Susan

di Matt_Stewartson77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** 1.Progetti di Viaggio ***
Capitolo 3: *** 2. Discussioni ***
Capitolo 4: *** 3. Sogni e Incuubi ***
Capitolo 5: *** 4. Allenamenti ***
Capitolo 6: *** 5. Amici ***
Capitolo 7: *** 6. Starlight ***
Capitolo 8: *** 7. Piani spezzati ***
Capitolo 9: *** 8. Tutto ***
Capitolo 10: *** 9. Cambio di programma ***
Capitolo 11: *** 10. Persa ***
Capitolo 12: *** 11. La spiaggia ***
Capitolo 13: *** 12. Fame ***
Capitolo 14: *** 13. Radura ***
Capitolo 15: *** 14. Bill ***
Capitolo 16: *** 15. Perdite ***
Capitolo 17: *** 16. Perso nel Mondo ***
Capitolo 18: *** 17. Steve ***
Capitolo 19: *** 18. Esercito ***
Capitolo 20: *** 19. Passato ***
Capitolo 21: *** 20. Il Capo ***
Capitolo 22: *** 21. Fuga ***
Capitolo 23: *** 22. Piccola Luce ***
Capitolo 24: *** 23. Nuovo Piano ***
Capitolo 25: *** 24. Rivolta ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


Prefazione

      Non avrei mai creduto che una persona così importante per me, un giorno, mi avrebbe tradita in modo così atroce. Così meschino.
      Fin da quando avevo messo piede su questa terra, popolata da miliardi di persone pronte a voltarti le spalle in qualsiasi situazione tu ti trovassi, io mi ero sempre fidata di lei. Lei che mi aveva sempre incoraggiata ad andare avanti e non guardare mai indietro, ma sempre avanti. Che il passato è ormai trascorso insieme ai suoi guai, e che di fronte a me si aprivano sempre nuove possibilità.
       E adesso? Cos’era successo? Cosa la aveva cambiata in questo modo?
       Era terribile guardare la persone che tu ritenevi come una delle più importanti, abbandonare questo mondo. Quel posto mi aveva cambiata sì, ma non a tal punto da dimenticare i momenti in cui ero fragile e innocente e lei, lei, era affianco a me a sorvegliarmi. A dirmi cosa fare. A prendere la strada giusta.
      Lei 

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Capitolo 2
*** 1.Progetti di Viaggio ***


PARTE PRIMA
STARLIGHT

 
 

1
Progetti di viaggio

      Ero soltanto una ragazza giovane e inesperta che non sapeva come fare per farsi accettare dalle persone. Fin da quando ero bambina tutti, tutti, mi trattavano come la figlia di un Re che possedeva l’intero mondo. Mi accarezzavano, ammaliavano. Tutto perché ero la figlia di Richard Dawson.
      Da certi punti di vista poteva essere anche un mondo perfetto. Soldi e popolarità. Ma quello non era il mio mondo. Non mi apparteneva affatto.
      Osservavo fuori dalla finestra della mia camera il sole che sorgeva. Era sempre mia abitudine guardarlo innalzarsi nel cielo, e aprire le finestre per sentire sulla mia pelle la dolce e fresca aria mattutina. Lo trovavo rilassante.
     Ma quel giorno non riuscivo a rilassarmi come faceva sempre quell’aria.
      Oggi era il giorno in cui mio zia Jasmine doveva chiamarmi per assicurarmi un posto sulla sua nave. La Starlight. Non avevo ancora capito perché avesse deciso di chiamarla proprio in quel modo. Non si addiceva affatto ad una nave da recuperi.
      Mi ricordavo ancora il giorno che avevo deciso di partire con lui.
 
      «Rosie lo voglio fare!» avevo urlato alla mia badante. Lei più che una badante, per me era come una seconda mamma. Lei c’era sempre quando ne avevo bisogno, non si tirava mai indietro. Era forte e determinata in ogni cosa che faceva «Ma è pericoloso Susy!» mi aveva risposto lei «Hai appena compiuto 20’anni! Sei ancora troppo piccola!» fosse stato per lei, io sarei rimasta segregata nella mia camera pur di rimanere al sicuro. Ma io dovevo partire per fare quel viaggio.
      Me lo sentivo.
      «Rosie ha ragione Tesoro» si intromise mia madre che si era accomodata su una poltrona in pelle bianca nell’enorme salotto «Hai appena finito il College cara. Aspetta ancora un paio di mesi» disse spostandosi una ciocca di capelli biondo lucido dietro l’orecchio. Tutti mi dicevano che avevo preso pari cose dai miei genitori.
      Un esempio?
      Avevo preso i capelli un po’ da entrambi: biondo cenere. Mio padre aveva chioma di nero pece, mamma biondo lucido e il fisico slanciato di mia madre di quando aveva la mia età –non che adesso la avesse persa-, mi dicevano sempre “sei un’esploratrice nata, Susan” se lo dici tu…
      «Ancora un paio di mesi?» ripetei le sue parole irritata «Mamma, non ci vivi tu nella mia situazione!»
      «Quale situazione?» mi chiese incuriosita. Come se non lo sapesse. È da quando sono nata che glielo ripeto!
      «Di andare in giro ed essere riconosciuta come “La figlia del grande Richard Dawson”!» imitai il vocione della gente quando mi vedeva passeggiare per le strade «E questo non ti piace?» chiese quasi offesa Rosie, in piedi di fianco al tavolino posto di fronte al caminetto «No!» risposi ovvia «È da quando ho messo piede in quel college che vi continuo a ripetere di essere scocciata dalla gente che mi apprezza solo per il nome che porto» distolsi lo sguardo da loro, e mi misi a fissare i fiori posti la stessa mattina sul davanzale del caminetto «Io non ce la faccio più! Voglio che le persone mi apprezzino per gli sforzi che, spero, di compiere»
      Un profondo silenzio calò su noi 3. Il salotto era diventato immensamente grande per me in quella situazione.
      «Susy» mia madre si alzò dalla poltrona, e si mise di fianco alla mia Badante «Io e Rosie siamo solo preoccupate per te. Hai appena compiuto i tuoi 20’anni, e vuoi già intraprendere un viaggio in mare che forse durerà mesi e mesi, e noi? Hai pensato a noi Tesoro? Noi che staremo qui ad aspettare il tuo arrivo, senza sapere come stai!»
      «Mamma starò tutto il tempo su una nave! Cosa vuoi che mi succeda?»
      «Starai ugualmente lontano da me e tua madre, Susy!» protestò Rosie.
      Proprio non volevano lasciarmi andare «Mamma» la guardai «Rosie» spostai il mio sguardo su di lei «Non c’è nessun pericolo! Starò tutti i giorni che passerò via di casa, su una nave. Non ci saranno belve pronte a divorarmi! Ci saranno soltanto uomini esperti. Non corro nessun pericolo» cercai di tranquillizzarle –cosa che mi sembrava del tutto impossibile- si scambiarono uno sguardo.
      Era incredibile il loro rapporto!
      Da quando mamma la aveva assunta, si era sempre fidata di lei. Rosie era l’unica della servitù che mamma definiva una sua fidata amica. Se lei diceva una sua opinione, Rosie era pronta ad obbiettare senza scrupoli. Era questo che affascinava mia madre. Lei faceva quello che si sentiva di fare, fregandosene di tutti. Mia madre la apprezzava anche perché voleva soltanto il mio bene. Quando ero piccola, mia madre era sempre occupata con mio padre con impegni che non ho mai capito –e che mai capirò- così mi lasciava sempre nelle mani della fidata Rosie. Di lei si fidava cecamente.
      Mamma si avviò verso di me. La seguii con lo sguardo per tutto il tempo che impiegò ad arrivare da me «Tu sei sicura di volerlo fare?» la sua espressione seria, incuteva quasi paura.
     «Sì»
      Non ci pensai nemmeno un secondo alla mia risposta «Allora noi non possiamo impedirti di intralciare le tue scelte» si intromise Rosie «Ormai sei abbastanza grande da cavartela da sola!» poteva sembrare bruto detto così, ma da Rosie, voleva dimostrare solo puro affetto verso di me.
      «Grazie» era l’unica cosa che mi sembrava giusta da dire.
      Rosie prese il telefono dal tavolino del salotto e me lo porse «Chiama tua zia se vuoi» glielo presi con delicatezza dalle mani «Noi aspettiamo qui» continuò lei.
      Composi il numero, e me lo portai vicino all’orecchio aspettando che rispondesse.
      Il telefono bussò per 4 volte, poi una voce rispose «Pronto?»
      «Zia? Sono Susan» risposi
      «Oh, ciao Susy» sembrava quasi sorpresa a sentirmi «Come stai?»
      «Bene, grazie. Chiamavo per il viaggio zia» gli confessai imbarazzata. Imbarazzata? Che c’era da essere imbarazzata? Mah!
      «Oh sì, certo!» rispose di nuovo con tono sorpreso «Cosa è successo?»
      «Mi hanno dato il consenso!» dissi con un sorriso guardando prima mamma, e poi Rosie «Posso venire!» ripetei estasiata.
      «Perfetto» esaltò lei «Ti chiamerò fra una settimana per farti sapere giorno e ora. Ok?»
       «Si, ok! Certo!» adesso ero io quella che saltava di gioia.
       Mamma e Rosie mi stavano fissando come se io avessi in una mano il loro cuore, e nell’altra un pugnale; pronta a decidere se ucciderle o lasciarle vivere. Che cosa stupida!
      «Allora?» ruppe il silenzio la mia badante per prima «Che ha detto?»
      «Ha detto che mi chiamerà fra una settimana e mi farà sapere» dissi tutto d’un fiato dalla felicità.
      Si vedeva lontano un miglio che Rosie non era affatto felice di quella risposta, probabilmente sperava in qualcosa tipo «No sono troppo piccola per andarci», del tutto prevedibile. Guardammo entrambe mia madre. Entrambe speranzose.
      «Signora Olivia» implorò lei «La prego non la faccia andare!» io spostai lo sguardo da lei, a Rosie. Ero sbalordita! «Rosie!» sbottai irritata. Lei mi fissava come per dire «Beh? Già sapevi la mia opinione!» con ancora una piccola dose di rabbia, dissi rivolgendomi a mia madre «Mamma?» lei che era rimasta in silenzio ad osservarci senza obbiettare mi disse «Se sei sicura di quello che fai, allora va’!» disse senza alcuna espressione sul volto «Ma tieni ben presente nella tua testa, che se mai vorrai tornare indietro, non ce ne sarà alcuna possibilità! Decidi con cura il da farsi in questa settimana Tesoro, perché poi, non si torna indietro!»
      Pronunciate queste parole, si volto, salii le scale e svoltò verso un corri doglio. Forse era puntata ad andare in camera sua.
      «Susy!» Rosie richiamò la mia attenzione. Me ne ero completamente dimenticata presa com’era a pensare come la avesse presa per davvero mia madre «Tu lo sai che per te io ci sarò sempre, in ogni istante! Vero?» era estremamente seria
      «Certo che lo so!» risposi ovvia.
      Fece un sorriso, e si avviò anch’essa via da me. Mentre stava per aprire la porta che conduceva alla cucina, si fermò, e ritornò a guardarmi «Tranquilla!» disse «Tua madre non era arrabbiata, è soltanto addolorata dal fatto che non potrà vederti per qualche mese. Come lo sono io»
      Detto questo, entrò e si chiuse la porta alle sue spalle, lasciandomi da sola.
 
      Ebbene, quella settimana avevo deciso!
      Dovevo fare quel viaggio, lo avrei fatto per dimostrare al mondo intero che io la figlia di Richard Dawson, e sarò apprezzata per i miei sforzi e non per quelli di qualcun altro.
      Mi alzai dal mio dolce letto, e mi vestii. Entrai in bagno a darmi un’occhiata. Mi lavai faccia e denti per svegliarmi meglio. Presi il pettine, e lo passai sui miei capelli: impresa ardua, ma potevo farcela.
      Pronta, scesi per la colazione. Oggi era passata una settimana precisa dal giorno della chiamata. Avevo il cuore che pulsava a mille dall’ansia.
      E se mi avesse detto di no all’ultimo momento? Se mi avrebbe respinta? Il mio sogno si sarebbe rotto come una pesante pietra sbattuta violentemente contro uno specchio che raffigura il mio futuro.
      Scacciai quei pensieri malinconici dalla testa, e uscii dalla mia stanza. Percorrendo il lungo corri doglio vidi passare un maggiordomo «Buongiorno» lo salutai cordialmente «Buongiorno Signorina Dawson» mi salutò lui altrettanto gentilmente, e si rimise sulla sua strada. Forse stava andando nella mia camera per metterla in ordine. Al termine del corri doglio, mi ritrovai nel salotto dove precisamente 7 giorni prima avevo avuto quella discussione con le mie madri. Lo percossi ed entrai nella cucina. Era mia abitudine salutare tutta la servitù, anche se mio nonno Victor non desiderava. Diceva che la servitù era è doveva rimanere una schiera di persone inferiori a noi.
      Quando diceva queste cose mi faceva ribollire il sangue nelle vene! Tutti in famiglia non erano d’accordo con lui, neanche mio padre che era suo figlio, ma visto che era malato non aprivamo mai la discussione in modo di non farlo mai arrabbiare. Entrai in cucina e salutai tutti con entusiasmo «’Giorno gente!» tutti si voltarono a guardarmi, anche se sapevano già che ero io. Soltanto due persone in quella casa salutavano gli “schiavi” (così soprannominati da nonno); io e mia madre. Ma soltanto io li salutavo con assoluta vivacità. Mi avevano confessato un giorno che io ero la luce nell’oscurità – l’oscurità era senza dubbio nonno Victor.
      «Buongiorno Susan!» risposero tutti. Da quando avevo quattordici anni gli avevo ordinato di chiamarmi per nome quando eravamo soli.
      Mi incamminai tra i numerosi tavoli e afferrai una mela addentandola «Come va stamattina George?» lui era il più anziano della servitù. Aveva la bellezza di settantatré anni ed era vispo come un adolescente. Stava con noi da quando ne aveva ventuno. Io per insultarlo lo chiamavo sempre “Il Re della Servitù” «Come al solito Susy» disse e come era nostra abitudine, schiacciammo il cinque con le mani. Sorrisi e mi avvia verso la porta che portava in sala pranzo. La spalancai ed entrai «Buongiorno a tutti!» in quella situazione dovevo contenermi, non ero con i miei amici servili. Mi sedetti al mio posto dove mi aspettava Rosie «’Giorno Bellissima» scherzai. Lei mi guardò sorridendo e disse «’Giorno anche a te Susy!» era la solita negra grassottella messa al fianco delle bambine per fare le badanti. Ma io non la vedevo affatto così. Lei era speciale per me.
      I maggiordomi arrivarono e ci misero la colazione in tavola. Pronuncia un «Grazie» come ogni mattina e, come ogni mattina, mi beccai uno sguardo truce da mio nonno. Non ci feci caso.
      Per tutta la colazione mia madre e Rosie continuavano a fissarmi come se aspettavano che io facessi o dicessi qualcosa. Forse, anzi di sicuro, si ricordavano che oggi era il giorno. Ma io non avevo intenzione di dargliela vinta. Era sciocco, lo so. Ma volevo togliermi questa insignificante soddisfazione.
      Farle stare sulle spine.
      La colazione proseguì come tutte le altre. Mio padre e mio nono che parlavano di qualche ricerca, mia madre e Rosie che discutevano su qualcosa che a me non interessava di certo, ed io che mangiavo in silenzio.
      Certo non potevo negare che l’ansia era al massimo, ma facevo di tutto per contenerla. Poi arrivò la punzecchiata di mamma.
      «Susy, Tesoro, come va’ stamattina?» gli feci un sorriso tipo “Cosa diavolo vuoi insinuare?”
      «Benissimo» risposi convinta.
      «Ansiosa?» il mio sorriso –del tutto finto- si spense del tutto, lasciando spazio ad uno sguardo omicida
      «Affatto! Perché me lo chiedi?» contrattaccai. Sapevo benissimo che lei non voleva prendersi la responsabilità di dirlo a papà.
      Stavolta fu’ lei a guardarmi truce «Nemmeno io» feci un sorriso che voleva dire “ho vinto io! Mi dispiace per te!”
      Rosie assisteva ammutolita allo scambio di sguardi omicidi. Facevamo sempre così quando si trattava di qualcosa che, probabilmente, non avrebbe fatto piacere a papà. Ma gli volevo sempre un casino di bene. In fondo, era la mia mamma.
      Terminata la mia colazione, mi alzai e mi avviai in camera mia, ma non prima di aver salutato tutti. Passai dalla cucina come mia abitudine, e salii le scale, fino a raggiungere la mia dimora.
      Le mia giornata tipo era: svegliarsi, fare colazione, restare in camera mia fino a pranzo, pranzare, rompere le scatole a chi incontravo, cenare, e coricarmi.
      Non era un granché, ma era la mia giornata.
      Arrivato il pomeriggio, era arrivato il momento di infastidire qualcuno, e quel giorno, avevo preso di mira proprio mia madre.
      Ero stesa sul divano del salotto a fissare il caminetto scoppiettante. Tra me e lui ci divideva un semplice tavolo da salotto, basso e di vetro, pieno di cristalleria. L’ansia mi stava letteralmente divorando dall’interno. Non ce la facevo più. Picchiettavo nervosamente sulla spalliera del divano convinta che potesse accelerale il tempo.
      Cosa del tutto inutile.
      «Potresti smetterla?» chiese infastidita mia madre, intenta a leggere un libro seduta sulla poltrona di fianco alla mia.
      «Mi rilassa» risposi schietta.
      «Beh…a me disturba invece!» mi lanciò uno sguardo da scocciata.
      Smisi di muovere il dito sulla pelle bianca. Appena smisi, mi guardai intorno, in cerca di qualche altro mezzo per passare il tempo. Prima che potessi trovarne uno, mia madre mi sviò dalle mie intenzioni «Non pensarci nemmeno!»
      «Suggeriscimi qualcosa da fare allora!» le stuzzicai i nervi come era mia abitudine. Mi lanciò uno sguardo assassino come quello di stamattina a colazione, facendomi sentire…realizzata.
      «Vediamo…» ci pensò su’ «Potresti andartene nella tua camera no?»
      Ecco il colpo di risposta.
      «Nah! ... non saprei cosa fare lì»
      «Invece qui, puoi dare fastidio a me. Vero?» chiese sarcastica.
      «Sei un genio, mamma!» risposi.
      Non riuscivo a restare ferma. Iniziai a ticchettare con il piede, guardandomi nervosamente in giro. Il mio sguardo si posò su mia madre che mi guardava truce «Capito!» dissi alzandomi e girando in tondo per la grande stanza. Nervosismo! L’unica cosa che riuscivo a sentire in quel momento. Erano le 5 passate del pomeriggio, quando aveva intenzione di chiamare zia Jasmine? Camminavo e camminavo per la stanza senza accusare nessuna fatica, non accusavo più niente a meno che non si chiamasse ansia!
      «Susan Dawson!» strillò di colpo mia madre «La vuoi smettere?»
      Terrorizzata dal suo comportamento, mi avvicinai cautamente alla poltrona di fronte alla sua –in modo che ci fosse un ostacolo tra noi in caso avesse voglia di attaccarmi- senza mai staccare gl’occhi da lei. Accomodatami, mormorai uno «Scusami»
      Riprese a leggere il suo libro, e il silenzio calò su di noi. La mia gamba tremava in silenzio, non volevo tormentare la seconda persona presente in questa stanza. Mi accorsi, però, che di tanto in tanto, mi lanciava occhiatine, forse per controllare che non mi venisse un infarto. Mah.
      Di colpo, chiuse il libro da cui di solito era molto presa –il tonfo si sentì per tutto il salotto- Sobbalzai dallo spavento «Tesoro, cos’hai?» mi chiese dolcemente posando il suo amato romanzo sul tavolino di fronte a lei. Mi arresi e la risposi, anche se ero convinta che lei già conoscesse il motivo.
      «Zia Jasmine» dissi piano.
      «Immaginavo» fece un sorrisetto e si alzò, spostandosi di fianco al camino. Restò in silenzio a pensare chissà cosa. Anche io, con lei, fissavo lo scoppiettio della legna che bruciava al caldissimo calore del fuoco.
      «Sai» disse di punto in bianco senza distogliere lo sguardo dal camino «All’inizio volevo impedirti di compiere questo viaggio, anche se non è ancora certo che tu lo faccia» rassicurante eh? «Ma poi mi sono detta “Ehi! ... è una Dawson!”» mi guardò con un sorriso timido stampato sul volto.
      Cosa?
      «Mamma, non capisco cosa vuoi dire» gli confessai confusa.
      «Tesoro» si sedette sul tavolino in modo da fissarmi per bene in volto «Sai quanti giorni ho passato senza tuo padre accanto a me? Senza sapere come stava?» cercai di rispondergli, ma mi anticipò continuando il suo discorso.
      «Ormai ho perso il conto!» disse con un sorriso che stava a dimostrare tutt’altro che felicità «Mamma io…» cercai nuovamente di interromperla, ma mi bloccò di nuovo «Shhh…» mi mise due dita sulle labbra per impedirmi di parlare.
      «Poi... Sei arrivata tu!» mi guardò sfoggiando un sorriso a trentadue denti che sprizzava felicità da tutti i pori «Non puoi immaginare quanto ero contenta di averti messa a mondo! Ogni giorno io e Rosie passavamo ore e ore soltanto a guardarti dormire o giocare» si fece scappare una risata «Tutti eravamo felici di averti con noi. Tuo padre, per tutto il tempo che passava a casa ti teneva sempre con lui, anche mentre lavorava. Ti guardavo cullare tra le braccia di Rosie e, contemporaneamente pensavo a Richard che viaggiava, lontano chissà quanti chilometri da me. Allora mi promisi che avrei fatto tutto quello che potevo per impedire che tu un giorno scappassi da me!» la guardavo stranita. Mi fece cenno di non interromperla «Ma più crescevi, più assomigliavi sempre di più a tuo padre. Pian piano abbandonai il mio scopo, non potevo impedirtelo. Poi sei arrivata una settimana fa a darmi la notizia della tua possibile partenza» distolse lo sguardo da me «Sentivo tutto il mondo crollarmi addosso. Ma non potevo impedirti di affrontare il tuo destino. Avevo sempre immaginato una figlia studiosa, bellissima e piena di energia» mi posò la mano sul volto, e lascio scendere una calda lacrima sulla guancia «E ogni giorno ringrazio iddio per avermela data!»
      «Mamma» dissi mentre la stringevo forte con un abbraccio «Ti voglio bene» gli dissi ancora incollata a lei «Anche io Tesoro» mi rispose.
      Dimenticai in quel momento la gente, zia, il viaggio, tutto. C’eravamo solo io e mia madre. La persona più importante della mia vita, e nonché la più speciale. Non riuscivo ad immaginare un mondo senza mia madre, Rosie e mio padre. Preferivo la morte a quello.
      Come se il mondo avesse ascoltato i miei pensieri, il telefono di casa squillò.
      Io e mia madre sciogliemmo l’abbraccia per guardarci a vicenda, e poi spostare la nostra attenzione sulla cornetta.
      Ring! Ring! Ring!
      «Cosa stai aspettando?» mi chiese incredula mamma «Vai a rispondere» esclamò
 Mi alzai a mi avvicinai al telefono, posto su un tavolino di fianco alla porta di entrata. Posai la mano sulla cornetta. Ironicamente mi venne da pensare Cosa aspetti? Alza la cornetta, Mondialcasa ti aspetta!
      Scema!
      La alzai, e la portai vicino all’orecchio «Casa Dawson»
      «Susan? Ciao» rispose una voce femminile.
      «Ciao zia Jas!» la salutai entusiasta, ma con voce tremante per l’ansia.
      «Tutto bene?»
      «Più o meno» risposi sincera.
      Sentii un risolino «Ti chiamavo per il viaggio» mi voltai verso mia madre, che mi fissava attendendo qualche mia reazione. Gli feci capire che era zia Jasmine mi aveva chiamato per la Starlight.
      «Cosa è successo?» chiesi curiosa.
      «Niente di grave tranquilla» fece una pausa «noi partiamo fra due mesi…» perché aveva smesso di parlare? Non potevo andarci?
      «Fatti trovare al porto di Liverpool, alle quattro del mattino! Non mancare!»
      Non sapevo descrivere la mia felicità! Saltellai sul posto. Chi avrebbe vista in quel momento avrebbe pensato che assomigliavo ad una bambina di cinque anni, a cui era stato appena regalato un pony! Mamma vedendomi esultare, capì tutto quanto e si avvicinò a me con un sorriso a trentadue denti.
      «Susan? Ci sei?» mi richiamò mia zia vedendo che non rispondevo.
      «Sì, sì sono qui zia» dissi alla cornetta.
      «Tre Giugno!» confermò la data a voce alta. Forse aveva capita che stavo esultando e aveva paura che non riuscissi a sentirla «Non mancare!» mi ripeté.
      «Tranquilla zia. Tre Giugno. Alle Quattro del mattina. Porto di Cork. Capito!» riassunsi le informazioni in modo da non poterle dimenticare. Ma per essere sicura, feci cenno a mamma di scrivere. Le corse in una stanza e tornò con carta e penna. Si sedette sul divano e scrisse le informazioni.
      «Adesso vado Susy» disse Jasmine a telefono «Ci vediamo il giorno della partenza»
      «Ciao zia! Grazie mille!» ero così felice che il mio piano, un passo alla volta, stava prendendo forma, e io lo guardavo crescere, e crescevo insieme a lui.
      Riattaccai il telefono e corsi da mamma «C’è l’ho fatta mamma! C’è l’ho fatta!» esultai per poi abbracciarla.
      «Sono felice per te tesoro» disse mentre ancora mi stringeva. Sciolsi l’abbraccio e presi il foglietto che aveva scritto poco prima lei «Dove vai adesso?» disse mia madre, mentre mi seguiva con lo sguardo.
      «Ah dirlo a Rosie!» risposi estasiata «e a posare questo!» alzai il foglietto che avevo tra le mani mentre salivo le scale. Correvo per il corri doglio che portava nella mia stanza. Non smettevo di sorridere, non riuscivo a smettere. Ero troppo contenta. Spalancai la porta e mi avvicinai al letto posto al centro della stanza. Aprii il cassetto del comodino posto alla sua sinistra, e gli riposi al suo interno il tento prezioso –almeno per me- foglio. Chiusi il comodino e uscii fuori dalla stanza. Iniziai di nuovo a correre, stavolta puntata verso la cucina. Forse avrei trovato lì Rosie, intenta a preparare la cena.
      Spalancai la porta, e in cucina c’era solo Gorge che pelava le patate. Sobbalzò dallo spavento «Signorina Dawson!» mi richiamò «Se continua così, non vivrò per molto tempo ancora» disse poi sarcastico.
      «Scusa George! Sai dov’è Rosie?»
      «Dovrebbe essere nel giardino di fronte casa» disse con aria pensante.
      «Perfetto! Grazie» urlai mentre già era scappata verso la porta principale. La spalancai ritrovandomi nel giardino principale. In fondo, si innalzava il grande cancello. Il percorso che collegava esso alla porta ero largo e lungo, con del sterrato. Ai fianchi, crescevano dei cespugli di forma quadrata –la avevo scelta io quella forma-, ed oltre di loro, due grandi giardini di forma ovale con al loro centro una fontana di uguale forma. Rosie era impegnata a sistemare delle rose cresciute sui fianchi del cancello.
      «Rosie!» urlai mentre correvo verso di lei. La mia badante, accorgendosi di me, smise di sistemare i fiori e mi rispose a sua volta urlando.
      «Cosa succede Susy?»
      «Zia… zia Jasmine ha…» ansimai. Mi piegai sulle ginocchia per riprendere fiato dopo la corsa veloce di poco fa «Zia Jasmine… ha chiamato poco fa» disse dopo aver ripreso quel poco di fiato che mi serviva per parlare.
      «E?» chiese sbarrando gl’occhi dalla sorpresa. Forse non se lo aspettava.
      «Partiamo il tre Giugno¸ alle quattro del mattino, al porto di Cork» mi ricordavo ancora tutto perfettamente, come se lo avessi scritto sulla mano. Non volevo dimenticarlo, anche se lo avevo scritto.
      «Davvero?» chiese con un misto tra la sorpresa e la delusione. Probabilmente sperava che ci fosse una possibilità che io non partissi. Quella possibilità che speravo fosse del tutto remota.
      «Sì» dissi gettandomi su di lei e abbracciandola. Ora mi ero ripresa del tutto. Però, notai che quell’abbraccio era, in un certo senso, forzato. Mi scansai e la guardai «Rosie? Va tutto bene?»
      «Ma certo! È solo…» non concluse la frase.
      «Cosa?» chiesi, anche se credevo di conoscere bene la risposa.
      Distolse lo sguardo «Per quanto starai via?» chiese… imbarazzata.
      «Non so, qualche mese forse. Perché?»
      Ritornò a guardarmi posando una sua mano sulla mia guancia «Ci mancherai qui» disse piano.
      «Anche voi a me» e mi gettai di nuovo su di lei ad abbracciarla. Mi sarebbe mancata un casino. La mia dolce badante. Lei che era pronta a proteggermi da tutto e da tutti. Lei che quando ero piccola mi proteggeva dagli insulti e cose del genere dagl’altri bambini, lei che si prendeva la colpa al posto mio, lei che mi accudiva come una mamma quando la vera non c’era. La strinsi forte, come se qualcosa ci avrebbe diviso. Avevo ancora molto tempo prima di partire, ed in quel lasso di tempo avevo intenzione di stare con le persone più importanti in quella casa. Non sapevo per quanto tempo sarei stata via, e la cosa mi spaventava non poco. Spinsi una lacrima a tornare indietro.
      «Tesoro?» anche mamma era venuta lì. Io e Rosie sciogliemmo l’abbraccio.
      «Sì, mamma?»
      «Adesso che tutto questo è sicuro…» stava guardando la donna di fianco a me. Mamma gli fece un cenno con la testa e lei subito capì e si fece scappare un risolino.
      «Cosa?» non capivo cosa c’era di divertente. Adesso anche mamma cercava di trattenere una risata «Cosa?» chiesi ancora più frustrata.
      Rosie si riprese e disse a mia madre «Su’, diglielo»
      «Ok!» disse lei. Si riprese e mi guardò, cercando di assumere uno sguardo serio «Adesso però, devi dirlo tu, a tuo padre» e scoppiò in un’altra risata insieme a Rosie.
      Pensai alle sue parole, e mi unii a loro.

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Capitolo 3
*** 2. Discussioni ***


2
Discussioni

      Noi tre decidemmo che era meglio se la sera stessa ne avessimo parlato a papà. Sarebbe stato più prudente. Forse.
      La sera era sempre più calmo del giorno. Durante la giornata era molto impegnato col nonno e gli affari di famiglia, non si poteva parlare con lui in quelle circostanze, sarebbe stato irascibile. Dopo avere deciso accuratamente la situazione migliore con mamma e Rosie –cena con il suo piatto preferito, bistecca al sangue, bah- salii in camera e mi gettai sulla sedia di fronte al computer. Navigai su internet senza interesse. Non avevo niente di interessante da fare, o non ne avevo proprio voglia. Chiusi la pagina di ricerca, e misi qualche canzone, così, per rilassarmi.
      Mi gettai sul divano ad ascoltare le note di una cantante che non ricordavo il nome, che mi aveva suggerito mio cugino. Il ritmo era un misto tra il pop e rap.
      They can say whatever
      Imma do whatever
      No pain is forever
      Yes, you know this
      Era piacevole da ascoltare. Era… tosta. Senza volerlo, iniziai a muovere la gamba a ritmo di musica.
      That I, I, I
      I am so Hard (so Hard)
      Yeah, yeah, yeah. I am so Hard
      Anche il testo mi piaceva. Aveva un significato forte. Ti sospingeva a fare quello che non ti azzarderesti a fare. Ti sospinge. Alzai il volume della musica, e inizia a ballare per la stanza, cantando i testi della canzone.
      «That I, I, I. I’m so Hard!» ballavo e urlavo quelle parole, come se mi sospingessero, come avevo pensato prima, a fare qualcosa. Quella cosa! La porta si aprì di colpo. Mi fermai all’istante e vidi chi era.
      «Vuoi abbassare quell’arnese, nipote cara?» mi nonno era entrato, un po’ irritato dal volume della mia musica. Gesticolava con le mani verso il computer che emetteva la canzone. Immediatamente corsi alla scrivania e spensi le casse.
      Mi voltai verso mio nono che stava ancora fissando il monitor del computer e dissi imbarazzata «Scusa!».
      Lui, appena sentì la mia voce, spostò lo sguardo su di me «Stai attenta Nipotina!» disse con sguardo contrariato «Questi così…» indicò di nuovo il monitor, ancora acceso «ti mangiano il cervello!» disse con tono catastrofico.
      Soffocai una risata «Certo, nonno. Starò attenta» aspettai che uscisse. Appena chiuse la porta, riaccesi le casse, ma a volume più basso. Mi avvicinai alla grande finestra a guardare fuori, sul retro di casa. Vidi i domestici pulire la piscina ovale. La stavano preparando per l’estate imminente. Io non ci sarei stata. Altri invece stavano tagliando l’erba del prato. Altri ancora stavano sistemando i cespugli, in modo che crescessero con la forma desiderata. Li osservavo malinconica.
      Che stupida! Provavo tristezza anche soltanto nel guardare il mio giardino? Ma la cosa che più mi chiedevo, se ero triste nel pensare di andarmene, perché ero così convinta e… obbligata da me stessa a farlo?
      Fantastico! Pensai Adesso non sono nemmeno sicura di me stessa? Fantastico, davvero!
      La canzone continuava a riempire la stanza con il suo ritmo che tanto mi piaceva. Tornai a sedermi sul divano, e afferrai un giornale posto sul comodino di fianco a me, e iniziai a sfogliarlo.
      Lessi un articolo che si occupava di politica senza interesse dovevo trovare il modo per passare il tempo. Mi guardai in giro, in cerca di qualcosa da fare. Sbuffai nervosa. Il tempo sembrava non passasse mai. Guardai l’orologio. Erano le 6 di pomeriggio. La cena era alle 8. Girai per la stanza. La musica che andava ancora. Osservai di nuovo fuori. Sbuffai ancora. Spensi il computer e uscii dalla mia stanza. Percorsi il corri doglio, arrivai in salotto, ed entrai nella parte della casa che, forse, visitavo più di tutte. La cucina.
      «Buon pomeriggio» salutai tutti. Mi risposero con un saluto garbato. Anche se ormai io li consideravo amici, doveva avere sempre… rispetto verso di me. Che cosa stupida, pensare che le persone possono essere al di sotto delle altre.
      Notai una testa familiare in lontananza, mi incamminai verso di lei e mi sedetti sul tavolo dove stava lavorando «Ciao Gorge!» lo salutai vivacemente.
      «Salve Susan. Come sta?»
      «Me la cavo!» risposi guardando il via vai di gente per la cucina. Gorge stava pelando delle patate «Ti aiuto?» chiesi scendendo dal tavolo.
      Lui mi guardò stizzito «Non so’ se posso permettere…»
      Non lo feci finire di parlare, che avevo preso un pela-patate, e iniziato a sbucciarne una «Ma smettila!» li rimproverai. Lui mi osservò per qualche secondo. Gli feci un sorriso, sorrise anche lui, e si unì a me. Mi chiesi se sapesse già di stasera «Sai già cosa fare per stasera?»
      «Rosie è venuta poco fa ad avvertirmi che per il Signor Dawson una bistecca al sangue» arricciai il naso alla parola sangue. Mi aveva sempre dato fastidio, anche solo lo sguardo «Perché?» chiese Gorge di colpo senza distogliere lo sguardo da quello che stava facendo.
      «Perché cosa?»
      «Perché un piatto a parte per il Signor Dawson? Se posso»
      «Oh!» ero convinta che lui lo sapesse già, ma mi sbagliavo «Beh vedi, io tra qualche settimana parto…»
      «Parte?!» mi interruppe «E dove va?»
      «Parto con la nave di zia Jasmine. Te lo ricordi?» acconsentì con il capo «Alla ricerca di un manufatto perso nel Oceano Atlantico con la sua nave, la Starlight» fini di sbucciare una patata, e ne presi un’altra.
      «Come mai questa decisione? Sempre se posso»
      Feci un sorriso per la sua timidezza «Non lo so’ nemmeno io» confessai. Era la stessa domanda che, io stessa, mi ero posta poco prima.
      «Quanto tempo starete via?»
      «Non so’ nemmeno questo» dissi triste «Forse qualche mese»
      George restò in silenzio. Sbucciava più velocemente di me, forse l’esperienza. Sì, doveva essere per forza così. Vedevo le sue mani rugose, muoversi senza difficoltà con quell’arnese in mano. Da quanto tempo, precisamente, era nella nostra famiglia, non lo sapevo. Sapevo soltanto che era tanta tempo.
      «Ci mancherete qui» sussurrò. Scattai quando sentii quelle parole, ero così presa dal movimento delle sue mani, che mi ero dimenticata che stavamo parlando della mia partenza.
      «Anche voi mi mancherete» risposi malinconica «Tutti»
      Ma perché ogni volta che parlavamo del mio… viaggio, dovevamo andare a finire su argomenti tristi?
      Restai a parlare, mentre sbucciavo ancora le patate, - ma quando finiscono? – con Clark Forester. Il più giovane della servitù. Avevo deciso di ammetterlo io anche se non ci serviva. Portava i capelli sempre spettinati – motivo per cui lo insultavo “capelli alla Edward Cullen” – castano chiaro, quasi cioccolato, come i suoi occhi. Faceva palestra quindi aveva un fisico ben formato. Aveva compiuto da poco ventidue anni, in famiglia era ben accetto. Se chiedevi, lui rispondeva, se non chiedevi, lui restava al suo posto. Facevo tutti i lavori che gli chiedevano di fare senza mai obbiettare o sbuffare. Aiutava dappertutto. Avevo un legame con lui, stretto quasi quanto quello che avevo con Rosie. Mi piaceva parlare con lui, la pensavamo allo stesso modo, ed era simpatico. Molto.
      «Meglio se vai a prepararti» disse mentre stavamo parlando di una pubblicità appena trasmessa in TV.
      «Perché?»
      «Sono quasi le otto. Non vorrà mica fare tardi, e far arrabbiare suo padre? Specialmente sta sera poi?»
      «Giusto» dissi triste «Va bene. Io vado. Ciao Clark, ciao George» li salutai
      «Arrivederci Susan» rispose George con voce roca «Ciao Susan» mi salutò Clark.
      Clark era l’unica persona che aveva imparato a dirmi ciao. Gl’altri, erano arrivati solo al nome, non riuscivano a fare di più. Ovviamente, lui lo faceva quado eravamo soli, senza la presenza dei miei, e soprattutto di nonno.
      Salii in camera, e sfrecciai dritta verso il bagno. Bagno o doccia? Mi chiesi sulla soglia della porta. Optai per il bagno. Misi a riempire la vasca, e nel frattempo, andai a preparare gli abiti per sta sera. Presi un vestito lungo fino alle ginocchia, verde –il mio colore preferito- e lo appesi all’attacca panni in bagno. Quando la vasca fu riempita, mi ci immersi. L’acqua calda era una vera goduria. Poggiai la testa su un lato della vasca, e lasciai liberi i miei pensieri.
      Il primo fu quello di come dire a papà del mio viaggio stasera. Prima lo avrei ammaliato un po’ con la carne, poi glielo dirò. O forse era meglio dirglielo cautamente? Sì, forse sarebbe stata la cosa migliore. Comunque, non potevo farmi nessun pensiero sulla sua reazione. Era un libro chiuso per chiunque. Non aveva nemmeno il titolo. Aveva imparato a non tradire emozioni con nessuno, mamma diceva che ci aveva messo un po’ per capire se lui l’amasse per davvero, diceva che lo faceva per non sembrare debole. Lo trovavo stupido, essere neutri anche con la propria famiglia. Forse avrebbe detto “tu non andrai a quel viaggio né ora né mai!” sarebbe stato ovvio. Considerando invece il suo amore per il suo lavoro, poteva dire “finalmente! Non vedevo l’ora che ti decidessi!”. Poi corrugai la fronte quando un pensiero involontario mi passò per la testa.
      Come faceva Clark a sapere del mio viaggio?
      Considerando che nessuno lo sapeva, e lo avevo costatato poco fa, perché lui già ne era al corrente? Che mamma glielo avesse detto? Era impossibile per due motivi.
Uno. Non gli andava a genio il mio rapporto con lui, e quindi non gli andava a genio lui.
      Due. Lo avevo saputo il pomeriggio stesso, e quindi, a meno che non avesse fatto la corsa dopo che io fossi salita in camera, non poteva averlo sentito da nessuno. E, se conosce bene Rosie –e la conosco da una vita- mi avrebbe chiesto di poterlo dire.
      Parli del diavolo…
      «Susan!» Rosie era entrata in bagno di corsa.
      «Che c’è?»
      «Sono le otto!» indicò l’orologio appeso alla parete «Devi prepararti adesso! Su’, esci di lì e asciugati!» ordinò uscendo dal bagno «Io ti aspetto qui» e chiuse la porta. Uscii dalla vasca malinconica, e mi asciugai. Mi ritornò alla mente Clark. Guardai la porta che Rosie aveva appena chiuso.
      «Rosie?»
      «Che c’è?» urlò per farsi sentire. Gettai l’asciugamano nella biancheria sporca, e mi vestii.
      «Hai detto tu a Clark del mio viaggio?» dissi aprendo la porta e uscendo.
      Lei mi guardò incuriosita «Clark? No. Io non gli ho detto niente»
      «Davvero?»
      «Certo! Voi non mi avete chiesto di dirglielo, e io non gli ho detto niente» come pensavo. Me lo avrebbe chiesto «Perché?»
      «Lo sapeva»
      «E chi glielo avrebbe potuto dire?»  Corrugò la fronte.
      «Ne parliamo dopo Rosie» la interruppi guardando l’orologio «Adesso è tardi! Dobbiamo andare»
      «Certo» disse lei, e mi aprì la porta. Uscimmo di corsa, e percorremmo altrettanto in fretta il corri doglio. Se avessi fatto tardi mio nonno mi avrebbe ucciso. Non avevamo il tempo per passare dalla cucina, così passammo dalla porta principale. Quando aprimmo la porta, mio nonno disse «Ben arrivata» e uno sguardo torvo da parte di mia madre. Mio padre non se ne curò.
      Mi sedetti al mio posto, e iniziai a mangiare il piatto che già era in tavola. Notai che mio padre stava già gustando il suo piatto preferito, forse era per quello che non si era curato del mio ritardo.
      La cena proseguì tranquilla. Mio nonno attaccò un discorso con mamma e Rosie. Non voleva ammettere che quando ci parlava era simpatica, ma lo si vedeva lontano un miglio. Mio padre era di buon umore Menomale pensai. Finito di cenare, ci spostammo in salotto per il dessert. Per tutto il tempo osservai ogni minimo movimento di mio padre. Poteva essere di grande aiuto. Infatti capii che era la serata giusta per parlargli delle mie intenzioni. Presi un cannolo dal vassoio che aveva portato Clark. Lui mi fece un occhiolino per rassicurarmi, ricambiai con un sorriso.
      Mamma lanciò uno sguardo indescrivibile a Clark «Signorino Forester, può andare. Grazie»
      «Certo Signora Dawson» rispose, e se ne andò. Soffocai una risata.
      Mia madre disse qualcosa al nonno per farlo andare via insieme a lei. Prima che scomparisse in una delle porte mi fece cenno che era il momento per dirglielo.
      Appena scomparve, spostai il mio sguardo immediatamente su papà che stava leggendo una rivista. Non riuscivo a far smettere le mie gambe di tremare. Ansia. Quello che provavo, di nuovo, in quel momento. Inizia a pensare che forse era quel salotto che mi faceva quell’effetto.
      Lui non distoglieva lo sguardo dal giornale, e io non lo staccavo da lui.
      Chissà se ha capito che lo sto guardando?
      Vidi ancora i dolci e liquori poggiati sul tavolo. Più tardi sarebbe passato qualcuno a prenderli. Papà non aveva toccato nemmeno una goccia di liquore. Altro segno che era di buon umore.
      Io no!
      Presi un bicchiere di grappa, e lo buttai giù con un solo sorso. Feci un respiro profondo, e contorsi le labbra dal sapore. Cavolo se era forte! Posai il bicchiere sul tavolo promettendomi che non lo avrei mai più bevuto in vita mia.
      Quando alzai lo sguardo, mio padre mi stava fissando sbalordito «Credevo volessi diventare astemia» mi confessò.
      Abbassai lo sguardo, arrossendo «Non stasera» dissi sottovoce «Sono abbastanza nervosa»
      «Nervosa?» ripeté il mio stato d’animo «Per cosa?»
      Che fare? Cambiare discorso in modo da rimandare? No! Dovevo fare come un cerotto. Un colpo secco. Ma la tentazione di rimandare era forte, e come se lo era! Ma se lo facevo stasera, lo avrei fatto nelle prossime ancora e ancora.
      No! O stasera o mai!
      «Papà» dissi in un sussurro.
      «Sì, Tesoro»
      «Devo dirti una cosa» era inutile, la mia voce non riusciva ad essere più alta di un sussurro.
      «Tutto quello che vuoi»
      Mi strappai il cerotto «Tra circa un mese parto con la nave di zia Jasmine. Durerà qualche mese forse, non lo so di sicuro. Siamo diretti all’Oceano Atlantico. È già tutto apposto»
      Finalmente staccò lo sguardo da quella maledetta rivista, per fissare me. Aveva uno sguardo misto tra la sorpresa e qualcosa che non riuscivo a capire se era felice o arrabbiato. Posò la rivista sul tavolino e si alzò. Si mise di fianco al camino. Picchiettava nervosamente il piede sul pavimento. Iniziavo a credere che quella cosa che non riuscivo a capire, era qualcosa di negativo.
      Mi fissò «Andiamo nel mio studio Susan!» e si avviò.
      Merda!
      Quando mio padre ti chiedeva di raggiungerlo nel suo studio, la cosa era molto seria.
      Ci portava soltanto i soci d’affari e roba simile, e quando ci entrava, era meglio non sbirciare. Lui lo riteneva quasi un luogo sacro. Ci teneva tutta, ma proprio tutta la sua roba, e non permetteva a nessuno di entrarci se non con il suo permesso. Una volta entrati lì era impossibile prevedere quello che ti succederà. Se positivo o negativo. Quando entrava lì con della gente, dicevo sempre Adesso entrano nell’oblio!
      Entrammo nella porta al fianco destro del camino. Percorremmo il lungo corri doglio, ed entrammo nel suo studio. Esso aveva due piani ed era molto ampio. In fondo, di fronte alla porta, si trovava una vetrata enorme con davanti a sé la grande scrivania. Al lato destro della stanza, c’era una biblioteca, mentre a quello sinistro, una scala che conduceva al piano soprastante, una stanza con le pareti coperte di libri.
      «Chiudi la porta, Tesoro» non aveva un tono rabbioso, ma neanche entusiasta, era… neutro.
      Mi voltai a girare la porta alle mie spalle. Mi voltai di nuovo verso di lui. Si stava avviando verso la sua sedia. Girò attorno la scrivania, e si sedette.
      «Siediti Susan» disse indicando una delle due sedia in pelle rosse posta di fronte a lui. Io, che ero ancora ferma di fronte alla porta, ubbidii e mi andai a sedere senza dire parola.
      La stanza era completamente silenziosa. Nessuno di noi due aveva detto niente, e di certo non sarei stata io a fare la prima mossa. Continuavo a tenere lo sguardo basso, non avevo il coraggio di guardarlo, stavo torturando le mie mani.
      «Allora» disse di colpo facendo quasi prendere un colpo «Cos’è questa storia del viaggio?»
      No trovai ugualmente il coraggio, e mi limitai a guardare un po’ al di sopra della scrivania «Beh volevo fare un viaggio, la ricerca di una reliquia» dissi quasi sottovoce «E ho pensato che agli inizia era meglio farlo con un esperto così…»
      «Ti ha costretta tua madre» sintetizzò lui, impedendomi di finire la frase.
      «Cosa? No! Lei non c’entra niente. È un idea mia, e soltanto mia» da dove gli era venuto in mente mamma, adesso?
      «Ti ha costretta a prendere la nave di tua zia, vero?»
      «No!» finalmente lo guardai «Ti ho detto che è un’idea mia. Anzi, lei voleva impedirmelo» perché era così testardo? Credeva che non avessi il coraggio di prendere l’idea di un viaggio da sola? Mi credeva così codarda?
      Lui mi fissò per un po’, poi cacciò un’altra deduzione del tutto sbagliata «Allora è stata tua zia!» roteai gl’occhi, scocciata «Sappiamo tutti com’è fissata per la famiglia e il suo lavoro. Non vede l’ora di vederti all’opera»
      «Basta papà!» urlai irritata «È un’idea mia! Chiaro? Mia e basta!» mi alzai, mettendomi dietro la sedia che prima occupavo.
      Sembrava sorpreso dalla mia reazione. Forse era colpito dal fatto che non aveva ragione, o forse dalla mia reazione. Non avevo mai urlato a lui, nemmeno in sua presenza. Mi credeva ancora bambina? Beh, se era così, si sbagliava di grosso. Ormai ero cresciuta, avevo imparato a prendermi le mie responsabilità già da tempo ormai. Me la cavavo da sola dove potevo. Non ero più “la docile e tenera figlia di Richard Dawson” no, ero molto diversa da quella bambina. Rimanevo sua figlia, ma docile e tenera no!
      Era ancora lì, fermo a fissarmi senza dire niente.
      «Perché credi che io non sia capace di prendere decisioni ardue, papà?» chiesi, con tono triste pensando che lui mi credeva ancora la sua piccola Susy.
      Continuava a non dire niente, a guardarmi. Poi cambiò discorso «Perché lo vuoi fare Susan?» era molto serio, e notai che stava cercando in me ogni piccola traccia di ripensamento.
      «Perché lo voglio!»
      «Vuoi cosa? Andare ad ucciderti appena dopo i vent’anni Susy, eh?»
      «Oh, andiamo papà! Uccidermi? Ti ho detto che vado in viaggio su una nave, capito? Una nave!» perché nessuno riusciva a capire che su una stramaledettissima nave non c’era nessun pericolo?
      «Sei ancora piccola Susan!»
      «Piccola? PICCOLA?! Ho vent’anni papà, venti! Ti sembro piccola?» stava cercando ogni piccola scusa per impedirmi di partire, ma io non mollavo, non questa volta. Gliela avevo data sempre vinta, ma adesso no!
       «Appena fatti!» mi corresse.
       «Sette mesi fa!» gli ricordai.
       «Susan, seriamente, perché lo vuoi fare così ardentemente?» corrugò la fronte. Stava cercando di capire le mie intenzioni.
      Decisi di crollare «Perché voglio essere considerata come Susan Dawson, papà. Non come la figlia di Richard Dawson!» dissi in un sussurro.
      «Cosa? Ma che giustificazione è questa?»
      «Una più che coerente papà!» gli risposi «Ti sembra stupido, papà? Voler uscire dall’ombra del proprio padre, per mostrarsi al mondo? È così stupido? A me non sembra» le lacrime iniziavano a pizzicarmi, ma ora più che mai dovevo resistere, non potevo permettermi di piangere, di mostrarmi debole.
      Papà restò senza parole. Era lì immobile sulla sedia, non stava guardando me, ma dritto davanti a sé. Resta a guardarlo, ad aspettare che rispondesse, che trovasse una risposta, che trovasse il coraggio di risponde alla domanda con cui mi tormentavo da anni, e che ormai stavo andando così vicino alla risposta. A smettere di tormentarmi.
      «Tu non ci andrai Susan, basta!» disse solo.
      «Cosa?» ero sbalordita «Perché?»
      «Perché io ho deciso così. Punto»
      «No, niente punto papà! Sono grande, decido io per me»
      «Finché vivrai sotto il mio tetto, comando io» mi guardò torvo.
      Che risposta stupida «Non costringermi ad andarmene, sai che sono capace di farlo» lo provocai «L’ho già fatto una volta, non ho paura di rifarlo» quando avevo 10 anni, ero scappata di casa perché non volevano farmi andare ad una festa. Era una stupida giustificazione, quindi si poteva dire che avevo le carte in regola.
      Non smettevo di guardarlo, volevo vedere ogni sua più piccola reazione, specialmente ora che avevo trovato il coraggio di tenergli testa «Non lo faresti»
      «Vogliamo scommettere?» provavo una sensazione di potere immensa in quel momento, non avrebbe lasciato che me ne andassi di casa.
      «Perché credi che non sia capace di farlo, papà?» il mio tono era quasi supplichevole. Lui distolse lo sguardo, ritornò a guardare davanti a sé, senza avere intenzione di dire una misera parola.
      «Mi credi così debole da non riuscire a restare qualche mese su una nave?» nulla. Sembrava una statua se non fosse per il suo petto che si alzava e abbassava per espirare.
      «Rispondi papà!» urlai.
      Sobbalzò dallo spavento, e riuscii a farmi guardare. Lo fissavo dritta negl’occhi in modo che non potesse sfuggirmi. Lo guardavo speranzosa, volevo che rispondesse. Anche se la risposta sarebbe stata negativa, volevo che me lo avesse detto, che mi avesse fatto capire se credeva in me o meno.
      «Non è questo» disse piano.
      «E allora cos’è?»
      Si alzò piano dalla sedia e si avviò verso le scale che portavano al piano di sopra dello studio «Dove vai adesso?» non rispose. Salì le scale piano e arrivò al balcone che si affacciava sullo studio, mi guardò per qualche secondo, mi fece cenno di salire. Restai ferma dov’ero. Non volevo salire, avevo paura. Lui scomparve nella stanza dietro il balcone. Decisi che era meglio seguirlo, forse voleva farmi vedere qualcosa, mi avvicinai alle scale, e le salii piano senza staccare gl’occhi dalla porta aperta che portava alla stanza di sopra. Percorsi anch’io il balcone ed entrai nella stanza.
      I libri coprivano l’intera stanza con al centro un tavolo. Papà era fermo vicino ad essa, dandomi le spalle «Papà?» non rispose nemmeno questa volta. Mi avvicinai cauta al centro della stanza, fermandomi vicino a lui «Papà?» tentai di richiamarlo posandogli una mano sulla spalla. Non reagì nemmeno stavolta, iniziavo a preoccuparmi.
      «Susan» disse piano «Ti ricordi di nonna Lily?»
      «Certo papà» risposi cauta. Era la moglie di nonno Victor, era –naturalmente- un’esploratrice. La nostra famiglia di esploratori era partita da suo padre, poi lei, poi mio padre ed adesso sarebbe dovuto toccare a me. Era morta quando io avevo all’incirca quattro anni, non l’avevo mai conosciuta davvero, solo nelle foto, ma mi avevano speso parlato di lei. Dicono che io sia bella e divertente quanto lo era lei, pronta a dire battute nei momenti meno opportuni «Ma cosa c’entra nonna, papà?»
      «Tua nonna» si blocco. Parlava come se volesse scoppiare a piangere da un momento all’altro «Tua nonna, aveva fatto talmente tanti di quei viaggi ancora prima che nascessi che ormai non ricordo nemmeno» disse con un sorriso malinconico prendendo una foto di lei sul tavolo «Quando sei nata e aveva scoperto che eri una bambina» fece una risata, altrettanto triste al ricorda «Aveva urlato per tutto l’ospedale “È una femmina! La mia nipotina è una femmina!” era così felice di avere te, quando ti vedeva aveva sempre il sorriso sul volto» mi guardava malinconico. Mi venne un nodo alla gola.
      «Lei ti diceva sempre che eri la sua piccola reliquia, quando era qui non ti mollava un secondo. Arrivati i tuoi tre anni aveva deciso di smettere di intraprendere viaggi, voleva dedicarsi solo alla famiglia, ma dopo circa sei mesi, decise di fare un viaggio su una nave, lo decise tranquillo, nella tua stessa meta»
      Anche lei era partita per l’Oceano Atlantico?
      «Durante il viaggio, però, la nave affondò» gli si spezzò la voce «Non trovarono mai il suo corpo e la nave, nemmeno le coordinate e il posto esatto furono scoperte» posò la cornice sul tavolo, e la voltò verso di lui.
      «Quello fu il suo ultimo viaggio»
      Guardai anch’io la foto, lei che sorrideva, strinta a nonno Victor, i capelli neri come i mei in contrasto con i biondi de nonno, e una lacrima iniziò a scendere. Anche a me mancava, molto. Le lacrime scesero sempre di più, come quando vedevo una sua foto con me da piccola. Avrei tanto voluto conoscerla, saremmo state grandi amiche, questo era certo, avremmo dato entrambi dei grattacapi al nonno e papà.
      Molte ragazze e ragazzi non capiscono a volte i loro nonni, spesso pensano che siano inutili persone vecchie, ma capisci il loro amore per te, e il tuo verso di loro, solo quando non li hai più con te. 
      Io avevo questa crudele opportunità.
      «Adesso hai capito perché non voglio che tu vada lì?» papà mi guardava piangere e osservare nonna Lily, o almeno la foto.
      «Papà è successo molto tempo fa e il mondo è cambiato. Abbiamo navi più attrezzate, più resistenti. È impossibile che succeda la stessa cosa a me» cercai di fargli cambiare idea. Le mie speranze si stavano spegnendo a poco a poco. Non potevo competere con lui riguardo a nonna. Mi asciugai le lacrime in fretta, mi ricordai solo adesso che erano simbolo di debolezza.
      Papà mi osservò mentre le levavo dal mio volto «Ne sei sicura?» disse poggiando una sua mano sulla mia spalla «Sei sicura di volerlo fare?»
      «Certo sì!» era la centesima volta che lo dicevo.
      Gli scappò un sorriso «Sei testarda quanto lei!» capii che si stava riferendo a nonna. Sorrisi anch’io.
      «Va bene» si arrese «Puoi andare a quel viaggio»
      «Davvero?» dissi entusiasta «Posso?»
      «Sì» rispose con un sorriso guardando la mia espressione.
      Gli lancia le braccia al collo e lo abbraccia stretto «Grazie papà! Grazie» dissi tra le sue braccia. Finalmente era tutto apposto per davvero. Era tutto ok. Potevo finalmente partire senza pensieri, tranquilla. Avevo solo uno scopo adesso, soltanto uno: dimostrare quanto valevo!
      «Promettimi che starai attenta» dal tono di voce sembrava che mi stesse supplicando.
      «Certo, papà!» gli promisi sciogliendo l’abbraccio «Andrà tutto bene, tranquillo»
      Ecco un altro attacco di malinconia!
      Ma perché mi doveva succedere? Era da sdolcinate, e io non dovevo esserlo. Non potevo permettermelo. Distolsi lo sguardo per non guardarlo ulteriormente, per non vedere quella sua tristezza negl’occhi che sentivo volevano piangere, ma lui non voleva, oppure non ci riusciva. In tutti questi anni nel suo lavoro era diventato duro come la pietra con i sentimenti, aveva messo in atto quel meccanismo talmente tante volte, che alla fine, era diventato perennemente di pietra. Ma io ero sicura che era il dolce in fondo. Mamma diceva che quando lo ha conosciuto era molto, ma molto dolce con lei –anche adesso- poi con il lavoro si è “indurito” in po’.
      «Io, adesso vado. Ok?» chiesi timidamente. Non ero mai stata molto confidenziale con lui, avevo il solito rapporto “tu i tuoi spazi, e io i miei” ed andava bene così.
      «Certo, ok» rispose anche lui un po’ imbarazzato «Io ho del lavoro da fare. Ci sentiamo dopo, va bene?»
      «Certo» uscii dalla stanza e scesi le scale. Probabilmente non aveva davvero da fare, ma voleva restare un po’ solo con se stesso perché avevamo spolverato il volume “nonna Lily” e io lo capivo. Aprii la porta, e me la chiusi alle spalle. Guardai fuori da una delle vetrate del corri doglio. Era notte fonda, forse erano le dieci, o quasi. Non avevo sonno, ma dormire in quel momento, era come un desiderio.
      Mi sentivo la testa pesante per via della discussione con papà, della felicità per il mio scopo raggiunto, per la malinconia, e ci si era aggiunta anche nonna. Tutto in una sera.
      Anche se non vedevo l’ora di assaggiare il mio morbido letto, camminavo piano senza far nessun rumore, il silenzio regnava intorno a me. E pian piano, arrivai alla porta. La aprii, e rimasi sconcertata.

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Capitolo 4
*** 3. Sogni e Incuubi ***


3
Songi e incubi

      Mamma, Rosie, Clark, George e nonno Victor caddero quasi quando gli levai da sotto le orecchie il legno della porta. Stavano origliando la nostra conversazione? Dalla porta del corri doglio?

      «Cosa state combinando qui fuori?» chiesi sconcertata.

      Tutti si ricomposero all’istante. Mamma e nonno fecero un sospiro di sollievo quando mi videro, forse si erano spaventati che fossi stata papà, allora sarebbero stati guai.
       «Niente» rispose Rosie, cercando di tenere un tono diffidente. Gli lanciai uno sguardo a tipo “A chi vuoi darla a bere?”
       Li guardai uno ad uno, sperando che mi rispondessero, o meglio, che affermarono quello che già avevo capito. George fece finta di aggiustarsi la camicia, mamma guardò altrove, nonno trovò la scusa di doversi sedere perché era anziano, Clark non poté trovare scuse dato che già lo stavo fissando.
      «Clark?» lo chiamai con un sorriso.
      Sbuffò, ma alla fine si arrese «Stavamo cercando di origliare la vostra conversazione» lo disse tutto d’un fiato.
      «Dalla porta del corri doglio?»
      «Non potevamo venire a quella dello studio» si intromise nonno. I capelli biondi della foto, avevano lasciato spazio e quelli grigio lucido che aveva adesso, avvolti in una coda di cavallo «Ci avrebbe scoperti subito»
      «Chi?» mi sporsi per guardarlo.
      «Chi?! Tuo padre! È una lepre!» rispose senza guardarmi. Esagerato!
      Sapevo che era bravo nel suo lavoro, ma non che avesse sviluppato i cinque sensi, a meno che non sia un vampiro o qualcosa del genere.
      «Beh?» mamma mi saltò letteralmente addosso. La guardai sconcertata.
      «Cosa vuoi, mamma?»
      «Tuo padre?» mi chiese «Cosa ti ha detto?»
      Sembrava uno di quegli interrogatori della polizia, dove ti siedono ad un tavolo in una stanza completamente scura con soltanto un lampada puntata a tre centimetri di distanza dal tuo volto. Li avete presenti? Beh era lo stesso in quel momento per me, solo che al posto della lampada, c’era mia madre.
      «Te lo dirà lui» me la scansai di dosso e mi allontanai. La testa mi stava scoppiando.
      Mamma sbuffo e poi mi seguì «Figurati se me ne parla tuo padre!» in effetti era vero. Preferiva non dire niente alla mamma, il perché non lo conoscevo «Dai, dimmelo» si avvicinò di pochi passi a me. La guardai impaurita, pensando che volesse assalirmi di nuovo. Indietreggiai di poco.
      «Te lo scordi!» non avevo nessuna voglia di dirglielo, o almeno non adesso. Non volevo pensare a nient’altro, avevo troppa roba nella testa.
      «Ti prego, Tesoro» sembrava che tra poco si volesse addirittura inginocchiare.
      «Ok» i suoi occhi si illuminarono, come quelli do Rosie e gl’altri «Te lo dico domani» quella luce si spense di colpo. Sentivo che voleva uccidermi se ne avesse avuto la possibilità, e così nonno e Rosie. George aveva negl’occhi una luce di speranza, forse voleva che restassi –come volevano tutti- o forse no, anche se le possibilità che speravano nella mia partenza ero più che remote. L’unica persona che non gli faceva ne caldo e ne freddo, era Clark. Lo apprezzai.
      Alla fine rinunciarono tutti «Va bene, io vado a letto» nonno si alzò dal divano, e se ne andò.
      «Io resto» disse mamma «Aspetto a tuo padre»
      George andò in cucina, seguito a ruota da Rosie, forse dovevano ancora metterla in ordine. Che non avevano fatto perché dovevano origliare. Mah!
      «Io vado a nanna» lanciai uno sbadiglio, per poi avviarmi verso le scale. Le percorsi come avevo fatto con il corri doglio. Pian piano, un passo alla volta.
      Iniziai a contare gli scalini per passare il tempo. Uno. Due. Tre. Anche se mi scocciava andare così piano, avevo voglia di farlo.
      «Potresti andare più veloce, Tesoro?» mi voltai appena udii la voce di mia madre. Mi stava fissando scocciata.
      Mi rivoltai, e continuai con il mio cammino «No!» Quattro. Cinque. Sei. Sentii sbuffare sonoramente lei. Quanto mi piaceva farla irritare!
      «Susy!» mi bloccai di scatto quando sentii un’altra voce scocciata alle mie spalle. Mi girai a guardare Clark, ancora vicino alla porta del corri doglio che portava allo studio di mio padre. Mi ero completamente dimenticata di lui. Sentii tossire mamma, che subito gli lanciò uno sguardo torvo. Lui fece una faccia sconvolta e rispose «Mi scusi, Signora Dawson» e fece una sorta di inchino «È solo che la Signorina Dawson, era abbastanza… irritante. Se posso» stavolta fui io a lanciarglielo, uno sguardo omicida. Riuscii ad intravedere un ghigno sulle sue labbra Ma guarda te questo! Pensai sbalordita, ma allo stesso tempo divertita.
      «Già!» disse mamma, facendomi riprendere dai miei pensieri «È molto irritante eh?» sottolineò con tono la parola “molto”. Sguardo assassino! Fece un ghigno nella mia direzione, in modo che potessi vederlo.
      È la serata dei ghigni, e degli omicidi! Pensai ironica.
      Lascia perdere, e tornai al conto. Sette. Otto. Nove. Dieci. Undici. Voltai alla mia sinistra. Dodici. Tredici. Quattordici. Quindici.
      «Quando la vuoi piantare?» sbottò irritata mamma.
      «Quando finiscono gli scalini!» urlai voltandomi verso di lei. Clark era ancora lì, che mi fissava scocciato. Lo guardai incuriosita. Lui mimò un «Cosa vuoi?» gli feci cenno di salire. Lui guardò mia madre, e mi fece capire che non poteva «Clark potresti salire un secondo?» urlai in modo che mi sentissero entrambi.
      «Ok» urlò ironico, e salì le scale fino a dove ero io «Cosa vuoi?» era due scalini sotto di me. Vidi con la coda dell’occhio che mamma stava uccidendo Clark con lo sguardo. Capii che non era il posto giusto dove parlare.
      «Vieni in camera mia» non potevo risparmiare una frecciatina così piccante a mamma.
      Lui rimase un po’ sconcertato dalle mie parole, del tutto prevedibile. Lo presi per mano, un’altra frecciatina per lei, e corsi fino ad arrivare alla porta del corri doglio che portava alla mia camera, con lo sguardo impaurito di mamma che ci seguiva. Non mollai la sua mano per tutta la corsa diretta alla mia camera. Non sapevo il perché, ma mi piaceva stringerla. Spalancai la porta e mi gettai di peso sul letto, ridendo. Lui era rimasto ancora vicino alla porta, immobile, ad osservarmi sconcertato.
      Gli feci un sorriso incoraggiante «Dai vieni qui» indicai il posto di fianco a me.
      Lentamente, si sedette vicino. Mi stesi, e osservai il soffitto in silenzio. Restammo così per qualche minuto.
      «Allora…ehm…» balbettò per rompere il silenzio, imbarazzato. La situazione mi divertiva. Mi alzai lentamente, e posai una mano sulla sua spalla, con un tocco sottile. Gli vennero i brividi alla schiena, feci un sorriso compiaciuto. Non era male come ragazzo: bello, gentile, e intelligente. In quella situazione, iniziai anche a farci un pensiero.
      No! Le relazioni, soltanto dopo il viaggio!
      Prima ancora che potessi fermare la mia mano, lui si era già voltato verso di me. Si stava avvicinando pericolosamente al mio viso, alzò una mano e mi sfiorò leggermente la guancia che era diventata calda come il fuoco, e altrettanto rossa. Il mio cuore perse un battito. Il mal di testa ormai era solo un ricordo lontano. Nonna Lily. Chi era nonna Lily? Non capivo più niente.
      «Clark» sussurrai, non riuscivo a parlare, la voce mi tremava. Perché mi faceva quest’effetto? Forse era solo l’idea del sesso. No, non era solo quello. Non riuscivo più a sentire il morbido letto sotto di me, c’eravamo solo io e lui, nient’altro. Non c’era niente di concreto in quel momento se non noi stessi. Mi fece stendere sul letto, piano, poi si stese altrettanto leggermente su di me. Ma che diavolo mi era preso? Che diavolo ci era preso?
      «Clark! Fermo» la mia voce era più insistente, ma altrettanto tremante «Clark, per piacere. Fermo» non volevo strattonarlo, così rischiavo di offenderlo, ed era l’ultima delle mie intenzioni. Lui cappi che stavo cercando di evitare quel rapporto, anche se una parte di me lo voleva. Mi era sempre piaciuto Clark, ma lo avevo tenuto solo per me, lo avevo rivelato –non volendo- anche a Rosie.
      Si scansò e si scusò subito «Scusami Susan, non volevo. Avevo frainteso completamente. Scusami» non volevo che si scusasse, non chiedetemi il perché!
      «No tranquillo Clark, è tutto ok. Tranquillo» gli lanciai un sorriso incoraggiante. Mi rispose con uno simile.
      «Ma allora perché mi hai chiamato?» quello che aveva capito lui non mi dispiaceva, però il motivo era un altro.
      «Volevo chiederti una cosa»
      «A me? Certo, dimmi» sembrava speranzoso.
      «Ok, tu hai detto, prima in cucina, che dovevo sbrigarmi altrimenti avrei fatto tardi a questa serata importante. Giusto?» acconsentì con la testa «Ma io non ricordo di averti mai detto del mio futuro viaggio. Te lo ha detto qualcuno?»
      «Ah!» distolse lo sguardo. Sembrava deluso dalla mia domanda. Capii all’istante cosa si aspettava, temevo di averlo offeso «No, non mi ha detto niente nessuno. Tranquilla» un sorriso sforzato si fece spazio sul suo volto. Non sapevo cosa dire.
      Sta zitta! Mi riproverai da sola.
      «Tutto qui?» chiese ancora seduto a gambe incrociate di fianco a me.
      «Cosa? Ah, sì. Tutto qui. Grazie» il mal di testa tornò a tormentarmi, con un nuovo pensiero: Clark è sulla buona via per odiarmi.
      «Perfetto!» cappi dal tono di voce che non vedeva l’ora di andarsene. Avevo ancora qualche domanda riguardante l’argomento, ma preferii lasciar stare. La delusione causatagli era troppa da aggiungerne. Si alzò dal letto, e si avviò verso la porta a grandi falcate, lo guardai andarsene delusa. Dovevo fare qualcosa per riparare all’errore, ma cosa?
      Mi alzai di corsa «Clark!» corsi di fianco a lui.
      «Cosa?» si girò scocciato verso di me.
      «Io… io volevo dirti… ehm…» cosa diavolo volevo dirgli?! «Se… se vuoi… possiamo “rivederci”» non era il termine appropriata, ma era l’unico per fargli capire le mie intenzioni «Sempre se ti va?» mi morsi il labbro inferiore. Già me lo vedevo che si incazzava urlando “Sì per deludermi ancora!”. Sperai con tutta me stessa che non fosse vero.
      «D… davvero? Dici sul serio?» ringrazia iddio perché non si era infuriato.
      «Sì! Certo. Insomma, mi piacerebbe passare del tempo con te» sorrisi a 32 denti «Sempre se tu vuoi»
      «Certo che voglio!» urlò euforico. Si corresse subito vedendo la sua reazione esagerata «Si, mi piacerebbe»
      Bloccai una risata, che lui notò.
      «Ehm, mi… mi dispiace per prima» indicò il letto «Io non volevo, scusami se ti sono sembrato un…»
      «No!» lo bloccai «Non lo sei sembrato affatto!» come faceva a considerarsi in un modo così orrendo?
      Timidamente, alzò una mano sul mio volto, e spostò una ciocca ribelle dietro il mio orecchio. Arrossì non poco. Mal di testa: andato! Cos’era il mal di testa? I nostri volti separati da pochi centimetri d’aria. Come prima, il mio cuore perse un colpo, c’eravamo solo io e lui «SUSAN!» e mia madre che ci guardava stupefatta sulla soglia della porta, Rosie dietro di lei esultava entusiasta.
      Clark si staccò di colpo da me, cercai di dire qualcosa, trovare una giustificazione, aprì bocca per parlare, ma non ne uscì nulla.
      «Signora Dawson, le assicuro che non è successo niente» Clark, a quanto pare non aveva perso l’uso della voce.
      «Lo spero, signorino Forester!» si capiva che era incazzata nera, e non volevo nemmeno immaginare quando lo sarebbe stato papà nel momento in cui glielo avrebbe detto «Comunque sia, Signorino, lei sembra essere l’unica mia ancora di salvezza» disse cercando di non farsi credere debole. Io e Clark ci scambiammo uno sguardo incuriosito.
      «Cosa?» chiese lui sbalordito.
      «Vieni con me» si scansò per fare spazio tra lei e l’uscita. Clark mi guardò un secondo, per poi avviarsi alla porta.
      «A me non è dispiaciuto affatto!» urlai verso di lui.
      «Che cosa?» si voltò, guardandomi incuriosito.
      «Quello di prima» risposi arrossendo un po’.
      «Ah!» esclamò con un sorriso «In fondo in fondo, nemmeno a me»
      Mamma ci scrutò, cercando di capire a cosa ci riferissimo. All’istante capì, o almeno lo credeva «Oddio! Fuori, fuori!» spintonò via Clark. Sorrisi a quella scena, Rosie mi vide sorridere e si avvicinò.
      «Avete…?»
      «No, tranquilla» la rassicurai «Ma quasi» confessai infine.
      Si mise la mano davanti alla bocca dallo stupore, poi alzò le mani a mo’ di resa e se ne andò barbottando qualcosa che non capii.
       Chiusi la porta, interrogandomi sulla sorta di Clark tra le mani di mamma, dopo quello che aveva visto. Preferii non pensarci, troppo pericoloso per me, e per lui. Poveretto. Mi avvicinai al letto, misi il pigiama, e mi coricai nel mio dolce e caldo letto. Era tutto apposto, certo, c’era il piccolo inconveniente di poco fa, ma avrei risolta anche quello prima o poi, ma in fin dei conti avevo risolto tutto.
      Papà, mamma, Clark. Tutto.
      Era tutto ok.
      Indossai il pigiama e mi coricai.
      Fu facile addormentarmi quella notte, erano successe troppe cose in una sera, la mia mente era andata in sovraccarico, e non appena aveva trovato un appiglio per lo spegnimento, gli si è aggrappata senza indugi.
      La notte fu calma, segno che tra pochi mesi sarebbe arrivata la primavera. Feci un sogno stranissimo, che me la rovinò completamente, svegliandomi nel cuore della notte, facendomi perdere ogni singola briciola di sonno.
      Sognai di essere arrivata al giorno della partenza, e di essere partita sulla Starlight, con mia zia e tutto il resto. Il viaggio fu tranquillo per tutto il tempo, trovammo la reliquia, insieme ad essa, l’entusiasmo della nave intera. Tutto trionfanti e contenti, ci mettevamo in viaggio per tornare a casa, a Londra, ma qualcosa andò storto. Qui il sogno si faceva sempre più confuso, non riuscivo a distinguere la realtà, dal frutto della mia immaginazione. Ricordavo di trovarmi nella mia cabina, quando ad un tratto, sentivo la nave muoversi bruscamente, facendomi cadere atterra. Le luci mancarono per qualche secondo, poi tutto tornò normale.
      Insieme a me c’era una figura che non riconoscevo, ma sapevo che era lì con me, che era un mio amico, benché non lo riuscivo a mettere a fuoco. Preoccupata decidevo di andare a chiedere a mia zia, capitano della nave, cosa era stato. Percorrendo i corri dogli bianchi della nave, talmente bianchi da accecarti se su di loro batteva la luce. Uscita fuori, il celo era limpido, senza nemmeno una nuvole, emergeva su di lui soltanto una piccola mezza luna splendente, osservai il mare, pensando che fosse completamente piatto, invece era agitato, e molto. Arrivata alla cabina del comandante, incontrai zia Jasmine, aveva il volto sconvolto, e mi diceva, mi urlava qualcosa che non riuscivo a capire, non sentivo.
      «Cosa?» gli urlai, stranamente udii la mia voce, ma allora perché non riuscivo a sentire la sua? «Cosa c’è, zia?» gli continuavo ad urlare. La sua espressione cambiò, diventò serena e pacata. Si avvicinò al timone e lo voltò tutto verso la sua sinistra con un colpo secco «Zia, cosa stai facendo?» iniziavo a spaventarmi. Sapevo, anche se non ero esperta di nave e come si navigavano, che un timone lanciato così poteva far rovesciare la nave, specialmente con il mare così agitato, ma lei continuava a guardarmi, non mi toglieva gl’occhi di dosso, come se fossi la cosa più preziosa della sua intera esistenza, ma allo stesso tempo, la più pericolosa. Adesso ero spaventata. Il modo in cui mi fissava mi faceva gelare il sangue nelle vene. L’unica cosa che desideravo era andarmene di lì, non riuscivo a sopportare quello sguardo.
      Inizia a correre nella parte opposta alla cabina di navigazione, scesi le scale di corsa e, fortunatamente, senza inciampare. Dovevo correre nella mia cabina, dal ragazzo, non sapevo perché, ma dovevo andare da lui, era un obbligo imposto da me stessa che non potevo violare, era troppo importante, ma non riuscivo a cogliere il perché. Forse era una persona molto importante per me anche nella realtà, papà, mamma, Rosie, ma non ne ero sicura.
      Mi infilai di nuovo in quei corridoi bianchi come la neve appena scesa dal celo, e correvo a perdi fiato nella mia cabina. Quando ci arrivai e vidi che lui non c’era, quella figura talmente importante per me, ma allo stesso tempo talmente misteriosa, mi sentii le gambe troppo pesanti da reggermi, e crollai sulla fredda e dura superfice. Lui non c’era, e io mi sentivo distrutta.  Ricordo di aver pensato che forse era uscito a cercarmi, che era uscito spaventato dalla mia assenza. Corsi ancora fuori, il celo era ancora calmo, anche il mare stavolta. Scrutavo ogni singolo centimetro alla ricerca della causa del mio malore, ma lui non c’era da nessuna parte, non ce n’era traccia. Notai che la nave si stava inclinando leggermente vero Prua, non sapevo cosa fare, lui non c’era, la nave e il mare si comportava in modo diverso dal normale, e mia zia mi guardasse come fossi un tesoro.
      Cedetti alla pressione, cadendo sul freddo metallo della nave.
      Mi risveglia in un posto completamente diverso dalla nave, che non centrava niente con essa, era su una spiaggia, col sole cocente di mezzo giorno, frastornata da qualcosa che era successo prima, ma non riuscivo a ricordare cosa. Adesso l’immagine, rispetto a come era sulla nave, era più nitida, era come se fossi cosciente di quello che stava succedendo anche se era un sogno. Mi alzai barcollando dalla sabbia umida, bagnata dalle acqua salate del mare. Mi guardai in giro, in cerca di qualcosa.
      O qualcuno.
      Ma non stavo cercando l’uomo della nave, no, non era lui. Mi concentrai sulle mie ricerche, su cosa stavo cercando, poi ci arrivai. Stavo cercando non qualcuno, ma qualsiasi. Stavo cercando qualsiasi persone ci fosse nelle vicinanze per… per aiutarmi? Forse, oppure per aiutare io a lui. Il sole, insieme al sogno, iniziava a perdere lucidità, non era più limpido come guardare attraverso un vetro, ma era come se ero stata avvolta in una stoffa completamente nera, e semitrasparente. Barcollavo su me stessa, come se mi fossi dimenticata come si camminava, poi, udii una voce che mi chiamava.
      «Ehi, tu!» mi voltai, confusa, verso la fonte.
      Da quello che riuscivo a vedere attraverso la stoffa, era un uomo, ma non ne ero completamente sicura. A giudicare dall’altezza, poteva avere quarant’anni al massimo. Dal modo in cui era vestito, sembrava un mercenario, o qualcosa del genere. Si avvicinò a grandi falcate verso di me. Istintivamente indietreggiai.
      «Da dove vieni?» chiese con voce roca, a pochi metri da me.
      «Io… io non lo so» balbettai spaventata.
      L’uomo mi scruto, o almeno quello riuscii ad intravedere, poi portò una mano dietro la sua schiena. Indietreggiai di qualche altro passo. Lui estrasse un’oggetto nero. Una pistola.
      «N… no» balbettai ancora stranita «Cosa vuoi fare?»
      A giudicare dal suono della sua gola, capii che emise un ghigno. Niente di buono. Spaventava, cercai di scappare da lì. Inciampai due o tre volta sulla sabbia, non riuscivo a vedere bene dove andavo, non me ne importava, volevo solo scappare da quell’uomo che mi faceva tanta paura, non sapevo dove sarei sbucata.
      Dove mi trovavo? Cosa era successo per trovarmi lì? Cosa voleva l’uomo da me?
      Tutte le mie domande trovarono risosta, o meglio, non la trovarono affatto, perché furono cancellate insieme a me. Ricordavo solo che l’uomo dietro di me aveva sussurrato «Addio», un colpo di pistola, e poi… niente.
      Mi ero svegliata di colpo, sudata fracida nel mio letto. Il sogno mi aveva scosso completamente. Provai a riprendere sonno, ma fu del tutto inutile. Mi misi seduta, a guardare dritta di fronte a me, il nulla. Posai una sguardo veloce sulla sveglia sul comodino di fianco al letto. Le lancette segnavano le 4:20. Non dovrò aspettare molto, almeno. Pensai, cercando il lato positivo della situazione.
      Fuori dominava la tranquillità della notte, c’erano poche nuvole, e la luna era alta in celo, la sua luce bianca illuminava tutta la stanza dalle vetrate. L’avevo sempre trovata bellissima, la luna, così lontana ma all’apparenza così vicina. Preferivo di gran lunga la notte, al giorno.
      Mi alzai dal letto, e mi diressi in bagno. Tanto il sonno era passato, e valeva la pena rilassarsi con un bagno e togliersi il sudore di dosso.
      Riempii la vasca d’acqua fredda, era quello che ci voleva –almeno secondo me- in quel momento.
      Portai la sveglia in bagno per non perdere la cognizione del tempo, e mi persi fra le quasi fredde temperature di quell’acqua.
      La mia testa ha seri problemi pensai, ricordando il sogno, o dovrei dire incubo? Non aveva niente di concreto. Sulla nave, poteva anche andarci, ma cosa centravo sulla spiaggia, persa, a cercare aiuto? E l’uomo? Perché mi sparava? Cosa voleva da me?
      Mi lascia cullare dal relax di quella situazione, arrivai quasi a riprendere sonno, ma era un falso allarme. Quello stramaledettissimo sogno mi aveva scombussolato tutta. Lanciai uno sguardo alla sveglia. 5:45 AM. Lanciai uno sguardo alla vasca piena d’acqua, e decisi che mi ero messa a mollo anche troppo. Uscii e mi vestii, pronta in anticipo –molto in anticipo- per la colazione. Mi sdraiai sul divano, aspettando almeno le sette o le otto di mattina. Il tempo sembrava non passare mai. Era snervante stare senza far niente.
      Sbuffai annoiata, guardandomi in torno. Accesi, scocciata, il computer. Giocai ad uno dei videogiochi che ci avevo installato tempo fa sotto consiglio di Clark.
      Clark. Istintivamente, mi voltai a guardare il letto sconvolto. Le mie guance avvamparono leggermente
      «No!» non dovevo pensarci, non poteva mai succedere che io e Clark… impossibile! Ma perché lo era? Perché lui era un maggiordomo, ed io la figlia di un riccone? No, non era per quello. E anche se fosse, di certo non mi avrebbe impedito di amarlo, se lo amavo.
      Ma cosa mi metto a pensare?! L’insonnia fa brutti scherzi.
      6:30AM. Ce l’avevo quasi fatta.
Dato che non avevo nulla di meglio da fare, mi misi a contare a ritmo con le lancette dell’orologio, i minuti che mancavano alle sette. Fuori la calda luce dei primi raggi del sole, si facevano largo fra le nuvole, spalancai le finestre per sentire sulla mia pelle, la fresca e frizzante aria di prima mattina.
      6:45 AM.
      Potevo anche andare ormai. Di certo non avrei trovato tutti svegli –anzi, nessuno- ma i domestici dovevano essersi alzati tutti. Lanciai un ultimo sguardo allo specchio prima di andare. La mia posizione si poteva definire… decente.
      Me ne fregai altamente, e uscii dalla camera. Il corri doglio, con tutto quel silenzio, faceva non poca paura. Lo percorsi il più velocemente possibile senza fare rumore. In salotto non c’era anima viva, e il braciere nel camino di ieri sera, era ormai del tutto spento. Lancia qualche sguardo in giro per assicurarmi che non ci fosse davvero nessuno. Via libera.
      Cucina, lì avrei trovato di sicuro George o Rosie a preparare la colazione. Aprii la porta e, come avevo pensato, George era lì.
      «’Giorno capo!» lo saluti scherzosa.
      «Signorina Susan?!» rimase quasi sconvolto quando mi vide «Che ci fa in piedi a quest’ora?!»
      «Perché? Non posso alzarmi alle sette?» mi accomodai, come mio solito, sugli scaffali dove lui era intendo ad affettare il pan-carré. Ne presi una fetta, e l’addentai.
      «Come mai così mattiniera?»
      «Sogni» corrugai la fronte «O incubi? Non lo so ancora?»
      Mi guardò come ci si vede un pazzo maniaco. In effetti, lo sembravo non poco quella mattina. Cosa aveva la mia testa? Perché elaborava sempre cazzate a non finire? George si fece scappare un risolino.
      «Che c’è?» chiesi quasi offesa aspettandomi già la sua risposta.
      «Nulla» rispose, continuando a ridere.
      Come se avessi letto nella sua mente, lo risposi «Tu non sai quella diavoleria ha elaborata la mia testolina stanotte! Quindi, taci!» puntai il mio indice, sulla mia tempia.
      «Non lo sa, ma è facile immaginarlo» qualcuno era entrato dalla porta della cucina, e avevo risposto a mo’ di scherzo… o offesa?
      Mi voltai e vidi Clark che si infilava la camicia nei pantaloni. Era un’offesa.
      «Questi servizi non potresti farli in camera tua?» indicai le sue mani che giocherellavano nei pantaloni. Mi vennero i brividi solo a pensarci.
      «Beh non sapevo che volessi vedere l’alba stamattina, e poi, speravo che tu potresti aiutarmi» mi lanciò uno dei sui ghigni più malefici.
      «Ti va di essere ironico?» lo guardai schifata mentre si avvicinava al tavolo di fronte a me.
      «Nah, pensavo alla sera prima» disse senza guardarmi.
      Maledetto pervertito! Lo maledii con il pensiero. Come se la notte non mi fosse bastata, ci si metteva anche lui a rompere con le sue frecciatine del cavolo!
      «Cosa è successo ieri Clark?» chiese incuriosito George.
      «Perché non ti uccidi Clark?» ignorai la domanda di lui.
      «Mancherei a qualcuno. Potresti spostarti?» mi spostai e lascia che prese l’occorrente per apparecchiare.
      Risi di gusto «E a chi mancheresti, sentiamo?»
      «A te!» urlò, entrando nella sala pranzo.
      Ma porca…! Ma come faceva a sapere tutto?! Ho detto sapere tutto? Pardon, intendevo dire: Ma come faceva ad essere così insopportabile?!
      «Cosa voleva dire?» mi domandò George, guardando me, e puntando il coltello alla porta dove era appena scomparso Clark.
      «Non contarci!» urlai in modo che mi potesse sentire dall’altra stanza, ignorando di nuovo il povero George, inconsapevole della causa scatenante della nostra guerra mattutina.
      Per un po’ non rispose. Pensai che non avesse sentito, o che forse si fosse arreso. O ancora peggio, offeso.
      «Io credo proprio sì!» tornò con quel maledetto ghigno ancora stampato sulla sua faccia. Offeso?! Ma come diavolo mi era passato per la mente, che lui si fosse offeso?!
      «Io invece credo di no!» decisi di fare l’indifferente.
      «Ah sì?» posò quello che aveva in mano, e mi fissò curioso «E perché non ti mancherei?» si avvicinò, senza distogliere lo sguardo.
      «Beh, non so, forse perché non c’è nessun motivo che ci… ci leghi?» Non guardarlo! Non guardarlo! Mi ripetevo di continuo Si arrenderà, così!
      «Nessun motivo, eh?» ripeté le mie parole.
      «Già!»
      «Io credo che uno ci sarebbe» si misi di fronte a me, poggiando le mani di fianco alle mie gambe.
      «E… e quale sarebbe?» Non iniziare, Susan!
      Avvicinò il volto al mio, fino a che non ci trovammo a pochi centimetri, l’uno dall’altro «Perché tu mi…» non riuscì a finire la frase che Rosie entrò in cucina.
      «Fateli da un’altra parte i piccioncini, voi due!» Clark si scansò di colpo da me, e guardò Rosie in cagnesco, che gli lanciò uno dei suoi sorrisi più malefici.
      «Non stavamo facendo i piccioncini Rosie!» la rimproverai.
      «A no?» chiesero all’un isolo lei e Clark.
      Guardai lui sconcertata, ad occhi sbarrati «Clark!» urlai mo’ di rimprovero.
      «Che c’è? Non li stavamo facendo?» si giustificò.
      «Ma sei pazzo?!» continuavo a guardarlo sbalordita.
      «Si, lo sono» disse con un ghigno, fissandomi dritta negl’occhi. Distolsi lo sguardo, non riuscivo a sopportarlo ancora per molto prima di cedere, ed arrossire come una stupida.
      «Questo è da ricovero!» spostai i miei occhi su Rosie, che mi guardava in modo… spaventoso, direi.
      «Scusate!» si intromise George, infastidito dal nostro complotto «Noi non stavamo parlando di quel sogno-incubo?!» mi chiese infastidito, puntandomi il dito contro.
      «Sogno-incubo? Cos’è successo?» chiese preoccupato Clark. Rosie si avvicinò a noi tre con altrettanta preoccupazione.
      «Ma niente, tranquilli» li rassicurai tutti «È colpa della mia testolina bacata» dissi indicandola con l’indice.
      «Sicura?» mi chiese Rosie di fianco a me.
      «Certo» la rassicurai ancora.
      «Ok» sussurrò «Però adesso è meglio se ti avvii di là» indicò la sala pranzo «tra poco arriveranno tutti» annuii malinconica. Mi piaceva stare con loro, erano di certo più divertenti della colazione in famiglia. Scesi, e mi avviai verso la porta. La tavola era già pronta per accogliere me, e la mia famiglia. Mi accomodai al mio posto, e attesi che gl’altri arrivassero.


 

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Capitolo 5
*** 4. Allenamenti ***


4
Allenamenti


      L’orologio sulla parete segnava le 8:30 AM. Mancavano pochi minuti, e sarebbero arrivati tutti. Per passare il tempo, giocherellai con le posate, come facevo da piccola. Non mi era bastato annoiarmi quella notte, adesso anche la mattina a colazione. Sbuffai sonoramente quando vidi l’orologio segnare le nove, e tutti i posti vuoti, tranne il mio. Ma quando arrivano? Pensai scocciata. Sembrava la giornata della rovescio! Io che mi svegliavo nel cuore della notte, e loro che si svegliavano nel cuore della giornata1
      Ve l’avevo detto che la mia testolina sparava di tutto e di più!
      Finalmente, mamma arrivò. Come mi aspettavo, si sorprese nel vedermi già sveglia e pronta.
      «Come mai già sveglia?» chiese con un sorriso, sedendosi al suo posto, al fianco destro del capotavola, papà.
      «Incubi» dissi. Avevo deciso cos’era, un incubo.
      «Ah!» esclamò sorpresa. In effetti era molto che non ne facevo, e adire la verità, stavo meglio senza «Vuoi raccontarmelo?»
      «No, tranquilla. Una sciocchezza» deviai il discorso ancor prima di cominciarlo. Non mi andava di ricordarlo, e sentirmi di nuovo disorientata. Mamma acconsentì di buon grado.
      Man mano che passava il tempo, il resto della famiglia arrivò. Papà si sedette a capotavola, di fianco a mamma. Poi arrivò nonno, che si sedette al capo opposto. Io preferivo stare al centro, e in modo da guardare la porta che conduceva alla cucina. Volevo tenermi aggiornata, diciamo. La colazione arrivò, e noi finimmo tutto nel giro di una mezz’ora. Nonno e papà andarono nello studio per controllare delle carte, così restammo io e mamma da sole. La stanza fu avvolta dal silenzio più totale. Io e mamma eravamo abituate a lanciarci frecciatine a vicenda, non a conversare amichevolmente. Anche se entrambe sappiamo quando bene ci vogliamo.
      «Allora» iniziò lei, poggiando la sua tazza sul tavolo «Tu e Clark quindi…»
      Oggi era proprio una giornata no! «No mamma» dissi scocciata, alzando gl’occhi al celo.
      «Davvero?» mi chiese ansiosa.
      «Sì mamma, davvero» giocavo con i miei biscotti preferiti, giocavo con tutto quello che mi capitava tra le mani quel giorno.
      «Ma ieri sera…»
      «Ieri sera non è successo niente mamma!» la interruppi.
      «A me sembrava proprio di sì»
      «Uffa, mamma! Ti ho detto che non c’è niente, basta!» non la reggevo più.
      Lei si ammutolì e balbettò un «Se lo dici tu» c’erano due cose che in quel momento mi andava di dirgli: la prima. Lei non poteva entrare ed uscire a piacimento dalla mia camera! Metti che io e Clark stavamo… ok. Adesso la pervertita sono io! La seconda. Non era ugualmente affari suoi su chi volevo frequentare, certo era mia madre e aveva il diritto di saperlo, ma non tormentarmi.
      «È carino» disse senza guardarmi.
      «Sì» acconsentii.
      «Dì la verità» mi puntava come un cane da tartufi che aveva udito l’odore di essi nelle vicinanze «Hai intenzione di…»
      «Mamma!» la rimproverai. Ma cosa diavolo gli era preso a tutti stamattina?! Prima a Clark, poi a Rosie, e adesso anche a mia madre. Lei alzò le mani a mo’ di resa. Finalmente!
      «Forse» mormorai a voce bassa, sperando che non mi sentisse.
      «Lo sapevo!» si era alzata di colpo, facendo finire quasi tutto attera, e provocandomi un mini-infarto «Ah-ah, niente sfugge agl’occhi della mamma! Lo sapevo che ti piaceva Clark, ne ero S-I-C-U-R-A!» la guardavo sempre più sconcertata.
      «Mamma abbassa la voce! Vuoi che lo venga a sapere tutta la servitù?» gli urlai, quando mi ripresi dal mio shock.
      «Lo sapevo!» ripeté «fin dall’inizio. Ai primi tempi non ne volevo sapere perché ero preoccupata che fossi troppo piccola, ma poi, man mano che ho conosciuto più in fondo Clark, ho capito che era davvero un bravo ragazzo. Certo, ci sarà da discutere con tuo padre della sua situazione, ehm… economica, ma a me non importa. L’importante è che tu sia felice con lui» parlava a raffica senza fermarsi nemmeno un millesimo di secondo «ma sai, in fondo credo che anche a tuo padre andrà bene. Te l‘ho detto, ci importa che tu sia felice, nient’altro. Quella sera che gli ho rivelato le mie deduzioni non ci voleva credere, poi ha ceduto e l’ho convinto a…»
      «Tu cosa?!» sbottai «L’hai detto a papà? Senza esserne sicura?»
      «Veramente ne ero più che sicura! Guarda adesso, siete fidanzati!» disse con un sorriso che gli divise la faccia in due.
      «Mamma, non so più come ripetertelo… Non. Siamo. Fidanzati. Chiaro?»
      «Non adesso, ma poi…» mi fece l’occhiolino «Oh, sono sicura che in viaggio vi troverete bene insieme…» si bloccò di colpo, chiudendosi la bocca con la mano destra.
      «Cosa?»
      «Ops. Nulla, fa finta di non avere sentito niente, ok?» fece un sorriso sghembo e scappò letteralmente via dalla stanza, chiudendosi la porta dietro.
      Mi lasciò sola nella sala pranzo, con ancora in testa le sue parole “Sono sicura che in viaggio vi troverete bene insieme”cosa voleva dire? Quale viaggio? Il mio? Impossibile, avrebbe dovuto contattare prima mia zia, e non l’ha fatto. Forse intendeva un futuro viaggio della famiglia? Ma lui che cosa centrava? Non era di famiglia. Forse voleva portarlo con noi? Perché? Per la mia... cotta? Nah, sarebbe da stupidi! Aspetta, stiamo parlando di mia madre!
      Cosa diavolo aveva combinato?! Qualche guaio, sicuro.
      Sbuffai. Ma perché, perché doveva essere sempre così impicciona? La risposta non c’era, non perché non la conoscevo, ma perché non esisteva. Lei era così, e crollasse il mondo, non sarebbe cambiata di una virgola.
      Quando sentii la porta aprirsi, alzai la testa a controllare chi fosse.
      «Oh, sei ancora qui?» Clark era sulla soglia della porta, con una cesta in mano, pronta a sparecchiare.
      «Sì, devo andare?» feci per alzarmi.
      «No, tranquilla. Puoi rimanere se vuoi»
      «Grazie» mi lascia andare di nuovo sulla sedia.
      «Qualcosa non va?» chiese guardando la mia espressione.
      «Sì, tu!» lo guardai in cagnesco.
      «Io?! Che ho fatto?»
      «Mi sconvolgi la vita! Ecco cosa»
      «Anche tu la sconvolgi a me» disse, e iniziò a sparecchiare.
      «Non era una dichiarazione, stupido» lo rimproverai. Mi misi dritta sulla sedia, e gli passai la mia tazza, che lui ripose nella cesta.
      «La mia sì» disse con incuranza. Lo guardai incuriosita. Quando si accorse di come lo stavo guardando disse «Che c’è? Non dirmi che non lo sapevi!»
      «No, certo che lo so, però da ieri sera mi hai sconvolto la vita»
      «Anche tu» ripeté.
      «Piantala! Comunque intendevo che… non lo so, prima l’incubo, poi tutti che escono pazzi!» rabbrividii solo al ricordo di entrambi.
      «Ah, giusto. L’incubo. Ti va di raccontarmelo?» si sedette sulla sedia di fianco a me, e posò il cesto ormai pieno sul tavolo.
      «È stupido, riderai di me» abbassai il capo.
      «Ti prometto di non ridere» si poggiò scherzosamente una mano sul petto.
      Risi «Ok, ma se ridi guai a te! Allora, ero sulla nave, con una persona che non riuscivo a riconoscere, e per qualche strano motivo andava nella cabina di pilotaggio, da mia zia. All’inizio sembrava tutto normale, poi lei mi fissava in modo… strano» rabbrividii al ricordo «poi la nave iniziava a pendere da un lato. Di colpo mi ritrovo in una specie di deserto, o spiaggia, e lì trovo un uomo che… che mi uccide» terminai il racconto con un sospiro.
      Clark, di fianco a me, mi guardavo ancora preso dalla storia «Stupido eh? La mia testolina ha bisogno di un controllo!» dissi ironicamente.
      «È solo un sogno Susy, o meglio, un incubo. Non hanno coerenza, tranquilla. Ok?» annui con il capo. Lui mi sorrise e disse «Beh, adesso vado a portare queste di là» e si alzò, afferrando il cesto ed avviandosi in cucina.
      «Ah» si bloccò, e si voltò a guardarmi con un sorrisetto sulle labbra «La tua testolina è perfetta» si volto, e chiuse la porta.
      Sorrisi.
      Riusciva sempre a tirarmi su’, ma come riusciva a farlo, mi restava sempre ignoto.
      Passai per la porta principale, quella che dava sul salotto, e salii in camera mia.
      Quel giorno passo in modo spaventosamente veloce, ma lo stesso non si poteva dire per gl’altri, noiosi e… noiosi. Par passare il tempo contavo i giorni rimanenti alla partenza per la spedizione con zia Jasmine. Mancava poco che iniziassi a contare anche ore, minuti e secondi.
      Mia madre, sembrava aver superato lo “shock” della mia partenza. Ormai aveva capito che era quello che desideravo, che volevo fare, e non poteva impedirmelo «L’importante è che tu sia felice, e sicura di quello che fai» aveva detto un giorno, ed ero sicura che era quello che volevo. Non potevo disonorare il nome della nostra famiglia, o almeno, non sarei stata io.
      Continuavo a ripetermelo per convincermi che era la cosa giusta da fare, che non c’era altra soluzione se non la partenza. Papà e zia Jasmine era entusiasti della mia scelta. Come potevano non esserlo? Un’altra discendente della famiglia Dawson stava per fare il suo primo passo verso il mondo degli esploratori, il mondo Dawson.
      Rosie si comportava alla stessa maniera di sempre con me, ma sapevo che dentro di lei era triste per la mia scelta. Non ci aravamo mai divise per un lasso di tempo così lungo, massimo una settimana. Stare lontana da me la uccideva, e lo steso valeva per me. I nostri, erano pensieri reciproci: chissà che farà tutto questo tempo senza di me? Come starà? Si sentirà sola? Chi le romperà le scatole?
      Ma anche lei aveva capito che volevo farlo, era una mia scelta che avrei mantenuto fino in fondo!
      Quanto tempo potrei stare lontana da casa? Quanto sarebbe durata la spedizione? Tre mesi? Quattro? Cinque? ... Un anno?
      George, come mamma, aveva accettato l’idea che ero cresciuta, ero responsabile delle conseguenze –qualsiasi fossero- delle mie scelta, che me la sarei cavata, in qualche modo «Assomigli ogni giorno di più a tua nonna Lily, Susan» mi ripeteva quasi ogni giorno. Non so se lo faceva per incoraggiarmi, o per cos’altro. Già, nonna Lily, il fatto del suo ultimo viaggio finito male proprio nella destinazione che avevo scelto io, non mi tranquillizzava molto, ma continuavo a ripetermi che era solo una coincidenza.
      Sì, coincidenza.
      In somma, in questi giorni non facevo altro che tranquillizzare me, e gl’altri. E ci si metteva anche Clark. Ogni giorno mi incitava a non andare, a restare lì, a casa, con i miei parenti, amici, con lui. Era straziante vedere il suo volto carico di malinconia quando lo diceva. Maledetti sentimenti! Perché non poteva essere facile come una gita? Perché ogni cosa era così difficile nella mia vita? Clark era l’unico di tutta la casa che mi incitava a restare. Che fosse un piano di mamma? Nah, improbabile. Quando voleva era malefica, sì, ma non fino a questo punto, fino a spingere Clark a convincermi a restare.
      Comunque sia, io sarei partita, qualsiasi cosa loro avessero fatto.
      A “confortare” i miei giorni, venne una notizia… non so ancora se positiva, o negativa.
 
      «Buongiorno a tutti!» il solito saluto alla servitù in cucina di ogni mattina. Dal giorno dell’incubo, avevo cominciato a svegliarmi molto prima del solito. Verso le sette, e a volte anche più tardi.
      «’Giorno Susy» Clark fu il primo a salutarmi, seguito da George e il resto della servitù. Avevo lasciato Rosie in camera mia, indaffarata a mettere ordine.
      «Come va, capo?» diedi un bacetto sulla guancia rugosa di George.
      «Perché non saluti anche me così?» si intromise Clark, mentre prendeva delle tazze nel ripostiglio di fianco a me.
      «Geloso!» lo insultai, facendogli la linguaccia. Mi fece un sorriso di risposta, e andò a finire di apparecchiare in sala pranzo.
      «Bene, a parte la vecchiaia si intende. Voi?» rispose George, quando gli riportai l’attenzione.
      «Non mi lamento» risposi scherzosamente «Perché non hai mai pensato alla pensione?» gli chiesi afferrando un biscotto dalla cesta di Clark che stava portando di là, meritandomi un’occhiataccia da parte sua.
      «E dopo chi vi sfamerebbe?» esclamò, mentre osservavo il modo in cui mangiavo il biscotto. In effetti ero a dir poco vorace. George era il solito anziano che non pensa alla pensione, ma al suo lavoro. Gli piaceva così tanto che a volte, la sera tardi, doveva andare mamma ad ordinargli di andare a letto. Non riuscivo a capire il suo amore verso quel tipo di lavoro, in somma, era un servo no? Certo, io facevo di tutto per trattarlo nei migliore dei modi, per la sua età e tutto il resto, ma lui a volte, la respingeva addirittura. Quando glielo chiedevo, lui rispondeva sempre allo stesso modo «Mi piace, signorina. Che ci posso fare?» io, ovviamente, non avevo mai ribattuto perché i gusti sono gusti, ma mi suonava sempre strano. E puntualmente, ogni volta lasciavo perdere. George era un libro chiuso con una ventina di lucchetti, e con la copertina talmente vecchia, da non riuscire ad intravedere una lettera del titolo. Papà diceva che soltanto la nonna Lily lo capiva, e logicamente, mio nonno Victor aveva sviluppato una vera e propria antipatia verso di lui, forse la gelosia, chi lo sa!
      Feci spallucce, e mi avviai in sala pranzo, erano già tutti lì. Mi accomodai al mio posto, di fronte alla porta della cucina, e iniziai a sorseggiare il mio caldo cappuccino, con tanto, tanto cacao. Nonno non aveva detto una parola, era tutto preso a leggere un quotidiano, e di tanto in tanto faceva un’espressione schifata verso di esso, o meglio, verso le notizie che riportava. Mamma e papà parlavano di qualcosa che non riuscivo a capire, prima parlarono del mare, dei pesci che lo abitavano, i coralli eccetera, poi di ginnastica. Mi vennero in mente i ricordi della mia infanzia, quando praticavo ginnastica ed aerobica, come tutte credo abbiate ormai capito, mi ci aveva quasi costretto mio padre a praticarlo –ovviamente, nella palestra della casa- ma poi mi ci ero appassionata, e iniziò a piacermi. Arrivata ai 18 anni, smisi di praticarla. Di tanto in tanto, vado in palestra per tenermi allenata quel poco che mi basta.
      «Tesoro» mamma mi distolse dai miei ricordi.
      «Sì, mamma» dissi osservando il centro del tavolo, in cerca di qualcos’altro da sgranocchiare. Afferrai una fetta biscottata, e il barattolo di marmellata di mirtilli.
      «Tesoro, pensavamo di farti ricominciare a praticare o ginnastica, o aerobica. Quello che preferisci» disse papà.
      «Ok» dissi non curante, mentre spalmavo la marmellata. Del tronde, come avevo detto prima, mi piacevano, o l’una o l’altra, era indifferente per me «Perché?» chiesi, addentando finalmente la mia creazione.
      «Per la spedizione, Tesoro» disse mamma, scrutandomi silenziosamente. Probabilmente aspettava una mia reazione, forse di rabbia, ma ormai mi ero arresa.
      «Va bene. Quando inizio?» mi presi un’altra fetta dal cesto.
      «Quando vuoi, Tesoro» disse papà, entusiasta dal mio comportamento «Quale ti pacerebbe praticare?»
      «Posso farli entrambi?»
      «Certo!» esplose di felicità mia madre. Credeva che la ginnastica mi avrebbe aiutata a sopravvivere su una nave. Ma in realtà non c’era scampo, la nave ci avrebbe ucciso tutti! Nessuno escluso! Pff.
      «Vuoi praticare anche armi, o roba simile, tesoro?» domandò ancora papà, meritandosi una gomitata da mamma, e lui si rimangiò subito tutto, mimando con le labbra «Non fa niente» avevo già seguito corsi di armi, almeno se arco e lancia lo erano. L’avevo praticato circa due anni fa, ma poi ho lasciato per noia, ma me la cavavo ancora bene con la mira.
      «Posso iniziare stesso oggi?» se proprio dovevo farlo, mi sarei allenata il prima possibile, per essere in forma –anche se non avrebbe fatto differenza- il giorno della partenza.
      «Oggi? Ehm… aspetta un secondo» disse papà, e poi entrò in cucina.
      In cucina? Che diavolo doveva fare adesso in cucina? Guardai mia madre, incuriosita. Lei face spallucce, come a nascondermi qualcosa. Preferii non costringerla a parlare, avrei soltanto sprecato tempo, quando decideva che qualcosa doveva rimanere segreto, nemmeno a Dio in persona lo riferiva. Continuai a mangiare la mia fetta biscottata, aspettando che mio padre tornasse.
      Rientrò dopo una decina di minuti, con un sorrisetto compiaciuto sul volto «Oggi va bene. Ti faccio trovare la palestra pronta per le cinque. Va bene?» annuii con il capo, e finii la mia colazione.
      Chissà cosa aveva combinato in cucina? Dannazione! Da qualche giorno a questa parte, in questa casa si sono rincoglioniti tutti! ‘unico che era rimasto fedele a se stesso, era mio nonno. Lo guardai mentre lanciava imprecazioni al giornale, roteai gl’occhi e mi alzai dal tavolo, liquidandoli con un «Ci vediamo oggi» passai per la cucina. George era dove l’avevo lasciato, gli altri stavano facendo vari servizi in giro, notai che mancava Clark. Mi guardai interrogativa in giro, in cerca di una chioma color cioccolato in giro, ma non ne vidi nessuna. Feci spallucce, e uscii, dritta in camera mia.
      Dov’è Rosie? Pensai mentre salivo le scale, diretta in camera mia In cucina non c’era entrai nel cori doglio, e a grandi falcate raggiungi la mia camera, aprii la porta e mi ritrovai una furia addosso.
      «TU!» Rosie mi era saltata addosso, e adesso ero diventata una cosa con la porta «COSA DIAVOLO HAI COMBINATO IREI SERA?!» mi urlò, rossa di rabbia in volto. È ancora in camera mia pensai ironica.
      «Perché?» chiesi con fare innocente.
      «Perché?! Guarda tu stessa!» e si scansò, per farmi guardare la mia camera. Era letteralmente sotto-sopra. Non si capiva niente. I comodini tutti aperti, e la roba al loro interno, per terra di fianco a loro. Le anche dell’armadio spalancate con i vestiti stesi per terra. Sul divano, mancavano i cuscini, entrambi ai due opposti della stanza. La sedia che dovrebbe essere alla scrivania con il computer, era alla parte opposta di esso. L’unica cosa in ordine era il letto.
      «Da stamattina alle nove sono riuscita a mettere in ordine solo il letto!» ecco perché «Era… smontato! Cosa diavolo hai combinato stanotte?!»
      Mi sforzai di ricordare cosa avessi combinato la sera prima, ma di certo non avevo dato il via ad una battaglia, poco ma sicuro! Feci spallucce e, con un sorrisetto innocente dissi «Sonnambola?»
      Mi guardò torva «Susan, tu non sei sonnambula!» mi aveva beccato «Aiutami adesso»
      «Certo!» e mi fiondai sul pavimento, a raccogliere la roba contenuta nei cassetti.
      Dopo circa mezz’ora, finimmo. La camera adesso era accettabile.
      «E vedi di non combinare altri casini ok?»
      «Sissignora» dissi, e Rosie uscì dalla mia camera, chiudendosi la porta alle spalle. Ma cosa diavolo avevo combinato lì dentro la sera prima? Che io mi ricordassi, verso le undici mi sono coricata, e prima ancora, ho passato tutto il tempo al computer ad uno stupidissimo gioco per PC.
      «Mah!» esclamai, e mi lanciai di sasso sul divano. Rimasi così per un quarto d’ora, poi mi misi a sistemare gl’abiti nell’armadio –per andare più veloce, li avevo ammucchiati soltanto-
      Arrivato mezzo giorno, scesi in cucina da George ad aspettare l’una per pranzare, la frecciatina da parte di Clark non mancò «Passi più tempo con lui che con me!» disse scherzoso, posando l’ormai nota cesta, sullo scaffale di fianco a dove mi ero seduta io.
      «Certo! Lui è il mio promesso sposo!» scherzai, abbracciando George, che scoppiò in una sonora risata, seguito da me e Clark.
      «Ehi, Clark?» lo richiamai mentre sistemava le posata e bicchieri nella cesta.
      «Dimmi, bellissima!» esclamò lui.
      Lo ignorai «Che fine avevi fatto stamattina, dopo la colazione?»
      «Oh, ero a sistemare delle cose in giro, perché?» mi rivolse uno dei sui ghigni «Ti mancavo?»
      «Non sai quanto!» ressi al gioco.
      «Bene, allora dopo pranzo raggiungimi nello sgabuzzino, ok?» disse noncurante delle sue parole.
      «Clark!» urlammo io e George all’unisono, sconvolti.
      Lui rise di gusto «Stavo scherzando, tranquilli» poi si ricompose «Non ti sarai mica offesa?» mi guardò interrogativo.
      «Nah, ti conosco da troppo tempo per farmi offendere da te, scemo» dissi con un sorriso, per non sembrare troppo dura.
      Appena vidi l’una e un quarto sull’orologio a muro della cucina, mi precipitai al tavolo, stare con loro mi faceva perdere completamente la cognizione del tempo.
      Nonno, come al solito, era infastidito dal mio piccolo ritardo, e teneva il broncio, papà teneva la forchetta in una mano, e il coltello nell’altra. Fu facile capire che aveva fame. Mamma lo guardava, trattenendo una risata, in effetti, era abbastanza divertente, così. Io mi accomodai al mio posto, e aspettai che arrivassero con il pranzo. Egli non tardò ad arrivare.
      Mangia tutto d’un fiato. Stranamente ero affamata, non mi capitava mai di mangiare così, di solito mangiavo poco. Nonno, come al solito, toccò poco e niente, maritandosi le urla da parte di mio padre. Mamma e io restammo impassibili, quasi ogni giorno ci toccava assistere a quella scena.
      Finii il mio pranzo, e mi allontanai dal tavolo. Prima di uscire dalla stanza dissi «Alle cinque, papà» e lui acconsentì con il capo. Passai per la cucina salutando George e Rosie, e facendo una smorfia a Clark, e mi diressi in camera, decisa di schiacciare un pisolino prima delle cinque. Arrivata a destinazione, mi fiondai nella cabina-armadio, in cerca di qualcosa di comodo da usare per l’allenamento.
      Scelsi un panatone da ginnastica che arrivava al ginocchio grigio, una maglietta a bradelle rossa e un paio di scarpe da ginnastica. Poggiai gl’abiti sulla spalliera del divano, e le scarpe ai sui piedi, dopo mi avviai verso il letto e mi stesi, puntai la sveglia alle 4:35 circa, in modo da riprendermi del tutto prima dell’allenamento, e mi appisolai.
      Il suono fischiettante della sveglia era una tortura per le mie orecchie. Alzai la mano più vicina la comodino, e lo palpai, in cerca della dannata sveglia. La feci cadere sul pavimento «Dannazione» esclamai, ancora assonata. Raccolsi la sveglia da terra e la spensi, poi controllai che sul pavimento non ci fosse alcun graffio, Rosie mi avrebbe ucciso, aveva un occhio di falco su queste cose.
      Mi misi seduta sul materasso, e mi strofinai forte gl’occhi. Mi alzai e, barcollando, presi gli indumenti dal divano e mi avviai in bagno.
      «Sei perfetta Susy, come sempre» dissi sarcastica, guardandomi allo specchio. Scrutai il pettine di fianco al lavandino. Pettinare o non pettinare? Questo è il dilemma! Ok, valutiamo le scelte: pettinare, una tortura senza fine che ti strappava ciocche intere senza alcun risultato; non pettinare, meno dolore, e quindi, meno sofferenze per tutti. Picchiettai sul marmo, decidendo sul da farsi.
      «Al diavolo!» esclamai. Aprii uno dei cassetti, e vi presi un elastico. Mi feci una coda di cavallo ben salda, per impedire che mi finissero davanti alla faccia durante l’allenamento, anche se qualche ciocca si era già ribellata. Voglio essere un maschio!
      Mi vestii e uscii dalla mia camera. Ero in perfetto orario. Scesi in salotto dove mamma era intenta a leggere una rivista insieme a Rosie sul giardinaggio. Le salutai, e mi avviai sul retro della casa, dove si trovava la palestra. Il sole era ancora alto in celo, ma faceva ancora un po’ freddino, mi strinsi nelle spalle, e accelerai il passo. I giardinieri, intendi nel loro mestiere, mi salutarono cordialmente; li salutai di rimando e mi precipitai nella palestra.
      «Eccoti, sei un po’ in anticipo tesoro» papà era sul fondo della grande stanza, anche lui vestito sportivo, avrà approfittato dell’uso della palestra per allenarsi anche lui. La stanza era larga e alta. In fondo c’erano gli attrezzi per i muscoli singoli; sollevamento pesi, flessioni; più avanti quelli per aerobica; aste sospese, staccionate.
      «Ho fatto più in fretta del previsto papà, e poi, ero un po’ eccitata. Non faccio seriamente palestra da molto» mi giustificai con un sorriso. Stavo già iniziando ad abituarmi alla calda temperatura della stanza.
      «Sempre volenterosa, eh?» una figura che non avevo notato prima, spuntò da un angolo.
      «Ancora tu?» chiesi scocciata, quando misi a fuoco l’immagine.
      Clark, vestito come papà, fece spallucce e indicò papà «È stato lui a chiedermelo» guardai stizzita mio padre.
      «Tu?! E perché?»
      «Perché durante la spedizione ci sarà anche lui con te» diede una pacca sulla spalla a Clark «e non era giusto nei sui confronti era avvantaggiata»
      «Avvantaggiata?» ripetei «Avvantaggiata per cosa? Stare seduta o camminare su un ponte di una nave?»
      «Non ricominciare, Susy» papà sembrava scocciato dalla mia reazione, e non aveva nessuna ragione di esserlo, anzi, dovevo esserlo il al posto suo. Non solo non mi dice che Clark partirà con me, ma lo invita –sempre alle mie spalle- ad allenarsi con noi inutilmente.
      «No, papà. Non ricominciare tu!» mi avvicinai di qualche passo a loro «Ne avevamo già parlato, se non ricordo, giusto?»
      «Sì» ammise «ma io non ti avevo assicurato niente Susan. Pensavi davvero che ti avrei lasciato partire da sola…»
      «Stranamente sì» sussurrai, fissandolo dritto negl’occhi. Ancora non si fidava di me, e la cosa mi feriva più della sveglia di poco prima. Avevo creduto, mi ero illusa, che quella discussione nel suo ufficio era iniziata e conclusa lì, invece aveva una seconda parte, in palestra, con Clark ad assisterci.
      «… senza nessuno di cui mi fidassi?» continuò, come se io non avessi proprio aperto bocca.
      «E ti fidi di lui?! Di Clark?!» lo indicai, senza degnarlo di uno sguardo. Guardarlo in quel momento, avrebbe scatenato un’altra discussione con lui.
      «Ehi!» esclamò lui, offeso.
      Non lo ascoltammo nemmeno «È l’unico di questa casa che ti è vicino, amico»
      «George, Rosie…» lui in risposta mi lanciò una sguardo Ma ti senti? «Ok, ok forse loro non sono proprio adatte» dissi osservando la sua espressione «Ma… ma zia Jasmine?» lo provocai, puntandogli un dito in pieno petto. L’onore. Il suo punto debole.
      «Tua zia Jas sarà occupata come capitano, Tesoro, non potrà pensare a te» dannazione, aveva pensato proprio a tutto.
      «Ma… ma…» cercai di trovare una scusa, qualsiasi scusa, per partire da sola.
      Partire con qualcuno avrebbe potuto manomettere il mio piano. La gente avrebbe creduto che me la sono “cavata” –che poi, io fatico in quella spedizione, non ce la vedevo nemmeno ad un miglio di distanza- perché c’era lui ad aiutarmi, a sorreggermi, e che non sarei stata io, sola, con le mie forze a cavarmela. Dovevo partire da sola.
      «Non ci sono scuse Tesoro, lui…» indicò con il mento Clark, che si era allontanato per lasciarci discutere «… partirà con te. Punto.»
      «No. Non è punto, papà» ribattei «Zia Jas lo sa?»
      «Sì, l’ho già contattata» sbuffo.
      «Quando?»
      «Quella sera in cui voi due…» non terminò la frase. Lanciai uno sguardo veloce a Clark e subito abbassai lo sguardo per paura di arrossire al ricordo. Allora mamma glielo aveva detto, me la avrebbe pagata «… ricordi che tua madre è venuta a cercarlo» annuii senza parlare «quella sera gli abbiamo parlato, lui ha accettato, e abbiamo contattato zia Jas»
      Sbuffai sonoramente all’idea che, per chissà quanto tempo, saremo stati io e Clark su una nave. Certo, non saremo stati soli, e le uniche persone che conoscevo su quella nave erano lui e zia. E come aveva detto papà, lei era impegnata nei suoi doveri da capitano, e non avevo scelta se non parlare con Clark, o chiudermi nella mia cabina come un’emancipata. La visione del viaggio si presentava come una vera merda.
      Guardai Clark, rossa di rabbia. Lui alzò le mani a mo’ di resa, come per scusarsi. Aveva accettato, poteva benissimo rifiutare invece, ma non lo ha fatto. Potevo capirlo, insomma, lo avevano capito anche i giardinieri che aveva una cotta per me.
      Sbuffai, e mi arresi «Va bene» sussurrai in direzione di Clark. Lui si aprì in un sorriso. Evidentemente non sapeva che una volta sulla nave, le previsioni erano del tutto diverse da come le prevedeva lui, avrei preso le asce di guerra per massacrarlo. Me l’avrebbe pagata cara, molto cara.
      «Perfetto» sintetizzò papà «iniziamo allora»
      Gli allenamenti erano faticosi. Papà ci faceva lavorare sodo, sia a me, che a Clark. Alla fine del primo allenamento, disse che dovevamo vederci tutti i giorni allo stesso orario. Ogni giorno gli allenamenti si facevano sempre più estenuanti. Qualche volta mamma e Rosie venivano a vederci allenare, e per scherzare, facevano il tifo su di noi, come in una gara. Papà prese man mano sempre più confidenza con Clark, adesso si potevano definire amici. Ogni sera uscivamo dalla palestra alle 9, stremati. Parecchie volte, mamma incitava papà a ridurre gli allenamenti perché troppo faticosi, ma lui diceva che il tempo era poco, e noi dovevamo essere pronti per il giorno della partenza.
      Pronti. Pronti per cosa? Non dovevamo andare in giro per la foresta amazzonica o roba del genere, dovevamo restare su una nave, una nave a basta; massimo un’immersione, ma non una corsa contro la sopravvivenza!
      Come papà aveva imparato ad accettare Clark come amico, anche io imparai ad accettare l’idea di averlo con me durante la spedizione. Mi lanciava di continuo frecciatine, e facce buffe; un modo per farmi ride. E ci riusciva bene. Se tutta andava bene, mi sarei anche divertita durante il viaggio con lui.

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Capitolo 6
*** 5. Amici ***


5
Amici


      Finalmente arrivò il dodici Giugno.
      L’ultimo giorno degli allenamenti. La mattina seguente dovevamo svegliarci presto, così papa ci fece terminare prima quelle che io definivo “torture dell’inferno”. Uscimmo verso le 7 di sera, il sole ormai era quasi calato, e il caldo della primavera-estate iniziava a farsi sentire in quei giorni. Sudati fradici, io e Clark ci salutammo all’entrata del cori doglio che portava alla mia camera. Ci augurammo la buona notte, e ci salutammo.
      Quando entrai nella mia camera, fu un sollievo sentire quell’aria fresca in contrasto con la temperatura elevata del mio corpo bagnato di sudore. Nel minor tempo possibile, entrai nella cabina-armadio, e presi un paio di shorts e una canottiera, e scapai in bagno. Aspettare che la vasca si riempisse richiedeva troppo tempo per me, così mi infilai nella doccia per una fresca e rapida doccia fredda. L’acqua contro la mia pelle appiccicosa di sudore era una goduria tale, da non volermene staccare mai.
      Uscii di malavoglia dalla doccia, e mi asciugai di corsa; dovevo ancora preparare le valige per la partenza, e dovevo sbrigarmi altrimenti avrei fatto tardi e avrei dormito poco. Alle 3 del giorno dopo dovevo essere fresca e pulita per la partenza. Ad accompagnarmi al porto di Cork sarebbero venuti con noi mamma, papà e Rosie. George purtroppo non sarebbe potuto venire per questione di spazio, ma aveva accettato di buon grado non venire. Guardai l’orologio a muro 7:24.
      Mi guardai in giro sconvolta. Vestita di corsa e con i capelli ancora bagnati. La testa mi girava vorticosamente, mancava poco che non caddi atterra, ma riuscii all’ultimo momento a sedermi sulla poltrona
      Clama Susan mi dissi Resta calma! Adesso chiami Rosie e mamma, così ti potranno aiutare.
      Mi alzai lentamente, ed aprii la porta. Corsi il cori doglio di corsa, in cerca di loro due. Trovai mamma in salotto, con la solita rivista di giardinaggio.
      «Mamma!» la richiamai dal balcone che dava sul salotto. Lei salto sul divano, e si voltò a guardarmi.
      «Tesoro, mi hai fatto prendere un colpo, accidenti!» esclamò, portandosi una mano sul petto.
      «Scusa. Dov’è Rosie? Dovete aiutarmi con le valige. Mi sporsi sempre di più in cerca della mia perenne badante.
      «Rosie non c’è» sintetizzò mamma «è ad aiutare Clark. Anche lui con le valige»
      «Ok» non demorsi «vai bene anche solo tu. Su, sbrigati!» le feci cenno di salire.
      «Arrivo, arrivo» disse scocciata dalla mia fretta. Posò il giornale sul divano dove poco fa era seduta, e salì di corsa verso di me. Corsi in camera mia, mamma era qualche passo più indietro di me. Entrai come un tornado in camera mia lasciando la porta aperta per far entrate mamma «Le valige sono sotto l’armadio del muro sinistro della cabina-armadio» disse entrando, e chiudendosi la porta alle spalle.
      «Cosa?» non capivo più niente, troppo stress. Stress?
      «Lascia stare. Le prendo io» si arrese, e andò nella cabina. Uscii dopo poco con due valige in mano. Erano entrambe di colore verde, una più grande, l’altra di poco più piccola. Le poggiò sul divano e le aprii di corsa. Avevo infettato anche lei con l’ansia della fretta.
      Io e mamma entravamo ed uscivamo dalla cabina per prendere tutti gli abiti possibili e li stendemmo in un grande mucchio sul letto. Quando finimmo, e la cabina era completamente vuota, ci mettemmo a discutere su quali cose mettere in valigia.
      «Estiva, mamma. Cose estive» dissi per l’ennesima volta, esasperata.
      «Sai quando vento soffia su una nave? No. Meglio i pesanti» non demorse.
      Alla fine ci mettemmo d’accordo. Nella valigia piccola mettemmo tutti gli indumenti estivi che avevo scelto, insieme allo spazzolino, spazzola, e roba del genere. In quella grande mettemmo –o meglio, incastrammo- abiti un po’ più pesanti, come jeans, cardigan, e magliette pesanti.
      Alla fine riuscimmo a mettere tutto apposto per le nove di sera, con mio grande stupore. Certo, la mia camera non era in uno dei suoi momenti migliori, abiti e scarpe dappertutto, ma le valige erano pronte, anche gl’abiti dell’indomani. Jeans, maglietta rosa, e scarpe comode; decidemmo di lasciare fuori anche un cardigan nel caso avessi freddo durante il viaggio, e vorrei far notare a tutti che: dovevo uscire di casa ed entrare in macchina; scendere dalla macchina e salire sulla nave; salire sulla nave ed andare in cabina.
      Ma decisi di non protestare, non per il mal di testa, ma per non occupare altro tempo.
      «Bene» disse mamma quando, per l’ennesima volta aveva aperto, ricontrollato, e richiuso le valige «è tutto pronto» si voltò verso di me.
      «Già» dissi con un sospiro «tutto pronto» ripetei le sue parole con un sospiro carico di malinconia.
      Mamma doveva averlo notato e mi chiese con un sorriso carico di affetto «Ma tu sei pronta?»
      «Io? S… sì. Non aspettavo altro. Finalmente parto…» ma non potevo mentire, soprattutto a mia madre, che capiva ancora prima di chiedere «No» dissi più a me, che a mamma.
      «Immaginavo» disse solo «Tu non sei costretta. Lo sai vero?» 100. La centesima volta che me lo sentivo dire.
      «Lo so, mamma. Ma… lo voglio fare, è che…» mi buttai di peso sulla parte del divano non occupata dalle valigie.
      «Che…?» domandò mia madre, sedendosi sula poltrona di fianco a me.
      Mi raddrizzai «Io non ho paura del viaggio, ho paura di lasciare casa. Il posto dove tutti mi vogliono bene. Ho paura di allontanarmi da qui. Per quanto tempo, poi? Non lo so nemmeno io. Il viaggio più lungo che ho fatto, è stato la gita di sei giorni con i miei amici» sbuffai.
      Mamma mi scrutò a lungo «È normale che tu lo prova, a dire la verità, avevo immaginato che era questo che ti turbava. Che poi, parliamoci chiaro, cosa accade di spaventoso su una nave?» finalmente lo avevano capito! «Ma vale lo stesso per noi qui. Da quando sei nata, queste mura di hanno sempre accolta, protetta. Come noi. Ma adesso non voglio dirti “Allora resta qui, con la mamma” no. Sarebbe sbagliato, troppo sbagliato, perché ho capito che tu lo vuoi davvero fare. Il motivo non lo so ancora, ma sono sicura che, conoscendoti, è più che valido, quindi, in conclusione ti dico… tranquilla Tesoro, andrà tutto bene, sia lì, da te, che qui, da noi. Sarà difficile non vedere un fulmine che saetta per tutta la cucina, ma sopravvivremo»
      Mi fece scappare un sorriso, poi l’abbracciai forte «Grazie» gli dissi stretta forte a lei «Grazie mamma» trattenni la lacrima che mi pizzicava per uscire. Restammo così, strette, in silenzio, per qualche minuto, poi lei sciolse l’abbraccio.
      Si asciugò una lacrima velocemente, e si alzò, sistemandosi «Su» iniziò «A nanna, forza. Devi svegliarti presto domani.
      «Ok» risposi, abbozzando un sorriso.
      Mamma uscì dalla camera augurandoci a vicenda la buona notte. Senza preoccuparmi delle urla di Rosie, buttai la montagna di vestiti ancora ammucchiati sul mio letto, per terra, e mi ci coricai.
      Prendere sonno fu estremamente difficile, continuavo ad aprire e chiudere gl’occhi, avevo come paura di addormentarmi. Ma non per gl’incubi, per qualcosa che nemmeno io riuscivo a spiegarmi. Ormai erano le undici di sera. Mi costrinsi a chiudere gl’occhi e non aprirli finché non mi fossi addormentata. Finalmente, il sonno arrivò, e io sprofondai in un mondo dove regnava la mia immaginazione, dove non c’era nessun filo logico, nessuna coerenza, nessun dolore alcuno. Soltanto felicità, gioia, divertimento. Vagavo per quel mondo sconosciuto, dove tutti erano spensierati, senza problemi. Come avrei voluto che quel mondo fosse stata la realtà, ma lei era difficile, dura da accettare, carica di scelte altrettanto dure, e altrettanto dolorose da prendere, ma che bisognava accattare.
      Mentre correvo, felice e spensierata per la mia immaginazione, qualcosa mi scosse, qualcosa che mi riportò al mondo reale, quello duro.
      «Susan» disse una voce «Susan. Svegliati, è ora»
      Mi alzai, barcollando ancora dal sonno «Susan!» la voce era sempre più insistente, scuotendomi bruscamente. Mi strofinai forte gl’occhi, per mettere a fuoco la figura davanti a me.
      «Susan, non costringermi a buttarti giù dal letto!» Rosie era in piedi di fronte a me, con le braccia conserte, fissandomi in cagnesco.
      «Sono sveglia, sono sveglia» mi affrettai ad alzarmi. Non ci tenevo a farmi ributtare giù dal letto, l’ultima volta era stato più che un brusco risveglio.
      «Bene» disse lei compiaciuta, e fiera dei sui rimedi.
      Guardai fuori, era ancora scuro. Poi spostati lo sguardo sulla sveglia. 3:23.
      «Tre e venti?!» sbottai irritata a Rosie «Io devo partire alle quattro! Non alle tre meno un quarto. Per arrivare al porto di Cork ci vogliono dieci minuti»
      «Sì, ma conoscendoti io e tua madre abbiamo deciso quest’orario. Preparati. Alla quattro meno venti devi essere preparata e giù in salotto» disse uscendo dalla camera, impedendomi di ribattere. Fissai per qualche minuto la porta dove lei era scomparsa.
      Era davvero arrivato quel giorno, il giorno della mia partenza, il giorno dove avrebbe avuto inizio la svolta della mia vita, dove sarebbe cambiato tutto. Sorrisi all’idea di non dover più sopportare quegli sguardi eloquenti da parte di tutti, dopo questo viaggio avrebbe avuto la scalata dove tutti mi avrebbero rispettato, ammirato forse.
      Estasiata da questi pensieri, mi precipitai in bagno a prepararmi. Denti, faccia, capelli. Uscii fuori e mi vestii il più velocemente possibile. Infilarmi i jeans aderenti fu abbastanza irritante, ma alla fine ci riuscii, infilai le scarpe e infine la maglietta.
      Presi le valige verdi di fianco alla porta, e le portai fuori. Lanciai un ultimo sguardo alla mia camera.
      La mia camera, sorrisi al pensiero di quante risate e pianti avevo fatto lì dentro, quanti rimproveri. Era illuminata dalla leggera luce bianca della luna, ma per me che la conoscevo come le mie tasche, era tutto limpido e chiaro. Si poteva provare tanta malinconia per una camera da letto? Non credo. Scossi la testa, come per scacciare quella sciocca malinconia, e chiusi la porta dietro di me, insieme ai ricordi.
      Percorsi il corri doglio velocemente, ma lanciando occhiate ad ogni mobile e sopramobile. Ognuno di essi mi ricordava la mia infanzia.
       Appena arrivai sul balcone che affacciava sul salotto, fidi tutti i miei amici, o parenti più cari. Mamma, papà, Rosie, George, nonno, Clark. L’ultimo mi sorrideva affettuosamente, mentre gl’altri mi fissavano con un sorriso sforzato, forse per non mostrarmi la loro malinconia, per non aggiungerla alla mia, già abbastanza pesante per le mie spalle. Mamma e Rosie stavano per scoppiare in lacrime, papà e il nonno le tratteneva, George invece le lasciava libere, dato che non avrebbe potuto farlo al porto.
      Scesi piano le scale, fissando gli scalini, impedendomi di guardare loro, altrimenti sarei stata una fontanella bella e buona. Clark venne subito a prendermi le valige. Sussurrai un «Grazie» con voce rotta.
      Alla fine cedetti, quando non avevo più nessuna scusa per guardare altrove, li fissai tutti, uno ad uno. A guardarli più da vicino, mi accorsi che nonno non era affatto malinconico, anzi, era entusiasta dalle mia partenza. Penserà che avrà una lunga vacanza senza canzoni e ritardi pensai. Mamma si arrese, e scoppiò in lacrime.
      Rosie di fianco a lei, si levò un fazzoletto dalla tasca, e glielo porse.
      Decisi che era meglio abbracciare per primo George, che non avrei portato con me al porto. Mi avvicinai piano a lui, continuando a fissarlo con un sorriso carico di affetto. Stavo per abbracciarlo, ma lui fece prima di me. Lo strinsi forte a me, cercando di memorizzare il suo odore. Sorrisi quando lo annusai, e profumava di basilico fresco. Il suo ingrediente preferito.
      Si staccò da me malvolendo e disse tra le lacrime «Adesso non avrò nessuno che mi metta a soqquadro la cucina» risi, trattenendo sempre le lacrime, con una risata malinconica, carica di tristezza.
      «Ciao George, ci vediamo tra qualche mese» la voce sempre rotta.
      «Io sarò qui» promise.
      «E quando torno, foglio trovare un piatto fumante di ravioli. D’accordo?»
      «D’accordo» disse ridendo. Ero contenta di avergli rubato una risata, almeno un pizzico di felicità lo avevo in quel momento carico di tristezza.
      Spostai lo sguardo su nonno, che mi fissava ancora con un sorriso.
      «Ciao nonno» e lo abbraccia.
      «Comportati bene, cara, fagli vedere chi sei» disse stretto a me. Quando ci staccammo, lo fissai sorridendo, ma incuriosita. Fagli vedere chi sei. Che avesse capito il mio “piano”? Nah, coincidenza.
      Guardai gl’altri. Papà e Clark era di fronte all’uscita, il più anziano tra i due teneva la porta aperta. Mamma stava ancora asciugandosi le lacrime, e Rosie aveva iniziato a tamponarsi gl’occhi con un altro fazzoletto.
      «Siamo pronti?» mi chiese papà, con la maniglia ancora stretta in mano.
      Annui fortemente con il capo. Quello non era il momento giusto per avere ripensamenti. Il più piccolo poteva farmi cambiare idea all’istante, quindi tenni la mente vuota mentre usciva dalla porta principale, lasciandomi alle spalle George in lacrime, e nonno tutto contento della mia partenza. Due anziani signori con il carattere completamente opposta tra loro. Clark era davanti a me che mi portava le valige. La Nissan Qashqai bianca di papà era parcheggiata di fronte casa, pronta a superare lo sterrato che portava verso il cancello principale, fuori casa.
      Sentii papà uscire subito dopo di me, e superarmi per posizionarsi al posto di guida dell’auto. Mamma e Rosie furono le ultime ad uscire. Clark aprii il cofano posteriore, e posizionò le mie valige di fianco alle sue, già caricate. Fuori faceva più caldo del solito. Tutto sommato, era o non era il 16 Giugno? Le tenebre regnavano indisturbate. La maglietta cominciava a darmi fastidio, mi irritava. Volevo strapparmela di dosso fregandomene di tutti quelli che mi guardavano.
      Bloccai il mio desiderio.
      Mi voltai a guardare la porta ancora aperta. George stava uscendo, seguito a ruota da nonno. Non appena mi vide, sobbalzo e mi sorrise di nuovo.
      Quanti sorrisi falsi. Sorrisi che nascondevano malinconia e tristezza, con felicità forzata. Quanti ce ne erano già stati quella sera? dieci? venti? E, quanti ce ne sarebbero ancora stati? Loro credevano di illudermi con la loro “felicità”, credevano di farmi credere che loro erano felici della mia partenza, provavano anche ad incoraggiarmi. Non riuscivo a credere che lo stessero facendo per davvero? Mi credevano scema o cosa? Probabilmente soltanto nonno, lì in mezzo, era davvero felice della mia partenza, che fosse felicità per il primo viaggio della futura ereditaria della famiglia Dawson, o per la tranquillità in casa non appena sarei salita sulla nave, non lo sapevo ancora, ma lui era felice.
      Sorrisi di rimando, cancellando i miei pensieri, impaurita che lui potesse coglierli, e salii sull’auto bianca. Mamma era al posto del passeggero, di fianco a papà, Rosie dietro di lui, di fianco al finestrino spalancato, stava morendo soffocata dall’ansia, Clark al centro e io di fianco a lui, dietro mia madre. Quando il cancello si aprì, sussultai da uno spavento innocuo, inutile. Aprii il finestrino, e mi sporsi per guardare per l’ultima volta prima di un paio di mesi, mio nonno e il capo della servitù.
      George mi salutò con la mano, nonno si limitò ad urlare un «Ciao»
      Mentre attraversavamo il cancello, sospirai profondamente quell’aria, l’aria di casa mia. Guardai malinconica fuori. Eravamo usciti definitivamente da Dawson Manor. Mi sporsi sui sedili per guardarmi dietro.
      I cancelli si stavano chiudendo, alti con aria possente. Dietro di loro lo sterrato, circondato dai verdi giardini dove avevo giocato per intere giornate quando era più piccola. Alla fine di esso, gli scalini che portavano alla porta di ingrasso, che in quel momento si stava chiudendo. La Dawson Manor assomigliava molto ad un castello medievale nano. Era piccola e tozza, con la forma di un esagono regolare. Al fianco destro due torri di altrettanta forma, leggermente più alte della casa, dietro, impossibile da vedere, c’era una serra coltivata da mamma, e una struttura rettangolare, la palestra, giardini ed una piscina di forma ovale.
      Quelle mura mi sarebbero mancate moltissimo, la mia casa, la casa dove ero cresciuta, dove era stata educata e rimproverata per i mille guai combinati quando ero piccola.
      Quando mi accorsi di essere stata troppo a guardare, e la malinconia era aumentata, mi misi a sedere correttamente. Guardai gl’alberi fuori, illuminati da una soffice luce bianca, quella della luna. La luna, l’unica cosa che mi sarei portata dietro che mi potesse ricordare la mia stanza, quando la notte mi svegliavo, uscivo fuori, e la fissavo a volte per ore, senza mai annoiarmi.
      Clark, osservando la tristezza del mio volto, mi afferrò la mano. Lo guardai prima attonita, poi sorrisi, il primo sorriso vero della giornata, e mi poggiai sulla sua spalla. Almeno lui sarebbe rimasto con me. sarebbe rimasto fino alla fine del viaggio. O forse fino alla fine e basta, perché sapevo che lui era importante per me, sapevo di provare qualcosa per lui, e lui provava qualcosa per me, ma non lo dicevo per paura. Paura della reazione di mio padre, mia madre la avrebbe accettata di buon grado, e forse papà, col tempo, avrebbe capito. Ma nonno? Nonno non l’avrebbe mai accettato. Per lui il sangue era tutto. Una Dawson con una ragazzo della servitù era un sacrilegio.
      Mi ricordava Voldemort, in un certo senso, fissato con l’estinzione dei mezzosangue.
      Il viaggio sembrò non finire mai, anche se guardando l’orologio, erano passati circa 10 minuti buoni, come aveva detto Rosie stamattina. Alla fine, arrivammo al porto. Esso era pieno di persone pronte a partire, o a salutare. Era facile distinguerli. Quelli che partivano avevano una valigia stretta tra le mani, quelli che salutavano, un fazzoletto che tamponava gl’occhi ricoli di lacrime. Almeno non saremo stati gl’unici a piangere quel giorno. Ma le persone della spedizione piangevano? Non ne ero certa, ma io lo avrei fatto, ne ero sicura.
      Scendemmo dall’auto tutti contemporaneamente. Clark mi lasciò istintivamente la mano quando vide scendere anche mamma. Papà aprì il cofano e scese la valige, per poi richiuderlo. Si guardava in giro, scrutando ogni singola persona.
      Ovviamente non si sentiva affatto bene, pensando di lasciarmi sola, insieme a Clark, con tutti quegli sconosciuti. Anche se lo capivo, la cosa mi irritava leggermente.
      Raccolsi le mie valige, e scrutai in giro, anch’io in cerca di qualche faccia conosciuta, oppure quella di zia Jas. Nulla. Mi voltai verso mamma che era indaffarata a guardarsi anche lei attorno, e parlare con Rosie. Papà stava parlando al telefono, forse con zia. L’unica persona che mi rimaneva, era quella che mi aveva confortato durante tutto il tragitto in auto.
      Clark, come tutti, scrutava un paio di persone. Mi avvicinai.
      «Agitato, eh?» dissi, spostando anche io gl’occhi sulla marea di gente.
      «Io? No, per niente. Affatto. Sono tranquillo» dal tono della voce capii che mentiva spudoratamente. La cosa mi fece capire che forse era ancora più agitato di me, dato che lui sapeva mentire benissimo.
      «Si, certo» lo guardai ghignando.
      «Ok, forse un pochino» si arrese, con un sorriso divertito.
      «Io tanto» confessai, impaurita sempre di più. In lontananza, vidi altre auto arrivare, cariche di gente che scendeva e, come noi, si scrutava in giro. Come prima, era facile capire chi partiva e chi restava. Spostai lo sguardo sull’orologio da polso di Clark. Erano le 4:03. Avevamo fatto leggermente tardi, ma visto il carico di gente sul porto, iniziai a credere che zia Jas mi avesse dato un orario anticipato a quello della partenza, per accettarsi che lo prendessi.
      «Tesoro» mi richiamò papà. Mi voltai a guardarlo, aveva appena chiuso la chiamata «Zia Jas sta arrivando. Dovrebbe essere qui fra 5 minuti»
      «Ok» iniziavo a sudare freddo, e il rumore di sottofondo della gente non aiutava a calmarmi di certo. Forza, Susan Mi incoraggiai da sola. Mi torturavo le mani tremanti dall’ansia, spostando lo sguardo su ogni individuo che si muovesse, pensando che fosse mia zia.
      «Ti va di sederti? Così ti tranquillizzi un po’» mi chiese Clark, preoccupato dal mio nervosismo. Acconsentii con il capo, e lui mi aprii la portiera dell’auto. Io mi ci sedetti comodamente, senza staccare lo sguardo dalla folla. Mi sentivo opprimere, come se fossi stata chiusa in un sacco enorme, e che esso, pian piano, mi stringeva sempre più forte, fino ad impedirmi di compiere anche il più minimo dei movimenti.
      Sedermi mi aveva tranquillizzata come un leone di fronte ad un fucile. Ero calma, ma in allerta, attenta a tutto quello che succedeva in torno a me. Al discorso di mamma e Rosie, si era unito anche papà adesso. Preferii non ascoltarli, pensando che fosse qualcosa di negativo, o almeno, negativo per me.
      Vidi un’altra auto arrivare. In realtà, ne arrivarono due contemporaneamente, ma mi soffermai a guardarne una sola. Era un SUV nero lucido, sembrava molto possente dalla sua stazza, e dal suo interno, uscì un ragazzo altrettanto possente. Muscoloso, con capelli neri e ricci, o almeno così sembrava dalla lontananza che mi trovavo io. Dal SUV uscì un’altra ragazza, alta, snella, con capelli lunghi e lisci, forse biondi. Si appartò di fianco al ragazzo muscoloso, che scese le loro valige dall’auto. Vidi che non c’era nessuno con loro, e pensai che soltanto uno dei due partisse, ma quest’idea fu scartata non appena vidi scendere da lui ben cinque valige, due nere lucido, come l’auto, e tre rosa pallido.
      I due si guardarono intorno, in cerca di qualche loro conoscenza. Fissai insistentemente l’uomo. Era un viso familiare, ma non riuscivo a ricordare chi fosse. Un amico o collega di papà? No, troppo giovane. Prima che potessi formularmi un’altra domanda, mi vide che lo fissavo. Distolsi subito lo sguardo, pensando che lo avessi infastidito, ma continuando a scrutarlo con la coda dell’occhio. Mi scrutò per bene anche lui, poi disse qualcosa alla ragazza di fianco a lui, che mi guardò anche lei. Lui sorrise, e prese le due valige nere, e una rosa, e si incamminò nella mia direzione, seguito a fatica dalla ragazza.
      Iniziai a pensare che volesse chiedere indicazione sul viaggio. Percorse il tratto di strada che ci divideva in grandi falcate, e ci raggiunse in poco tempo. Poco dopo arrivò anche la ragazza, ansimante per lo sforzo di stargli dietro.
      «Susan? Susan Dawson?» chiese l’uomo muscoloso –la cui stazza metteva ancora più paura visto da vicino.
      Pensai che fosse qualche altro fan «S-sì?» chiesi timidamente. Clark, scrutò l’uomo, e si avvicinò a me.
      «Non ti ricordi di me?» disse con la sua voce dura e fiera, completamente degna del suo fisico. Scrutai tra i miei ricordi, in cerca di un viso familiare, un parente lontano, forse «No, ci conosciamo?» chiesi di rimando, alzandomi. Lui era circa tre volte me, mi superava in altezza di circa dieci centimetri.
      «Mi deludi» fece un’espressione offesa, poi continuò «… mignolo»
      Mignolo. Non appena udii quella parola, mi venne subito alla mente il ragazzo, ormai uomo da quello che potevo vedere, dai miei ricordi «Damon? Damon Maunstin? Sei quel Damon? La montagna?» domandai, illuminandomi con un sorriso.
      «Proprio io» disse con fare fiero, allargando le braccia per farsi vedere meglio. Era un mio compagno del college, per tutti gl’anni che avevo passato lì. Mi aveva soprannominata “mignolo” per il mio corpo, e io “montagna” per il suo. Era sempre stato muscoloso, ma non come lo era adesso. Mi faceva quasi paura.
      «Dam!» esclamai, abbracciandolo forte, pensando che lui non sentisse le mia braccia, sotto quell’ammasso di muscoli.
      «Susy! Da quanto tempo è che non ci si vede, eh?» disse stringendomi a se. Lui si fece sentire e come, con la sua forza incredibile su di me.
      «Tanto» dissi allontanandomi da lui. Alla fine del college, ci promettemmo di rivederci e festeggiare gl’anni passati insieme ad Oxford. Sin dal primo giorno avevamo fatto amicizia, perché anche se l’aspetto possente lo tradiva, era molto dolce in fondo, e mi proteggeva sempre.
      «Susan, voglio presentarti la mia ragazza. Violet» disse indicando la ragazza snella di fianco a lui.
      «Violet Sketler. È un vero piacere conoscerti, Susan. Damon mi ha parlato di te qualche volta» disse lei, con voce fragile ma sicura di sé, porgendomi la mano.
      La afferrai e la strinsi «È un piacere anche per me conoscerti» confessai «Lui è Clark Forester. Un mio amico» e spinsi Clark, di fianco a me.
      «Amico?» ripeté Damon, afferrando la mano di lui «Piacere Clark»
      «Piacere Damon» disse semplicemente lui, poi si presentò anche a Violet.
      Il viaggio sembrava farsi sempre più interessante…

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Capitolo 7
*** 6. Starlight ***


eccoci al sesto capitolo. spero molto che fino ad ora la storia vi piaccia. vi prego di recensionare perchè l'ansia mi sta' letteralmente divorando D:
adesso vi lascio al capitolo
spero vi piaccia xD

Matt

 



6
Starlight


      «Tesoro? Con chi parli?» mamma sbucò dal retro della macchina, guardando incuriosita i due.
      «Mamma, ti ricordi di Damon?» lo indicai.
      Lei si avvicinò, guardando per bene, poi ci pensò un secondo «Ma certo. Damon. È una vita che non ci si vede. Mi fa piacere rivederti. Come stai?» disse entusiasta lei, afferrandogli la mano, e scuotendola velocemente.
      «Bene Signora Dawson, e voi?» domandò di rimando.
      «Tutto bene, grazie. E questa graziosa ragazza chi è?» si sporse dietro l’enorme Damon, per guardare Violet, che subito gli porse la mano.
      «Sono Violet Sketler. La fidanzata di Damon» disse, fiera delle sue parole.
      «Oh, piacere, piacere cara» strinse anche a lei la mano «Richard? Richard tesoro, vieni qui» lo chiamò, alzando di poco la voce.
      Poco dopo, papà sbucò da dove era uscita prima mamma, con dietro di sé Rosie «Cosa c’è»
      «C’è Damon, caro. Damon Maunstin. Andava al collega con Susan, e anche la sua fidanzata»
      «Oh» esclamò lui, e gli porse la mano «È un vero piacere conoscerti, Damon, tu e…»
      «Violet, signore» papà strinse prima la mamo a Dam, e poi a Violet, che dopo avergli fatto gli ormai noti complimenti per il suo lavoro, guardarono incuriositi Rosie. Accorgendosi dei loro sguardi, gli porse subito la mano.
      «Oh, scusate. Sono Rosie Liber. La badante di Susan»
      Dopo essersi conosciuti un po’ meglio tutti quanti, Damon ci raccontò che lui e Violet si erano conosciuti poco dopo la fine del college, e che a lei affascina l’esplorazione, e voleva assolutamente farne una. Infatti, a giudicare dal volto della ragazza, si vedeva che era super emozionata, e che non stava nella pelle di imbarcarsi. Beata lei. Era venuto a sapere di questa spedizione, e aveva contattato immediatamente zia Jas per due posti sulla nave.
      «E come avete fatto ad entrare? Insomma, i posti, come li avete ottenuti?» chiese papà, incuriosito dall’ultima parte della storia.
      «Abbiamo pagato la signora Jasmine» rispose Damon, cauto.
      «Lautamente» aggiunge Violet di fianco a lui. Feci una smorfia quando lo disse.
      Damon restò a parlare di qualcosa che non capii con i miei genitori e Rosie. Violet preferì restare da sola, a curarsi le unghie. Io rimasi di nuovo da sola con Clark, nella posizione di prima. Io seduta sul sedile del passeggero, e lui di fianco a me. Scrutava sempre più impaziente la zona, picchiettando nervosamente il piede sul suolo. Adesso capivo cosa voleva dire mamma, quel giorno che aspettavo la telefonata.
      «Clark» lo richiamai in un sussurro, scocciata. Anche io ero nervosa, anche se non lo davo a vedere.
      «Cinque minuti, eh?» disse nervosamente, guardandosi l’orologio al polso.
      «Sarà in ritardo» dissi con naturalezza, osservando la folla sempre più carica di gente dal parabrezza.
      «Di un quarto d’ora?»
      Sbuffai «Ma cosa vuoi che ti dica?»
      Clark si zittì, ma non smise di sbattere il piede atterra. L’attesa uccideva anche me, ma cercavo di non darla a vedere. Mamma e Rosie si erano rilassate, Violet se ne fregava “lautamente”, papà era molto preoccupato dal ritardo di zia Jas, anche io mi ricordavo che era sempre puntuale, Damon ancora dovevo capirlo, non si lasciava sfuggire nessuna espressione dal volto. Spostai lo sguardo di nuovo sulla folla, e il sacco attorno a me, si strinse di più.
      Come ad esaudire il desiderio di Clark, la chioma bruna acceso di zia Jas sbucò dal parabrezza di fronte a me. Camminava con eleganza verso di noi, con il suo fisico da quindicenne, benché ne avesse quasi quaranta. Il volto che mi ricordava la forma di un cuore, capelli mossi, le labbra sottili, con un perenne sorriso disegnato su di esse. Quel giorno aveva raccolto i capelli in un alto chignon.
      «Papà» lo richiamai. Lui si piombò subito al mio fianco, facendo scansare Clark.
      «Cosa c’è tesoro?»
      «È arrivata» dissi indicando zia dal parabrezza. Lui alzò gl’occhi, e quando la vide, il suo volto si illuminò in un sorriso a trentadue denti. Si scansò, e corse subito da lei ad abbracciarla. Era da circa otto mesi che non si vedevano, papà e zia Jas. Avevano fatto un’esplorazione loro e mamma, in Australia, e lei gli aveva detto che per qualche mese non si sarebbe fatta vedere per problemi di “affari”, o almeno così aveva detto lei. Era normale da parte sua, lo faceva sempre per un mese, massimo due, ma lo faceva, quindi non gli avevamo dato peso.
      Papà e zia Jas, tra i quattro figli di nonna Lily e nonno Victor, erano i due fratelli che se vedevano di più nel giro di un anno. Zio Arthur e zia Angela erano sempre in viaggio. Lui non restava mai più di tre mesi nella stessa parte, traslocava in continuazione; lei invece era sempre fuori in viaggio, non si fermava mai. E purtroppo per noi, spesso si portavano dietro l’intera famiglia. Già, anche mogli e figli. Anche mia madre è un’esploratrice provetta, ha fatto qualche spedizione con papà, a volte tutti e tre –come quella in Africa-, e a volte da sola. Da non crederci, eh? In effetti, non sembra affatto un’avventuriera, ma, come diceva lei “Con la famiglia Dawson, o ti adegui, o muori”
      Ma tranquilli, quel “O muori” si intende che diventi antipatico a nonno, e che ti tormenterà per il resto dei tuoi giorni.
      Scesi dall’auto, pronta a salutarla. Prima di me, la abbracciò anche mamma, poi arrivò il mio turno.
      «Susy! Nipote cara, vieni qui ad abbracciarmi» disse, quando mi vide.
      Mi precipitai ad obbedire. Era la mia zietta preferita, con lei potevo condividere tutto. Quando stavamo da sole, giocavamo come due bambine di cinque anni, senza mai stancarci. Vederla partire era un pugno dritto nello stomaco, specialmente quando con lei partivano anche mamma e papà.
      «Mi sei mancata, zia» dissi stretta a lei.
      «Anche tu, Susy» rispose, scansandosi e posandomi le sue mani bianco marmoreo sulle spalle. Si sporse per vedere chi c’era oltre a noi.
      «Salve, Rosie. È un piacere rivederti» salutò la mia badante con la mano.
      «È un piacere anche per me, Signora Dawson» la salutò anche lei con un cenno della mano.
      Zia si allontanò da me, e si avvicinò a Clark, porgendogli la mano «Tu devi essere Clark Forester, giusto?»
      «Giusto» gli strinse la mano con sicurezza «È un piacere rivederla, Signora»
      «Oh, anche per me caro» si voltò, continuando a stringergli la mano, e mi fece l’occhiolino. Sorrisi imbarazzata.
      «Voi siete…?» disse sporgendosi a Violet e Damon, che per tutto il tempo erano rimasti immobili ad osservare zia Jas.
      «Oh, Damon Maunstin, Signora» gli porse la mano enorme.
      «Ah! Voi siete i due che…» lasciò in sospeso la frase, in modo da lasciar capire loro e lei, ignora del fatto che lo sapevamo anche noi della loro “mazzetta”, e gli strinse la mano, per poi stringere quella di Violet, che si presentò con il suo fare fiero. Stranamente, stavo già sviluppando un’antipatia in quella ragazza.
      «Vogliamo andare?» chiese indicando con entrambi le mani, la massa di persone. Acconsentimmo tutti, senza dire niente. Afferrai le mie valige, e la seguii a ruota.
      Ci avvicinavamo sempre di più alla marea di persone. Il casino si faceva sempre più forte, a tal punto da dover urlare tra noi per farci capire l’uno tra l’altro.
      Entrammo nella folla. Mi voltai a cercare Clark, che era dietro di me. Gli porsi una mano, facendogli capire che doveva afferrarla e non lascarla. Avevo paura di perderlo tra tutte quelle persone, o di perdere me. Lui l’afferrò, e la strinsi forte. Nell’altra tenni salda la maniglia della valigia.
      Camminavamo in fila indiana. Zia Jas in testa, seguita da papà e mamma, che si tenevano la mano e portavano una mia valigia, Rosalie, che ne portava una di Clark, io e lui, e infine, Damon e Violet a chiudere la fila. Mi guardava ogni secondo dietro, per assicurarmi che lui fosse lì, benché gli stringessi la mano.
      La prudenza non è mai troppa mi giustificai.
      Ci furono spintoni e contro spintono, a tal punto da farmi quasi arrabbiare. Se avessi avuto un bastone, o qualcosa del genere, li avrei fatti smettere di spingere come si deve.
      La persone che in quel momento si trovava di fianco a me, emise un urlo di gioia «Cosa diavolo ti urli?!» sbottai molto irritata verso di lui. L’uomo si voltò verso di me, incuriosito. Era pronto a rispondermi di malo modo, ma si fermò quando vide chi ero.
      «Scusi Signorina Dawson» si scusò subito, abbassando il capo.
      «Essere famosi ha i suoi vantaggi» dissi quando l’uomo non ci avrebbe potuto sentire –con quel casino, anche a un metro di distanza non ci avrebbe sentito.
      Clark rise alla mia battuta.
      Vidi papà scambiare qualche parole con Jas. Non urlavano come facevano prima, se lo sussurravano all’orecchio.
      Affari pensai parlano sempre di quelli!
      Continuavamo a camminare tra la folla. Stringevo sempre di più la mano a Clark man mano che ci addentravamo all’interno della massa. Sembrava che camminassimo da ore a giudicare dalla fatica che facevamo per camminare lì. Per facilitarmi la cosa, pensai di scrivere un cartello con scritto «La famiglia Dawson sta’ passando di qui, levatevi dai piedi!» quando lo dissi a Clark, rise ancora più forte di prima, si stava quasi piegando in due dalle risate. Io pensavo davvero di farlo.
      «Eccoci!» sentii urlare forte da zia Jas.
      Finalmente! Pensai stremata dalla fatica della camminata. Alzai la testa per controllare dove fossimo.
      «Oh cavolo!» eravamo alla fine del porto, a circa un metro dai miei piedi riuscivo a vedere il mare, nero dalla poca luce della notte che regnava per poco ancora, sotto il cemento. Poco più avanti si innalzava la nave. Enorme, a mio parere. I fari giallo accesi del porto, risaltavano il rosso vivace della nave, da dove eravamo noi si vedeva la prua. Sul fianco destro di essa si riusciva a leggere la scritta «STARLIGHT» bianco su rosso, a caratteri enormi. Più in là, alla nostra sinistra, si innalzava un ponte mobile che connetteva il porto alla nave. Restai sempre più sbalordita dalla grandezza di quell’ammasso di ferro che galleggiava nell’acqua.
      «È enorme!» sussurrai.
      Pensai che nessuno lo avesse sentito, dato il casino, ma papà mi rispose «Dovresti vedere quella di nonno, allora» mi sussurrò all’orecchio.
      «Quella di nonno?! Ne abbiamo una noi?!» chiesi sgranando gl’occhi.
      «Si, la Dawson’s, ovviamente» disse pacato.
      «La Dawson’s?!» ripetei quel nome, guardando stavolta mamma, che acconsentì con il capo. Oddio pensai abbiamo una nave, e nessuno me lo aveva mai detto?!
      Mi promisi di farci un giro qualche volta, prima o poi dovevo farlo no?
      «Venite» la voce di zia Jas mi portò via dai miei piani futuri «sarete i primi a salire, che onore, eh?» disse scherzando.
      Tornai a guardare l’ammasso rosso che galleggiava. Adesso che lo vedevo, mi sembrava ancora più grande, ed una paura improvvisa mi pervade dalla punta dei capelli, alle unghie dei piedi. Papà mi posò di fianco la valigia verde, sorridendomi. Gli sorrisi in risposta, e presi le due valige. Tirai due sospiri profondi.
      Stupida! 20’anni e hai paura di salire su una nave! Mi rimproverai da sola, e di recente lo facevo sempre più spesso, e credetemi, non è mai un buon segno.
      «Susan, aspetta» ringraziai mentalmente mia madre per avermi fatto tenere i piedi al suole per quanto più tempo possibile ancora.
      Mi voltai verso di lei, che si avvicinò. Pensai che volesse salutarmi un’altra volta e mi preparai, invece, mi afferrò il braccio e ci legò qualcosa.
      Squadravo il braccialetto al mio braccio destro. Era abbastanza semplice. Era una catenina argentata, con un ciondolo che penzolava dello stesso colore, su di esso, c’era inscritta la lettera D Dawson pensai istintivamente. Sarà perché era semplice, e a me piacevano le cose semplici, o per il legame emotivo legato ad esso, ma a me sembrò bellissimo. Continuai a fissarlo con gl’occhi lucidi.
      «Era di tua nonna Lily» disse papà, che si era avvicinato.
      «Lo aveva dato a me, quando io e tuo padre ci siamo sposati. È un cimelio di famiglia. Lei voleva che te lo dessi quando saresti stata pronta ad affrontare il peso del tuo nome, e beh, mi sembri pronta» papà le cinse la vita con un braccio «e così potrai ricordarti di noi durante il viaggio»
      Erano rimasti tutti e guardare la scena, me per me era come se non ci fossero «Grazie. È bellissimo. Grazie» e li abbracciai entrambi, forti. Non volevo dimenticare quel momento. Guardai il bracciale, come se ci stessi conservando dentro quel momento.
      «Non vorrei affrettarvi» ci richiamò zia «ma la nave parte alle cinque»
      «Certo» dissi asciugandomi le lacrime agl’occhi, strofinandoli con forza vicino al polso. Corsi da Rosie, che ormai piangeva a dirotto, e la abbraccia, salutandola. Tornai a prendere le valige, e mi avviai al ponte mobile. Non volevo guardare dietro di me, non dovevo. Sarebbe stato troppo doloroso. Clark si parò di fianco a me, poggiandomi una mano sulla spalla per consolarmi.
      «Tutto bene?» chiese imbarazzato, come se avesse paura di rovinare quel momento.
      «Sì, sì. Tutto apposto» e mi asciugai l’ultima lacrima che mi scendeva calda sulla guancia.
      Damon e Violet, erano già saliti sulla nave quando mamma mi aveva dato il cimelio, forse glielo aveva chiesto lei, o forse lo avevano capito da soli. Poco importava. Mi parai ferma si fianco al ponte, guardandolo terrorizzata. Zia Jas aggirò me e Clark per salire. Ci rivolse un sorriso, prima di sparire oltre la porta.
      Feci cenno a Clark di salire per primo «Sicura?» mi chiese, scrutando la mia espressione.
      «Sì, certo. Va» lo incitai a salire. Avevo bisogno ancora di qualche secondo sulla terra ferma, per pensare forse, non lo sapevo, ma volevo restarci.
      Salendo su quel ponte, sarei salita sulla nave, che mi avrebbe portato via per solo Dio sa’ quanto tempo, via da casa, dai miei genitori, da tutto. Ormai non volevo tornare indietro, mi era ripromessa di non avere ripensamenti, ma per mia sfortuna, erano arrivati da soli. A peggiorare le cose, era arrivato il cimelio. Lo guardai. Sembrava che mi stesse dicendo «Resta, Susan. Resta qui, dove tutti ti vogliono bene» che tutti mi volessero bene ne ero certa, ma affrontando quel viaggio avrei aperto una porta che portava al rispetto della mia persona da parte di tutti, e soprattutto da parte mia. Mi voltai a guardare i miei genitori e Rosie. Papà cingeva ancora la vita a mamma, che teneva stretta la mano di Rosie. Mi guardarono con uno di quei sorrisi che si fanno in quei momenti. Carichi di affetto, incoraggiamento, malinconia, tristezza.
      Basta! Voltai di scatto la testa, impedendomi di guardarli. Feci un paio di respiri profondi, e mi parai di fronte al ponte. Lo guardai fino a salire in cime, come se lo stessi percorrendo con gl’occhi. In cima c’era Clark che mi aspettava, serio, senza nessun sorriso sulle labbra. Sapeva che partire per me era più che triste, e che un sorriso falso non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. Apprezzai il suo gesto. Posai una mano cautamente sulla ringhiera di legno del ponte. Una scarica partì dalla superfice liscia, fino ad arrivare alla mia schiena.
      Un ultimo respiro profondo, e mi incamminai sul ponte mobile, lentamente, passo dopo passo, allungando anche di un solo inutile secondo prima della mia partenza. Anche se non li vedevo, sentivo lo sguardo di mamma, papà e Rosie puntato addosso. Io, di conto mio, per impedire ogni altro peso malinconico, tenevo la testa bassa. Vidi che gli scalini bianchi erano finiti, lasciando spazio ad un pavimento di legno chiaro. Alzai il capo, e mi trovai Clark di fronte, stavolta con un sorriso debole. Anche lui era triste di partire, come me, ma lo faceva, e lo avrebbe fatto un miliardo di volte, solo per stare con me. Non smettevo un secondo di ringraziare Dio, per avermi mandato una persona tanto speciale.
      «Eccovi» esclamò zia, sbucando da uno dei portelloni. Sussultai dallo spavento «Venite» ci vece cenno di entrare, scansandosi.
      Entrammo nel portellone, abbassando la testa per non sbattere con il ferro duro e bianco. Entrammo in un corri doglio completamente bianco, di tanto in tanto dalle pareti sbucavano porte dello stesso legno che dominava il pavimento sotto i nostri piedi. Le luci altrettanto bianche risaltavano il bianco già lucido della parete fredda, e del legno chiaro delle porte. Mancavano le nuvole per assomigliare ad un paradiso bello e buono.
      «Da questa parte» disse zia Jas, superandoci ancora. Si incamminò tra quei corridoi. Io e Clark la seguimmo ruota, per non perderla. Se per caso ci fossimo persi in quei corridoi tutti identici fra loro, saremo morti come due in un deserto. A distinguersi gl’uni da gl’altri, all’inizio di ogni nuovo angolo, c’erano cartellini con su inciso il numero della cabine presentì tra un tratto e l’altro. Se svoltammo due o tre volte, prima che zia Jas si fermò a guardarci prima di girare.
      «Ci siete?» ci squadrò, come per assicurarsi che non avessimo perso un arto mentre arrivavamo lì. Sul cartellino giallo scuro, c’erano scritte in nero i numeri «ottantacinque-novantadue»
     Arrivammo ad una porta con scritto ottantasette in nero, per metterli a contrasto con il legno chiaro «Eccoci!» squittì zia Jas, porgendomi una chiave argentata, con un portachiavi rettangolare, dello stesso legno della porta, con inciso il numero ottantasette.
      «A voi gli onori di casa» disse scherzosa «Adesso scusatemi ma devo andare ad accogliere tutte le persone prima della partenza» detto questo, sparì tra i corridoi bianchi.
      «Che ore sono?» chiesi rivolta all’unica persona, oltre a me, in quel corridoio bianco. Quasi mi accecava.
      Si vide il polso, e poi mi rispose «4 e mezza»
      «Dobbiamo sbrigarci» dissi inserendo la piccola chiave argentata della serratura. Volevo trovare un posto a prua per salutare i miei prima di partire, era di vitale importanza per me in quel momento. Clark non chiese il perché, supposi che lo avesse capito.
      Girai la chiave, e il meccanismo della porta si mosse. Girai la maniglia, e la aprii.
      «Cavolo» esclamai, quasi divertita alla vista della cabina. Era tutta bianca, come i corridoi, c’era un oblò proprio di fronte alla porta, con sotto di esso, una scrivania di legno. Sulla parete sinistra si trovavano due brande con il materasso arrotolato su di esse, insieme alle lenzuola azzurre; a dividerle c’era una porta, pensai che portasse al bagno; di fronte ai letti c’era un armadio, sempre di ferro bianco. Sia esso, che il resti della mobilia, erano fissati saldamente atterra –il solito legno chiaro-.
      Poggiai le valige in un angolo, e aprii la porta bel bagno. Esso era un rettangolo, su un lato il water, sull’altro la doccia a muro, di fianco alla porta c’era un lavandino, con su di esso appeso uno specchio. C’era un comodino di legno –sempre fissato al pavimento di legno- di fianco alla porta.
      «Apprezzabile, no?» sentii Clark nell’altra stanza entrare e poggiare le valige di fianco alle mie.
      «Sì. E forse anche di più» dissi entrando. Stava squadrando per bene la scrivania, aprendo e chiudendo i cassetti per controllare che non ci fosse niente forse.
      Ci voltammo entrambi verso le brande, ancora da sistemare «Tu ti metti vicino alla porta, vero?» indicai il letto.
      «No!» sbottò lui. Entrambi ci lanciammo sul letto vicino alla scrivania, lontano dalla porta.
      «È mio!» ruggii, arrampicandomi sulla branda, spingendo via Clark.
      «Te lo scordi tesoro» si alzò, e mi alzo per le spalle, alzandomi da terra per qualche secondo, per poi ripoggiarmici lontano dal letto tanto desiderato.
      Mi voltai verso di lui, che si stava sedendo sulla branda, rincuorata da una sete di vendetta.
      Mi ci ributtai sopra, quella branda doveva essere mia, avevo il terrore di dormire di fianco alla porta, ma sperai che lui non lo avesse ancora capito, e che non lo facesse ma «Tu devi lasciarmi dormire qui» urlai, dimenandomi dalla sua presa, che mi riportò di nuovo lontano da lui.
      «E perché dovrei?» si allontanò, stavolta in posizione di difesa, pronto a scrollarmi via di dosso.
      Pensa Susan, pensa «Perché tu devi difendermi e… e proteggermi»
      Mi guardò come se fossi una pazza «Difenderti?» ripeté «Difenderti e proteggerti da cosa? Il fantasma della nave?» mi insultò. Adesso lo aveva capito di sicuro che avevo paura di dormire sull’altro letto.
      «Non so se esista, ma sì» Non so se esista, ma sì? Che razza di risposta è? In effetti era alquanto squallida, ma dovevo giocare le mie carte migliori.
      Sui squadrò per bene prima me, poi alternò lo sguardò tra la porta e il letto. Sperai di averlo convinto, e ci riuscii. Poco dopo si arrese «E va bene» disse sbuffando.
      «Sì!» urlai estasiata, lanciandomi di peso sulla mia branda, appena conquistata e quindi meritata. Clark mi fissava sorridendo, divertito dalla mia reazione. Dovevo sembrare una di quella bambine che lottano per avere il posto alto nel letto a castello di un hotel. Credetti di arrossire, ma non ne fui del tutto certa. Mi alzai, e sistemai la mia branda, prima con il materasso, e poi con le lenzuola. Clark mi costrinse a fare anche il suo, dicendo di meritarselo come premio di consolazione per la guerra persa. Stavo contagiando anche lui con la mia stupidità. Mi distesi sul mio letto, mentre lui iniziava a disfarsi le sue di valigie. Pensai alla sua reazione se avessimo avuto un letto matrimoniale, invece di due singoli. All’inizio sgomento, poi entusiasmo, e infine perversione. Guardai divertita fuori dall’oblò, il cielo era ancora scuro, ma per poco. Poi mi si accese una scintilla, un promemoria nella testa.
      «Clark?» lo richiamai, mettendomi seduta sul letto «Che ora è?»
      Lui si guardò l’orologio e poi mi rispose «Cinque meno un quarto»
      A sentire quell’orario, saltai dl letto pensando a mamma, papà e Rosie fuori, sul porto, che aspettavano di vedere le nostre facce a salutarli prima di partire. Lo afferrai per un braccio, prendendo le chiavi nell’altra, e mettendomele nella tasca del jeans. Aprii il portellone, facendolo uscire e lo chiusi.
      «Mi dice che diavolo ti prende?» mi sorprese che non ci fosse già arrivato da solo.
      «Dobbiamo andare a salutarli» non misi il loro nome, decisi che era scontato. Indicai il corridoi, pieno di gente che entrava e usciva dalle cabine, forse anche loro pronte ad andare sul ponte a salutare i loro cari.

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Capitolo 8
*** 7. Piani spezzati ***


7
Piani spezzati


      Clark fece un cenno di assenso, e ci incamminammo nelle strade del paradiso –così li chiamai, quei corridoi che ricordavano una delle strade del paradiso. Fu un po’ difficile superarli questa volta, del tutto diversi da come li avevamo percorsi prima. Era affollati di ragazzi e adulti entusiasmati.
      Quando vidi un ragazzo che poteva avere la mia età, pensai che zia non avesse accettato solo le mazzette da parte di Damon e Violet. Francamente, non le avrei rifiutate nemmeno io, finché c’era posto sulla nave.
      Tutto sommato, anche se la nave era grande, immaginai che potesse ospitare più persone di quelle presenti in quel corri doglio, forse c’erano diversi piani. Quando vidi un altro ragazzo, basso e riccio, mi venne in mente Dam. Chissà dov’è? Ad un piano di sotto forse, o lo stesso dove eravamo io e Clark. Comunque sia, sarebbe stato impossibile non incontrarsi almeno una volta sulla nave, in giro.
      Arrivammo sul ponte uscendo dalla porta dove eravamo entrati appena saliti a bordo. Sia poppa che prua brulicavano di persone affiancate al parapetto della nave, per salutare i proprio cari. Rimai quasi scoccata a vedere quanto si sporgevano per guardare meglio, una piccola spinta da dietro, li avrebbe fatti cadere senza nessuno sforza.
      «Susan, qui. Presto» urlò Clark, indicando uno spazio tra le tante persone.
      Mi ci sporsi, facendomi piccola per far stare anche Clark vicino a me. Scrutai tra la folla, che si era dimezzata di parecchio da quando ero salita, adesso occupavano poco più che la metà del porto.
      «Dove sono?» chiesi a Clark, con una strana paura che iniziava a farsi strada, ed opprimermi sempre di più. Come il sacchetto intorno alla folla, che si stringeva man mano, adesso era stretto al limite, impedendomi di muovermi
      «Non lo so» rispose lui, di fianco a me, cingendomi ben salda la vita, per non perdermi tra tutta quella gente. Anche lui si era sporto di più. Forse aveva capito la mia paura.
      E se avessero scelto di andarsene prima della partenza? Se credevano che io non sarei uscita? O che loro non avessero sopportato di vedermi ancora, per la malinconia?
      No!
      Non lo avrebbero fatto mai, sapevano che io sarei uscita a salutarli, non glielo avevo detto, ma lo davo per scontato, era ovvio che lo avrei fatto. Riguardo al fatto che loro se ne fossero andati per la troppa malinconia, credevo troppo azzardata anche quella. Sarebbe stata ancora più dolorosa, la partenza, senza un ultimo saluto. Un ultimo ciao.
      In lontananza, nel parcheggio, vidi spiccare la Nissan Qashqai bianca di papà, che spiccava tra le tante macchine. La notai perché ne erano davvero poche di quel colore. Dovevano essere per forza lì. Scrutai con lo sguardo sempre più veloce e preoccupata.
      Sobbalzai quando sentii il fischio di partenza.
      «No» sussurrai. Non potevano già essere le cinque del mattino. Non poteva, o meglio, non volevo.
      La nave diede un colpo scosso, che ci fece scuotere tutti «No» ripetei sempre più depressa.
      Perché non erano lì? dovevano esserci, c’erano, e forse mi stavano anche salutando tra le tante persone che lo facevano, ma io non riuscivo a vederle. Mi rimproverai in anticipo per non averlo fatto, per non aver guardato per l’ultima volta, dopo un paio di mesi, i volti delle persone più care che avevo, che mi erano state vicino sempre. Per mia fortuna avevo Clark con me, che mi avrebbe consolato nei momenti di sconforto, e fatto compagnia in quelli di solitudine, ma loro volevo vederli. Volevo mettere i loro volti, come avevo fatto prima, nel braccialetto che mi avevano dato. Conservarli come se non li avessi mai visti prima.
      Guardavo e guardavo, mi facevano male gl’occhi dallo sforza. La nave si muoveva lentamente, ma a me sembrava che fosse un fulmine che sfrecciava sempre più veloce, che lo facesse di proposito.
      Di colpo le mie speranze si spensero, mi arresi. Gl’occhi, ormai, non li sentivo proprio più dal dolore. Ma a rianimarmi, come quando stai per cadere da un dirupo, e tutte le tue speranze crollano con te, un braccio ti afferra, ti tiene ben saldo ad esso, e ti fa risalire su, a ricominciare da dove avevi lasciato. Sentii un leggero e debole «Susan» mi scaraventai subito alla ricerca di quella voce tanto familiare.
      «Susan» un altro sussurro, debole alle mie orecchie, ma forte a quelle del mandante.
      Mi illuminai quando vidi mamma sbracciarsi e urlare «Tesoro! Tesoro, siamo qui!» afferrai la manica di Clark, e glieli indicai.
      «Eccoli, sono lì. Li vedi?» gli urlai, continuando a guardarli, a osservare ogni loro piccolo movimento, anche il più banale, per ricordarlo alla perfezione nella mia mente.
      «Sì» rispose lui «Sì. Li vedo»
      Mamma si sbracciava, saltellando per farsi vedere meglio dalla mia distanza, papà salutava agitando una mano, Rosie, come la avevo lasciata prima di partire, stava tamponandosi gl’occhi con una mano, e con l’altra, salutava.
      «Ciao, Ciao mamma!» urlai, agitando anche io le mie braccia.
      Lei quando sentii il suo nome, si indicò il braccio destro, e poi si posò la mano sul cuore.
      La imitai. Posai la mia mano sul cimelio della nonna, con la lettere «D» incisa sul medaglione, e ci misi dentro quel momento. Io, con Clark, a salutare mamma, papà e Rosie, tre tra le persone più importanti della mia vita, che non avrei mai abbandonato, e nemmeno dimenticato. Mi poggiai la mano sul cuore, e una calda lacrima scese sulla mia guancia. Vidi che mamma si asciugava le sue.
      Il piano era iniziato più che bene.
      Quando ormai non riuscimmo a vedere più il porto, io e Clark tornammo nella nostra cabina.
      Entrati, iniziammo a svuotare le valige. Clark, da perfetto gentiluomo, mi offrì una parte del suo armadio, dato che mi ero portata dietro –per colpa di mia madre- il più del necessario. Lui aveva portato con sé soltanto indumenti e roba varia, non come me, che mi ero portata anche la mia cara, ma odiata sveglia, che misi sulla scrivania sotto l’oblò.
      Le lancette dorate segnavano le cinque e venti, in effetti, fuori iniziavano a sbucare i primi raggi del caldo sole del sedici Giugno.
      Decisi di tenere sempre con me il cimelio che mi aveva regalato mia madre prima di salire a bordo, invece di metterlo al sicuro in qualche cassetto, o valigia. Mi feci rotolare tra le mani il piccolo medaglione argentato con la lettera D, erano passati solo pochi minuti, e già mi mancavano tanto. Tutti. Sospirai, troppo forte forse, perché Clark mi sentì.
      «È molto bello»
      «Lo so» risposi solamente, continuando a girarmelo tra le dita.
      «Posso?» chiese, sedendosi sul letto di fronte a dove ero seduta io, indicando il bracciale.
      «Certo» risposi rapida. Me lo tolsi dal braccio, e glielo porsi.
      Lui lo prese delicatamente dalle mie mani, sapeva quanto io tenessi ad esso. Se lo fece girare e rigirare tra le dita. Pensai che non doveva avere tanto valore, non era molto pesante, soltanto la lettera incisa era luccicante, anche se per me lo era.
      Com’era incredibile il valore sentimentale che provavo per quel normale cimelio, dopo nemmeno un’ora.
      «È d’argento?» chiese lui, continuando a fissarlo.
      «Non so, credo di sì» risposi sincera «o forse no» aggiunsi, corrugando la fronte, sempre più interessata a saperlo.
      «Secondo me sì, o almeno la lettera» disse picchiettando sulla lettera dorata del medaglione «D? Dawson?»
      «Credo di sì» feci spallucce. Era di mia nonno, Dawson, tramandato a mia madre, sposata con un Dawson, per poi essere dato a me, una Dawson.
      «C’è una cosa che sai su questo coso?» domandò ironico, alzando il braccialetto.
     «No! E non chiamarlo coso» glielo strappai dalle dita «e mi sembra che nemmeno tu ne sappia più di me, Edward»
      In tutta risposta, lui si passo una mano tra i capelli, con un sorriso sfacciato sul volto «Il cimelio è tuo, non mio» si giustificò.
      Del tronde, aveva ragione. Provai a mettermelo di nuovo al braccio sinistro, pensando che si sarebbe graffiato di meno se lo portavo al braccio che usavo di meno, ma mi scivolava in continuazione dalle mani, sudate «Aiutami» dissi allungando il braccio a Clark.
      «Nemmeno un bracciale sa mettersi» borbottò.
      «Sta’ zitto e renditi utile» lo zittii. Lui obbedì, e mi legò il braccialetto al polso. Lo portai d’avanti agl’occhi, per esaminarlo «Almeno una cosa sai farla» lo stuzzicai, mi stavo annoiando non poco.
      «Dobbiamo passarci qualche mese qui, vediamo di andare d’accordo. Ok?»
      «Va bene, va bene» alzai le mani a forma di resa «Che facciamo?»
      Si stese sul suo nuovo, e odiato letto, guardando il soffitto della cabina «Dormiamo» mimò con le labbra. Non ebbi bisogno di tempo, lo capii all’istante.
      Afferrai il mio cuscino, e glielo lanciai dritto in faccia «Pigro!» urlai. Lui si mise seduto, guardandomi con aria sconvolta «Hai dormito per più di otto ore, e vuoi farlo ancora?»
      «Sì. E poi a te che interessa?» si ristese, lanciandomi il cuscino addosso.
      «Mi interessa e come! Devo passarci qualche mese con te, qui dentro, e non ho intenzione di passarli ad oziare su una branda» misi il broncio come una bambina capricciosa.
      «La porta è quella!» disse semplicemente, indicando la porta.
      Lo guardai sbalordita «Stronzo!» sbottai.
      «Anche io ti voglio bene»
      «Piantala, scemo!» mi stava facendo irritare peggio di una madre con il figlio adolescente “Torna a casa, adesso! Sono le dieci di sera!”
      Non rispose, ringrazia iddio per averlo fatto smettere ancora prima di cominciare. Andai a fare una doccia, più per passare il tempo, che per bisogno. Irritarsi per Clark, ormai, si poteva definire un hobby per me. Aprii l’acqua, che ci mise un secolo per uscire calda, e mi ci piombai sotto.
      Niente, a confronto della mia vasca pensai sciacquandomi i capelli.
      Ci misi poco, per il fatto che la trovavo tutt’altro che piacevole. Indossai una semplice tuta blu, leggera. Mi sporsi sullo specchio, lentamente, preparandomi a vedere l’orrore riflesso sulla superficie. I miei capelli, in quella situazione, erano tutt’altro che lisci «Dannazione» imprecai mentalmente, rimproverandomi di aver fatto anche lo shampoo, e mi pettinai, lasciando cadere una lacrima di dolore ogni volta che catturavo una doppia pinta. Quando mi sembravano abbastanza guardabili, li raccolsi in una coda di cavallo alta, e bella salda, in modo da impedirmi una futura figura di cacca.
      Uscii dal bagno, Clark era sulla via del mondo dei sogni, e la sveglia segnava le 7 meno un quarto. Lo scossi bruscamente, per farlo svegliare.
      «Che c’è?» chiese, con la voce impastocchiata dal sonno.
      Mi sedetti di fianco a lui. Il letto era caldo «Ho fame»     
      «E io cosa dovrei fare?» si rigirò sul letto, facendomi quasi cadere.
      «Ho fame» ripetei «Avranno qualche cucina, bar, o cose del genere qui, no?»
      Sbuffo, mettendosi seduto, imbronciato dal mio comportamento Questo è solo l’inizio «Forse» rispose.
      «Andiamo a vedere?» lo incitai ad alzarsi.
      «Cosa? Alle sette del mattino? Ma dai, aspetta un altro po’» sbadigliò.
      «No!» sbattei il piede atterra il più forte possibile, lui sobbalzò dallo spavento «Io ho fame adesso!»
      Mi guardò scocciato «Ma tu quant’anni hai?»
      «Tre. Su muoviti, non ce la faccio più» mi misi a girare in tondo per la stanza, facendolo irritare sempre di più.
      Sbuffo di nuovo, ma stavolta si alzò. Applaudii come una scema, e corsi a prendere la chiave della cabina, che avevo dimenticato nella tasca del jeans, poi corsi fuori, dove mi stava aspettando lui. Mi chiusi la porta alle spalle, e mi rivolsi a lui «Andiamo?»
      «Io preferirei restare a dormire, ma…»
      «Bene!» lo interruppi.
      Mi incamminai tra le strade del paradiso, sempre bianche da accecare, ma con qualche passeggero qua e là che chiacchierava con qualcuno. Arrivammo fuori, sul ponte dove avevo salutato i miei prima di partire, carico con altrettanta gente, come qualche ora fa.
      «Secondo te dov’è?» chiesi al ragazzo di fianco a me, che si guardavo intorno circospetto, come se stesse aspettando un attacco da parte di quelle persone, anche se mi sembrava più che stesse cercando di mettere a fuoco la vista, ancora appannata dal sonno.
      «E io che ne so!»
      «Scorbutico» borbottai sottovoce, ma dal suo sguardo capii che mi aveva sentito.
      Mi aggirai sul ponte, in cerca di qualche cartello che specificasse la zona cucina, o pranzo, o bar, ma non trovai niente. Cavolo, così scimunite le persone! Pensai, controllando l’ennesimo muro della mattinata. Ormai erano già venti minuti che cercavamo un “indizio” –anche se ero sempre più convinta che lo stessi facendo solo io- così, ci sedemmo sfiniti su una fredda panchina, sul ponte. Clark sembrava preso dalla vista dell’orizzonte, io, del canto mio, disegnavo cerchi sul suo avambraccio Non ho niente da fare pensai, per giustificare quell’azione a me stessa.
       Il mio stomaco brontolava sempre più forte, facendo ridere Clark «Non c’è niente da ridere, Clark!» lo rimproverai «Sto’ morendo di fame» mi lamentai, poggiandomi una mano sullo stomaco.
      Stava per rispondermi, quando una voce ci sopraggiunse.
      «Ehi, ragazzi!» l’inconfondibile voce di Damon.
      Mi voltai a guardarlo. Indossava una maglietta verde e aderente come quella di Clark, -anche se, onestamente, preferivo più come stava al mio Edward che a lui- e un pantaloncino corto, bianco, che metteva in risalto i muscoli delle gambe. Stringeva la mano a Violet, che indossava un vestito con fantasie a fiori.
      «Ciao!» li salutai, Clark si limitò a salutarli con la mano.
      «Andate bene le prime ore di viaggio?» domando Violet, quando si avvicinò a noi. Dam si sedette di fianco a me.
      «Benone» la rispose Clark «voi?»
      «Purtroppo a Damy» feci una smorfia a quel nome, troppo dolce per la persona interessata a mio parere «è venuta la nausea appena partiti» disse con una smorfia, movimentandosi i capelli alla forte brezza che tirava sul ponte. La amavo, così fresca.
      «Già» ammise lui «troppo violenta come partenza» disse scuotendo il capo.
      «E adesso come va?» chiesi, posandogli una mano sulla spalla.
      «Tutto bene, grazie» mi rispose con un sorriso.
      «Ecco perché non vi abbiamo visto sul ponte» disse Clark.
      «Già» Violet si poggiò al parapetto come se stessa facendo un set fotografico.
      «E poi, non avevamo nessuno da salutare» aggiunse Dam, che giocherellava con un suo bracciale, sembrava portafortuna.
      «Nessuno?» ripetei stranita.
      «Sì, abbiamo salutato tutti prima di partire, non volevamo avere scene imbarazzanti prima di partire» si giustificò, anche se a me sembrava più una scusa, ma le scelte sono scelte, così preferii di tacere.
      «Voi? Com’è andata? Tutto apposto?»
      «Si» risposi con un sorriso, trattenendo una smorfia ì ricordando quello che era successo poche ore fa. Mi portai la mano al braccialetto, e ci giocherellai, senza guardarlo.
      Restammo in silenzio per un po’. Violet continuava a mettersi in posa per qualche fotografo invisibile. Almeno, lei e Dam erano una coppia tipica. Il muscoloso e la vanitosa. Risi sotto i baffi. Ormai il sole era alto nel cielo, e risplendeva tutto il mare azzurro. Qualche nuvola fluttuava intorno ad esso, ma non avevano arie minacciose. Anche se da fermi non ci sarebbe stato un soffio di vento, sul ponte soffiava ben forte. La coda di cavallo, che prima mi ricadeva sulle spalle, ormai non la sentivo nemmeno.
      Violet, sembrava pensarla come me, e scuoteva i suoi capelli dorati. Mi stava facendo venire lo stimolo di vomitare. Anzi, di vomitare sui suoi capelli.
      Il mio debole stomaco emise un grugnito altrettanto debole, ma udibile alle mie orecchie. Lo sentii anche Clark, trattenendo una risata.
      «Voi sapete dove si può mangiare, qui?» domandai, rompendo il silenzio.
      «No» rispose Dam «a dire il vero, lo cercavamo uno anche noi» indicò anche la sua “dolce metà”, che acconsentì.
      Feci una smorfia ad un altro grugnito.
      Mi alzai sotto gl’occhi curiosi di Clark, che era tutto preso a disegnare cerchi immaginari sul suo stomaco. Dovevo camminare, non ce la facevo a stare ferma, e così mi sarebbe passata un po’ la fame, o almeno lo speravo. Andai avanti e dietro, senza interrompere il mio flusso costante di passi, alle spalle di Dam e il ragazzo di fianco a lui, che aveva ripreso a disegnare.
      Dopo 10 minuti di via vai, Violet, che a differenza dei due sulla panchina mi vedeva, mi domandò esasperata «Ne hai ancora per molto?»
      Decisi di ignorare la sua domanda, dato che come mi sentivo in quel momento, l’avrei addentata.
     «Ho fame!» urlai scocciata dai brontolii del mio stomaco. Sobbalzarono tutti, tranne Clark, abituato alle mie sfuriate «Che ore sono?»
      Nessuno rispose, tutti troppo scossi. Notai che anche altre persone sul ponte mi fissavano «Quasi le 8» rispose pacato Edward.
      Le 8?! Dannazione, se pensavo con lo stomaco, avrei addentato una panchina, o ancora meglio, una persona.
      «Ho fame. Ho fame. Ho fame. Ho fame. Ho fame» riecco la bambina capricciosa.
      «Signorina, mi scusi» una voce timida, proveniente dalla panchina di fianco alla nostra mi richiamò.
      Un ragazzo, con i capelli ricci semi-lunghi scombussolati dal vento, che non avrebbe potuto avere più di 16’anni, mi guardava incuriosito, con ancora stretto in mano un libro. Pensai di averlo disturbato.
      «Scusa» dissi, alzando la mano nella sua direzione.
      Ignorò le mie scuse «Mi sembra di aver capito che le vuole qualcosa da mettere sotto i denti, giusto?» chiese divertito.
      «C’hai azzeccato» dissi portandomi una mano allo stomaco.
      «Perché non va nella sala pranzo?»
      «Mi piacerebbe» risposi sincera «ma non so dov’è?»
      «Se vuole, la posso portare io lì»
      A sentire quelle parole, mi illuminai Cibo l’unica cosa che riuscivo a pensare in quel momento, finalmente avrei dato qualcosa al mio stomaco, per farlo stare zitto e lasciarmi in pace «Sì, per favore»
      «Mi segua» si alzò dalla panchina, e indicò un punto impreciso dietro di sé.
      Corsi di fianco a lui, guardandolo come un patrono che illuminava la via per la pace interiore, il cibo. Gli altri si alzarono, e ci seguirono silenziosamente. Ci condusse d’avanti ad una porta, che non avevo notato prima, sul ponte di prua con una targhetta con scritto «ZONA PRANZO» altri nomi, ma io notai solo quello che mi interessava. Entrammo nel noto corri doglio bianco, svoltammo nei corridoi dove la targhetta diceva qualcosa simile a “pranzo” o “cibo”.
      «Come ti chiami?» chiesi al ragazzo che mi camminava accanto.
      «Harry, Harry White. Sono venuto con i miei genitori. T… voi?» si corresse all’ultimo secondo. Istintivamente, pensai che i suoi genitori dovevano essere persone molto gentili.
      «Susan Dawson. Dammi anche del tu, se voi» risposi con un sorriso incoraggiante.
      «Grazie» restai attratta dai suoi ricci, li trovavo così interessanti, avevo la voglia di affondarci dentro la mano.
      Camminammo per un altro paio di corridoi, prima di arrivare ad una porta più grande di tutte le altre «Eccoci» ci informò Harry. Per fare un esempio, sembrava molto ad un’aula mensa, con i tavoli rettangolari, grigi, con panche identiche tra loro ad ogni lato, ed in fondo, un bancone, ma senza vetrata, dove potevi servirti da solo. Anche se non era a cinque stelle, a me sembrava un piccolo paradiso, o almeno, in quel momento.
      «Bene» aggiunse Harry «io vado»
      «Non resti con noi a mangiare?» gli chiesi, quasi attristita. Aveva un viso che ti ispirava simpatia.
      «No, grazie, ho già fatto colazione» rispose «Ci vediamo in giro, Susan» aggiunse.
      «Ciao» dissi. Lui salutò tutti con un gesto della mano, e scomparve nei corridoi lunghi e bianchi. Continuai a fissare il punto dove era sparito per un po’, poi Clark mi richiamò.
      «Non hai più fame?» chiese, picchiettando con le dita sulla mia spalla.
      «Cosa? Ah, sì» Violet e Dam erano già entrati, lui era rimasto lì con me, forse per aspettarmi, o forse perché con loro non si sentiva a suo agio. Optai per la seconda.
      Entrammo nella mensa, e chiesi a Clark se potesse prendere lui la mia colazione, mentre io prendevo posto ad un tavolo. Lui accettò, e io mi sporsi a cercare un tavolo. Eravamo arrivati in ritardo rispettando l’orario di quando ci eravamo alzati tutti. Ne scrutai uno libero in lontananza, e mi ci scaraventai su, aspettando gl’altri. Mi misi in piedi per farmi vedere. Fortunatamente subito mi videro, e si vennero a sedere al tavolo. 
      Dam si sedette di fianco a me, meritandoci entra degli sguardi assassini da parte di Violet e Clark che si sedettero una di fianco all’altro, di fronte a noi.
      Mi feci una fetta biscottata con marmellata come mia abitudine, e l’addentai. Il mio stomaco mi ringraziò non appena due secondi dopo il primo morso. E a quella fetta, ne seguì un’altra, e un’altra ancora, finché non dovetti prendermi anche quelle di Clark.
      «Posso sedermi di fianco a voi? Tutti gl’altri sono occupati» ci chiese una voce femminile. Non la guardai, preferii di gran lunga osservare il disegno che avevo fatto con la marmellata sulla mia fetta.
      «Creto» rispose Dam, di scatto, senza pensarci. Diedi un morso alla mia opera, e ne assaporai il sapore.
      «Sono Amanda Oragon. Ma potete chiamarmi Amy, se preferite» disse la voce due posti accanto a me.
      «Susan» dissi, continuando a non guardarla. Pensai che fosse una ragazza in cerca di amicizie durante il viaggio.
      Si presentarono tutti all’unisono, con nome e cognome. Mangiai l’ultima fetta biscottata, sotto lo sguardo truce di Clark, che non ne aveva mangiata nemmeno una perché me le ero prese tutte io «Te l’ho detto che avevo fame» mi giustificai. Bevvi la mia tazza di latte fredda mentre Violet e Dam conversavano con Amy. Clark giocava con il tovagliolo, si vedeva lontano un miglio che si annoiava. Valeva lo stesso per me.
      «Ti annoi?» gli chiesi posando la tazza ormai vuota sul tavolo. Lui acconsentì con il capo «Anch’io» gli confessai.
      Spostai lo sguardo per la prima volta su Amy. Viso dolce, occhi bruni, capelli rossi e ricci, lunghi, parlava velocemente, senza sbagliare mai, ammirai quella sua capacità. Stava raccontando un aneddoto alla coppia, facendoli ridere.
      «Ma chi è?» sussurrai a Clark, chinandomi sul tavolo.
      Lui lanciò uno sguardo veloce alla ragazza «Non lo so» fece spallucce. Guardò di nuovo la ragazza, che non smetteva di parlare «però è carina» aggiunse «anzi, bella direi. Potrei farci anche un pensierino, devo trovarmi qualcuna, no?»
      «Sposatela, allora» risposi acida al suo commento, guardando altrove.
      Mi fissò sbalordito Ben ti sta’ «Che ho detto adesso!?» alzò le mani.
      «Niente, cazzate, come quelle che dici sempre!» ma guarda tu che stronzo! Prima di ammalia in camera tua, in cucina, dappertutto, e poi, arriva una fresca e dice “è carina”. Perché non ti uccidi tu, e lei?
      «Cosa?! Ma ti sei arrabbiata?» domandò, sempre più confuso.
      «Con te? Sempre! E specialmente adesso. Se in futuro, ti avvicinati a me di più di un metro, io ti c…» non feci in tempo a finire che “la carina” Amy mi interruppe.
      «E tu, Susan, perché sei qui?» la guardai con tutto il disprezzo possibile. Incredibile il tempo che impiegavo per rendermi antipatiche le persone.
      «Non sono affari tuoi!» sputai acida, alzandomi dal tavolo e uscendo di fredda dalla stanza, lasciandomi dietro i visi sbalorditi dei miei amici -e futuri sposi-, nera di rabbia. Neanche un giorno, e già odiavo una persone, anzi due.




 

eccosi arrivati al settimo capitolo. so che - forse - stata bramando la parte della storia dove susan naufraga sull'isola, ma per quella mancano pochissimi capitoli ancora (va bene, confesso: 2) la sto "tirando per le lunghe" perchè voglio deliniare ogno carattere, ogni personaggio, farvi entrare meglio nella vita di susan. spero intensamnete che non vi stia annoiando :/
se qualcosa non vi piace, recensionate e dite tutto
pleaaaaaaace.
rangrazio tutti coloro che stanno seguendo la mia storia. vi amo, anche se non vi conosco vi considero i miei più grandi amici!!! c:

matt

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Capitolo 9
*** 8. Tutto ***


8
Tutto

      Camminavo, ma a me sembrava di correre. Mi ritrovai sul ponte di prua, fuori dalla porta dove ci aveva condotto Harry. Respirai a fondo, cercando di far uscire tutta la rabbia e l’odio. Amy. Un nome così carina, ma a me sembrava un po’ come Lucifero.
      Mi rimproverai subito delle mie azione. Prendersela con una sconosciuta non era da me, anche prendersela per un commento di Clark, soprattutto se il commento era indirizzato ad una ragazza carina. A me non importava niente di lui, me lo aveva mandato dietro papà, non lo avevo deciso io. Me ne dovevo fregare di lui, e quello che faceva. Avevo rovinato tutti i miei piani, buttati al mare come se niente fosse, fregandomene di tutto. Avevo pensato accuratamente a tutto, e adesso era tutto perso.
      Ma non del tutto. Il mio piano non girava tutto in torno a Clark, non era il mio universo, il mio scopo era un altro.
      Notai su una panchina poco distante una chioma bruna, e ricci. Harry.
      Senza chiedergli il permesso, mi sedetti di fianco a lui. Stava leggendo il libro di prima, doveva essere un’horror dalla copertina, ma non indagai di più.
      «Ciao, Harry» lo salutai, sedendomi.
      «Ciao, ehm…» rispose, grattandosi in testa, con aria confusa.
      «Susan» aggiunsi.
      «Ecco! Susan» disse lui, sorridendo timidamente per essersi dimenticato il mio nome.
      «Cosa leggi?» chiesi per aprire un discorso.
      «Cell, Stephen King. Conosci?» rispose, porgendomi il libro.
      Lo afferrai, e lo esaminai. Non era molto grande, ma solo a guardarlo mi venne una noia infinita «Lo scrittore sì, il libro no» risposi, imbarazzata. King era un grande scrittore, e io di lui conoscevo solo i best-seller IT e Shinning «Horror, suppongo»
      «Brava. Mi affascinano, e a te? Piacciono?» chiese di rimando.
      Feci spallucce «L’ultimo libro che ho letto è stato Harry Potter e i Doni della Morte» che a dire il vero, non ricordavo molto bene. Ricordavo solo il professore incompreso, quello che era antipatico a tutti, che mi faceva pena.
      «Hai letto la saga di Harry Potter? Anch’io» si capiva che gli piacevano molto i libri. Quando ne parlava, si lasciava prendere dall’entusiasmo.
      «Beh, veramente ho letto solo l’ultimo» dissi aspettando un insulto. Insomma, chi legge l’ultimo libro di una saga composta da sette? Io.
      Ma invece, rise divertito «Suppongo che tu non ci abbia capito molto, eh?»
      «Per fortuna erano usciti i film e allora qualcosa ho capito»
      «Se non esistesse il cinema, come faremo?»
      «Moriremo» aggiunsi sarcastica, facendo ridere lui. Mi ricordava Clark, in un certo senso. Il suo modo di ridere alle mie battute me lo ricordava.
      Restammo a guardare l’orizzonte per un po’, senza dire niente. Tirava la stessa brezza di prima «Hai già finito di fare colazione?» mi chiese, posando il libro di fianco a lui.
      «Sì» ripensai alle 8 fette biscottate con marmellata, e allo sguardo truce di Clark.
      «E i tuoi amici di prima?» si guardò in giro, pensando, forse, che si erano posizionati più in là, lontano da noi.
      «Ho avuto un piccolo… malinteso, ecco»
      «Ah» smise di guardarsi intorno «mi dispiace»
      «Nah, tranquillo» mi voltai a guardarlo, e aggiunsi sarcastica «l’unico problema, è che quello con cui ho litigato condivide la cabina con me»
      «Un bel problema, eh?»
      «Già» sbuffai.
      Perché doveva per forza succedere qualcosa? Non poteva, per una volta, andare tutto liscio come l’olio? No, ovviamente è chiedere troppo. Guardai Harry, solo per i suoi ricci mi era simpatico, ma adesso, che lo avevo conosciuto un pizzico in più, lo consideravo già un amico. È da stupidi, sì, lo so, ma io sono fatta così.
      E poi, mi aveva indicato la cucina quella mattina.
      Restai a parlare con Harry per tutto il resto della mattinata. Gli avevo spiegato il mio… legame con Clark, e anche il perché di quella reazione. Non avrei mai pensato di dirlo a qualcun altro, oltre a Rosie. Con lei mi confidavo perché mi fidavo cecamente, e anche perché ti torturava se non lo facevi. In un certo senso, capii la mia situazione, non obbiettò, diede solo consigli su come comportarmi quando sarebbe tornato.
      Chiedergli scusa.
      Farlo mi sembrava difficile, ma se lo diceva lui, che da come parlava sembrava un vecchio saggio.
      «Dici?» gli domandai, dopo che mi aveva suggerito che fare.
      «Sì, devi!» insistette «a quanto ho capito, lui è quasi pazzo di te, vero?»
      Mi imbarazzava, ma «Un pochino?» gli indicai uno spazio tra l’indice e il pollice più che minuscolo.
      Lui lo allargò, di molto «Così» lo indicò «almeno da quello che mi hai detto»
      «Sì, forse hai ragione. Forse è cotto» distolsi lo sguardo sul mare.
      «Forse? È cotto» insistette lui.
      Sobbalzai da quanto lo avesse detto forte «Ok, ok»
      «Poi ho un’ipotesi» annunciò, posandosi l’indice sul mento, con aria pensante.
      «Quale?» domandai, studiando la sua espressione.
      «Gelosia» sintetizzò la sua teoria.
      «Gelosia?» ripetei la sua parola con quasi disprezzo.
      «Sì, gelosia» confermò ancora lui, sempre più convinto.
      «E su cosa basi la tua teoria?» gli chiesi divertita, aspettando con ansia la sua fantastica spiegazione, che in un certo senso, avevo già capito, ma volevo esserne sicura.
      «Beh, tu hai detto che è cotto» stavo per protestare, ma mi bloccò posandomi due dita sulle labbra «e che fa di tutto per farsi accettare da te, in quel senso, giusto? Allora, la mia teoria, dice che quello che ha fatto, è stato soltanto un atto per farti ingelosire, per capire quello che già sapeva. Che anche tu sei attratta da lui, e il suo piano, direi, ha funzionato alla perfezione» concluse con un pizzico di vanità nelle sue parole.
      Questo andava ben oltre tutte le mie aspettative, le mie, in confronto, erano sabbia contro roccia «Uno, lui non mi piace, forse solo un po’. Due, non mi sono comportata da gelosa» dissi l’ultima parola con un pizzico di sdegno.
      «A no? Arrabbiarsi per il complimento fatto ad una ragazza da parte di uno, che non è nemmeno il tuo fidanzato, non è atto di gelosia, Susan?» mi chiese, sarcastico.
      Aveva ragione, più che ragione, ma io non intendevo demordere, non era da me. E poi, non si abbinava con il piano finalmente iniziato «No» dissi, con fare fiero.
      Soffocò una risata «Hai un mondo tutto tuo, eh?»
      «Diciamo di sì, mi piace crearmi un mondo dove nessuno mi contraddice, così, faccio finta che sia vero. Sono un’inguaribile ottimista» confessai.
      «Sono felice per te, Susan» si complimentò.
      Era vero, cercavo sempre di vedere il lato positivo delle cose. Voi direste che sono una persona molto positiva, io dico di no. Sì, ho dette quelle cose, ma in realtà, cerco di vederle. Spesso, anche nei momenti più bui della mia vita, quando cose dal senso positivo non esistono nemmeno, io me le invento. Le invento soltanto per farmi sentire un po’, anche un pizzico, di felicità in più, per non sprofondare nelle tenebre della tristezza.
      «Sei pessimista, Harry?» gli domandai. Lui era preso a guardare il mare, piatto all’orizzonte. Era uno spettacolo mozzafiato, ma io mi ci ero già abituata.
      Mi fissò per qualche secondo, rimasta ipnotizzata da quegli occhi, poi parlò «Diciamo di sì» disse con una smorfia.
      «Diciamo?» ripetei, corrugando la fronte.
      «Tu come pensi che sia? Pessimista o ottimista?» mi spronò.
      «Oh, io? Bene, allora» mi misi dritta, per osservare meglio il suo volto. Papà diceva sempre che dal volto di una persona si poteva leggere l’animo della medesima, io ancora dovevo imparare a farlo, ma c’era sempre una prima volta, no? «Diciassette anni, carino, saggio, direi ottimista. Ma non ne sono tanto sicura, a volte le persone nascondono la propria infelicità dietro falsi sorrisi» ricordai il giorno della mia partenza «per convincere gl’altri, ma a volte anche per convincersi loro stessi che stanno bene, perché non vogliono accettare il contrario. A volte, stare male, la gente la classifica come una cosa orrenda e da deboli, io no, ma i gusti sono gusti, no? Poi, leggi Stephen King, il mago del genere horror dei libri, ma potrebbe essere soltanto un hobby, quindi, quella di leggere libri horror, potrebbe essere una scusa per farsi vedere dalla gente come persone forti, che non hanno paura, e quindi, di non farsi prendere per ottimisti, ma per ottimi pessimisti. Quindi, in conclusione, direi che sei un caso del tutto eccezionale, che non avevo mai incontrato prima, ma… pessimista»
       Mi sorpresi da sola da come forse c’avevo azzeccato. Si vedeva che ero una Dawson, eh?
       Harry restò a bocca aperta, anzi spalancata per qualche minuto, poi si riprese, dicendo un «Wow» e fissandomi con sempre più interesse, facendomi arrossire «Dì la verità, mi hai spiato per tutta la mia vita?»
      «Cosa? No, tranquillo» risi alla sua battuta «Perché, ho indovinato?» mi luccicavano gl’occhi, me lo sentivo.
      «Sì, e forse anche di più» confessò, ancora spaesato.
      «Davvero? Ah! Sì!» feci l’imitazione di un giocatore di calcio che stringeva tra le mani la coppa del mondo, facendo ridere Harry «Ma allora perché prima hai detto “diciamo”?»
      Dopo essersi ripreso dalla risata, mi rispose «Lo hai detto tu no? Cerco di sembrare apposto, di stare bene» fece un’alzata di spalla, con noncuranza delle sue parole.
      «Cos’hai che non va?» mi sembrava un ragazzo apposto, come diceva lui, sia fisicamente che mentalmente.
      «Sono molto timido, e credo che tu te ne sia accorta» sì, e come se me ne ero accorta, adesso un po’ di meno però «non ho molti amici proprio per questo motivo, sono sempre io e io. Cerco di sembrare duro leggendo libri horror, ma adesso anche leggere in generale è una cosa da deboli, così, cerco di diventare ottimista, ma la strada per arrivarci è molto, molto lontana e non credo ci arriverò mai. Mi sforzo e mi sforzo per farmi accettare, ma niente, non ci riesco mai. È come un elastico, io lo tendo sempre di più, e proprio quando sono per arrivare al mio traguardo, mi scappa di mano, e devo ricominciare da capo. È estenuante»
      Diceva quelle parole con tristezza, tale che me la trasmetteva anche a me «So’ cosa vuoi dire, Harry, ti capisco. È successo anche a me»
      «Davvero? Sei sempre da sola? Io non direi, hai addirittura uno spasimante» sbottò, arrabbiato dalla sua stessa persona. Sembrava quasi che volesse prendersi a pugni da solo.
      «Sì, è vero, ne ho uno, e anche degli amici, ma pochi di loro si possono considerare tali» ricordai i momenti nella mia scuola, e mi venne una fitta al cuore.
      «Sei la figlia di un riccone, Susan, ti circondano di affetto» disse l’ultima parola con un disprezzo che non aveva fine.
      «Proprio per questo non li considero tutti amici, Harry. Mi stanno tutti intorno solo per mio padre, per poter dire “io ho conosciuto sua figlia”, per poter andare dai giornali e dire che erano i miei migliori amici. In realtà, a volte, non sapevano nemmeno come mi chiamavo. Ero stanca di tutto quel falso affetto, e me ne sono andata per poter dimostrare a me stessa e agl’altri chi sono davvero. Mi capisci adesso Harry?»
      Continuava a guardare l’orizzonte, a pensare alle mie parole forse, a pensare che in fondo non eravamo tanto diversi «Tu, hai rinunciato a tutti quegli amici, per venire qui?» mi chiese lentamente.
      «Non erano miei amici, Damon e Clark li posso considerare come tali, anche tu, ma loro non erano altro che gente falsa, e non ho un minimo di tristezza ad averli lasciati»
      Adesso, mi guardava con una punta di ammirazione «Tu, sei venuta qui a fare questo viaggio, per convincere te di te stessa, e hai abbandonato i tuoi falsi amici, e adesso m consideri un tuo amico?»
      Feci spallucce «Sì, direi di sì»
      «G… Grazie» balbettò, abbassando lo sguardo.
      «Per cosa?» gli chiesi.
      «Per avermi considerato tuo amico nel tempo di una mattinata» sussurrò, quasi imbarazzato delle sue parole continuando a tenere il capo basso.
      Gli poggiai una mano sotto il mento, e glielo alzai, in modo che mi guardasse «I veri amici si capiscono subito» dissi con un sorriso.
      Ci volle un po’, prima di ricominciare a parlare normalmente, senza imbarazzo. Sì, era vero, era timido, e anche molto considerando la sua età, ma ogni persona è diversa dall’altra. Se fossimo tutti uguali, nessuno sarebbe speciale, no? Mi raccontò che lui stesso si odiava per il suo carattere, io invece lo apprezzavo, non tutti i ragazzi della sua età erano come lui, anzi, erano più unici che rari. In questi tempi, gli adolescenti pensano solo a combinare casini, e crearsi storielle sentimentali che durano poco più di due settimane, il tempo per fare del sesso. Lui era diverso, era speciale a modo suo.
      «È ora di pranzo» mi avvertì, guardando l’orario sul suo cellulare.
      «È già ora di pranzo?» il tempo era volato, come la brezza che tirava sul ponte.
      «Sì, sono le tredici e mezzo» mi porse il suo cellulare, per farmi vedere l’ora.
      «Ti va di venire con me a pranzo?» gli chiesi, alzandomi dalla panchina con le gambe indolenzite.
      «Veramente io…» cercò di rispondermi, ma glielo impedii.
      «Altrimenti sarò costretta a mettermi vicino o a Clark» lo implorai.
      Gli porsi la mano, con un sorriso speranzoso sulle labbra. Squadrò bene la mia mano, poi la afferrò, e si alzò. Insieme ci avviamo in sala pranzo, chiacchierando ancora un po’ per i corridoi. Arrivati a destinazione, ci sforzammo a trovare i miei amici, per essere sicuri di avere un posto per sedersi. Trovarli non fu difficile, anche perché li trovai scrutando la chioma bionda di Violet che si scuoteva in continuazione. Ci avviammo al bancone, e prendemmo qualcosa da mangiare, poi, con i vassoi pieni, ci avviammo al tavolo.
      Tutto era come l’avevo lasciato, solo che al mio posto adesso c’era Amy che chiacchierava felicemente con Clark
      Fregatene!
      Mi sedetti di fianco a Damon, e Harry fece lo stesso con Violet, piazzandosi di fronte a me. Salutai tuti, tutti tranne Clark, che fece per salutarmi, ma abbassò subito la mano. Il mio comportamento non aveva giustificazioni, ma mi sentivo quasi offesa dal suo.
      Iniziai a mangiare i miei spaghetti –nulla in confronto a quelli di George-, e nel frattempo scambiai qualche parola con Damon, che iniziò a socializzare anche con Harry.
      Fui felice di vedere che andavano quasi d’accordo. Visti da lontano, sembravano l’esatto opposto per via delle così opposte stazze, ma Dam era solo un orso che nascondeva dentro Winnie De Pooh. Il concetto era più o meno quello.
      Finii di malavoglia i miei spaghetti, che sapevano di tutt’altra cosa, e non osai nemmeno toccare l’insalata. Restai a guardare tuti che mangiavano e chiacchieravano. Di tanto in tanto Clark mi lanciava delle occhiate interrogative, ma io non lo degnavo di uno sguardo, nemmeno per caso. Non avevo ragione io? Bene, non la aveva nemmeno lui.
      Non riuscivo a sopportare il suo sguardo, mi irritava. Sperai con tutta me stessa che finissero presto di pranzare, perché l’attesa di andarmene mi uccideva, anche se avrei passato la notte con lui, quindi lo avrei affrontato di sicuro lì.
      Finalmente, decisero tutti di alzarsi e andarsene ognuno per i conti propri. Dam e Violet andarono nella loro cabina, che era sul nostro stesso piano, la centoventiquattro; salutai Harry, che anche lui se ne andò in camera sua a riposare.
      Restammo io, Clark e Amy. Ma che bella combriccola!
      Ignorai Clark quanto più potevo, e mi rivolsi a Amy «Amy?»
      «Sì, Susan?» le si voltò a guardarmi, con un sorriso debole sul volto. Sembrava che si fosse già dimenticata la mia scenata di prima.
      «Io volevo chiederti scusa, Amy, per prima. Non volevo, ma era irritata con una certa persona» sentii lo sguardo di lui addosso «mi dispiace»
      «Oh, tranquilla. Non fa niente, è tutto passato» rispose lei, agitando la mano come se stesse lanciando qualcosa dietro di se.
      «Grazie»
      Una era fatta, rimaneva soltanto lui. Ma il problema era: dovevo essere io a chiedergli scusa, o lui a me?
      Non mi andava di pensarci, o di fare la codarda. Appena saremmo stati soli in camera mia gli avrei chiesto scusa, senza peli sulla lingua.
      Io ed Amy restammo a conversare per altri dieci minuti, senza badare minimamente a Clark, che guardava altrove per distrarsi. Probabilmente si era incazzato, e me lo avrebbe detto in cabina, stava solo cercando qualcosa da fare finché non arrivasse quel momento. Cercai di tirare il più al lungo possibile con Amy, ma non ci riuscì. Disse che doveva fare una cosa, e che non poteva proprio rimandarla, e detto questo, se ne andò.
      Rimanemmo io e Clark al tavolo, seduti, a guardare l’uno nella direzione opposta dell’altro.
      Se quella testa fresca di mio padre si sarebbe fatti gli affaracci suoi, adesso non saremo arrivati a questa situazione, che non ci guardavamo nemmeno.
      Lui aspettava le mie scuse, e io avevo paura dalla sua reazione quindi non gliele davo.
      «Andiamo in camera» disse alzandosi, con voce fredda, distaccata. A me non sembrò affatto la sua. Capii all’istante che si era incazzato sul serio, o meglio, lo avevo fatto incazzare.
      «S… sì» balbettai, alzandomi a mia volta.
      Si incamminò prima di me, tenendo qualche passo di distanza. Mi maledii mentalmente per il guaio che avevo combinato. Forse Harry aveva ragione, sul fatto della gelosia, lo aveva fatto apposta, ma io la avevo presa troppo male, e trattavo altrettanto male lui, così facendo, ero arrivata alla situazione che non mi parlava nemmeno. Cosa che ritenni esagerata per una sfuriata come la mia, specialmente per lui, che ne era abituato.
      Si fermò di colpo, facendomi quasi sbattere contro la sua schiena.
      «Apri» disse con il tono freddo di prima.
      Lì per lì non capii, poi vidi la porta con il numero ottantasette di fianco a lui. Non me ne ero nemmeno accorta di essere arrivata alla nostra cabina, talmente sovrappensiero.
      «Sì… certo» mi sentii quasi stupida ad avere paura di lui, ma non riuscivo a non averla. Il suo sguardo, la sua voce, i suoi movimenti, non erano suoi, sembrava che un’altra persona si fosse appropriata del suo corpo, una persona carica di rabbia.
      Raccolsi le chiavi dalla mia tasca, e le infilai nella serratura. Tremavo un po’, quindi non riuscivo a farle entrare «Dannazione» imprecai.
      Una mano si posò sulla mia, fermandola, e facendo entrare la chiave nella serratura perfettamente. Mi voltai, e il viso di Clark era a pochi centimetri dal mio, ma non era il suo. Era spento, senza il suo solito ghigno scherzoso, la sua mano mi sembrava fatta di ghiaccio «Grazie» sussurrai. Lui scansò la mano, e io girai la chiave, per poi abbassare la maniglia. Aprii la porta, e mi ci infilai di corsa, lasciando la chiave lì dov’era.
      Clark la raccolse, e la buttò sulla scrivania. Non disse nulla. Si levò la maglietta, e si avviò in bagno, chiudendosi la porta alle spalle bruscamente. Chiusi la porta della cabina silenziosamente, per paura di disturbarlo. Sentii l’acqua della doccia scendere, e mi accovacciai sul mio letto, portandomi le gambe al petto.
      Pensai a come chiedergli scusa. Ero partita con l’intenzione di fargli trovare un modo a lui per farsi perdonare, facendo quella scenata da vecchia gelosa, e invece mi ritrovavo io a dovergliele porgere Dannazione. La sveglia sulla scrivania segnava le 3 del pomeriggio, e fuori dall’oblò, il sole splendeva alto nel pieno della giornata estiva. Era appena iniziato, e già di prevedeva un viaggio di merda!
      Mi sembrò che era appena entrato, e invece, stava già uscendo con i capelli bagnati che schizzavano gocce d’acqua fredda dappertutto. Prese una maglietta dall’armadio, e la indossò. Ancora nessuna parola. Prese un librò dalla sua valigia ancora aperta sul pavimento, e si stese sul suo letto a leggere. Non fui sicura che stesse davvero leggendo, ma non avevo nessuna voglia di controllare.
      Volente o nolente, prima o poi dovevo parlargli, ed era meglio farlo adesso prima che la situazione peggiori «Clark…» non potei nemmeno iniziare che mi interruppe, urlandomi contro.
      «Mi dici che diavolo ti è preso?! Fino a poche ore fa eri la mia dolce e divertente Susan, poi? Che diavolo è successo?! Te ne sei andata, piena di rabbia senza darci spiegazioni. Ho passato tutto il tempo a pensare a cosa avevo combinato stavolta! Poi sei tornata con quel coso, e non mi hai degnato di uno sguardo, di una parola, una misera parola. Cazzo Susan, che hai?!» sputò quelle parole con tanta rabbia e disprezzo verso di me che dovetti trattenere le lacrime. Non volevo che pensasse che era una scusa per farmi perdonare.
      «Io… io…» non riuscivo a trovare le parole. Ero spaventata e offesa dalle sue parole.
      «Io cosa, Susan? Io cosa?! Ti sembra un comportamento da persone adulte questo? Ignorarmi?» si alzò, iniziando a camminare avanti e indietro per la stanza, premendo sempre di più le dita contro il libro. Temevo che prima o poi si rompesse. Non riuscivo a parlare, la spiegazione ce l’avevo, ma non volevo dargliela, non ci riuscivo. Tenevo lo sguardo basso, stringendo il medaglione al braccio «CAZZO, SUSAN! RISPONDIMI!» scagliò con violenza bruta il libro contro la parete di ferro.
      Saltai dallo spavento sul letto, tremando. Spinsi su le lacrime, le tenni strette a me con forza, non dovevano scendere. Feci dei respiri profondi, lascia il medaglione, e presi coraggio «Io non devo dirti niente» gli risposi, calma, scandendo le parole.
      «Cosa?!» domandò scoccato.
      «Io, non devo darti nessuna spiegazione, Clark» ripetei «sono adulta e faccio quello che voglio»
      «Non puoi trattarmi come un giocattolo, non sono uno di quelli che ti tieni dietro solo per il nome che porti Susan, sono una persona…»
      «Come osi?!» lo interruppi, alzandomi e fronteggiandolo «Come osi parlare di me in quel senso? Io non uso le persone! Non hai nessun diritto di dirlo!» lo guardai truce.
      «Ah no? Non lo fai, Susan? Davvero? A me sembra di sì, invece» ribatté «Ogni volta che portavi qualche amico a casa, era sempre diverso, sempre. Li comandavi a bacchetta e loro non ribattevano. Pensi che io sia uno di quelli? Te la puoi scordare, cara, io sono molto diverso da loro, non mi faccio comandare da una sgual…»
      Non ci pensai nemmeno un secondo, e gli diedi uno schiaffo, il più potente possibile. Non aveva un briciolo di diritto a dirmi quelle cose, che ne sapeva della mia vita, dei miei problemi, dei miei amici? Niente! Lui non sapeva niente, e così doveva restare. Non mi ero mai fatta trattare da nessuno così, figuriamoci da lui. Si voltò lentamente a guardarmi, con una mano si massaggiava la guancia rossa, i capelli bagnati e sconvolti «Vuoi sapere il perché, Clark?» gli chiesi in un sussurro. Non aspettai una risposta e continuai «Ero gelosa. Sì, Clark, ero gelosa di Amy, perché avevi detto che era carina. Ma adesso, adesso me ne infischio di te, e mi dispiace essermela presa anche con lei, in fondo, non è colpa sua se sei uno stronzo» aprì bocca per parlare, ma continuai «Una persona che ti riempie di complimenti, carezze, che inizia a piacerti, ma che poi ti illude com’altro si può definire, Clark?» dissi.
      Mi guardò truce, poi aprì bocca per parlare «Era uno scherzo, Susan, uno stupido scherzo» disse con disprezzo, tenendosi sempre la guancia.
      Restai a bocca aperta a quelle parole. Avevo rovinato tutto. Tutto. Ed era solo colpa mia. Per l’ennesima volta «Mi… mi…» cercai di scusarmi, ma anche se ci fossi riuscita, sapevo che lui non mi avrebbe mai perdonata. Era come aveva detto Harry, uno stupido scherzo che io non ero riuscita a capire, perché io dovevo rovinare sempre tutto. Si scansò da difronte a me, e si allontanò «Clark…» cercai di chiamarlo. Si voltò a guardarmi, con sguardò triste, non più carico di rabbia come quello di prima, adesso vedevo solo tristezza «Mi dispiace, io… io non…» non riuscii a finire, cha la mia voce si ruppe dai singhiozzi. Lui raccolse il libro, e uscì dalla cabina. Mi sedetti sul letto, portandomi le gambe al petto, e lasciai che le lacrime scendessero.
      Tutto. Avevo rovinato tutto.






eccoci all'ottavo capitolo xD
spero vi piaccia e vi scongiuro di recensionare se qualcosa non va
granzie ancora a tutti

Matt

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Capitolo 10
*** 9. Cambio di programma ***


9
Cambio di programma

      Passai il resto della giornata così, rannicchiata sul mio letto a piangere, come una bambina stupida e capricciosa, ad aspettare, o meglio, sperare, che lui tornasse, che da un momento all’altro la porta si sarebbe aperta e lui era lì, con il suo sorriso e capelli alla Edward pronto ad insultarmi per ogni piccolo sbaglio che facevo. Piangevo e fissavo la porta. Speravo. Speravo con tu me stessa che tornasse, anche solo per dieci minuti, il tempo per dargli le mie scuse anche se ero convinta che lui non le avrebbe nemmeno volute ascoltare.
      E se non mi avesse parlato per il resto del viaggio? No, lui non era così, non riusciva a tenermi il muso per più di una settimana. Se tutto fosse andato bene mi avrebbe perdonata perché lo faceva sempre, perché per lui ero importante. Ma cominciavo a dubitare anche di quello. Stavolta non l’avrei passata liscia come sempre, la avrei pagata cara, avrei dovuto accettare le conseguenze che si prevedevano più che dolorose: Senza di lui.
      Scossi il capo. Non le accettavo, erano troppo dolorose da sopportare, e non ce l’avrei mai fatta a superarle. Lui ormai faceva parte della mia vita come tutti quelli che mi erano più cari, ormai non poteva più uscirne, e se lo faceva, mi avrebbe lasciato una cicatrice inguaribile sul petto, all’altezza del cuore, dove tutti l’avrebbero vista. Strinsi forte il medaglione al braccio, e dissi «Avanti… entra… entra da quella dannata porta!» ma non si muoveva. Le otto. Le otto e lui ancora doveva tornare e nemmeno si era fatto sentire. Era anche ora di cena, ma non avevo affatto fame, solo nostalgia, nostalgia di lui, che mi mancava ogni secondo di più.
      Avrei potuto impedirglielo, sì, ma per risolvere cosa? Tenerlo rinchiuso qui contro la sua volontà? Nascondergli le chiavi per non farlo mai uscire? Per tenerlo sempre con me, lì, in quella cabina? Non avrebbe risolto un bel niente. Anzi, mi avrebbe tenuto il muso per tutto il resto del viaggio, anzi, odiata.
      La porta continuava a restare chiusa, senza che si muovesse di un millimetro «Andiamo» sussurrai tra le lacrime «Andiamo»
      Nove di sera.
      Fuori il sole era scomparso completamente lasciando spazio alla mia adorata luna, anche se in quel momento avevo occhi solo per quella dannata porta di legno che non si decideva ad aprirsi a far passare lui.
      Perché dovevo essere così stupida? Rea uno scherzo, uno stupido scherzo, e io ci ero cascata in pieno. Harry mi aveva anche avvertito, ma io non l’avevo ascoltato, non l’avevo fatto perché ero una stupida coi fiocchi che rovinava sempre tutto, e adesso, mi ritrovavo senza l’unica persona che, anche se avevo fatto capire il contrario, volevo con me in quel viaggio. Lui che mi avrebbe confortato, divertito, presa in giro durante tutti quei mesi, adesso non c’era più, in giro chissà dove per la nave a fare chissà cosa.
      E se… se fosse andato da lei? Da Amy? Se avesse deciso di farmela pagare a carissimo prezzo?
      Anche se lo aveva fatto ormai non mi importava più, non poteva importarmi dato che lui da quel momento in poi non mi avrebbe nemmeno mai più calcolata, e forse se ne sarebbe andato anche da casa mia. Anche se ne dubito, dato che i suoi sono in Francia, e non in Inghilterra come lui, e poi, lui stesso mi aveva detto un giorno che era scappato di casa e venuto in Inghilterra con un amico che conosceva i suoi genitori. Gli aveva fatto promettere che non gli avrebbe detto niente ai suoi, e lui gli aveva promesso che se non trovava lavoro sarebbe tornato. E per fortuna c’era riuscito e come.
      Dieci di sera. Di lui ancora nessuna traccia. Ormai non avevo nessuna lacrima da versare. Le avevo fatte uscire tutte, anche quelle di riserva –non riuscivo proprio ad essere seria-. Ma dov’era finito? Se era andato da lei non potevo incolparlo, e se aveva deciso di passare anche la notte con lei? Oddio, ma cosa vado a pensare?! Fatti suoi! Ecco cos’erano. Io non potevo contra battere, non ne avevo il diritto, non potevo immischiarmi nelle sue faccende intime. La pianti?!
      Mi stesi, stringendo forte il cuscino tra le braccia. Se lo stringevo anche di un millimetro ancora di più sarebbe esploso. Il medaglione stretto in una mano.
      Un cigolio, fastidioso, mi fece risvegliare dal mio stato di trans. La porta si aprì, e lui era lì. Mi alzai di colpo, con un sorriso, pronta ad abbracciarlo e chiedergli scusa, ma mi fermai all’istante quando vidi la sua espressione. Ancora fredda e vuota, senza sentimenti felici e gioiosi come lo era spesso. Mi fisso per qualche secondo.
      «Clark…» dissi a bassa voce. Volevo dirgli così tante cose, chiedergli così tante domande, ma la sua espressione mi bloccava. Mi sentivo legata da una corda d’acciaio indistruttibile che mi impediva di raggiungerlo.
      Ignorò il mio lamento, e mi scrutò per un altro secondo. Si avvicinò con passi lenti, chiudendosi la porta alle spalle, e gettando la chiava da qualche parte della stanza. Non ci feci caso. Mi posò una mano sul viso, disegnandomi il mento con le dita, fino ad arrivare agl’occhi.
      «Hai gl’occhi rossi» disse in un sussurro. Era talmente vicino che potevo sentirmi il suo fresco respiro sulle labbra «hai pianto?» mi chiese, studiando i miei occhi con i suoi, e disegnando il percorso delle lacrime sulla mia guancia.
      «… Sì» la voce mi uscì più bassa di un sussurro, dubitavo seriamente che l’avesse sentita.
      Passò il dito sulle mie labbra, provocandomi un brivido. La sua espressione non era più fredda e vuota come prima, aveva un bagliore di… di desiderio forse.
      Tirò via la mano, con gl’occhi bassi, e si allontanò. Si distese sul letto, voltandomi le spalle. Ero rimasta immobile, lì, in mezzo alla cabina, come una statua, ci misi qualche secondo per riprendermi e capire cos’era successo. Cercai di dire qualcosa, ma era come se mi fossi dimenticata come si faceva. Il mio cervello si era spento, staccato per un paio di minuti. Mi sedetti sul mio letto, osservando la sua schiena «Clark?» cercai di chiamarlo quando mi ricordai come si faceva.
      Non rispose, provai a richiamarlo, ma anche stavolta non rispose. Mi sentivo una stupida, come se stessi provando a parlare con una statua. Lo richiamai la terza volta, allora rispose.
      «Non ho voglia di parlare, Susan» disse con tono duro.
      Ingurgitai, e mi stesi anch’io, cercando di dormire.
      Non fu facile entrare nel mondo dei sogni, il mondo che tanto amavo perché lì andava tutto bene, tutto filava liscio.
      Felicità. Gioia. Divertimento.
      Perché non poteva essere così anche i mondo reale, dov’era tutto l’inverso del mio ideale di mondo.
      Tristezza. Dolore. Complicazioni.
      Il mattino seguente, quando mi alzai, lui era ancora lì, ma col sonno si era voltato verso di me. Avevo dormito poco e niente. Il tempo che mi bastava per non svenissi durante la giornata. Mentre dormiva, osservai il suo viso, tornato finalmente normale almeno in sonno. Forse anche lui desiderava un mondo come il mio. Come quello dei sogni, dove tutto era perfetto.
      Mi alzai in silenzio, non volevo svegliarlo, volevo che dormisse ancora solo per vedere il suo vero volto. Andai in bagno e mi sistemai per uscire. Rientrai in cabina e presi le chiavi, per poi uscire. Chiusi la porta lentamente e in silenzio.
       Mi voltai verso i corridoi, erano ancora vuoti, eccezione fatta per un’anziana signora che passeggiava con una borsetta viola stretta in mano. Mi salutò cordialmente, e sorrisi di rimando. Arrivai fuori, sul ponte. Faceva ancora un po’ freddo, e il sole stava salendo proprio in quel momento. Mi sedetti su una panchina, e mi rannicchiai. Dovevano essere le 6 di mattina a giudicare dal freddo e dalle persone che erano sul ponte.
      Una signore che cercava campo, imprecando ogni volta che alzava il cellulare per cercare una nuova zona. Un’altra signora, seduta a due panchine di distanza da me, leggeva. Un signore appoggiato al parapetto giocherellava col suo cellulare. Il ponte è delle donne pensai ironicamente, per non ricordare quello che era successo ieri.
      Restai sulla panchina immobile, a pensare a tutti i guai che avevo combinato nella mia vita. Ne erano tanti, ma questo era n testa alla classifica. Seguito da quel giorno che avevo dato fuoco al divano in saluto quando avevo nove anni, e al terzo posto il giorno che, incazzata nera con mia madre, avevo scagliato la sedia della mia camera contro la finestra, facendola andare in mille pezzi.
      Che posso dirvi? Sono una ribelle.
      «’Giorno» mi salutò una voce gentile.
      Mi voltai a guardare il padrone di quella voce «’Giorno Amy» risposi con un sorriso.
      «Posso?» mi chiese indicando il posto di fianco a me.
      Seguii la direzione del suo dito, e risposi «Certo, accomodati» mi scansai per farla sedere.
      «Grazie» si sedette e, come me, si mise a fissare il mare ancora calmo «Dormito bene?» mi chiese.
      «Sì, grazie» mentii «Tu?»
      «Il letto era un po’ scomodo» disse con una smorfia. Sorrisi pensando che aveva perfettamente ragione «Siamo al giorno numero due, eh?»
      «Già» dissi semplicemente «e chissà quanti ce ne mancano ancora»
      «Molti, presumo» mi rispose con un’alzata di spalle.
      Moltissimi la corressi mentalmente. Restammo in silenzio, a guardare insieme il mare, poi, la nave. Iniziammo a commentare ogni piccola cosa, tanto per passare il tempo. Poi, quando non potemmo più commentare niente, facemmo un gioco con le mani. Era simpatica se la conoscevi, il perfetto opposto di come l’avevo immaginata io. Era intelligente e divertente al punto giusto. Mentre giocavamo mi disse che era venuta da sola, tanto per curiosità, per passare un estate diversa, e che gli avevano dato una cabina per due. Mi invitò, se volevo, a passare qualche notte da lei, tanto per non farla sentire sola. Accettai di buon grado, dato che le prospettive nella mia cabina si prevedevano nera come la pece.
      «Buongiorno ragazze» arrivò anche Harry, con il suo solito libro tra le mani. Dal segnalibro che spuntava dalla pagine, capii che era quasi arrivata alla fine. Chissà che farà dopo che lo finisce pensai.
      «’Giorno Harry» lo salutammo. Si affacciò al parapetto, e guardò verso il basso. Non lo avevo mai fatto, ma avevo tempo.
      «Che fate?» ci domandò, senza staccare lo sguardo dal mare.
      «Passiamo il tempo» le rispose Amy, che stava giocherellando con le sue infradito.
      Decisi che, se non avevamo niente da fare, potevamo parlare del mio problema, e che forse Harry avrebbe potuto darmi qualche problema come aveva fatto ieri «Poso dirvi una cosa?» gli chiesi.
      «Certo» rispose all’unisono.
      «Harry, tu sai già di me e Clark, no?» gli domandai, con una punta di imbarazzo nel dirlo davanti ad Amy. Annui con il capo.
      «Cosa?» si intromise lei «Io non lo so»
      «Lei piace a Clark, e a Clark piace lei» sintetizzo Harry, meritandosi uno sguardo assassino da parte mia, a cui lui ripose con un sorriso.
      «Oh» disse solamente lei «Mi dispiace… per ieri. Era per quello che ti sei arrabbiata?» mi domandò.
      «Sì» risposi secca, senza darci peso «Ma non preoccuparti, non fa niente» la tranquillizzai, poi mi rivolsi ad Harry «Ieri è successo un putiferio!»
      «Cosa? che è successo?» domandò sbalordito. Indicai Amy, lui fece un cenno di consenso, poi si rivolse a lei «Per via di quella scenata, Susan aveva intenzione di chiedergli scusa» le spiegò. Lei fece un cenno di consenso, quindi aveva capito.
      Continuai «Volevo chiedergli scusa, ma lui era troppo arrabbiato, e quindi, per tenergli testa, gli ho risposto… sgarbatamente?»
      «Tu cosa?!» chiese lui.
      Amy si intromise «Lasciala continuare» lo colpevolizzò.
      «Grazie. E poi, ho dovuto, mi stava offendendo di brutto, non ce l’ho fatta a stare ad ascoltare e basta» mi giustificai.
      «Ma gliele hai date le scuse, vero?» domandò Amy, presa dal racconto.
      «E qui viene il bello. Dopo la litigata se n’è andato, ed è tornato solo a tarda sera. Quando è tornato, sembrava da come si comportava che volesse… che volesse baciarmi»
      «E?» gl’occhi di Amy brillavano di speranza.
      «E non lo ha fatto. Si è coricato, e stamattina l’ho lasciato che dormiva ancora» dissi triste, con una smorfia. Non potevo negare che lo volevo.
      «Oh» disse con altrettanta tristezza Amy, manco se lo stava dando a lei, il bacio!
      «Mi dispiace» disse Harry «ma quindi le scuse non gliele hai date lo stesso?»
      «No» sussurrai.
      «Cavolo. E adesso?» chiese lui.
      «Non lo so, mi sento una scema. Non avrei dovuto dirgli quelle cose. Forse aveva ragione» mi maledii.
      «Forse» ripeté lui.
      Lo guardai storta «Tu non dovresti essere quello che dice “Non è vero, Susan” oppure “Non diceva sul serio”?»
      Rise, insieme a Amy «Sì, direi di sì»
      Restammo a ridere e scherzare tra noi. Salutammo Dam e Violet che non si fermarono a parlare, andarono direttamente a afre colazione. Non vedemmo nemmeno una volta Clark, cosa che mi diede sollievo. Facemmo colazione, e poi tornammo fuori, a ridere e scherzare di nuovo. Trovammo anche il tempo per parlare di cose serie –se il nuoto dei delfini si può considerare un argomento serio-. Parlare con loro mi divertiva, riuscivano a farmi dimenticare, anche se per poco, Clark, e tutta la tristezza legata a lui.
      «Secondo te, perché non lo ha fatto?» chiesi ad Harry, interrompendo la sua barzelletta sugli elefanti.
      «Fatto cosa?» chiese.
      «Perché non mi ha baciato? Poteva farlo, volevo che lo facesse, e forse lo voleva pure lui, glielo leggevo negl’occhi. Perché non lo ha fatto?»
      Amy si zittì, capendo che adesso, almeno per me, era una cosa seria e molto delicata. C’erano in gioco i miei sentimenti.
      Harry ci pensò su’ per qualche secondo, guardando fuori dal parapetto, verso l’orizzonte «Secondo me» iniziò «non lo ha fatto perché si sentiva… deluso forse. Lui teneva a te, ed è rimasto deluso a tal punto dal contenere i propri desideri anche quando potrebbero esprimersi» concluse guardandomi dritta negl’occhi.
      «Tu credi?» volevo esserne certa, anche se dalle sue deduzioni, più che avverate, mi fidavo cecamente.
      «Sì, certo» disse Amy «Cos’altro sennò? Lui ti ama, ma non è sicuro che il sentimento è reciproco. Quindi, non vuole combinare casini finché non ne è sicuro» concluse.
      «Ma lui già lo sa che io l’ho…» non mi uscì la parola “amo”, troppo triste per me in quel momento.
      «Se lo sapeva già, la tua scenata di ieri, gli ha fatto ritornare i dubbi che lui aveva già superato» aggiunse sempre lei, saggia quasi quando Harry. Annui, perché non trovavo parole giuste.
      «Ma adesso come faccio? Se lui non vuole più parlarmi?»
      «A questo non possiamo darti risposta sicura, Susan» rispose Harry «solo il tempo potrà farlo»
      «Diventi ogni giorno più saggio, sai?» lo insultai, per addolcire la situazione, diventata fin troppo malinconica.
      «Grazie» rispose lui, con una voce da anziano saggio, facendo ridere me ed Amy.
      Parlare con loro mi aveva sollevato, e non poco. Gli chiesi se ogni mattina potevamo rifarlo, stare insieme noi tre, visto che andavamo molto d’accordo. Loro mi risposero che era ovvio, che qualcosa dovevamo pur fare in quei mesi. Adesso, il tempo da passare sulla nave, da triste e nero, si era trasformato in divertente e bianco. C’era sempre quella parentesi che includeva la parola “cuore” e “Clark” che prima o poi avrei dovuto affrontare, ma adesso potevo anche non pensarci, volevo solo pensare a noi tre. Io, Harry ed Amy.
     Fatto pomeriggio, e ormai pranzato, decidemmo che più tardi ci saremmo rincontrati, ma che adesso era meglio andare a riposarci, e Harry si propose ad accompagnarci entrambi. Accettammo con piacere, e ci avviamo tra le strade del paradiso. Per tutto il tragitto, ovviamente, non smettemmo di ridere per le barzellette di Harry. Dalle risate, a me ed Amy ci faceva male lo stomaco. Stavamo proprio bene insieme noi tre. Decisero di accompagnare prima me, quindi ci avviamo alla cabina ottantaquattro.
      Quando ci arrivammo all’angolo, prima del tratto del corridoio che ospitava la mia cabina, io –che ero capofila-, spinsi violentemente Harry ed Amy indietro.
      «Ahi!» sbottò lui, che sbatte con la testa contro la parete, e adesso se la massaggiava.
      «Che ti prende?» chiese sbalordita lei.
      «Shhh» gli tappai la bocca la mano «C’è Clark» li informai.
      «Cosa?!» domandò lui, sgranando gl’occhi dalla sorpresa.
      «Sì. Guardate» ci chinammo sull’angolo, facendo uscire la testa il minimo indispensabile a vedere Clark, seduto per terra, contro la cabina, fisso a guardare il pavimento «Che facciamo adesso?»
      «Che facciamo adesso?! È un ragazzo, non un mostro, Susan!» sbottò Amy, un po’ troppo forte. Clark si voltò nella nostra direzione, e noi ci ritirammo subito indietro.
      «Hai ragione, è Clark, non è un mostro, è molto peggio» gli risposi.
      «Ma fammi il piacere Susan!» rispose lei, scocciata dai miei lamenti.
      «Ti dico io cosa farai» disse Harry, e ci voltammo a guardarlo «Tu andrai lì, entri in cabina senza fregartene. Noi aspettiamo che ve ne siate andati tutti e due, e poi ce ne andiamo»
      «Ok» dissi con una smorfia. Non aspettarono che mi alzai, che mi spinsero nel corridoio, con Clark che mi fissava incuriosito. Lo salutai con un’alzata di mano, e mi alzai anch’io insieme a lui, avviandomi alla cabina, maledicendo di Amy e Harry.
      «Cosa ci fai qui?» gli chiesi, parandomi di fronte a lui.
      «Hai tu la chiave» disse lui, con una smorfia.
      «Ah, giusto» dissi, estraendo la chiava, entrando nella cabina, seguito a ruota da lui, che si chiuse l porta dietro.
     «Andate molto d’accordo? Voi tre?» chiese, una volta chiusa la porta.
     Capii subito a che si riferiva «Sì, siamo grandi amici»
      «In neanche due giorni di conoscenza?» aggiunse.
      «Clark, non vedo come ti possa interessare» conclusi. Non mi andava di litigare un’altra volta con lui, ed ero sicura che neanche lui voleva. Quindi tagliai corto. Mi venne un’idea. Presi il mio pigiama, e lo spazzolino e uscii dalla cabina.
      «Dove vai?» mi chiese lui, cercando di dirlo con aria distaccata.
      «Visto che non mi sopporti, in questi giorni dormo da Amy. Ci si vede in giro» e chiusi la porta, soddisfatta. Avevo avuto anche l’idea di chiedergli scusa, ma immediatamente pensai che ero stufa di essere sempre io a farlo. Anche se il suo era uno scherzo, chiamarmi sgualdrina non era affatto carino, e non gliel’avrei perdonata.
      Passai la maggior parte delle notti da Amy come gli avevo detto, da quella sera in poi. Lei era più che felice di ospitarmi dato che restava sempre da sola tutte le notti, io anche lo ero perché non dovevo sopportarmi lo sguardo omicida di Clark addosso, e lui perché adesso non mi vedeva più. Eravamo tutti felici e contenti. Anche se a me la situazione non piaceva affatto, anzi.
      Volevo scusarmi con Clark, tornare da lui e dirglielo in faccia senza ripensamenti, andandomene, gli sarò sembrata codarda, e avrà pensato che non volevo saperne più niente di lui. Non era assolutamente vero. Non ero codarda. Ero solamente stanca di essere la più fragile, e quella che doveva chiedere sempre scusa, ma più tardi capii che volente o nolente, la situazione era quella. Io ero dalla parte del torto, e lui da quella del giusto. E non era nemmeno vero che non volevo saperne più niente di lui, ogni giorno, e ogni notte che non lo vedeva mi facevo continue domande su di lui.
      È ancora arrabbiato con me? Mi avrà perdonata? Non vuole più vedermi? Chissà cosa sta facendo adesso? Mi starà pensando come faccio io adesso con lui?
      No.
      Ne ero più che sicura, lui non mi aveva perdonata, ne ero più che sicura.
      «Se non la pianti di pensarci, vado lì e lo ammazzo» mi minacciò Harry, riportandomi alla realtà. Eravamo nella cabina venticinque, la cabina di Amy, e stavamo giocando a Monopoli per passare il tempo, dato che fuori non avevamo niente da fare, e per fortuna, Amy aveva avuto la buona idea di portarselo dietro. Era il mio turno di tirare i dadi.
      «No! Non ti azzardare» gli urlai, puntandogli contro la mia pedina, come se fosse un coltello.
      «E allora ritorna nel mondo dei vivi» mi rispose lui «su’, tira quei dadi»
      Li lancia. Uscirono due quattro, e spostai la mia pedina di otto caselle «Prego» mi spronò Amy, porgendomi il palmo della mano. Sbuffai, e gli diedi il denaro finto «Grazie, è sempre un piacere fare affari con te» rispose ironica.
      «Ma quanto sei spiritosa, Amy» conclusi con una smorfia, facendo ridere Harry, che tirava i dadi.
      Facemmo ancora qualche giro, prima di decidere di uscire. Lo propose Amy, che si era annoiata –in effetti, il Monopoli non era proprio un passa tempo divertente-, e io e Harry accettammo, dato che lo eravamo anche noi. Mettemmo tutto apposto, e facemmo uscire Harry per cambiarci, dato che eravamo ancora in pigiama. Capii in quei giorni che, come me, lei non era una fanatica dei vestiti. Indossava sempre abiti sportivi e comodi. Optammo per jeans e maglietta bianca. Io decisi di portarmi dietro anche un cardigan, dato che fuori era pomeriggio, e il cielo sembrava portasse pioggia. Uscimmo, e ci avviammo tutti insieme, e in effetti, sul ponte faceva un gran freddo, o almeno per me. Non sapevo Harry come facesse a stare con pinocchietto e maglietta. Immediatamente, indossai il cardigan, e vidi Amy maledirsi per non esserselo portato anche lei.
      Ci accomodammo su una panchina, e iniziammo a parlare del più e del meno. Harry ci raccontò un aneddoto accaduto nel suo college. Notai che Amy era abbastanza assente.
      «Ehi? Terra chiama Amanda. Ci sei?» la scossi un po’.
      «Cosa? Che c’è?» domandò. Sembrava spaesata, e forse lo era.
      «Niente, sembrava che stessi in un altro mondo» disse Harry.
      «Pensavo» disse semplicemente, alzando le spalle.
      «Tu pensi?!» la insultai, facendo ridere Harry.
      «Ah, Ah. Divertente Susy» rispose lei, con una smorfia.
      «Ok, scusa» alzai le mani «a cosa pensavi?»
      «Noi siamo partiti il tre Giugno, no?» io e Harry acconsentimmo con il capo, ma non capivamo a cosa andasse a parare «e oggi è il diciassette Luglio, giusto?» acconsentimmo ancora «e se non vado errata, oggi sono passati esattamente quarantaquattro giorni da quando siamo partiti» controllò sul suo cellulare l’agenda.
       «E allora?» le chiese Harry.
       «E allora, noi siamo partiti con questa spedizione per recuperare una reliquia perse al nord dell’Oceano Atlantico no? Beh, sono passati quarantaquattro giorni e non ci siamo fermati nemmeno una volta a controllare se ce n’era traccia? A me sembra strano sinceramente» concluse.
      «Ma cosa vai a pensare? Avranno qualche apparecchio che li avverte lì dentro non credi?» la corresse lui, indicando la cabina di pilotaggio.
      «Ha ragione» dissi un sussurro «Ha ragione» ripetei con voce più alta e convinta. Più che alla reliquia, però, pensavo alla mia famiglia. Erano già passati tutti quei giorni? Sembrava ieri che li salutavo con le lacrime agl’occhi sul ponte insieme a Clark, oppure quando mamma mi aveva regalato il medaglione di nonna. Istintivamente, lo strinsi tra le dita, non lo toglievo mai, era troppo importante e non volevo per nessuna ragione al mondo separarmene.
       «Sono passati così tanti giorni e non ci siamo fermati nemmeno una volta? Adesso le alternative sono due: o andiamo talmente piano che da non avere percorso nemmeno un kilometro, oppure sappiamo perfettamente dove si trova. E a me nessuna delle due risulta plausibile» Amy capì il mio ragionamento, ma dallo sguardo di Harry, capii che lui non ci credeva.
      «Harry, pensaci. È strano» lo incitò lei.
      «No, dai ragazze, siete paranoiche» rispose un con un sorriso, sperando forse di farci cambiare idea, ma né io, né Amy ne avevamo la minima intenzione. Ormai il dubbio c’era venuto.
      «Tu non crederci, ma io e Susy andiamo ad indagare» lo avvisò Amy, alzandosi, e prendendomi per mano.
      Ci lasciammo dietro un Harry spaesato, che non capiva un bel nulla, come me in quel momento, ma mi lasciai guidare da Amy, dato che aveva detto che andavamo ad indagare. Salimmo delle scale, e ci parammo di fronte ad un portellone, con quello che a me sembrava un’enorme sterzo di ferro parato al centro. Capii che era la cabina dove si navigava, o dove si faceva muovere quella nave, come volete voi. Lei busso, sotto i miei occhi increduli «Ti rendi conto che noi qui non possiamo stare, vero?»
      «Sì invece, abbiamo il diritto di sapere dove stiamo andando» mi ammonì.
      Non riuscii a ribattere che il portello si aprì, e da dentro ne uscì Phil Countin, un uomo alto, su 30’anni, con i palle corti e ricci di un castano chiaro –quasi come quello di Clark-, bello. Lo avevo visto speso in giro per la nave, mi sembrava fosse una specie di vice. Ci avevo parlato due o tre volte, era molto simpatico. Avevo parlato con lui numerose volte perché andava spesso in giro con zia Jas, oppure lo usava come messaggero per parlare con me, ma non ero ancora sicura che il nostro legame fosse talmente forte da permettermi di poter restare lì «Cosa posso fare per voi signorine?» ci chiese garbatamente, con un sorriso ammiccante «Susan» mi salutò.
      «Ciao Phil. Noi stiamo cercando il capitano» risposi «mia zia» aggiunsi, sperando che così potesse farmela vedere di sicuro, anche se lui me l’avrebbe fatta vedere.
      «Lo so che è tua zia, Susan» mi rispose quasi come un rimprovero «ma il capitano non c’è» ci informò.
      «Non c’è? E dov’è andato?» chiese Amy, spalancando gl’occhi. Io mi sporsi per guardare meglio dentro.
      Lui mi scrutò per qualche secondo, sbuffo e si guardò dietro, nella cabina, farfugliò qualcosa a gl’altri per poi uscire chiudendosi il portone dietro. Osservai incuriosita il suo comportamento, non era da lui «Venite con me» disse. E si incamminò in un corridoio.
      Amy lo seguì a ruota, io rimasi ferma dov’ero «Susan! Andiamo, vieni» mi richiamò lei con un gesto della mano. Con un po’ di disagio, la seguii. Anche se mi fidavo di lui, sapevo che se voleva parlarci in privato, non doveva darci buone notizie.
      Ci fermammo in una delle strade del paradiso dove non c’era nessuno, ma lui si guardò lo stesso con aria circospetta in giro «Susan, lo dico a te perché sei sua nipote» disse a bassa voce, come se qualcuno stesse provando ad ascoltarlo.
      «Che è successo?» chiesi preoccupata.
      «Tua zia è scomparsa da qualche giorno» rispose.
      «Cosa?! Scomparsa?!» ero sbalordita, come faceva una persona a scomparire su una nave? E in più era mia zia, ed ero molto preoccupata. Senza volerlo, pensai al peggio. Scossi la testa per mandare via quei pensieri.
      «Non ne sono sicuro, ma non la vediamo da due giorni, e non riusciamo a trovarla da nessuna parte. Prima di scomparire ci ha dato delle coordinate, e ci ha ordinato di seguirle per filo e per segno, senza sbagliare. Noi lo stiamo facendo, ma lei non si trova ancora»
      «Delle coordinate?» chiese Amy «Noi poco prima stavamo parlando di quello» aggiunse.
      «Sì» continuai io al posto suo «Prima ci chiedevamo come mai sono passati dei giorni dalla partenza, e non ci siamo mai fermati ancora una volta a controllare la reliquia» lo informai.
      «Ce lo stiamo chiedendo anche noi, Susan. Quando lo abbiamo chiesto al capitano circa una settimana fa, lei ci ha risposto che non c’era bisogno di fermarsi, che eravamo ancora troppo lontani. Da quando siamo partiti proseguiamo a velocità massima senza mai rallentare» si guardò ancora una volta attorno con aria sospetta.
      «Ma a voi ha dato delle coordinate da seguire no? Non sono quelle della reliquia?» chiese ovvia la mia amica.
      «No, noi sappiamo la zona di circa cento metri di diametro di dove è possibile trovare la reliquia, e non è quella che ci ha dato lei» ci informò. Una signora sbucò da un angolo, ma non si preoccupò di noi. Phil sembrò lo stesso preoccupato, e aggiunse «Adesso devo andare. Non dite a nessuno di questa conversazione, mi raccomando»

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Capitolo 11
*** 10. Persa ***


PARTE SECONDA
L’ISOLA


10
Persa

      Rimasi qualche secondo in silenzio, ad assimilare le notizie.
      «Certo, sta’ tranquillo» risposi, e lui sparì tra i corridoi «Dobbiamo dirlo almeno ad Harry» aggiunsi dopo qualche momento in direzione di Amy, che acconsentì. Insieme ci avviamo di nuovo sul ponte, dove la temperatura e le condizioni climatiche non erano cambiate di una virgola. Harry era ancora dove lo avevamo lasciato. Corremmo verso di lui, e ci sedemmo.
      «Non fare domande, e ascolta in silenzio» disse Amy.
      «Abbiamo parlato con Phil» lo conosceva anche lui, dato che ogni tanto ci fermavamo tutti e tre a parlare con lui nei corridoi «e ha detto che zia Jas è scomparsa da due giorni lasciando delle coordinate precise da seguire. Lui ha detto che sono diverse da quelle che avevano prima di partire, ma stanno ubbidendo, in più stiamo proseguendo a tutta velocità dalla partenza» dissi tutto d’un fiato, non essendo sicura che lui avesse capito tutto.
      Lui restò a bocca aperta per qualche secondo, poi si ricompose «S… secondo voi vuole arrivare da qualche parte?»
      «L’ho pensato anch’io» rispose Amy «ma non ne sono sicura»
      «Infatti. Se è così, perché è partita con una nave così grande portandosi dietro tutte queste persone?» aggiunse lui.
      «Tu cosa suggerisci?» chiesi ansiosa ad Harry.
      «Non lo so, Susan. Ma non credo certo che ci stia conducendo alla morte tutti quanti» rispose sarcastico. A me non sembrava proprio il momento di scherzare.
      Restammo in silenzio a pensare ognuno per se. Perché zia era scomparsa lasciando solo delle coordinate? Dov’era andata? Di certo non poteva essere al di fuori della Starlight, a meno ché… «Ragazzi?» li richiama, loro mi risposero con un mugolio «Avete notato che non ci sono scialuppe di salvataggio?»
      Immediatamente, spostarono il loro sguardo sul parapetto, percorrendo con lo sguardo tutta la fiancata destra della nave. Senza dire niente, si precipitammo dall’altra parte, seguiti a ruota da me. Anche lì nessuna scialuppa.
      Un ansia mi pervade tutta. Non era la prima volta che me ne accorgevo, ma la prima volta non ci avevo fatto caso, non me ne era fregato più di tanto, ma adesso che zia era scomparsa, e eravamo condotti da qualche parta di ignoto, iniziavo ad avere seriamente paura.
      Mi strinsi al braccio di Harry inconsapevolmente «Ragazzi inizio ad avere paura» dissi, e le nuvole nere non erano d’aiuto. Un tuono si fece spazio d’avanti a noi, facendomi saltare dallo spavento insieme ad Amy, che mi stringeva una mano, impaurita quanto me.
      «Andrà tutto bene, tranquille» ci rassicurò Harry, ma nella sua voce, capii che non ne era convinto nemmeno lui.
     Un urlo alle nostre spalle ci distrasse «Guardate lì» urlò una signora, indicando un punto all’orizzonte scuro. Ci avviamo al parapetto. Seguimmo il percorso dell’indice della signore
      «Ma cos’è quella?» domandò Amy, socchiudendo gl’occhi. Lo feci anch’io, sperando di guardare più in lontananza.
      Riuscii a si vedeva una piccola ombra nera «Sembra un’isola» dissi, guardando meglio «Ma non ne sono sicura» da quella distanza nessuno poteva esserlo ad occhi nudi.
      «Ma qui non dovrebbero esserci isole, sulla carta non ce ne sono» ci informò la signore di fianco a noi. Un altro tuono, più potente. Mi strinsi nel cardigan, stavo congelando, ma in quel momento prevaleva la paura.
      «Ragazzi torniamo dentro?» chiesi, convinta che forse lì, la paura si sarebbe calmata.
      «Va bene» rispose Harry. Mi strinsi di nuovo al suo braccio, a presi la mano di Amy. Insieme ci avviamo alla porta che dava nei corridoi. Prima che potessimo superarla, un boato fortissimo fece scuotere bruscamente la Starlight, facendoci cadere tutti per terra.
      Mi rialzai a fatica «Che è stato?» chiese Amy, appoggiandosi al mio braccio per alzarsi.
      «Non lo so» disse Harry, che in quel momento si stava alzando, ma cadde di nuovo insieme a noi due quando un altro boato fece scuotere di nuovo la nave. Stavolta, insieme al boato, arrivarono anche grida di spavento. Ci rialzammo, e io mi poggiai ad un paletto lì vicino per paura di cadere di nuovo sulla fredda superfice.
      Un urlo di terrore ci raggiunse dal lato sinistro della nave, seguito da altri.
      Ci precipitammo lì per vedere che era successo, pensando che qualcuno si fosse fatto male, ma non vedemmo niente, niente a parte tutti affacciati al parapetto che urlavano ancora terrorizzati. Harry si precipitò a guardare «Harry! Dove vai?» lo richiamai, ma lui era già arrivato. Si sporse, poi ci guardò con il terrore negl’occhi. Non si sentì, ma dalle sua labbra capii «Oddio!» io ed Amy ci corremmo accanto, preoccupate. Era come paralizzato dal terrore, non si muoveva. Lo facemmo sedere su una panchina.
      Ma cosa avrà visto? Mi chiesi, e mi precipitai al parapetto, sporgendomi.
      Restai paralizzata anch’io.
      Sul lato sinistro della nave, in fondo, dove l’acqua toccava la Starlight, una spaccatura enorme la perforava da capo a capo, facendo entrare pericolosamente l’acqua. Amy mi affianco e disse «Oh Madonna Santa» in un sussurro. Indietreggiai di qualche passo, con lo sguardo perso nel vuoto.
      La nave sarebbe affondata, con noi sopra senza modo di salvarci dato che non c’erano scialuppe. Ero terrorizzata, non riuscivo a muovermi, proprio come Harry. Non volevo morire. Amy mi affiancò, e mi accarezzò i capelli con la mano tremante «Susan? Susan, tranquilla. Andrà tutto bene. Ok? Ok? Susan guardami» mi sforzai di guardarla «Andrà tutto bene, ok?» disse di nuovo.
      Balbettai un «S… sì» mi aiutò ad alzarmi, e raggiungemmo Harry, ancora fermo sula panchina.
      Mi bloccai mentre stavo aiutando Amy a farlo alzare «Cosa c’è?» urlò lei. Le grida impaurite della gente si facevano sempre più forti, e per farci capire l’unica soluzione era urlare.
      «Clark» dissi in un sussurro.
      «Clark» ripetei, e corsi in una porta lì vicino, lasciandomi dietro i richiami di Amy. Correvo tra i corridoi e urlavo il suo nome sperando che mi sentisse. Un altro boato, e mi appoggiai alla parete per non cadere «Clark!» urlai. Niente. Correvo tra le strade del paradiso, che iniziavano a trasformarsi in quelle dell’inferno. Arrivai alla cabina ottantasette, e bussai con forza «Clark! Ci sei? Apri ti prego, apri!» sferrai qualche pugno sulla porta pensando che stava dormendo, ma non servì a nulla «Clark, apri, ti prego» dissi fra le lacrime. Mi guardai in giro, in cerca di lui, ma i corridoi era popolati da persone impaurite che cercavano una via di fuga che non esisteva.
      «Susan!» Amy mi chiamò, tirandomi per un braccio «Susan, dobbiamo andarcene dai corridoi prima che si affollino!» mi avvisò, tirandomi con forse.
      Opponevo resistenza, non volevo andarmene. Lui era lì. Volevo crederci. Doveva essere lì, doveva essere dove l’avevo lasciato l’ultima volta «Clark, apri!»
      «Susan!» urlò anche Harry, ma non gli diedi importanza, e continuai a colpire la porta.
      Mi prese per i fianchi, e mi strattonò via. Mi dimenai, cercando di liberarmi, ma la mia forze era niente in confronto a lui anche se ci dividevano quasi tre anni.
      Ci trovammo nuovamente sul ponte, la pioggia era cominciata a scendere con violenza, e la nave si era inclinata versa sinistra vorticosamente. Mi sorpresi a non essermene accorta dai corridoi «Che facciamo, Harry? Che facciamo?!» gridò Amy, impaurita. Lui si guardò velocemente in torno, in cerca di qualcosa da fare per metterci in salvo.
      La nave si inclinava sempre più velocemente, e noi indietreggiavamo insieme a lei, finché non ci appoggiamo alla parete. Sentimmo delle grida, e vedemmo un signore scivolare, per poi scomparire dietro le pareti. Le lacrime mi scendevano violentemente. Non volevo morire. Ero ancora giovane, e poi tutte quelle persona sulla nave, Clark, i genitori di Harry, Damon e Violet.
      «Dove sono Damon e Violet?» urlai. Loro si guardarono in giro insieme e me, ma sul ponte non c’erano. Sperai che stessero bene con tutta me stessa «Dobbiamo fare qualcosa» guardai il parapetto di fronte a me, che si alzava –o ero io che mi abbassavo- e mi venne un’idea
       Altre grida, e vidi una signora aggrappata al parapetto scivolare, e cadere in una porta. Sentii un’orribile rumore di rami che si spezzavano, o almeno, io preferivo considerarli come rami «Ragazzi, dobbiamo arrivare al parapetto» urlai. Loro spostarono lo sguardo sulla nostra meta.
      «Vado prima io» disse Harry.
      «Ok» rispose Amy «Ma sta’ attento»
     «Certo» e ci rivolse un sorriso «ci vediamo lì» la nave era abbastanza inclinata adesso, e il percorso era arduo. Delle persone avevano già avuto la mia idea, e si era già piazzate sul parapetto. Harry fece qualche respiro profondo, e si avviò correndo quanto più veloce poteva. Io e Amy lo guardavamo speranzose, lei aveva congiunto le mani come se stesse pregando. Emisi un sospiro di sollievo quando lo vidi aggrapparsi al parapetto, e arrampicarvisi sopra.
      Si voltò verso di noi, e con un sorriso ci porse la mano «Forza» urlò.
      Un altro signore, che aveva osservato Harry come noi, si precipito a farlo anche lui, ma era troppo grasso, e cadde, battendo la testa violentemente contro un paletto. Io ed Amy gridammo dal terrore. Il corpo ormai senza vita dell’uomo giaceva a pochi metri da noi.
      «Vai» spronai Amy, che mi guardò sbalordita «Vai! Io vengo subito dopo di te, tranquilla» aggiunsi. Il suo era un volto coperto di terrore, e per rassicurarla, gli rivolsi un sorriso.
      «Va bene» disse tremando. Si guardò in giro in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi nel caso fosse caduta. Non c’era tempo, la nave si stava mettendo in posizione verticale, e se non ci fossimo mosse, non ce l’avremmo mai fatta. Lei si decise, e corse verso la panchina, vi ci si arrampicò sopra, e si mise in piedi, allungò la mano verso Harry. Mentre stava per afferrarla, la panchina emise un suono orribile, e un bullone che la teneva saldo al pavimento saltò. Amy gridò, e si accovacciò su se stessa.
      «Amy devi saltare!» urlò Harry. La panchina emise un altro suono orrendo.
      Lei continuava a restare ferma «Amy! Forza!» urlai anch’io.
      «Va bene, va bene» rispose lei, con voce tremante.
      Lentamente, si rimise in piedi. Ennesimo rumore. Harry gli porse la mano il più lungo possibile, ma non ci arrivava, doveva per forza saltare se voleva mettersi in salvo. Fece qualche respiro profondo, e salto di qualche centimetro dalla panchina. Harry l’afferrò, ma la pioggia non contribuiva, e scivolò di nuovo. Un rumore ancora più orribile di prima arrivò alle mie orecchio «Ce la puoi fare, Amy» la incitai. La panchina non mi ispirava per niente fiducia, sarebbe crollata da un momento all’altro se non se ne fosse andata di lì. Lei si fece coraggio, e saltò, stavolta più in alto. Harry la riuscì ad aggrappare e, con forza, la tirò su’.
      «Forza Susan, tocca a te!» urlò Amy una volta sistematasi di fianco a lui.
      Tirai numerosi respiri profondi. La paura ormai era padrona di me. Le persone sul ponte che cercavano di arrampicarsi come noi sul parapetto cadevano di sotto, in mare. Tremavo, e non ero sicura di farcela, anzi, non lo ero.
      «Ok, Susan, è semplice» mi spronai da sola.
      Pensai di arrampicarmi anch’io sulla panchina come Amy, ma nella posizione attuale della nave, e della panchina stessa, era quasi impossibile. Mi spostai lateralmente, avvicinandomi ad un paletto, lo stesso dove mi ero aggrappata prima per non cadere, e che adesso mi serviva per arrivare alla panchina, ma la fortuna non era decisamente dalla mia parte.
      La panchina dove avevo intenzione di arrampicarmi cedette, e cadde nella mia direzione. Mi spostai in tempo per non farmi schiacciare dal suo peso. Provocò uno squarcio di dimensioni considerevoli nella parete, facendomi scivolare al suo interno. Mi aggrappai con la mano ad un oblò, per non cadere. Il cuore mi batteva a mille, provavo soltanto paura, paura di morire.
      Pensai a tutte le persone che mi volevano bene, a che aspettavano di vedermi ancora viva con le mie battute imbecilli. Non potevo deluderle. C’era anche un altro motivo, la gente cos’avrebbe pensato quando avrebbe saputo che Susan Dawson era morta con una nave? Che non ero capace nemmeno di sopravvivere su una barca, ecco cosa. Ma non mi importava dei pensieri della gente in quel momento, mi importava solo dei miei familiare e dei miei amici, pensavo a loro che mi stavano aspettando.
      Presi forza, e mi tirai su’. Non era quello il momento di morire. Quello era ancora molto lontano.
      Mi spostai sulla parete, avvicinandomi sempre di più al paletto. Arrivata alla fine allungai la mano, cercando di arrivarci, ma era troppo lontano. L’unica soluzione era saltare, ma non volevo, avevo troppa paura. Notai un altro paletto più basso, ma era oltre la parete alla quale mi stavo aggrappando in quel momento. Harry ed Amy capirono le mie intenzioni, e mi spronarono a farlo «Devi saltare Susan!» urlarono. Mi avvicinai cautamente alla fine della parete, e respirai ancora a fondo.
      Dovevo muovermi.
      Ogni secondo che passava la nave si inclinava sempre di più, e con lei si abbassavano le possibilità di farcela. Ormai potevo stare quasi in piedi sulla parete, e presi una piccola rincorsa.
      Contai fino a tre, e inizia a correre, arrivata alla culmine, saltai e, per mia fortuna, mi aggrappai al paletto. Cercai di tirarmi su, ma il mio corpo rispondeva solo allo stimolo della paura, e quindi, a restare ferma dov’ero, anche se non era per niente sicuro «Forza Susan» urlò Harry. Cercai ancora di tirarmi su’, ma era ancora più difficile di prima, la nave si era messa in verticale. Un altro tentativo andato male.
      Provai ancora più paura quando vidi la sbarra di fero piegarsi, e i chiodi che la tenevano salda al pavimento saltare. Istintivamente, senza pensare alle conseguenze, mi arrampicai di nuovo. Riuscii a poggiare un piede sulla sbarra, ma esso, dal troppo peso cedette, e io insieme a lei.
      Caddi di peso sulla superfice dura a quell’altezza del mare, e non capii più niente. L’ultima cosa che vidi furono gli sguardi e le urla terrorizzanti di Harry e Amy, che mi porgevano ancora la mano per afferrarmi il prima possibile.
      Persi i sensi, consapevole soltanto del fatto che almeno, se sarei morta, non avrei sentito niente. Sarebbe stato silenzioso e indolore. La morte che ognuno di noi desiderava avere.
      Ironicamente, prima di lasciare per chissà quanto tempo quel mondo, pensai che quello era un piccolo cambio di programma per il mio piano.
 
      Avevo la bocca salata, e fu il suo orrendo sapore a risvegliarmi.
      Debolmente, mi guardai intorno, per capire dove ero finita.
      Mi trovavo su una spiaggia, isolata, senza anima viva, con l’acqua salata del mare che mi arrivava fin sopra alla testa. Mi alzai con cautela. La testa mi girava vorticosamente.
      Cos’era successo? Perché mi trovavo lì?
      Mi alzai. Era sera, anzi, note fonda a giudicare dalla luna che faceva colorare il mare di un blu scuro, riflettendosi sulla sua superfice quasi piatta.
      «C’è qualcuno?» urlai più forte che potevo. Avevo la bocca e la gola completamente salata, e quest’ultima, mi pizzicava quasi a farmi male. Mi portai una mano al collo. Sentii un scintillio, e guardai il mio braccio. Vidi il medaglione di mia nonna che mi penzolava al braccio sinistro. Lo strinsi forte. Mi voltai a perlustrare ogni angola della spiaggia su cui mi trovavo. Era piccola di larghezza, ma molto lunga, e in fondo, iniziava subito un fitto bosco, egli scogli ornavano la spiaggia bianca ai miei occhi. Ma la cosa più importante che notai, era che non c’era nessuno. Nessuno oltre a me. Ero sola.
      Guardai la mia preziosa D.
      Un luccichio, in lontananza, nel mare blu, mi distolse dal mio cimelio.
      Mi alzai sulle punte per guardare meglio, ma non vidi nulla di più di quel luccichio. Con i jeans lunghi già bagnati, mi addentrai tra le acque. Per mia fortuna erano calde. Mi mossi con fatica, ero già stanca di mio, e quella camminata proprio non ci voleva. Finalmente lo raggiunsi, e lo raccolsi. Me lo portai più vicino agl’occhi, per guardarlo meglio.
      Era un pezzo di metallo, rosso, sembrava un rottame.
      Poi, come un flashback, mi ricordai tutto.
      Mi tornarono alla mente lo sguardo di Phil, quando aveva detto a me ed Amy di mia zia, che era scomparsa e che non la vedevano da due giorni, lasciandosi dietro solo delle coordinate; Amy che scherzava con me ed Harry, che si arrampicava sulla cabina per salvarsi; Harry, che mi afferrava e mi portava fuori dai corridoi, che si arrampicava sul parapetto; Clark che volevo trovare insistentemente, ma che non feci perché i miei due migliori amici me lo impedirono; Damon e Violet, che quel giorno non avevo avuto modo di vederli, e che adesso non sapevo la sorte cosa gli avesse riservato; la nave che affondava sotto i nostri piedi, lo squarcio sul fianco sinistro, la panchina che mi cadeva addosso; e io, io che cadevo giù sotto lo sguardo di Harry e Amy.
      Ero sopravvissuta per andare avanti, per non morire sotto quella panchina, su quella nave, non per finire sola su….
      Dov’ero finita? Stavamo navigando l’Oceano Atlantico quando siamo affondati, e lì non c’erano isole, ma… ma prima che tutto finisse, quella signora sul ponte e noi avevamo visto quella macchia nera in mezzo al nulla, quella che poteva essere un’isola, un’isola dimenticata dal mondo e per sino da Dio. Ma come ci ero finita lì? come ci ero arrivata? Da dove si trovava la nave quando è sprofondata, era impossibile che la corrente mi avesse trasportata lì, e poi, se anche fosse stata la corrente a portarmi qui, mi sarei svegliata, e quindi, quella di adesso, doveva essere la notte dopo l’incidente.
      Per forza, non avrei potuto mai restare svenuta per due giorni, in acqua poi.
      Uscii dall’acqua, a fatica. Mi strinsi nel cardigan, anche se non faceva freddo, ma lo feci per la paura che provavo in quel momento. Ero sola, persa, senza nessuno accanto a me. La morte era imminente. Non ero tanto esperta da riuscire a sopravvivere su un’isola disabitata –anche se speravo che non lo fosse. E tutte le persone che adesso mi credevano morte, anche se non lo ero, avevano ragione.
      Ero morta, mi sentivo come all’inferno. Anche se non lo ero fisicamente, la mia testa si era già disattivata, aspettava solo che anche il mio corpo abbandonasse il mondo dei vivi per andare in quello dei sogni, il mondo perfetto, dove potevo essere felice con Clark, i miei amici e i miei genitori. Non desideravo altro che quello in quel momento.
      «Ehi, signorina!» disse una voce alle miei spalle. Non la calcolai, convinta che fosse solo la mia immaginazione.
      Qualcosa mi scosse, alla spalla, e disse «Signorina, è viva? Sta’ bene?»
      Allora mi voltai, convinta che se non ero ancora uscita pazza, le miei immaginazioni non ti toccavano. Un uomo con barba lunga mi guardava con aria ansiosa, aspettando una mia risposta, che non tardò ad arrivare «Sì, sì sto’ bene» dissi, alzandomi e togliendomi la sabbia dal sedere.
      «È sola, signorina?» chiese l’uomo.
      «Sì, sono sola» dissi con una punta di tristezza. Dal suo abbigliamento, molto simile al mio –sporco e bagnato-, capii che anche lui era un naufrago. Lui annui, con altrettanta tristezza nei suoi movimenti «E adesso, che facciamo?» gli chiesi dopo qualche minuto di silenzio.
      «Io…» cominciò l’uomo «io credo sia meglio proseguire sulla spiaggia… per vedere se è rimasto qualcun altro oltre a noi» propose. Calcolai la sua proposta. Proseguire non era una cattiva idea, anche se mi sentivo a pezzi, ma avevo sempre paura «o potremo restare qui» continuò. Restare dov’eravamo dava meno possibilità di essere avvistati da qualcuno che era sopravvissuto.
      Alla fine mi decisi «No, secondo me è meglio proseguire»
      «Ok» disse soltanto l’uomo. Si voltò, e cominciò a camminare nella direzione opposta da dove era venuto, seguito a ruota da me.
      Chissà se c’erano? Se altre persone erano sopravvissute, altri superstiti come me e il signore barbuto. Harry. Amy. Clark. Dam. Violet. Se almeno uno di loro era morto, mi sarei sentita talmente male, da non riuscire più a proseguire, soprattutto per uno di loro. Preferii non pensarci, faceva solamente più male di quanto non lo facesse già. Camminavo, o meglio, mettevo un piede d’avanti all’altro. Non dissi al signore che ero stanca perché anch’io volevo proseguire a cercare qualcuno, mettete che fosse uno dei miei amici, nessuno poteva impedirlo.
      «Cos’è quello?» mi distrasse l’uomo, indicando un punto sula spiaggia.
      Mi parai di fianco a lui, per guardare meglio «Non lo so» dissi, e mi avvicinai alla macchia gialla sulla spiaggia. Mi fermai a qualche centimetro di distanza. Era un gommone, di un giallo accesso, lasciato lì. Lo toccai, non doveva essere da molto lì, era ancora ben gonfiato.
      «Potrebbe essere della Starlight» disse l’uomo.
      «Potrebbe, ma non ne sono sicura. Sulla nave non c’erano scialuppe di salvataggio» lo corressi.
      «Questa non è una scialuppa» mi corresse a sua volta «è un gommone, qualcuno della nave doveva averlo»
      «Può essere» dissi secca. Ero abbastanza seccata dal suo tono, ma non era il momento di iniziare qualche discussione, specialmente lì, spersi, e con lui, un perfetto sconosciuto. Feci spallucce. Sinceramente, in quel momento mi importava solo di trovare qualcuno, e se era possibile, uno dei miei amici.
      L’uomo con la barba poteva aver ragione. Quel gommone poteva essere di un passeggero della Starlight. Ma chi? Aveva portato qualcun’altro con lui? Sul gommone c’era posto per minimo 5 persone. E se… se lo aveva usato zia Jas? Il capitano non poteva avere un gommone per lui e per qualche altro del personale? Non c’era nessuna prova che fosse suo, per quanto mi riguarda, poteva essere anche di uno dei passeggeri che se lo era portato con se per sicurezza Se era così, allora aveva fatto centro!
      Convinsi anche lui a lasciar perdere e continuare. Comminammo per un altro paio di metri, quando non mi sentivo più le gambe. Ero a pezzi, non riuscivo più a fare niente. Mi sedetti sulla sabbia e urlai all’uomo, che non si era accorto di me «Aspetta!» lui si voltò a guardarmi.
      «Che c’è?» urlò.
      Secondo te una ragazza che si siede che vuol dire? Che vuole ballare? «Sono stanca. Non ce la faccio più» urlai, rispondendogli e trattenendomi dai miei pensieri.
      Come poteva essere una persona così stanca dopo essere svenuta?
      L’uomo mi raggiunse, e si sedette di fianco a me. Non avevo il fiatone, ma mi facevano male le gambe, come se avessi fatto una maratona «Va bene» disse lui «ci riposiamo per qualche minuto»
      Volevo rispondergli «Grazie» ma non ne avevo la minima voglia, quell’uomo non mi ispirava affatto simpatia, anche solo l’aspetto. Sembrava un barbone cannibale pronto a saltarti addosso quando meno te l’aspetti.
      Qualche minuto dopo eravamo seduti ancora lì, in silenzio. Nessuno dei due aveva proferito parola, e decisi di farlo io pensando che se fossimo stati zitti entrambi per ancora molto, lui si sarebbe annoiato, e avremmo ripreso a camminare «Come si chiama?»
      «Jordan» disse solo.
      «Susan» risposi, anche se non lo aveva chiesto.




eccoci al decimo capito!!!
spero di non avervi fatto aspettare troppo per arrivare all'isola :3 coooooooomunque.....
spero che questo capitolo vi piaccia, e presto metterò anche l'undicesimo
recensionate (come sempre) se qualcosa non vi piace

Matt

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Capitolo 12
*** 11. La spiaggia ***


saaaaaalve
pochissime parole per ringraziare tutti coloro che stanno leggendo la mia storia
grazie grazie grazie e ancora grazie
recensionate pe rproblemi xD
vi lascio al capitolo <3 <3 <3

Matt



11
La Spiaggia

      Si capiva che lui non aveva voglia di parlare, ma io sì. Il silenzio mi uccideva dall’interno, pian piano, a piccoli morsi «Era anche lei sulla nave?» domanda banale.
      «Secondo te?» domandò a sua volta, acido.
      Decisi di rispondere a tono, quell’uomo mi dava ai nervi e non lo avevo conosciuto nemmeno da un’ora «Non le hanno insegnato che non si risponde ad una domanda, con un’altra domanda?»
      «E a te di non essere ficcanaso?» ribatté lui.
      Uccidilo Susan, uccidilo pensai tanto non c’è nessuno, non lo verrà a sapere mai nessuno «Sa che lei è proprio un grandissimo scostumato?» acida, ma pur sempre per bene.
      «Buono a sapersi» disse.
      Mi guardai in torno per cercare una pietra da lanciargli dietro, ma erano tutte troppo grandi «Proseguiamo, che è meglio» non avrei retto un’altra rispose del genere, e per fortuna le gambe non mi facevano più male, avevo riposato abbastanza.
      Jordan si alzò senza dire niente, e si parò di corsa davanti a me, con fare di capo Ucciditi.
      Come avrei voluto dirgli quello che pensavo, ma era da maleducati, e io non volevo abbassarmi ai suoi livelli. Continuammo a camminare in fila indiana, senza dire nemmeno “a” – e non ne avevo nemmeno la voglia, di parlare con lui. La notte regnava in giro, non c’era un minimo rumore attorno a noi. Silenzio totale. Si udiva solo il rumore della sabbia che si muoveva sotto i nostri piedi. Il mare era calmo, e con il colorito blu scuro che gli faceva prendere la luce bianca della luna, era stupendo, ti veniva la voglia di farti il bagno di mezza notte, poi, ripensavi a quello che era successo, e ti passava la voglia anche solo di sorridere. Non riuscivo a non pensare a tutti quelli che erano con me sulla nave. Sperai che stessero tutti bene come me, che se la fossero cavata come me – anche se preferivo di gran lunga la solitudine a Jordan, meglio soli che mal accompagnati, no?
      «Ehi, ragazzina» mi distrasse l’uomo.
      «Cosa vuole?» risposi acida. Ogni secondo che mi parlava, il mio disprezzo verso di lui cresceva di un gradino.
      «Li vedi quelli?» ignorò il mio tono, e indicò un punto in lontananza.
      A circa cinquanta metri da noi, c’erano due uomini. Non sembravano spaesati, anzi, sembravano a loro agio «Sì» risposi a Jordan.
      «Vado a parlargli, tu resta qui. Ok?» disse.
      «Cosa? E perché non posso venire?» non era il capo, non poteva comandarmi a bacchetta.
      «Perché non siamo sicuri di loro, ed è meglio se vado a controllare. Tu resta qui, se è tutto apposto vengo a chiamarti» a me sembrava più come un ordine che un piacere, ma lo lasciai fare.
      Mi accovacciai dietro uno scoglio lì vicino. Me lo aveva “ordinato” Jordan, diceva che se le cose si fossero mese male, era quella più vicina al bosco, -o foresta come volete- e io lo ascoltai. Sembrava quasi paranoico. Che pensava? Che fossero dei pazzi pluriomicida? Mi nascosi ben bene dietro lo scoglio. Mi sporsi appena per guardare Jordan allontanarsi, e avvicinarsi ai due. Quando ci fu, parlò, non capii cosa stava dicendo. Scambiarono qualche parole, ma i due, durante tutto il tempo, non avevano accennato nemmeno un’ombra di sorriso, al contrario di Jordan. Perché con loro sì, e con me no?
      Stavo pensando di unirmi a loro. Anche se non sorridevano, sembravano amichevoli, a differenza di Jordan. Iniziavo ad annoiarmi. Stavano parlando da più di 10 minuti, e Jordan non aveva nemmeno fatto cenno nella mia direzione per dire a loro che c’ero anch’io, o per darmi il permesso di raggiungerlo. Permesso? ma che vado a pensare?!
      Uno dei due, il più alto, si avvicinò a Jordan. Gli disse qualcosa all’orecchio. Quando finì, il mio nuovo compagno di viaggio, aveva gl’occhi spalancati dal terrore. Disse qualcosa all’uomo, gesticolando con le mani come per scusarsi. Finalmente, sul volto dei due, si disegnò un sorriso… no, un ghigno. Il più alto si avvicinò di nuovo a Jordan, e senza dire niente, gli mise la mano allo stomaco, poi un sparò, e Jordan si appoggiò all’uomo che gli aveva sparato, per poi mettersi in ginocchio, tenendosi lo stomaco, ferito dall’arma da fuoco. Il più alto sorrise a all’altro, e puntò la pistola sulla fronte di Jordan, disse qualcosa, e sparò.
      Mi coprì la bocca con le mani, per impedirmi di urlare. Per mia sfortuna, ne uscì un lamento, e con tutto quel silenzio, i due uomini lo udirono. Mi strinsi il più possibile a me stessa, per coprirmi completamente dietro lo scoglio, continuando a coprirmi la bocca con le mani. Avevo paura, era tuto come nel sogno. La nave che affondava, io sulla spiaggia isolata, e qualcuno che mi volevano uccidere.
      Non vidi i due uomini, me udii i loro passi, sempre più forti e vicini sulla sabbia bianca.
      Il respiro mi si fece affannato, gli occhi lucidi dalle lacrime mi facevano vedere appannato.
      «Chi c’è?» urlò uno di loro. Era troppo vicino per i miei gusti, e sobbalzai al volume della sua voce.
      «Non c’è nessuno qui» rispose una voce femminile. Doveva essere quella più bassa allora. Da lontano non mi ero accorta che c’era anche una donna.
      «Ero convinto di aver sentito qualcosa» si giustificò l’uomo.
      «Fatti controllare le orecchi, Bill» lo insultò lei. L’uomo non ribatté, e si allontanò insieme alla donna.
      Restai qualche secondo ferma, immobile, come una statua, per paura che si fossero accorti di me e quello di andarsene era solo un piano per farmi uscire allo scoperto, per poi uccidermi come hanno fatto con Jordan. Dopo circa 5 minuti, quando mi decisi ad uscire, mi alzai di poco dallo scoglio, il minimo per essere sicura che non ci fossero.
      Mi rimisi subito al mio posto quando li vidi discutere vicino al corpo ormai senza vita di Jordan. Mi sporsi di nuovo. La donna, -adesso la distinguevo perché era la più bassa- indicava prima il corpo steso sulla sabbia, poi un punto alle sue spalle. L’uomo, Bill a quanto aveva detto la donna, ribatteva, indicando anche lui Jordan, e poi la foresta. Approfittai della loro discussione, per allontanarmi dallo scoglio. Mi misi a quattro zampe, e pian piano, mi avviai verso la foresta, senza staccare gl’occhi da loro, che continuavano con i loro discordi.
      Quando finalmente fui a circa due metri di distanza da essa, presi coraggio, e corsi tra gl’alberi. Mi nascosi dietro ad un tronco robusto. Sbirciai i due, che senza che me ne fossi accorta, si era avvicinati, e scrutavano tra i gl’alberi con occhio attento «Hai sentito anche tu stavolta?» chiese Bill.
      «Sì» ripose la donna, che in quel momento si sporse a controllare lo scoglio dove, fino a 5 minuti fa, mi ci ero nascosta io.
      Con il respiro ancora affannato per lo spavento, cercai una via d’uscita per andarmene da lì. Non ce n’erano. Finché quei due non si allontanavano, io ero in trappola, non potevo scappare da nessuna parte senza che loro mi vedessero. I passi di uno di loro, si avvicinarono sempre di più, e il mio cuore perdeva un battito a ogni rumore da loro provocato. La paura mi assaliva. Volevo andarmene da lì il più presto, non li reggevo un secondo di più. Presi coraggio, puntai verso il centro del bosco –non sapevo ancora come classificarlo-, e corsi.
      «Eccola!» urlò la donna, quella più vicina all’albero dove ero nascosta «Fermati!» mi ordinò.
      Correvo il più veloce possibile, senza guardarmi indietro, concentrata a muovere le gambe e schivare gl’alberi. I due iniziarono a sparare verso di me. Per fortuna, forse perché ero veloce, o perché il bosco era fitto, o la poca luce, non mi presero. Mi voltai soltanto una volta a guardarmi indietro. Erano a pochi metri da me, che cercavano di prendere la mira mentre correvano. Cercai di accelerare benché già non mi sentivo le gambe dallo sforzo.
      Continuavano a spararmi contro, senza mai riuscire a prendermi.
      Correre.
      L’unica cosa che mi girava nella testa in quel momento. Correre.
      «Ferma!» urlò Bill «Fermati!»
      Quale sano di mente si fermerebbe?!
      Mentre correvo, e schivavo i proiettili dei due, non vidi dove misi i piedi, e caddi in discesa ripida e scivolosa. Scivolai sempre più veloce sulla terra fredda e umida, fino al ritorno del terreno regolare –se si poteva chiamare così. Rotolai, fino a distendermi completamente, stordita. Quando ricordai gli ultimi minuti prima di scivolare, guardai su, prima dello scivolo naturale.
      «Dov’è andata?» chiese la donna «DOV’È ANDATA?!» urlò, irritata. Sbucarono sul piccolo dirupo, e io mi nascosi in fretta tra un vasto cespuglio, cercando di regolare il respiro affannato.
      «Signora» la richiamò Bill «guardate qui»
      Sbirciai i due che scrutavano la discesa, e poi in giro «Dev’essere caduta per forza da qui» aggiunse Bill. La donna annuì, poi fece cenno a lui di scendere. Bill all’inizio non lo fece, poi, sbuffando, si avviò. Mise un piede d’avanti a un altro, come su una tavola da surf, e pian piano scese. Si scrutò intorno. Mi strinsi di nuovo su me stessa, coprendomi la bocca per non far uscire singhiozzi. Sentivo i respiri profondi, e i passi di Bill sempre più vicini, finché non si fermò proprio davanti a me. Lo guardavo con il terrore negl’occhi, sperando che non si fosse accorto di me, o che avesse un minimo di compassione per me.
      «C’è qualcosa lì, Bill?» urlò la donna, che non era scesa insieme all’uomo.
      Lui attese qualche secondo prima di risponde, guardandosi ancora bene intorno «No, niente» concluse. Si rimise l’arma nella fodera attaccata alla sua cintura, e si avviò verso la discesa, risalendola a fatica. Quando fu arrivata, insieme alla donna, si allontanarono nella direzione dove eravamo arrivati, forse stavano tornando sulla spiaggia per far sparire il corpo di Jason.
      Doveva essere così, non potevano lasciarlo lì. Io rimasi ancora dov’ero, immobile, nascosta nel cespuglio, immersa di lacrime, troppo terrorizzata per uscire.
      Quando mi decisi a farlo, erano passati diversi minuti da quando quei due se ne erano andati. Bill e la donna.
      Quando mi misi in piedi, le gambe era indolenzite dal stare sempre piegate, e mi schioccarono dolorosamente al primo passo. Con cautela, scrutai l’area circostante, con la stessa paura di un piano di quei due. Niente. Stavolta se n’erano andati davvero.
      E adesso? che fare?
      Ero appena naufragata su un’isola che solo Dio conosceva l’esistenza, senza nessuno vicino a me che mi aiutasse, ed avevo appena rischiato la morte. Lo stesso non si poteva dire di Jordan. Qualcosa dovevo pur fare, non potevo restare lì ferma a mugugnare sul mio futuro. Sarei morta sull’isola? Impossibile a dirlo, ma le prospettive di vita su quell’isola, o almeno nelle mie condizioni, erano pressoché nulle. Ma non dovevo arrendermi. Non potevo, era un lusso che non potevo permettermi.
      Se lì ci fosse stato mio padre, mi direbbe di sforzarmi a trovare una soluzione, di non arrendermi, e io avevo intenzione di ascoltarlo. Ero partita per quella spedizione per dimostrare al mondo quanto valevo, ed ero finita naufraga su un’isola ignota. Se sarei sopravvissuta lì, senza difese ne cibo e acqua, sarei sopravvissuta dappertutto, ne ero sicura.
      La prima cosa da fare: o almeno così valeva per me, era quella di non perdere il controllo, di restare calmi. Le mia azioni di prima –quelle di scappare da persone pronte ad ucciderti- era stata un’azione più che sciocca, avrei potuto rimetterci la vita se non avessi avuto tanta fortuna, ed ero sicura che non si sarebbe più ripetuto.
      Feci dei profondi respiri, per calmarmi.
      Ero abbastanza agitata, e la corsa mi aveva dato un bel po’ di adrenalina che dovevo riuscire a controllare.
      Seconda cosa: non fare gesti sciocchi o che possano metterti in pericolo.
      Mi controllai dal voler correre fino alla spiaggia, urlando a squarciagola «AIUTO! AIUTATEM!» se quei tizi erano ancora in giro –e una parte di me ne era più che convinta- mi avrebbero sentita, e uccisa senza ripensamenti. Dovevo trovare un modo per chiedere aiuto, o trovare altri naufraghi senza dare nell’occhio, o mettermi nei guai.
      E adesso che ci pensavo, perché quei due avevano ucciso Jordan, e volevano morta anche me? Non avevamo fatto niente se non naufragare incoscienti su quest’isola, e a me non sembrava affatto una colpa. Anzi.
      Tornando alla questione “aiuto”, come fare? Potevo accendere un fuoco sulla spiaggia, o scrivere con le pietre a caratteri giganteschi la parola «Aiuto» e aspettare che una nave, o un aereo passasse di lì e mi vedesse. Anche se a me sembrava impossibile, oppure ci avrebbero messo talmente tanto di quel tempo che sarei morta di fame o, peggio, di vecchiaia. Sapevo benissimo che quello non era un film, non sarebbe passato un elicottero a salvarmi nel giro di pochi giorni, non avrei trovato animali docili come era capitato a Biancaneve, e neanche persone pronte ad accogliermi a braccia aperte, anzi, qui mi accoglievano con pistole.
      Farmi dei film mentali in quella situazione non aiutava affatto, metteva solo intesta speranze remote, che con tanta fortuna sarebbero capitate.
      Sapevo di essere naufragata su quell’isola perché quando è affondata la nave, l’unica striscia di terra era essa, e sapevo che la speranza che un elicottero sarebbe passato di lì solo Dio sa quando, dato che nessuno sapevo della Starlight affondata nell’Atlantico.
      E zia Jas? Che fine aveva fatto? Phil diceva che era scomparsa due giorni prima –dell’incidente si intende- stava bene? Era morta? Rifiutavo di stare ad ascoltare la parte negativa della mia testa. Lei era una Dawson, un’esploratrice più che esperta, se la sarebbe cavata in qualche modo.
      Lo stesso non si poteva dire con me.
      Avevo da poco compito 20’anni, avevo deciso di intraprendere quella spedizione, ed era andata più che male.
      Dispersa e sola. Ecco come mi trovavo. Chiunque nella mia situazione avrebbe pensato Mi verranno a prendere, oppure Sanno che la nave è affondata, saranno qui tra pochi giorni. Io no. Io era più che realista, anzi, direi addirittura ultra-pessimista per come la pensavo in quel momento.
      Pensavo che probabilmente sarei morta lì, di fame probabilmente, o sbranata da qualche animale, o uccisa da uno di quei tizi che prima o poi mi avrebbe scovata di sicuro. Non era la prospettiva di morta che immagino. Avevo sempre pensato alla mia morte come un evento triste –o almeno così speravo- per gl’altri, e felice per me. Avevo sempre immaginato la mia morte di notte, nel bel messo di una bellissimo sogno come quelli che facevo di recente. Quella era una bella morte. Indolore e felice. La morte che sognano di avere tutti. Non brutale come questa. E specialmente l’età. Speravo di arrivare almeno ai sessanta, non ai venti e qualche mese.
      Io non temo la morte, non l’ho mai temuta a dire la verità. Sì certo, mi incute il terrore pensare che dopo di essa c’era solo l’ignoto, che lascerei tristezza a quelli che mi volevano bene, ma io la vedevo come una liberazione da quest’infermo. La terra, il mondo, per me era un inferno popolato da persone antipatiche e cattive, pochi si poteva considerare angeli, e quei pochi, spesso, da tutta questa malvagità, si trasformano anche loro in demoni spietati e cattivi.
      I miei sogni invece erano il paradiso perfetto per me. Felicità, gioia, gentilezza. Era questo il mondo che volevo, che desideravo, che sognavo. Da quando ero nata mi comportavo gentilmente con tutti, anche quelli che non lo meritavano credendo che se lo facevo per sempre, almeno alla mia morta avrei raggiunto il mondo dei sogni, il paradiso, e avrei detto addio alla realtà, l’inferno. E invece adesso ero capitata in un inferno ancora più caldo e severo del mondo reale. Era servito a questo essere gentili con tutti? Mandarmi in un posto dove o vengo ucciso da persone altrui, o mi uccido per disperazione? Era questo quello che mi meritavo? Io credevo proprio di no. Adesso voi starete pensando che io ce l’abbia con Dio, ma non è affatto vero. Lui esiste, sì, ma come devono andare le cose le decidiamo noi e noi soltanto, lui ci ha soltanto dato la vita e ci guarda da lassù crollare, sprofondare nella disperazione. E io, in quel momento, mi trovavo al bordo, pronta a cadere al minimo soffio di vento traditore nel pozzo della disperazione.
      No! Non era quello che mi meritavo. Decidiamo noi le nostre azioni giusto? E io decido di sopravvivere, di andare avanti, che non are quello il momento di abbandonare, non il mondo, ma le persone a me care.
      Ricorda la prima regola, Susan pensai Non perdere il controllo.
      Feci altri respiri profondi, per riprendermi.
      Chiedere aiuto. Era quello che dovevo fare, o per lo meno, cercare altri naufraghi per sopravvivere insieme. Due era meglio di uno, e chi più ne ha, più ne metta, no?
      Da qualche parte dovevo pur iniziare no? E quindi decisi di tornare sulla spiaggia, per controllare se ci fosse ancora Jordan, o altri naufraghi come lui aveva trovato me.
      Risalii a fatica la discesa ripida da dove ero caduta, e puntai dritta verso la spiaggia, seguendo il percorso con cui ero arrivata lì. Era facile da capire, gli alberi intorno a dove avevo corso a perdi fiato avevo delle pallottole conficcate nei loro tronchi. Il bosco, alla luce bianca della luna, incuteva una strana paura, come se da un momento all’altro vedi un enorme lupo mannaro dall’oscurità, ma sapevi benissimo che non poteva mai succedere.
      Prima di arrivare sulla spiaggia, mi bloccai quando vidi delle figure che conoscevo bene addentrarsi nel bosco. Mi stesi immediatamente per terra, strisciando dietro un vasto troco per nascondermi per l’ennesima volta da loro. Camminavano in silenzio a fila indiana, la donna davanti, e Bill dietro. Puntavano nella direzione opposta alla spiaggia, dove era morto Bill. La riconoscevo perché a pochi metri da me c’era lo scoglio dove mi ero nascosta in precedenza. Probabilmente avevano fatto sparire il corpo di Jordan, e adesso stavano tornando al loro quartier generale, se ce lo avevano, o a trovare me. Optai più per la seconda.
      Aspettai che scomparissero del tutto tra i boschi, poi corsi sulla spiaggia. In giro non si vedeva traccia di Jordan. Dovevano averlo nascosto per bene. Mi dispiaceva per due motivi: il prima, ovviamente, perché era morto senza un motivo; il secondo perché con se avrebbe potuto avere qualcosa di utile.
      La notte faceva ancora da padrone, anche se ancora per poco, impedendomi di vedere anche in lontananza.
      Vidi in lontananza, nel mare blu e calmo, qualcosa che galleggiava Deve essere lui pensai, e mi addentrai tre le acque ancora calde. Camminai a fatica, facendo grandi falcate. Quando lo raggiunsi, emisi un urlo di terrore, voltandomi dalla parte opposta. Presi coraggio, respirando profondamente, e mi rivoltai verso di lui. Al cento del suo stomaco, si faceva spazio un piccola, ma profonda ferita da arma da fuoco, che ancora sanguinava, ma lo spettacolo più orripilante che cercavo di impedire a tutti i costi di guardare dai miei occhi, era la fronte. Un buco orrendo si faceva spazio su di essa, disgustandomi profondamente. Mancava poco che vomitavo quel poco che avevo ancora nello stomaco.
      Scrutai nelle sue tasche, ma non trovai niente, né in una, ne nell’altra. Lo voltai per controllare anche quelle posteriori, e così mi impedii anche di guardare la sua fronte sfigurata. Gli scrutai per mene anche quelle, e per mia fortuna, toccai qualcosa. Lo afferrai, e con fretta, me lo portai vicino al viso per guardarlo meglio. Sorrisi quando capii cos’era. Una radio. Potevo provare a chiamare qualcuno con quella, magari un altro della nave ce l’aveva, a anche accesa se la fortuna mi assisteva.
      La accesi, provai su tutti i canali. Non rispose nessuno, ma già era una grande fortuna averla trovata, e che funzionasse, pensando che era immersa nell’acqua da chissà quanto tempo.
      I due avevano pensato che buttarlo in mare era una buona idea, e lo era. La corrente pian piano chissà dove lo avrebbe portato, e se nei paraggi ci fossero stati squali, avrebbero sentito l’odore del sangue e se lo sarebbero mangiato. Un idea brillante, e se non fossi arrivata in tempo, non lo avrei più trovato, e non avrei recuperato nemmeno la radio.
      E adesso che ci pensavo, questo perfido di un compagno di viaggio, anche se per poco più di un’ora, mi aveva tenuto nascosto il fatto che aveva una radio. Sporco egoista.
      Questo non faceva altro che giustificare la mia idea che il mondo reale era un mondo popolato da persone cattiva, come Jordan. Ma anche se lo aveva fatto, morire non era una punizione giusta. La morte non lo era per nessuno.
      Uscii di nuovo dall’acqua con grandi falcate, e riprovai con la radio. Prima o poi qualcuno avrebbe dovuto rispondere.
      Tutto mi sfiniva. Perché? Forse ero scossa.
      Mi sedetti di peso sulla spiaggia.
      Cosa peggiore di quella non poteva succedermi. Frugare il cadavere di un pover’uomo che voleva solo proteggermi. Avevo impressa ancora nella mente il volto con la fronte sfigurata di Jordan, che proprio non voleva andare via. Scossi la testa diverse volte, ma il risultato era sempre lo stesso.
      I primi raggi del sole iniziavano a farsi spazio nel celo, sottomettendo quelli sempre più quelli bianchi e deboli della luna, che tanto mi piaceva.
      Un raggio mi colpì in piena faccia, facendomi socchiudere dolorosamente gl’occhi. Mi portai una mano all’altezza del volto, per ripararmi dalla luce, che in quel momento mi faceva tanto male, e venni colpita da un tintinnio debole. Incuriosita, mi guardai il braccio.
      Insieme ad un sorriso, venne un sospiro di sollievo.
      Il braccialetto argentato che mi aveva regalato mamma prima di partire era ancora al suo porto. Ringrazia Iddio per non avermelo fatto perdere in mare, o durante la corsa e i nascondigli.
      Lo strinsi forte tra le dita, e me la portai al petto. Immediatamente, mi vennero alla mente i volti dei miei familiari il giorno della partenza, come quando colleghi una panne USB ad un computer, facendoti vedere il suo contenuto. Ringrazia ancora il celo perché il mio piano aveva funzionato. Il medaglione con incisa la D, aveva conservato dentro di sé tutti i ricordi che avevo deciso di conservare dal momento che me l’ero legata al braccio. Tutti. li ricordavo tutti perfettamente, come quando vede una fotografia in un album di ricordi, e ti viene a mente quel preciso giorno, di quel preciso momento in cui hai scattato quella foto. Ti viene in mente anche la sensazione che provavi in quel momento. Felicità o tristezza che era, la ricordavi e basta.
      A me faceva quell’effetto. E mi piaceva.
      Poi venni assalita dalla tristezza. I miei non sapevano che ero lì, come il resto del mondo. Ma al resto del mondo non importava se io morivo e meno, a loro, invece, sì.
      Contavano su di me.
      Gli avevo promesso, a tutti, che ce l’avrei fatta. Avrei intrapreso quella spedizione e, anche se non riteneva un minimo sforzo, per loro era il mio primo viaggio da esploratrice, il primo passo del mondo dei Dawson, ed erano preoccupati, anche se non ne avevano il minimo motivo.
      Invece, adesso, ce l’avrebbe dovuta avere e come, o almeno, ce l’avevo io.
      Se non appartenevo ad una famiglia di esplorarti, probabilmente, a quest’ora sarei già uscita pazza, urlando a squarciagola «Aiuto! Aiutatemi, vi prego!» per poi illudermi che uno tipo Bill era un uomo con fare gentile, per poi farmi uccidere come una cretina.
      Ringrazia, per l’ennesima volta, Iddio che non me lo aveva fatto fare, per aver, anche se di malavoglia, dato retta a Jordan, l’uomo antipatico e scorbutico, che adesso galleggiava nel mare, allontanandosi sempre di più.
      Non avevo nessuna voglia di morire. Non ancora almeno.
      Mi alzai, con un nuovo coraggio che mi riempiva il petto.
      Ce l’avrei fatta. Sarei sopravvissuta a quell’isola solo per tornare a casa e riabbracciare tutti i miei cari, tutti quelli che mi volevano, e a cui volevo bene. Lo avrei fatto per loro che in quel momento, forse, si stavano chiedendo cosa stesso combinando sulla nave.
      Sì, ce l’avrei fatta.
      L’avrei fatto per mamma. La mia mamma, che mi voleva un mondo di bene, persino di bene di quanto non se ne volesse lei stessa, che mi stava sempre vicina, pronta a consolarmi e ad asciugarmi le lacrime.
      L’avrei fatto per papà. Per l’uomo con il viso coperto da una maschera di indifferenza, che non faceva scappare la benché minima emozione, buona o cattiva che sia. Sempre serio, e pronto a partire per qualsiasi viaggio o spedizione che gl’offrissero perché gli piaceva e perché così poteva vivere felice e spensierato con noi, la sua famiglia.
      L’avrei fatto per Rosie. La mia più grande amica, e la più brava badante che il mondo abbia mai conosciuto, e che per fortuna, era capitata proprio a me. Mary Poppins non era niente in confronto a lei.
      L’avrei fatto per Clark. Sì, anche per lui, anche se non sapevo dove fosse lo avrei cercato, trovato, e chiesto finalmente scusa per la mia stupidaggine. Lui che mi insultava sempre, senza un minimo di offesa nei suoi scherzi, e per la sua continua cotta verso di me, che dopo tutto questo tempo, non si era spenta di una millimetro.
      L’avrei fatto per George. Il grande capo delle cucine. Era per lui se adesso era una ragazza bella e sana, lui che, spesso, sostituiva mio nonno, con consigli e consolazioni che non potevo dire a mia madre.
      L’avrei fatto per mia nonna Lily. Lei, la mia grande nonna che, purtroppo, non avevo mai davvero conosciuto, ma che popolava nella mia mente con foto e racconti dei miei genitori, lei, che tutti dicevano assomigliasse sempre di più a me.
      Sì, lo avrei fatto anche per nonno Victor, che mi trattava sempre con freddezza, me che sapevo –o almeno speravo- che in fondo mi volesse bene.
      E per tutti i miei zii e cugini. E tra loro spiccavano John e David, marito e figlio di zia Jas, che giurai su me stessa che avrei trovato e che, se le cose si fossero mese male, avrei avvertito io in persona la sua famiglia, ma la speranza che fosse viva e che stessa bene, non mi abbandonò nemmeno un secondo. Come la stessa e identica speranza che provavo per i miei amici.
      Harry, Amy, Dam, Violet.
      Li avrei trovati tutti, li avrei abbracciati e stretti a me, e insieme avremmo trovato un modo per andarcene da quello che a me già iniziava a sembrare un inferno caldo e doloroso. Lo avremmo fatto insieme.
      Il sole ormai era sorto completamente, insieme al mio coraggio.
      Sapevo che esso era dentro di me, bastava solo trovarlo e cacciarlo fuori, e per farlo, bisognava aspettare il momento giusto.
      Pensai a cosa dover fare per prima.
      Presi la radio, e provai di nuovo su tutti i canali a chiamare persone –non mancarono i nomi die miei amici, di zia Jas, e di Phil-, o a chiedere aiuto. Come prima, nessuno rispose si miei richiami, ma non demordevo, più tardi avrei riprovato, e riprovato ancora, finché qualcuna non avrebbe risposto.
      Optai per la seconda cosa da fare.
      Addentrarmi nella foresta, o bosco, e cercare riparo, cibo e acqua. Quella salata del mare non faceva proprio al caso, troppo salata, e anche infettata forse. E poi, non l’avrei bevuta neanche morta dopo avrei visto l’acqua diventare di un rossastro col sangue di Jordan che si mescolava ad essa. Solo pensarlo mi disgustava.
      Mi voltai verso il bosco. Picchiettavo nervosamente il piede sulla sabbia.
      La vista di quegli alberi alti e massicci mi facevano sempre più paura man mano che li guardavo. Sarà che lì per poco non ci rimettevo la vita con un proiettile conficcato in qualche parte del mio corpo; ma gli dovevo anche la vita. Era grazie a loro se adesso ero lì, in piedi sulla sabbia, che aveva ripreso il suo colore con la luce chiara del sole, e non nelle acque con Jordan.
      Respirai profondamente, aspettando il momento giusto per entrare nella foresta, e cercare cibo –il mio stomaco si faceva sentire, e anche forte.
      Su’ Susan, non c’è niente di cui avere paura mi incoraggiai è un’isola disabitata.
      Da animali forse, ma non da gente pronta a spararti alla tempia mi corressi da sola –e non è mai una buona cosa, quando inizia a discutere con te stessa.
      Basta!
      Feci l’ultimo respiro profondo, e mi addentrai fra quegli alberi.
      Inizia a camminare senza meta fra le foglie secche cadute dagl’alti alberi che mi circondavano. Se non consideravo la situazione in cui mi trovavo, era un posto piacevole.
      Gl’uccelli, anche se non visibile, cinguettavano all’alba di un nuovo giorno sull’isola, nascosti tra i folti rami, che lasciavano passare qualche forte raggio luminoso del sole appena sorto. In giro non si vedeva un’animale, se non per i famosi uccelli, che di tanto in tanto vedevi svolazzare da un ramo all’altro.
      Era una vista bellissima.
      Inconsapevolmente, un sorriso si fece spazio tra le mie labbra. Non volevo respingerlo, e non ci riuscivo nemmeno. Quella vista celestiale ti riempiva di una strana felicità che non riuscivi a respingere, ma che neanche desideravi mandarla via perché bellissima. Riuscii persino a dimenticare la Starlight con tutte quelle persone affondata, e i miei amici scomparsi.
      Quando mi ripresi, mi misi a cercare un po’ di cibo, avevo una fama da lupi, ma la stanchezza era troppa, così mi sedetti sul suolo sorprendentemente morbido, poggiando la schiena contro il tronco, duro e freddo.
      Senza che me ne accorgessi, le mie palpebre si abbassarono da sole, e mi appisolai.

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Capitolo 13
*** 12. Fame ***


12
Fame

      Quando mi risvegliai, avevo d’avanti agl’occhi lo stesso paradiso che avevo lasciato quando li avevo chiusi, con l’unica differenza che gl’uccelli erano silenziosi, e si limitavano a svolazzare qua e là, ed era il tramonto. La luce debole degl’ultimi momenti del sole, illuminavano debolmente di un arancio tenero gl’alberi.
      Dovevo aver dormito per quasi tutta la giornata, dato che mi ero addormentata all’alba. Mi sorpresi nel trovarmi intatta, e nel rinvenire e basta. Credevo che qualche uomo mi avrebbe trovata e uccisa nel sonno, o un animale sbranata. La fortuna girava ancora dalla mia parte.
      Ricordai il mio discorso mentale della mattina precedente.
      Mi misi in piedi, e mi strofina gl’occhi, ancora assonnati.
      Il mio stomaco si fece sentire con un lamento più che forte. Mi portai la mano alla pancia, come per consolarlo. Avevo una fame tremenda. Dai miei calcoli erano quasi due giorni che non mangiavo, e iniziavano a farsi sentire i primi richiami dall’organismo in generale.
      Sbuffai.
      Cosa diavolo potevo mangiarmi lì? Bacche? Ammesso che le avrei trovate, chi mi assicurava che non fossero velenose?
      Iniziai a camminare –più che camminare, spostare un piede davanti all’altro senza nessuna voglia di farlo- senza meta fra i boschi. Tornai a pensare ai miei amici, sperando che loro stessero meglio di me. Non ne ero convinta, ma mi aiutava a tirarmi un po’ su’ pensarlo.
      Camminavo e camminavo, annoiata.
      Le tenebre ormai mi circondavano. Mi era sempre piaciuta la notte, silenziosa e tranquilla. Ma in quelle circostanze, sola e innocua, mi terrorizzava profondamente. A ogni minimo rumore mi voltavo di scatto, aspettandomi un puma o chissà ché, e soltanto quando mi ero assicurata che non ci fosse niente continuavo con il mio percorso sconosciuto.
      Ormai erano ore che camminavo, e non avevo trovato niente e nessuno sulla mia strada.
      Mentre camminavo, sentii uno scorrere, all’inizio non ci feci caso, pensando che era qualche uccello o animale simile, poi, man mano che avanzavo, si faceva sempre più forte. Sembrava uno scorrere di un fiume, ma non ne ero sicura, poteva essere anche un’auto, e quindi anche una mia fonte di salvezza in tutte e due i casi, ma se era un’auto poteva essere una di quegli uomini, e quindi non proprio un’ancora di salvezza. Più che altro, di morte.
      Decisi di rischiare. Tanto, che avevo da perdere? La vita? Restare in quel posto, significava metterla in pericolo ogni secondo.
      Camminavo in silenzio, posando leggermente un piede, e poi l’altro, facendo il minimo rumore. Arrivata molto vicina alla fonte del rumore, mi nascosi dietro un albero. Respirai profondamente.
      Ricordate quando ho detto che avevo il coraggio, ma che si sarebbe liberato solo al momento giusto? Beh, non era quello.
      Cautamente, dopo torture mentali, mi sporsi il minimo per guardare oltre gl’alberi di fronte a me. Per fortuna era meglio di quanto avessi pensato.
      Un fiume scorreva a pochi metri da me, e io lo raggiunsi di corsa. Mi ci accovacciai vicino, e vi immersi tutto il volto. Era una sensazione fantastica, bere e… lavarsi, se così si può dire. L’acqua era fresca e limpida, un paradiso dal mio punto di vista. Mi tolsi la radio dalla cintura, poggiandola di fianco a me, e vi ci immersi anche le gambe. Per prima fu fresca, poi sempre più fredda. Pensai che ero io che raggiungevo la temperatura normale, e lasciai perdere. Era troppo bello per smettere.
      Sciacquai anche la maglia che riprese -anche se debolmente- il suo colore bianco, e il cardigan.
      Mentre aspettavo che si asciugassero almeno un po’, mi guardai in giro.
      Pensai che era quasi impossibile che non era sopravvissuto nessuno alla Starlight tranne me, c’era talmente tanta gente, e mi rifiutavo anche di crederlo.
      Raccolsi la radio, e me la rigirai fra le mani.
      Tentare di contattare qualcuno di nuovo era una cosa ovvia da fare, ma ogni volta non rispondeva mai nessuno, neanche mugolio, e la cosa mi faceva pensare che ero sopravvissuta per davvero solo io. Forse era presto per dirlo.
      Accesi la radio, e, come sempre, provai su ogni stazione.
      Niente.
      Non la spensi, e la riposai di fianco a me.
      Il mio stomaco si fece risentire «Cosa vuoi? Lo so che hai fame! Ce l’ha anch’io!» urlai, rivolta al mio stomaco. Primo segno di squilibrio mentale, e quindi, cattivo segno.
      Iniziavo anche ad annoiarmi, non succedeva niente. Da certi punti di vista poteva essere un bene, ma dal mio aveva anche una punta di male. Stare ferma a non fare niente era, per me, una tortura lenta e dolorosa. Potrei andare a cercare del cibo, vero, ma se trovo frutti o roba simile chi mi assicura che non siano velenosi? Siamo in un posto selvaggio e, a giudicare dal luogo, mai contaminato dall’uomo. Trovavo un animale, un coniglio forse, ma come lo prendevo? E soprattutto, come lo uccidevo? Non era proprio da me uccidere.
      “Uccidi per non essere uccisa” verrebbe da dirsi in quei momenti.
      Quando i miei indumenti furono abbastanza asciutti, mi rialzai e continuai per la “mia strada”.
      Camminando, in silenzio, mi scrutavo bene in giro. Mi piaceva un sacco quel posto, e volevo tenermi una specie di ricordo se sarei sopravvissuta. Camminai, camminai e camminai, fino a quando non saprei dirlo, ma le mie gambe si muovevano da sole, non avevo voglia di stare ferma.
      Gl’alberi mi circondavano, alti e forti. Mi ricordai quando ero bambina, quando avevo all’incirca nove anni. A mio padre piaceva portarmi nella natura, e piaceva anche a me. La natura era così bella: gl’alberi verdi, i fiori colorati. Certo, tale bellezza aveva un prezzo, ma come si faceva a dire di no ad un tale spettacolo.
      Che io mi ricordassi, erano davvero pochi i luoghi incontaminati che conoscevo, ormai erano stati tutti abbattuti dagl’uomini per costruirci sui loro edifici –non che ne fossi contraria, ma tutto ha un limite. Mio padre mi portava ogni settimana d’estate in montagna, lontano dallo smog e dalla vita di città Londra poteva essere molto stressante. Mi ricordavo che andare in mezzo alla natura, mi piaceva molto. Non c’era un centimetro dove io non mi fermassi per osservare meglio. Chiedevo in continuazione delle domande a papà sui funghi –adesso li odiavo.
      Sospirai, e mi sedetti sotto un grosso albero, all’ombra, a scrutare meglio quel luogo paradisiaco. Mi piaceva, stranamente, anche ricordando quello che era successo a Jordan e alla donna che mi inseguiva. Mi ispirava una piccola onda di felicità.
      Venni scossa da una voce rauca «C’è qualcuno?» disse la voce. Si sentiva male, non perfetta come una voce che ti parla, come se fosse trasmessa… la radio.
      «C’è qualcuno?» ripeté la voce.
      Mi misi seduta, e raccolsi la radio dalla mia cintura, me la portai alle labbra, e parlai «Sì... sì, chi parla?» urlai, per paura che non potesse sentirmi altrimenti.
      «Sì, hanno risposte» disse la voce, ma capii che era distante dallo strumento, poi si schiarì la voce e parlò di nuovo «Sono Phil Countin»
      Per un momento non ci credetti.
      Non potevo essere davvero lui, non potevo essere così fortunata. Mi ricomposi in fretta, e lo risposi «Phil? Phil, sono io, sono Susan» dissi sempre urlando.
      «Susan?» ripeté lui, esterrefatto quanto me «Susan, sei davvero tu?»
      «Sì, sono io Phil. Sono io» dissi, sorridendo più di prima. Adesso avevo un motivo valido per farlo.
      «Susan, grazie al celo, stai bene?»
      «Più o meno, soltanto tanta fame» risposi con una smorfia. Come a giustificare ciò che avevo appena detto, il mio stomaco brontolò.
      Lui rispose con una risata, poi cercò di dire qualcosa, ma si interruppe, e parlò con qualcuno. Forse non era da solo «Ehi, hanno risposto» disse Phil a qualcuno «Susan» aggiunse.
      «Cosa?!» sentii. Per averlo sentito, doveva aver urlato. Poi sentii un rumore, come se qualcosa fosse lasciato cader, qualcosa di pesante. La radio emise uno strano rumore, poi mi arrivò una voce, una voce molto familiare «Susan? Susan sei davvero tu?»
      Riconobbi al volo chi fosse, e risposi «Clark!» urlai. Mi alzai in piedi di scatto. Ero troppo felice per restare seduta e ferma «Clark» ripetei.
      «Susan come va’? tutto bene? Sei ferita?» mi chiese lui preoccupato»
      «No, no tranquillo, sto’ bene, sto’ bene. Tu?» domandai a mia volta.
      «Bene» rispose solamente «Susy dove sei?» aggiunse poi.
      Feci un calcolo veloce, poi lo risposi «Di preciso non lo so’, ma ero sulla spiaggia, poi mi sono addentrata nei boschi di molto. È circa un giorno che cammino»
      Sentii delle voci che non riuscii a distinguere. Feci un sospiro di sollievo quando udii altre voci oltre a Clark e Phil. Significava che altri erano sopravvissuti. A quanto riuscii a capire, stavano discutendo su dove mi trovavo. Pensai un modo veloce per aiutarli a capire «Ehm, ho… ho appena superato un fiume, o un ruscello… non so» aggiunsi scuotendo la testa, come per scacciare le cose meno importanti, e ricordarmi il fiume.
      «Cosa?» domandò Phil.
      «Ha detto che ha appena superato un fiume, o un ruscello, non lo ricorda con precisione» lo aggiornò Clark. Probabilmente, lo riuscivo a capire bene perché aveva lui la radio. Mi sentivo come esclusa.
      «Forse ho capito dov’è» esclamò Clark, con una punta di felicità. A mia volta sorrisi, speranzosa. Aspetto qualche secondo –forse stava ascoltando le domande di uno di loro, ma io non riuscivo a sentirle- poi continuò «Phil, prima di venire qui siamo passati da un fiume, non molto grande però, dove abbiamo preso delle provviste. Non siamo tanto lontani da lui»
      «Cosa? Davvero?» domandai, contenta a mille. Stavo per mettermi a saltare dalla felicità.
      «È vero» lo apostrofò Phil «Potremmo andare a prenderla» propose.
      «Ci vado io» si offrì Clark, poi si rivolse a me «Susan?»
      «Sì?» finalmente qualcuno mi calcolava.
      «Puoi tornare al fiume?» mi chiese.
      «Penso di sì» riuscivo a sentirlo perfino da lì, anche se debolmente.
      «Vai lì, e restaci. Io verrò a prenderti» disse con tono autoritario.
      «Non puoi andare da solo, Clark» urlò una voce «Non sai cosa potrai incontrare» aggiunse.
      «Ha ragione» lo appoggiò Phil «hai visto cosa hanno fatto ad Harry, non possiamo rischiare»
      Harry? Il mio Harry? Il ragazzo timido che mi aveva salvato dalla morsa della fame quella mattina, e che, insieme ad Amy, occupava le miei giornate? «Harry?! Che hanno fatto ad Harry?» nessuno rispose, era come se non avessi proprio parlato. Sperai di no, ma non potevo esserne sicura. Loro continuarono a discutere a voce alta.
      «Lei è lì fuori, Phil! Non possiamo lasciarla da sola!» urlò Clark, arrabbiato.
      «Ha ragione» aggiunse una voce femminile «come l’hanno fatto ad Harry, potrebbero farlo anche a lei, o peggio»
      «Ma potrebbe farlo a lui, Violet» rispose Phil.
      Violet? La fidanzata di Dam? Quindi c’era anche lei, e forse, anche lui. Sperai di sì, poi restai ad ascoltare in silenzio «Tu non capisci Phil» disse Clark, quasi sottovoce. Doveva averla ancora lui, la radio, sennò non lo avrei sentito «Non posso lasciarla là fuori da sola, potrebbe… potrebbe…» non riuscii a finire la frase, ma la intesero tutti.
      Ci fu un lungo momento di silenzio, dove nessuno osò parlare. Troppo colpiti dal pensiero che le parole di Clark avevano innescato nelle loro menti, e nella mia.
      «Non puoi andarci nemmeno tu» aggiunse un altro maschio.
      «Damon, non…» non riuscii a finire. C’era anche Damon? Ringraziai il celo perché fossero tuti sani e salvi. Volevo chiedere di Amy, e cosa era successo ad Harry, ma capii che non era il momento.
      «Niente “non”, Clark. Come potrebbero farlo a lei, lo potrebbero fare anche a te» aveva più che ragione «Susan è amica anche a me, una grande amica, ma non voglio altri morti» che fosse Harry, il morto di cui parlava?
      «Io devo andarci Dam, mi rifiuto di lasciarla lì da sola» protestò ancora lui.
      «Non ci andrai» tuonò Phil «andare soli in giro è un suicidio»
      «E allora perché non mi permetti di andare a prendere?! Lei è sola, e lo hai detto tu adesso che stare soli è un suicidio qui!» Clark non voleva arrendersi, ma io non capivo fino in fondo di cosa avessero paura. Degl’uomini che avevano sparato a Jordan? Li avevano incontrati anche loro?
      «Andrò io con lui» la voce era debole, lontana, ma capii che apparteneva ad una donna.
      «Tu non verrai» le rispose Clark «Andrò da solo»
      Testardo lui.
      Mi dispiaceva essere la causa di quella discussione, quindi cercai in tutti i modi di non ascoltarli e trovare una soluzione per conto mio di come arrivare da loro. Continuavano a discutere e a discutere, senza trovare un accordo. Ecco ai tempi d’oggi come si trovava una soluzione: urlandosi contro. Abbassai al minimo il volume della radio, e mi spremetti per trovare un’idea. Trovato!
      «Ragazzi?» li richiamai. Niente, ancora presi dalle loro dispute «Ragazzi?» riprovai a voce più alta. Avevo una voglia incontrollabile di spegnergli la radio in faccia, come si faceva con i cellulari quando una persona ti irritava. Mi trattenni dal farlo, sapendo che me ne sarei pentita subito «RAGAZZI?!»
      Il silenzio scese fra di loro.
      «Grazie» dissi «Che ne dite se vengo io lì da voi?» gli proposi.
      «Cosa?! Ma sei pazza?!»
      «Clark sapevo che tu avrei risposto di no, quindi preferirei che mi diciate con precisione dove vi trovate»
      Mentre Clark urlava le sua disapprovazione, Phil raccolse la radio e parlò «Sei sicura, Susan?»
      «Sì, voi restate tutti insieme, io ce l’ho fatta fino ad ora, un altro giorno che mi costa?» risposi sincera.
      «Va bene» disse lui «Allora, arrivi al ruscello, o fiume, e prosegui verso la parte interna dell’isole. La riconoscerai perché ci sono delle montagne al centro dell’isola»
      «Ok» risposi con un sospiro. Avevo memorizzato tutto, come quando zia Jas mi aveva telefonato, e io mi ero impressa nella mente data, ora e luogo della partenza. Zia Jas «Phil?»
      «Sì, ci hai ripensato?» domandò lui.
      «No, no. Mi chiedevo se Zia Jas era con voi»
      «No, mi dispiace Susan» rispose.
      «Ah» dissi malinconica. Non volevo farli preoccupare, così mi ricomposi subito «Come faccio a trovarvi? Intendo nella foresta»
      «Giusto! Non c’avevo pensato» esclamò lui «Ragazzi come facciamo?»
      «Io dico di andare a prendere noi» rispose Clark. Solito da lui.
      «Potremmo fare che uno di noi resta al ruscello ad aspettarla. Potremo fare dei turni, così lei capirà dove siamo»
      «Ottima idea, Violet» si complimentò Phil «Hai sentito, Susan?»
      «Sì, tutto chiaro» risposi.
      «Bene, allora…»
      «Ci vediamo presto» lo anticipai, dicendo quelle parole con un sorriso.
      «Ok, ciao Susan, e sta’ attenta» aggiunse.
      «Tranquillo, e anche voi. Ciao» risposi «Ciao Clark» aggiunsi.
      «Susan! Susan?» disse lui, afferrando la radio di corsa.
      «Sì?» risposi.
      «Ti prego, aspetta che venga io lì a prenderti» mi implorò. Capii che si era allontanato dagl’altri perché non sentivo nemmeno un lamento.
      «Clark, andrà tutto bene» lo rassicurai.
      «No, Susan, non è vero» rispose.
      «Clark» iniziai «Sta’ calmo, ok? Avete detto che siete vicini no? Quanto potrei camminare? Un giorno? Due? Che differenza fa’?»
      «Che ogni giorno che prosegui da sola rischi la vita» rispose arrabbiato, ma sembrò più un rimprovero per se stesso.
      «E restare ferma qui ad aspettarti non lo è?» lo risposi a tono.
      «Sì, ma…»
      «Niente “ma”!» lo rimproverai con tono da maestra. Lui rise, anche se debolmente «Ci vediamo lì» aggiunsi.
      «Ti aspetto» disse «Ciao Susy, e mi raccomando n…»
      «Non ricominciare Clark» rise ancora «Ciao Edward» e chiusi, spegnendo la radio.
      Non volevo che la batteria si esaurisse, non sapevo quanto tempo ci avrei impiegato per raggiungerli.
      Resta ancora lì per qualche secondo, con un sorriso stampato sulle labbra.
      Strinsi il ciondolo fra le mani, e mi voltai verso il ruscello.
      Quando ci arrivai, guardai ai lati opposti di esso, per capire quale fosse la direzione per arrivare al centro dell’isola. Scorsi delle montagne molto lontane, e capii che era quello.
      Mi incamminai, anche se era il doppio più rischioso dato che era di notte –e lo sanno tutti che i serial killer e i mostri colpiscono di notte- ma non volevo aspettare un secondo in più per rivedere i miei amici, e soprattutto Clark.
      Adesso che li avevo sentito, che mi ero assicurata che stessere bene, mi sentivo rincuorata, anche se non sapevo se stessero bene.
      E Harry? Cosa gli era successo?
      Non pensare al peggio, Susan
      Non volevo pensare a cose dolorose come la morte in quel momento di felicità ritrovata.
      Camminavo svelta, pensando che se avessi potuto, mi sarei messa a correre per tutto la notte, e anche il giorno dopo, ma sapevo che se lo avrei fatto, non mi sarei ritrovata più una milza.
      La luna si rifletteva su quello che, adesso che lo avevo visto meglio, era un ruscello. Finalmente la lune era riiniziata a piacermi come quando era a casa, nel mio letto. Non mi sentivo per niente stanca, e anche se lo ero, non mi sarei fermata a riposare, lo avrei fatto solo quando avrei visto uno dei miei amici fermi vicino al ruscello, pronto ad accogliermi e a portarmi dagl’altri. Solo allora, lo avrei fatto.
 
      Camminai di fianco al ruscello per quasi tutta la notte, non accusavo un minimo di stanchezza, stranamente, perché ormai era quasi l’alba e mi ero fermata a riposare due o tre volte in tutta la nottata.
      Il tragitto si prevedeva calmo, o almeno lo ea stato fino a quel momento.
      Gli uomini che avevo incontrato sulla spiaggia non si erano fatti vedere nemmeno una volta –per mia grande fortuna, e sollievo-, non un minimo disturbo se non dal mio stomaco che continuava a brontolare dalla fame, e non potevo biasimarlo.
      Per dissetarmi avevo un intero ruscello, ma l’appetito…. Era una cosa ardua da trovare lì, il cibo.
      Niente calmava il mio stomaco che ringhiava forte, come per paura di non essere ascoltato. E non potevo biasimarlo.
      Quando l’ennesimo ruggito emerse del mio stomaco, mi fermai.
      Da un parte perché non lo sopportavo più, mi importava solo di arrivare a destinazione, dall’altra perché volevo anch’io mettere qualcosa sotto i denti.
       Mi scrutai in giro ma, come per tutto il tragitto, non si vedeva nemmeno l’ombra di un albero di frutti, non che ci credessi per davvero di trovarlo lì, ma la speranza è l’ultima a morire, no? Non avevo mai immaginato che sopravvivere fosse così arduo –non che avessi nemmeno mai immaginato di dover sopravvivere però.
       Desolata, continuai a proseguire ai lati del ruscello, verso l’interno dell’isola.
      Avevo sempre gl’occhi attenti d’avanti a me, pronti a scorgere qualsiasi figura. Avrei preferito qualcuno che conoscessi, ma l’importante era arrivare da loro in un modo o nell’altro.
      Quando i piedi mi fecero male, di nuovo, mi sedetti di fianco a ruscello a riposare. Tolsi le mie Superga, e immersi i piedi doloranti nel fresco e rilassante ruscello. Un altro ruggito –ormai li chiamavo così, tanto che erano forti. Stavolta mi tenni lo stomaco dal dolore. Imprecai. Avevo una fame da lupi, mi sarei mangiata anche carne cruda se fosse stato possibile.
      Come a realizzare i miei desideri, o a peggiorarli, sentii un schioccare di rami alle mie spalle. Mi tessi immediatamente dallo spavento, voltandomi.
      Imprecai ancora contro la lepre, ferma lì in mezzo ai boschi, che mi fissava.
      Aveva il pelo di un bianco splendente, quasi impossibile pensando all’ostilità della foresta, e macchie marroni scure su tutto il dorso, e un’orecchia. Era così dolce alla vista.
      Mi rimise le scarpe, e mi avvicinai cautamente all’animale, che sembrava docile.
      Rimasi sorpresa quando le miei mani toccarono il pelo morbido della lepre, e lei non si mosse di un millimetro. La accarezzai, continuando a guardare i suoi occhi dolci.
      Anche lei sobbalzò quando il mio stomaco grugnì. Sorrisi quando la vidi fissare terrorizzata la mia pancia «Tranquilla» dissi «non ti farò niente» con una mano coccolavo la lepre, con l’altra il mio stomaco. Consolavo entrambi.
      Iniziai a fissare in modo spaventoso la lepre.
      Fame.
      Provavo un’immensa fame, e mi trovavo d’avanti una lepre… succulenta.
      Cosa avevo detto prima? Che avrei mangiato anche carne cruda, se ne avessi avuta? Iniziavo a farci un pensiero, più che uno.
      Lo stomaco grugnì, come ad acconsentire i miei pensieri spaventosi.
      È per la sopravvivenza pensai È per non morire di fame.
      Raccolsi una pietra lì vicino, e con l’altra mano tenni ferma la lepre.
      Solo il pensiero mi disgustava violentemente, ma avevo ragione, era per non morire di fame. Volevo o no arrivare dai miei amici? E forse non avrei resistito con quella fame, non sapevo quanto mi mancava, e non potevo correre rischi. Era disgustoso, ma bisognava farlo.
      Alzai la pietra, pronta a scagliarla sulla testa dell’animale.
      Respirai profondamente. Non avevo mai ucciso niente e nessuno, e non mi aspettavo che il primo fosse stato una lepre innocua, che non aveva avuto nemmeno paura di me, tanto da farmi avvicinare e accarezzarla. Il suo dolce pelo che tenevo stretto tra le dita era così morbido, così rassicurante, come quando accarezzi il tuo gatto d’avanti ad una camino acceso in una fredda notte. Era bellissimo.
      Levai ancora più in alto il sasso, per prendere velocità. La lepre continuava a fissarmi senza incertezza, convinta, forse, che avrei continuato a coccolarla, che non gli avrei fatto del male.
      Quando ormai non potevo alzare di più il mio braccio, mi preparai a vedere sangue rosso, e a sentire il liquido caldo sulle miei mani.
      No!
      Gettai il sasso a qualche metro di distanza, e la lepre, spaventata, si allontanò, finché non la scorsi più fra i cespugli.
      Un po’ ci rimasi male, perché finalmente il mio stomaco poteva assorbire qualche forma di cibo, qualsiasi essa forse stata, ma un po’ no, perché almeno non ero diventata una cannibale a mangiare carne cruda di una povera e bellissima lepre.
      Mi rimisi in marcia.

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Capitolo 14
*** 13. Radura ***


mi scuso tantissimo per la lunga attesa, ma in questi giorni sono stato molto occupato, in compenso, però, voglio aggiungere due capitoli, per scusarmi ancora della lunga attesa.
sorry :)

Matt




13
Radura

      Un giorno.
      Era passato un giorno, e io continuavo a camminare e riposare e camminare, sia sotto la luce cocente e forte del sole, sia sotto quella fresca e limpida della luna. Il mio desiderio di rivederli tutti non si era abbassato di una millimetro, era l’unica cosa che mi faceva andare avanti, che non mi faceva fermare a dormire, o a tornare indietro, sulla spiaggia, dove le probabilità di essere avvistata da qualcuno era più alte rispetto a quelle di vagare nel centro dell’isola.
      Durante il mio tragitto incontravo spesso lepri come quella che mi tentò tanto per mangiarla, e come con essa, esistetti a loro. Ma a parte animali del genere –anche cervi, uccelli, e animali simili-, non incontrai niente. Continuavo ad aspettarmi da un momento all’altro che degl’uomini sbucassero dai boschi, con una pistola stretta in mano, e che mi sparassero. Ma niente di tutto ciò non accadde nemmeno una volta.
      Nonostante questo, io continuavo a stare all’erta.
      L’isola non mi ispirava la benché minima fiducia. Certo, di giorno l’aspetto era paradisiaco, e spesso anche a notte fonda, poi mi ricordavo quello che era successo sulla spiaggia, che quegli uomini potessero essere lì, in mezzo ai boschi pronti a fare fuoco, o anche che potevano esserci lupi, o animali simili pronti a sbranarmi.
      Come per gl’uomini, questo non accadde.
      A volte mi ritenevo stupida a essere sempre tesa, pronta a scapare; o quando sentivo un rumore, uno qualsiasi, scattavo verso i boschi a nascondermi, poi tornavo a controllare, e non c’era niente.
      Era stupido, almeno da parte mia, ma non riuscivo a trattenermi.
      Mi tornava sempre in mente Jordan, sulla spiaggia, inginocchiato di fronte a Bill, e il colpo di pistola dritto sulla sua fronte; a Clark e Phil che mi avevano fatto capire, anche se in moda vago, che era successo qualcosa ad Harry. Con questi ricordi, puntualmente, scattava la paura.
      Arrivata la seconda notte da quando avevo intrapreso il viaggio, ero arrivata allo sfinimento. Per tutto il giorno avevo riposato circa un quarto d’ora, e ormai non mi sentivo più i piedi.
       Mi sedetti, poggiando la schiena di fianco ad un robusto albero, e mi toli le scarpe dai piedi doloranti, poggiandole di fianco a me.
      Restai a guardare la luna che risplendeva nel ruscello.
      Sopravvivere.
      Era quello che stavo facendo io, non me ne ero resa mai conto pienamente, e chissà perché, solo in quel momento mi era venuto in mente. Io stavo sopravvivendo ad un’isola ostile, senza nessun mezzo d’aiuto, solo una radio mezza scarica, e a farmi compagnia uno stomaco lamentoso.
      Un rumore di rami spezzati, e foglie calpestate mi distrasse. Immediatamente, anche se non avevo riposato abbastanza, mi rimisi le scarpe e scattai in piedi, con lo sguardo dritto nei boschi, cercando di individuare la zona precisa da dove era partito il rumore.
      Non riuscivo a vedere un bel niente, la notte mi piaceva, ma in quei momenti non contribuiva affatto. Socchiusi gl’occhi, sforzandomi di vedere meglio.
      «Oh cazzo» sussurrai, a voce talmente bassa che soltanto io la udii, con gl’occhi sbarrati dalla paura.
      Un lupo grigio uscii lento dai cespugli, ringhiando sonoramente e mostrandomi i canini ben in vista.
      Indietreggiai lentamente, cercando con tutta me stessa di restare calma, cosa molto difficile da fare in quei momenti. Tenevo le mani di fronte a me, come per fermare qualcuno, convinta che con lui funzionasse.
      L’animale, sempre ringhiando, uscii completamente dai cespugli, e potei notare che era abbastanza grosso. Poteva arrivarmi all’altezza del ginocchio, ma preferii non compararmi fianco a fianco con lui. Indietreggiai ancora di qualche passo. Il lupo avanzò con me, con i denti sempre ben in vista.
      Dovevo trovare un modo per sfuggire all’animale, e l’unico modo era scappare, ma non era una cosa tanto saggia da fare. Punto primo, perché il lupo era di sicura più veloce di me; punto secondo, avevo i piedi che mi facevano ancora un male cane.
      Quando ormai era arrivato ai margini del ruscello, e non potevo più allontanarmi, mi preparai alla corsa.
      Uno…
      Il lupo ringhiò più forte.
      Due…
      Mi voltai molto lentamente sempre verso il centro dell’isola, non volevo deviare dal percorso.
      Tre…
      Il lupo, forse perché aveva captato le mie intenzione, forse perché si era stufato di aspettare, si accovacciò, pronta ad affondare i suoi orrendo denti della mia pelle.
      VIA!
      Partii il più veloce possibile, il lupo insieme a me, non prima di aver emesso un ringhio feroce, che mi fece venire la pelle d’oca.
      Mi guardavo in continuazione alle spalle, il lupo si avvicinava sempre di più. Mi ricordava quando scappava da Bill la donna, ma stavolta colui che dovevo seminare, almeno, non aveva armi da fuoco. Sapevo che correndo non ce l’avrei mai fatta a seminarlo, quindi misi in funzione la mia testolina per evitare le zanne, ma sapete com’è, in quelle situazione la paura ti domina e non riesci a pensare ad altro che alla tua imminente morte. Mi sforzai a pensare, e ad ignorare i ringhi alle mie spalle, sempre più forti.
      Riuscii a trovare un’idea: se non potevo superarlo, potevo… eliminarlo, o rallentarlo per nascondermi. Nascondersi, però, era inutile con un nemico che ha un senso olfattivo molto più forte del tuo, quindi l’unica soluzione era eliminarlo in un modo o nell’altro. Non era uccidere, era legittima difesa, no?
      Ma come? Mentre correvo mi guardavo in giro. Il lupo ringhiava sempre più forte, i suoi versi mi riempivano la testa. Volevo urlargli «Sta’ zitto! Sta’ zitto stupido animale!» spostai il mio sguardo sul terreno, tra i sassi, in lontananza, scorsi un ramo, non abbastanza fragile, ma che avrebbe potuto bastare. Mi preparai ad abbassarmi e afferrarlo. Avevo un’unica occasione, e sprecarla significava trovarsi quel cosa addosso.
      Un ultimo sguardo all’animale dietro di me, poi mi preparai a lanciarmi suoi sassi. Non sarebbe stato piacevole, ma serviva per sopravvivere. Quando ormai ero arrivata a circa un metro di distanza dal ramo, mi gettai di peso su di esso, ansiami quando sbattetti sulle fredde e dure pietre, mi ripresi, lo afferrai e mi voltai. Non feci in tempo a colpirlo, che il lupo era già su di me. Gli misi una mano sotto il muso, per non farmi afferrare la faccia dalla sua morsa, e con l’altra, cercavo il ramo. Al polso che tratteneva l’animale, vidi il ciondolo agitarsi violentemente, pensavo che stesse per rompersi, e una rabbia mi sopraffece.
      Era l’unica cosa che mi ricordasse i miei cari su quel fottuto posto, e non avrei permesso che uno stupido animale che pensa solo a qualcosa su cui affondare i denti me lo rompesse.
      Afferrai il ramo, abbastanza duro, lo tenni ben saldo tra le dita, e lo alzai. Urlai: «Sta’ lontano da me!» e colpii con tutta la forza che avevo dentro il muso dell’animale, che si scansò, cadendo di fianco, agitandosi.
      Mi rialzai, e lui insieme a me.
      Mi fissava ringhiando con sempre più feroce. Io, con il ramo stretto fra le due mani e un ghigno stampato sulle labbra, lo aspettavo, si era permesso adesso di attaccarmi, e non lo avrebbe più fatto in vita sua, dato che ormai, essa era agli sgoccioli.
      «Avanti» dissi «attaccami se ne hai il coraggio»
      L’adrenalina mi dominava, non vedevo l’ora che attaccasse, solo per attaccare anch’io a mia volta. Volevo che la pagasse per tutte le cose orrende che aveva fatto, e ne ero scura, ne aveva fatte parecchia, compreso il rischio di rompermi il me medaglione con incisa la D.
      «Avanti!» urlai.
      Non ce la facevo più ad aspettare.
      Il lupo ringhiò al mio urlo, e spiccò un salto verso di me, con le fauci spalancate, pronto a mordermi e quindi vendicarsi, ma prima che mi potesse toccare anche con uno solo di quegli schifosi denti, lo colpi dritto sul muso, facendolo ricadere atterra, dolorante.
      Mi avvicinai ad esso, ancora steso, dolorante, e alzai alto il bastone, pronto a punirlo una volta per tutte. Il mio petto si alzava e abbassava velocemente. Volevo farlo, volevo che non potessi più correre quel rischio con lui, poi, il lupo si tramutò nella lepre che avevo rischiato di ammazzare solo, per la fame. Mi ritornò alla mente quel gesto crudele che avevo intenzione di compiere, e che stavo per fare anche quest’animale. Lui se lo meritava, certo, ma era la sua natura.
      Abbassai l’arma, e indietreggia. Lasciando spazio al lupo per scappare. Lui si rialzò, con l’aria sempre feroce impressa sul volto, intendo a fissarmi. Attesi che se ne andasse, ma non lo fece, spiccò un altro salto.
      Lo colpii di nuovo, facendo ricadere. Stavolta no, non lo avrei risparmiato. Alzai il ramo, e colpii l’animale all’altezza delle costate, più e più volte. Il lupo gemeva di dolore. Quei versi mi riempivano ancora la mente «Basta!» urlai, tra le lacrime che, inconsciamente, iniziarono a ricadermi sul visto. Alzai per l’ultima volta il ramo, e glielo piantai sulla testa.
      Il lupo emise l’ultimo gemito.
      Lasciai cadere l’arma improvvisata, sporca del sangue di quello sfortunato animale.
      Mi sedetti, tremante, tenendomi la testa fra le mani, e continuando a piangere. Continuavo a ripetermi che lo avevo fatto solo perché era necessario, perché altrimenti il lupo mi avrebbe sbranato, che non avevo scelta. O lui, o io. Erano quelle le leggi della sopravvivenza? Io credevo di sì, ed erano crude, e difficili da mandare giù.
      Mi guardai le mai. Sia esse, che una parte dei jeans era sporche di un liquido rosso scuro. Mi precipitai terrorizzata al fianco del ruscello, strofinando fino allo finimento le mani. Continuavo a piangere, strofinare, e a pensare: uccidi per non essere ucciso Niente di più vero, pensai.
      Usci dal fiume, fissando il lupo con la testa e lo stomaco fracassato dai miei colpi violenti. Sperai con tutta me stessa che quell’episodio era capitato quella volta, e che non dovesse capitare mai più. Non volevo diventare un mostro spietato, che uccideva qualsiasi cosa si opponesse a lui, che lo minacciasse. Quella non ero io, quella non era Susan Dawson.
      Mi asciugai le ultime lacrime, e ripresi il mio cammino, senza guardarmi dietro, non ce l’avrei fatta a sopportare un’altra volta quello scenario orrendo, soprattutto se sapevo che ne ero stata io la causa. Era troppo doloroso da accettare, ma era vero. Potevo nascondere la verità a me stessa? No, certo che no, ma agl’altri? Potevo, certo, ma mi avrebbe giudicata male se glielo avessi detto, se avessi ammesso di avere ucciso un lupo perché avevo tentato di uccidermi per tre volte, io credevo di no, ma le bugie non erano da me quindi non lo avrei né detto né negato.
      La luna era ancora alta nel celo, doveva essere tarda notte.
      Pensavo a tutto quello che poteva distrarmi dai miei ricordi più recenti.
      Camminavo con lo sguardo basso, demoralizzata da quello che avevo fatto.
      Era necessario continuavo a ripetermi Dovevi farlo se volevi rivedere Clark e gl’altri. Ma i miei pensieri, per quando potessero essere veri, non mi rilassavano. Anche se lo avrei dovuto fare per forza, potevo risparmiarmi di fracassargli il cranio. Il muso sfigurato del lupo, e la fronte squarciata di Jordan regnavano nella mia testa.
      Ero diventata come loro? Come Bill e la donne? Un mostro senza scrupoli? No, io dicevo di no. Per quanto potessi afflosciarmi sui miei gesti, su quello che avevo fatto, non ero un mostro. Io avevo una scusa per averlo fatto, legittima difesa –manco avessi ucciso un uomo, però-, loro non ne avevano neanche un minima traccia.
      Era questo quello che mi differenziava da loro. Io dovevo farlo per tenermi stretta la vita, loro potevano risparmiarla quella di un povero naufrago, di cui non conoscevano nemmeno il nome.
      Sopravvivenza. Continuavo a ripetermi quella parola nella testa. Lo avevo fatto per quello, per le crude, ma vere leggi della sopravvivenza che andavano seguite se volevi tenerti stretto la vita e, per quando io non avessi paura della morte, tenevo alla mia vita, e volevo scriverne ancora molte di pagine che la descrivevano.
      Drizzai la testa, rincuorata dai miei discorsi.
      Era vero. Dovevo farlo, e non me ne potevo fare una colpa se avevo scelto di togliere la vita ad uno sporco animale, che chissà quante ne aveva prese a sua volte da poveri e indifesi animale come la lepre dello stesso giorno –e me ne sbattevo se quella era la sua natura-, e non l’inverso. La ragione era dalla mia parte.
      Mi accovacciai di fianco al ruscello, bevendo e sciacquandomi il volto, come per cacciare una volta per tutte quei pensieri. Ovviamente non ci riuscii, e lasciai perdere.
      Camminai per quelle che potevano essere altre 3 ore forse -Il tempo su quella maledetta isola non contava niente-, la luna era nel punto più alto della notte. La sua luce mi rilassava in un certo senso. Bianca, come la purezza, come la mia maglietta. Abbassai il volto a guardarla. Non era più così pura, con schizzi di sangue animale qua e là.
      Ne approfittai per darmi una guardata: le scarpe, comode e di un blu scuro, si erano tenute più o meno pulite; i jeans, macchiati di sangue e con qualche piccolo taglio; la maglietta, la mia preferita era ancora intatta, ma leggermente sporca; il cardigan aveva mantenuto il suo colorito marrone chiaro; la mani, sane con qualche graffio –quelli provocati dagl’artigli del lupo sanguinavano ancora, bruciavano-; avevo intenzione di dare uno sguardo anche ai miei capelli neri, rimasti ancora avvolti nella salda coda, ma ricordando il mio volto allo specchio ogni mattina, preferii non osare.
      Tutto sommato, mi era andata già molto bene: ero viva.
      Molti della nave, a parte i miei amici, non avevano avuto tanta fortuna come noi.
      Mentre camminavo, spedita senza più preoccupazioni, non mi accorsi di quello che c’era di fronte a me. Avevo sempre tenuto lo sguardo circospetto dritto, avanti, senza mai abbassarlo, e adesso che avevo abbassato la guardia, era successo…
      «Susan?» era una voce debole, ma non della voce in sé, perché era distane «Susan!» la voce era più alta, adesso mi arrivava chiara. Alzai il volto, e non riuscii a credere ai miei occhi: Damon, di fronte a me, che mi correva incontro, sbracciandosi e continuando ad urlare «Susan! SUSAN!»
      «Damon?» non ne ero sicura, la mia testa, per quanto ne sapevo, poteva giocarmi brutti scherzi. Mi strofinai gl’occhi, per essere sicura che non fosse un immagine della mia mente. Non lo era. Damon stava correndo davvero verso di me «Damon!» urlai, certa stavolta che fosse per davvero, iniziando a correre a mia volta verso di lui.
      «Susan!» urlò ancora, abbracciandomi, tenendomi stretta a sé, facendomi alzare i pedi dai tanti sassi del suolo scomodi «Susan, Susan, Susan…» mi ripeteva all’orecchio.
      «Dam!» dissi ridendo, stingendomi sempre di più a lui, per paura che scappasse, che mi potessi ritrovare da un momento all’altro di nuovo sola.
      Mi lasciò andare «Dove sei stata, Mignolo?» stavo per rispondergli, ma non mi diede il tempo «Non importa. Vieni, ti porto dagl’altri» e indicò in punto alle sue spalle.
      «Sì… sì… sì!» ripetevo la stessa cosa, ma ogni volta aumentavo di un gradino la mia felicità per quel momento.
       «Ok» rispose lui, con un sorriso incerto. Forse pensavo che fossi uscita di senno. Si volò, e cominciò a camminare sui sassi, che mai come in quel momento mi disgustavano. Mi ricordavano i due giorni di solitudine, che ormai erano solo un ricordo. Camminò fino a raggiungere un palo conficcato nei sassi, che non avevo notato prima, troppo presa da Dam, e accecata dalla felicità «Da questa parte» disse sempre con un sorriso, indicando un punto indefinito tra i boschi. Si incamminò prima di me, facendomi strada tra gl’alberi alti.
      Si muoveva con sicurezza tra di loro, sicuro di dove stesse andando nonostante la poca visibilità. Capii che era così perché l’avevano percorsa diverse volte per darsi il cambio, o almeno così pensavo.
      «Che hai combinato?» mi chiese, voltandosi.
       Ci misi qualche secondo a rispondere, presa com’era dal bosco. Lo guardai indicare i miei jeans, sporchi di sangue «Oh» dissi, portandomi una ciocca ribelle dietro l’orecchio, e guardandomi le gambe «Io ho… ehm…» non riuscivo a finire, mi vergognavo troppo.
      «Cosa?» intervenne lui «Ucciso un coniglio» aggiunse con una risata magra.
      Quasi offesa dalla sua battuta, decisi di rispondere «Un lupo» dissi con noncuranza «anche bello grosso, a dire la verità»
      «Un lupo?» domando lui, sbalordito, fissando insistentemente prima il mio volto, poi i jeans, poi di nuovo il volto «Non… e come…?»
      «Gli ho fracassato cranio e costate» dissi semplicemente, facendo spallucce.
      Lui non aggiunse niente. Rimase con la bocca aperta, anzi, spalancata dalla sorpresa, e continuava a fissarmi le game. Mi ero quasi dimenticata che mi credesse “L’innocente Susan” «Va… va bene» disse lui, voltandosi, guardandomi di nuovo, e voltandosi un’altra volta, continuando nel suo percorso.
      Sorrisi divertita dalla sua reazione, in effetti era molto strano da me.
      Quando Dam mi informò che mancava poco al campo, il cuore iniziò a battermi forte. Quante volte, in questi due giorni, mi ero immaginata il momento in cui avrei rincontrato i miei amici? Non potevo credere stesse succedendo per davvero. Il respiro mi si fece affannato dall’emozione.
      Tutti. Avrei rivisto e abbracciato di nuovo tutti, e solo l’idea mi rendeva immensamente felice.
      «Ragazzi!» urlò Damon. In lontananza, d’avanti a noi, scorsi una debole luce naturale, che man mano che ci avvicinavamo diventava sempre più grande «Ragazzi!» ripeté più forte lui.
      «Cosa c’è, Dam?» rispose uno di loro. Lo riconobbi, era Phil. Sorrisi istintivamente.
      Quando il mio migliore amico mise piede oltre gl’alberi, lui continuò «Non dovresti essere al ruscello? Dovresti aspettare…»
      «Me» conclusi io per lui, facendomi posto di fianco a Dam, con un sorriso timido sulle labbra.
      Ci trovavamo in una piccola raduna, con un fuoco scoppiettante al centro, e tutti intorno tronchi caduti. Sembrava uno di quegli accampamenti per le giovani marmotte. Più in lontananza, vide della roba, che non riuscii a distinguere, tutta ammucchiata, e vicino ad essa, un’altra piccola collina di roba.
      «Susan!» urlò Phil, sprizzando gioia da tutti i pori. Aveva i capelli sconvolti, e la camicia azzurra rotta qua e là. Si precipitò ad abbracciarmi. Lo strinsi forte.
      «Susan!» altre voci, tutte insieme, mi chiamarono, con altrettanta gioia come quella di Dam e Phil quando mi avevano visti.
      Abbracciai tutti. Dopo Phil, fu il turno di Amy, poi Violet. Altre persone, che non conoscevo, si erano limitate a salutarmi con l amano, altre con una stretta di mano, presentandosi.
      Notai che mancava qualcuno «Dove sono Clark ed Harry?» domandai ad Amy, scrutando fra le tante testa che continuavano a sorridermi.
      «Clark è a fare il suo turno da Harry?» rispose lei, con un sussurro debole che a stento sentii.
      «Turno?» ripetei «Quale turno?» poi mi ricordai che per radio avevano parlato distrattamente di qualcosa che era successo ad Harry «Dove sono?» chiesi con voce allarmata. Avevo bisogno di vederli, entrambi.
      «Lì» mi rispose Amy, indicando una stradina tra gl’alberi, di fianco ai cumuli di roba.
      Mi precipitai nella zona. Avvicinandomi, notai che un cumolo dei due erano scorte di cibo e acqua –mi trattenni solo grazie al pensiero che dovevo vedere al più presto quei due-, e l’altro, delle armi, alcune da fuoco, altre di offesa, come picconi. Lasciai perdere, e mi avviai lungo la stradina. Prima che potessi arrivare a destinazione, qualcuno mi investì con un abbraccio.
      «Susan» disse «Stai bene»
      Clark mi stringeva sempre più forte, alzandomi da terra e facendomi girare sul posto. Risi divertita dalla sua reazione, e risposi all’abbraccio «Clark mettimi giù»
      Mi lasciò rimettere i piedi atterra, e mi fissò, scrutando ogni piccola cosa a me invisibile sul mio volto «Stai bene, Susy?» domandò. I suoi capelli cioccolato se n’erano scesi, coprendogli per metà la fronte, il volto una maschera di stanchezza e preoccupazione.
      «Sì, ma dov’è Harry?» avevo fretta di vederlo, ero preoccupata per lui, e non mi sarei calmata finché non lo avrei visto.
      Lui abbassò lo sguardo, triste. Senza volerlo, pensai al peggio.
      «Clark, dov’è Harry?» gli domandai seria «Sta’ bene?»
      «Vieni con me» fu’ la sua risposta, voltandosi, e proseguendo lungo il sentiero. Senza dire niente, lo seguii, con la preoccupazione a mille. Il respiro si fece di nuovo affannato, incontrollabile.
      Si fermò di colpo, facendomi spazio per passare. Prima di entrare in un’altra raduna, nettamente più piccola, guardai un’ultima volta lo sguardo pieno di tristezza di Clark, poi lo superai, mi voltai, e una lacrima mi scese lungo il viso.
      Harry, il mio Harry timido, era stesso sulla soffice erba, con il capo poggiato su un tronco, reso morbido da una felpa grigiastra. Non si muoveva, e se non fosse per il movimento lento e debole del petto, sembrava morto. Aveva una fascia bianca intorno all’avambraccio, un’altra alla coscia, e l’ultima all’altezza dello stomaco. Ma la cosa che più mi colpì, fu la quarta benda, che gli copriva l’intero lato destro del volto. Con gl’occhi lucidi mi voltai di nuovo verso Clark, ancora con lo sguardo triste e assente «Co… cos’è successo?» chiesi in preda ai singhiozzi.
      «Quando siamo arrivati sull’isola una banda di uomini ci ha assaliti. Hanno sparato ad Harry al braccio, gamba, e busto. Poi, uno di loro, con un piccone, gli ha colpito la parte destra del volto. Noi siamo rimasti più o meno illesi» alzò il braccio sinistro, facendomi vedere una benda, poi continuò «ce l’ha fatta per miracolo, e per fortuna uno dei naufraghi di là, aveva la cassetta delle emergenze. I genitori, purtroppo non ce l’hanno fatta» racconto lentamente, con tristezza.
      Le lacrime mi scendevano sempre di più sul volta, appannandomi la vista «Ce… ce la farà?» domandai, spostando lo sguardo su Harry.
      Clark non rispose, rimase anche lui a fissare il mio nuovo amico. Mi voltai a guardarlo di nuovo, con aria ansiosa. Speravo in una determinata risposte, ma non fu così. Clark mi guardò, se possibile, con ancora più tristezza, e mi abbracciò. Avevo già capito la risposta «Mi dispiace tanto Susan» disse, accarezzandomi la schiena, scossa dai singhiozzi.
      Non potevo credere che al mondo esistessero persone talmente orrende. Abbraccia forte Clark. Non potevo nemmeno credere che era capitato proprio a lui, ad Harry. Ringraziai il celo per non averlo fatto capitare a Clark, ma non volevo che succedesse a lui, che mi aveva salvato lo stomaco, che mi aveva consigliato cosa fare, che aveva occupato le mie mattine sulla nave insieme ad Amy. Non potevo credere che quello sulla terra fredda fosse proprio quel sedicenne che avevo incontrato sul ponte quella mattina, timido, a leggere romanzi di Stephen King. Non potevo crederlo, perché lui non se lo meritava, non meritava tutto quel dolore, non meritava di dover morire in quel modo e a quell’età, non lo meritava perché lui era un ragazzo modella, da seguire, dolce, simpatico, timido.
      Mi asciugai le lacrime «Vado da lui» dissi a Clark, che mi seguii con lo sguardo mentre mi avvicinavo ad Harry.

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Capitolo 15
*** 14. Bill ***


14
Bill

      Mi sedetti di fianco a lui, asciugando le ultime lacrime. Probabilmente non gli avevano detto che lui sarebbe morto di sicuro, e non sarei stata io a dirglielo o a farglielo capire, anche se ero convinta che lui lo avesse già capito da sé. Harry si voltò lentamente verso di me, la fascia bianca che gli copriva parte del viso, e i capelli sconvolti. Mi sforzai di sorridere, e un’altra calda lacrime mi scese sul viso «Ehi» lo salutai con la voce spezzata.
      «Ehi» ripeté lui con voce debole, come ero lui in quel momento: debole.
      «Come va?»
      «Benone» rispose lui, spostando debolmente il braccio ferito. Lo aiutai a sistemarsi come voleva «tu?» mi chiese, con il suo solito sorriso stampato a vita sulle labbra.
      «Bene» trattenevo le lacrime. Non volevo piangere d’avanti a lui «Tu piuttosto, che hai combinato? Ti lascio solo per tre giorni, e guarda che mi combini» cercai di scherzare, per non piangere.
      Rise debolmente «Quando sei tornata?»
      «Adesso» confessai. Asciugandomi senza farmi notare da lui, un lacrima.
      «E sei venuta subito da me?» domando. Tossi rumorosamente.
      «Certo» risposi ovvia «Da chi dovrei andare se non dal mio consigliere personale?» scherzai di nuovo.
      «Da Clark» rispose lui dopo aver riso di nuovo debolmente, con altri colpi di tosse «Devi sistemare le cose con lui, ricordi?»
      Spostai il mio sguardo su Clark, ancora in piedi all’inizio della piccola raduna, intento ad ascoltarci «Sì» risposi «me lo ricordo. Ma avevo bisogno di vederti» da quando avevo capito alla radio che gli era capitato qualcosa, mi ripetevo in continuazione che stava bene, ma non ne ero mai pienamente sicura finché non lo avrei visto con i miei occhi. E avrei preferito non farlo. Aveva perso tutto, anche i genitori, e chissà fra quanto tempo ancora, dovrà dare anche la vita.
      «Hai fame?» mi chiese dopo un po’.
      In quel momento neanche un po’, ma non volevo contraddirlo, soprattutto in quel momento «Sì» risposi «tanto»
      Con il braccio sano, cercò qualcosa di fianco a lui, senza guardare perché troppo dolorante. Raccolse qualcosa, e me la porse. La afferrai, e la scartai «Ancora una volta mi salvi lo stomaco» risposi, scrutando il panino che mi aveva dato.
      Fece una debole risata, e aggiunse «Posso vantarmi almeno di una cosa, così»
      Restai quasi offesa dalle sua parole «Tu hai così tante cose da andare fiero, Harry. Le altre persone dovrebbero prenderti come un esempio. Tu… tu non meriti questo, tu dovresti essere lodato dalla tua persona, gl’altri dovrebbero essere al tuo posto adesso, non tu, non lo meriti»
      Alzò debolmente la mano del braccio ferito, e afferrò la mia, mimando un «Grazie»
      Vederglielo fare, mi premette ancora di più il cuore. Spinsi per l’ennesima volta le lacrime dentro.
      Indicai il panino, riavvolto nella sua carta «Adesso vado a consumare questo» dissi «ci vediamo dopo»
      «Ciao» rispose.
      «Ciao Harry» appena finì di parlare, scattai in piedi, e uscii il più in fretta possibile da quel posto, senza aspettare nemmeno Clark. Non ce la facevo a vederlo in quello stato. Era come se anch’io fossi sul punto di morte. Era troppo doloroso da guardare.
      Uscii dalla stradina, le scorte di fronte a me, ammassate. Strinsi forte al petto il panino, come se fosse la sua foto, o una cosa che me lo ricordasse. Ironicamente, pensai che lo fosse davvero. C’eravamo conosciuti con la mia fame, e adesso ci stavamo salutando alla stessa maniera. Lasciai libere le lacrime, respingendo però i singhiozzi, troppo forti se lasciati liberi, e Clark si precipitò a consolarmi. Cercai qualsiasi scusa per poter dire che era colpa mia, ma non mi venne niente in mente, pensai di poter dire che ero una specie di amuleto porta sfortuna, ma sarebbe irreale. Mi limitai a stringermi più forte al petto di Clark, unica fonte di consolazione in quel momento.
      Perché a lui? Era una punizione per me? Forse, ma non era giusto mandarla per mezzo di Harry.
      Mi ricomposi il più possibile, scansandomi da Clark, e asciugandomi le ultime lacrime sul volto. Strinsi forte il panino, e mi avviai nella grande raduna, dove c’erano tutti. Sperai che nessuno si accorgesse del fatto che avevo pianto, ma in realtà, me ne fregava altamente. Non mi importava di essere tosta in quel momento, il mio piano non includeva morti premature.
      Mi sedetti su un tronco di fianco al fuoco, caldo, e Clark di fianco a me. Scartai il panino, e iniziai a mangiarlo, senza voglia. Il mio stomaco lo richiedeva, ma la mia testa no.
      «Stai bene?» mi sussurrò Clark, avvolgendomi le spalle e stringendomi a se
      Annuì, continuando a mangiare il panino quasi con disgusto. Non riuscii a capire nemmeno cosa ci fosse al suo interno. In realtà, mi sentivo un completo schifo.
      Continuavo a ripetermi Perché a lui?
      «Mi dispiace, Susan» disse una voce.
      Alzai il capo, Phil di fronte a me mi scrutava preoccupato, come se temessi che mi sarei uccisa da un momento all’altro. Annuii anche a lui.
      «Dove sei stata?» domandò dopo vari minuti di silenzio.
      Strinsi tra le mani la carta che avvolgeva il panino, ormai già finito, e cominciai «Mi sono risvegliata, stonata, sulla spiaggia. All’inizio ci ho messo un po’ a capire dove mi trovavo, poi ho pensato all’isola che abbiamo visto sul ponte prima che la Starlight affondasse, e ho capito. Sulla spiaggia ho travato anche un altro superstite, Jordan» Phil annuì, come se lo conoscesse «insieme abbiamo deciso che era meglio proseguire a cercare altri superstiti come noi. Lui era molto scontroso, sapete?» lo raccontava con talmente tanta indifferenza come se fosse una favola, come se fossi sicuro che ci sarebbe stato un lieto fine. Ma la verità, era che mi sentivo a pezzi dopo aver visto Harry in quello stato. Proseguii «Sulla spiaggia abbiamo trovato due uomini, o meglio, un uomo e una donna. Jordan mi disse di nascondermi, che sarebbe andato a controllare, e mi avrebbe fatto cenno quando sarebbe stato sicuro. Così, mi sono nascosta dietro una scoglio, aspettando il famoso cenno. I due, hanno ucciso Jordan sparandolo alla testa» ero talmente scossa da non rendermi nemmeno conto di quello che dicevo. Clark mi strinse di più a sé «sono scappata nel bosco, inseguita dai due» tutti avevano il fiato sospeso, come in un thriller «l’ho scampata, tranquilli. Quando sono tornata alla spiaggia, ho trovato questa» presi la radio, e gliela mostrai «sul corpo di Jordan. Ho proseguito tra i boschi. Dopo quello che era successo, non ritenevo più un posto sicuro la spiaggia. Quando mi avete contattato, era passato circa un giorno dalla vicenda. Ho proseguito lungo il ruscello, e sono arrivata qui da voi» conclusi, indicando distrattamente il fuoco.
      «I due uomini, te li ricordi?» mi domandò Damon, con aria allarmata, speranzoso anche.
      Tentai di mettere a fuoco i ricordi sfocati «L’uomo ricordo si chiamava Bill, aveva i capelli grigi, corti, alto più o meno quanto me. La donna non l’ho vista molto da vicino, ricordo solo che era più bassa di Bill, e aveva i capelli rossi, raccolti in una coda. Da come parlava all’altro, credo sia come una specie di capo per Bill»
      «Phil…» incominciò Clark, voltandosi verso di lui.
      «Sì, lo so, potrebbe essere lui» concluse al posto suo.
      «Lui?» ripetei «Lui chi?»
      «Quando siamo sbarcati sull’isola…» iniziò Dam.
      «Voglio la storia dall’inizio» lo bloccai «dalla Starlight»
      «Ok» rispose Amy «te la racconto io. Eravamo insieme quando è successo, no?» annuii «Quando sei caduta in acqua, io ed Harry pensavamo… insomma…» la incitai a sorvolare «la nave è affondata verticalmente, e noi siamo scesi in acqua… delicatamente, se così si può dire. Quando siamo scesi in acqua io ed Harry, c’era circa la metà dei passeggeri, gl’altri tutti morti. Comunque, quelli che rimasero si riunirono in un unico gruppo, e nuotammo insieme a loro fino all’isola»
      «Quando siamo arrivati sull’isola…» proseguì Dam «Abbiamo cercato per circa un giorno altri che potevano essere ancora viva, ma non abbiamo trovato nessuno, nemmeno te» disse curioso.
      «Oh. Io… io credo che voi non mi abbiate visto perché non era ancora arrivata» risposi allo sguardo preoccupato di Dam.
      «Non c’eri?» ripeté Clark.
      «Sì, non c’ero. Io credo di essere stata a mollo per un giorno in mare, e quindi, forse, a voi sarei sembrata come tutti gl’altri morti. O almeno così credo» faci un’alzata di spalle, rivelandogli la mia teoria.
      «Dov’essere per forza così» fu Phil a rispondere «altrimenti, avremo dovuto vederti»
      «Certo» riprese Dam «Allora, quando ci siamo inoltrati nel bosco, per trovare riparo, abbiamo notato delle figure, e ci siamo avvicinati per controllare. Per quanto ne sapevamo, potevano essere altri naufraghi. Non lo erano. Hanno ucciso un paio dei nostri, e ridotto Clark in quel modo. Siamo scappati, qui, seminandoli. Ed io credo che quel Bill che dici tu, sia stato lui a fare quello ad Harry»
      «Come fai ad esserne sicuro?» lo rimproverò Clark. Probabilmente non voleva che si trattasse l’argomento Harry per la mia salute, mentale.
      «Perché l’ho visto, e corrisponde alla descrizione di Susan» lo rispose a tono lui.
      «Era notte, Dam» lo schernì ancora Clark.
      «Non c’entra niente…»
      «Ragazzi!» li bloccò Phil, alzandosi «A cosa vi serve litigare? Quel che è fatto è fatto! Non sappiamo chi è stato a fare quello ad Harry, e non ci interessa…»
      «A me sì» sussurrai, interrompendo il suo discorso «La deve pagare, Phil. Non aveva motivo per fargli quello»
      «E vorresti farlo anche a lui, Susan?» mi domandò, incredulo.
      «Sembrerebbe l’unica punizione adeguata» risposi calma.
      «No, Susan, non lo è. Certo, quello che ha fatto è terribile, ma…»
      «Terribile?!» urlai, incredula delle sue parole «Phil, non ha più metà della sua faccia, capisci? Non ce l’ha! Terribile saranno le cose che io farò a lui, quando lo prenderò, ma qualsiasi cosa farò, non potrà mai arrivare a quello» indicai la direzione della raduna dove era rifugiato Harry.
      «Susan, ragiona…»
      «Non voglio ragionare, Phil!» mi alzai irritata, sciogliendomi da Clark. Gl’altri ci guardavano ammutoliti, immobili. Nessuno osava contraddirmi oltra a Phil, in quel momento era una furia vivente.
      «Non puoi uccidere una persona solo perché ha sfigurato il suo volto» obbiettò lui.
      «Sfigurato? Osi dire che quello, è solo un volto sfigurato?»
      «Ok, forse è peggio, ma ucciderlo…»
      «Non ho mai detto di volerlo uccidere, Phil, sei stato tu a farlo» gli puntai il dito contro, incolpandolo.
      «Vorresti prendertela con me adesso, Susan?» mi provocò.
      «Tu stai difendendo l’aggressore di Harry» lo incolpai «Tu…»
      «Susan, calmati adesso» disse Clark, prendendomi la mano «Phil non lo sta’ affatto difendendo»
      La sua stretta si fece più forte, ed io la presi come una supplica per smetterla. Mi sedetti di nuovo, tenendo lo sguardo sulla mano di Clark per non guardare gl’altri o Phil. La mia reazione era stata esagerata, stupida, lo sapevo, ma non avevo nessuna voglia di rimangiarmi le parole. Se quell’uomo fosse stato Bill, o qualsiasi altra persona talmente idiota da fare quello, l’avrebbe pagata. Non intendevo ripensarci.
      Tutti tornarono a fare quello che stavano facendo prima della nostra sfuriata. Notai che Amy non c’era più, ma non me ne importai più di tanto, forse era andata da Harry. Clark tornò a cingermi le spalle. Affettivo, ed io mi strinsi il medaglione. Lui e Clark erano l’unica ancora di salvezza lì.
      Mi accoccolai, senza più forze in corpo, su Clark.
      Quella sfuriata mi aveva stremata peggio dell’attacco da parte del lupo.
      Ripensai a quel piccolo duello, e ricordai che avevo ridotto in quello stato il lupo perché mi ero arrabbiata come in quel momento, e mi punii subito per averlo fatto con Phil. Quando mi arrabbiavo a tal punto non ero più io, e on sapevo cosa potesse fare, era come se non controllassi più le mie azioni.
      «Susan?» mi richiamò Clark.
      «Mmm?»
      «Devo darti una cosa» proseguì.
      Mi misi dritta per capire le sue intenzioni. Si allontanò, verso le due colline culmini di armi e cibo, raccolse qualcosa da una delle due, e poi tornò indietro. Si sedette di nuovo di fianco a me, e mi mise qualcosa sulle gambe, una pistola. Lo guardai incuriosita.
      «Tu hai detto che hai preso lezioni di arco e di lancia, giusto?» annuii, ma non capivo dove volesse arrivare «Beh, ho pensato che la mira fosse quella, e dato la cattiva gente che circola qui sull’isola, non mi va di farti girare disarmata»
      Annuii, arrossendo «Voi dove le avete prese tutte quelle armi, e le scorte?» domandai sporgendomi per osservare le due collinette.
      «Dopo l’assalto, abbiamo proseguito, e nel nostro cammino abbiamo trovato una specie di campo di quegli uomini, io ed altri ci siamo infiltrati di segreto e abbiamo preso quello che potevamo, così…»
      Un sparo ci distrasse, facendoci voltare tutti verso il corpo di una donna che cadde ormai senza vita atterra, e le urla di un uomo che si chinava di fianco a lei, addolorato.
      «Fermi dove siete» urlò una voce tra gl’alberi «Se non volete morire, fermi!» feci cadere la pistola atterra.
      L’uomo si fece avanti. Era Bill, lo riconobbi dai capelli, aveva un’arma stretta in mano, e puntava qualsiasi cosa si muovesse. Fortunatamente non mi riconobbe.
      Io e Clark ci alzammo insieme, guardando il gruppo di uomini che affluivano dal bosco. Ne erano sei, e proseguivano in forma triangolare, con Bill in testa. Impugnavano tutti un’arma come quella di Bill.
      «Adesso ci facciamo un bel giretto, vi va?» domandò, rivolto a tutti, con una vergognosa arroganza.
      «Chi siete?» si fece avanti Phil. Restai sbalordita dal suo gesto, sapeva chi erano quelli? Certo che lo sapeva, vi si era già imbattuto una volta!
      Bill fece una risata amara, poi tornò subito serio, rivolgendosi a Phil «Tu chi sei»
      Phil guardò ognuno di noi, e si soffermò su Damon, che annuì con il volto, facendo a sua volta un segno ad Amy che, tenendo gl’occhi sempre fissi sul triangolo umano di fronte a tutti, indietreggiò senza farsi notare. Clark mi strinse a sé cingendomi la vita.
      «Io sono il leader di questo» rispose Phil, allargando le braccia e indicando la raduna.
      «Questo?» ripeté con disprezzo Bill, rivolgendosi ai suoi compagni che risero divertiti «Cioè del niente?» altre risate amare, più forti. Tutti noi, a differenza loro, restavamo attoniti e immobili.
      «Non vogliamo guai» proseguì Phil, serio in volto. Mi ricordò mio padre «quindi, vi preghiamo di lasciarci in pace e, se potete, di darci una mano»
      Era sicuramente un diversivo. Tutti lì sapevano che saremmo morti da un minuto all’altro. Le parole di Phil servivano solo per allungare il conto alla rovescia delle nostre vita. Forse aveva un piano, e lo stava mettendo in atto. Sì, era così, altrimenti non avrebbe perso tempo, sapeva benissimo che non ci avrebbero aiutato o lasciato in pace. Non era una guerra fra branchi, non si potevano fare tregue. Loro comandavano, non perché lo avevano meritato, ma perché avevano armi a differenza nostra.
      «Peccato» disse Bill «Io speravo di poter restare un po’ con voi, sapete, a prendere una tazza di tè» altri risolini da parte degl’uomini alle sue spalle.
      «Mi dispiace, lo abbiamo finito poco fa» scherzò Phil.
      Bill tornò immediatamente serio, anche arrabbiato dall’offesa «Come ti chiami clown?»
      «Phil» rispose lui, alzando il capo altezzoso.
      «Phil» ripeté, cominciando a camminare avanti e indietro a passi lunghi, scrutando il suolo «Sai» disse continuando a tenere lo sguardo basso «non mi sono mai piaciuti i clown. Troppo stupidi, come te» si fermò a guardarlo.
      Phil lo fissava senza dire niente, spostando lo sguardo su ognuno di loro, come per tenerli d’occhio, e aspettava. Bill a sua volta resto in silenzio. I due si scrutavano come in uno di quei schifo di film western, aspettando il momento giusto per spararsi a vicenda.
      Quel silenzio mi uccideva, così feci la mia scelta.
      «Perché fate questo?» urlai all’uomo armato.
      Si voltò lentamente a guardarmi, con un mezzo sorriso «Cosa?» chiese piegando il capo di lato.
      «Perché uccidete noi, i superstiti?» richiesi, abbassando di poco la voce, per paura che si arrabbiasse e mi sparasse. Sapevo che ne era capace.
      «Oh, mi dispiace bella, non posso dirtelo» rispose scrutandomi da testa a piede.
      «E… e perché no?» la voce mi tremava. L’unico ricordo che avevo di quell’uomo, era quando aveva ucciso a sangue freddo Jordan, e non era molto rassicurante come ricordo.
      Fece qualche passo avanti verso di me, con l’aria di qualcuno che era sicuro di quello che faceva, come se fosse giusto uccidere persone. Si chinò verso di me, raggiungendo l’altezza del mio volto con il suo, Clark si parò di fronte a me «Oh, oh» rispose Bill, rialzandosi e guardando Clark. Alternavo il mio sguardo terrorizzata tra la faccia di Bill e la nuca di Clark «Abbiamo un nobile di cuore qui, eh?» lo insultò. Clark non disse niente, continuava a restare immobile di fronte a me. Apprezzai quel gesto, ma lo odiavo profondamente per averlo fatto «Vuoi proteggere la tua donna, eh?»
       Clark ancora non rispose «Cavolo, che aria da duro che hai» lo continuò ad insultare Bill «vediamo se ce l’hai ancora» continuò, e prese una pistola dalla sua cintura, puntandola allo stomaco di Clark come aveva fatto con Jordan sulla spiaggia.
      «No!» urlai. Il pensiero che potesse fare la stessa cosa anche a Clark mi incuteva una tristezza più grande di me, che non avrei potuto sopportare. Cercai di scansarlo, ma lui continuò a restare fermo di fronte a me, con l’arma puntata contro. Bill fece fare uno scatto alla pistola che mi terrorizzò ancora di più. Mi divincolai sempre più ferocemente alle spalle di Clark, tentando di farlo spostare. L’uomo alzò ancora di più l’arma fino a puntargliela al petto, dritta dove si trova il cuore. Con un ghigno, fece per premere il grilletto «Ti prego, ti prego, ti prego! Fermati! Basta!» lo implorai.
      Continuò a puntare la pistola contro il petto di Clark, ma fissò me, con il ghigno di poco fa ancora impresso sule labbra «Oh, che carini che siete» disse con vocina stridula, facendomi venire la pelle d’oca. Poteva una persona essere tanto orrenda? Sì, e lui ne era la prova.
      «Sembra proprio come Romeo e Giulietta, vero?» chiese voltandosi verso i suoi compagni, che risero alla sua battuta. Si rivoltò verso di noi «Sareste capaci di morire l’uno per l’altro?» ci domandò, corrugando la fronte, preso dai suoi orrendi pensieri.
      «Allora?» richiese «Ne sareste capaci?»
      Non rispondemmo. Abbassai lo sguardo, impedendomi di guardarlo. Farlo mi provocava ribrezzo.
      «Dite un po’, siete fidanzati voi due? Se non sposati?» domandò ridendo.
      Io Clark continuammo a restare in silenzio. Lui lo fissava ancora senza espressione sul volto.
      «RISPONDETE!» urlo lui, facendomi sussultare.
      Alzai la testa lentamente, permettendo ai miei occhi di guardare il suo volto che a me sembrò orrendo, o forse di più. Mi incitò a rispondere. Scossi il capo.
      «Che peccato» commentò lui, amareggiato, puntando la pistola contro la tempia di Clark.
      «Tu moriresti per lei, giovanotto?» lo stuzzicò lui.
      «Ti prego, ti prego smettila, lascialo stare» lo implorai ancora con le lacrime agl’occhi.
      Lui non mi degnò di uno sguardo, continuando a guardare Clark, aspettando una sua risposta «Sì» sussurrò infine, chiudendo gl’occhi.
      In un altro momento sarei potuta saltare di gioia, anche se ne ero già certa dei suoi sentimenti, ma in quel momento mi interessava tenerlo vivo. Bill rise ancora più forte di prema, insieme agl’altri uomini. Scansò via Clark bruscamente, facendolo cadere atterra. Bill puntò la pistola contro la mia di tempia stavolta. Clark si alzò di colpo, ma fu fermato da uno di loro che lo tenne stretto.
      Fissavo la pistola a pochi centimetri dai miei occhi con terrore, e le lacrime iniziarono a scendere calde «E tu, bocconcino? Lo faresti per lui?» mi chiese, con un tono che a me ricordò quello dei malati nei film horror. In effetti, ci assomigliava parecchio.
      Certo che lo avrei fatto, sarei anche morta per Clark, ma non volevo dargli questa soddisfazione, ma non volevo nemmeno offendere Clark che ancora si ribellava fra le braccia dell’uomo. Non sapevo cosa rispondere. Dire sì sarebbe significato stare al gioco di quel pazzo che mi puntava la pistola alla tempia. E io tutto speravo tranne che dargli corda; dire no significare dire una bugia più grande di me.
      «A quale gioco stai giocando, pazzo masochista?» urlò Phil.
      Mi ero quasi dimenticata che c’erano anche altre persone oltre noi tre.
      Come aveva fatto con Clark, Bill continuò a premermi la pistola sulla testa facendomi quasi male, e spostò lo sguardo su Phil. Non lo vidi in volto. Tenevo gl’occhi chiusi, spaventata da quello che sarebbe potuto succedere, e certa quasi al cento per cento che sarebbe accaduto.
      «Io? Dici a me?» rispose Bill «Oh, io non sto giocando a nessun gioco, caro il mio… il mio Phil! Ecco! Io faccio semplicemente quello che mi ordinano di fare, e ci trovo molto gusto nel farlo, lo ammetto, ma ci metto anche qualche mia soddisfazione personale, vero ragazzi?»
      Gl’uomini, compreso quello che tratteneva Clark, risposero all’unisono con un assenso alle parole di Bill.
      «Quello che ti ordinano di fare?» ripeté Phil «Quindi prendi ordini da qualcuno, chi?»
      «Chi troppo vuole, niente prende, lo sai questo, vero Phil» lo incalzò lui, divincolando la sua domanda. Si capiva dal tono di voce che era irritato dal suo comportamento.
      «Ma piantala!» lo schernì Phil senza paura «Sei solo una pedina che viene a fare il gioco sporco» disse sprezzante.
      Bill fece una risata isterica, per trattenere la rabbia «Io. Non. Sono. Una pedina. Chiaro?» urlò, scandendo parola per parola la sua frase, con fare molto arrabbiato. Spinse ancora di più l’arma contro la mia testa.
      «E allora perché prendi ordini da loro?» insistette Phil. Voleva farsi ammazzare? Se continuava così era sulla via giusta.
      «Oh, oh, oh, io so’ cosa stai facendo» rispose Bill, levandomi la pistola alla tempia. E iniziando a camminare verso Phil, puntandola contro di lui. Mi massaggiai la parte dolorante della mia testa.
      «Tu stai cercando di fottermi, vero? Adesso ti giocherai la solita carta di convincermi a rivoltarmi contro il mio capo. Beh, con me non funziona caro, hai sbagliato vittima» iniziò a camminare in cerchio intorno a Phil, che lo fissava interrogativo «Ma voglio darti corda» aggiunse «risponderò alle tue domande, per vedere fin dove sei capace di arrivare. Volevi sapere perché prendono ordini da lui? Beh, direi perché mi paga molto lautamente, e in più» allargò le braccia «sono vivo»
      «Cosa vuoi dire?» gli chiesi incuriosita dalla frase “sono vivo”.
      «Significa che sono vivo, cara puttanella, cosa sennò?» ribatté lui, irritato dalla mia sciocca domanda.
      La riformulai «Perché dici “in più sono ancora vivo”?»
      «Sei troppo curiosa per i miei gusti» rispose stizzito.
      Io non desidero affatto avere i requisiti per andarti a genio! La cosa è differente! Pensai.
      «Volete ucciderci tutti?» domandò Phil.
      «Impara a fare le domande come lui» rispose rivolto verso di me, poi verso di lui «Comunque, non sono tenuto a riferirlo, mi dispiace»
      «Non siamo tenuti a sapere se saremo uccisi o meno?» protestò Clark. Feci per avvicinarmi, ma l’uomo che lo tratteneva mi puntò un’arma contro. Indietreggiai istintivamente.
       «Se è così che la vedi… allora sì» rispose noncurante Bill, iniziando a vagare per la raduna, osservando uno per uno i superstiti, che lo guardavano a loro volta spaventati. Lui sorrideva sempre. Non avevo capito se lo faceva per sembrare simpatico, o per essere compiaciuto del fatto che incuteva profonda paura ad ognuno di noi. Senza pensarci, optai per la seconda.
      «Perché?» continuò a ribattere Phil.
      «Anche questo non posso dirvelo» rispose accarezzando i capelli di una donna.
      «Faremo prima a chiederti cosa puoi dirci» sbottai irritata. Mi dava ai nervi quel pazzo, in certi gesti mi ricordava Joker di Batman.
      «Non sembravi tanto sveglia» rispose ironico, voltandosi verso di me con un sorriso da perfetta persona degna di stare in una camera isolata con camicia di forza, o almeno era quello l’effetto che mi faceva «Prego» continuò, facendomi segno di continuare «Prova a farmi un’altra domanda»
      «Non ne ho» risposi subito.
      «Non ne hai? Allora non sei così sveglia come sembravi poco fa, eh?» mi provocò ancora, e stavolta non ressi.
      «Sono sicuramente più sveglia di te!» sbottai acida.
      Anche se lui aveva una pistola e io no, non gli avrei permesso di mettermi i piedi in testa.
      Bill fece un’espressione sbalordita «Provalo» disse.
      Non risposi, non sapevo come farlo.
      Lui notò il mio silenzio, e continuò «Ti va di fare un gioco?» non feci in tempo a rispondergli, che continuò «Tu dovrai farmi una domanda, io prenderò uno dei tuoi amici e, se potrò rispondere, lo lascerò libero, altrimenti sprecherò una pallottola. Faremo così per tre volte, chiaro il gioco?»
      Acconsentii piano con la testa. Anche se era da barbari, non potevo oppormi.
      «Cominciamo!» esclamò, afferrando in malo modo una donna, puntandogli la sua fidata arma alla tempia «Una domanda, forza» mi incitò.

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Capitolo 16
*** 15. Perdite ***


15
Perdite

      «È da barbari» cercai di protestare.
      «Una domanda» ripeté lui, con tono solenne «Spera per te che sia così sveglia come dice» sussurrò all’orecchio della donna che teneva tra le mani tremante.
      Pensa! Pensa dannazione!
      Puntai sulle cose che io conoscevo già, ma che lui no, quindi ovvie «Eri tu l’uomo sulla spiaggia tre giorni fa insieme alla donna, quando avete ucciso quell’uomo e buttato a mare?»
      Bill attese, scrutando la mia espressione attento ad ogni particolare. Nessuno si muoveva, nemmeno i suoi uomini. Era tutti col fiato sospeso. Se lui mi avesse riconosciuto quel giorno, e avrebbe capito il mio piano, avrebbe ucciso quella donna per colpa mia, per tenere alto quello che ormai non contava più lì: il mio onore, il mio stupidissimo onore che non volevo nemmeno.
      Spinse via la donna con un sorriso amaro sulle labbra dicendo «Sì, ero io» afferrò subito un altro uomo, puntando anche a lui la pistola «Prossima domanda»
      Esitai un secondo. Non sapevo cosa chiedergli. Era troppo agitata per restare lucida.
      «La prossima!» urlò lui.
      «Ok, ok, ok» urlai «Ehm, chi era la donna?»
      Bill fece un suono simile a quello dei reality show quando sbagli una domanda, e sparò alla testa dell’uomo, facendo cadere il corpo senza vita di peso per terra «Domanda sbagliata, prossima» afferrò un altro uomo «Uno a uno, pari» aggiunse, con il suo solito sorriso da ebete.
      Cosa diavolo gli chiedo?! «Ehm… perché… perché volevi sapere se io e Clark eravamo fidanzati?» era l’unica cazzate che mi veniva in mente, e che era o sicura avrebbe potuto rispondere, a meno che non lo facesse di proposito, e uccidesse anche quell’uomo.
      «Sei sveglia per davvero, ragazza» lasciò l’uomo «Volevo saperlo solo per stuzzicarvi» confessò, facendo un’alzata di spalle.
      «Stuzzicarci? In che senso?» ripetei confusa. Non vedevo come quella domanda potesse stuzzicarci.
      «Mi dispiace, le domande sono finite, ragazza» mi ammutolì, con un sorrisetto, avvicinandosi ai suoi uomini.
      «Mi chiamo Susan» sbottai.
      Bill si fermò di colpo, tenendo lo sguardo fisso di fronte a se. Si voltò lentamente verso di me, con un’espressione quasi scioccata «Come hai detto che ti chiami?»
      «S… Susan, perché?»
      «Il cognome, scema!» esclamò lui irritato. Cosa voleva farne del mio nome? Mi avrebbe risparmiata perché ero benestante? No, ne ero sicura, non l’avrebbe fatto. Ma allora perché?
      «Non dirglielo, Susan» si intromise Phil. Io e Bill ci voltammo a guardarlo. L’ultimo si avvicinò di corsa da lui, colpendolo in volto facendolo cadere atterra, urlando «Sta, zitto!» si voltò di nuovo verso di me, e proseguì «Il nome» disse avvicinandosi sempre di più. Arretrai insieme a lui.
      «ADESSO DAMON!» urlò Phil ancora inginocchiato per terra.
      Di nuovo. Io e Bill ci voltammo a guardarlo incuriositi, poi ci voltammo ancora quando sentimmo delle urla di rabbia.
      Damon e un altro uomo correvano verso dalla raduna dietro agl’uomini di Bill, ancora in posizioni, con delle pietre grosse quanto un pallone in mano. Si scagliarono contro di loro. Damon schiantò la sua pietra sulla testa dell’uomo che intrappolava Clark, facendolo lasciare. L’altro uomo fece lo stesso con altri due, prima in faccia ad uno, poi sull’altro.
      «Scappate!» urlò ancora Phil, che era già partito nella direzione opposta agl’uomini e Bill, che guardava la scena spaesato. Altri uomini e donne corsero dietro a Phil, scappando.
      Dam schianto il macigno su uno degl’uomini.
      Vidi Bill puntargli la pistola contro. Senza pensarci nemmeno un secondo, gli saltai addosso, facendolo cadere insieme a me. Lottammo per qualche minuto, evitando parecchi proiettili della sua pistola. Per mia fortuna arrivo Clark, che sferrò un calcio in pieno volto a Bill talmente violento da farlo svenire. Mi aiutò ad alzarmi, sospingendomi verso il bosco, dove tuti stavano scappando «Va! VA!»
      «Cosa?! No! Io non vado senza di te e Dam!» gli urlai. Come si era permesso di rimi, o anche solo pensare di andarmene e lasciare lui e Damon lì a rischiare la vita? Non potevo correre quel rischio.
      «Devi andare, Susan! Va!» ripeté ancora.
      «Scordatelo! Insieme o niente!» insistetti, ferma sulle mie decisioni.
      «RAGAZZI!» ci distrasse Dam.
      Ci voltammo a guardarlo.
      Stava correndo verso di noi, rincorso da tre uomini armati «Scappate!» urlò superandoci. Io e Clark lo seguimmo a ruota, -non prima di aver raccolto la mia pistola- guardando in continuazione alle nostre spalle gl’uomini armati che cercavano invano di spararci. Per nostra fortuna, gl’alberi, come avevano fatto con me anche la prima volta, presero loro i proiettili al posto nostro. La notte non aiutava molto. Dovevamo sforzarci per vedere meglio, ed impedirci di sbattere contro un albero.
      «Attenta Susan!» urlò Damon. Non feci in tempo a voltarmi, che lui si era già buttato sull’uomo che aveva cercato di assalirmi. Mi fermai insieme a lui, osservando attonita la scena. Damon, forzuto e grosso, vinse, sferrando un pugno in pieno volto all’uomo. Il suo collo emise un orrendo rumore.
      Altre grida di lotta, e vidi Clark sotto un altro uomo. Damon si precipitò di corsa verso di lui. Ma un altro uomo gli si scagliò addosso, facendolo cadere.
      Cosa dovevo fare? Clark e Damon stavano rischiando la vita e io era immobile a fissarli.
      Mi affrettai a cercare la mia pistola nella cintura. Mi avvicinai il più possibile all’uomo che stava assalendo Clark, e presi la mira. Non ce la facevo a sparare. L’arma si faceva sempre più pesante nelle mie mani. Era così brutto e sbagliato uccidere! Lo avevo sempre pensato e adesso lo stavo per fare. Ma una cosa mi distingueva dagl’assassini come Bill. Io lo facevo per un motivo più che valido, o almeno così pensavo. Presi di nuovo la mira, e sparai all’altezza del collo all’uomo, che si accasciò atterra. Clark si voltò a vedere chi fosse stato, e si sorprese a scoprirlo. Si scansò di dosso il corpo, e si avvicinò a me. Mi levò l’arma di mano, e la gettò via.
      Ero immobile. Prima di farlo mi era sembrato così giusto, perché adesso mi sembrava così orrendo? Perché lo era. Avevo commesso un atto orrendo. Fissavo immobile il corpo senza vita dell’uomo, il corpo da cui io avevo tolto la vita. Clark mi si parò di fronte a me, prendendomi il viso tra le mani, costringendomi a distogliere lo sguardo dal corpo e fissare lui «Susan? Susan? Ehi, va tutto bene, ok? Ok?» mi chiese, scuotendomi leggermente per farmi riprendere.
      Ci misi qualche secondo per riprendermi e rispondergli.
      «S… Sì… sto…. Sto bene»
      Il respiro mi si fece affannato. Il cuore mi batteva violentemente nel petto, quasi vollese sfondare la cassa toracica e uscire fuori, per andarsene da me perché avevo ucciso.
      «Resta qui, ok?» mi urlò Clark, le urla degl’altri non aiutavano a sentirlo, ma ci riuscii e acconsentii. Del tronde, non riuscivo a muovermi nemmeno se volevo. Mi sentivo un completo schifo, anzi, mi schifavo da sola. Quell’isola mi aveva cambiata, non ero più la donna che abitava Londra, no, ero molto peggio, ero diventata un’assassina. Per questo quell’isola era dimenticata da tutti, forse anche da Dio, perché quando la gente ci si ritrovava sopra, si trasformava in pazzi omicidi come me, e l’isolamento impediva ai pazzi di andarsene e commettere altri omicidi.
      «SUSAN!»
      Una voce femminile che riconobbi come quella di Amy mi richiamò.
      Mi voltai di scatto verso di lei. Era a pochi metri da me, nella direzione dove tutti stavano scappando. Sosteneva un ragazzo, Harry, a fatica. Mi precipitai subito da loro, per aiutarli. Misi un braccio di Harry intorno alle mie spalle, Amy mi imitò, e iniziammo a camminare il più velocemente possibile lontano da quell’inferno.
      Spari e urla echeggiavano fra gl’alberi.
      Mi voltai. Mi rilassai un pochino di più quando vidi che Clark e Damon ci stavano raggiungendo.
      Uno sparo appena sopra Damon fece volare via quel briciolo di sollievo che avevo acquistato. Entrambi si voltarono, e mi lasciarono vedere Bill che correva verso di noi con la pistola alta, pronta a sparare di nuovo «Corri Amy!» urlai. Amy ed io iniziammo a correre il più velocemente possibile. Harry gemeva dal dolore, ma era meglio il dolore che il nulla una volta morti. Clark e Damon corsero verso di noi, e si sporsero a prendere Harry tra le loro braccia, molto più forti delle nostre.
      Uno sparo, l’ultimo che udii, e tutto cambiò nella mia testa, tutto scomparì. Gl’alberi, la luna, le persone che correvano, Clark, Damon ed Amy. Tutto. Tutto tranne il corpo di Harry che cadeva atterra dopo il colpo della pistola di Bill.
      Non sentivo niente, non vedevo niente oltre il corpo e le urla doloranti, ma allo stesso tempo deboli di Harry. Io ed Amy ci chinammo di fianco a lui, pronto a riprenderlo e ricominciare la nostra fuga. Bill alle nostre spalle si era fermato, e osservava la scena soddisfatto. Damon emise un urlo di rabbia che spezzò quel silenzio incredibile nella mia mente. Portai una mano dietro il capo di Harry, per sostenerla, convinta che facendo così in qualche modo lo avrei salvato. Amy non faceva niente, era immobile senza dire niente, ferma a guardare il corpo di Harry che man mano perdeva la vita, e mentre lo faceva, guardava me che piangeva e lo rassicuravo, dicendogli che non era niente, lo aveva colpito di struscio, che si sarebbe salvato. Ma come potevo rassicurarlo se io stessa sapevo che non ce l’avrebbe fatta?
      Damon aiutò Amy ad alzarsi per poi scappare urlando qualcosa in direzione di Bill. Mi voltai e capii il motivo della sua reazione: degl’altri uomini correva tra i boschi, urlando e sparando in direzione degl’altri che scappavano.
      Non mi mossi, non avrei lasciato Harry lì, aveva già commesso un atto orrendo quel giorno, non ne avrei fatto un altro. Strinsi la mano di Harry. La vista iniziava ad appannarsi dalle lacrime, e pian piano, vidi la vita scivolare via da quelli di Harry, che mi fissava senza vedere niente.
      Non era la sua morte. Non poteva esserlo. Lui non si meritava di morire in quel modo, non meritava di morire e basta. Se doveva farlo, doveva essere nel sonno, all’età di 80’anni, non a 17, nel momento migliore della vita. Piangevo disperata, continuando a ripetere il suo nome convinta che facendo così, sarebbe ritornato indietro, ma non uscii niente dalla mia bocca. Clark mi scosse, tirandomi per un braccio. Urlava qualcosa che non riuscivo a sentire. Continuavo a tenere stretta la mano ormai senza più forze di Harry.
      «… Susan dobbiamo andarcene di qui! Susan!» sentii quando pin piano l’udito tornò.
      Non volevo lasciarlo, ma sapevo dentro di me che dovevo, dovevo andarmene di lì o sarei morta anch’io come lui. Allentai la stretta, e la sua mano scivolò via dalla mia. Con mano tremante, gli chiusi gl’occhi. Era il minimo che potessi fare, se non potevo seppellirlo, se non potevo donargli un funerale abbastanza degno di come lo era lui. Io ero soltanto una ragazza che lo aveva incrociato, e che adesso lo vedeva morire, ma in quel momento mi sentivo così legata a lui, da riuscire a sentire un affetto talmente grande verso di lui, da non riuscire a contenerlo dentro di me.
      «Ciao» sussurrai debolmente, osservando per l’ultima volta il suo volto. Ma non lo avrei ricordato così, con bende dappertutto, lo avrei ricordato come lo avevo conosciuto: sorridente e spensierato. Avrei tenuto stretti al cuore i ricordi di tutti i momenti felici passati con lui. Strinsi il medaglione, e li racchiusi lì, dove li avrei conservati per sempre. Lo avrei ricordato per tutto il resto della mia vita anche se lo avevo conosciuto soltanto per pochi mesi. Lo avrei fatto perché per me era come il fratello che non avevo mai avuto, e che avevo sempre desiderato.
      Mi alzai debolmente e, stringendo con altrettanta debolezza la pistola fra le mani e, seguita da Clark, iniziai a correre via di lì.
      Non mi voltai nemmeno una volta, nemmeno per sbaglio. Se lo avrei fatto quel coraggio che avevo avuto per andarmene sarebbe scomparso, e sarei tornata indietro da Harry ad abbracciarlo, e sarei morta, ed io non volevo, sarei andata a trovare Harry in Paradiso, ma come lo era per Harry, non era nemmeno il mio, il momento di morire. Quello era il momento di sopravvivere.
      Correvamo tra i boschi, e poco dopo raggiungemmo Amy e Damon. Le nostre strade erano illuminate dalla luce delle torce degl’uomini. Riuscivamo a capire dove andare solo grazie all’udito. Sentivamo le urla delle donne e degl’uomini terrorizzati. Tra gl’alberi, riuscivo a scorgere il ruscello che mi aveva condotto lì da loro.
       «FERMI!» urlò Phil che correva contro di noi.
       Ci fermammo di colpo tutti insieme.
      «Cosa?» urlò Damon, guardandosi in continuazione alle spalle.
      «Più avanti c’è una cascata, non possiamo andare di lì» ci avvertì.
      «Una cascata?!» ripetemmo in coro io ed Amy, sbalordite «C’è un lago, qualcosa sotto?» domandò Amy, anche lei agitata come Damon.
      «Sì, ma non…»
      Non lo facemmo finire di parlare, che io ed Amy continuammo a correre, dritte nella direzione che aveva indicato Phil. Il piano era folle, ma era l’unica via d’uscita per non essere uccisi. Damon, Clark e Phil ci seguirono.
       Riuscimmo a scorgere in lontananza alcune figure, ferme, alternando lo sguardo tra sotto di loro, e dietro. Capimmo che il punto era lì, e iniziai a preoccuparmi solo allora del pericolo che stavamo per correre.
      «Pronta?» urlò Amy.
      «Sì» urlai in risposta.
      Percorremmo gl’ultimi metri, e arrivammo in una raduna isolata, che finiva con la cascata. Capii che la cascata, era il ruscello che mi aveva indicato Phil per raggiungerli. Contai gl’ultimi secondi che passai con i piedi atterra. Amy mi afferrò la mano urlando «Al tre»
      Respirai velocemente. L’adrenalina si faceva spazio nelle mie vene «Uno…» urlò Amy.
      «Due…» urlai. Lei non sembrava preoccupata come me, al contrario, sembrava che non vedesse l’ora di farlo. Un sorriso si fece spazio sulle sue labbra.
      «Tre!»
      Strinsi ancora più forte la pistola tra le mani e spiccammo un salto il più lungo possibile. Quando alzai completamente i piedi da terra, chiusi gl’occhi. Non avevo il coraggio di guardare e almeno così non sarei morta di paura. Io ad Amy continuammo a tenere le nostre mani salde tra loro e a cadere in qualcosa che io non vidi, sperai solo che fosse acqua, e non terra o peggio, roccia.
       Il mio cuore perse un battito quando toccai l’acqua calda del laghetto appena sotto alla cascata. Risalii in superfice, aspirando ampiamente con i polmoni. Amy era già fuori, e si scrutava in torno. Lo feci anch’io, cercai il suolo più vicino per uscire.
      Altri tonfi si aggiunsero ai nostri e poco dopo vedemmo gl’altri risalire in superfice tossicando. Clark si precipitò da me urlando «Stai bene? Tutto apposto?»
      «Sì» risposi «A te?»
      «Non mi lamento» rispose con un sorriso.
      «Ragazzi» ci distrasse Amy «non vorrei mettervi fretta, ma se non ce ne andiamo di qui, quelli lassù ci fanno fritti»
      Delle grida ci giunsero come a giustificare le parole. Tutti voltammo lo sguardo all’insù. Gl’uomini erano arrivati al margine, e stavano facendo una strage di vittime. Alcune si buttavano come noi, ma venivano sparati durante le caduta; altri sparati, e poi gettati giù, come cose inutili. Nel giro di pochi minuti ci trovammo il laghetto pieno di cadaveri. Per fortuna non si accorsero delle nostre grida, e non ci videro nemmeno – tra tutti quei corpi come potevano? – e così, quando fummo sicuri che se ne fossero andati, raggiungemmo la riva.
      Quando toccammo terra, tutti ci sedemmo quasi all’unisono, sfiniti.
      «È stata una figata!» urlò entusiasta Violet, spruzzando felicità da tutti i pori.
      Tutti la guardammo sconvolti «Figata?» ripetei «Quella è stata una figata per te? Rischiare la morte?»
      «Beh, ma non siamo morti, no?» ribatté lei, convinta delle sue parole.
      «E quindi, secondo te, quando si rischia la morte, ma chissà quale santo da lassù ti fa continuare a vivere, è una figata?» era completamente suonata.
      «Uffa, Susan, non siamo morti, rilassati. È stato divertente no?» insistette lei.
      «Sì, facciamoci una risata, Harry è morto, che vuoi che sia?» sbottai sempre più irritata dal suo ragionamento da menomata «Ma ti senti quanto parli?!»
      Lei si zittì all’istante. Ne fui più che felice.
      Era semplicemente stupida, per non dire di peggio. Sfuggire alla morte per un pelo è una figata. Ma dove vive? Nel mondo delle droghe, non c’era altra spiegazione. Come aveva fatto Damon ad innamorarsi di lei? Doveva essere un amore bello forte per durare.
       Ci furono diversi minuti di silenzio sulla riva, come a voler contemplare ogni persona che quella notte aveva perso la vita.
      «E poi» dissi voltandomi verso Phil «ma che diavolo di indicazione dai tu?! Un ruscello? Quello secondo te è un ruscello?!»
      Tutti risero alla mia battuta –anche se non avevo nessuna intenzione di farla- e ne fui fiera. Almeno avevo alleviato, anche se per poco, tutto il dolore di quella sera, soprattutto il mio e forse quello di Amy insieme.
      «E adesso?» domandò Clark, rivolto un po’ a tutti.
      «Non lo so» rispose Phil. A quel genere di domande rispondeva sempre lui, era diventato come una specie di leader del nostro piccolo gruppetto di sopravvissuti.
      «Non possiamo rimanere qui» ribatté Amy «verranno sicuramente per i corpi, forse stanno arrivando proprio adesso»
      «Ha ragione» commentai. Le sue parole avevano aumentato di diversi livelli la mia paura, già abbastanza oltre i limiti del normale.
      «Potremo proseguire» propose Damon.
      «Dove?» lo schernì Violet «Non sappiamo dove andare»
      Tutti restarono in silenzio, colti dalle parole –le prime sensate della sua vita- di Violet. Restare lì era un suicidio, Amy aveva ragione, i banditi sarebbero venuti a prendere i corpi per farli sparire, ma andare avanti non era un’idea migliore, ci saremmo o persi e morti di fame, o scovati da altri banditi, e stavolta non ce la saremo cavati. Saremo stati in svantaggio numerico: loro a centinaia, e noi 6. Quante opportunità avremmo potuto avere?
      «Io propongo di continuare» esclamò Amy. Tutti ci voltammo verso di lei «Potremo trovare altri superstiti e unirci a loro per provare a sopravvivere insieme finché qualcuno non viene a prenderci» si giustificò lei.
      «Potremo» commentai ancora io.
      «Se non li hanno già uccisi tutti» protestò Dam «E poi, chi passa per l’Oceano Atlantico?»
      Amy si demoralizzò subito, e io lanciai uno sguardo omicida a Dam, che abbassò subito il suo, amareggiato e pentito dalle sue parole.
      «Potrebbe avere ragione» disse Phil «Potrebbero essercene degl’altri come noi»
      «Ma quali probabilità abbiamo di trovarli?» obbiettò Violet. Erano una coppia di pessimisti, si capiva subito.
      «Tentar non nuoce» le rispose Clark.
      «Ma i proiettili di quelli lo fanno e come, Clark» obbiettò ancora.
      Adesso hai paura di loro, eh?
      Se li troviamo o meno adesso non importa» disse Phil, con tono autoritario, da leader «l’importante è andarsene da qui»
      Tutti acconsentimmo alle sue parole, io raccolsi l’arco che mi aveva dato Clark, e vidi se si era rotto, o avevo perso qualche freccia. Tutto apposto, per fortuna.
      «Sai usarlo almeno?» mi insultò Violet.
      Mi voltai lentamente verso di lei, scocciata «Certo! Altrimenti non me lo sarei portato dietro, non credi?»
      Lei rispose con una smorfia, e si voltò Almeno io posso difenderli poi mi corressi Tutti tranne te! Come faceva ad essere così odiosa? Lo era dalla nascita, o la aveva trasformata così questo mondo di merda?
      «Allora è deciso?» chiese Damon alzandosi, e porgendo la mano a Violet per aiutarla ad alzarsi anche a lei.
      «Non lo sappiamo ancora, Damon» lo fermò Phil.
      «E cosa stiamo aspettando? Che vengano ad ucciderci?» protestò lui, inorridito.
      «No, ma…»
      «“Ma” cosa? Dobbiamo andarcene di qui!» lo bloccò Violet.
      «Dobbiamo pensarci bene Violet, non possiamo inoltrarci nella foresta di punto in bianco. Come possono venire qui, dove siamo, potrebbero anche essere ei boschi. Non scordare che l’isola è governata da loro» la calmai io, cercando di mantenere un tono gentile, anche se era molto, molto difficile.
      «Oh, certo, scusami santa Susan» mi canzonò lei, imitando quello che doveva essere un inchino.
      «Cosa?!» le chiesi sbalordita, anzi, arrabbiata «Osi insultarmi?»
      «“Oso”?» ripeté lei «Chi ti credi di essere? La Papessa?»
      «Ma stai scherzando o cosa, Violet?»
      «Non scherzo affatto, Susan, sono seria. Ti dai troppe arie» aggiunse lei.
      «Arie? Io? E tu che stai sempre a svolazzare quei cosi che hai per capelli come una bambina?» la insultai a mia volta.
      Lei fece una faccia offesa «Cosi’» ripeté sbalordita.
      «Ma piantala! Non fai altro, non alzi un dito!»  Aggiunsi. Ormai ero partita, tornare indietro era difficile arrivata a quel punto.
      «Tu osi…» cercò di protestare.
      «Adesso sei tu la Papessa?»
      «Ragazze!» si intromise Damon, parandosi di fronte a noi due, come un muro «Litigare non serve affatto in questo momento»
      «Hai iniziato lei» protestò Violet, mettendo il broncio.
      «Lo vedi che sei una bambina?»
      «Susan» mi rimproverò Clark. Lo fissai per un po’, poi alzai le mani a mo’ di resa. Aveva capito il suo sguardo: è una bambina. Mi arresi, sapendo che avevo vinto.
      «Dove suggerisci di andare?» chiese Violet con una punta di irritazione. Lei era irritata? E io allora?
      «Non lo so, il più lontano da qui» la rispose lui.
      «Bene, andiamo allora» aggiunse lei, voltandosi verso una direzione a caso, e mettendosi a camminare a passo di marcia.
      Clark, quando mi affiancò, mi lanciò uno sguardo complice «Non la sopporto» gli sussurrai.
      «Nemmeno io» aggiunse lui, e ci facemmo qualche risata sotto gli sguardi incuriositi di tutti, e quelli colpevoli di Violet.

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Capitolo 17
*** 16. Perso nel Mondo ***


16
Perso nel mondo

      Quella notte camminammo il più possibile, ma, sfiniti, dovemmo fermarci per dormire. I ragazzi si divisero i turni, e Clark si propose per i primo.
      Passammo quasi una settimana in quel modo: il giorno camminavamo, fermandoci per riposare due o tre volte al giorno per non più di dieci minuti per la paura ossessiva di Amy. Diceva che ci avrebbero trovati se ci saremmo fermati per più di un’ora in un luogo. Stava diventando paranoica, molto paranoica, ma non potevamo biasimarla. Aveva visto Harry, il nostro migliore amico, morire. Certo, lo avevo visto anch’io, ma tutti sapevano che lei era molto sensibile. Passavo le giornate intere e dividermi tra lei e Clark, e a pensare cosa fare. Ogni tanto mi capitava anche di fare pratica con l’arco. Eravamo tutti molto depressi. Il non sapere dove andare non aiutava a calmarci e per questo eravamo sempre sul “chi va là”.
      Violet diventava di secondo in secondo sempre più paranoica. Mancava poco che per lei anche gl’alberi volessero ucciderci. Ma a parte lei, le giornate erano sempre noiose. Non succedeva mai niente.
      Tranne quel giorno.
      La voce squillante e odiosa di Violet ci distrasse tutti dai nostri pensieri «Cos’è quello?»
      «Cosa c’è adesso?» mi lamentai sottovoce con Clark, che rispose con un sorriso.
      «Cosa?» le chiese Phil.
      «Cos’è quello?» domandò lei a sua volta indicando un punto sopra ai fitti boschi.
      Allungai il collo per cercare di capire cosa volesse dire, e sperai che non fosse un’altra cavolata come il cervo cannibale del giorno prima. Mi sorpresi quando vidi che aveva ragione: una piccola ma chiara macchia grigia nel celo azzurro si poteva vedere da sopra agl’alberi.
      «Ha ragione» dissi «C’è qualcosa là giù»
      «Andiamo!» prese un’altra volta il controllo Violet, che si precipitò tra gl’alberi, seguita a ruota da tutti noi.
      Ci fermammo tutti di colpo, senza parole, increduli: poco distante da noi, un castello, di quelli raccontati nelle favole, ma in uno stato decadente, abbandonato da chissà quanto tempo. Era enorme, e il solito ponte dei film ambientati nel medioevo, era abbassato, permettendo l’entrata. Le mura erano enormi, dall’aria inaccessibile. I mattini, di un grigio scurissimo, quasi nero, non davano l’idea di essere molti forti, ma dava ugualmente il pensiero di non poter essere superato, e il lago subito di fianco ad esso era ugualmente possente.
      «Cosa diavolo ci fa un coso di quello qui?» domando, anzi urlò, Damon quando riprese l’uso della parola.
      «È un castello» lo risposi distratta, continuando a fissare con aria scioccata e allo steso tempo estasiata il castello enorme di fronte a noi.
      «Secondo voi lo sanno?» chiese Phil.
      «Chi? Gl’uomini?» chiese a sua volta Clark «secondo me, no»
      «Io dico di sì» gli risposi, sempre distratta. Era bellissimo.
      «E come lo sai?» chiese ovvia Violet.
      Prima che potessi risponderle a modo, Amy mi precedette «Ma è ovvio che lo sanno! Altrimenti perché ucciderebbero tutti?»
      «Già» la appoggiai «Riflettete. Siamo su un’isola sconosciuta, che nessuno conosce le coordinate, giusto? Quindi, se non conoscono l’isola, non conoscono nemmeno il castello. Avete capito?» tutti guardarono me ed Amy come se fossimo un libro di geroglifici «Oh, andiamo! Di certo questo castello non è stato costruito di recente! Quegli uomini devono averlo scoperto, e adesso che ci siamo naufragati noi, ci stanno eliminando per impedire che, se arriviamo viti nel mondo civile, di rivelare il segreto»
      Ancora niente.
      «O cristo santo!» sbottò scocciata Amy «È una scoperta archeologica unica! Sapete quanti soldi ci farebbero? Migliaia! Vogliono impedire di farcela rivelare per prendersi loro il merito di averla scoperta, e di conseguenza i soldi! Ci siete arrivati adesso?»
      Clark fu il primo a rispondere «Quindi voi dite che quello» indicò il castello distrattamente «è la causa per cui quelli» indicò il bosco «ci stanno alle costole per ammazzarli?»
      Io ed Amy annuimmo all’unisono.
      «Allora distruggiamolo, no?» intervenne Damon.
      Lo fissammo esasperate «Il tuo è un ottimo piano Dam, davvero» lo risposi «Ma ci sono due cose che non hai considerato: prima, non abbiamo esplosivi con noi; e secondo, come aveva detto Amy, è una scoperta archeologica unica! Quanto ci capita di trovare un altro castello?»
      Damon si zittì.
      «Voi cosa dite allora?» ci chiese Violet, difendendo Dam con un tono sprezzante.
      Io ed Amy ci guardammo. Era un’occasione unica, potevamo diventare tutti famosi con quel castello rivelandolo al mondo, ma era rischioso al pari passo. Come avevamo detto prima, di sicuro gl’ uomini lo sanno già, e potrebbero aver messo delle persone a sorvegliarlo, cosa quasi inutile, dato che tutti i naufraghi non possono avere armi o esplosivi, quindi sarebbe impossibile vederli come rischi. Sperai che Amy la pensasse come me.
      Mi voltai verso gl’altri «Potremo… potremo entrare, no?»
      Totale silenzio. Pensai che forse volevano visitarlo anche loro, ma di colpo partirono commenti di tutti violenti ed alti da spezzarti i timpani. Alzai le mani a mo’ di resa «Ok, ok ho capito! Non c’è bisogno di allarmassi tanto!»
      Io ed Amy ci amareggiammo per il torto, mettendo il broncio come bambine viziate. Forse speravamo che, così, ci avrebbero fatto entrare, anche solo per un minutino. Non ero un’archeologa, ma l’idea mi elettrizzava, potevamo essere i primi ad entrarci, o anche a trovarlo, chi lo sa.
      «È rischioso, come vi è venuto in mente?» ci accusò Violet.
      «Ma sta’ zitta tu! Lo sai cos’è quello? Un castello, di quelli veri, non come nei film. Quando ti capita di ritornarci a visitarlo quando il pericolo sarà passato?»
      Cercò di ribattere, ma la ammutolì con un gesto.
      «Tu voi davvero entrare lì dentro?» domandò scioccato Phil. Io ed Amy annuimmo velocemente con il capo, senza pensarci. Dalle espressioni degl’altri capii che erano tutti contro di noi. Guardai angelica e speranzosa Clark, che sospirò sbuffando, e poi mi sorrise.
      «Perché no?» ribatté. Adesso tutti guardavano sconvolti lui, che sembrava abbastanza imbarazzato dalle sue stesse parole.
      «Scherzi anche tu, vero?» domandò sempre in tono grave Violet «Cos’è? Siete tutti pazzi, qui?»
      «Ehi!» esclamai offesa.
      «Cosa potrebbe esserci di pericolo lì dentro? Un drago?» continuò sicuro lui.
      «Ehm, vediamo, degl’uomini armati fino ai denti pronti a farci fuori?» disse ovvia lei.
      «Forse» la corressi «non ne siamo sicuri»
      «Ragazze…» incominciò Phil.
      «Ti prego ti prego ti prego» lo implorammo all’unisono, inginocchiandoci di fronte a lui «Solo pochi minuti. Ti prego»
      Ci scrutò per bene, studiando la nostra espressione, implorante, poi guardò bene anche gl’altri: Damon era indifferente, Clark era anch’esso con una leggera aria speranzosa, forse anche lui ci teneva un po’ ad entrare lì, Violet invece aveva un’espressione truce verso di me ed Amy.
      «E va bene!» esclamò Phil scocciato dalle nostre implorazione che, fortunatamente per noi, lo convinsero a lasciarci andare. Io e la mia amica saltammo dalla gioia. Era tutto perfetto adesso che ci pensavo: se sarei sopravvissuta e sarei tornata a casa, potevo attribuirmi, insieme agl’atri ovviamente, la scoperta del castello.
      «Ma solo per poco, massimo mezz’ora, ok?» aggiunse Phil.
      «Sì, sì mezz’ora, capito. Ok» rispondemmo all’unisono. Damon continuava a guardare la scena con aria indifferente, Clark ci guardava con un mezzo sorriso, Violet invece sembrava che stesse cercando di uccidere noi e Phil con la forza delle maledizioni mentali che, era chiaro, ci stava lanciando. Che scema.
      Ci incamminammo verso il catello, chi felice e chi triste e anche chi incazzato.
      Quando arrivammo, il castello sembrava ancora più grosso se possibile, il ponte abbassato di fronte a noi dava l’idea di entrare in un altro universo, con proprie leggi e regole da seguire, come se il Medioevo vivesse ancora tra quelle mura.
       Lentamente, ci addentrammo del castello, percorrendo con passi lenti il ponte di legno. Superammo il grande portellone, ed entrammo in quello che sembrava il piazzale più grande che avessi mai visto, con una fontana circolare che sorgeva al centro, rotta per metà. Ai confini del piazzare, sorgevano piccole bancarelle anch’esse in uno stato decadente. Chissà da quanto erano lì. Proseguimmo per il piazzale guardandoci curiosi intorno, pronti a scappare non appena avessimo visto qualcosa, ma non uscì niente di strano. Toccai con mano tremante la fontana al centro. Erano elettrizzante pensare che chissà quanti anni fa quel posto era colmo di gente.
      Tutti si sparpagliarono per fare una leggera perlustrazione del posto. Alzai il capo, e vidi una sorta di palco con agli estremi due piccole rampe di scale, con i soliti mattoni grigi che reggevano il castello. Del parte posteriore del palo, che si attaccava al resto delle mura, sorgeva un portellone grande come quello di entrata dopo il ponte di legno. Doveva portare all’interno del castello. L’idea era abbastanza eccitante.
      «Hai visto abbastanza?» urlò Violet di fianco ad una bancarella completamente distrutta.
      «No» sussurrai più a me che a lei «non ancora»
      Mi avviai con passo spedito sulle due rampe di scale che portavano al palco. Ci salii, e mi voltai verso il piazzale. Da lì sopra sembrava ancora più grande, in confronto noi sembravamo formiche. Mi voltai a guardare l’altro portone che doveva portare all’interno del castello, e gli poggiai una mano sopra. Il legno era ruvido, e dava l’idea di avere secoli.
      «Cosa credi di fare?» mi urlò a mo’ di rimprovero Violet. Mi girai verso di lei in cagnesco Ma che palle! Mi ritrovai a pensare nei suoi confronti. Tutti si voltarono a guardarmi.
      «Vorrei entrare, se permetti» le risposi a modo.
      «Non puoi» esclamò lei.
      «E perché no? Ho bisogno di una giustificazione, o di un tuo permesso?» era una palla al piede, nient’altro. Se la faceva sotto –e si vedeva che era così- perché non era restata fuori ad aspettarci invece si annoiarci?
       «Abbiamo fatto trenta» disse Clark per difendersi, arrampicandosi sul palco e affiancandosi a me «tanto vale fare trentuno» e si mise a spingere con forza contro il portellone. Dopo qualche secondo di incomprensione, lo aiutai. Sentii sbuffare sonoramente Violet, e un ghignò mi spuntò sulle labbra.
      Il portone cigolò rumorosamente. Tutti rimasero col fiato sospeso e gl’occhi puntati su me e Clark. Mi precipitai subito al suo interno, per vedere se era agibile e interessante.
       Un grande e largo corridoio, alto un paio di metri di presentava sotto i miei occhi increduli, illuminato dalle alte finestre al lato sinistro, sul lato destro, invece, si presentavano diverse porte, chi ancora intatta, chi a metà, e chi del tutto distrutta. In fondo si faceva spazio un’enorme stanza, con al centra un altrettanto grande scala a chiocciola, che portava ai piani sia superiori, che inferiori.
      Mi affacciai dal portone «Ok, è tutto apposto» li rassicurai. A quelle parole, tutti tornarono a respirare, Clark più di tutti, e si precipitò per primo nel corridoio, rimanendo subito a bocca aperta. Sorrisi alla sua espressione «Bello, eh?» gli chiesi. Riuscì solo ad acconsentire con il capo. Stessa espressione da parte degl’altri quando entrarono.
      Iniziai a percorrere con passo sicuro il corridoio, osservando le stanze senza porta. Erano tutte abbastanza squallide, difficilmente illuminate da finestre con uno strato di polvere di minimo 2 centimetri. Quando arrivai alla scalinata, restai quasi sorpresa nel vederla completamente intatta, senza un gradino in meno o roba simile. Portava soltanto ad un piano inferiore, molto inferiore. Dovevano essere le segrete per essere così basse, mentre c’erano ancora altri sei o sette piani superiori, difficile da stabilire da quel punto di vista.
      «Ma che diavolo ci fa qui un coso così grosso?» chiese Damon uscendo da una stanza buia.
      «Boh» le rispose Clark, uscendo dalla stessa stanza, continuando a guardarsi indietro.
      «Strano che non l’abbiano mai visto» commentai osservando l’altezza di quelle scale «È altissimo, impossibile da non notare»
      «Se non l’avessi notato Susan» mi rispose Violet «il castello è all’interno di un piccolo dirupo, quindi le rocce lo coprono»
      «Dalle navi» la corresse Phil «Gl’elicotteri invece dovrebbero vederlo» continuò con una smorfia.
      «Se è per questo, anche l’isola si vede da entrambi, ma non è segnata da nessuna parte» aggiunsi, guardando le porte nella stanza circolare ed enorme dove regnavano le scale immense. In effetti, adesso che ci pensavo, era molto strano che né navi, né elicotteri o aerei avessero mai visto quell’isola, il castello potrebbe anche non notarlo, ma l’isola è impossibile da non notare.
      «Ma è abbastanza piccola» aggiunse Amy «Non te lo ricordi quando l’abbiamo vista dal ponte della Starlight, Susan? Era piccolissima»
      «Potrebbe anche essere vero, ma è ugualmente strano, insomma, è un’isola cavolo! Come fa a passare inosservata?» era troppo strano, ma il discorso di Amy non faceva una piega, in effetti, se ricordava quell’isola dal ponte, era molto piccola, e potrebbe essere per quello, e poi l’Oceano Atlantico non era mai stato circumnavigato pienamente, proprio perché dai satelliti risultava solo mare e nient’altro.
      «Hai visto davvero abbastanza adesso, Susan, torniamo indietro, questo posto mi fa paura» obbiettò Violet, guardandosi circospetta intorno.
      Ti fa paura come il cervo carnivoro nel bosco di qualche giorno fa? Pensai, e risi sotto i baffi «Va bene, possiamo tornare indietro se volete, mi basta quello che ho visto» e mi incamminai malinconica verso il portone. Violet corse verso di esso, e ci arrivò per prima, noi altri invece, ce la prendemmo con calma. Avevamo camminato per giorni senza trovare niente e nessuno oltre quel castello perso dal mondo, come noi e le giornate erano estremamente noiose, quel castello aveva portato un pizzico di curiosità dentro ognuno di noi, oltre a Violet si intende.
      Picchiettava ansiosa sul grande portone di legno, aspettando con non poco nervosismo il nostro arrivo –anche Damon sembrava non sopportarla quando faceva così- che, grazie alla maestosità del corridoio, almeno io, mi permetteva di tenere il passo talmente piano da percorrerlo nel giro di venti minuti pieni. Capii il mio piano, e mi fissò con delle saette al posto delle pupille.
      Aimè, arrivai al portellone, e la strada per uscire da quel castello era ancora poco da percorrere. Uscimmo dal castello, e ci trovammo di fronte ancora quel piazzale così decadente, ma così bello ai miei occhi, sempre alla ricerca di qualcosa di vecchio da esaminare per scoprire l’anno a cui appartenesse. Si vedeva che ero una Dawson, eh? Quel piano era iniziato per essere considerata una Dawson, non per diventarlo, e infondo il sangue prevalse sulla mia mente e non potevo dire che era una brutta cosa.
      Violet corse all’ultimo portellone, e ci aspettò lì. Rallentai ancora il mio passo, guardando indifferente in giro, avevo già visto tutto per bene prima, e me lo ricordavo a memoria. Girai intorno alla fontana, e mi raggiunsi Violet, che mi sorrideva acida, vittoriosa. Gli mandai una delle mie migliori smorfie, e lei spense il suo odioso entusiasmo da perenne vincitrice.
      «Cos’è questo?» ci urlò Damon, facendoci voltare tutti verso di lui.
      Alzò il braccio per farci vedere bene cosa aveva trovato: una valigetta grigia, come quelle per gl’uffici di imprenditori. A me invece ricordò le valigette che si usano nei film della mafia per scambiarsi i soldi.
      Clark gli si avvicinò e gliela strappò di mano. Mi avvicinai anch’io ai due, seguita dagl’altri.
      «Dove l’hai presa?» gli domandò Clark, scrutando la misteriosa valigetta.
       Dietro una di quelle bancarelle mezze distrutte» rispose indicando la bancarella di fianco a noi. La scrutai misteriosa.
      «Perché non l’abbiamo vista prima?» chiese Amy alle mie spalle.
      «Ve l’ho detto» gli rispose ancora Damon «l’ho trovata dietro questa bancarella. Mi ero affacciato per curiosità, l’ho vista e l’ho raccolta» e questo spiegava tutto.
      «Di certo non è del Medioevo o di un’età simile» dissi scrutando la valigetta che girava nelle mani di Clark, che era ancora preso a squadrarla. Sembrava volesse aprirla c’occhi.
      «Questo è sicuro» aggiunse lui, con aria assente e gl’occhi puntati insistentemente sull’oggetto grigio, concentrato.
      «Chissà da dove ne è uscita» intervenne Violet.
      «Forse è degl’uomini armati» optò Phil, scrutando anche lui l’oggetto.
      «C’è solo un modo per scoprirlo» aggiunse Damon, guardando con ribrezzo la valigetta «Dobbiamo aprirla» continuò.
      Tutti lo guardammo sconvolti.
      «Sei scemo o cosa amò?» lo rimproverò Violet.
      «Per una volta sono con Violet» aggiunsi, puntando le mani verso di lei e posandogli una mano sulla spalla, che per la prima volta mi sorrise seriamente divertita. Sorrisi di rimando.
      «Ma dobbiamo sapere di chi è» protesto Clark.
      «Non possiamo sapere cosa c’è dentro» lo rimproverai come Violet, che acconsentì.
      «Io sono con i ragazzi» si intromise Phil, alzando le mani a forma di resa.
      Amy ci scrutò tutti pensierosa «Io dico di mettere ai voti» disse.
      «Ottima idea» la appoggiò Damon, alzando subito la mano.
      «Non possiamo» dissi seccata «è logico che i ragazzi voteranno tutti per aprirla e noi no»
      «Io avevo intenzione di dire sì» confessò Amy imbarazzata guardandosi le scarpe.
      Io ed Violet la guardammo stupite, lei si accorse di noi, e fece spallucce «Abbiamo fatto 30» disse, indicando il castello alle sue spalle «tanto vale fare 31, no?» strappò la valigetta dalle mani di Clark, parandocela di fronte.
      «NO!» urlammo insieme noi «Non sappiamo cosa c’è dentro» ripetemmo accigliate.
      «Abbiamo vinto noi» obbiettò Damon.
      «Non abbiamo giocato amò» lo rimproverò ancora Violet.
      «Non sapete perdere» ci accusò Clark.
      «Voi invece non avete un minimo senso di responsabilità» li rimproverai.
      «Di che responsabilità stai parlando?» intervenne Phil.
      «Della nostra!» sbottò Violet «E se c’è una bomba lì dentro? Moriremo tutti!»
      «Una bomba? Qui dentro? In una valigetta spersa in un castello abbandonato da chissà quanti secoli?» domandò ironico Clark.
      «Non hanno del tutto torto però, ragazzi» ammise Phil con aria pensante.
      «Finalmente uno che ragiona!» esclamai, alzando le braccia al cielo.
      «Cosa? Stai con loro adesso?» lo accusarono Damon e Clark.
      «No! Dico solo che hanno anche un po’ ragione» si difese subito lui.
      «Siamo 3 contro 3 adesso» li avvertì Violet facendogli una linguaccia.
      «Non ho detto nemmeno questo» aggiunse Phil voltandosi verso una Violet sempre più sconcertata. Poverina, troppi dati da elaborare per il suo cervelletto minuscolo, stava per andare in tilt.
      «Ma da che parte stai?!» sbottò Damon. Io dal canto mio, ridevo di gusto a quella scena.
      «Ehm, ragazzi» una voce sottile, quella di Amy, e tacemmo tutti, sbalorditi da quello che stava facendo: fissava la valigetta aperta tra le sue braccia, tenendo nascosto a noi il contenuto. Dalla sua espressione si capiva che non era niente di buono, e iniziai a preoccuparmi e allo stesso tempo a correre.
      «Cosa c’è lì dentro Amy?» domandò un Phil sempre più preoccupato con lo sguardo fisso sulla valigetta, tremando leggermente.
      Lei scrutò le nostre espressioni, per poi tornare sul contenuto della valigetta. Pian piano, poi, iniziò a voltare l’oggetto verso di noi. Tutti guardavamo le sue mani che facevano ruotare la valigia trattenendo il respiro. Di colpo, Amy la volto verso di noi, urlando con un sorriso divertito «Scartoffie!» per poi immergersi in una fragorosa risata.
      Tutti la guardammo con fare omicida. Chi diavolo si diverte a far morire di crepa cuore delle persone? Ma considerando la persone in questione, Amy, poteva anche passare. Era un sollievo per me vederla ridere per davvero dopo la tragedia di Harry, e mi unì alla sua risata. In effetti, era divertente.
      «Ma sei pazza?!» la rimproverò subito Violet.
      «Ma dai» rispose lei tra le risate «Era uno scherzo»
      «Poteva esserci per davvero una bomba lì dentro!» insistette lei, con un ansia tale da fargli abbassare e alzare il petto velocemente. Sembrava che stesse per avere un attacco di cuore.
      «Era del tutto impossibile» la corresse Phil, sorridendo divertito anche lui.
      «Ma…»
      «Amore, basta. Era uno scherzo per rallegrarci, tutto qui, calmati» la calmò Damon, impedendole di ribattere ancora. Lei annuì con una smorfia. Era tornata la Violet di prima, quella quasi antipatica e quasi odiosa.
      Phil afferrò qualche foglio dalla valigetta e le iniziò a leggere, corrugando la fronte. Quella posizione gli dava un’aria da filosofo, era quasi divertente vederlo impegnarsi per capire qualcosa.
      «Cosa sono?» domandò Clark, sporgendosi per leggere anche lui qualcosa.
      Phil fece per parlare ma uno sparò gli impedì di proferire parole. Sussultai dallo spavento, poi mi voltai come tutti gl’altri verso il portellone che dava sul ponte: un uomo con dei capelli biondo pallido, quasi bianco, e con un’arma puntata al celo ci fissava con un sorriso al dir poco spaventoso, dietro di lui altri due uomini, anche loro con quel sorriso orrendo stampato sul volto che ci fissavano.
      «Roba nostra»

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Capitolo 18
*** 17. Steve ***


17
Steve

      Rispose a Clark l’uomo con l’arma alzata, che pian piano portò la medesima puntata verso di noi, la voce sensuale che non si addiceva perfettamente a lui, ma non alla situazione. Ci immobilizzammo tutti. Un’altra volta no!
      Phil ripose subito il foglio nella valigetta, la chiuse e si avviò a basso molto lento verso l’uomo biondo «Ok, noi non la vogliamo» disse.
      Il biondo emise una risata macabra «Cosa sei tu? Il pacifista della situazione?» lo insultò.
      «Non vogliamo problemi, ok?» insistette lui. Posò la valigetta per terra a pochi metri dall’uomo, e con la stessa lentezza di come c’era arrivato, tornò indietro. Tuto sotto lo sguardo divertito dell’uomo, che non smetteva di puntarci l’arma contro, osservandoci tutti con attenzione.
      «Oh, ci dispiace» iniziò il biondo «ma le tue sono cazzate, e lo sai»
      «Cosa significa?» gli urlai.
      Un’altra risata macabra «Beh, credo che tu lo sappia e come» mi rispose.
      «No, noi lo sappiamo» insistetti, ma non era vero. C’ero arrivata e come, ma chi vorrebbe una cruda e dolorosa verità in confronto ad una dolce e bella menzogna?
      «Cos’è? Sei stupida o cosa?» esclamò uno dei due uomini dietro di lui. Il biondo subito alzò la mano per bloccarlo, e posò i suoi occhi castani su di me, e si avvicinò con passo spavaldo. Quando fu a circa un metro da me, posò l’arma e mi scrutò in volto.
      «Sei carina» disse «Come ti chiami?»
      Non li vidi, ma sentii tutti gli sguardi dei miei amici puntati addosso «Susan» sussurrai.
      «Susan» ripeté «bel nome» fissò gl’altri, studiandoli «Scusa, Susan come?»
      Ma perché vogliono sapere tutti come mi chiamo? «Dawson» dissi istintivamente, senza pensare al pericolo. Quando vidi una luce brillare negl’occhi castani del biondo, mi ricordai della reazione di Bill quando lo avevo detto anche a lui, e me ne pentii subito.
      «Sono tutti tuoi amici, questi?» mi chiese, indicandoli con un’alzata del suo mento.
      «Sì» sussurrai ancora. Altro sbaglio colossale. Adesso li avevo messi in pericolo, dovevo stare zitta!
      «Tu volevi sapere perché quelle del tuo amico» indicò con la mano Phil «diceva cazzate giusto?» annuii «Beh, vedi, come sono sicuro che tu e tutti gl’altri abbiate già capito voi siete su quest’isola per sbaglio» si voltò verso i suoi compagni «Dite che posso dirglielo?»
      «Per me sì» rispose uno di loro.
      «Io dico di non dirle tutto, o almeno per quanto riguarda lei» aggiunse l’altro. Lei?
      «Ok» disse il biondo, e si rivoltò verso di me «Vedi, cara Susan mi dispiace che tu sia qui, adesso»
      «P… perché?» gli chiese preoccupata.
      «Voi tutti vi trovate sull’isola sbagliata e, se me lo permettete, aggiungerei che sarebbe stato molto meglio se avreste scelto di stare a casa invece di venire sulla Starlight» rispose con un sorriso affettuoso.
      «A casa?» chiese Damon «Perché?»
      «Zitto tu! Non vedi che sto parlando con lei?» lo rimproverò con una smorfia piena di ribrezzo verso Dam.
      «Perché dovevamo restare a casa?» gli chiesi al posto di Damon.
      «Perché» iniziò lui «se non avreste intrapreso la spedizione con la Starlight, non sareste naufragati qui, sull’isola adesso, ma a casa al sicuro. Qui è molto pericoloso, non è posto per delle persone come voi, ma, del tronde, non lo è per nessuno» aggiunse con un sorriso.
      «Ancora non capisco» dissi cercando di sembrare più confusa. Volevo sapere se avevo ragione.
      «Susan, davvero non c’arrivi?» mi rimproverò affettuosamente lui «Vedi questo?» indicò tutto intorno a sé «Spero che almeno al fatto che sia un reperto storico ci sia arrivata» annuii «bene, questo sarà il nostro più grosso colpo di fortuna, Susan. Soldi. Soldi a palate. Ma dobbiamo assicurarci che gl’artefici della scoperta siamo noi, e non» si voltò verso gl’altri, con una smorfia divertita «di altri, altrimenti dovremmo dividere ancora di più i quattrini» concluse, spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio «Adesso hai capito?»
      «Sì, credo di sì» e come avevo dedotto prima nel castello, lo avevano già trovato e stavano eliminando ogni possibile spia, anche la meno preoccupante finché non sarebbero scomparsi tutti, solo allora sarebbero tornati con chissà cosa alla civiltà e avrebbero svelato il reperto.
      «Ed è anche per questo che sarebbe state meglio se sareste restati a casa. Persone carine come te non dovrebbero fare questa fine» disse con una smorfia di dolore.
      «Steve, adesso basta» disse uno degl’uomini ancora fermi al portone «Eliminiamoli e facciamola finita con questa baggianata.
      «Già» lo appoggiò l’altro.
      Steve chiuse gl’occhi, cercando di tornare calmo. Si voltò rabbioso verso i due e urlò «MA AVETE CAPITO CHI È LEI!?».
      I due tacquero.
      «Chi sono io?» gli domandai. Le sue spalle mi impedivano di guardare i due uomini.
      Steve si voltò piano verso di me, con un sorriso gentile sul volto «Mi dispiace, Susan, ma non posso dirtelo» disse.
      «Perché?»
      «Sono informazioni riservate» rispose.
      «Anche se riguardano me?» ribattei.
      «Sì, purtroppo» e aggiunse una smorfia di fastidio alle sue parole.
      «Sono in quella valigetta?» indicai l’oggetto che giaceva dietro di lui per terra.
      «Forse, in parte» rispose.
      «Cosa c’è lì dentro?»
      «Sei una ragazza curiosa, eh?» esclamò divertito «O dovrei dire, sveglia?»
      «Preferirei sveglia» gli risposi di spirito, sorridendo a mia volta.
      «Preferirei?» rise divertito, io rimasi con il sorriso «Allora vuoi proprio sapere tutto?» mi chiese osservando la mia espressione.
      Annuii.
      «Perché, Susan?» ribatté ancora. Io non volevo arrendermi, ma nemmeno lui voleva.
      «Hai detto che ci devi uccidere, no? Tanto fale spiegarci tutto, tanto dopo che ci avrete sparato non potremo più dire niente a nessuno» gli spiegai le mie false intenzioni, o dovrei dire vere, dato che non c’era scampo?
      Mi fissò per qualche secondo, in silenzio, studiando il mio volto, forse per capre se stavo mentendo o era solo un diversivo per trovare una risposta adeguata «Non l’ho mai detto che vi vogliamo uccidere» disse infine.
      «E invece l’hai detto e come, Steve» ribattei.
      «L’ho detto?» annuii ancora «Oh, allora tu dici che dovrei spiegarvi tutto perché state per morire tutti, giusto?»
      «Sì, è così» lo incitai a parlare. Forse stavo prendendo un po’ troppa confidenza col nemico, ma lui la prendeva con me, quindi…
      «Susan, Susan, Susan, vorrei dirtelo, davvero, ma non posso» mi rispose con tono triste, come se fosse dispiaciuto.
      «Perché?» proruppe Phil «Dovete ucciderci, ditecelo»
      Prima ancora che Phil potesse finire la sua frase, si scagliò contro di lui sferrandogli un pugno in pieno volto facendolo cadere al suo, per poi puntargli la sua pistola contro «Sbaglio» disse «o vi avevo già fatto capire che non voglio essere disturbato?» concluse, gridando l’ultima parola. Assistevo alla scena impaurita, con me era tutta un’altra persona.
      «Ma ha ragione» trovai il coraggio per parlare.
      Tornò da me con aria tranquilla, come se non fosse successo niente.
      «Non posso, Susan. Te l’ho già detto» ripeté. Era una cosa senza senso. Perché non poteva svelarci i suoi segreti se tra 10 minuti ci avrebbe sterminati tutti? Lo faceva per irritarci? Forse, ma era ugualmente stupido. Ma io non mi arrendevo, volevo a tutti i costi saperlo. Se proprio dovevo morire, volevo portare a termine il mio scopo, anche se Steve non dava segni di cedimento, sembrava quasi addestrato a non proferire parole, e io mi demoralizzavo sempre di più. Non vedevo nessun piano da usare, o almeno nessuno che avrebbe funzionato al 100%.
      Ma infine ne trovai uno e, anche se era più che rischioso, poteva funzionare.
      «Allora uccidimi adesso» esclamai di colpo, senza ripensamenti, perché se li avessi avuti, avrei abbandonato il mio piano a cui in quel momento mi tenevo ben salda e speravo che funzionasse: lui aveva una specie di attrazione verso di me per il mio nome –cosa che non riuscivo a capire-, lo si capiva solo dal fatto che quando uno dei miei amici lo interrompeva, lui minacciava di ucciderlo e forse provava anche un po’ di pietà verso di me e non mi avrebbe ucciso e se la fortuna era dalla mia parte, mi avrebbe rivelato il suo segreto, o solo il contenuto della valigetta.
      Mi scrutò attentamente. Il suo sorriso era scomparso, sul suo volto regnava la serietà e l’attenzione verso di me, nient’altro. Si voltò verso i due uomini, sempre fermi e immobili, impassibili anche alle mie parole.
      «Per me puoi dirglielo» disse uno «hanno ragione, stanno per morire, a noi non cambia nulla»
      «Già» lo appoggiò l’altro «o almeno dillo solo alla ragazza dato che lo vuole sapere così tanto» concluse con un sorrisetto amaro lanciato dritto verso di me.
      Steve scrutò attentamente anche i suoi amici, poi tornò a studiare me con altrettanta insistenza.
      «Ma è così carina» obiettò voltandosi di nuovo verso i due.
      «E allora?» esclamò il più basso «È solo una ragazza»
      «Mi dispiace ucciderla» obbiettò ancora Steve. Il mio piano stava funzionando, ma quei due non mi aiutavano per niente, peggioravano solo la situazione e minacciavano di mandare il mille pezzi il mio piano, e la mia vita.
      «Potresti salvarla» suggerì il più alto dei due.
      «Salvarla?!» ripeté accigliato l’altro «Non può farlo!»
      «E perché no?» obiettò lui.
      «Perché il capo non vuole “prigionieri”» rispose disegnando delle virgolette per aria.
      «Purtroppo ha ragione» ammise Steve, che quasi si metteva a piangere dalla tristezza. Non sapevo se esserne lusingata o disgustata. Preferii non scegliere.
      «No, non ne ha» sbottò il più alto. Gl’altri due lo guardarono interrogativo «Beh, non se sa chi è lei»
      Steve si illuminò d’immenso.
      «Ha ragione!» esclamò entusiasta.
      «No che non ne ha!» li bloccò ancora il basso «Essere quello che è lei non significa non poter diventare un prigioniero»
      «E invece sì» lo bloccò a sua volta Steve «Sai chi è lei, e sai che rapporto ha con il capo, deve importargliene almeno un po’, non credi?»
      «Forse ma non ne siamo sicuri» stavolta sembrava preoccupato il basso «Se si arrabbia con noi per aver salvato qualcuno, potrebbe anche decidere di eliminare noi, insieme a lei»
      «Non fare il cretino» lo insultò il più alto.
      Era come se io e miei amici non esistessimo più. Avevano acceso quella discussione e non avevano nessuna intenzione di concluderla nei prossimi venti minuti che sarebbero seguiti, o almeno davano quell’idea, ma a noi non poteva far altro che bene. Minuti in più di vita.
      Steve e i due continuavano a discutere senza darci la minima importanza, la cosa mi infastidiva molto, e il loro discorso mi incuriosiva ugualmente e decisi di unirmi.
      «Chi sono io?» gli urlai in modo abbastanza forte in modo che sentissero la mia voce mischiata alle loro.
      I tre si fermarono di colpo, e si voltarono all’unisono verso di me, con aria interrogativa.
      «Intendo… chi sono io per… per il vostro capo» mi corressi.
      «Mi è venuta un’idea!» esclamò Steve, guardandomi come se fossi la soluzione di una complicatissima equazione.
      «Quale?» lo incitò l’alto.
      «Potremmo salvarli tutti» lo rispose, voltandosi verso di lui.
      «Tutti? Ma ti sei rincretinito? Se lo facciamo è sicuro che il capo uccide anche noi» esclamò per risposta. Il più basso annuii con il capo alle parole dell’altro.
      «Ma non in quel senso» li bloccò subito Steve «Potremo rinchiuderli tutti giù nelle segrete del castello. Sono ancora in piedi, giusto?»
      «Beh. Sì, ma a quale scopo?» lo guardò incuriosito il basso, poco dopo l’alto si unì a lui.
      Steve si voltò verso i miei amici, scrutandoli per l’ennesima volta, poi guardò me con fare speranzoso e rivelò le sue intenzioni «Faremo decidere al capo»
      «Al capo? In che senso?» i due ancora non capivano, come tutti noi altri.
      «Li rinchiuderemo giù, faremo venire il capo, e lasceremo decidere a lui» concluse.
      Sbiancai all’idea. Il loro capo sarebbe venuto a scegliere se meritavamo la vita o la morte.
      Non sapevo se ci stesse prendendo in giro o facesse sul serio. Sperai la prima ma sapevo che era la seconda.
      «Cosa?!» sbottò il più basso «Scherzi vero? non possiamo far venire qui il capo!»
      «Perché no?» obbiettò Steve «Cosa c’è di male se si muove?»
      «Sai che lei non vuole “muoversi”» le ricordò il più alto.
      «Già, potresti metterci nei guai tutti quanti. Sai i pericoli che corri? Che corriamo?» il più basso stava per morire di un attacco di cuore, dandomi l’idea che il loro capo fosse un mostro a 5 teste, o una specie di Medusa che ti pietrifica con lo sguardo.
      «Ma fammi il piacere. Pericolo, quale pericolo?» insistette Steve.
      «Sai che intendo» il basso gli lanciò uno sguardo omicida.
      «Ricordamelo» lo sospinse, con uno sguardo altrettanto significativo.
      «Ci licenzierebbe, per esempio» gli rispose l’alto «Nella migliore delle ipotesi, però»
      «Licenziarci?» ripete schifato Steve «E come fa?»
      «Con le parole, genio!» il basso sembrava sempre più in preda ad un attacco. Incuteva timore solo a guardarlo sudare come un maiale dalla paura.
      «Non può farlo sciocchi!» si capiva che volesse usare una parola molto più offensiva di “sciocchi”.
      I due lo fissava interrogativi.
      Steve li fissò a sua volta esasperato «Cristo santo! Non comanda lei!» sbottò irritato.
      «E chi comanderebbe, sentiamo?» domandò il basso.
      Stava per perdere le staffe. L’uomo gentile e cauto che aveva parlato con me circa 20 minuti fa aveva lasciato posto ad uno incazzato ero che dava l’idea di voler uccidere i due a mani nude, e ci sarebbe riuscito senza sforzi con tutta la rabbia che dava a vedere, faceva paura anche a me. Si avvicinò lento a due, che cercarono di indietreggiare.
      «James» sussurrò tra i denti.
      I due spalancarono gl’occhi a quel nome, poi si ricomposero immediatamente e lo fece anche Steve, tirando dei forti respiri per calmarsi. Si voltò, e tornò da me con il suo solito sorriso sulle labbra.
      «Sai benissimo che può» aggiunse l’alto. Aveva talmente paura di Steve che ebbe il coraggio di parlare solo quando lui si fosse voltato. Codardo. Steve tornò alla sua aria incazzosa e preoccupò anche me.
      «No» sussurrò ancora, gracchiando i denti «Non può»
      «Sì, è il capo qui» insistette lui.
      «Qui» sussurrò Steve, tenendo il capo chinò di fronte a me. Per calmare la rabbia teneva la mascella talmente serrata da sembrare che i denti si stessero stritolando dalla troppa pressione.
      «Appunto, qui può» continuò l’altro. Volevo dirgli di tenere quella maledetta bocca chiusa per non peggiorare la situazione ma due cose me l’impedivano: uno, non erano affari miei; e due, cosa più importante, gli idioti sono e resteranno per sempre idioti.
      «James ci ha mandati qui per controllare che tutto andasse bene, ti ricordi beota?» stava per esplodere, me lo sentivo.
      «Sì, me lo…»
      «Allora tieni chiusa quella fogna se non vuoi passare dei ser guai» si voltò rabbioso verso di lui «abbiamo già detto abbastanza di fronte a loro!»
      Era esploso.
      L’uomo tacque, come previsto, e il più basso che non aveva proferito parola per tutto il resto della discussione stava per entrare in tachicardia. Era esilarante vederlo tremare come una foglia.
      Ci furono lunghi, interminabili secondi di silenzio totale dove soltanto le foglie scosse dal leggero vento ebbero il coraggio di farsi sentire.
      Fu il più basso, stranamente, a parlare per primo.
      «E adesso che facciamo?» chiese.
      «Li portiamo di sotto» lo rispose Steve, poi si voltò a guardare gl’altri, interrogativo. Non capivo cosa volesse fare e ne avevo paura.
      «Voi cosa avete sentito?» gli chiese quasi sottovoce. Stava tornando lo Steve calmo di prima. Era quasi impossibile associare la sua figura a quella di un pazzo che non vuole altro che dei bei soldoni nelle proprie tasche pronto ad ucciderti per averli.
      Loro non risposero.
      Allora lui si incamminò verso di loro, e squadrò bene i loro volti, più di tutti quello di Amy che lo sorresse a sua volta, sorprendendomi di quanto coraggio avesse avuto, ma lui non fece niente ugualmente e proseguì. Si soffermò su Violet, che abbassò immediatamente lo sguardo impaurita.
      Steve si chinò per arrivare all’altezza del suo viso e disse «Hai paura» era più un’affermazione che una domanda. Violet annuì lentamente. Ogni piccolo gesto sembrava sbagliato quando eri in pericolo di vita, ma io, stranamente, mi ci ero già abituata.
      «Non ce n’è bisogno cara…» la invitò a proseguire con un gesto della mano.
      «Violet» continuò, con voce tremante.
      «Violet» ripeté lui, quasi a voler confermare, e si rimise dritto, osservando il vuoto di fronte a sé «Tu cos’hai visto, o meglio, sentito, Violet?» le chiese, avviandosi verso la fontana dandogli le spalle.
      Lei esitò a rispondere. Sperai che avesse capito cosa intendeva, lo sperai con tutta me stessa.
      «Niente» rispose in fretta, tenendo il capo chinò.
      Steve sorrise compiaciuto, si voltò verso Phil.
      «Oh!» esclamò «Mi ero quasi dimenticato del pacifista» rise alla sua battuta, seguito dalle risate forzate degl’altri due «Tu cos’hai sentito?»
      Phil resse il suo sguardo. Pregai iddio che non volesse fare il pacifista come al solito.
      «No» rispose infine.
      «Bene» esclamò «e voi altri invece» allargò le braccia per poter indicare tutti.
      Tuti scossero il capo. Steve sorrise ancora compiaciuto, voltandosi fiero verso i due, che gli fecero un sorriso forzato, poi guardò me.
      «Tu, Susan?»
      «Niente» risposi subito, scuotendo il capo.
      «Ottimo!» si rivoltò verso i due «Direi che adesso possiamo anche scortarli di sotto»
      Loro acconsentirono con un movimento del capo.
      Gl’uomini presero le loro armi mentre si avvicinavano ai miei amici e, con un gesto brusco, li incitarono a camminare. Steve si avvicinò a me e mi incitò a seguirli con un gesto gentile della mano. Tenendolo sempre d’occhio, mi incamminai. La gentilezza di quell’uomo nei miei riguardi mi incuteva più paura di qualsiasi altra cosa al mondo, altrettanto il suo cambio di umore, impossibile da prevedere.
      Salimmo sul palco e con un altro spintone i due uomini fecero aprire il portone a Clark e Damon, che lo varcarono subito dopo seguiti da tutti gl’altri, ed infine io e Steve che, faticosamente, si chiuse il portone alle spalle. Si rigirò verso di me, e mi incitò a proseguire.
      Le stanza vuote e decadenti sotto quella aspetto della situazione incutevano una paura tale da tremare al solo sguardo. I tre uomini che ci scortavano non temevano un bel nulla. Clark continuava a voltarsi dietro per controllare chissà cosa Steve mi stesse facendo. Mi faceva confortava pensare che si preoccupasse per me, anche se ne ero certo che lo avrebbe fatto.
      Il corridoio era silenzioso, si udivano solo il rimbombo dei nostri passi nel vuoto più totale.
      Infine arrivammo all’enorme scala a chioccola di prima, e tutti ci fermammo al suo margine, osservando impauriti quello che si vedeva del piano inferiore, le “segrete”.
      «Forza!» li incitò il più basso «Non crolla, tranquilli»
      Phil fu il primo a scendere perché strattonato dal più alto dei due uomini, e il più basso sospinse pian piano tutti gl’altri. Violet si fece prendere sempre di più dall’ansia: solo la stanza con tutta la scala abbandonata gli mettevano una tale paura, figuratevi scendere quelle scale, ed arrivare nelle segrete. Damon corse a confortarla, e lei liberò i singhiozzi. Il basso sbuffo sonoramente, scocciato da quella scena. Violet si arrese e, sostenuta da Damon, scese gli enormi scalini con passo lento.
      «Dopo di lei» disse Steve, indicandomi le scale.
      Senza mostrare la minima paura sul volto, mi precipitai il più sicura possibile di me stessa sugli scalini cigolanti. Iniziai a mostrare qualche smorfia di paura, nascondendola però a Steve che a differenza di tutti noi –compresi i suoi due uomini- scendevamo con estrema cautela.
      Giungemmo al culmine delle scale.
      Di fronte a noi, un corridoi grande quanto quello del piano superiore ma con il soffitto molto più basso e senza alcuna finestra ad illuminare il posto, si presentava in tutta la sua squallidità, squallidità che si trasformo presti in paura quando ci sospinsero a percorrerli.
      Il cuore mi batteva forte dalla paura che stavolta prese il completo controllo del mio corpo. Ringrazia il buoi per non farmi mostrare impaurita di fronte ai tre e anche di fronte ai miei amici. Ci stavo mettendo tanto per essere considerata una esploratrice provetta, abbandonare tutto in quel momento mi sembrava sciocco.
      Un rumore proveniente da una delle celle ci fece sussultare tutti –compreso Steve- e io strinsi il mio arco tra le dita tremanti. Solo in quel momento mi resi conto che durante tutto il tempo lo tenevo stretto, saldo tra le mani come la cosa più preziosa che avevo. Mi ricordai della vera cosa più preziosa che avevo e mi precipitai a stringere il medaglione a braccialetto.
      «Muoviamoci» esclamò Steve «questo posto mi dà i brividi»
      A te?
      «Ok» acconsentirono i due. Dal tono della voce, frettoloso, capii che anche loro non vedevano l’ora di uscire di lì.
      Spinsero violentemente Violet ed Amy in una delle celle, Clark e Phil in un’altra e infine me e Damon in un’altra ancora, chiudendoci per bene, per poi andarsene, ma non prima di aver controllato per l’ennesima volta che celle fossero ben chiuse. Finalmente risalirono le scale, lasciandoci soli nell’oscurità totale.

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Capitolo 19
*** 18. Esercito ***


18
Esercito

      Pian piano i miei occhi si abituarono e riuscii a vedere qualcosa: Clark e Phil erano di fianco a noi e non potevo vederli mentre Violet ed Amy erano di fronte a noi; Violet si dimenava violentemente contro le celle, Amy invece si era rannicchiata in un angolo e scrutava impaurita la cella, come me; Damon si era alzato e provava a manomettere le celle. Dei rumori mi fecero capire che anche Clark, o Phil, stavano provando a fuggire.
      «Avranno cent’anni queste cose! Come fanno ad essere così resistente?!» esclamò Clark, sferrando un calcio alla cella e aggiungendo una bestemmia «State tutti bene? Susan?»
      Tutti acconsentirono, me inclusa, ma la paura mi assaliva e quel buio non aiutava a calmarmi, anzi peggiorava la già grave situazione.
      «Come facciamo ad uscire da qui?» strillò Violet continuando a scuotere inutilmente la cella nella speranza che si spezzasse sotto le sue mani. La speranza è davvero l’ultima a morire.
      «Non si può» la rispose Phil.
      «Come non si può?!» ripete terrorizzata Violet, che cessò finalmente di scuotere le sbarre.
      «Ci sarà pure un modo, no?» lo corresse Damon. Continuava a contorcere il braccio fra le braccia per poter arrivare alla serratura.
      «Sì, ce ne sarebbe uno» disse Phil.
      «Quale?» chiedemmo tutti in coro, estasiati tutti a pari misura.
      «Prendere le chiavi»
      Le nostre speranze si spensero all’istante «Wao» dissi seccata «Phil sei un genio più unico che raro»
      «Ma è la verità» si difese.
      «Ci siamo arrivati da soli che servono le chiavi!» esclamò Amy.
      «Ma se le riuscissimo a prendere…»
      «Con cosa? Un colpo di bacchetta? Peccato perché l’ho dimenticata sulla nave» lo insultò Clark. Risi alla battuta.
      «Non è il momento di scherzare» ci rimproverò Damon.
      «Oh, andiamo» gli risposi «Un po’ di spirito fa bene a tutti»
      «Anche la genialità di Phil» si intromise Amy. Altre risa da parte di tutti e una smorfia da parte del diretto interessato. Eravamo dei pazzi a ridere in quella situazione, ma non potevamo mica morire di depressione per post-morte?
      «Potremo romperle con qualcosa» suggerì Damon quando ci riprendemmo tutti.
      «E con cosa avresti intenzione di romperle?» lo schernii.
      «A spallate» rispose subito ovvio lui.
      «A spallate?» ripetei, mollandogli uno sguardo seccato «Così poi ti rompi la spalla e abbiamo un altro problema? No, grazie»
      «Ma non me la romperò» insistette lui.
      «Pronto? Sono di ferro, non cartongesso»
      «Ma sono vecchie di chissà quanti anni»
      «E cosa centra?»
      «Che sono più deboli di quando sono state battute»
      Un altro sguardo seccato «Ma lo fai, o ci sei?»
      «Cosa? Domandò lui, serio.
      «Non si può, Damon. Basta» tagliò corto Phil.
      «Grazie» aggiunsi. Grata del fatto che quella stupida discussione fosse finita.
      Damon si accasciò atterra «Avrebbe potuto funzionare però» disse amareggiato.
      Alzai gl’occhi al celo Cristo Santo, perdonalo.
      «Non che non ce l’avresti fatta, amò» si intromise Violet.
      «Io dico di sì» Tosto lui!
      «Sei Hulk per caso, Dam?» scherzò Clark.
      «No, ma…»
      «Damon!» esclamò un’Amy ma più irritata che in quel momento «Piantala!»
      Tutti tacquero.
      Chiusi gl’occhi, più che altro si chiudevano da soli per la stanchezza accumulata nelle ultime ore di cammino e di pericolo. Chissà cosa stanno facendo a casa, ora pensai. Non mi era mai capitato fino a quel momento di pensare ai miei, l’ultima volta era stata sulla spiaggia, per spronarmi, adesso, invece, lo facevo con tutta la malinconia che un uomo possa avere in corpo. Mai come in quel momento mi mancavano; volevo stringerli tra le mie braccia, sarebbe stata l’unica cosa che in quel momento mi avrebbe calmata, oltre a Clark, ma in quel momento c’era un muro a separarci, quindi…
      «Chissà se lo sanno» mi ritrovai a dire sovrappensiero.
      «Chi dovrebbe sapere cosa?» mi domandò Damon, che fu l’unico –fortunatamente e stranamente- ad avermi sentito.
      «I nostri» dissi «quelli a casa. Chissà se sanno che siamo qui, spersi su quest’isola a rischiare la vita in continuazione. Non mi era mai capitato di pensarci e non so come, adesso mi sono tornati alla mente tutti»
      Damon si sedette di fianco a me, cingendomi le spalle con il suo braccio «Susan» iniziò «io penso che sia meglio così»
      «Meglio così?» ripetei curiosa.
      «Sì, che sia meglio se loro non lo sanno» aggiunse.
      «Ma potrebbero mandarci degl’aiuti, Dam, potrebbero farci tornare a casa sani e salvi senza dover correre più nessun rischio» solo a parlarne la gioia mi pervase tutta.
      «Hai detto bene, Susan, potrebbero» disse con un sorrisetto di cui non capii il significato.
      «Dam, sei sicuro di stare bene» gli chiese preoccupata seriamente e mettendo da parte gli scherzi. Chi, nella nostra situazione, non vorrebbe contattare casa per chiedere aiuto o anche soltanto per far sapere ai propri genitori, parenti, amici che lui stava bene? Solo un folle, ed era proprio in quel modo che si stava comportando Dam, ma forse aveva una giustificazione per questo, o almeno lo sperai.
      Rise in silenzio, per non farsi sentire dagl’altri. Continuava a fissarlo interrogativa «Sì, tranquilla. Sto bene» mi assicurò.
      «E allora perché dici quelle cose?» protestai.
      «Perché è quello che penso, mignolo» rispose con un sorriso affettuoso.
      Non mi lasciai andare alla dolcezza «E cosa sarebbe quello che pensi di preciso, Dam? Morire qui a costo di non contattare i nostri?»
      «No» aggiunse quasi prima che finissi di parlare «Non ho mai detto questo»
      «Ma lo hai lasciato intendere»
      «Mi hai inteso male allora» distolse lo sguardo, con ancora quel sorriso sulle labbra.
      «E allora fammi capire» lo spronai.
      Sbuffo divertito «Certo che vorrei chiamare casa…»
      «E allora…» cercai di parlare, ma mi bloccò con un gesto della mano.
      «Lasciami finire, Susan» abbassò il braccio, e io mi concentrai, curiosa su quale fosse la sua giustificazione «Dicevo, io desidero di poter chiamare casa, voglio farlo, ma poi penso a delle cose e cambio subito idea»
      «Quali cose?»
      «Non eri tu quella intelligente?» mi insultò.
      «È estremamente difficile capirti, Damon» lo schernii.
      Altre risate silenziose, poi continuò «Beh, l’hai detto tu che faranno di tutto per non ritenere propria la scoperta del castello, no?»
      «Sì, ma cosa centra?»
      «Allora io penso –stupidamente- che soprattutto come sono i tuoi genitori, verrebbero di persona a prenderci e mi fa paura il fatto che potrebbero uccidere anche loro per non far uscire nessuno dall’isola»
      «Tu pensi, che ucciderebbero tutti i rinforzi che manderebbero i nostri?» gli chiesi divertita all’idea. Nella mia mente, già mi immaginavo la lotta fra gl’uomini dell’isola, e i rinforzi con a capo i nostri parenti; gl’uni che corrono verso gl’altri urlando grida di battaglia. Era abbastanza esilarante, ma trattenni le risate per non offenderlo in nessuna maniera possibile.
      «In un certo senso… sì» mi rispose con un’alzata di spalle.
      «A me sembra un po’ impossibile» gli confessai.
      «E perché?»
      «Perché è impossibile» ripetei «non potranno mai eliminare tutti i soccorsi che ci manderebbero»
      «Io dico di sì» ripeté ancora, distogliendo l’attenzione dalle mie parole. Sbuffai sonoramente, ma ignorò anche questo.
      «Ok, e come farebbero, visto che ne sei così tanto sicuro?» lo incitai con tono di sfida.
      «Non sappiamo quanti ne siano» rispose semplicemente.
      «Cosa?» domandai, incuriosita al cento per cento.
      «È Così» continuò «non sappiamo quanti ne siano» provai a ribattere, ma mi fermò ancora con un’alzata di mano «tu li hai visti?»
      «Certo che li ho visti!» esclamai quasi offesa. Mi credeva per caso cieca?!
      «Non in quel senso!» disse divertito dal mio comportamento «Io intendevo, li hai mai visti tutti
      «Oh»
      Non ci avevo mai pensato o almeno, non ci avevo mai dato molta importanza, io consideravo importante il fatto che ci volevano tutti morti, quanti fossero non importava, anche uno solo, armato, sarebbe bastato contro sei dei nostri.
      «Ecco!» disse Dam, fiero, con un sorrisetto irritante.
      «Ok, può darsi che hai ragione, ma non hai prove» cercai di difendere il mio onore.
      «È logico che non ne ho!» si difese «Non potevo andare mica nel loro campo base e scattare una foto?!»
      «Sì, hai ragione» non potevo spararne una più imbarazzante di quelle, ma ricordando che soggetto ero, avrei potuto dire di peggio e mi ricomposi.
      Damon aveva di nuovo quel sorrisetto da vincitore stampato sul volto, fissandomi. Che rabbia che mi faceva!
      «Ma a me sembra ugualmente esagerato» dissi a testa alta.
      «Forse»
      «Forse? Stai dicendo che quelli lì fuori hanno un esercito dalla loro parte, ti sembra possibile?»
      «No, ma neanche impossibile»
      «E dove se lo mettevano un esercito?»
      «Pronto? È un’isola piccola sulle carte nautiche, non sotto i nostri piedi!»
      «Anche questo è vero» dissi amareggiata più di prima.
      «Io ho sempre ragione!» esclamò fiero lui.
      Sguardo irritato «Hai avuto “Fortuna” non “ragione”» lo corressi.
      «No no, cara, ragione» obbiettò ancora, alzando il livello della mia rabbia. Era incredibile!
      «Fortuna»
      «Ragione»
      «Fortuna»
      «Ragione»
      «Dannazione Dam!» urlai, tappandomi subito la bocca.
      Tutti, come avevo immaginato, avevano sussultato al mio urlo e mi fissavano –almeno quelli che potevano- mentre Damon se la rideva alla buona. Avevo la voglia di strozzarlo in quel momento, giuro.
      «Va tutto bene lì affianco?» chiese Phil.
      Damon si tratteneva lo stomaco dalle risate. Cosa ci trovava da ridere in quel modo? «Sì, tutto apposto. È solo Damon che fa il cretino»
      «Ehi!» esclamò lui offeso, smettendo subito di ridere.
      «Ah, capito» rispose Phil.
      Tutto tornò quasi come prima, a parte Amy e Violet che ci tormentavano sul motivo perché Damon stava ridendo in quel modo.
      «Che hai fatto?» domandò un Amy sempre più curiosa, Violet di fianco a lei che tendeva le orecchie dalle sbarre per sentire il meglio possibile.
      «Niente!» esclamai «Damon si era rincoglionito»
      «Piantala con le offese» intervenne lui.
      «Le mie non sono offese»
      «Io dire di sì» si intromise Violet.
      «Niente affatto» risposi sia a lui che alla sua ragazza «Dico la pura e semplice verità» conclusi a testa alta.
      Amy rise di gusto; Violet mi fissava con uno sguardo indecifrabile, un misto fra squallore e divertimento; Damon aveva cessato finalmente di ridere come un dannato e si era rannicchiato nell’angolo più remoto della cella fingendosi offeso. Il tutto era un po’ divertente.
      «Dai, seriamente» disse Amy quando ebbe finito di ridere «che hai combinato?»
      «Io niente» le risposi «stavamo discutendo e poi…»
      «Discutendo?» ripeté Violet, ricomponendosi a quella parola.
      «Non proprio» mi corressi «Stavamo…»
      «Discutendo, Susy» si intromise Damon, riemerse dall’angolo.
      «La piantate di interrompermi?!» esclamai irritata «Ok, stavamo… discutendo» ammisi.
      «Su cosa?» chiese Violet illuminatasi di una strana luce.
      «Su una mia idea» rispose Dam.
      «Idea estremamente scema» aggiunsi scherzosa guardando altrove. Dovevo prendermi la rivincita facendo impazzire Dam, solo così la mia ira di vendetta si sarebbe calmata.
      «Quale idea?» incalzò ancora più incuriosita –se possibile- Violet.
      «Damon fece per rispondere, ma mi affrettai a farlo prima io «Lui crede che gl’uomini che ci vogliano uccidere sull’isola siano più di un esercito»
      Amy rise immediatamente, Violet cercò di trattenersi per rispetto verso il proprio ragazzo, ma dalla sua faccia si vedeva chiaramente che era divertita. Delle risate arrivarono anche dalla cella di fianco alla nostra.
      «Non è proprio così» si affrettò a difendersi Dam, molto imbarazzato.
      «Certo, come no» scherzai ancora.
      Quando si calmò, Amy riuscì a parlare «E allora com’è?» gli chiese soffocando ancora qualche risata.
      Dam cercò invano di raccontare un’altra versione della sua storia «Io dico soltanto che non possiamo sapere quanti ne abbiano qui sull’isola»
       «È la stessa cosa» gli dissi ridendo alla faccia contorta di Violet che cercava disperatamente di non ridere.
      «Non ha tutti i torti» Phil disse la sua sul discorso.
      «Cosa?» gli chiese Amy, che sembrava essere tornata un secondo fa da un altro universo.
      «Può darsi che ha ragione» continuò lui.
      «Finalmente uno che mi dà ragione!» esclamò Damon fiero di se stesso.
      «E come fai a dirlo?» lo schernii io, ignorando il fare altezzoso di Dam.
      «Tu non li hai mai visti, non puoi dirlo nemmeno tu che non abbiano un esercito, Susan» dedusse lui.
      Non aveva tutti i torti, anzi, il suo discorso non faceva una piega.
      «Non li hai visti nemmeno tu» il mio onore si fece sentire. Era incredibile il numero di volte in cui lo stavo tirando in ballo, di solito me ne fregavo sempre, ignorandolo, pensando che fosse solo una delle tante parole di un vocabolario. Sarà stata l’isola a farmelo usare così spesso.
      «Non ho mai detto di avere ragione» si affrettò a dire.
      «E questo cosa centra?»
      «Che nessuno dei due ha ragione» dedusse lui. Non potevo vederlo, ma già mi immaginavo un’espressione fiero sul suo volto, era da lui.
      «Ma hai appena detto che Dam…»
      «Non ho mai detto di dare ragione a Damon, ho solo detto che poteva avere ragione»
      Sia io che Damon ci demoralizzammo all’istante, soprattutto lui. Avevamo visto Phil sempre come una persona colta e intelligente, che in qualunque squadra lui fosse stato, le stessa avrebbe vinto sempre e adesso non dava ragione a nessuno. Era da manicomio a volte.
      «Fai pace col mondo» esclamò Violet.
      «Non credo di aver capito» Amy parlava ad alta voce, ma era sicura che quello era un pensiero a giudicare dal suo volto concentrato.
      «Allora» sentì Phil sistemarsi meglio «Damon dice che quegli uomini potrebbero avere un esercito…»
      «Non un esercito!» protestò Dam.
      «Quello che è!» esclamò Phil «Comunque, io non gli dò ne ragione ne torto, perché nessuno di noi li ha mai visti. Sì, li abbiamo visti, ma in piccole pattuglie e scommetto che come le abbiamo viste noi, ce ne sono altre forse dello stesso numero che circolano per tutta l’isola per controllare che non ci siano altri naufraghi. Sappiamo qual è il loro scopo, e sappiamo che non vogliono nessuno che sappia oltre a loro del castello. Noi siamo qui chissà perché, ma sono più che certo che non abbiano alcuna intenzione di liberarci»
      Tutti rimanemmo in silenzio, a ragionare sulle parole di Phil che, come sempre del resto, aveva ragione, o almeno ci si avvicinava moltissimo.
      «Adesso ho capito!» esclamò Amy entusiasta del suo traguardo, ma quando arrivò al risultato del discorso si demoralizzò.
      «Quindi tu dici che ce l’hanno davvero un esercito, o qualcosa che si avvicini ad esso?» riuscì a chiedere Damon con un sussurro, ancora scosso dalla cruda verità. Ma ero sicura che tutti loro la avessero già capita prima ancora che gliela spiegasse per filo e per segno Phil poiché era più che evidente, ma sentirla era più orrendo che pensarlo.
      «Non lo escludo» rispose solo Phil.
      «Ma credi di sì» domandò Violet, scossa più di tutti noi come era prevedibile.
      «Io lo credo ancora… strano»
      «Non impossibile?» mi insultò Dam.
      Non mi sembrava proprio il momento così e gli mollai una gomitata nei fianchi «No» risposi sorridendo beffata alla sua smorfia di dolore.
      «Io non credo che sia impossibile, Susan» mi confessò Phil.
      «Neanche io lo credo più, adesso»
      «Perché a lui credi e a me no?» mi chiese offeso il compagno della mia cella.
      «Perché lui è una persona seria, non una stupida come te» gli risposi scocciata.
      Rispose con una smorfia. Sperai di averlo zittito per qualche minuto.
      «Grazie Susan»
      «Prego Phil» dissi continuando a fissare Dam con una sorriso vittorioso che lo fece impazzire, così se ne andò di nuovo nel suo angoletto.
      «Quindi tu credi anche che… che noi… moriremo?» Violet era in preda ad un’ansia tale da fargli avere il respiro affannato come se avesse corso per i kilometro.
      «Io…» cercò di rispondere Phil, ma era troppo doloroso ammetterlo.
      «Creto che no!» mi affrettai a dire io, benché fosse molto difficile per me dire una bugia così grande. Meglio una grande bugia, che una crudele verità.
      Violet sembrò tranquillizzarsi all’istante.
      «Ma potremo mai uscire da qui?» mi domandò Amy.
      «A questo non posso rispondere, Amy» dissi con una smorfia di dolore nel mio tono di voce.
      «Ma dev’esserci un modo!» protestò la sua compagna di cella, calciando con quanta forza aveva in corpo le sbarre che tremarono rumorosamente ad ogni colpo inflitto da lei.
      «Zitta! Shhh!» la bloccò subito Phil. Vidi le sue braccia divincolarsi oltre le sbarre cercando di fermare Violet che cessò quasi subito la sua guerra contro la cella.
      «Che c’è?» gli esclamò contro.
      «Vuoi farci sentire da Steve e gl’altri, per caso?» esclamò a sua volta Phil, agitato.
      «Non possono sentirci qui sotto» disse ovvia Amy.
      «Io dico di sì» obbiettò lui.
      «Come fai a dirlo?» lo schernì subito lei.
      «Tu quando rinchiudi qualcuno non controlli che non scappi?» le rispose con rabbia.
      Amy si ammutolì subito. Anche stavolta aveva ragione, non che fosse una novità.
      «Ma cosa ci potrebbero fare se ci sentissero?» chiese preoccupata Violet, che aveva preso a guardare con intensa preoccupazione quello che riusciva a scorgere delle scale a chioccola dove eravamo scesi.
      «Non lo so» le rispose Phil «Ma di certo niente di buono, tu che dici?»
      «Ma Clark dov’è?» domandai un po’ a tutti, ma soprattutto a Phil. Solo in quel momento mi resi conto che non si era mai fatto sentire e iniziai a preoccuparmi. Anche se potevo stare certa che era con Phil, rinchiuso in quella schifo di cella di fianco a noi, non mi sentivo sicura.
      «Si è addormentato, tranquilla» mi rispose Phil, accorgendosi della mia preoccupazione.
      Tirai un sospiro di sollievo.
      «Questo posto mi fa sempre più paura» ci confesso Violet, che si ritirò anch’essa nel fondo nella cella, seguita o ruota da Amy. Mi accostai anch’io alla parete. Damon si precipitò subito di fianco a me. Non solo a noi ragazze faceva paura quel posto. Mi accoccolai sulla spalla di Dam e il silenzio calò nelle segrete del castello. Il pensiero che potevano avere un intero esercito dalla loro parte mi terrorizzava, mi incuteva quella paura che provi anche quando hai 5 anni e vedi un film horror, e cosa cerchi in quel momento? Un punto di sicurezza, i tuoi genitori.
      «A me mancano i miei» dissi in un sussurro.
      «Anche a me» aggiunse Damon.




lo so. sono una frana nel rispettare i tempi, ma l'inizio della scuola mi ha scombussolato gl'orari (?)
per scusarmi, ho postato tre capitoli
recensionate, recensionate e recensionateeeeeee
grazie a tutti


Matt

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Capitolo 20
*** 19. Passato ***


19
Passato

      Dopo qualche ora chiusa lì dentro, quella cella, quelle sbarre iniziavano a farmi ribrezzo. Talmente tanto che evitavo ogni possibile contatto con loro. Credetti di stare sviluppando una specie di fobia, e mancò poco che lo diventasse per davvero se mi costringevo ogni minuto a pensare ai miei genitori a casa; pensare a George, che probabilmente in quel momento stava pelando delle patate; a Rosie, la dolce e morbida Rosie. Quanto mi mancavano tutti. In effetti, quello di pensarli era un rimedio da una parte, ma un male dall’altra, perché ogni secondo che pensavo a loro, la ferita al cuore si apriva sempre di più, provocandomi un dolore mentale che ci mancava poco fosse anche fisico.
      Non mancarono –fortunatamente- anche i momenti divertenti, quei momenti che, anche per solo un minuto, un secondo ti dimentichi della tua condizione, di dove ti trovi; e chi altri poteva provocarli se non Violet?
      Ci sbellicavamo dalle risate ogni volte che vedeva passarle vicino e lei urlava come una dannata; ma la parte in assoluto più divertente era quella di quando lei prendeva una certa confidenza con l’animale e ci attaccava un discorso lungo a volte un’ora. Tutti ci domandavamo perché lei non si offendesse alle nostre risate provocate da lei, ma non era difficile immaginarlo: anche io sarei felice di alzare l’umore di ognuno di loro con una mia stupidaggine.
      Ma purtroppo per noi, le nostre erano troppo frequenti e a volte troppo forti, più di una volta era capitato che uno degl’uomini venisse a rimettere l’ordine lì sotto. Ma le risate scappavano ugualmente quando uno di noi gli faceva la linguaccia alle sue spalle e lui si irritava sempre di più fino ad andarsene imprecando verso di noi, imbronciato dal nostro comportamento. Il nostro motto era diventato “ridi quanto puoi se sai che devi morire”. Motto al quanto deprimente, ma noi lo intendevamo in tutt’altro modo, a volte perfino troppo. Sembravamo dei diciassettenni capricciosi, persino Phil ci stupì con le sue battute.
      Quando Clark si risvegliò, si mettemmo schiena contro schiena, o meglio, schiena contro muro, e ci raccontavamo a vicenda di quello che provavamo in quel momento: paura, divertimento, depressione, ancora paura. Non era difficile capirci. Paura di morire; depressione che correva alle nostre menti ogni volta che ricordavamo i nostri parenti; divertimento per le scemenze degl’altri.
      Un giorno – avevo perso la cognizione del tempo, lì sotto era buoi perennemente –, mentre chiacchieravo con Clark delle emozioni del giorno, arrivammo al capitolo depressione e mi venne da chiedergli una cosa che mi ero sempre chiesta, ma non avevo mai avuto il coraggio di domandargli, mi aveva dato più che altro indizi, ma non aiutavano a capire un bel niente.
      «I tuoi genitori dove sono, Clark?» mi vergognavo a morte a chiederglielo, ma la mia curiosità sovrasto la mia timidezza e poi, chissà quando ci rimaneva da vivere.
      Silenzio. Per un attimo pensai che volesse mandarmi a quel paese –o peggio-, ma poi rispose.
      «Perché lo vuoi sapere?»
      Non era proprio una risposta, ma non potevo dargli torto «Beh, io… mi chiedevo, ecco… non parli mai dei tuoi» farfugliai imbarazzata.
      Rise della mia timidezza, il mio punto debole forse più grande «Non li vedo ormai che è molto»
      «Perché?»
      «Non vedo il perché della situazione inversa» rispose semplicemente.
      «Perché sono i tuoi genitori forse?»
      Sbuffo, forse irritato, e mi pentii della sfacciataggine che avevo avuto.
      «Scusa» farfuglia.
      Mi ignorò completamente e continuò con il suo discorso come se stesse parlando da solo, se stesse meditando sul suo passato «I miei genitori si sono separati. È stato forse più di un trauma per me, non riuscivo a capire perché si fossero lasciati, vivevamo felici, spersi tra le colline, avevamo una fattoria, sai? Con tanti animali: mucche, cavalli, cani; il mio cane preferito era Sasha, un’Aschi bianco puro, me l’aveva regalata mia nonna quando compii otto anni. Facevo tutto con lei, era una sorta di sorella per me, sentivo che mi capiva, giocavo con lei ventiquattro ore su ventiquattro. Ricordo mia madre e mio padre che ci fissavano mentre giocavamo sul pavimento del salotto, si chiedevano in continuazione fin dove potesse arrivare il mio rapporto con quel cane. Arrivato ai 17 anni, avevo ancora Sasha con me, come puoi immaginare, non la lasciavo mai; mamma ci si era affezionata insieme a me, col tempo, papà invece… non lo so, la trattava come un cane normale e a me dava molto fastidio. Un giorno -me lo ricordo perfettamente-, Natale, mamma era uscita per fare compere lasciando me e papà a custodia della fattoria. Guardavo la televisione con Sasha mentre papà era fuori a fare qualche servizio per la fattoria. Tutto filava liscio, era un normale pomeriggio in famiglia» sospirò al ricordo triste «Papà rientrò, si vedeva dal volto che era molto arrabbiato, allora presi Sasha e me ne andai fuori. Quando papà era arrabbiato, era meglio lasciarlo in pace finché non si fosse calmato, era quasi una regola in casa. Vedo papà comporre un numero al telefono e quasi urlargli contro, era molto più irascibile del solito. Quando rientra mamma vado ad aiutarla per la spesa, ma lei mi dice “Clark, va di sopra e fa i bagagli”. Me lo dice con il suo solito sorrido affettuoso.
      Quando rientriamo in casa, mio padre inizia ad urlare violentemente contro mia madre, ti lascio immaginare la paura. Capii che ormai era finita, che si sarebbero lasciati, che sarei finito a spostarmi da una casa all’altra come in quegli schifo di film, così vado di sopra insieme a Sasha e preparo i bagagli, forse saremmo andati da nonna. Dalle urla sentii il mio nome, stavano discutendo di me, ma non capii su cosa in particolare. Scendo velocemente le scale, e aspetto vicino all’auto. Mentre faccio salire Sasha, vedo mio padre uscire furente dalla porta principale urlandomi contro “Torna qui, disgraziato peggio di tua madre, torna qui!” prese un mazza lì per terra e inizia a correre verso di noi. Mamma prova a fermarlo, ma lui la spinge via bruscamente. Indietreggio impaurito, ma lui mi prende per il gomito e mi spinge per terra, inizia a prendermi a bastonate, tento di reagire me è inutile. Sasha gli si getta contro e lo morde al braccio, lui urla di dolore e scaraventa anche lei per terra cominciando a prenderla a bastonate sempre più forti. Mi alzo, provo a fermarlo, ma era troppo forte.
      Sento ancora le urla doloranti di Sasha» la sua voce si spezza, insieme a una mia calda lacrime a quel racconto «Mia madre si scaraventa contro di lui, provando a fermarlo ancora, ma lui continua con violenza, finché non sento le urla di Sasha cessare e le sue ossa rompersi sotto la mazza. Lui continua finché non la divide quasi in due parti. Mamma grida, io piango. Sasha era tutto per me, la mia amica, la mia sorellina, la mia seconda madre e lui me l’aveva uccisa senza rimorsi e solo adesso che la vedeva lì stesa, morta, con la neve intorno a lei colorante di un terribile rosso piangeva in preda al rimorso di quello che aveva fatto. Una rabbia si mescolava al dolore che mi bruciava dentro, prendo la mazza e inizio a picchiarlo violentemente, lui non reagisce, sapeva che aveva sbagliato, che si meritava una punizione esemplare, ma non potevo essere io ad infliggerla, sarei diventato un assassino peggio di lui e in quel momento volevo essere qualcosa il più diversa possibile da lui. Prendo la mia roba e me ne vado, mamma prova a fermarmi, ma sono troppo deciso, così vado da un mio amico di città che si trasferisce a Londra e parto con lui, trovo lavoro da voi e questa è la mia vita. Quella era l’ultima volta che vidi i miei genitori e Sasha, l’unico mio rimpianto è che non ho potuto seppellirla come avrebbe meritato, che non abbia salutato per bene la mia mamma e non aver ucciso quel bastardo»
      Asciugai in fretta le lacrime che erano cadute perché tutti erano stati presi dalla storia di Clark, troppo triste per essere raccontata senza una lacrima, e troppo importante per essere tenuta nascosta. Mi misi a pensare alla crudeltà del padre di Clark, si poteva essere così crudeli? Prima di quella storia ne dubitavo fortemente, ma adesso no e posso dire che mi trovavo molto meglio prima, quando non era a conoscenza di individui del genere. Era proprio vero, il mondo faceva schifo.
      «Mi dispiace» gli sussurrai.
      «Anche a me, volevo bene a quel cane, tanto. Era tutto per me e ancora oggi quando la ricordo mi viene da piangere» confesso.
      Violet parlò «I tuoi sono ancora…»
      «Vivi?» la anticipò «Beh, credo di sì, ma solo una merita la vita, l’altro. » preferì non continuare, ma era più che chiaro cosa intendeva.
      «Ma perché hanno litigato quella sera?» domandai.
      «Non lo so, loro non litigavano mai in quel modo»
      «È abbastanza strano, no?» commentò Dam.
      «Sinceramente, adesso, non me ne importa più di tanto»
      Questo si era capito.
      «Davvero non li hai più visti da quella volta?» gli chiese Phil.
      «No»
      «Perché?»
      «Credo sia chiaro» gli risposi io, ma Clark volle rispondere a modo suo.
      «Ogni momento rimpiango quel giorno, quando me ne sono andato. Penso e ripenso a mia madre. L’ho lasciata da sola con quel mostro che si ritrova come marito. Me ne sono andato come un codardo» disse con un tono troppo malinconico dal normale. Ce l’aveva a morte con se stesso.
      «Tutti avremmo reagito in quel modo, Clark» lo consolai.
      «Già, rimproverarti in quel modo non serve a niente» mi appoggiò Amy.
      «Grazie, ma non serve e niente, mia madre è sempre lì, da sola» continuò lui.
      «Lei non ti ha mai cercato?» mi sembrava troppo strano, se il sentimento era reciproco tra i due, la madre gli avrebbe scritto, o lo avrebbe chiamato, no?
      «Sì, mi scriveva» rispose.
      «Adesso non lo fa più?»
      «Lo faceva fino a due mesi fa, mi scriveva una volta a settimana, ma io non la rispondevo mai»
      «Perché?» intesi che allora era lui che non voleva avere contatti con la madre.
      «Perché non avevo niente da dirgli» si giustificò.
      «Che razza di scusa è?!» Amy la pensava come me.
      «Non credo che meritino il mio bene» continuò lui pacato.
      «COSA?!» stavo per dare di matto. Se non ci fosse stato quel muro a dividerci, gli sarei saltata addosso e lo avrei ucciso di pugni. Non avevo mai sentito parlare nessuno in quel modo dei propri genitori, mai sentito tanto disprezzo nella parola “papà”, mai sentito dire da un ragazzo cosciente “voi non meritate il mio affetto” ai propri parenti. La cosa mi scioccava non poco «Ti rendi conto di quello che stai dicendo?!»
      «Certo» quel tono indifferente mi faceva andare su tutte le furie!
      «E come fai a dirlo?»
      «Perché non avevano nemmeno una mia foto!» esclamò con furia facendoci tacere tutti. Anche quella era una cosa che mi scioccava non poco. Se quello che diceva Clark era vero –e non vedevo nessun motivo per cui lui doveva mentirci-, cosa aveva spinto i suoi genitori a togliere tutte le foto di lui dalla casa? Con quale coraggio lo avevano fatto? Io la vedevo come una cosa ripugnante, mi sarei sentita esclusa senza neppure una foto in casa mia. Adesso potevo anche capire l’odio che provava per i suoi genitori da dove veniva.
      «E tua madre non…?»
      «Lei si poteva dire che si comportava da madre, mio padre non era tagliato per quel “mestiere”» mi rispose «Faceva tutto tranne che comportarsi da padre con me. Mia madre, invece, era sempre affettuosa con me, mi consolava, scherzava con me, l’opposto esatto di papà» disse quella parole con lo stesso disprezzo di prima.
      «E tu non c’hai mai provato a parlare?» gli domandò Damon, poggiandosi anche lui con la schiena contro la parete che ci divideva dalla cella di Clark e Phil.
      «E cosa doveva dirgli? “Ehi papà, mi coccoli”?»
      Soffocai una risata.
      «No, certo che no, ma…» Damon non sapeva cosa dire, e lo capivo, capivo entrambi; l’argomento era molto delicato, ed era già molto se Clark lo stava condividendo con noi tutti; e poi, parlare con il proprio padre di affetto era molto complicato, e lo dicevo per esperienza.
      «Ma ne sei proprio sicuro? Non li vuoi proprio rivedere?» mi azzardai a chiedere.
      Non rispose subito, probabilmente stava pensando se farlo o meno, e che risposta darmi nel primo caso. Anche se li… odiava dal profondo –cosa che vedevo un po’ impossibile- non credevo possibile l’esistenza di una persona senza lo sguardo vigile dei propri genitori, senza le loro raccomandazioni, senza il loro affetto in generale. Per tutti noi sono pesanti, ma non potremo vivere senza, ne ero sicura.
      «Non lo so» disse in fine.
      «Andiamo, un po’ vorresti rivederli, no?» si intromise Violet, con il suo solito tocco. Sperai che non la rispondesse per una mia ripicchia.
      «Ve l’ho detto, non lo so» ripeté sicuro.
      «Sono i tuoi genitori, Clark, dovrai vederli prima o poi» aggiunse Phil «Al tuo matrimonio, per esempio»
      «Chi ha detto che li invito? E chi ha detto che mi sposo?» gli rispose subito.
      «Clark, non fare il cretino!» sapevo cosa aveva intenzione di fare. Quando un argomento, per lui, si tirava troppo al lungo, lui faceva battutine del pene per uscirne, ma non quella volta, non glielo avrei permesso «Fa il serio!»
      «Sono serio!» disse offeso.
      Alzai gl’occhi al cielo. Ero sicura che nemmeno il Signore in persona lo avrebbe sopportato per più di tre secondi.
      «Facciamo così!» lo spronai ad ascoltarmi «Quando torniamo a casa andiamo a trovare i tuoi, ti va?»
      Tutti intorno a me si zittirono, come se avessi confessato un omicidio. Mi vergognai all’istante con tutti quegli occhi puntati addosso.
      «Scordatelo» mi rispose lui. Era tornato con il tono pacato di prima. Incrociai le braccia al petto e sbuffai. Io volevo aiutarlo a riappacificarsi con i suoi, e lui che fa? Ci mancava poco che non mi ascoltava nemmeno. Damon di fianco a me iniziò a ridere della mia faccia e io lo rimproverai.
      «Piantala esercito immaginario»
      Tacque all’istante quando sentì le ultime parole. Sorrisi fiera.
      L’urlo di terrore di Violet ci fece congelare il sangue nelle vene a tutti. Ci voltammo tutti a controllare cosa gli fosse successo «Mi si è rotta la fottuta unghia! Dannazione! C’avevo messo mesi per farla crescere così!» assomigliava molto a mia cugina, e quando stavo con lei avevo un perenne istinto omicida verso di lei.
      «Silenzio lì giù!» urlò una voce proveniente dalle scale, forse quella di uno dei due di prima, gli uomini di Steve. Come aveva fatto Damon prima, tacemmo tutti all’istante a sentire quelle parole. Dei passi mi fecero fermare il cuore.
      Stavano venendo da noi? Perché?
      Arretrai di corsa, diventando quasi una cosa sola con il muro opposto alle sbarre.
      «Non fate scherzi o ve ne pentirete» aggiunse la voce.
      «Può bastare, grazie» lo fermò una voce che riconobbi come quella di Steve per poi farsi vedere, i capelli biondo pallido che erano una sorta di luce con lo scuro che comandava lì giù, ci squadrava tutti con attenzione, quasi stesse cercando di capire se avevamo davvero intenzione di fare qualcosa, cosa si aspettava da dei ragazzi rinchiusi in delle celle di chissà quanti anni fa, ancora dovevo capirlo.
      «Come va?» chiese.
      Nessuno rispose. A me suonava più come un insulto, volevo quasi sputargli in un occhio, forse mi avrebbe dato qualche soddisfazione.
      «Deduco che ce l’avete con me» aggiunse dopo qualche secondo di silenzio.
      «Ma lo fa apposta?!» farfuglia il più silenziosamente possibile a Dam, che si fece scappare un risolino divertito. Steve si accorse subito di noi.
      «Vedo che almeno qualcuno si diverte. Ne sono felice»
      «Come facciamo a divertirci chiusi qui dentro?!» esclamò Phil. Ma perché non stava mai zitto?
      Steve si avvicinò subito alla sua cella.
      «Come dici?» gli chiese con il suo solito fare calmo.
      Sperai che ci pensasse due volte prima di rispondergli ancora, ma ovviamente lui non lo fece.
      «Come facciamo a divertirci qui dentro secondo te?» domandò a sua volta.
      Volevo tanto stare in cella con lui, così almeno gli avrei tappato quella bocca. Il suo coraggio era forse da ammirar, ma molto stupido, non si rendeva conto che la sua posizione era in netto svantaggio rispetto a Steve? Io credevo di sì, ma a volte l’onore di un persone può uccidere la medesima persona. In quei giorni avevo imparato a metterla da parte, e non mi sentivo una codarda a non reggere lo sguardo di Steve, mi ritenevo “diversamente” coraggiosa, perché? Perché una persona per quanto coraggiosa, quando sa che il suo avversario è nettamente più forte di lui, non si ritira? Io dico di sì, a meno che non sia del tutto folle, come Phil.
      «Oh» fece Steve con tono malinconico «Tu sai che a me non me ne importa, vero?»
      Immaginai che Phil avesse acconsentito.
      «Bene» continuò Steve «Allora perché non stai al tuo posto, in silenzio?»
      «Ho semplicemente commentato la tua osservazione» si giustificò lui.
      Rise amaro «Commentato la mia osservazione? come sei fine»
      «Non so se prenderlo come un complimento o qualcos’altro» continuò Phil. Volevo tirargli due schiaffi così si sarebbe stato zitto forse.
      «Complimento, preferisco» gli suggerì Steve «Ma se vuoi considerarlo come tutt’altra cosa, non mi faccio problemi, tranquillo»
      «Grazie»
      Steve si voltò verso l’uomo che lo accompagnava «Portalo fuori» gli ordinò. L’uomo ciglio ordinò senza battere ciglio. In un secondo fu di fronte alla cella di Phil e Clark, scrutando nervosamente entrambi. Aprì la cella, entrò, afferrò Phil per il colletto bruscamente spingendolo con altrettanta grazia fuori, davanti ai piedi di Steve, che osservava beato del suo potere la scena.
      «Chissà a quanto sei capace di arrivare» gli dice. Caccia la pistola dalla sua cintura e lo fa alzare, gli punta l’arma alla tempia «Tu che dici? Se ti dico che adesso ti uccido, tu scappi?»
      «Non lo so» gli risponde.
      Steve ride sadico «Non lo sai? E chi dovrebbe saperlo?» si guarda in torno «Forse tu?» chiede puntando l’arma contro Damon, che resta fermo e lo fissa «Oh, Oh!» continua Steve «Abbiamo un altro nobile di cuore qui!»
      Chissà perché provavo un profondo odio verso quell’uomo, forse perché stava puntando la sua arma su tutti.
      Abbassa l’arma e spinge di nuovo Phil nella sua cella «Una banda di coniglie, ecco cosa siete» sputa.
      Uno dei suoi uomini, e Steve subito si para di fianco a lui puntandogli la pistola sotto il mento «Mi riferivo anche a voi» gli dice. L’uomo suda freddo, ma si rilassa non appena Steve abbassa l’arma. Si volta verso di me. Ho paura. Cosa vuole fare?
      «Susan! Come stai? Tutto apposto?» mi domanda.
      «Sì» rispondo, cercando di non tremare con la voce.
      «Sai, era proprio con te che volevo parlare» mi confida, chinandosi di fronte alla mia cella.
      «D… davvero?»
      «Sì, bella, proprio con te» aggiunge.
      «E cosa volevi dirmi?» gli chiedo. Ho sempre più paura, ma cerco di soffocarla.
      «Tu ti ricordi perché non ti ho uccisa –tu insieme a tutti gl’altri- prima, vero?» annuisco «Beh, vedi, mi ha appena contattato il capo e ha detto che tra 10 minuti sarà qui»
      Sbianco all’istante. Il loro capo sarebbe venuto per vedere me, per considerare se ero da uccidere o da lasciare viva. Il mio pessimista mi diceva che non avrei atteso quei dieci minuti per farmi uccidere da lui, sarei morta di infarto al momento.
      «Ehi? Cos’è, hai paura?» mi domanda con un sorrisetto.
      Mi riprendo subito. Sembrare deboli vuol dire essere deboli «No, no, sto bene»
      «Ok» mi risponde «Falla uscire» ordina alla guardia. Un momento? Nessuno aveva mai parlato di un discorso a quattr’occhi! La mia paura sale sempre di più, tremo quasi. L’uomo di prima apre la mia cella e mi afferra bruscamente per un braccio, facendomi uscire dalla cella e lasciandomi di fronte a Steve, che continua a sorridermi.
      «Non mi avevi detto che avrei dovuto incontrarlo» gli confesso timorosa.
      «Oh, non lo consideravo importante» mi rispose facendo spallucce «Andiamo?»
      Annuii malinconica. Lanciai uno sguardo veloce a Damon e Clark, entrambi aggrappati alle sbarre pronti ad uscire a fare chissà quale gesto eroico. Ringraziai il celo che quelle sbarre erano ancora trappo forti per essere spezzate da dei comuni mortali, altrimenti si sarebbero messi nei guai.
      L’uomo che mi aveva fatta uscire mi diede uno spintone per farmi camminare, e solo in quel momento mi accorsi che Steve era già diversi passi davanti a me che mi aspettava. Lo raggiunsi lentamente. Avevo più paura di un bambino di quattro anni che vedo La Bambola Assassina per la prima volta. I miei passi rimbombane nelle segrete del castello, e quella situazione dava molto “morto che cammina” che si usava nelle prigioni quando uno veniva giustiziato. La cosa mi mise ancora più paura. Dovevo finirla di auto lesionarmi con quei pensieri orrendi.
      Arrivai da Steve, che mi sorrideva ancora come un ebete, e la voglia di dargli un pugno cresceva sempre di più. Mi trattenni dal farlo nonostante fossi così vicina. Risalimmo le scale a chiocciola, ma non ci fermammo al corridoio principale, ne salimmo altri tre e ci fermammo in un altro corridoio lungo e largo quanto tutti gl’altri, con l’unica differenza che alla fine si poteva notare una grossa porta. Ci avvicinammo ad essa: Steve davanti a me, e i due uomini dietro, come se mi passasse la misera idea di scappare. Arrivammo alla grossa porta e notai che era in legno battuto come quella che permetteva di entrare nel castello, Steve la spalancò e capii subito il perché di quella grossa porta: essa dava nella sala del trono.
      La varcammo e restai subito di sasso alla vastità di quella stanza, i corridoi erano il nulla totale in confronto e mi meravigliai ancora di più nel pensare che nessuno lo avesse mai visto, nemmeno noi che eravamo sull’isola. Appena entrati, una serie di colonne ti conduceva a degli scalini che finivano con il grande trono di pietra con delle punte che uscivano sopra allo schienale. A me sembrava molto il trono di un sadico. Dietro di esso, una stanza circolare con un grande balconata che probabilmente dasa sul piazzale da dove eravamo entrati. La stanza era larghissima, più quanto il mio salotto che consideravo esagerato per una casa. Immaginai che lì, in quel castello, ci venisse a riposare la Regina Elisabetta quando era troppo stressata. Mi ricredetti subito: l’enorme stanza era piena di polvere e i tappeti che prima accompagnavano al trono ormai ne rimanevano solo dei miseri stracci, come le tende e i soprammobili, il trono era l’unica cosa ben salda in quella stanza – a parte le colonne, o almeno lo speravo.

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Capitolo 21
*** 20. Il Capo ***


20
Il Capo

      «Ti piace?» mi domandò Steve, riportandomi indietro dai miei pensieri.
      «È… grande» fu l’unica cosa che mi sensata che mi venne da dire.
      Steve rise alla mia risposta. Mi sentii quasi offesa. Non era bello essere considerate stupide, specialmente se a ridere di te era un tuo assalitore e rapinatore.
      «Sì, lo pensai anch’io appena la vidi» mi confessò.
      «Da quando sapete di questo posto?» osai chiedergli.
      Steve rimase per qualche secondo a fissarmi, forse a considerare se rispondermi o meno. Fece un cenno ai due uomini, che lasciarono la vasta sala e si chiusero l’enorme porta alle spalle. Adesso eravamo solo noi due: io e Steve. Sperai che non fosse un pazzo maniaco, ma almeno dal suo volto non lo sembrava. L’apparenza inganna, ricordatelo Susan.
      «Sono circa… due anni, sì» mi disse dopo aver fatto un calcolo mentale.
      «Due anni?!» sue anni e solo adesso –se le nostre deduzioni erano giuste- e solo in quel momento gli veniva in mente di pubblicare la scoperta. Subito pensai che avessero aspettato tutto quel tempo perché erano dei pazzi e aspettavano il momento giusto per uccidere qualcuno. Mi ricredetti subito: era troppo crudele anche per persone del genere.
      «Ci sono stati degli… imprevisti, ecco» mi disse lui.
      «Dovevano essere degli imprevisto davvero enormi per farvi rimandare una scoperta del genere» risposi. Mi tappai subito la bocca, aveva parlato troppo.
      Steve mi sentì ugualmente e mi scruto per qualche minuto buono. Cercai di sembrare il più normale possibile» Puoi ripetere quello che hai detto, Susan?» mi chiese infine.
      «Cosa? Non ho detto niente» fare la finta tonta non serviva a niente, lo sapevo, ma tentai lo stesso.
      «Susan, so che non sei un ebete» mi rispose lui con aria scocciata «forza, non farti costringere» continuò.
      «Ti ripete che non ho detto niente» cominciai a vagare persa per la stanza, cercando di nascondermi da lui dietro le colonne.
      «Hai detto qualcosa riguardo la scoperta di questo castello»
      «Ma allora hai sentito» gli dissi io «perché mi chiedi cose che già sai?» cercai di deviare il discorso su di lui.
      «Non cercare di imbrogliarmi, Susan» mi scoprì subito.
      «Beh» mi arresi «ho solo cercato di darmi qualche risposta sul perché di tutto questo» confessai indicando in generale la sala.
      «E cosa hai “dedotto”?» cercava di farmi confessare tutto.
      «Nulla di importante, o concreto» cercava di sviarla in tutti modi ma lui non dava segni di resa.
      «Me ne potresti dire una, per favore?»
      Wao! pensai Ha chiesto “per favore”, dev’essere proprio disperato.
      «Non credo ti interessino» gli risposi secca.
      «E invece mi interessa moltissimo» serrava i denti dalla rabbia, la cosa mi metteva paura, ma non volevo arrendermi.
      «Cosa hanno di tanto importanti le teorie di una prigioniera da farti perdere le staffe?» lo provocai. Sentivo dentro di me che da un momento all’altro sarebbe esploso e mi sarebbe saltato addosso.
      «Ti ho già detto che mi importa tantissimo» ripeté.
      «Io ti d’ho una cosa, e io te ne d’ho un’altra» giocai la mia carta, sperando che funzionasse.
      «Non sono in vena di scendere a compromessi» Steve si calmò, e io finalmente non dovetti più preoccuparmi di un suo assalto improvviso.
      «Io sì» dissi solo.
      Steve non rispose, non ebbi comunque il coraggio di guardarlo per paura che si fosse arrabbiato di nuovo, quindi continuai con il mio giro turistico nella sala del trono.  Dopo poco rispose.
      «E cosa vorresti in cambio?» mi chiese.
      Bella domanda!  Pensai, dato che non avrei mai pensato minimamente che avrebbe accettato. Pensai in fretta a qualcosa che mi interessasse davvero ma che non fosse troppo invadente e che quindi non avrebbe risposto di sicuro.
      «La verità» gli risposi. Forse era troppo invadente, ma mi sembrava corretto, o forse no.
      «Mi dispiace ma non posso dirtela» mi disse quasi fiero della sua risposa.
      «E perché?»
      «E perché tu non puoi dirmi la tua teoria?» mi chiese a sua volta.
      «Sai che è mal educazione rispondere ad una domanda con un’altra domanda? Comunque perché sono cose personali»
      «Anche le mie sono cosa personali»
      «Allora siamo pari» dedussi. Non capivo il perché non me lo volesse dire, insomma, lui voleva sapere tanto la mia teoria e io la sua, perché complicarsi la vita con questo giro di parole?
      «Non direi» disse lui.
      «Perché?» scommisi che adesso cacciava un’altra scusa per non dirmi la verità.
      «Perché la mia è verità, la tua è solo teoria» concluse con un alzata di testa, fiero.
      Dannazione! Aveva ragione.
      Tentai di cavarmela «Bene, allora visto che non ho niente con cui… contrattare, niente compromesso» sperai che la sua curiosità arrivasse a tanto da dipendere da una mia scelta.
      «Allora chiedi qualcos’altro» mi suggerì.
      «Non mi viene in mente niente»
      La sua rabbia stava per superare il livello del normale, avevo paura, ma valeva tentare, anche se molto probabilmente dopo che me lo avrebbe detto sarei morta per mano sua.
      «Ok» si arrese «ti dirò la verità, ma tu devi promettermi di rispondere a due delle mie domande»
      «Questo non è più un compromesso» gli ricordai. Mi aveva presa per scema forse? Eppure mi ero comportata per tutto il tempo da persona colta e civile.
      «Questa è la mia trattativa» disse soltanto, alzando di nuovo il mento in senso di superiorità. Odiavo già quel suo maledetto gesto.
      «Adesso siamo scesi alle trattative?»
      «Mi sembra giusto, dato che -ripeto-, la mia è la verità, la tua è soltanto teoria»
      «Allora sei anche essere intelligente quando vuoi» lo insultai in po’.
      «Modestamente» tenne allo scherzo, e mi meraviglia, poi continuò «Allora, ci stai?»
      «Prima, però, posso sapere perché ti importa così tanto della mia teoria?» già mi immaginai una sua risposta: “Un’altra tua domanda, un’altra anche a me” e saremo andati avanti così per l’eternità. Invece non fu così.
      «Premetto subito che non è per interesse del mio capo, solo mio» rispose.
      «E perché lo vuoi sapere così tanto?» la sua curiosità mi incuriosiva ancora più della sua.
      «Al capo di sicuro non interesserebbe, ma a me sì, vedi il nostro piano lo abbiamo studiato per bene in questi due anni e non vogliamo che nessuno ce lo rovini. Nessuno di noi, nemmeno il capo, si è preoccupato di chiedere a qualcuno, ma a me interessa sapere se almeno uno di voi ci è arrivato»
      «Arrivato dove?» volevo essere sicura.
      «A capire il nostro piano» mi rispose.
      «E perché questo al tuo capo non importa?»
      «Fa sempre parte del piano originale che nessuno deve sapere» mi fermò.
      Wao, non interessava al suo capo ma a lui sì, questo sì che per me era interessante. Mi avevano sempre affascinato gli intrighi, specialmente quando sembravano impossibili da capire come in quale caso.
      «Dev’essere ben organizzato il vostro piano se nessuno c’è mai arrivato» dedussi dalle sue parole.
      «Non vorrei vantarmi, ma. Sì, direi proprio di sì» mi rispose lui.
      A me sembrava proprio che si stesse vantando.
      «Ti pagano per fare questo? Per ucciderci?» mi venne da chiedergli.
      «Sì» rispose secco lui. La situazione mi sembrava ancora più orrenda: veniva anche pagato per fare quello che faceva, quindi era il loro capo che gli ordinava di farlo. Mi venne da chiedergli ancora un’altra cosa.
      «E a te piace il tuo “lavoro”?»
      «Direi di sì se lo faccio, non credi?»
      «Sì, infatti» le mie domande potevano sembrare stupide, ma la sua situazione mi quasi affascinava. Non era da tutti uccidere della gente per lavoro. Pensai che lo pagassero anche bene per quello che faceva.
      «È l’uomo che sta per arrivare adesso che ti paga?» altra domanda inutile. Poteva sembrare che stavo cercando di perdere tempo, forse perché speravo nell’arrivo del suo capo e quindi di non rivelargli più la mia teoria.
      «Donna» precisò «comunque no, non è lei il capo in assoluto»
      Adesso sapevo due cose: la prima, che il suo capo era una donna; la seconda, che quella donna non era il capo di tutto, ma soltanto di quella situazione, quindi la cosa si complicava ancora di più in un certo senso.
      «È davvero una donna il tuo capo?» mi veniva quasi da insultarlo.
      «Sì, ma non è proprio il mio capo, è una specie di superiore» mi confessò ancora. Pensai che fosse un vero e proprio tonto dato che mi stava rivelando tante delle sue cose.
      «E chi è il tuo vero capo?» osai chiedergli ancora.
      «Adesso stai chiedendo troppo, Susan» no, non era così tonto come credevo.
      «Oh, andiamo» lo pregai.
      «E stai prendendo anche troppa confidenza» osservò lui. In effetti era abbastanza vero: uno che ci vedeva, non poteva mai immaginarsi che lui fosse il mio rapitore.
      «E va bene, la smetto» mi arresi.
      «Che ne dici di saldare quel compromesso?» mi domandò.
      Sembrava frettoloso, che non vedesse l’ora di chiudere quel discorso.
      «Ok» risposi solamente «Prima tu»
      «No, prima le signore» mi incitò con un gesto della mano.
      «Adesso sei anche galante?» scherzai ancora.
      «Solo se sono di buon umore» mi corresse.
      «E adesso lo sei» non era una domanda.
      Stava perdendo la galanteria «Non vorrei perdere altro tempo» mi informo «Finiamo qui il nostro discorso. Dimmi quello che voglio sapere»
      «Va bene, va bene» mi arresi «Beh, visto tutto quello che è successo, ho pensato che voi ci volesse morti perché non volete che qualcuno di noi –ammesso che la fortuna lo accompagni- tornasse vivo a casa e rivelasse l’esistenza di quest’isola, ammesso che non sia già scritta su di una carta, ma io sono sicura di no. E poi c’è questo» indicai tutt’intorno a me «il castello. Di questo sono sicura che non è mai stato rivelato niente da nessuno, e che è quindi da definirei un reperto del tutto nuovo, visto che mio padre è esploratore e credo di conoscere abbastanza bene i castelli e roba del genere» conclusi.
      Steve rimase in silenzio, fermo a fissarmi ma con sguardo assente.
      «Ho indovinato?» gli chiesi stanca di quel silenzio.
      «Ci sei arrivata tutta da sola?» sviò la mia domanda.
      «Sì» mentii.
      «E non lo sa nessuno oltre a te? I tuoi amici lì giù?»
      «No» mentii ancora «Ho tenuto l’idea per me. Non volevo allarmarli»
      «Quindi credi di esserci arrivata?»
      «Di solito sono brava ad indovinare le cose» ennesima bugia, ma credevo che l’idea fosse giusta dato che c’era arrivato Phil e lui era molto colto.
      Steve si portò una mano al mento, con aria pensante. Io rimasi immobile. Da una parte, sapere che aveva ragione mi faceva un po’ felice: voleva dire che almeno una parte dell’intelletto di mio padre era arrivata anche a me; dall’altra mi faceva paura la teoria stessa, e non ero più tanto sicura che Steve volesse risparmiarmi ancora perché ero “carina”.
      L’attesa iniziava a tormentarmi, quindi lo sospinsi a darmi qualche risposta «Allora?» gli chiesi.
      «Allora cosa?» mi domandò di rimando lui. Aveva l’area di uno che era sceso dalle nuvole.
      «Ho ragione? La mia teoria?»
      «Purtroppo per me, hai ragione» mi rispose «e devo aggiungere che mi sorprende, te l’avevo detto: nessuno c’era arrivato fino ad ora, tu sei la prima. Non offenderti ma, sinceramente, non ci avrei mai scommesso a prescindere dal fatto che odio tuo padre» disse.
      «Ma grazie»» risposi scettica.
      Rise «Sì, è così» aggiunse poi.
      «E adesso? che succede?» la paura saliva di secondo in secondo, specialmente adesso che mi aveva rivelato che la nostra teoria era vera. Non vedevo l’ora di uscire da quella stanza, ammesso che l’avrei lasciata viva.
      «Credo proprio che dovrò ucciderti» mi rispose con una smorfia di finto dolore. Tremai al solo suono di quelle parole «Mi dispiace essere così diretto, ma non sopporto i giri di parole e poi, nessuno merita di essere preso in giro, soprattutto quando si parla della propria vita. Tu sai troppo, Susan. Per noi sei come una mina vagante che aspetta solo di esplodere e distruggere tutto»
      Il suo discorso non faceva una piega, ma mi rifiutavo di accettare la morte «Ma… ma non lo sa nessuno oltre a me, potrei tenere il segreto…» la voce iniziava a tremarmi.
      «Susan, non farmi perdere tempo, devo ucciderti per forza» mi bloccò per poi estrarre la pistola. La osservò tra le sue mani. Volevo scagliarmi su di lui, ma mi avrebbe ucciso ancora prima di darmi l’opportunità di difendermi in qualche modo. In qualche modo, benché non accettassi di voler morire, mi convinsi che ormai non c’era scampo. La mia luce che avevo tanto sperato di far brillare forte nel mondo si stava per spegnere per sempre.
      Poi, come un miracolo sceso dal celo per aiutarmi, la grossa porta della sala si mosse. Da dietro ad essa uscì una voce troppo, troppo familiare.
      «Tu non uccide proprio nessuno, Steve» disse zia Jasmine prima di entrare e chiudersi la porta alle spalle.
      Non sapevo se in me prevaleva il senso di felicità o di odio verso di lei. La felicità perché finalmente il mio dramma interiore se lei era sopravvissuta o meno era finalmente finito, e bene per fortuna; odio perché insieme al mio dramme, si era chiuso il caso dell’uomo che era dietro tutto quello che ci stava succedendo: mia zia.
      Non riuscivo a credere ai miei occhi, eppure ero sicura di non stare sognando perché altrimenti mi sarei svegliata, urlando dal terrore, non poteva che essere un terribile incubo. Tutta quella storia era un terribile incubo dove ero entrata e non sapevo più come uscirne, e adesso era diventato insopportabile da vivere, volevo svegliarmi, scendere giù in cucina e salutare tutti, andare a trovare mia zia Jasmine per essere sicura che non fosse davvero lei, che in quel momento era davvero un sogno e in realtà lei era a casa con suo marito e suo figlio. E invece, era tutto tremendamente vero, e faceva male, troppo per una persona comune.
      «Ciao Susan» mi salutò lei, con un ghigno stampato sulle labbra. Mi chiedevo con quale coraggio osava salutarmi dopo tutto quello che mi aveva fatto essendo oltretutto la sorella di mio padre.
      Non osai rispondere al saluta, ma gli mandai lo sguardo più tremendo che riuscissi a fare.
      «Beh, non saluti più la tua zietta?» ci scherzò su Steve, ridendo sotto i baffi. Io non ci trovavo proprio niente di divertente.
      «Tu? Sei tu il suo capo?» gli chiesi scioccata.
      «Ebbene, sì, Susan» mi rispose lei «sono proprio io»
      «C… come…?» la tristezza si sovrappose alla rabbia, e mi fece salire le lacrime agl’occhi, che chissà con quale forza divine, riuscii a trattenere.
      «Come ho fatto?» provò ad indovinare la mia domanda «beh, dipende cosa vuoi sapere di preciso»
      Spinsi via le lacrime definitivamente, e feci ritornare su la rabbia, ancora più furiosa di prima «Come hai potuto farmi, farci questo?» continuai con tono infuriato. Sapevo che mostrarmi arrabbiata non serviva a un bel niente, ma qualcosa dentro di me mi spingeva e riempirla di insulti accompagnati di buon grado da dei bei schiaffi, dritti sul volto così bello, che adesso non facevo altro che ripugnarmi disgustosamente.
      «Non riesco a cogliere il significato del tuo plurale, cara?» inclinò il capo, pensierosa. Secondo me era una falsa bella e buona, aveva capito benissimo a chi mi riferivo: alla famiglia. Sì, perché quell’affronto non lo consideravo diretto soltanto verso di me, ma con tutti quelli della nostra famiglia.
      «NON CHIAMARMI “CARA”!» sbottai.
      Entrambi sussultarono dalla spavento. Mi congratulai con me stessa per essere riuscita a mettergli paura, anche se più di tanta non credevo gli avessi fatta, dato che erano già tornati seri e scherzosi tra loro.
      «Non posso chiamarti più, come prima, Susan?» mi domandò lei.
      «No, non puoi» le risposi, stringendo i denti dal nervosismo.
      Mi scrutò per qualche secondo «E perché mai?»
      «Perché non ti considero più mia zia» gli risposi secca. Da una parte mentivo, dall’altra no.
      Risse goffamente «Non mi consideri più tua zia» ripeté le mie parole tra le sue risate. Steve si unì a lei, io rimasi ancora seria, incapace di sorridere, o anche solo di fare pensieri positivi. La vocina nella mia testa continuava a dirmi Uccidila, uccidili entrambi ed ero molto tanta dal farlo.
      Quando finalmente la smisero di ridere, mia zia, ancora sorridendo, si voltò verso di me e mi chiese «Mi odi anche se non sai quello che ho fatto?»
      «Riesco ad immaginarlo»
      «In effetti, la ragazza è molto sveglia, Jasmine» la informò Steve, anche lui sorridente.
      «Lo sapevo già» le rispose lei, poi tornò a me «E cosa credi che abbia fatto, Susan?»
      «Diciamo che ti ritengo necessaria degli sgradevoli avvenimenti accaduti qui sull’isola» le risposi io garbata.
      «Sempre colta e gentile, eh? Ti hanno educata bene i tuoi genitori» disse lei, scuotendo sorridente il capo.
      «Già, mia madre e tuo fratello» aggiunsi io. Lei alzò subito il capo, seria e stringendo i denti con forza. Era proprio lì che volevo arrivare: i sensi di colpa. Non ero sicura che avrebbe funzionato, credevo che ormai li avesse spersi tutti dopo quello che aveva fatto, eppure un minimo di umanità ce l’aveva ancora.
      «Non tirare in ballo la famiglia, Susan, qui si tratta di soldi. Solo e unicamente di soldi» esclamò Steve, pronto a difendere mia zia.
      Zia Jas alzò la mano per farlo tacere, continuando a fissare me «Vuoi arrivare ai sensi di colpa, nipote?» mi chiese.
      «Ti ho già detto che non ti considero più mia zia» ripetei con rabbia «E poi, forse se ci pensi un po’ su ci arrivi da sola, Jasmine» mi faceva ribrezzo anche mettere semplicemente la parola “zia” prima del suo nome.
      «Come ha detto prima Steve, è solo una questione di soldi»
      «Solo di quelli?» mi sembrava impossibile che una persona potesse mettersi contro la propria famiglia soltanto per arricchirsi.
      Ci pensò un secondo «Forse anche un po’ di fama» aggiunse poi.
      Mi sembrava ancora impossibile «Tu… tu ti sei messa contro di me, contro la tua famiglia soltanto per dei stupidi soldi –e credo, inoltre, che non te ne manchino-, e della fama?!»
      «Sì, penso di sì» sorrise maligna «E impara una cosa, Susan» aggiunse, chinandosi verso di me, come per rivelarmi un segreto «i soldi, non sono mai abbastanza nella vita»
      «Sei ripugnante» le dissi con quanto più sprezzo potessi aggiungere al mio tono.
      Il suo viso si contrasse dalla rabbia, ma si ricompose nel giro di qualche secondo «Lo sono, Susan, lo sono per davvero?»
      «Certo che sì!»
      «E allora lo sono tutti quelli di questo mondo, eh, Susan?» non capivo dove volesse arrivare «Tutti, tutti non desiderano altro che fama e soldi, sciocca!» aggiunse osservando la mia espressione.
      «Ma non credo esistano persone meschine come te, al mondo: che si mettano contro i propri parenti»
      «Credimi, ce ne sono!» mi corresse.
      «Allora sono tutti meschini e ripugnanti come te, Jasmine!» la insultai io. Mi stava salendo quel tipo di rabbia che difficilmente riesci a comprimere.
     «Era a questo che ti riferivi prima, vero’» mi domandò «ti riferivi alla famiglia. Volevi indicare questo con il plurale, non è così?»
      «Ma certo che mi riferivo a questo!» mi sembra molto più che ovvio.
      «Sappi che non ho un briciolo di sensi di colpa!» mi avvertì lei.
      «Ne ero certa» le risposi io.
      Il discorso aveva preso un piega violenta: dalla posizione che avevamo preso io e Jasmine, sembrava che ci stessimo per saltare addosso. Una parte abbastanza forte di me mi incitava a farlo.
      «Li hai uccisi tu, vero?» gli domandai.
      «Non so di cosa tu stai parlando» mi rispose lei.
      «Bugiarda! Li hai uccisi tu, hai dati tu l’ordine di uccidere tutti!» gli sputai in faccia quelle parole, sperando che il suo senso di colpa, che aveva prevalso anche prima su di lei, tornasse.
      Si rimise in posizione retta «Cosa te lo fa pensare?» mi chiese, ghignando. I sensi di colpa erano morti e sepolti.
      «Il fatto che tu sia il capo» anch’io mi rimisi dritta, opprimendo la violenza che mi bruciava dentro.
      Rise sonoramente. Stavolta Steve non si unì a lei. Un qualche modo ne fui grata.
      «Che io gli abbia dato l’ordine è un conto, che lo abbia fatto è un altro» mi rispose quando si riprese dall’euforia.
      «Il tuo discorso non ha senso! Loro li hanno uccisi perché glielo hai ordinato tu! Non lo avrebbero mai fatto se non fossero stati costretti!»
       «Loro non sono qui sotto mio ordine, lo sono per i soldi» mi informò lei.
      «E per stare ai tuoi ordini!» aggiunsi io malefica.
      «Nessuno li obbliga a farlo, sono liberi di andarsene!» urlò lei «Se non sai le cose, non provare ad indovinarle!»
      Mandai giù un insulto e imprecai «Le so le cose! Loro sono qui, pagati, sì, ma devono stare ai tuoi ordini perché glieli ha ordinati il tuo di capo!»
      Restò sbigottita dalle mie parole «Tu… come fai a saperlo?!» gli si leggeva in faccia che era terrorizzata e arrabbiata. Non capivo di cosa avesse paura.
      Ero indecisa se dirgli la verità o meno, ma poi decisi che non avevo niente da perderci e risposi «Me lo ha detto Steve»
      Si voltò lentamente verso di lui, ancora più terrorizzato di lei «Glielo hai detto tu, Steve?»  Scandì le parole una per una.
      Annuì tremante. Jasmine era ancora più nervosa di prima, e tramava dalla rabbia.
      «Ne riparliamo dopo» gli disse. Steve calò il capo dispiaciuto. Jasmine si rivoltò verso di me «Non so tu come abbia fatto a fartelo dire, ma ormai non mi interessa. Quello che è iniziato deve finire, non posso rischiare che tu rovini tutti il nostro piano, calcolato nel minimo dei dettagli per ben due lunghi anni. No, non puoi! Tu e tuoi amici avete ficcato il naso altrui, e questo non può, non deve succedere per nessuna ragione!» adesso iniziavo io ad avere paura di lei.
      Per chissà quale ragione, mi illusi che non mi avrebbe uccisa, dopotutto ero ancora sua nipote, mio padre era suo fratello, un briciolo di umanità gli doveva essere rimasto, non poteva essere cambiata a tal punto da odiare fino in fondo ogni singolo elemento della sua famiglia, non poteva essere diventato un mostro, affamato di soldi e fama, pronto a distruggere qualsiasi cosa si opponesse tra loro. Non poteva. Eppure, si avvicinava con paso deciso ma lento verso di me, pronta –e ne ero certa- ad uccidermi. Misi in funzione il cervello per cercare qualche via di fuga, ma era in sovraccarico per la notizia del capo di Steve. Mi sentivo la testa completamente vuota. Per quanto nelle mie parole avessi dimostrato di provare odio profondo verso di lei, di avergli sputato in faccio il mio ribrezzo verso di lei, sperai, pregai che non volesse per davvero uccidermi.
       Mi afferrò per il collo, stringendo sempre di più la presa. Non riuscivo a muovermi, la paura aveva preso il controllo assoluto di me, e la mente affollata dalla sorpresa e dalla delusione non riusciva a calcolare la più misera delle vie di fuga.
      Mi mancava l’aria.
      Decisi di reagire, in qualche modo dovevo pur provare a reagire. Ero sopravvissuta fino a quel punto, e adesso mi facevo uccidere dalle mani nude di mia zia?
      Cercai di ricordare qualche tecnica di autodifesa insegnatami da mio padre. Benché il cervello completamente scollegato, me ne ricordai una, banale, ma efficace a quanto ricordassi. Gli sferrai una ginocchiata dritta allo stomaco quanto più forte possibile. Jasmine si piegò in due dal dolore e lasciò la presa, facendomi cadere al suolo, tossicante. Mi rialzai, debole, e con tutta l’energia rimastami in corpo, gli tirai una gomitata sulla schiena. Lei si stese atterra, immobile, probabilmente svenuta.
       Tirai dei respiri profondi, fiera di quello che avevo fatto. Ma mi potei riposare ben poco: Steve mi afferrò per la gola anche lui dalle spalle. Mi divincolai, impaurita. Cercai di lanciargli qualche gomitata anche a lui, fallendo miseramente.
      Cercai qualche appiglio lì vicino. Trovai una trave caduta dal soffitto e colpii violentemente Steve, che mi lasciò subito. Mi ripresi e continuai a colpire con la trave di legno la sua schiena, finché anche lui non si stese immobile al suolo. Mi guardai in giro circospetta, osservando con cura il luogo e controllando la presenza di altri nemici. Nessuno. Mi sedetti per terra, lontano da Jasmine e Steve a riprendere fiato.

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Capitolo 22
*** 21. Fuga ***


21
Fuga

      Non potevo credere di averlo fatto per davvero. Non credevo di essere capace di mettere al tappeto due persone e uscirne –quasi- inerte. Nel bosco, quando avevo ucciso quell’uomo, era stato diverso: lì era qualcun altro a reagire, io ho solo tirato il colpo di grazia per lasciar sopravvivere me e Clark. Era stato necessario. In queste circostanze, invece, ero io, sola contro loro due, disarmata ma uscita ugualmente viva. Ma solo qualche minuto dopo mi resi conto per davvero cosa aveva comportato quel gesto: ero libera, potevo, potevamo scappare via da lì e nasconderci.
      Quando mi fui ripresa completamente, mi rialzai. Mi avvicinai alla grande porta, e poggiai l’orecchio contro il suo legno vecchio, in ascolto di qualche rumore all’esterno della sala. Niente. Questo voleva dire via libera. Aprii con cautela il portellone, sbirciai fuori: non c’era nessuno. Bene. Uscii e, in unta di piedi, mi avvicinai alla scala a chioccola. Mi sporsi per capire meglio dove fossero i due uomini. Pensai ovvia che fossero giù nelle segrete, a controllare i miei amici. Mi guardai intorno, mettendo in moto il cervello. Posai lo sguardo su una statua rovesciata al suolo, con la lancia caduta a pochi metri da lei. Mi serviva un’arma per difendermi nel caso mi fossi trovata in una situazione di emergenza. Sgattaiolai silenziosa verso di lei e la raccolsi da terra. Non era pesante come immaginavo, e in più era anche abbastanza facile da maneggiare.
      Tirai dei profondi respiri prima di avvicinarmi alla scala. Quei due uomini potevano essere armati, e io cos’avevo per difendermi? Una lancia di quasi cent’anni fa di qualche centimetro di spessore e chissà se resisteva ad un forte impatto.
      Armata di un coraggio di cui non capivo la provenienza, scesi cauta le scale a chiccola, analizzando ogni singolo gradino ed evitando anche il più piccolo, insignificante rumore. Arrivata al piano di sotto, non trovai nessuno, e mi rilassai un pochetto. Continuai a scendere stringendo forte l’arma tra le mie mani tremanti. Se avessi ancora la pistola con me pensai malinconica. Non ero mai stata amante delle armi, ma dovevo ammettere che in situazioni del genere servivano eccome.
      Al piano sottostante non trovai ancora nessuno, come per gl’altri tre. La cosa iniziò a farmi un po’ strana. Dov’erano andati a cacciarsi quei due? Se erano scesi entrambi nelle segrete dovevo metterli K.O. entrambi, e non ero molto sicura di poterci riuscire.
      Scesi ancora le scale, e mi bloccai di colpo –evitando per poco una caduta non poco rumorosa- quando vidi uno dei due uomini fermo proprio di fronte al termine delle scale per scendere al piano terra. Dovevo stenderlo per forza se volevo scendere nelle segrete e aiutare i miei amici. L’altro non era con lui, e la cosa complicava di molto la situazione: dovevo scendere, metterlo fuori gioco, e scendere, il tutto senza fare il più minuscolo dei rumori. Contai fino a tre prima di agire.
      Uno.
      Pianificai di dargli una botta ben assestata alla testa, così si sarebbe steso atterra completamente fuori gioco.
      Due.
      Avanzai silenziosa sugli scalini, trattenendo il fiato per paura che potesse sentire anche quello. Neanche fosse Superman!
      Tre.
      Strinsi forte la lancia tra le mani, la alzai in aria, pronta a colpire forte. Piazzai con la mia mente un punto rosso sulla testa dell’uomo, proprio dove avevo pianificato di colpirlo. Un respiro profondo e… bang! L’uomo cade atterra senza sensi. Ringrazio il celo per aver fatto andare tutto secondo i miei piani. Mi chino, chi stacco il mazzo di chiavi dalla cintura e me la metto in tasca.
      Mi voltai per controllare che nessuno mi avesse visto. Niente, il corridoio era vuoto. Continuo a scendere piano per le scale. L’oscurità delle segrete inizia a farsi spazio sugli scalini, e con loro, io. Mi affacciò per controllare se ci fosse l’altro uomo, ma non c’era nessuno. Tirai un sospiro di sollievo. Scesi rapidamente –ma con altrettanto silenzio- il resto degli scalini, cacciando dalla tasca il mazzo di chiavi e correndo verso Phil, Clark, Violet, Amy e Damon.
      «Ragazzi!» li chiamo con entusiasmo, felice di essere riuscire ad arrivare fin lì, essere riuscita ad arrivare a salvarli.
      «Susan?» li sento chiedersi tra loro «Susan? Sei tu?» vedo le braccia di Clark divincolarsi e sporgersi per controllare se fossi davvero io.
      «Sì, sono io, ma state zitti» non mi dimenticai dell’uomo che non avevo steso.
      Mi avvicinai alla cella di Amy e Violet, che mi guardavano stupite mentre cerco tra il mazzo la chiave giusta, ma mi tremano fortemente per l’emozione e la paura di essere scoperta, e mi cadono. Le riprendo svelta e continua la mia ricerca senza sosta.
      «Susan, come hai fatto a scappare?» mi domandò Phil.
      «Ho steso Steve, uno dei due uomini e Jasmine» li informai.
      «Jasmine? Tua zia?» mi chiede sbalordito Clark.
      «Sì, proprio lei» rispondo, nascondendo il più possibile la tristezza nella mia voce «Il capo, il responsabile di tutto questo è lei. C’era lei dietro fin dall’inizio»
      Finalmente trovo la chiave giusta, e faccio uscire Violet ed Amy dalla cella che esultano dalla felicità.
      «Shhh!» le fermo «Non ho trovato l’altro uomo, è ancora in giro per il castello chissà dove. Non dobbiamo farci sentire»
     Si zittiscono subito e io mi scaglio contro la cella di Damon. Per mia sfortuna, le serrature sono diverse l’una dall’altra. Impreco, e mi tuffo in un’altra ricerca per la chiave giusta.
      «Li hai stesi tu?» mi chiese ancora Clark.
      «Sì» rispondo svelta.
      «Wao!» sento esclamare Damon «Hai capito la nostra Susan? Prima ammazza un lupo affamato, poi un uomo, e poi mette fuori gioco sua zia e Steve, più un uomo come bonus!»
      Sorrido e finalmente apro anche la sua di cella.
      «Grazie» mi dice.
      «Non c’è di che» gli rispondo sorridendo.
      Damon corre ad abbracciare Violet, io mi cimento alla ricerca della chiave della cella di Phil e Clark, ma tutti siamo interrotti da una voce al piano superiore.
      «Roth?» chiede la voce «Roth, hai visto la mia bottiglia d’acqua? Roth?»
      Era l’atro uomo, non lo avevo visto perché era chiuso in una delle stanze a pranzare o qualcosa del genere. Mi rimetto alla ricerca della chiave giusta, più svelta di prima con un’ansia addosso che mi opprimeva sempre di più.
      «Sbrigati, Susan!» mi incitò Amy.
      «Ci sto’ provando, ci sto’ provando» mi lamento. Le mani mi tremano sempre di più, quasi non riesco a muoverle dal tremolio.
      «Roth?! Oddio, Roth! Oddio, stai bene? Roth, rispondimi!» sento esclamare la voce dal piano soprastante.
      «Dannazione!» esclamò Damon «Se n’è accorto!»
      «Cazzo!» esclamo. Provo con foga tutte le chiavi nella serratura, quasi le spezzo con la violenza che ci mettevo. Perché non usciva quella maledetta chiave?
      «Muoviti!» esclamò Violet.
      «State zitti!» sbotto.
      «Susan, non vorrei metterti ansia, ma andiamo abbastanza di fretta» dice Phil.
      «Non ti ci mettere anche tu!» lo rimprovero.
      «Chi c’è? Chi è stato?» sento la voce dell’uomo sopra di noi»
      «Susan, dobbiamo andare!» dice Amy.
      «Non li lascio qui!» mi voltai a rispondergli. Nessuna delle chiavi che avevo provato fino in quel momento era quella giusta, e un pessimismo incredibilmente grande si prese possesso di me.
      «Susan» mi chiamò Clark. Non gli dò ascolto, continuo a provare «Susan!» mi richiamò ancora, stavolta bloccandomi le mani e costringendomi a guardarlo «Devi andare, non ti preoccupare per noi. Tu va!»
      «Non vi lascio qui!» esclamo.
      «Lasciaci le chiavi» mi suggerì Phil «Le nasconderemo per bene, e quando potremo proveremo ad aprire noi la cella. Voi andate»
     Era un’ottima idea, ma non mi sentivo di lasciarli lì da soli. A malincuore, gli porgo il mazzo, loro lo prendono e lo nascondono sotto qualcosa a cui non feci caso. Clark mi stringe la mano, guardandomi intensamente negl’occhi «Sta’ attenta» mi dice. Annuisco.
      «Susan!» mi richiamarono.
      Clark mi lasciò la mano «Va!» mi dice. Combattendo contro me stessa, corro insieme agl’altri verso la scala, lontano da Clark e Phil. Ci fermiamo prima di salirci. Damon si sporge per controllare che non ci fosse nessuno. Si incammina sulla scala a chioccola e ci fa cenno di seguirlo. Silenziosi, camminiamo come un’unica cosa. Amy mi stringe la mano. Gli sorrido, cercando di essere il più incoraggiante possibile.
      «Aspettate!» ci ferma Dam con la mano. Ci fermiamo tutte di scatto.
      «Che succede Damon?» gli chiedo io, la più vicina a lui.
      «L’uomo sta controllando ogni stanza» mi avverte. Sente Violet, infondo alla fila, gemere di paura «Dobbiamo aspettare»
      Fantastico! Come se non fossimo già nei guai dovevamo anche aspettare che quello finisse il pattugliamento!
      Mi voltai verso le segrete. Clark e Phil stavano provando ad aprire la cella, forse ce l’avrebbero fatta, avevano ancora tempo, e noi potevamo aspettarli ancora per non so quanto. Sperai con me stessa che ce la facesse, che non dovevamo sperarci per forza, ma la voce di Dam davanti a me, infranse i miei sogni.
      «Via libera» disse «muoviamoci!»
       Una alla volta uscimmo, entrando nel corridoio. In lontananza vedemmo il portone mezzo aperto. La fortuna iniziava a girare dalla nostra parte finalmente. Dell’uomo non c’era più traccia, non lo sentivamo nemmeno più; invece, l’uomo che doveva chiamarsi Roth era ancora steso al suolo senza sensi. Continuavo ad alternare lo sguardo timoroso tra le scale, le nostre spalle, e la grossa porta. Steve e Jasmine potevano essersi svegliati, e l’uomo poteva essere andato a controllare più infondo al corridoio o poteva essere uscito fuori per tenderci un’imboscata.
      Scale. Spalle. Porta. Scale. Spalle. Porta.
      Camminavamo in punta di piedi. Dentro di me continuavo a sperare che Clark e Phil ce la facessero ad uscire da quella cella e a raggiungerci.
      «No, cavolo!» sentii esclamare da Dam. Alzai il capo verso di lui e seguii il suo sguardo alle nostre spalle: l’uomo stava controllando le ultime celle e ci dava le spalle, ignaro della nostra fuga.
      «Infiliamoci in una stanza!» suggerì Amy. Ottima idea. Correre fino alla porta era impossibile. Prima di tutto, ci avrebbe sentito e sparato a vista, e poi era troppo lontano per arrivarsi in punta di piedi prima che l’uomo si accorgesse di noi. In completo silenzio, Damon ci fece passare: prima io, che sgattaiolai di corsa del buco ancora più scuro delle segrete, seguita a ruota da Amy.
      «Fermi!» sentii urlare una voce. Capii che l’uomo si era accorto di noi e imprecai sonoramente.
      «Dannazione!» sbottò Damon.
      Prima che Violet potesse infilarsi nella stanza, un colpo di pistola la raggiunse, colpendola alla gamba e facendola stendere attera con un urlo straziante di dolore. Damon si chinò subito di fianco a lei per aiutarla a proseguire.
      «No!» urlò Amy, scattando anche lei verso Violet.
      «Entrate dentro! Portatela dentro!» gli urlai.
      Non potei finire di parlare che un colpo di pistola rimbombò nella stanza, mancandoli per fortuna. Subito Dam la trascinò dentro, riparandola dagli spari.
      «Dobbiamo eliminarlo!» disse Dam, già pronto ad uscire dalla stanza buia.
      «No!» lo bloccai «Lui è armato, ti ucciderebbe subito senza darti la possibilità di difenderti!»
      Dam parve pensarci seriamente, poi spostò il suo sguardo su Violet, che cercava di trattenere i gemiti di dolore «Dobbiamo trovare un modo per uscire, allora» disse.
      Un piccolo raggio in fondo alla stanza mi fece voltare. Ebbi un barlume di speranza. Nell’angolo più oscuro, le mura erano ammuffite completamente, mancava poco e avrebbero ceduto. Tirai qualche calcio al muro, con quanta più potenza potessi metterci. Il muro cedette, lasciando spazio ad un buco abbastanza largo da poterci passare tutti. Cercai di allargarlo il più possibile. Ricordai che ci trovavamo alla quinta stanza sulla fiancata sinistra del corridoio, non sapevo perché volessi ricordarlo così intensamente, ma sentivo dentro di me che ci sarebbe stato utile.
      «Dam, prova a passarci» era il più grosso tra tutti, se ci fosse passato lui, tutte ci saremo passate senza problemi.
      «Io non lascio Violet qui!» obbiettò lui.
      «Damon devi farlo! È la nostra unica via d’uscita!» lo incitò anche Amy.
      Scosse il capo violentemente «No! Scordatevelo!»
      «Verremo subito dopo di te, sta’ tranquillo!»
      Ci pensò su qualche secondo che mi parve interminabile, poi si alzò e si avvicinò al muro forato. Si sedette, facendoci passare prima le gambe e poi scivolandoci completamente dentro. Scomparve oltre il buco luminoso.
      «Damon? Damon?» lo chiamai. Non rispose. Mi preoccupai. Avrei dovuto controllare prima dove portava quel buco, non avrei mai dovuto farlo entrare senza aver prima controllato.
      «Vado a vedere dov’è andato» disse Amy «tu resta con Violet. Ti mando un urlo per farti capire se è sicuro»
      «E se…»
      «Non preoccuparti!» mi bloccò lei «Pensa a sbrigarti quando arriva il segnale, ok?»
      Annuii.
      Si chinò anche lei come Damon, e scivolò nel foro senza lasciare traccia. Mi avvicinai Violet, sperando che ci fosse ancora tempo per Clark e per noi.
      «Dove sono andati?» mi chiese ansimante Violet.
      Non sapevo cosa rispondergli «A trovare una via d’uscita» dissi infine.
      «Ok, venite!» sentii urlare Amy. Tirai un sospiro di sollievo e mi sporsi per far scendere prima Violet.
      «No» mi fermò lei «Vai prima tu»
      «Cosa?! No, devi andare prima tu, io sarò subito dopo di te, te lo prometto!»
      «No!» insistette lei «Vai, se mi vede farò finta di essere morta. Ti seguo non appena scendi»
      Provai a ribattere, ma Violet mi sospinse ad andare per prima. Mi chinai, ansiosa se quella fosse per davvero la cosa giusta, e mi diedi una spinta prima di lasciare quella stanza buia.
      Capii subito perché non avevo sentito niente dopo che sia Damon che Amy si erano buttati: appena lasciata la stanza, caddi nel vuoto, atterrando pochi secondi dopo sul terreno ripido del bosco. Scivolai senza controllo finché il terreno non ripreso un livello normale. Amy e Dam erano lì e mi aiutarono ad alzarmi.
      «Dov’è Violet?» mi chiese subito Dam.
      Mi voltai e alzai lo sguardo verso l’altro. Riuscivo a vedere il foro della stanza sulle grandi, enormi mura del castello. Dal buco spuntarono le gambe di Violet, ma non capii perché non si muoveva a scendere. L’ansia iniziò a pervadermi.
      E se gli era successo qualcosa? Dovevo farla scendere per prima, avevo sbagliato a darle ascolto, mi ero comportata solo come una sporca egoista.
      Tutti ci calmammo quando vedemmo finalmente per intera Violet buttarsi e scivolare sul terreno. Il sollievo non durò molto: dal modo in cui scivolava, completamente senza controllo, come un sacco vuoto, significava che qualcosa non andava.
      Avevo ragione.
      Lanciai un urlo di terrore quando vidi il corpo di Violet steso di fronte a me, con un foro d’arma da fuoco dritta nello stomaco. Amy si voltò per non dare di stomaco. Io e Damon ci chinammo a controllare se ci fosse almeno qualche speranza, ma il corpo di Violet non reagiva a nessuno stimolo, anche il più forte.
      «Violet! No! No, no!» urlò Dam, la voce rotta dal pianto.
      Provai a consolarlo, cingendogli le spalle con un braccio. Lui mi respinse con violenza.
       «No!» urlò ancora più forte di prima «Non è morta! Non lo è!» poi si chinò sul corpo ormai senza vita di Violet, alzandola dal suolo e abbracciandola stretta a sé.
      Mi tenni a distanza. Non volevo rovinare –per quanto triste e orrendo- quel momento. Mi avvicinai ad Amy, china su se stessa, lottando fortemente contro il suo stomaco per non vomitare.
      «Stai bene?» gli chiesi?»
      «Sì, tutto apposto» mentì. Si vedeva dal volto, pallido quasi come la neve, che non lo era.
      «Non guardare» gli suggerì. Io mi voltai: Damon era ancora abbracciato, in lacrima, alla sua amata ormai morta. Mi sembrava così strano che un uomo forzuto e grosso come Dam potesse piangere, sapevo che non era un mostro senza cuore, che tutti potevano e dovevano piangere nella vita, ma non riuscii a non guardarlo con un pizzicò di curiosità. Violet sarebbe mancata a tutti, ma mai quanto lo sarebbe stato per Damon.
      Provai ad immaginare la situazione se fosse successo con me, che al posto di Violet ci fosse stato Clark.
      Rabbrividii.
      Era una sensazione che non auguravo a nessuno anche al più perfido degli egoisti, e mi faceva tanto male pensare che quell’orrenda sensazione potesse essere provata da un mio amico. Non provai ad abbracciarlo, avrebbe reagito come prima: respingendomi. Era il tipo che non si arrendeva, che se intraprendeva un viaggio non lo mollava finché non era arrivato al suo scopo; era il tipo che non accettava perdere, che era disposo a violare le leggi della fisica per far cambiare una scomoda verità in una dolce bugia. Era quello che stava facendo in quel momento con Violet: la stava abbracciando, benché già morta, convinto che quello potesse essere solo uno stupido scherzo della sua ragazza, che quello era solo un tremendo incubo. Non era disposto ad accettarlo nemmeno fra cent’anni. Perché quello era il suo carattere, e a me, a tutti andava bene così com’era. Soprattutto per Violet. Gli sarebbe servito tempo per accettare che una persona così speciale per lui lo aveva lasciato, o almeno io avrei fatto così.
      Con molta probabilità, quella notte sarebbe restato abbracciato alla sua fidanzata, non si sarebbe arreso finché non glielo avrebbe detto qualcuno. Io non lo avrei fatto. Avrei preferito aspettare che si riprendesse per un giorno intero, per una settimana, anche per un mese intero, ma mai, mai gli avrei dato una notizia così tremenda.
      Io ed Amy ci sedemmo a riprenderci dal dolore che ci aveva travolti tutti. Damon continuava a piangere ed abbracciare Violet.
      Chissà se anch’io avrei reagito in quel modo, se anch’io avrei continuato ad abbracciare Clark. Quell’orrenda sensazione si fece di nuovo spazio nella mia mente, e preferii non pensarci. Faceva già abbastanza male vederlo su una tua persona cara.
      Voltai il io sguardo sulle mura del castello, al foro della stanza. Chissà se Clark e Phil erano riusciti a scappare. Se non erano ancora usciti, era molto probabile di no. E se l’uomo si era accorto che avevano le chiavi? Se aveva deciso di punirli nel modo in cui aveva punito Violet?
      Mai come in quel momento provai la sensazione di voler morire, di accettare io la punizione al posto su. Era quello che si chiamava amore? Era quello che si intendeva per “voler morire al posto della persona che ami”? credevo proprio di sì, e non ne ero per niente imbarazzata. Era una cosa bellissima voler compiere quell’atto per qualcuno a cui davvero tieni con tutto te stesso.
      Avrei accettato di morire per salvare la vita a Clark.

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Capitolo 23
*** 22. Piccola Luce ***


22
Piccola luce

      Quello che avevo pensato su Clark, era vero, ma in quelle circostanze era del tutto inappropriato: pensare ai miei progetti d’amore mentre un mio caro amico stringeva a sé il suo di progetto d’amore, era da egoisti. Mi rabbuiai subito.
      Damon dopo circa mezz’ora di pianti si era deciso a lasciar andare Violet e convincersi che ormai non c’era più. Io ed Amy corremmo subito a consolarlo. Potevamo solo immaginare quello che gli era successo, ma entrambe speravamo che non ci sarebbe mai successo ad una delle due, o ad entrambe nel peggiore dei casi.
      Sia io che Amy appoggiammo l’idea di Damon di celebrare a Violet un vero funerale, o almeno qualcosa che si avvicinasse a lei. Tutti volevamo che venisse portata a Londra, a casa sua, e che venisse sepolta nella sua città, non in quello schifo di isola dimenticata persino da Dio in persona. Questo, ovviamente, valeva per tutti quelli che, sfortunatamente, avevano perso la vita lì, compreso Harry. Ma, purtroppo per noi, quello era impossibile. Non sapevamo nemmeno se noi saremo tornati a casa, in qualsiasi stato: vivi o morti.
      Impiegammo tutto il pomeriggio per scavare una fossa per Violet. Io ed Amy decidemmo –per la troppa fatica mai recuperata sull’isola- di darci dei turni di circa mezz’ora tra l’una e l’altra. Dam non accettò di farlo con noi, scavò per tutto il pomeriggio, fermandosi solo per asciugarsi qualche lacrima che scendeva automaticamente.
      Mi faceva tanta pena. Ma non quelle pene che si hanno per i completi idioti, no, per lui provavo quella pena che ognuno di noi –se armato di cuor nobile- provava a vedere un barbone, un vagabondo, e quella voglia di volerlo aiutare con tutte le nostre forze viene rispinta indietro perché, dentro di noi, sappiano che anche volendo, non possiamo farlo perché non ne abbiamo la possibilità. Ecco, quella sensazione orrenda, terrificante mi prevalse per tutto il pomeriggio e non andò mai via.
      Era strano dirlo, ma i battibecchi con Violet mi mancavano, mi mancava anche insultarla quando si scuoteva i capelli al vento consapevole della sua bellezza; mi mancava vederla saltare di paura quando vedeva un cervo, o anche un uccello che gli volava a un metro dalla testa. Anche se mi faceva irritare il suo comportamento, stranamente, mi faceva anche divertire. Mi mancava in generale, e se la sua perdita mi faceva tanto male, non volevo nemmeno pensare a quale dolore era sottoposto Damon. Rabbrividii. La perdita di Harry mi aveva già scavato una voragine nel petto, quella di Violet, la aveva allargata ancora di più, e non ero sicura di poter sopportare altre perdite. Quell’isola si era già presa troppe vite, e io era stanca di tutto quel dolore. Mi sentivo come in colpa per averli condotti tutti lì, alla morte, benché io non centrassi un bel niente, eppure non potevo fare a meno di pensarlo. Un sentimento altrettanto forte era la rabbia. Volevo poter fare qualcosa, anche solo per i miei amici, ma non potevo fare niente, e continuavo a sentirmi in colpa senza sapere il perché.
      Perché? Perché mi sentivo così in colpa? Non era mica colpa mia se la Starlight era affondata. Forse… forse mi sentivo in colpa perché la nave era di mia…
      Capii di colpo il perché.
      Come aveva fatto a scordarmi di quel particolare? Forse era stato il dolore provocato dalla perdita di Violet, o forse la paura di poter perdere anche Clark perché non era riuscito a fuggire. Fatto sta, che ero sapevo perché mi sentivo in colpa: Jasmine.
      Lei, quella che non riuscivo neppure più a chiamare “zia” perché mi provocava troppo ribrezzo; lei, la sorella di mio padre. Lei. Mi aveva voltato le spalle come nessuno aveva mai fatto prima. Una cosa del genere potevo aspettarmela persino da mio nonno Victor, ma non da lei, che mi veniva a trovare sempre quando tornava da una sua nuova escursione portandomi sempre nuovi souvenir, raccontandomi ogni cosa io volessi sapere, lei che mi aveva imparato che non ci si poteva fidare mai di nessuno se non ci si è davvero convinti di quella persona. Era quello il suo esempio? Mi aveva avvertita e poi mi aveva colpito alle spalle. Un colpo davvero basso, da fare invidia persino al Diavolo in persona. Ma non l’avrei personata, nossignore.
      Era per colpa sua se in quel momento stavo lì, ad osservare Damon che poggiava in lacrime la sua amata in una fossa scavata a mano in quella squallore di isola. Quando il suo corpo, senza vita, toccò il suolo, decisi che non ci avrei pensato, non in quel momento. Quel momento era dedicato solo a Violet, non ad una persona sporca, egoista e meschina.
      Era dedicato a lei.
      Damon si rialzò, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano e tirò su col naso. Poi spinse con entrambi il cumulo di terra accanto alla fossa su Violet, coprendola per sempre. I funerali era sempre un doloroso addio, ma nessuno poteva essere più doloroso di quello: una ragazza giovane, bella, che aveva deciso di salire su quella maledetta nave soltanto per uno stupido capriccio, e adesso non c’era più. C’eravamo noi, a piangerla. Chissà se lo provavano per davvero gradimento nel spezzare la vita a delle persone e il cuore da altre. Forse sì, forse no. Restava il fatto che ormai lo avevano fatto, avevano spento un’altra piccola, forse insignificante luce tra le tante della terra che, insieme, illuminava l’intero universo; che facevano strada a chi si era perso, che aiutava a chi aveva bisogno di sostegno. Il mondo aveva perso una piccola luce, unica, introvabile, rarissima, che non avrebbe avuto mai più perché le nuvole nere la avevano coperta per sempre. La sua luce si era spenta, ma il suo ricordo no, sarebbe rimasta nelle nostre menti per sempre, nessuno di noi si sarebbe mai permesso di farlo. Lei era una piccola, ma importante parte di noi. La conoscevamo da poco, ma quella piccola avventura catastrofica aveva fatto sì che si creasse un gruppo compatto, che si formasse un insieme di persone che si univano per sopravvivere, che insieme formavano una grande luce, un'unica persona forte, coraggiosa, divertente. Ma, purtroppo per noi, quell’isola stava spegnendo man mano ognuna delle piccole luci, come una grande, immensa ombra, rischiando di spegnere quella più grande, quella più luminosa: noi.
      Ma non sarebbe successo. Sentivo dentro che non ci saremo fermati, non avremo smesso di lottare, anzi, saremo stati ancora più agguerriti per poter scappare da quell’isola e portare il nome nelle persone che avevano combattuto per la propria esistenza e che, purtroppo, non ce l’avevano fatta. Lo avremo fatto per tutti loro, soprattutto per Harry ed Violet, perché avevano dimostrato di meritarselo quel ricordo, perché avevano lasciato un ricordo vivo dentro di noi che volevamo portare anche agl’altri. Se lo meritavano, era il minimo.
      In quel momento, la tristezza offuscava la mia mente, perché, forse, la parte più dolorosa sarebbe stata proprio ricordare i loro nomi. Sarebbe toccato a noi dare la cattiva notizia ai loro pari. Ma lo avremmo fatto.
      Finito il funerale, e rimpianta Violet ancora un po’ –Damon non voleva saperne di andarsene, ma alla fine lo abbiamo convinto-, abbiamo deciso di accamparci il più lontano possibile dal castello, ma restando lo stesso abbastanza vicini, nel caso Clark e Phil riuscissero a scappare, noi li avremo visti. Di notte facevamo i turni di guardia. Nessuno era tanto tranquillo da voler dormire senza un minimo di sicurezza.
      Passammo 2 giorni in quella situazione. Damon riuscì ad accendere un fuoco tra il bosco e, con un ramo abbastanza duro, era andato a caccia, tornando con un cervo di discrete dimensioni. Morivo dalla voglia di chiedergli come lo aveva preso, ma mi trattenni dal farlo. Clark e Phil dovevano ancora farsi vivi. Mi sforzai di pensare positivo credendo che erano già scappati e persi chissà dove sull’isola in cerca di noi, oppure che stavano pianificando il momento giusto. Sperai con tutte le mie forza che li avremo rivisti: non credevo di reggere un colpo così forte: la morte di Clark.
      No! Lui sarebbe riuscito a scappare! Dovevo pensare positivo, positivo!
      Scese la notte, la terza, e toccava a me il primo turno di guardia. Mi piazzai di fianco al fuoco, aguzzando la vista, non tanto per scrutare pericoli, ma nella speranza di poter scorgere Clark tra gl’alberi. La paura che non ce l’avesse mai fatta ad uscire dal castello era cresciuta sempre di più negl’ultimi due giorni, e io ero sempre più propensa a tornare lì a riprenderli. Ovviamente, del mio piani, non ne avevo fatto parola con nessuno. Avevo troppa paura che mi prendessero a calci, e poi credevo che le circostanze di quei giorni non erano delle migliori: Damon non riuscivo ancora a riprendersi dal brutto colpo subitosi. Era arrivato a sorridere raramente durante le giornata, ed una risata era inconcepibile sul suo volpo. Si ripeteva in continuazione che era stata colpa sua, che doveva rimanere con lei fina all’ultimo. Appena tornava sul discorso, io ed Amy ci precipitavamo a consolarlo. Ci mancava solo che cadesse in stato catatonico, e ci mancava poco che succedesse per davvero.
      Ma in realtà, ero io la responsabile dell’accaduto. Io avevo accettato di scendere per prima, e invece di obbiettare ancora di più, l’ho lasciata fare, provocando la sua morte. Era colpa mia. Non dovevo dargli ascolto, dovevo fare a modo mio. Probabilmente lei già sapeva quello che sarebbe accaduto di lì a pochi secondi, e aveva accettato di sacrificarsi pensando che sarebbe stato un peso per il gruppo. Solita cosa che pensano gli eroi, quello che era diventata lei negl’ultimi attimi della sua vita, e adesso che ero consapevole di essere la responsabile della sua morte, il dolore già accumulatosi per non essere stata abbastanza svelta nel far uscire Clark e Phil, bruciò ancora di più.
      Naturalmente, non avevo parlato nemmeno di questo con gl’altri. Mi avrebbero di sicuro rassicuratami e consolata, ma dentro di me sapevo che non sarebbe stata la cosa giusta, perché era davvero colpa mia se era morta e di nessun’altro. Non mi andava di sentire la solita frase: “non è stata colpa tua”, sapevo che in quelle circostanze, sarebbe suonata come una bugia.
      Mi strinsi di più a me stessa, cercando di concentrare il dolore in un unico punto, di spostarlo dalla mente in qualsiasi altro posto del mio corpo. In quel momento dovevo restare lucida, vigile, non volevo affatto provocare la morte di un altro dei miei amici. Non sarebbe accaduto mai più. Involontariamente mi ritrovai a pensare: Non promettere cose che non puoi mantenere.
      Quanto era vero! E quanto era doloroso ammetterlo!
      Tutti erano bravi a parlare, ma pochi erano bravi anche nei fatti come nelle parole. Io speravo di far parte di quella categoria. Promettevo e promettevo, ma avevo sempre paura di non essere in grado di mantenerle come speravo. Nei primi giorni lì, spersa da sola sull’isola, senza nessuno su cui appoggiarmi, avevo promesso a me stessa di sopravvivere, di farlo per quelli che mi volevano davvero bene. La stavo mantenendo davvero, quella promessa? Io dicevo di no. Sì, io ero ancora viva, ma che dire di Harry, e adesso anche Violet, e Clark e Phil ancora chiusi lì dentro? Stavo sopravvivendo io con il loro supporto, con il loro aiuto, e io che gli davo in cambio? Nulla, mi prendevo le loro vite e basta. Molto probabilmente, non sarei arrivata lì senza il loro aiuto. Anzi, non sarei arrivata fin lì e basta. Avevo anche promesso di partecipare a quella spedizione per dimostrare che ero capace di cavarmela da sola. Stavo mantenendo anche quella, di promessa? No! Assolutamente no! Soprattutto per quanto riguarda la parte “da sola” della promessa. Non meritavo di essere lì, le vite di Harry e Violet, e anche quelle di Damon, Amy, Clark e Phil valevano più delle mie, non era giusto che le loro luci si spegnessero per colpa mia. In quel momento, potevo promettere che non avrei fatto spegnere nemmeno una luce più, ma quanto valevano le mie promesse a quel punto? Niente. Era un contratto senza rimborso.
      Strinsi le ginocchia al petto, e vi ci affondai il volto.
      Ero arrivata al punto di odiarmi, di voler morire nella speranza che quel gesto avrebbe riportato in vita tutte le persone morte per colpa mia. Potevo dare la colpa all’isola, che era stata lei a cambiarmi. Ma un’isola non può cambiare le persone, sono le persone stesse a cambiare da sole. Avevo ucciso un uomo per salvarne un altro, che valeva di sicura di più, ma cambiava qualcosa? Forse, non ne ero sicura. Poteva essere sì quanto poteva essere no. Poteva essere stato un atto di eroismo, salvare una persona a me cara; oppure era stato un atto di animalismo. La testa mi girava vorticosamente. Per quanto fossero veri quei pensieri, non era il momento di farmi del male in quel modo. Non volevo che quei pochi amici che mi rimanevano, scomparissero anche loro.
       Strinsi forte il mio braccialetto senza nemmeno guardarlo. Mi bastava toccarlo per ricordare tutte quelle parti belle e luminose delle mia vita. La partenza, il viaggio sulla nave, rivedere Damon dopo tanti anni, il litigio con Clark. Risi a quel ricordo. Chissà se mi ha perdonata? Pensai. Neanche a quella di domanda conoscevo la risposta. Sperai in una positiva, ma chi poteva saperlo per certo? Solo Clark, e lui adesso era rinchiuso in quello schifo di castello per colpa della mia lentezza.
      «Dormi?» una voce mi fece sussultare. Alzai il capo, e vidi Amy dall’altra parte del fuoco che mi fissava «Scusa se ti ho svegliata»
      «No, non stavo dormendo, tranquilla» la calmai «Pensavo»
      «A cosa?»
      Sbuffai, e ci pensai su per qualche secondo. Potevo dirgli tutti i miei pensieri? Forse sì, ma avevo paura ancora della bugia “non è stata colpa tua”, quindi, riassunsi tutto in un'unica parola «Sbagli»
      Rise «Della tua vita?»
      «Specialmente quelli della mia vita» dissi sorridendo.
      «Posso saperli?» mi chiese, tornando seria.
      Ci pensai ancora su, restando in silenzio «Credo ti annoieresti»
      «Nah, sono difficile, da annoiare» si mise più comoda, pronta per il racconto.
      Mi portai un dito al mento, con aria pensante, strappandogli una risata «Potrei iniziare da quello più piccolo» se ne esisteva davvero, uno piccolo, dei miei sbagli.
      Annuì.
      «Beh, non ho onorato mia madre e mio padre. Specialmente l’ultimo»
      Aggrottò la fronte «Questo non è uno sbaglio. Ogni figlio crede di non essere abbastanza per i propri genitori. E poi, non dobbiamo essere per forza quello che dicono loro» mi confortò.
      «Io credo proprio l’inverso, invece» aggrottò di nuovo la fronte «Amy, io sono una Dawson, devo onorare le radici della mia famiglia, devo diventare un’esploratrici per renderli felici davvero -soprattutto mio nonno-. Ce l’ho scritto nel sangue»
      «Non sta scritto da nessuna parte quello che devi diventare, tantomeno nel tuo sangue» sembrava sorpresa.
      «Io dico di sì»
      «Tuo padre è figlio unico?» mi chiese.
      Non capivo a cosa volesse arrivare «No» risposi «ha due sorelle e un fratello»
      «E sono sposati?» mi chiese ancora.
      Forse avevo capito dove volesse arrivare «Tutti, tranne uno» sorrisi al ricordo del giocoso, e perennemente singole e bambino zio Arthur.
      «E hanno figli?»
      «Non facevi prima a chiedermi se avevo cugini?» gli chiesi io.
      «Sì, forse sì» sorrise «Allora, ne hai?»
      «Sì, quattro»
      «E allora dov’è il problema?»
      Tutti la facevano così facile, iniziavo a pensare che ero l’unica a vedere difficile la mia situazione «Non è semplice come credi» la bloccai «Tutti noi, in un certo senso, dobbiamo diventare esploratori»
      Amy sembrava essersi persa «E perché? Avete firmato un contratto a vita?»
      Risi. Magari fosse solo per quello «No, vedi, tu faresti di tutto per rendere orgogliosi di te la tua famiglia, vero?» annuì «Ecco, pensa di essere in una situazione come la nostra, dove tutti i genitori sperano con tutti loro stessi che i propri figli diventino dei famosi esploratori. Il più stressante tra tutti è mio nonno, però»
      «Oh, forse ho capito» ammise lei, con aria quasi assente, immersa in chissà quali pensieri.
      «Ecco» conclusi.
      Si riprese «Ma quindi non sta scritto da nessuna parte che voi dovete essere quello che dicono loro. Non siete obbligati»
      «No, non siamo obbligati» ammusi «ma immedesimati nella mia situazione. Quando tuo padre ti chiede quello che desideri fare da grade, e gli rispondi “maestra”, lui sorride, ma quando sei ancora piccola. Quando te lo richiede qualche anno dopo, è gli rispondi la stessa cosa, lui si abbatte, triste. Allora, tu, quando te lo chiederà alla mia età, gli risponderai “esploratrice” per farlo sorridere, per accontentarlo, per renderlo felice, e quando vedi la felicità negl’occhi dei tuoi parenti, ti senti contenta anche tu con loro. Adesso hai capito?»
      «Credo di sì» aveva di nuovo l’aria pensante.
      Sbuffai «Non credo che potrai mai capire completamente il mio problema. Per tua fortuna non hai una sorta di obbligo sulle spalle. Io devo farlo anche perché mio padre è il più famoso di tutta la nostra famiglia, del mondo, quasi»
      «Wao! Allora sei ricca?»
      Ma la gente pensa solo a questo? «Sì» risposi, sbuffando.
      Pensò ancora qualche secondo, restando in silenzio, immersa in chissà quali domande mentali «Allora, stando a quello che hai detto, sei venuta in questa spedizione per rendere felici loro?»
      «In un certo senso»
      Aggrottò per l’ennesima volta la fronte.
      «Sì, un po’ volevo farla per conto mio, per vedere se quella felicità che prevale in mio padre quando sta per partire, avvolgesse anche me. Non credo sia successo»
      «È la tua prima spedizione, quindi?»
      «Sì, la prima e –spero- una delle ultime»
      Rise «Non ti piace il tuo futuro lavoro?»
      Risi insieme a lei «Non è questo. P solo… che… non è andata proprio come me la immaginavo, ecco» ripensai involontariamente a quello che era successo una volta imbarcatami sulla nave, la Starlight.
      Amy rise ancora «Beh, non è andata come prevedeva nessuno»
      «Io credo che per qualcuno sì. Mia zia» dire quella parola mi costò tanto.
      Lei smise subito di ridere, e tornò seria «Ah, giusto»
      «N… non mi va di parlare di quello» la bloccai subito. Era una di quelle poche serate dove, forse, sarei riuscita a dimenticare la paura e la tristezza provocatami da quell’isola.
      «Sì, certo» chiuse gl’occhi con furia. Pensai che stesse cercando qualcos’altro da chiedermi per non parlare di quell’argomento «Ok, abbiamo parlato del più piccolo dei tuoi sbagli. Fuori un altro» era come prevedevo, e come aveva sperato.
      Pensai a qualche altro sbaglio commesso che non fosse così tremendo. Ne trovai uno. Riassumibile in una sola parola, o meglio, un nome «Clark»
      Spalancò gl’occhi «State insieme?!»
      Li spalancai anch’io «Cosa?! No! No, no, no! Hai capito male»
      «Me lo hai fatto intendere tu» si difese lei, e forse aveva anche ragione.
      «Intendo un’altra cosa»
      «Cosa?»
      Ero sicura: ero diventata rossa come un peperone. E addio alla faccia da tosta «Mi vergogno a dirlo»
      «Ah» disse lei «ti piace» non era una domanda, era un’affermazione.
      «Un… un po’» ammisi, chinando il capo.
      Rise sotto i baffi «E che c’è di strano? È bello, no?»
      Mi ricordai il motivo per cui avevo litigato con Clark sulla nave «Ti ricordi quando, sulla nave, litigai con lui?» annuì «Beh, lo avevo fatto perché aveva detto che eri carina per prendermi in giro, e io non avevo capito lo scherzo»
      «Stai dicendo che sono brutta?» mi chiese, divertita.
      Risi anch’io insieme a lei.
      «Ma allora, quel è questo sbaglio?» mi domandò lei, dopo esserci riprese.
      «Non ho il coraggio di dirglielo» ammisi ancora.
      «Che ti piace?» alzò il tono della voce.
      «Shhh!» la zitti «Vuoi che ci senta?!»
      Mi lanciò uno degli sguardi più scocciati che conoscessi. Mi ricordai che lui era ancora rinchiuso nel castello. Sorrisi imbarazzata dalla figura che avevo fatto «Scusa»
      Mi ignorò «Ma dov’è il problema?»
      «Tu la fai facile!» 
      «Perché non so dov’è il difficile» mi rispose lei.
      Sospirai «Lavora tra i dipendenti di casa mia» dissi, in un sussurro.
      Lei non si mosse di una virgola «E allora? Non dirmi che sei rimasta nel periodo ottocentesco»
      «No! Certo che no!» ci mancava solo quello «Ma i miei genitori sì, specialmente mia madre»
      «Ah» stavolta sembrava che avesse capito per davvero «E a te questo importa?»
      «Beh, se vogliamo tornare al discorso dell’onorare i propri genitori, allora… credo di sì»
      Sbuffo «Ma lasciali stare i tuoi genitori, Susan!» mi rimproverò «Posso capire il fatto dell’esploratrice, ma cosa c’entrano loro con le tue questioni d’amore?»
      Ricordai, arrossendo, lo sguardo di mia madre quando ci aveva visti insieme quella sera in camera mia. Da un lato era divertente, dall’altro era estremamente imbarazzante: quella sera mi ero sentita come una ragazzina che rivela alla propria mamma la sua cotta. Cosa molto stupida e infantile per un ventenne come me «Forse hai ragione» ammisi.
      «Non forse» mi rispose «ho ragione!»
      Distorsi il muso. Era molto strano –almeno per me- parlare di questioni d’amore con qualcuno. Di quell’argomento, ne discutevo soltanto con Rosie perché mi capiva, lei sapeva in che condizioni mi trovavo. Di Clark non ne avevo parlato nemmeno con mamma, ma sapevo che lo aveva già intuito da tempo.
       «Ma a te piace sul serio?» mi chiese, di punto in bianco.
      Rimasi spiazzata a quella domanda. Non me lo aveva mai chiesto nessuno, non l’ero mai fatta nemmeno da sola quella domanda «Io… credo di… di sì» parlarne mi sembrava così da persone deboli. Ma cosa c’era di debole nel parlare d’amore? Niente, era un argomento come tanti altri, più intimo di sicuro.
      «E a lui piaci?»
      Dannazione! Esclamò la mia voce interiore Ma vuole sapere proprio tutto?! «Non lo so» risposi sincera. Ricordai tutte le bruttissime figure che mi aveva fatto fare per essere così spontaneo nei suoi sentimenti per me. Pensai che la mia risposta allora era sbagliata. La riformulai «Credo proprio di sì»
      «Bene!» esclamò, forse più entusiasta di me «Allora, appena usciti da questo guaio, ti dichiari!»
      «Cosa?! Io?! No, hai capito male!»
      «Vuoi aspettare che si dichiari lui?» mi domandò, senza perdere un minimo di entusiasmo.
      «Credo che non ce ne sia bisogno» in un certo senso, si era già dichiarato da tempo a modo suo.
      Strofinò le mani come una strega che aveva appena preparato una pozione perfetta. Risi sotto i baffi nell’immaginare Amy con il cappello a punta e il nasone «Tu la fai troppo difficile. E sai perché?» la fissai, curiosa «Sei troppo timida» mi rispose, fiera della sua deduzione.
      «Non è vero» obbiettai io.
      «Sì, invece. Vuoi mostrarti tanto forte, dura, ma in realtà sei una persona molto sensibile, timida, sociale. Il problema è scoprirti. Oddio, non prenderlo come un insulto alla tua persona, Susan, anzi, devi vantartene, sono poche le persone così, sei rara» mi sentii quasi lusingata «ma persone come te, non vanno fatte arrabbiare. Io lo so, perché puoi essere tanto timida quanto pericolosa. Sei capace di mostrarti come un leone, ma allo steso tempo come un agnello. È una cosa molo bella» sorrise, poi tornò seria «Per questo non vorrei essere nei loro panni.
      Risi. Ma quanto erano vere le sue parole? Tanto, tanto quanto bastava per ammetterlo.
      «Ne sei sicura?» gli domandai, come per confermare la descrizione del mio carattere. Come se non lo sapessi già! mi rimproverai.
       «Sicurissima!» alzò il capo di scatto, fiera delle sue stesse parole.
      «Allora ci credo» aggiunsi ridendo.
      Ridemmo, insieme. Era bello poter avere un’amica come Rosie, con cui poter ridere, scherzare, staccarsi dal mondo per respirare un po’ d’aria nuova. Era da molto che non provavo una sensazione come quella: leggera.
      Ci bloccammo subito quando sentimmo Dam muoversi, e lamentarsi nel sonno, e poi tornare a dormire.
      Tornammo a ridere sotto i baffi, in silenzio, per non disturbarlo ancora.

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Capitolo 24
*** 23. Nuovo Piano ***


23
Nuovo Piano

      Mi soffermai a vederlo dormire, beato. Al risveglio, avrebbe ripreso di sicuro la sua espressione da perenne abbattuto. Vederlo in quello stato, era come un pugno nello stomaco. Ma cosa potevo fare? Consolarlo? Come se io ed Amy non ci avevamo già provato. Ma allora cosa? Avevamo provato di tutto, ma ogni volta che provavamo a tirarlo su, pochi secondi dopo, era già di nuovo la solita persona senz’anima, e il suo dolore, era tanto forte, da trasmetterlo anche a noi, e farci sentire di schifo quasi quanto lui. Provare a consolarlo, a farlo sorridere, era come sperare di la pioggia nel deserto del Sahara.
      «Si riprenderà mai?» mi chiese Amy, distogliendomi dai miei pensieri. Da una parte ne fui felice, era troppo malinconici, dall’altra, no, dato che parlavamo dello stesso soggetto dei miei pensieri.
      «Inizio a dubitarne» dissi con un sospiro.
      «Anch’io» ammise lei «Ma cosa possiamo fare? Non reagisce»
      «Lo so» non serviva a niente provare a consolarlo se lui per primo non voleva riprendersi dal colpo» Io ed Amy, per quanto ci eravamo affezionate ad Harry –eravamo diventati come fratelli e sorelle sulla nave- avevamo deciso di reagire, non ci siamo abbattute completamente. Era inutile abbattersi da soli, l’isola, da sola, di abbatteva già. Avevamo deciso di reagire, perché, sconfiggersi da sole era uguale ad arrendersi, e nessuna delle due voleva farlo. Volevamo uscire, scappar da quell’incubo così realistico, vero.
      «Ho paura che non ce la faccia ad andare avanti»
      Le sue parole suonavano di vero, ma io non volevo accettarlo. Era un prezzo troppo alto da pagare: perdere altri amici, non sarei sopravvissuta ad un’altra morte «No! Lui ce la farà!»
      Si voltò verso di me, con un sorriso carico d’affetto. Stava provando a consolarmi perché, non so come- aveva capito che anch’io avevo bisogno di sostegno. Era vero, ero sensibile, e quell’isola mi stava uccidendo dall’interno, facendo più male di una morte lenta.
      «Lo conoscevi già?»
      «Sì, andavamo al college insieme» risposi «È stato bellissimo ritrovarlo lì, al porto»
      «Eravate molto legati»
      Distorsi il labbro quando sentii il verbo al passato «Sì, siamo molto amici»
      «Da quanto lo conosci?»
      Feci un piccolo calcolo mentale «Da… quasi sette anni» conclusi. Era molto, ma a ripercorrerli con la mente, apparivano così pochi.
      Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, si udiva solo lo scoppiettare del fuoco.
      Lei lo spezzò per prima «E Clark, invece?»
      Il calcolo lì, era molto più complicato. Decisi di risponde con la strada più ovvi «Da quando avevo quattordici anni»
      «Quattordici?» ripeté, sbalordita «Sono molti»
      A me, anche quelli sembravano pochi a ripercorrerli «Sì, forse. Mi ricordo ancora il primo giorno in cui lo vidi» sorrisi.
      Amy sembrava in attesa. La accontentai.
      «Ero in camera mia, a fare i compiti forse, non ricordo, quando sento papà e mamma discutere nel corridoio. Non stavano proprio discutendo, stavano parlando proprio di fronte alla mia porta. Oggi, penso che l’abbiano fatto apposta. Esco, e mi dicono che stanno discutendo se accontentare o no Clark, che in quel momento era in cucina. Curiosa, scendo e vado da George –il capo chef della cucina- e lo vedo parlare con un ragazzo così carino. Mi piacque subito, aveva il volto di uno ragazzo divertente. Ma il motivo per cui più lo volevo in casa mia, era perché ero circondata da persone adulta, non c’era nemmeno uno della mia età, e lui era perfetto, era più grande di me soltanto di un anno. Allora corsi dai miei genitori, e li costrinsi a prenderlo. Man mano, diventiamo sempre più amici, fino a quasi farci urlare dai miei che lui era in camera mia per portarmi la colazione. Col tempo, riuscii a convincerli che Clark era un amico per me, e loro lo accettarono perché ero una ragazza molto chiusa, non avevo, non ho molti amici. Sono pochi quelli di cui mi fido» conclusi, sorridendo al ricordo del volto da bambino di Clark.
      «Ma non hai detto che i tuoi non lo accettano?»
      «Hanno cominciato a non accettarlo quando ha iniziato a provarci con me. Papà col tempo ha approvato –benché non ci fosse nulla da approvare- mamma, invece, no» la corressi.
      «Ah» esclamò.
      Il silenzio calò di nuovo su di noi. Non volevo spezzarlo, mi piaceva il silenzio.
      Quella sera, mi ero divertita davvero, con Amy. Trovavo impossibile il, fatto di divertirsi su quell’isola –così nera e cattiva- eppure, c’ero riuscita, grazie all’aiuto di Amy. Non erano mancati i pensieri malinconici, certo, ma chi non ne ha? Ero riuscita a staccarmi dall’isola, e trasformare quegli alberi nella mia camera, calda e accogliente dal mio punto di vista, e avevo trasformato quel momento, in una sorta di pigiama party tra amiche: io ed Amy. Ero anche riuscita a trovarmi un’amica, una che sentivo di riuscire a fidarmi.
      Era così bello quel momento, ma quando Dam si svegliò, lo ruppe quasi con la sua malinconia, ed io e Amy andammo a riposare. Sarebbe stato bello farlo di nuovo, e poi, io ed Amy potevamo essere quasi quanto Damon, insieme.
      Mi accoccolai di fianco al fuoco, non tanto vicino, ma neanche tanto lontana da impedire al calore delle sue fiamme di raggiungermi. Era l’unica fonte di calore presente lì. Tutto era freddo su quell’isola. Negl’ultimi giorni, l’avevo paragonata all’isola del Diavolo. In certi versi, lo era: non mancavano i diavoletti che venivano a torturarci.
      Chiusi gl’occhi, e lascia la mente libera di tuti i pensieri che mi giravano per la testa. Avevo sprecato tutto il giorno fino a quel momento a tenerli sigillati in una camera oscura del mio cervello, attenta a non farli uscire. Arrivata al punto di dormire, di riposare, li lasciai liberi. Erano dolorosi, lo sapevo, ma quanto sarebbe importato un po’ di dolore in più rispetto a quello che avevo accumulato durante tutta la mia permanenza sull’isola del Diavolo? Per me, niente.
      Pensai a mio padre, mia madre, Rosie, George e tutti i miei parenti a casa, forse ancora inconsapevoli di tutto quello che mi era successo. Pensai a Clark e Phil, rinchiusi ancora nel castello –sperai che fossero riusciti a scappare e adesso di trovavano in chissà quale posto dell’isola, ma i pensiero negativi erano troppi, e offuscavano completamente tutte le mie speranze. Pensai a Jasmine, a quello che aveva fatto, al dolore che mi aveva provocato, e all’affronto che aveva lanciato contro la sua stessa famiglia. Pensai a Damon, ancora triste e disperato, adesso lì, di fianco al fuoco a controllare che non succedesse niente di insolito, ma con lo sguardo assente, vuoto.
      Quella sera, riuscii persino a rientrare nel mondo dei sogni che mi piaceva tanto, quel mondi spensierato dove niente comportava tristezza e dolore, ma solo felicità e gioia. Quel mondo piccolo, immaginario, frutto della mia mente, ma nel suo impossibile, perfetto. Sognai quello che avevo pensato al funerale di Violet: pensai al mondo come una sfera fatta soltanto di luce, illuminata da noi, piccole luci, deboli da sole, ma forti insieme.
      Quando mi svegliai al mattino, trovai Amy intenta nel rianimare il fuoco. Notai l’assenza di Damon. Mi strofinai gl’occhi, infastidita dalla luce del sole, poi mi stiracchiai un po’, per riprendermi del tutto.
      «Buongiorno» mi salutò Amy, voltatasi verso di me e ammirandomi divertita.
      «’Giorno» la salutai anch’io.
      Mi alzai, traballante. Avevo una gran fame, ma non ci badai.
      «Dov’è Damon?» gli chiesi, osservandomi in giro.
      «È andato a fare una passeggiata» mi rispose «o almeno così ha detto a me»
      «Mmm» annuii. Chissà dov’era andato di preciso. Sperai non dove avevamo seppellito Violet, si sarebbe abbattuto ancora di più.
       Sigillai di nuovo, come la giornata precedente, i pensieri tristi nell’anticamera della mia mente, e accolsi la giornata con sorriso, benché di mala voglia.
      Mi sedetti di fianco al fuoco ravvivato dalle mani –diventate- esperte di Amy a riscaldarmi. Le giornate era quasi sempre calde, ma io sentivo freddo in continuazione: forse era perché gl’abiti erano fradici. Sì, dovevano essere quelli. Spostai il mio sguardo sulla figura possente del castello. Quanto mi mancava Clark. Morivo dalla voglia di tornare lì dentro e cacciarlo fuori da quel pasticcio. Ci saremo ritrovati spersi nel bosco, di punto in bianco, ma almeno stavamo bene, sicuri l’uno dell’appoggio dell’altro. Sospirai. Eppure doveva esserci un modo per farlo uscire di lì, insieme a Phil, oppure erano già usciti ma non ci avevano trovati ancora. Comunque sia, avevo bisogno di sapere che stavano bene. Il rimorso di averli abbandonati lì da soli mi prevalse. Un brutto pensiero era riuscito a scappare dall’anticamere. Provai e provai a rispingerlo dentro, ma invano. Era diventato troppo grande e occupava tutta la mia mente.
      Quando tornò Damon, la sua espressione da afflitto non migliorò il mio animo, anzi, se possibile, lo allargò ancora di più.
      La mattinata fu tremendamente lenta. Non sapevo come occupare il tempo. Avevo tanti di quei pensieri per la testa da poter passare giorni a rimuginarci sopra, ma non ne avevo voglia. Uno, quello che era vaso, era abbastanza doloroso da sopportare. Per tutto il tempo lancia occhiate rapide al castello che emergeva tra gli alberi, ad ogni sguardo, sospiravo sempre di più e la paura, la tristezza, e il rimorso crescevano. Ieri era la giornata di Violet e le promesse, quella era la giornata di Clark.
      Perché doveva andare tutto così storto? Non bastava l’essere dispersi lì, ci mancava anche la morte e la prigionia dei miei amici. Iniziai persino a pensare che avessi fatto qualcosa di sbagliato e che quella fosse la mia punizione inflittami da Dio in persona. Se era così, se la mia punizione era vedere scomparire i miei amici più cari, allora preferivo morire.
      Arrivato il pomeriggio, i pensieri non migliorarono di una virgola. L’immagine di Clark, rinchiuso e sofferente tra le segrete del castello, occupava completamente la mia mente e proprio non voleva saperne di lasciarmi andare. Era una tortura. Non ero nemmeno sicura di riuscire a sopporlo –quel pensiero-, temevo che la testa potesse scoppiarmi
      Vattene via dalla mia testa! Mi ripetevo Vattene via dalla mia mente!
      All’ennesimo sospiro della giornata, Damon si accorse di me.
      «Susan, va tutto bene?» mi chiese, lo sguardo spento.
      Alzai il capo verso di lui «No» gli risposi semplicemente.
      «Cosa c’è che non va?»
      «Tutto! Da quando siamo naufragati su questo schifo s’isola non va bene niente!» sbottai.
      «Vallo a dire a me» sussurrò lui.
      «Me ne voglio andare da qui» dissi in un sospiro Amy. Entrambi ci voltammo verso di lei: lo sguardo basso e addolorato.
      «Anch’io» aggiunse Dam, abbassando il capo insieme a lei.
      Il mio coraggio si accese «Andiamocene, allora»
      «Come?» mi chiese Damon, continuando a tenere lo sguardo basso.
      «Avranno qualche radio in quel castello, no? Dovranno in qualche modo comunicare» dedussi. Mi sorpresi di non averci pensato prima.
      «Sì» si accese Amy «Ha ragione»
      «Ammesso e non concesso che ce l’abbiano, come facciamo ad usarla? Non possiamo mica chiederglielo gentilmente!»
      «Ce la prenderemo con la forza!» gli risposi io.
      Amy mi appoggiò «Possiamo farcela, Damon! Susan ha steso tre uomini da sola, figurati noi insieme» stavo per obbiettare, ma mi trattenni: non volevo demoralizzarli, avrebbero potuto ripensarci, ed io con loro.
      Damon sospirò, pensando –forse- se era per davvero la cosa giusta da fare. Sperai di sì, per lui e per me.
      «Sapete che potremo morire, vero?» ci chiese.
      «Abbiamo più possibilità di morire qui, affamate, che lì dentro, provando a contattare qualcuno per chiamarci» lo incitò Amy. Mi chiesi da dove aveva preso tutto quel coraggio.
       Ci pensò ancora.
      Ti prego pensai Dì di sì.
      «Damon» mi chinai di fronte a lui «è l’unica possibilità che abbiamo di poter scappare di qui, di salvarci. Vuoi davvero rischiare di rimanere qui a vita? Io non credo. Abbiamo ottime possibilità di farcela. Siamo in tre, quanti uomini possono aver raccolto? E tu non crederai ancora alla storia dell’esercito, vero?» riuscii a strappargli un sorriso. Sorrisi insieme a lui: vederlo felice, rendeva felice anche me.
      «Ok» disse «Possiamo farcela»
      «Sì!» esultò Amy.
      «Ma abbiamo bisogno di un piano» aggiunse. Amy si ricompose subito, sedendosi e corrugando la fronte in cerca di qualche idea. Trattenni una risata alla sua espressione, e mi sedetti anch’io, pensierosa.
      «Non possiamo entrare dalla porta principale, tantomeno dal ponte» continuò Dam. Sembrava brillare di nuova luce. La speranza lo aveva riacceso e riportato indietro, com’era prima.
      «No, certo che no» lo appoggiò Amy.
      «Potremo entrare dalla crepa nel muro da dove siamo scappati» proposi.
      «Sì!» esultò ancora Amy.
      «Ok» mi appoggiò anche Dam «possiamo entrare da lì, ma non siamo armati, e scommetto che loro lo sono» Amy smise –di nuovo- di esultare, amareggiata.
      Chissà se lo faceva apposta a trovare ogni piccola deviazione. Forse sperava di farci cambiare idea finché il nostro piano non era curato nei minimi dettagli. Beh, io non avevo intenzione di arrendermi «Io li ho abbattuti con quello che ho trovato»
      «Dici di funzionerà?» mi chiese Amy.
      Feci spallucce «Con me ha funzionato» risposi.
      «Io propongo di stendere qualche guardia e prenderci la sua arma» propose Damon.
      Rabbrividii al ricordo dello sparo contro l’uomo nel bosco, la prima volta che c’hanno assalito: lì, lo avevo sparato per salvare Clark, in quella situazione, non avevo scuse.
      «Sì!» Amy era sempre più entusiasta.
      «A me non piacciono le armi» ammisi, a capo chino.
      «Ma è l’unico modo per arrivare di sicuro fino alla radio, dovunque la tengano» mi spiegò Dam. Aveva ragione, ma io avevo sempre paura. Provai a comprimerla e chiudere anch’essa nell’anticamere.
      «Ti prego» mi supplicò Amy.
      «Ok» risposi «Voi potete usarle, ma io le userò solo se sarò in pericolo di vita, ok?»
      «Ci renderesti tranquilli se prometti di usarla come arma, e basta» mi incitò Dam.
      «Mi dispiace, ma ne ho paura» ripetei.
      «D’accordo» si arrese, e ne fui contenta. Non era proprio opportuno litigare in quel momento.
      «Allora è tutto pronto?» ci chiese Amy.
      Cercai qualche particolare che avevamo dimenticato «Dove si trova la radio, di preciso?» chiesi.
      Sia Amy che Damon mi guardarono scocciati «E noi come facciamo a saperlo?!»
      «Non possiamo mica metterci a girare per tutto il castello!» mi difesi a testa alta.
      «Dannazione!» esclamò Amy «Ha ragione!»
      Tutti cademmo in un profondo stato di concentrazione. Nessuno parlava, lasciavamo vagare le nostre menti in cerca di qualche possibile risosta. Potevamo dividerci, ma a quel punto il pericolo sarebbe raddoppiato per tutti noi.
      «Potremo andare a liberare Clark e Phil!» esclamai.
      «Avevamo già in mente di farlo» mi rispose Dam.
      «Dopo aver trovato la radio, ma potremo andare a liberarli prima, così potremo dividerci in due gruppi e perlustrare il castello»
      «Buona idea!» mi appoggiò Amy. Sorrisi fiera.
      «Ma ci sarà un posto più propenso per la radio, no?» si chiese più a se che a noi Damon.
      «Io credo nella sala del trono, dov’è stata Susan» disse Amy.
      «Sì!» esclamai «Potrebbe essere lì! Come non abbiamo fatto a pensarci prima?! Era così ovvio!» mi sentii così stupida ma allo stesso tempo così felice.
      «Non è sicuro che l’abbiano lì, però» obbiettò subito Damon.
      «Ma da che parte stai?» gli domandò Amy, stufa di dover spegnere il proprio entusiasmo prima ancora di esultare.
      «Io sono pronta a scommettere che sia lì» dissi.
      «E come fai ad esserne sicura?» mi domandò Dam.
      «Semplice» risposi «è il posto più importante di tutto il castello, e quindi, se proviamo a pensare come Steve –e non credo sia tanto difficile- avrà pensato che quella sia il posto più ovvio dove posare tutto. Il fatto di avermi portato proprio lì, quando Jasmine volle incontrarmi, non fa altro che confermare la mia teoria»
      Ci pensò su, ancora. Non si era ancora stancato di trovare qualche scusa per far saltare il piano? Evidentemente no. Oppure, all’inizio, sembrava così contento.
      «Ok, molto probabilmente sarà lì» si arrese «ma sarà lo stesso meglio dividerci, nel caso non fosse lì. D’accordo?»
      «Sì» rispondemmo all’unisono io ed Amy.
      Passammo il resto del pomeriggio a controllare e ricontrollare il nostro piano, alla ricerca di qualche falla. Fortunatamente non ne trovammo nemmeno l’ombra. Damon, con il passare del tempo, aveva accettato in piano il nostro piano, e collaborava a pieno con noi. Ne fui felice: avevamo trovato il modo di distrarlo e, avevamo trovato il modo di riaccendere la sua luce e di amplificare le nostre –la mia e quella di Amy. La speranza di poter sfuggire finalmente a quell’isola aveva rianimato un po’ tutti. La cosa che però mi faceva più felice di tutte, era il fatto che andavamo lì anche per liberare Clark e Phil, un modo per “sdebitarmi” con loro. Ero troppo ottimista per pensare anche minimamente al fatto di averli persi.
      Calata la sera –il momento che avevamo scelto per attaccare-, Damon non stava più nella pelle. Camminava avanti e indietro, sempre più veloce. Mi stava facendo venire il mal di testa. Più volte, io ed Amy lo avevamo incitato a calmarsi e sedersi, ma lui rispondeva sempre «Non ci riesco» accettabile come risposta, ma la testa mi faceva male lo stesso.
      Stavamo preparando le nostre cose, pronti ad andarcene. Amy spense il fuoco e raggiunse me e Damon. Insieme, raggiungemmo il punto preciso dove sbucava la crepa nel muro. La discesa non era molto rapida, o almeno, non lo era per scalarla. Damon decise di andare per primo, noi rimanemmo nascoste nel bosco –così aveva suggerito lui- ad aspettare un suo segnale. Vedemmo la figura del mio amico salire sempre più in alto, fino ad arrivare alla crepa. Prima di sporgersi per entrare, lanciò un’occhiata verso di noi. Si rivoltò, e si sporse nella crepa. Io ed Amy rimanemmo tutto il tempo con il fiato sospeso, finché non smettemmo di respirare quando lo vedemmo entrarci dentro. Ci rilassammo all’unisono quando lo vedemmo sporgersi e farci segno con la mano che era tutto ok.
      Ci scambiammo uno sguardo frettoloso, e poi ci avviammo verso la discesa.
      Scalarla non fu molto difficile, in pochi minuti, io ed Amy eravamo in cime. Damon aiutò a salire prima Amy e poi me. Tutto questo in totale silenzio. Graffiai i jeans e mi sbucciai un po’ le ginocchia, ma trattenni il lamento. Salii, e mi ritrovai per la seconda volta in quella cella buia, ancora più scura di sera, e ancora più tenebrosa in quelle circostanze.
      Quando Dam si fu assicurato che stessimo bene, si avvicinò alla porta e vi si affacciò cauto. Di nuovo, io ed Amy, trattenemmo il respiro dall’ansia. Dam si sporse sempre di più per controllare il corridoio in ambe due i lati.
      «Via libera» ci sussurrò.
      La prima parte del piano, comprendeva andare a liberare Phil e Clark dalla cella. In il più velocemente possibile –ma facendo lo stesso silenzio- raggiugemmo le scale e le scendemmo cauti. Sperai con tutta me stessa che non gli fosse successo niente e che non fosse tropo tardi. Quando fummo nelle segrete notammo un uomo appoggiato alle sbarre dei nostri amici. Sentii Dam imprecare silenziosamente. Neanch’io me l’aspettavo. Dopo la nostra fuga, Jasmine e Steve dovevano aver messo dei turni di guardia per evitare che scappassero.
      «Cosa facciamo?» sussurrò Amy.
      «Vado a neutralizzarlo» le rispose Damon.
      Prima che potessi fermarlo afferrando per un braccio, lui si era già avviato, in posizione quatta, verso l’uomo, che gli dava le spalle. Lo afferrò per la gola e gli tappò la bocca con la mano per non farlo urlare. L’uomo si dimenò furiosamente finché non seccò e Dam lo trascinò nell’ultima cella. Corsi verso la cella. Phil e Clark erano ancora lì grazie a Dio.
      «Cosa ci fate qui?» ci chiese Phil.
      «Vi aiutiamo a scappare» gli rispose Dam.
      «E poi, tutti, scappiamo dall’isola» aggiunsi io «Avete ancora le Chiavi?» domandai speranzosa.
      Phil scruto tra le macerie dietro di sé e ne cacciò il mazzo. Lo scrutò per qualche secondo e ne individuò una chiave «È questa» mi informò. Annuii e la afferrai, la feci girare nella serratura, aprendo la cella e facendoli uscire. Prima che me ne potessi rendere conto, Clark mi si era già avventato addosso, abbracciandomi e stringendomi forte a sé.
      «Stai bene?» mi chiese, preoccupato.
      «Sì» risposi, ancora stretta a lui «E tu?»
      Si staccò da me. Un po’ mi dispiacque «Me la cavo» rispose, scherzoso come al solito.
      «Quel è il piano» sentii chiedere Phil. Damon glielo descrisse in poche parole, saltando la parte del loro salvataggio.
      «Quindi, adesso, dobbiamo andare nella sala del trono?» chiese Clark. Dam annuì, lui si voltò verso di me «Dov’è?»
      «All’ultimo piano» risposi.
      Annui anche lui, insieme a Phil, e tutti insieme ci precipitammo vicino alle scale.
      «Aspettate!» ci bloccò Amy. Ci voltammo tutti a guardarla, incuriositi. Le corse di nuovo verso le celle, quella dove Damo aveva nascosto il corpo dell’uomo. Tornò pochi minuti dopo, armata della sua pistola.
      «Grande!» esclamò Dam. Amy sorrise e gliela porse. Lui se la infilò nella cintura e tornò a perlustrare il piano superiore.
      Dam ci fece cenno di proseguire. Salimmo di corsa le scale, e ci ritrovammo tutti al piano terra, quello con il portone principale. Prima che cominciassero a salire le altre scale, afferrai un lancia come quella che avevo usato l’altra volta. La strinsi forte tra le mani e li seguii. Salimmo anche il secondo piano.
      Iniziavo ad avere troppa paura, tutto filava troppo liscio, e a me puzzava di strano.
      Arrivati al terzo piano, Damon ci fermò tutti, facendoci segno di riscendere. Tutti tornammo la piano precedente, di corsa, e ci nascondemmo in una stanza.
      «Che succede?» gli chiese Phil.
      «Quello biondo, stava per scendere» gli rispose.
      Steve. Allora era ancora lì, come doveva esserlo anche Jasmine. Non sopportavo di attendere, non volevo correre nessun rischio. Quella era la nostra unica opportunità per lasciare quell’isola, e nulla ce lo avrebbe impedito. Strinsi tra le mani la lancia, e mi avventurai fuori dalla stanza. Sporsi la testa per sbirciare: Steve stava venendo dalla nostra parte, perfetto!
      «Susan!» mi richiamò in silenzio Clark «Torna subito qui! Cos’hai intenzione di fare?!»
      «Shhh!» lo zittii, svelta. Avevo un solo colpo a disposizione, dovevo concentrarmi.
      Appena Steve passò di fronte alla nostra stanza, lo colpii con forza, dritta sul capo, facendolo cadere di peso al suolo. Grazie Iddio avevo una buona mira. Damon e Clark corsero ad afferrarlo per le braccia e lo portarono dentro.
      «Furi uno» disse Amy. Sorrisi. Notai Clark afferrare la sua arma e portarsela anche lui alla cintura. La mie labbra si curvarono in una smorfia di disapprovazione. Lui lo notò e face spallucce. Lasciai cadere il discorso, non era decimante il momento.
      Uscimmo di nuovo dalla stanza di nuovo, e continuammo la nostra marcia silenziosa. Al terzo piano, passai la mia lancia a Dam che stese un altro uomo –lo convinsi ad usare quella, invece della sua pistola facendogli notare che avrebbe fatto troppo rumore la sua arma. Ci fermammo prima delle scale in una piccola riunione.
      «Ok» disse Phil «questa è la parte del piano dove noi ci dividiamo»
      «Io posso andare anche da solo» si propose Dam.
      «Non ci pensare nemmeno!» lo rimproverammo allo stesso momento io ed Amy.
      Phil si allontanò, raccolse una lancia da terra, e la porse ad Amy, che l’afferrò con sicurezza «Io, Damon ed Amy controlleremo questo lato» indicò un punto alle sue spalle «Clark e Susan, controllerete l’altro» io e il mio compagno ci voltammo a controllare «Se non trovate niente, o anche se la trovate tornate qui. Se non ci siamo, aspettate in quella stanza» ne indicò una.
      Annuimmo tutti, e ci dividemmo.

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Capitolo 25
*** 24. Rivolta ***


saaaaaaaalve xD
ecco l'ultimo capito! 
ci ritroviamo alla fine :D
buona lettura 




24
Rivolta

      Io e Clark ci voltammo. Io cercavo di restare il più calma possibile, di controllare la rabbia. Non mi fu molto difficile, soprattutto adesso che sapevo che Clark era salvo, che stava bene, e che adesso era lì con me. Controllammo ogni stanza del nostro lato.
      Non trovammo mai niente: soltanto stanze rovinate e distrutte dal tempo. In una di loro, notai un quadro segnato dal tempo, ma il volto era ben visibile, non ricordavo con chiarezza chi fosse, ma aveva un volto familiare. Decisi di non indagare più a fondo per non perdere tempo. Raggiunsi Clark fuori dalla stanza e perlustrammo le ultime stanze che ci rimanevano. Niente, della radio non c’era traccia. Decidemmo di tornare indietro speranzosi che gl’altri avessero avuto più successo di noi nella ricerca.
      Quando arrivammo al punto di incontro, Amy, Damon e Phil erano già nella stanza che ci aspettavano: la loro ala era più corta della nostra.
      «Trovato niente?» ci chiese Amy.
      Clark scosse il capo «E voi?»
      «Niente» gli rispose Damon, poi si rivolse a me «Dev’essere nella sala del trono, come hai detto tu» disse con una smorfia.
      «Allora andiamo di sopra» propose Amy, che si alzo insieme a Phil e Damon.
      Di nuovo insieme, salimmo gli scalini che conducevano all’ultimo piano in totale silenzio. Da una parte mi sentivo felice perché la mia teoria si era rivelata giusta, dall’altra avevo paura perché c’era troppa tranquillità, e sentivo che qualcosa sarebbe andata storto. Era qualcosa che sentivo dentro e che mi occupava tutta la mente, facendomi faticare per restare lucida.
      Tutto andò come avevo previsto.
      Appena Phil –che occupava il primo posto della fila- mise piede sull’ultimo piano, degl’uomini gli saltarono addosso e l’immobilizzarono. Inutile fu tentare di aiutarlo: un’altra schiera di uomini si era sparsa dietro i due che tenevano Phil e ci imprigionarono. Adesso capivo perché era andato tutto liscio fino a quel momento: Jasmine aveva già pianificato che avremmo provato a liberare Clark e Phil, per questo, di buon grado, aveva deciso di creare una sua difesa nascosta, in caso di qualche rivolta. Probabilmente, però, non era a conoscenza del nostro piano di usare la radio, ma adesso che importava? Sentivo dentro che molto probabilmente saremo morti, e la paura prese il posto della mia lucidità.
      Ci scortarono verso il portone che conduceva alla sala del trono. Mentre camminavamo, tutti imprigionati nelle robuste braccia di due uomini per ognuno di noi, notai l’assenza di Amy. Ero confusa: dovevo preoccuparmi, o dovevo essere contenta della sua assenza? Poteva essere riuscita a scappare, e forse ci avrebbe aiutato a liberarci. Un’altra pura mi colpì: lo avrebbe fatto? Ci avrebbe aiutato? Mentre mi ponevo queste domande, varcai la soglia della grossa e robusta porta, entrando insieme agl’alti nella sala del trono. In fondo, sul possente trono, Jasmine.
      «Benvenuti» ci salutò «Vi stavo aspettando»
      Gl’uomini ci lasciarono andare, ma si allinearono sul muro della stanza. Mi sorpresi nel vedere che non avevano armi puntate. Dovevo preoccuparmi? Forse sì.
      «Vi piace, qui? Grande, accogliente come sala, eh?»  Ci chiese Jasmine, scesa dal trono e incamminatasi verso di noi «Ovviamente» aggiunse «mi riferisco ai tuoi amici, Susan»
      Tutti non risposero.
      «Vedo che ne avete perso altre due» disse, osservandoci bene. Per fortuna non si era accorta dell’assenza di Amy.
      «Quindi avevo ragione» si congratulò da sola «avete davvero tentato un’imboscata contro di me» rise, malefica «Pazzi!» sputò poi con rabbia «Cosa vi ha fatto pensare, cosa vi ha illuso che sareste riusciti a sconfiggermi?! Guardatevi! Siete cinque sciocchi ragazzi, stanchi, affamati e fradici! Come avete potuto pensare di riuscire a sovrastare questo?» indicò la linea di uomini armati contro il muro.
      Il silenziò regno ancora sulla grande sala.
      «ALLORA?!» strillò lei, rompendo il silenzio e facendoci sussultare tutti dal suo urlo improvviso.
      «Beh» gli rispose Phil «Sai come si dice: la speranza è l’ultima a morire»
      Lo vidi più come un affronto. Jasmine lo prese infatti come tale: fissava Phil con rabbia crescente, sembrava che stesse per scoppiare dal rossore della sua faccia. Indicò con furia prima un uomo, poi Phil, e poi i suoi piedi. L’uomo che aveva indicato afferrò Phil con il colletto e lo gettò ai piedi di Jasmine. Lei lo afferrò stretta per i capelli, costringendolo a sollevarsi dal suolo mettendosi in ginocchio, e lo fissava non più con rabbia, ma con perfidia. Allungò la mano destra, di lato, aprendo il palmo verso l’alto. Quasi non mi accorsi dell’uomo che gli pose la pistola sulla mano.
      Un sentimento di terrore si impossessò di me.
      «Jasmine, ti prego» la supplicò lui «Fallo per il tempo che abbiamo passato insieme»
      «Non mi importa più del mio passato» gli rispose, acida «Ormai penserò solo al mio futuro»
      Jasmine voltò Phil verso di noi, tenendo la mano ancora strinta ai suoi capelli, costringendolo a guardarci tutti. Mi coprii la bocca con la mano, terrorizzata dalla scena. La donna posò la canna dell’arma sulla tempia di Phil, che tremava come una foglia dalla paura.
      «NO!» sentii urlare Damon. Subito Clark mi abbracciò in modo da impedirmi di assistere alla scena, e un colpo d’arma da fuoco riempii l’aria. Spinsi di respirare per un istante interminabile, un attimo che mi sembrò durare un giorno intero. Clark mi abbracciava ancora, e solo quando sentii la sua maglietta bagnata contro la guancia mi accorsi che stavo piangendo, e che non riuscivo a respirare perché sussultavo dai singhiozzi. Udii qualcosa strisciare e Damon imprecare contro la donna che aveva fatto fuoco. Clark non smetteva di stringermi, ma lanciava continui sguardi fugaci alle sue spalle.
      «Come hai potuto farlo?!» gli urlò. Sentii il suo petto tremare dalla rabbia.
      Rise malefica «Era soltanto una vita» rispose lei «Cosa, in confronto alla fama e alla ricchezza?»
      Come poteva voler uccidere, per i soldi? Aveva ucciso a sangue freddo uno dei suoi più cari amici, davvero, soltanto per i soldi e la fama? La realtà mi diceva di sì, ma la mia testa mi continuava a ripetere che era impossibile, che non poteva esistere qualcuno di così perfido, cattivo, tremendo… un mostro come quella donna. Decisi di dare ascolto alla realtà, basta coccolarsi con la finzione, l’isola mi aveva fatto capire il vero significato della vita: un’avventura orrenda che, purtroppo, ognuno di noi è costretto ad affrontare.
      Clark mi lasciò guardare. Fui felice che mi aveva impedito di osservare la scena, ma lo schizzò sul pavimento, di un rosso vico, seguito da delle macchie dello stesso colore provocate da un struscio, erano impossibili da non notare. Combattei contro il mio stomaco per non vomitare, anche se non riuscivo a capire cos’avrei vomitato.
      «Sei un mostro» riuscii a sibilare trai denti. Sperai che lo sentisse.
      Fece un’altra risata malefica. Sì, l’aveva sentito «Lo sono, Susan? Lo sono davvero?» non credetti ci fosse bisogno di rispondere «Qualcuno che prova a migliorare la propria schifosa vita, è un mostro? Io credo di no, Susan, perché, altrimenti, lo saresti c anche tu»
      «Io non ammazzo la gente per i soldi» abiettai.
      «Lo faresti, se ne fossi costretta. Tutti, in questa stanza lo faremo. Se tuo padre andasse in bancarotta, e ti disserro una quantità immensa di soldi chiedendo soltanto ti uccidere delle persone, non lo faresti?» mi provocò.
      «No! Non lo farei mai»
      «Si vede che sei ricca, Susan, ragioni come loro» mi disse.
      «Anche tu sei ricca! Perché fai questo allora?»
      «Perché? Per la fama, Susan! Hai idea di cosa significhi la scoperta di questo castello? Soldi a palate a fama mondiale, per aver scoperto il castello di Alfredo il Grande quando si riposava dalle battaglie, quando voleva staccare della sua vita troppo stressante a suo parere»
      Mi ricordai all’istante di chi fosse il volto raffigurato dal quadro scalfito dal tempo, ma ancora ben visibile. Non potevo credere che quel castello appartenesse ad Alfredo il Grande. Restai a bocca aperta. Lei rise.
      «Sì, Susan. Proprio lui»
      «Co… come…?»
      «Come ho fatto a scoprirlo? Nonna Lily, Susan»
      Nonna? Cosa centrava lei in tutto questo?
      «Ti ricordi la sua storia, Susan? Quella di quando la sua nave affondò?» mi chiese.
      Spalancai gl’occhi «È affondata. Qui?!»
      Rise, divertita, forse, della mia espressione «La scoperta non è proprio sua, però. Quando la sua nave attraversò queste acque, si teneva in contatto con nonno Victor con una radio. Erano molto innamorati, e lei era così entusiasta della sua ultima avventura che volle tenersi in contatto con suo marito. La nave affondò. Nonno Victor non seppe più nulla di lei così, risalendo alle coordinate dell’ultimo messaggio inviatogli da Lily, risalii al punto quasi preciso deve affondò la nave. Scoprì l’isola e il castello di Alfredo. Non ne fece parola con nessuno, finché io non trovai le lettere che si erano mandati e decise di rivelarmelo. A me, capisci? Ero così contenta che me lo avesse detto. Per molto tempo cercai di arrivarci, ma non ci riuscii mai. Poi incontrai Steve e la su associazione… ed eccomi qui, a portare presto alla luce questa meraviglia»
      «Perché nonno Victor non lo ha detto a nessuno?» non mi quadrava. Poteva essere un’altra grande scoperta per la nostra famiglia, poteva accrescere la nostra fama, perché non ha detto niente a nessuno?
      «Questo non me lo ha voluto dire» mi rispose amareggiata «Ma cosa importa» si rianimò subito «l’importante è quello che sta succedendo adesso»
      «Perché ti sei rivolta a Steve e alla sua… associazione? Perché non lo hai detto a noi?»
      Sospirò «Era la prima volta che nonno Victor si era fidato di me, volevo che quella scoperta fosse mia al cento per cento. Rivelandolo a voi, sarebbe stata attribuita alla famiglia Dawson, non a Jasmine Dawson!» sottolineò le due parole «Volevo una scoperta tutta mia, che mi avrebbe fatta ricordare per sempre. E Steve me lo ha promesso»
      «Quel è quest’associazione?»
      «Vuoi sapere troppo, Susan» mi bloccò, puntandomi la pistola contro.
      «Sto’ per morire, cosa importa, adesso, se lo so’ o meno?» cercai di farla ragionare.
      Abbassò l’arma «Forse hai ragione, ma non sarò io a dirtelo. Ne adesso ne mai»
      «Come ti senti, in questo momento?» la provocai.
      Si arrestò di colpo, con espressione sbalordita.
      «Come ti senti ad uccidere tua nipote? Una della tua famiglia! Io mi vergognerei a morte, non sarei più capace di camminare a testa alta, di guardare la gente negl’occhi. Come riesci a sopportare il solo pensiero di quello che ti aspetta? Molto probabilmente non lo saprà nessuno, è vero, ma cosa cambia?»
      «Non provarci nemmeno, Susan!» mi puntò di nuovo l’arma contro.
      Mi zitti, e lei sorrise. Sapevo di non avere speranze, quindi perché lottare? Avevo lottato fino a quel momento, adesso basta, ero stanza, non volevo più combattere per sopravvivere. Morendo, avrei rattristito molte persone – o almeno lo speravo- ma avrei reso felice me, avrei finalmente raggiunto quel bellissimo mondo a cui potevo partecipare soltanto vivendo. Strinsi forte la mano di Clark. Sarebbe stata dura abbandonarlo, dirgli addio, ma un ultimo sguardo al suo volto mi sarebbe bastato per dire addio al mondo. La vita, era soltanto un insieme di problemi che si ammassavano sempre di più, a cui tu non riuscivi mai a trovare una risposta concreta; la morte, era felice, non ti avrebbe posto nemmeno la più misera delle domande. Non ti chiedeva altro che la tua anima. La mia, per quanto mi riguardava, poteva anche riprendersela. In quelle ultime settimane, avevo combattuto così tanto per lei, per restare in vita, che si era consumata, ne rimaneva soltanto un granello, quindi, mi preparai a dire addio alla vita, al mondo, al dolore, alla gioia, alle persone, e davo il benvenuto alla felicità eterne.
      Chiusi gl’occhi, in attesa che un mano fredda mi prendesse, e mi portasse via.
      Ma questo non accadde mai.
      Proprio quando stavo per dire addio per sempre a tutto, un colpo di pistola riecheggiò nella sala. Non proveniva dalla pistola di Jasmine, perché ero ancora viva. Il colpo prese in piene un uomo che crollò al suolo senza vita. E poi un altro, e un altro ancora, sempre più uomini si accasciavano al suolo senza vita, sotto gl’occhi increduli e sempre più pieni di paura di Jasmine. Un ultimo colpò partì, e centro la mano di Jasmine con cui teneva stretta l’arma. Essa gli cadde al suolo, e lei si inginocchiò, urlando dal dolore e tenendo stretta la mano ferita.
      «Fine dello spettacolo» esclamò Amy, uscendo allo scoperto da dietro allo schienale del trono. Doveva aver trovato un modo per riuscire a scavalcare il muro del castello, ed entrare dal balcone principale della sala, dietro al trono. Sorridi, e mi incolpai soltanto di aver pensato che potesse abbandonarci.
      Si avvicinò a Jasmine, raccolse la sua arma, e me la porse. La strinsi forte, per paura che potesse contorcermi contro. Amy andò da Damon e Clark, che si misero subito alla ricerca della radio. Puntai l’arma contro la donna rannicchiata al suolo con la mano sanguinante, che mi fissava divertita.
      «Non ne avresti mai il coraggio» mi insultò. Strinsi ancora di più l’arma. Fui tentata dallo sparargli, ma mi trattenni.
      «Non mi provocare» sentii gl’altri esultare: dovevano aver trovato la radio. Sorrisi e mi voltai per vedere Clark corrermi incontro. Non avrei mai dovuto farlo. Jasmine, per quanto dolorante, mi si gettò addosso, scaraventandomi al suolo e spedendo la pistola lontano da me. Immediatamente, mi precipitai a raccoglierla, ma mi arrivò una gomitata in pieno stomaco. Non mi arresi, continuai con il mio percorso.  La raggiunsi, ma prima che potessi puntarla contro alla donna che mi assaliva, lei spinse via la mano, facendomi premere il grilletto. In colpo partì a vuoto. Continuava a dimenarsi per raggiungere l’arma. Dov’era Clark? Cosa stava facendo? Io, comunque, non mi arrendevo. Gli sferrai un pugno in pieno viso, stordendola. Non persi tempo, puntai l’arma al suo stomaco.
      Sentii urlargli «NO!» e insieme a lei, il mio colpo. Si stese di fianco a me, e vidi la vita scorrere via dai suoi occhi.
      Non avrei mai creduto che una persona così importante per me, un giorno, mi avrebbe tradita in modo così atroce. Così meschino.
      Fin da quando avevo messo piede su questa terra, popolata da miliardi di persone pronte a voltarti le spalle in qualsiasi situazione tu ti trovassi, io mi ero sempre fidata di lei. Lei che mi aveva sempre incoraggiata ad andare avanti e non guardare mai indietro, ma sempre avanti. Che il passato è ormai trascorso insieme ai suoi guai, e che di fronte a me si aprivano sempre nuove possibilità.
       E adesso? Cos’era successo? Cosa la aveva cambiato in questo modo?
       Era terribile guardare la persone che tu ritenevi come una delle più importanti, abbandonare questo mondo. Quel posto mi aveva cambiata sì, ma non a tal punto da dimenticare i momenti in cui ero fragile e innocente e lei, lei, era affianco a me a sorvegliarmi. A dirmi cosa fare. A prendere la strada giusta.
      Lei
      Mi rialzai, frastornata, ma contenta di avercela fatta, di essere sopravvissuta. Gettai l’arma lontano da me e mi ripresi. Dovevo dirgliene quattro a Clark. Mi voltai e restai di sasso. Il colpo di prima non era andato a vuoto: Clark era appoggiato ad una colonna, con la gamba sanguinante. Lo avevo colpito.
      «No» era un sospiro, l’unico tono di voce che potessi permettermi di usare.
      Corsi verso di lui, appena in tempo per sorreggerlo prima che cadesse di peso atterra. Lo poggiai sulle mie ginocchia. Lancia uno sguardo alla sua gamba: era messa male.
      «Ragazzi!» li richiamai. Non arrivò nessuno «RAGAZZI!» li richiamai, ancora più forte. Dove diavolo erano?
      «Che succede?» mi chiese Damon, sbucato da qualche parte. Non c’avevo fatto caso. Appena vide Clark steso lì atterra, si slacciò con foga la cintura e si precipitò verso la gamba sanguinante di Clark. Appena lo vide, mi strinse forte la mano e io mi chinai su di lui, come per proteggerlo. Il suo urlo di dolore quando Dam strinse forte la cintura sulla sua gamba, mi fece talmente male come se avessero sparato anche me.
      «Ragazzi! Ho trovato la radio!» ci informò Amy in lontananza.
      Damon mi lanciò un’occhiata piena d’intesa. Annuii e lui scomparve di nuovo. Clark mi stringeva ancora la mano «Mi dispiace» sussurrai.
      Tossì «Non è niente» mi rilassò «va tutto bene»
      Cercai di trattenere le lacrime. Non poteva lasciarmi, non lui, specialmente adesso che ce l’avevamo fatta, che avevamo vinto. Non lui continuavo a supplicare Ti prego, non lui.
      «Resisti» lo supplicai.
      «Ragazzi» Damon corse da noi «Abbiamo contatto i soccorsi. Stanno arrivando» per quanto fosse bella quella notizia, non riuscivo ad esultare. Clark abbozzò un sorriso.
      «Dobbiamo raggiungere la spiaggia» arrivò anche Amy «Qui non ci troveranno mai»
      «NO!» sbottai, stringendo Clark a me «Lui non può muoversi!»
      «Ce… ce la faccio» obbiettò lui «Amy ha… ragione»
      Damon si sporse verso di noi «Lo porto io» mi tranquillizzò, e prese Clark tra le sue braccia. Mi alzai insieme a loro, senza mai staccare gl’occhi da Clark.
      Prima che lasciassimo la sala, Amy tornò indietro e ritornò con la radio in mano. La lanciò con furia verso la parete, rendendola inutilizzabile. Noi la fissammo sbalorditi.
      «Nessuno, oltre a noi, deve lasciare quest’isola» disse. Lo presi come un gesto di vendetta. Lo appoggiai pienamente. Mi raggiunse, sorridendomi, e cingendomi con un braccio le spalle. Insieme, uscimmo dalla sala e ci chiudemmo la grande porta alle spalle, come per chiudere la brutta avventura lì dentro, per sempre.
 
      Riuscimmo ad uscire dal castello senza nessun problema.
      Riuscimmo anche ad arrivare alla spiaggia senza molti problemi. Ci volle quasi tutto il pomeriggio e la notte per arrivarci. C’eravamo riposati soltanto due volte durante tutto il tragitto: eravamo troppo eccitati per aspettare ancora e la paura che i soccorsi potessero arrivare e non trovarsi ci accompagnò sempre. Damon portò sempre Clark, agonizzante, senza mai lamentarsi. Avevo camminato sempre di fianco a loro. Non volevo lasciarlo. Continuavo a pregare che ce la facesse, che sopravvivesse, che potessimo tornare a casa e, un giorno, poter ridere insieme dell’accaduto.
      Non proferimmo quasi mai parola. Rimanemmo sempre in silenzio. L’entusiasmo ci aveva fatto perdere anche le parole. Che cosa ridicola.
      Ancora non riuscivo a credere che tutto quello stava per finire definitivamente, che stavamo per lasciare quell’isola e tutti i brutti ricordi legati ad essa alle spalle. Mi sembrava impossibile, eppure era vero: eravamo riusciti a sopravvivere. Quelle quattro, piccole luci, erano riuscite s sovrastare le tenebre, le avevamo battute. I momenti malinconici e terribili non erano mancati, certo, ma avevamo superato anche quelli. Eravamo riusciti –chissà come- a sovrastare il buio, a sottometterlo sotto i nostri piedi.
      Non c’era niente di meglio che poter sorridere e apprezzare pienamente la propria vita.
      Essa era irritante, stressante, piena di problemi, certo, ma nessuno di noi voleva perderla. Per quanto l’idea della morte (facile, veloce, spensierata) fosse invitante, era sempre più difficile trovare qualcuno disposto ad abbandonare la propria vita. Io stessa, appena sbarcata su quell’isola, avevo sparato di morire per non soffrire più di quanto non stessi già facendo, eppure, dopo aver trovato un ispirazione, una musa per cui valeva la pena di combattere, avevo cambiato idea. Quando sei ad un piccolo passo dalla morte e, miracolosamente, riesci a scamparla, allora puoi apprezzare per davvero il valore della vita, con i suoi pro e i suoi contro.
      Arrivammo alla spiaggia, vivi, e ci mettemmo comodi ad aspettare i soccorsi.
      Stava appena sorgendo il sole, e Clark era poggiato sulle mia gambe quando mi chiamò «Susan?»
      «Sono qui» gli risposi.
      Cercò di mettersi dritto «Devo confessarti una cosa» mi disse.
      Il mio cuore perse un colpo. Lanciai un occhiata veloce verso Amy, ricordandomi il discorso avuto con lei due sere prime. Si stava dichiarando per davvero? Mi sembrava impossibile. Il mio cuore riprese a battere, ma in modo anormale: sembrava che stesse per sfondare la cassa toracica e scappare.
      «Dimmi» lo incitai, con voce tremante.
      «Ti ricordi quel giorno, a casa, quando Rosie ti sgridò per aver messo in disordine la tua camera?» annuii –quando Rosie ti richiamava, era impossibile dimenticarsi le sue urla-, ma non capivo cosa centrasse quello «Beh, ero stato io. Mi annoiavo» mi confessò.
      Risi, un po’ contenta e un po’ triste. Il fatto di dichiararsi mi faceva una tale paura, ma una parte di me non vedeva l’ora di sentirgli dire quelle due piccole ma importanti parole. Avrebbero potuto aspettare, per il momento, mi bastava averlo come amico, per altri progetti ci sarebbe stato tempo.
      «Non sei arrabbiata?» mi chiese, timoroso.
      «Adesso, aspetta che ti riprendi e vedi come ti combino» gli confessai.
      Rise, e io mi unii a lui.
      «Sai» gli dissi, quando mi fui ripresa «quei giorni passati sulla nave sono stati tremendi: tu che non mi rivolgevi più la parola, era tremendo» rabbrividii al ricordo «ma non me ne pento, senza quel litigio, non avrei mai conosciuto Amy ed Harry, e non mi sarei mai riaffezionata così a Dam» gli confessai.
      Ci pensò su «Dovrei esserne contento, o irritato?»
      «Dovresti saperlo tu» gli feci notare, facendo spallucce.
      «Dipende» dedusse, infine.
      «Da cosa?»
      «Cosa avresti fatto, se non avremmo litigato?»
      Ci pensai su, poi risposi «Avrei passato tutto il tempo con te» confessai.
      Si fece di nuovo pensieroso «Allora non va bene» esclamò «Non va affatto bene!»
      «Che c’è?»
      «E me lo chiedi?! Avrei passato tutto il tempo con te, dannazione!»
      Risi divertita della sua faccia irritata: aveva messo il broncio come un bambino. Non riuscivo a smettere di ridere. Fu abbastanza strano sentirmi ridere in quel modo, era da molto tempo che non lo facevo, e mi mancava.
      «Quando ti sarai ripreso, potremo passare tanto tempo insieme» lo consolai.
      Lui si sporse per controllare la sua gamba, contorcendo le labbra in una smorfia «Mi sa che ci toccherà aspettare molto tempo» mi confessò.
      «Ti verrò a trovare in ospedale» la rassicurai.
      «Allora va bene» sorrise beato.
      Restammo in silenzio per qualche secondo, ognuno assorto nei propri pensieri. Sentii Damon chiacchierare animalmente con Amy. Adesso che tutto era finito, era molto più facile sorridere e essere felici insieme a qualcun altro
      «Susan?» mi richiamò Clark, di nuovo.
      «Mmm?» risposi, senza distogliere gl’occhi da Damon ed Amy.
      «Ti ricordi quella sera in camera tua?»
      Il mio cuore si fermò di nuovo. Mi calmai, e feci la finta tonta «Quale?»
      «Quella in cui abbiamo quasi…»
      «Ho capito!» lo fermai, prima che potesse continuare. Dovetti smontare la mia armatura da indifferente, ma poco valeva, prima o poi lo avremo riaffrontato quel discorso, e perché non allora?
      Rise «Secondo te, potremo mai diventare così… intimi?» distolse lo sguardo da me. Alla fine si stava dichiarando, in un certo senso.
      «Intimi? Spero non solo intimi» confessai.
      Si rabbuiò «NO! Certo che no, non solo intimi! Certo, ci mancherebbe!» sembrava molto imbarazzato. Risi della sua espressione «Ma… tu che dici?»
      Feci finta di pensarci su, e decisi che quello non era ancora il momento opportuno «Credo di sì» risposi «ma non adesso. Riprendiamoci prima da quest’avventura, e poi ne riparliamo. Ok?» sperai di non offenderlo.
      «Certo!» non sembrava affatto offeso, anzi, splendeva di nuova felicità.
      Ne fui molto contenta.
      «Eccoli!» esclamò Dam, alzandosi in piedi e puntando il dito verso il cielo arancione.
      In lontananza, non ancora molto definiti e chiari, piccole chiazze di nero si facevano sempre più grandi man mano che passava il tempo. Era finita per davvero. La paura che potessero lasciarci lì a vita era scomparsa, come tutte le paure accumulate sull’isola. Puff! Scomparse come una nuvola al sole.
      Quando atterrarono, gli elicotteri, fecero un gran rumore. Mi stordirono, avevo paura di poter perdere l’udito con tutto quel fracasso. Appena toccarono la sabbia, degl’uomini in divisa corsero verso di me e Clark, afferrando quest’ultimo. Quasi gli saltai addosso per evitare di farglielo toccare se non ci fosse stato Dam a bloccarmi. Ci vollero diversi secondi per capire che erano i buoni, quelli. Su quell’isola, avevo dimenticato come si distinguevano i buoni e i cattivi. Gl’uomini in divisa ci invitarono a salire sull’elicottero, e noi accettammo senza ripensarci. Appena il mio piede si staccò dalla sabbia, un peso si staccò a me, lasciandomi libera da un grosso fardello. Mi accomodai di fianco a Clark, stringendogli la mano e cercando di evitare di guardare dei medici che armeggiavano sulla sua gamba.
      «È finita» mi sussurrò Clark. Quasi non riuscivo a sentirlo con il rumore delle eliche che riprendevano a volare. Mi voltai verso l’isola, osservandola –sperai- per l’ultima volta nella mia vita e dicendogli addio senza il minimo di rancore.
      «È finita» ripetei, rincuorata dalle mie stesse parola.







risalve :)
siamo arrivati alla fine. spero vi sia piaciuta e spero che vi siate divertiti come io mi sono divertito nel pubblicare i capitoli che con tanto impegno avevo scritto e che finalmente, dopo tanto tempo che li avevo spersi nella cartella del mio pc, sono arrivati a qualcuno. 
vi supplico di recensionare per dirmi se vi sia piaciuta o meno, vari errori ecc
vi manto un abbraccio fortissimo
ultima cosa: io sono un fan incorreggibile delle Dramione, quindi mi supplico di rispondere a questa domanda nelle vostre recensioni: ho in mente di pubblicare anche la seconda parte di questa storia, e volevo sapere cosa mi suggerite di fare; pubblicare la seconda parte della storia o una Dramione? vi prego di rispondere perchè non so proprio cosa fare xD
ancora tanti abbracci e baci, Matt <3 <3 <3

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