Ho solo diciassette anni, ma è così. Anche se, la maggior parte del tempo, lo passo fuori casa.
Il mio appartamento è piccolo, ma abbastanza spazioso per una persona. Il salone è la parte che preferisco. C’è un tavolo rotondo al centro, perennemente ornato da un vaso di fiori -secchi, tra l’altro- che attira subito l’attenzione di chi ci entra per la prima volta. Ma io, che qui ci vivo da molto tempo, sono affascinata da altre cose. Come ho detto, il salone è la parte che preferisco.
Sul tardo pomeriggio, la luce rossa del tramonto entra dalla grande finestra e inonda la stanza di colori. La tappezzeria rosa confetto si accende e sembra che tutto vada a fuoco. E il vetro della libreria riflette l’arcobaleno. Il momento perfetto per leggere un libro, bevendo una bibita fresca.
Entro nella mia camera, trovo il solito ordine: la scrivania, la cassettiera accanto alla finestra, tutto perfetto. L’unica cosa che uso, qui dentro, è il letto. E, infatti, è puntualmente disfatto. Ma poco mi importa. Nessuno metterà mai piede in questa stanza.
Poso la borsa a tracolla sulla sedia e appendo il cappotto all’attaccapanni sgangherato dietro la porta.
Mi fermo un attimo a guardare l’insieme. È terribilmente deprimente. I colori di questa camera, intendo. Persino la carta da parati è sbiadita.
Faccio spallucce. Nessuno entrerà mai qui. Mi chiudo la porta alle spalle e mi dirigo verso il bagno.
Dicono che la camera rispecchi la personalità di chi l’ha arredata, ma, credetemi, di mio, lì dentro, non c’è niente! Forse solo i vestiti.
Non so di chi sia questa casa. Non so se era stata abbandonata o se appartiene a qualcuno. Non so niente. Quando mi hanno detto che avrei dovuto viverci, mi sono limitata ad annuire. Avevo tredici anni.
I miei sono morti per cause ancora ignote. Alcuni parlano di un’aggressione… fatto sta che io sono stata affidata a dei tizi, i Mclain, che dicevano di essere vecchi amici di famiglia.
I coniugi Mclain sono sempre stati gentili con me. Loro mi hanno dato l’appartamento. Ma non possono vivere qui perché devono controllare il branco. Tutto il branco.
La loro villa -spesso luogo delle nostre riunioni- si trova al confine sud di Detroit, in mezzo al bosco. Poco più giù c’è un paese, Whitechapel.
Detroit non è un cattivo posto dove vivere, se sai chi frequentare. Io, però, sono nata in Inghilterra. Solo poi ci siamo trasferiti qui.
Dopo essermi fatta una doccia, mi dirigo in cucina. È un piccolo corridoio con un lavandino, il frigorifero, la dispensa con sopra il microonde e un tavolino di plastica. Alla fine, come in tutte le altre stanze, c’è la finestra.
Il frigorifero, come al solito, è vuoto. L’idea di una pizza comincia a ballonzolarmi nella testa. Se non ricordo male, ho abbastanza soldi per comprarmela. Ma andarci da sola è deprimente.
Attraverso il salone e torno in camera mia, alla ricerca del cellulare nella borsa. Scorro la rubrica fino ad arrivare alla s di Sam. È il mio migliore amico.
Faccio per chiamarlo, ma lui mi anticipa.
-Sam! Stavo per…-
-Hay, non c’è tempo. Ascoltami!- mi interrompe, frettolosamente.
-Che è successo?- chiedo, sapendo che tra poco, dovrò uscire di nuovo.
-Devi andare alla villa, ora. Christopher vuole parlarti.-
Un brivido mi persale la schiena. -Che ho combinato adesso?-
Io non sono la persona più affidabile del gruppo. Agisco spesso d’istinto, il che fa infuriare Christopher. Ma poi facciamo pace, grazie alla capacità di diventare così stupida, da far ridere tutti.
-Non lo so, dicevano che era urgente.-
-Pizza?- il mio stomaco ha cominciato a brontolare e, quando ho fame, non c’è nulla che possa impedirmi di procurarmi del cibo.
-Che?- la sua voce è alquanto spiazzata.
-Vuoi accompagnarmi a prendere la pizza?- mi guardo le unghie, pensando di mangiarle…ma non so come si fa.
-Ma tu devi…okay,- si arrende, sapendo che avrei prima riempito lo stomaco -arrivo subito. Da May Pizza?-
-Da May Pizza.- confermo, come se avessimo altra scelta.
Arraffo la borsa e mi dirigo verso la porta lasciando, per la millesima volta, quella casa.
La pizzeria non è poi così lontana, solo un paio di isolati. Pensandoci bene, Sam ha la macchina. Potrei chiedergli un passaggio fino alla villa di Christopher ed Eleanor, i coniugi Mclain.
Il sole se ne è appena andato e i lampioni cominciano ad illuminare la strada. Quando arrivo alla mia meta, noto la folla che intasa quel pezzo di marciapiede. Il che scoraggia la mia fretta.
L’odore di pizza appena sfornata risveglia la fame e mi sento svenire. Per fortuna scorgo Sam.
Le luci al neon schiariscono i suoi capelli biondi, che diventano platino. Sono pettinati come al solito, alla Justin Bieber. Ha due occhi mozzafiato: blu cobalto. Credo di non aver mai visto degli occhi così belli. È strano per un essere umano, figuriamoci per un licantropo!
-Dovresti sbrigarti, se non vuoi che Christopher si infuri con te!- afferma, sorridendo.
-Sei quasi credibile!- gli do una pacca sulla spalla -Cosa pensi dovranno dirmi?-
-Oh, non ne ho la più pallida idea!-
Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa di interessante, mentre la fila avanza.
-Be’, spero che sia qualcosa di importante. Sai che odio mangiare in fretta!-
Lui ride. Ride sempre. Ho per caso i pupazzetti in faccia, io?
Ordiniamo due pizze margherita, divorandole in pochi secondi. Il tempo di una coca cola, e siamo subito in macchina, diretti alla villa dei Mclain.
La strada non è asfaltata e, in alcuni punti, c’è il rischio che la macchina resti bloccata nel terriccio. Qua e là spuntano dei pini -secolari, credo- sotto i quali, di giorno, i bambini giocano.
Andando avanti, gli alberi si fanno più fitti. È qui che inizia il territorio dei Mclain. Non ci viene mai nessuno, a parte noi del branco. E, qualche metro più in là, si intravede il tetto marrone scuro della casa.
Arriviamo, finalmente, nel cortile della villa, dove Sam può parcheggiare la macchina.
Le mura bianche spiccano, circondate dagli alberi, e le grandi vetrate mostrano gran parte dell’arredamento barocco di quella casa. C’è solo una luce accesa, quella della sala da pranzo. Immagino stiano mangiando.
Quando scendo dall’auto, i miei piedi atterrano sulla ghiaia, bianca come le mura, che ricopre tutto il cortile.
Saliamo le scale del patio e tiriamo il campanello. Sì perché, in questa villa, il campanello è una corda che pende dalla tettoia. Insolito, direi.



Written by: happayness

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


CAPITOLO II: Collin

 
Amo la mia macchina. Non che sia un gran che, veramente. E’ solo che c’è troppo che mi lega a Ellie. Oh, Ellie è il suo nome. In effetti, se la vedeste passare per strada, pensereste subito che sia un rottame. E avreste totalmente ragione: la vernice gialla, che ho passato sopra quella bianca nel vialetto di casa di mio padre quando avevo solo quattordici anni, è stata grattata via dal tempo -e anche dai non pochi incidenti che ho fatto, creando il panico in città- e pende in alcuni punti. Lo sportello dal lato del passeggero non si apre, né tantomeno si chiude, dal mio ultimo scontro con l’enorme secchio dell’immondizia addossato alla parete di mattoni del diner vicino scuola, e quello dal lato del guidatore è rigato di arancione. E non so come sia successo.
Gli interni, rivestiti di tappezzeria stile divano del nonno ubriacone, -avete presente, no? Fantasia ed enormi quadri marroni, beige e rossi- sono macchiati di coca-cola, cioccolata, cappuccino e, se annusi bene, riesci anche a sentire un leggero olezzo di pipì di gatto. Il pavimento di Ellie, se così si può chiamare, non si vede quasi più: è ricoperto da stupidi volantini pubblicitari, scontrini accartocciati, lattine e cartoni di caffè. Mia cugina giura di aver visto un topo divertirsi tra tutta quella roba un giorno, mentre la accompagnavo in palestra per la sua lezione di balletto.
-Danza classica!- aveva urlato, prendendomi a pugni sul braccio. Io mi sono limitato a ridacchiare un po’, mentre mandavo giù un pezzo di ciambella glassata al cioccolato.
Comunque, non mi interessa quello che dicono mia sorella e mia zia, io non getterò mai via Ellie. Mai. Il motore e tutto il resto funziona ancora abbastanza bene. E certo, potrei armarmi di sacchi per l’immondizia, guanti, disinfettante e, perché no, anche un bel deodorante di quelli a forma di albero da appendere allo specchietto, arancione magari, per rendere omaggio alla misteriosa striscia che decora lo sportello dal mio lato, ma sono troppo pigro per farlo. E poi, finché riuscirò ancora a usare i pedali ed il cambio, non vedo che bisogno ci sia di ripulirla, la mia bellissima e maleodorante Ellie.
Passo due dita sulla vernice non-più-così-gialla e le guardo ridendo: sono grigiastre.
-Sarebbe ora di fare un salto all’autolavaggio, non credi?- scherza mia zia dalla finestra della cucina, poggiando sul davanzale una teglia fumante. -Oh, non pensarci nemmeno. Non è per te, questa ragazzona.- dice sorridendo alla torta. Poi infila la testa in cucina, tira le tendine con le pannocchie, tipo quelle dei Simpson, e sparisce in casa.
Scanso con un calcio un paio di bicchieri accartocciati e guido Ellie intorno alla casa, fuori dal vialetto e finalmente sulla strada. Abbasso tutti i finestrini e accelero più che posso: più o meno tutti quelli che abitano in questa via sono partiti per le vacanze, e quelli rimasti sono troppo vecchi per uscire e soffocare con questo caldo. Sfreccio lungo la strada con gli occhi chiusi per via del vento che me li fa lacrimare. Non so perché, li apro all’improvviso e mi accorgo di essere quasi arrivato all’incrocio, in cui, di solito, qualche macchina c’è per forza. Freno e sterzo verso sinistra, rischiando di andare contro una fontanella, al suono assordante di un clacson. Ellie sgomma lasciando dei segni a terra e si ferma a pochissimi centimetri dalla fontanella. Non so bene quando sia successo, ma ho chiuso di nuovo gli occhi, allora li riapro. La prima cosa che noto, è che ho le mani talmente strette al volante che le nocche sono tutte rosse. Le stacco e inizio a massaggiarle, annusando l’odore di gomma bruciata. Ferma a metà di quello che avrebbe potuto essere un perfetto testacoda, c’è una macchina blu scuro, il cui clacson inizia a suonarmi contro come un pazzo. Scendo dalla macchina sbattendo lo sportello -una mossa non troppo intelligente, dato che rischia di staccarsi dai cardini ogni volta che lo apri o lo chiudi- irritato da quel suono e mi avvicino accigliato alla macchina. I vetri sono oscurati, perciò ci picchietto sopra sempre più forte finché l’imbecille alla guida non smette di suonare e abbassa il vetro. Non è affatto un imbecille. E’un’imbecille.
-Allocco, non ci sei solo tu per strada!- sbotta, poi spinge sull’acceleratore e la guardo sparire lungo la via. Sono troppo spiazzato per rispondere. Insomma,come può qualcuno con un viso così delicato essere in grado di urlare così contro una persona? penso, mentre rientro in macchina e cerco di farla partire. Okay, il motore e tutto il resto non funzionano poi così bene, lo ammetto, ma comunque non ho intenzione di gettare Ellie. O di riverniciarla. Mai. Dovrei trovare una persona come mio zio, che scelga un nuovo colore e mi aiuti. Purtroppo, non ho ancora trovato nessuno di speciale almeno la metà di quanto non lo fosse lui -e dubito succederà mai-, perciò credo resterà per sempre in quelle condizioni. E a me sta bene.
 
L’autolavaggio non è poi così lontano da casa mia, e normalmente, con una strada così deserta, ci impiegherei non più di tre minuti ad arrivare, ma l’incontro con quella tipa mi ha scosso, perciò procedo lentamente. Ho davvero paura di rincontrarla, quella lì. Accendo la radio, che passa musica rap. Bleah. Per fortuna inizia a sentirsi a scatti e diventa silenziosa non appena mi avvicino all’autolavaggio del vecchio Frank, che è al limitare del paese con la superstrada. Un giorno ci passerò davanti suonando il clacson e urlando ‘Addio, babbani!’ mentre imbocco la via della libertà, con la macchina carica di valige strapiene di vestiti e roba che mi servirà al college. Ah, non vedo l’ora.
-Collin!- mi urla Frank non appena sistemo la mia macchina in una delle corsie. Odio questo posto perché è tutto di un solo colore: verde sgargiante.
-Ehi!- scendo dalla macchina e afferro il tubo dell’acqua per darle soltanto una sciacquata; tanto la maggior parte delle macchie non se ne andrà mai, quindi perché sprecare tempo con il sapone e tutta quella roba lì? Frank mi fa l’occhiolino e io inizio a lavare Ellie. In teoria, non si potrebbe usare il tubo dell’acqua per lavare la macchina: o usi le spazzole con i saponi a gettoni, oppure te la lavi nel vialetto. Ma Frank è un vecchio amico di famiglia, quindi per me fa un’eccezione. Oh, e quando dico vecchio non scherzo proprio per niente: Frank è cresciuto con mio zio. Sono sempre stati ottimi amici, quindi ha sempre frequentato casa nostra e tutto il resto. Quando lo zio è morto, Frank è rimasto da noi per un’intera settimana nel caso, non tanto io e Ronnie, ma zia Cher, avesse avuto bisogno di una mano in qualunque cosa, una spalla su cui piangere o che so io. Prima di morire, lo zio ha fatto promettere a me e Ronnie di essere forti per zia Cher e noi abbiamo mantenuto la promessa. Anche se è stato difficile.
Mentre aspetto che Ellie si asciughi, mi siedo sempre sulla panchina mezza scassata accanto al distributore automatico, mio grande amico d’infanzia, a leggere. E, perché no, anche a sgranocchiare qualcosa. Ma l’unico punto della panchina che riesce a tenerti con il sedere sulla plastica, e non sul pavimento, è occupato da una ragazza con la testa immersa nel libro.
-Non importa quanto cerchi di infilarci dentro la testa- dico, avvicinandomi mentre lei sussulta -non riuscirai ad entrarci dentro. Ci ho provato.-
La sento sbuffare e torna al suo libro. Mi piacerebbe tanto poterne leggere il titolo, ma dita sottili me lo impediscono. Mi siedo a terra accanto a lei e la guardo. Non voglio sembrare uno stalker o un maniaco o qualcosa del genere, è solo che l’alternativa sarebbe guardare la pancia di Frank che si spiaccica contro la carrozzeria della macchina che sta lavando. Bleah. Non riesco a vedere molto, però. Solo la carnagione chiara e i capelli castani, sparpagliati sulle spalle. Resto a guardarla per qualche minuto, finché non se ne accorge e chiude il libro di scatto, poi si volta a guardarmi.
-Oh, vedo che sei arrivato tutto intero a destinazione. Che peccato.-
È lei, la ragazza che mi ha urlato contro poco fa! Riconosco gli occhi nocciola contornati da un filo di eyeliner nero e i capelli mossi, la curva delicata del naso e le sopracciglia disordinate. Sono consapevole di aver sgranato gli occhi, ma non riesco a distogliere lo sguardo. La ragazza sbuffa di nuovo e si alza dalla panchina, dirigendosi verso Frank, che ha appena finito di lavarle l’auto. Avrei dovuto notarla subito, lo so. Stupido, dì qualcosa! mi urlo, mentre cammino lentamente verso la macchina con i vetri oscurati. Lei apre lo sportello e si siede, poi resta lì a guardarmi.
-Problemi?- chiede, sbattendo lo sportello. Fa retromarcia e se ne va, lasciandomi lì.
Incantato. Sarà forse perché è l’unica ragazza che ho mai visto leggere, e non atteggiarsi con minigonne e top semitrasparenti in giro per Whitechapel? Mi avvicino a quella che una volta era una panchina per sedermi mentre Frank ridacchia sotto i baffi dietro al registratore di cassa, ma mi imbatto in una copia di Orgoglio e Pregiudizio messa peggio di Ellie.
-Frank!- chiamo, avvicinandomi alla cassa con il libro in mano -quale razza di essere umano tiene un libro così bello in questo stato?-



Written by: Galaxy Leggins

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


CAPITOLO III
Pov: Hayley.

Quel tipo mi ha rovinato la giornata. Soprattutto perché ha interrotto il pezzo in cui Mr. Darcy si dichiara ad Elizabeth. Peccato che poi litighino.
Non è la prima volta che leggo Orgoglio e Pregiudizio, è assolutamente il mio preferito. La copertina ingiallita fa capire che è molto vecchio. Infatti papà lo aveva regalato a mamma per Natale. Per lei valeva più di un gioiello ma, quando sono morti, ho deciso di ereditarlo. La prima volta che l’ho letto, ne sono rimasta affascinata. Così l’ho riletto e riletto e riletto ancora, al punto di consumare la copertina. Poi, un tragico giorno, è finito nella bocca del gatto di Sam.
D’istinto, infilo la mano nella borsa a tracolla che ho poggiato sul sedile accanto a me per cercare il libro: ho un brutto presentimento. Le chiavi di casa, il cellulare, il rimmel, la patente, c’è tutto. Tranne il libro.
Mi accosto ad uno dei marciapiedi deserti di questa cittadina e cerco meglio nella borsa. È impossibile che sia sparito. Sono sicura di averlo messo dentro.
Rassegnata e notevolmente stupita, lascio cadere la testa sul volante e, per sbaglio, suono il clacson. Rifletto su dove lo posso aver lasciato, ma non mi viene in mente niente. Il rumore assordante continua a bucarmi i timpani. Poco mi importa. Non ho intenzione di tirarmi su fino a quando il libro non comparirà nella borsa.
Ah, quel tipo mi ha decisamente rovinato la giornata!
Afferro il cellulare e compongo il numero di Sam.
-Hayley?- la sua voce è…stupita. Forse non si aspettava una mia chiamata.
-Ho rischiato di ammazzarmi, litigato con un tizio sconosciuto e, come se non bastasse, non trovo più Orgoglio e Pregiudizio!- mi lamento esasperata.
-Giornataccia, eh?- commenta lui, dall’altra parte.
-Giornataccia? Giornataccia la chiami?- in men che non si dica, comincio a delirare; non ho mai perso quel libro -Questo è un incubo, una maledizione, la fine del mondo! Perché sono venuta qui?-
Avverto una risatina che, però, ha vita breve. Quando smette, cerca di calmarmi: -Te l’hanno chiesto i Mclain, ricordi?-
Sbuffo. -Come faccio a trovare il ragazzo se non ho neanche un indizio?-
-Hai l’indirizzo.-
-E tu pensi che sia giusto?- sfilo dalla tasca dei jeans il post-it fosforescente che mi aveva dato Eleanor. Ricordo perfettamente le sue parole: ‘Non so se vive ancora lì, ma vale la pena tentare.’
-D’accordo,- sospiro -vado.-
Quando attacco, osservo bene il foglietto. L’inchiostro nero, sottile, ha scritto 31, Rosedale Street. Mani al volante, riparto alla ricerca della via. Non ho mappe, né niente, mi affido solo al mio istinto.
Le stradine di questa cittadina sono abbastanza strette, sembrerebbe più di stare in un paese. La maggior parte degli edifici è fatto di mattoni grandi e grigi e, di tanto in tanto, si scorge una casetta di legno. Man mano che avanzo, mi allontano dalla superstrada, la mia unica via di salvezza. Però, se torno indietro, dovrò renderne conto a Christopher. E non credo che questa me la perdonerà, dato che si tratta di suo figlio.
Vorrei almeno avere Sam qui con me. L’unica cosa che ho di lui è la macchina. Me l’ha prestata per venire qui, dato che io non ne ho una. Lui è già al college, lavora e può permettersi ciò che vuole. Io, invece, studio, non ho genitori e il massimo che mi è consentito è una pizza, che pago con il soldi che mi guadagno facendo la babysitter ai bambini del primo piano.
L’estate non è ancora finita e, in macchina, si muore dal caldo. Non oso accendere l’aria condizionata perché non so come si fa. E Sam la vorrebbe intera, quest’auto. Tutto ciò mi fa sorridere. Di solito è lui che ride di me. Una cosa la so fare, però: accendere la radio. Lo faccio sempre quando siamo in macchina insieme e la cosa lo fa imbestialire. Non è un tipo da radio, tantomeno da musica. Ma ci si può lavorare. Spingo il pulsante di una stazione a caso e, sulle note di Hurts Like Heaven, continuo a seguire l’istinto.
 
La mia meta è una stradina più ampia delle altre, fatta di terriccio e sassolini. Ai lati, le case non sono molte; si alterna qualche villetta al nulla totale. Ma dove sono andata a finire? penso. Accosto la macchina accanto alla staccionata di un cottage e, una volta scesa, mi metto alla ricerca del numero 31.
Non è molto lontano, solo qualche metro di camminata. La recinzione di legno, corrosa dal tempo, non dà una buona impressione, a prima vista. E il cancelletto, per di più, è aperto. Siamo sicuri che ci viva qualcuno qui dentro? L’unica cosa che mi permette di non fare marcia indietro è un’enorme torta di mele in bella vista sul davanzale. Mi chiedo quale individuo sano di mente possa lasciarla lì, abbandonata a se stessa.
Avanzo nello stretto vialetto di ghiaia che conduce alla porta. È circondato da un bel giardino pieno di fiori profumati. L’effetto che la luce del tramonto ha su quell’infinità di colori è a dir poco stupefacente!
Giungo alla porta e busso, con delicatezza. Mentre aspetto che qualcuno si faccia vivo, mi guardo intorno notando che la villa a tre piani ha le mura dipinte di un arancione pallido. Somiglia alla casa delle bambole. Non avevo mai visto un posto così curato, a parte la villa dei Mclain. Infondo, vivo a Detroit.
Dato che nessuno viene ad aprire, decido di suonare il campanello, quasi scoraggiata. Sento dei passetti venire verso la porta e il chiavistello aprirsi.
Convinta di trovarmi davanti una persona adulta, tengo la testa alta, ma tutto ciò che vedo è un piccolo quadro astratto.
-Chi sei?- una vocina, una piccola vocina da coscienza, parla e mi accorgo subito che si tratta di una bambina. Le prime cose che noto sono gli occhiali tondi alla Harry Potter, in plastica rosa, e il pigiamino, rosa anche quello. È minuta e magrolina, penso abbia dieci anni, anche se ne dimostra sette. I capelli, liscissimi, lunghissimi e -soprattutto- scurissimi, sono legati in una coda bassa spettinata.
-Ehm…Mclain!- dico, prima che mi sfugga anche questo di mente. Il fatto è che non riesco a ricordare il nome del ragazzo. Lo so, sono una frana. Non capisco perché Christopher abbia assegnato questo compito proprio a me.
-Collin?- suggerisce lei, sorridente, come se mi conoscesse da sempre.
-Esatto! Collin.-
Lei si gira e per un attimo penso che mi voglia chiudere la porta in faccia. Invece, si limita solo ad urlare un sonoro ‘Mamma!’.
Allungo il collo nel corridoio dipinto di giallo e noto che c’è una porta aperta che dà sulla cucina. Da lì esce una signora sulla cinquantina piuttosto bassa. Per un attimo penso che sia la nonna della bambina, ma poi mi ricordo che l’ha chiamata mamma. Beata lei.
La donna si asciuga le mani al grembiule bianco legato in vita e mi stringe la mano.
-Piacere, Cher.-
-Hayley.-
-Posso aiutarti?- domanda con un sorriso tutt’altro che sornione.
-Sì, grazie.- ZAAAAAC, risposta errata. Da dove mi è uscito questo ‘sì, grazie’?
-Sto cercando Collin.- continuo -Lei lo conosce?-
-Sono sua zia.- si affretta a dire. Prima che io possa rispondere, aggiunge: -Vieni dentro, non voglio tenerti sulla soglia.-
Bisbiglio un grazie, un po’ intimidita. Appena entro, affondo le Converse nella morbidissima moquette beige e noto che le due sono scalze. Osservo l’interno: tutte le luci della casa sono accese, illuminando ogni singolo angolo. Deve essere difficile trovare un posticino per dormire.
-Sei una sua compagna di scuola?- questa domanda mi riporta alla realtà. Ero occupata a curiosare la finestra con la torta di mele.
-Oh, no.- dico, in modo quasi rassicurante. Continuo a guardarmi intorno, alla ricerca di un’idea su come spiegare chi mi ha mandato qui e perché, ma sembra che le lampadine accese stiano solo sul soffitto e non nel mio cervello.
Mi affretto a dire qualcosa, la situazione sta diventando imbarazzante.
-Conoscete i Mclain?- ecco, questo era proprio ciò che avrei voluto evitare! Soprattutto perché l’espressione di Cher si è tramutata in un misto di orrore e sorpresa. In tutto questo c’è la bambina che mi guarda come si guarderebbe un’aliena, o che so io. Non credo di essere andata alla grande, finora.
-Sono i genitori di Collin.-
Essendo in un vicolo cieco, spiego velocemente la situazione, naturalmente dopo che la bambina -Ronnie, da quanto ho capito- se n’è andata a giocare al piano di sopra. Con mia sorpresa, ora, scopro che Cher sa tutto.
-Collin non ha la minima idea su chi siano i suoi genitori. Lo hanno lasciato quando era molto piccolo, neanche se li ricorda.- accenna un sorriso, ma poi torna seria -Loro mi hanno messo in condizione di mentirgli, di dirgli che erano morti.- si porta una mano alla bocca, per trattenere i singhiozzi. -Se fosse per me, lui saprebbe tutto. Ma non sono io che decido.-
Questa storia mi riempie improvvisamente di tristezza. Ma, infondo, cosa posso fare io? Non mi è mai successa una cosa del genere, non posso rassicurarla con un ‘la capisco’.
-Mi dispiace signora.- è tutto quello che riesco a dire. Possibile che sia tutto quello che riesco a dire? Mi faccio coraggio e provo a difenderli, infondo i Mclain sono brave persone.
-Lo hanno fatto per proteggerlo. Sono sicura che anche loro hanno sofferto. Non hanno scelto di diventare così.-
I suoi occhi si spalancano, come se avessi appena pronunciato la peggiore delle maledizioni. Si poggia sul davanzale della finestra accanto alla porta, dove c’è la torta.
-Anche tu sei così?- chiede, inizialmente senza guardarmi.
Ad occhi bassi, faccio cenno di sì con la testa. Non mi sono mai vergognata così tanto di essere un licantropo. Forse perché ho sempre vissuto con loro, senza nessuno che mi disprezzasse così tanto. O forse perché anche io, un po’, mi odio. Ma la mia teoria sul disprezzo ha vita breve.
-Hai un posto dove vivere?- domanda, gentilmente.
Esito un pochino, non mi piace farmi vedere in difficoltà.
-Veramente no, ma…-
Non riesco a terminare la frase, che lei propone: -Perché non resti qui? Potrebbe essere più facile per te dire la verità a Collin.-
Cerco in tutti i modi di rifiutare educatamente, ma lei sembra insistere. Infondo che peso può dare una ragazza che, in casa, non c’è mai? Dovrei decisamente cambiare quest’abitudine. Soprattutto perché, ora, non ho più l’appartamento di Sam in cui accamparmi.
 
Cher mi ha fatto parcheggiare la macchina nell’unico posto auto che c’è in giardino. Dice che Collin ci lascia il suo rottame. Oh, non credo che esista un rottame più rottame del rottame del tizio di oggi.
Ci mettiamo ad apparecchiare -cosa che faccio per la prima volta- nella sala da pranzo, completamente tappezzata da mobili in legno lucido e vetrine ricoperti da gingilli vari. C’è un grande lampadario in ferro battuto proprio sopra il tavolo. Lo scruto arricciando leggermente il naso. Ho paura che cada sul cibo. Non appena Cher va in cucina a controllare la zuppa, ecco che arriva il ragazzo. All’inizio sento solo la sua voce gridare: -Sono tornato!-
I suoi passi si dirigono verso la sala da pranzo. Verso me, praticamente. Allora mi volto e lo vedo: i capelli ricci gli incorniciano il viso, morbidi. Gli occhi verdi, grandi, sembrano brillare di luce propria ma, in realtà, è solo il riflesso delle lampadine. Quando mi vede, rimane a bocca aperta.
Posa le chiavi sul mobile della sala da pranzo, lo sguardo fisso su di me. Ma il particolare che più mi irrita è che tiene stretta in mano la mia copia di Orgoglio e Pregiudizio.
-Tu?- socchiude gli occhi, come se volesse uccidermi.
-Non ci posso credere!- esclamo inorridita.



Written by: happayness

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