Mikhaila Vartusan, l'Arpia dello Spazio

di EIP
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Mikhaila Vartusan

MIKHAILA VARTUSAN, L'ARPIA DELLO SPAZIO

(Sessione EIP - Extreme Improvisation Project - di Kaos e Dragon85, iniziata il 15/02/2008)

Capitolo Uno


Porte di Tahnnauser. Un incrociatore classe Q28 sfrecciò rapido, sebbene l'ala destra stesse cadendo a pezzi. Se qualcuno avesse potuto avvicinarcisi volando e origliare la cabina di pilotaggio avrebbe sentito una roca voce femminile urlare fortissimo di manovre sbagliate, aiutanti incompetenti e sfiga cosmica.
"Chi cazzo vi ha detto che questa era la pausa pranzo??" Urlò la giovane donna a comando dell'aereo "Pensavate forse che i bip del radar fossero il segnale per iniziare a nutrirvi?". Le bestemmie e parolacce non si sprecavano affatto, tanto che il resto dell'equipaggio si chiese se quella in realtà non fosse nient'altro che uno scaricatore di porto in incognito.
Ad ogni modo ormai quel che era fatto era fatto, e l'aereo stava entrando in avvitamento, pronto a sfracellarsi al suolo.
Il comandante Vartusan si chiese perché cazzo l'avevano messa a pilotare un aereo spaziale turistico, pieno di vite a carico e con uno stipendio da fame. Poi, come se la sua memoria razionale si fosse presa una piccola vacanza, si ricordò del macello combinato a bordo della Magellano e si rassegnò a passare il resto della propria carriera a fare la traghettatrice di obesi ricconi senza la minima esperienza dello spazio. Carriera che peraltro, in quel momento, poteva finire insieme alla sua stessa vita. Se solo quel maledetto incompetente senza senso di Tomasson non si fosse preso la briga di fare una deviazione su un asteroide.
Quell'asteroide infatti si rivelò ben presto un pericolo difficilmente sormontabile, in quanto le lunghe e affilate rocce sporgenti presenti sulla sua superficie avevano tranciato di netto un'ala, disperdendo pezzi di tecnologia nel vuoto cosmico. Il comandante sperò che quelle lame non avessero anche danneggiato il sistema di pressurizzazione, perché altrimenti si sarebbero trovati in un guaio ben più grosso.
Ben più grosso di QUESTO?
Decisamente no. Bene o male sapeva perfettamente che erano tutti condannati ad una morte atroce: o bruciati vivi a contatto con l'atmosfera del gigantesco pianeta sottostante oppure con le cervella disperse nello spazio.
Poi il comandante Vartusan si prese delle figurate palle in mano e si disse che mai avrebbe permesso a una sua nave di non atterrare più o meno intera. Aveva portato in salvo un incrociatore classe C96 in fiamme, qualcosa grosso come quindici Petronas Tower, senza perdere neanche un grammo del carico quando ancora faceva la pilota commerciale. Aveva abbattuto tre dei suddetti colossi con una nave grossa la metà di quella che stava pilotando in quel preciso momento verso un tremolante atterraggio di emergenza. Aveva sempre fatto del suo meglio, e il suo meglio era il meglio del meglio del meglio. Quella volta non sarebbe stata diversa. Prese Tomasson per la collottola, gli ringhiò dietro una serie di ordini chiarissimi anche per lo spazzino dell'Accademia e lo scaraventò al suo posto, sperando che non facesse altre puttanate in corso d'opera.
Tomasson cominciò a sudare freddo. Da una parte quel botolo rognoso del suo Comandante, più bestia che donna, dall'altra la altissima probabilità di andare verso morte certa. Affrontare la Vartusan o la Nera Signora?
L'uomo formulò in meno di tre secondi netti la risposta alla sua domanda. Senza dubbio la Morte.
Se non avesse saputo di avere nelle sue mani anche la vita degli altri membri dell'equipaggio avrebbe senz'altro preferito affrontare questo destino. Il suicidio era sicuramente la via migliore per chi non voleva affrontare la Vartusan, una creatura con una grandissima necessità di trovarsi un uomo da scopare al più presto. Forse era proprio l'assenza di una qualsiasi vita sessuale da parte sua a renderla una belva umana del tutto priva di tatto e savoir faire.
Mikhaila Vartusan notò con la coda dell'occhio dell'astio negli occhi di Joe Tomasson. Se non fosse stata impegnata a salvare la vita di cinquemila persone gli sarebbe saltata sulla faccia e l'avrebbe gonfiato di botte in un tal modo che neanche sua madre avrebbe potuto fare il riconoscimento all'obitorio.
Lo conosceva sin troppo bene per i suoi gusti, quel tipo. Era un ragazzino borioso che si credeva già arrivato e solo per essere Primo Ufficiale su una nave turistica pensava che il mondo dovesse inchinarsi ai suoi piedi e rotolare di fronte a lui in segno di prostrazione.
Stronzetto.
Che la Vartusan fosse una stronza di prima categoria era lei stessa a dirlo, e mai ne aveva fatto mistero con conoscenti ed eventuali sottoposti. Ma era comunque il suo comandante. Inoltre: stavano precipitando e quello si metteva a pensare ai cazzi suoi, al fatto che probabilmente ciulava poco e amenità simili? Quanto erano caduti in basso.
E poi, cristiddio, dovevano salvare quella fottuta balena dello spazio.
Si rimise al suo posto sparando l'ennesima bestemmia e cercò di riprendere il controllo della cloche.
Il senso del dovere instillato in Mikhaila Vartusan rasentava l'ossessione pura: non ammetteva nemmeno a se stessa il minimo errore, tutto quello che c'era da fare doveva essere fatto, anche se questo poteva comportare la perdità totale di energia. Energia che poteva esser benissimo adoperata per altri scopi, ben più gratificanti di un'eventuale e futura promozione.
Esattamente, da quanto tempo la sua vita sessuale era ad un punto morto? Ne aveva perso addirittura memoria. L'ultima volta era stato quando era all'accademia spaziale: da allora era passato tantissimo tempo. L'aveva tralasciata per dedicarsi completamente al lavoro, lavoro e solo lavoro.
Improvvisamente, per un breve momento, si sentì una stakanovista della minchia.
E si disse " 'Stigrandissimi cazzi. Le crisi di coscienza le avrò dopo, adesso dobbiamo far atterrare 'sto affare. Altrimenti non ci sarà un cazzo di dopo".
Sbraitò comandi chirurgici a Tomasson, a Nakamura, a Kastle, a Finkel. Anche il cuoco, l'elettricista e le hostess ebbero la loro parte da fare.
Bisognava atterrare. Atterrare. Di sbieco, obliquamente, su un ala sola. Ma bisognava atterrare.
La superficie del pianeta violetto sotto di loro si faceva sempre più vicina. I secondi utili per rendere l'impatto meno traumatico possibile scorrevano veloci e si era fatto troppo poco, fino a quel momento.
Fu lì che Mikhaila Vartusan fu preso da quello che soleva chiamare il Raptus: cancellò ogni pensiero cosciente dal suo cervello, diede ai suoi attendenti l'illusione di essersi fatta spuntare almeno altre tre paia di braccia e cominciò a mulinare tasti, leve e comandi con una tale velocità che l'intero pannello di comando sarebbe potuto benissimo andare a fuoco se non fosse stato costruito con materiale ignifugo.
I suoi sforzi furono a malapena sufficienti per schiantarsi con un minimo di grazia.
Il grosso mostro spaziale si rovesciò su un fianco e si trascinò, con la carrozzeria semifusa, sul fangoso terreno viola per parecchi chilometri dal punto d'impatto. L'ala finì di spezzarsi, seguita dall'altra che non resse la pressione eccessiva e il mancato equilibrio. All'interno della sala di comando era il caos più totale: Mikhaila venne sballottata lontano dalla sua postazione, finendo su Tomasson, che nel frattempo si reggeva con tutte le sue forze ai braccioli del suo sedile, ingarbugliato tra il corpo della Vartusan e le cinture di sicurezza che in quel momento si stringevano al suo collo.
Mikhaila non poteva proprio dire che Joe Tomasson le stesse simpatico. Anzi, lo odiava cordialmente. Ma un conto è odiare cordialmente qualcuno, un conto è seppur involontariamente cercare di ammazzarlo.
Appena l'incrociatore si stabilizzò un minimo lei cerco di sbrogliare la matassa delle cinture di sicurezza dal corpo del suo Primo Ufficiale. Il quale, nonostante la precarietà del momento e la scomodità della posizione, non potè fare a meno di notare che il suo comandante era un gran bel pezzo di figliola. Poi Joe Tomasson, Primo Ufficiale sull'incrociatore turistico Meridianus, non potè fare a meno di darsi del maledetto deficiente per aver solo potuto pensare a una stupidata quale la Vartusan come donna.
Perché era ben ovvio che Vartusan non poteva essere una donna. La definizione "iena incazzata divorata da zecche e pulci" si addiceva decisamente meglio al suo carattere. Ad ogni modo sentì la stretta delle cinghie allentarsi, mentre ormai la staticità regnava sovrana. Il grande mostro metallico si era finalmente fermato, ma, dal totale buio che li circondava, capì ben presto che il motore a fusione atomica era partito del tutto. E l'assenza di luci d'emergenza testimoniava l'assenza di sufficiente energia nelle batterie, andata sicuramente sprecata tutta nella fase di atterraggio.
L'equipaggio arrancò al buio, cercando di farsi strada vetri rotti e cavi elettrici tranciati, ormai privi di alcuna utilità.
Mikhaila, tuttavia, si mostrò ancora una volta il tremendo squalo dalla giustificata fama predatoria: una luce, sebbene un po' fioca, le illuminò improvvisamente la faccia, dando a chi avesse la sfortuna di guardarla l'impressione di aver di fronte a sè un qualche mostro di vecchissimi film horror del secolo precedente.
"Suvvia branco di vacche, è solo una torcia al plasma. Io ce l'ho come da regolamento, le vostre dove sono finite?" berciò sgraziosamente il Comandante Vartusan.
"Procuratevi una fonte di luce, controllate di essere integri e tirate insieme la baracca".
Quando però gettò la torcia tecnologica verso Kastle, pronta a ordinargli di andare a controllare i passeggeri, quello che vide la inorridì. E Mikhaila Vartusan non è quel tipo di persona che inorridisce facilmente.
Di lui non era rimasto nient'altro che un ammasso di ossa e nervi scoperti - ancora pulsanti - quasi completamente carbonizzati. La bocca era spalancata in un grido muto, gli occhi colanti dalle orbite come gelatina semiliquida e i denti perlacei scoperti in un ghigno mortale. Ormai quel che restava di Kastle era tutto tranne che umano.
Il resto dell'equipaggio si allontanò rapidamente dal corpo martoriato, visibilmente disgustato da tale, macabro spettacolo. La Vertusan era impallidita, la sua faccia così bianca da far invidia a un cadavere. Cominciò ad arrancare tra i suoi neuroni cercando di fornire una spiegazione logica e valida a quanto era accaduto, ma il vuoto totale ottenebrava la sua mente.
Poi, con un'ondata di cinismo che per un solo istante le diede una tremenda voglia di vomitare, si scosse e tolse lo sguardo dal macabrissimo spettacolo mormorando solo una misera, piccola preghiera per il povero Kastle.
Urlò forte al solito Tomasson di alzare il culo, di togliersi la cintura di sicurezza da attorno il collo che era ridicolo e di andare a fare la conta dei passeggeri e di vedere se c'erano altri feriti o, peggio...morti.
Ecco, fu il dire quella parola che cacciò Mikhaila in un brutto incubo. E davanti agli occhi le riapparve la Magellano. L'unica, immensa macchia della sua altrimenti perfetta carriera.
"No, non devo pensarci adesso, non ora" pensò la Vartusan, mentre quel ricordo doloroso ancora le vorticava tra le meningi. Non doveva distrarsi, non doveva ripetere lo stesso errore di alcuni anni prima. Era stata una sua mancanza, qualcosa che all'epoca non poté definire con cognizione di causa. Ma aveva imparato da quell'errore, e la situazione che ora le si profilava davanti non era nient'altro che l'esame definitivo.
Sarebbe riuscita a mettere in salvo tutti quanti, lo sapeva. Prima però doveva scoprire dove erano finiti, e se era possibile inviare un segnale da lì a una stazione spaziale vicina. Durante la corsa pazza e disperata nello spazio, tra strumenti impazziti, non aveva visto le coordinate della sua posizione, in quella porzione di spazio. Sperava di non essere uscita dai limiti dell'universo conosciuto, perché altrimenti sapeva benissimo che erano nei guai. In guai grossi.
E dopo la morte di Kastle potevano diventare anche... colossali.
Ecco, sì. Innanzitutto dovevano capire dove fossero.
Mentre il suo equipaggio starnazzava senza ritegno le classiche frasi fataliste alla "moriremo tutti, moriremo tutti" lei focalizzò, come era solita fare nelle situazioni delicate, e fece una cosa stupefacente nella sua semplicità: cercò di capire dove fossero atterrati.
Guardò fuori dal più vicino oblò e tirò un fortissimo sospiro di sollievo, talmente consistente che alcuni dei presenti lo scambiarono per qualcos'altro che esplodeva in quella stanza: erano su Mar Sara.
Erano quasi salvi.
Mar Sara era una colonia che l'umanità aveva fondato parecchi decenni prima. C'erano sicuramente cibo, acqua e mezzi di trasporto.
"Meno male" pensò fra sé e sé. Poi, visto che il problema maggiore si era risolto, si permise di aggiungere mesta "non finirà come quella volta".
Ordinò all'equipaggio di prendere tutto il necessario per prepararsi ad uscire con i passeggeri, e accertarsi che tutti stessero bene. Dovevano accertarsi anche di quante provviste erano rimaste loro ancora integre. Con una breve perlustrazione da parte di Jakob venne fuori che solo uno dei tre cargo addetti al trasporto delle provviste era rimasto integro. Avevano dunque provviste sufficienti per i prossimi due giorni.
Il luogo dove erano atterrati era senz'altro in una zona disabitata e deserta di Mar Sara. Il sole azzurro e pulsante risplendeva nel cielo facendo cangiare il suo colore da un rosato pallido a un giallo canarino. Il suolo era morbido e fangoso, tanto che buona parte del relitto vi era immerso dentro, dal caratteristico colore violaceo, ricco di acqua e per questo asfittico e sterile.
Sì, si trovavano in una zona decisamente disabitata.
"Meglio in una zona disabitata di Mar Sara che non su qualche cazzo di pianeta del Quadrante Esterno, dopotutto. Consoliamoci, potevamo essere già morti da un pezzo" cercò, nel suo peculiare modo, di sollevare gli animi di equipaggio e passeggeri, un poco sconsolati quando anche loro furono messi a parte delle novità.
Alcune voci si alzarono mandandola più o meno velatamente a quel paese. Altre invece trovarono ragionevoli le sue parole.
Ma prima di partire in esplorazione Mikhaila Vartusan sentiva bruciarle in gola il desiderio di fare una cosa. Una cosa in realtà non urgente. Non importante ai fini del benessere delle persone a suo carico. Non fondamentale.
Ma doveva farla lo stesso.
Doveva fare il culo a Joe Tomasson.
Non perché avesse torto sul serio, ma solo perché le andava. Solo per ribadire prepotentemente il suo assoluto potere. E Tomasson era il bersaglio perfetto.
Lo raggiunse in poche falcate, sicure, precise, dirette.
Ecco, pensava, fai così. Fai la stronza al cubo. Ci vuole disciplina e rispetto, per queste quattro teste di minchia.
Portò la sua faccia a pochi centimetri da quella di Tomasson, che nel frattempo aveva indietreggiato di mezzo passo. L'espressione truce da iena con un peperoncino ficcato in culo era tutt'altro che rassicurante. Sapeva perfettamente cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
"Joe Tomasson! Sei il più grande idiota dell'universo!" urlò la Vartusan, sputando indebitamente sulla faccia del povero ufficiale. "E' colpa tua e solo tua se ora ci troviamo in questa situazione! Se solo fossi stato attento alle rotte segnate sulla mappa interstellare avremmo evitato di passare davanti a quell'asteroide! Oppure non ti sei reso conto che il grado di pericolosità di un corpo celeste di quel tipo è ben oltre i limiti consentiti per il passaggio a breve distanza? Sei un coglione colossale! Ti farò degradare, mi hai capito?"
In quel preciso momento, nell'anno di grazia 2185, successe qualcosa di inconcepibile: qualcuno rispose a tono a Mikhaila Vartusan.
Joe Tomasson non si fece minuscolo fino a scomparire. Anzi, si passò una mano sulla bocca con la faccia mezza girata all'indietro, quasi a simulare un attacco di vergogna che pochi istanti dopo mostrò di non provare affatto.
Gli ci volle circa un millesimo di secondo per voltarsi come un falco verso la faccia del suo stimatissimo Comandante e dirgli, con tono decisamente sostenuto: "Mi stia a sentire, Comandante. Io so fare il mio lavoro. Non ho la sua esperienza decennale, è vero, ma so leggere una cazzo di mappa interstellare. L'asteroide è sbucato fuori all'improvviso e non ho fatto in tempo ad evitarlo. Quindi l'unica a cui può dar colpa di questo macello è la mano del caso".
L'evento clamoroso poteva anche finire lì. Ma Tomasson, galvanizzato dallo sguardo un pochino preso in contropiede di Mikhaila, premette sull'accelleratore. Combinando, in realtà, un casino ben peggiore del tremendo atterraggio su Mar Sara.
"E poi, mi scusi, con che diritto mi viene a parlare di stronzate durante le manovre se lei è stata la prima a sfracellare il cacciatorpediniere Magellano sulla superficie di Lagushas uccidendo tutte le persone che si trovavano a bordo? Non è stato un caso anche lì? Eppure a me non risulta che lei sia stata degradata o che".
Mikhaila Vartusan ebbe, per la prima volta da circa venticinque anni a quella parte, l'impulso di scoppiare a piangere.
Ma lei non doveva farsi prendere dalle lacrime. Doveva essere forte, ricacciare le immagini del relitto del Magellano, i cadaveri tra le lamiere, il sangue che scorreva mescolandosi alla superficie ferrosa di Lagushas, e il calore, l'incendio, il fuoco, il terrore e urlo prolungato che risuonava nei cieli di quel pianeta freddo, l'urlo di una donna che vide la propria vita infrangersi come una cometa su un gigante gassoso.
Quindi fece la cosa più ovvia. Ricacciò indietro le lacrime e proseguì.
"Tomasson, da questo momento in poi sei agli arresti. Ti è vietato prendere possesso di tutte le manovre per il salvataggio sul pianeta, e dovrai rispondere di insubordinazione quando torneremo sul nostro pianeta madre."
Joe Tomasson, sentendo quelle parole che riteneva più dure di un macigno scagliatogli sulla testa, fece la più grossa cazzata della sua vita: completamente iniettato di odio verso l'essere che gli stava davanti, e che aveva appena pronunciato la condanna a morte della sua carriera di pilota spaziale, fu preso dalla rabbia più distruttiva di cui era capace e le diede una fortissima testata in faccia.
Quando il Comandante Vartusan rotolò a terra col naso a pezzi lui approffitò del momento e le rifilò un poderoso calcio sulla schiena: "Maledetta stronza! Come ti permetti di farmi questo? Sono un professionista onesto e scrupoloso, quello che è successo qui è solo colpa della sfortuna!".
Ci volle poco, fortunatamente, perché i suoi compagni di equipaggio gli saltassero addosso e lo bloccassero prima di fargli commettere ulteriori scelleratezze.
Mikhaila Vertusan, ancora intontita, si tastò il naso per assicurarsi che non fosse rotto, lordandosi le mani del suo stesso sangue. Fortunatamente la botta non fu sufficientemente forte da comprometterle l'osso, ma si fece comunque un male cane. Sollevò lo sguardo inviperito verso Tomasson, scoprendo che sul suo volto aveva la stessa espressione furiosa e truce di poco prima. Sulla fronte dell'ufficiale vi era una chiazza di sangue dalla quale sorgevano rivoletti che andavano a bagnargli il resto della faccia. Solo allora la Vartusan si rese conto che Tomasson aveva veramente *osato* colpirla. Il desiderio di prendere un qualsiasi oggetto e spaccarglielo sulla faccia montò furiosamente in lei, ma decise di controllarsi quanto più possibile. Doveva mantenere la propria lucidità mentale e non farsi prendere da colpi di testa del genere. La vita del suo equipaggio e dei passeggeri dipendeva quasi interamente da lei.
"Finkel! Jakob! Prendete questo scarto umano e ammanettatelo. Appena giungeremo alla colonia mi assicurerò che lo sbattano nella cella più sporca e maleodorante che hanno" sibilò, la sua voce più simile alla lama di una spada che a delle onde sonore.
Dopodichè, assicuratasi che quel maledetto coglione non potesse più arrecare danno, marciò a passo di guerra verso la zona passeggeri, disse sbrigativamente a tutti i presenti di prendere tutto ciò di fondamentale potevano raccattare e di alzare le chiappe che si usciva di lì. Le facce dei passeggeri, seppur parzialmente oscurate dall'assenza di corrente elettrica, erano assai spaventate alla vista di quella faccia, che una volta era forse stata femminile, bagnata di rosso e contorta in un'ottima rappresentazione delle mitologiche Furie greche.
"Bene, la situazione è questa" pronunciò secca la donna, dopo aver spiegato la situazione. Erano ormai fuori dal relitto da qualche ora, e Mikhaila Vartusan reputava opportuno informare tutti i passeggeri che avrebbero dovuto attraversare il Ragghamuth (altresì detto il Deserto Viola) di Mar Sara per giungere al primo posto abitato. Secondo le mappe doveva trovarsi a centocinquanta miglia da lì, se le coordinate erano esatte.
Finkel e Jacob trascinavano con loro un Tomasson visibilmente incazzato e fremente di rabbia, mentre altri due individui dell'equipaggio, Hansel e Nakamura, portavano fuori dal relitto il corpo carbonizzato di Kastle.
La strana, eterogenea e lunga fiumana di persone che zompettavano insicure per il Deserto Viola sarebbe stata un bellissimo soggetto per dei possibili turisti alieni muniti di macchina fotografica.
Il serpentone di gente, abbastanza da perdersi a vista d'occhio, era capitanato da un satanasso in gonnella i cui lunghi capelli biondi sbucavano dal bordo inferiore del respiratore sferico standard, mezzo necessario per le escursioni fuoriporta su pianeti ostili. Dietro di lei, che pur non sbraitando al suo solito ne aveva la caratteristica mimica, marciavano da bravi soldatini ordinati, o forse più intimoriti che altro, tutti i restanti membri dell'equipaggio. Ancora più indietro arrancavano con molta poca agilità i passeggeri, più di cinquemila persone del tutto spaesate, spaventate e insicure sul da farsi.
L'unica a sapere come muoversi, dove muoversi e perché muoversi era, come sempre è stato nella sua vita, il Comandante Mikhaila Vartusan.
Quella volta su Mar Sara fu l'ennesima conferma del suo soprannome: l'Arpia dello Spazio.

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


MIKHAILA VARTUSAN, L'ARPIA DELLO SPAZIO

(Sessione EIP - Extreme Improvisation Project - di Kaos Rising e Dragon85, iniziata il 18/02/08)

Capitolo Due


I passeggeri del cargo spaziale, guidati dalla rigida e - a titolo garantito e certificato - acida comandante Mikhaila Vartusan, si fecero strada nel fango violetto e viscoso del deserto di Mar Sara, accompagnati da un vento umido che penetrava in profondità nelle loro ossa. Le loro gambe, ormai incrostate da vari strati di fanghiglia, cominciarono a sentire ben presto la fatica, tanto che pareva loro che cento metri fossero cento chilometri. A questo si aggiunse il fatto che cominciò a calare la Lunga Notte Astrale di Mar Sara, che durava pressappoco 7 giorni terrestri. Quando si dice la sfiga.
Così, alla pesantezza del viaggio, si unirono i brividi di freddo e la totale assenza di luce naturale.
Mikhaila era dura, rozza e con molta poca pazienza. Ma non le piaceva vedere quelli che amava definire "civili grassi come oche" morire di stenti nel bel mezzo di un deserto di fango viola su un pianeta lontano. Pertanto, in un raro sprazzo di sensibilità, fece gesto ai suoi sottoufficiali di fermarsi e far capire a chi li seguiva che la cosa valeva per tutti. Dopodichè, quando la carovana interruppe la marcia, aprì il microfono interno del respiratore verso Tomasson.
Nonostante tutto quel che era successo a bordo della Meridianus voleva una spiegazione, possibilmente sensata, a quell'inaudito e pazzo colpo di testa. In tutti i sensi, dato che il naso le faceva ancora un male della madonna. "Tomasson, scarto umano e rifiuto della società."
Ecco, si poteva senz'altro appurare che la diplomazia non fosse proprio il punto forte di Mikhaila Vartusan.
Tomasson inspirò profondamente ed espirò in altrettanto modo, lasciando una macchia di vapore acqueo sulla superficie del respiratore. Dio, se gli urtava ai nervi, quella vocina stridula e incazzosa! Arpia era senz'altro il soprannome più azzeccato per lei, data l'analogia del suo comportamento con le famose creature della mitologia greca.
"Che cazzo vuole, 'comandante'?" asserì con un malcelato tono di sfida.
Seppur si sentisse punta in un piccolo angolo del suo orgoglio, Mikhaila Vartusan sentiva quasi adorare sempre di più l'odio che il suo sottoposto nutriva per lei. Le dava una forza che non riusciva a identificare, qualcosa che la spingeva a cercare ancora di più la provocazione.
"Allora, ti è sceso il testosterone da macho fallito?". Sì fermò, aspettando un qualsiasi cenno da parte sua per poter poi proseguire. Ma da parte di Joe non arrivò un rumore, se si eccettua un respiro decisamente nervoso e contratto.
"Non le darò un'altra testata, se è questo che teme. Però, visto che non metterò mai più piede nella plancia di comando di un incrociatore grazie alla sua spregevole delazione, credo che mi toglierò qualche sassolino dalla scarpa".
La Vartusan alzò un sopracciglio dalla sorpresa: sapeva che il buon Tomasson era una testa piuttosto calda, ma non pensava che trovasse tanto stomaco da rivolgerle quelle parole sprezzanti e prive di qualsiasi rispetto per la sua carica.
"Dunque, immagino tu...sì, proprio tu...voglia sapere perché ho dato fuori di matto prima, no? Semplice. Ne ho pieni i coglioni di vederti atteggiare a primadonna che neanche Wonder Woman ai tempi d'oro. Sei un comandante bravissimo, su questo non posso proprio recriminare nulla. Ma come persona mi fai veramente schifo. Sei dispotica, intollerante, sempre perennemente incazzata. Si può sapere da dove ti sale tutta quella rabbia? È davvero come penso io, cioè che scopi poco?".
Zaff. Colpita e affondata.
Mikhaila non si era mai veramente chiesta da dove derivasse la natura del suo carattere. Forse davvero per via del fatto che la sua vita sessuale era più piatta di una sogliola, oppure... oppure non lo sapeva nemmeno lei. Adorava farsi grande a spese di terzi? Forse sì, forse no.
Di una cosa era sicura: godeva da matti nel far sentire inferiori gli altri rispetto a lei. Per quale motivo non lo sapeva, e non voleva nemmeno saperlo. Le provocava il gusto di un orgasmo intenso, ogni volta che la sottomissione rasentava l'idolatria.
Voleva essere invidiata?
Ah, forse.
Ma più di ogni altra cosa, più di qualsiasi altra cosa, voleva essere *adorata*.
E Joe Tomasson aveva appena dimostrato, con fatti inoppugnabili, che provava una varia gamma di sentimenti nei suoi confronti. Ma fra nessuno di questi c'era qualcosa che si avvicinava vagamente all'adorazione.
E il buon ex-Primo Ufficiale, quasi sentita la piccola vittoria appena ottenuta, spinse ancora più in là la conversazione: "E se pensi che sia un problema mio, che magari non so riconoscere le qualità di una persona, stai pur tranquilla che non è così. O mi vuoi far credere che non ti sei mai accorta di come Finkel, il povero Kastle o il tanto bistrattato mozzo Jakob ti guardano di sbieco, a volte? Dovresti sentire che gentili commenti hanno per te, in privato. Quando stanno sul leggero si limitano a "cazzo incartapecorita stronza di", e ti ho detto tutto".
Mikhaila non era sorpresa da quella rivelazione. Sapeva di avere l'astio di tutti puntato su di lei, ma questo non sembrava darle fin troppo fastidio. In fondo sapeva di esser stronza e acida nell'animo. Interpretava l'odio nutrito nei suoi confronti come l'invidia che i suoi sottoposti provavano per lei. E l'invidia è un demone che parla decisamente la lingua del muto apprezzamento, quello non rivelato perché incapace in un qualsiasi modo di raggiungere la perfezione desiderata.
Quello che non sapeva era che lo sprezzo di Tomasson e degli altri sottoposti non era quello nato dall'invidia, ma dalla non-sopportazione. E, sebbene Joe continuasse a ribadirlo con una sincerità sconcertante e disinibita, le orecchie della sua mente continuavano a recepire un messaggio del tutto errato.
"Ti rode il fegato che una donna sia un tuo superiore, vero, stronzetto?"
Tomasson si permise di ridere alla stupidità del comandante Vartusan.
"Cosa te lo fa credere? Sei mio superiore perché hai più anzianità di me, sei più brava e bla bla bla. Potresti essere un uomo, un transessuale, una piovra a cinquanta tentacoli ma saresti comunque meglio portata per sedere al posto di comando. Lo ripeto, visto che pari far finta di non sentirmi: dal punto di vista professionale, mio caro capitano, non posso muoverti un appunto che sia uno. E anzi, ne approfitto per scusarmi della frecciata sulla Magellano. Ero nervoso e quello è stato un colpo basso".
Il comandante dell'ormai ex-nave passeggeri avvertì qualcosa pungere di nuovo nella profondità della sua anima, nel momento in cui le labbra di Tomasson pronunciarono la parola "Magellano". Ma ancora più stupita la lasciò il fatto che quella testa calda di Joe si fosse scusato per averle fatto ricordare quel peso per lei ancora difficile da sopportare. Si ritrovò ad apprezzare il suo sottoposto per questo, ma una voce maligna nella sua testa le urlava di non lasciarsi andare all'emozione, soprattutto con quell'uomo.
"Non basterà questo per farti perdonare, Tomasson." E detto ciò chiuse il collegamento.
:Joe rise ancora. Non sopportava Mikhaila Vartusan, neppure un po'. Però era quel tipo di persona che non poteva non trovare divertente tanta stupidità, tanta zucconeria e tanta insistenza condensate in un'unica figura umana.
Scrollò le spalle, per nulla stupito da come quella conversazione si era conclusa. Anzi, era andata fin troppo bene in un certo senso. Si aspettava fulmini in testa, calci in mezzo alle palle e qualsiasi pessimo abuso, fisico o retorico che sia. E invece, seppur per un brevissimo momento, gli sembrava come di aver fatto breccia.
Non è che volesse far breccia chissà dove, sia chiaro. Non era nemmeno stato lui a cominciare, d'altronde. Però, buttato in mezzo alla pista, si era difeso come meglio aveva potuto, senza mancare di portare qualche affondo ogni tanto. E, semplicemente, era contento di come si era comportato.
Perché, va bene, Mikhaila Vartusan gli stava sulle palle. Ma Tomasson non era quel tipo di persona che non era in grado di essere felice per vedere un suo simile tirarsi fuori dal pantano dell'ignoranza.
Tomasson nella sua vita aveva visto cose davvero così terribili che non riusciva a restare insensibile di fronte a manifestazioni di crisi altrui. Anche se quel qualcuno era Mikhaila Vartusan.
Non era peggio del suo vecchio comandante, quando era soldato semplice nella Fanteria Spaziale del Tredicesimo Glorioso Reggimento. Un nome estremamente pomposo per descrivere una realtà che faceva pena più della pena stessa. Lì tutto era ammesso e concesso, e le manifestazioni di solidarietà tra i componenti del reggimento erano praticamente inesistenti. Ognuno nel momento del pericolo pensava solo a se stesso e a nessun altro. Il suo comandante, inoltre, era uno di quegli stronzi colossali che vorrebbero i loro soldati a leccargli le suole delle scarpe. Sì, decisamente peggio della Vartusan.
Fu lì che Tomasson si rese conto di quanto abbietto ed egoista può diventare un essere umano. Era partito con l'entusiasmo di chi pensa di intraprendere una grande avventura, e tornò sulla Terra minato sia nel corpo che nello spirito. Soprattutto dopo l'attacco subito da parte dei nativi di uno dei pianeti colonizzati. I Ghiskan, così si facevano chiamare quelle creature simil-rettili, difesero strenuamente il proprio pianeta, fino al quasi totale annientamento. Tomasson rimase schifato dalla crudeltà umana, dalle torture che loro infliggevano con immenso piacere ai Ghiskan prigionieri, dell'assoluta mancanza di pietà alcuna.
Liberi e sguinzagliati come bestie feroci allo sbando, alla ricerca di placare i propri istinti nella maniera più subdola e bassa.
Ma Tomasson non era come loro. Tomasson era un uomo d'onore, di sani principi. Non si fece travolgere da questo schifo, e imparò moltissimo da questa lezione di vita.
Imparò che gli uomini si comportano in una precisa maniera quando qualcosa forza il loro equilibrio interiore.
E quindi, cosa aveva turbato l'equilibrio interiore del comandante Vartusan? Perché Joe Tomasson credeva fermamente che le persone, di per sè, fossero se non proprio buone almeno neutre. Cioè che fossero eventi esterni a modellarne il carattere, i modi di fare e quant'altro.
C'era anche da dire che Mikhaila gli stava davvero sui coglioni, ma di brutto. E di solito, per quanto persona nobile e fondamentalmente buona, Tomasson aveva il difetto di disinteressarsi di chi gli stava sui coglioni. Eppure, da circa un'ora a quella parte, non gli riusciva più di farlo col suo capitano. Ex-capitano, si corresse.
Che fosse stato quell'incontro ravvicinato del terzo tipo, quando la Meridianus si era fracassata sulla superficie di Mar Sara e lui si era trovato ingarbugliato fra cinture di sicurezza appiccicose e la faccia, che solo in quel momento gli era parsa vaghissimamente imbarazzata, della Vartusan?
Oddio. Vaghissimamente imbarazzata.
Più che altro gli sembrava che la sua faccia stesse per andare in ebollizione. Era così pericoloso il contatto fisico tra loro due? Cioè, era stato il loro primo contatto fisico in senso stretto del termine. Prima di allora se si erano stretti la mano una o due volte era già un miracolo.
Il suo essere così fredda e distaccata poteva averla portata ad avere paura del contatto fisico altrui? Era la sua aria di superiorità una semplice barriera utile per schermarsi dall'apprensione altrui? Poi, un fulmine a ciel sereno colpì Tomasson.
Possibile che il suo comandante si comportasse così perché aveva paura di essere commiserata?
Commiserata? Mikhaila Vartusan, l'Arpia dello Spazio? Chi poteva avere il fegato di commiserarla?
E in realtà l'idea reggeva, visto come aveva reagito nel momento in cui lui aveva citato la Magellano e l'immane disastro che aveva involontariamente provocato quel giorno di ormai sette anni prima.
Tomasson aveva saputo cos'era successo a grandi linee e non si era mai addentrato nello specifico nei fatti. E in quel preciso istante, con le caviglie affondate nella fanghiglia viola di Mar Sara e un capo d'imputazione per tradimento e disordini e sa il cazzo cosa che gli pendeva sulla testa, l'unica cosa a cui riusciva a pensare era quella. A ciò che davvero era successo su Lagushas e sul come un asso del pilotaggio come Mikhaila Vartusan era riuscita a combinare un casino di tali proporzioni.
Tentennò parecchio prima di riaprire l'interfono chiedendo a Mikhaila se poteva parlarle.
Mikhaila strabuzzò gli occhi ascoltando la voce incerta e tremante di Tomasson che le chiedeva di poter parlare. Non seppe con esattezza cosa provò in quel momento. Forse un senso di potere, forse un senso di strana pietà nei suoi confronti, forse rabbia, forse l'insieme di tutte queste cose. Mikhaila si sentiva tesa tra le innumerevoli sfaccettature di se stessa: non sapeva con precisione assoluta quale di queste parti si sarebbe manifestata, in quel momento.
Perciò rimase senza parole.
Tomasson, che attendeva già il berciare irritato del suo ex-comandante, restò interdetto di fronte al suo silenzio. Cosa stava accadendo?
Nella sua testa si figurò una statua di pietra raffigurante Mikhaila Vartusan che, una spada laser in pugno, menava fendenti sbudellando chiunque avesse la sfortuna di capitarle sotto tiro. E all'altezza della guancia sinistra si formò una piccola crepa.
"Comandante, posso parlarle?" ribadì più insicuro che mai. Non sapeva bene perché stava facendo tutto questo, in realtà. Era solo spinto da una strana, stranissima, quasi aliena curiosità di avere ben chiaro lo schianto della Magellano e il ruolo della Vartusan in tutto quello che era successo.
"Cosa vuoi, Tomasson?" La sua voce era di un tono più basso, leggermente roco. Joe deglutì, sentendosi quantomai a disagio.
"Ecco... io..." Era completamente a corto di parole, preso da uno strano imbarazzo che non riusciva ad abbandonarlo. Come mai per tutto il resto era così sicuro, deciso e diretto nei confronti del suo ormai ex-comandante e ora invece non riusciva ad emettere suono?
Aveva paura che le sue parole l'avrebbero ferita?
Forse. Ma Mikhaila era Mikhaila, cazzo. L'Arpia dello Spazio a buon nome e a titolo garantito al limone. Era sicuro che con la sua scorza da rettile mancato avrebbe sopportato qualsiasi colpo di qualsiasi portata. Certo, avrebbe avuto un qualche cedimento, come poco prima, ma niente che non poteva esser superato.
Ma, proprio mentre Joe era riuscito a prendere coraggio, qualcosa interruppe il flusso dei suoi pensieri.
Il rombo di un'immane esplosione avvenuta a pochi chilometri da lì riecheggiò nell'atmosfera densa e umida di Mar Sara, costringendo tutti quanti ad abbassarsi al suolo.
Era la Meridianus che dava il suo roboante addio alla realtà materiale sminuzzandosi in miriadi e miriadi e miriadi di pezzi, il più piccolo dei quali poteva tranquillamente provocare seri danni fisici ad eventuali persone che si fossero trovate sulla sua traiettoria.
Sebbene fossero ormai parecchio distanti equipaggio e passeggeri della fu nave turistica subirono gli effetti della deflagrazione e alcuni furono anche sbalzati a terra, per fortuna senza nessunissimo danno a parte una culata e un po' di mal di testa.
Joe, che si era meccanicamente tuffato per evitare un frammento di lamiera che stava per decapitarlo, era lì solo fisicamente. Sebbene non fosse riuscito a spiaccicare mezza parola era comunque curioso, curioso, curioso. Curioso in maniera quasi patologica, si disse con ironia. E dire che non era mai stato così.
"Comandante" tentennò ancora, approfittando del fatto che la comunicazione non era mai stata interrotta "volevo chiederle come è potuto succedere il disastro della Magellano. E mi scuso sin da ora per la mia insensibilità nel farle rivangare nuovamente, a così poca distanza di tempo dall'ultima volta, quella tragedia. Ma non posso proprio fare a meno di chiedermi come sia stato possibile che un pilota eccellente come lei abbia potuto provocare un simile cataclisma".
Rifiatò. Ce l'aveva fatta.
Mikhaila, da canto suo, fu totalmente e irrimediabilmente presa in contropiede. Cercò di mantenere una parvenza di dignità, anche se Tomasson non la poteva di certo vedere in faccia, e a sua volta rifiatò per cercare una buona risposta. O le parole migliori per mandarlo a cagare, non era ancora sicura.

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