Il sesto di Ghen (/viewuser.php?uid=13358)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Irregolarità ***
Capitolo 2: *** 2. Sangue e fiducia ***
Capitolo 3: *** 3. Battito, nero, e paura ***
Capitolo 4: *** 4. Solitudine, finti eroi, odio, e soluzione ***
Capitolo 5: *** 5. Potenza, scelta, giusto e sbagliato, e delicata carezza ***
Capitolo 6: *** 6. Vedere e guardare, velo, pezzi d’affetto, illusione, e i due innamorati ***
Capitolo 7: *** 7. Riflessione, ultimo capitolo, ala, arcobaleno, rinascita, vita, scatoletta di pesce per gatti ***
Capitolo 1 *** 1. Irregolarità ***
Il sesto
1.
Irregolarità
Penso
che mi chiamerò June: come
il giugno in cui sono nato, come il giugno in cui è morto il mio gatto,
come il
giugno dei miei genitori che mi hanno abbandonato.
O
meglio: sono spariti, loro.
Il giorno in cui comparve quella meteora in cielo e mi convinsi di
essere solo.
Era comparsa oggi in effetti, in mattina, svuotando il cielo di nuvole.
Mi sono
svegliato e quella stava lassù nel cielo e i miei genitori non stavano
più
nella loro camera. Alla finestra vidi solo qualche foglia morta, che
della
campagna non n’era rimasta più nulla.
Pensai,
scendendo le scale,
che forse quella meteora s’era già schiantata a terra e aveva spazzato
tutti
via, meno che me e la mia casa.
Preparai
per fare colazione,
come se tutto potesse essere normale nella sua anormalità. Magari,
pensai,
poteva forse sistemarsi tutto da solo. Ma ahimè avvolto della mia
innocenza mi
sbagliavo, e in fondo tanto in fondo, io già lo sapevo di sbagliarmi; e
tutto
mi sembrò più chiaro nel veder rientrare Pussy dall’angolo della
finestra. O
meglio: non più chiaro, no, ma nella sua infinita irregolarità, sì.
Pussy
era il mio gatto. Il
mio gatto morto.
Lo
fissai e lui fissò me,
sedendo sul davanzale.
Bello
come lo ricordavo:
bianco e a chiazze nere, con quel suo musetto rosa. Si leccò una zampa
mentre
continuava a fissarmi, ed io fissavo lui mentre ingoiavo i cereali
della mia
tazza di latte caldo.
Il
perché, mi chiedevo, del
suo fissarmi continuo. Non che Pussy non mi avesse mai fissato, ma
c’era un
qualcosa in quel fissare incessante e snervante che quand’era in vita
non c’era.
Eppure, accidenti, non mi chiesi neanche un po’ com’era che fosse
eretto sulle
sue zampe dentro la cucina, quando lo scorso giugno io stesso l’avevo
seppellito sotto qualche centimetro di terra in giardino.
Il
cielo, buffamente,
cominciava a diventar di un arancio diluito, che prese la mia
attenzione. E con
la mia, quella di Pussy. Buffo colore, quello, per essere il mattino.
Di certo
non pensai, continuando ad ingoiar cereali, che doveva sicuramente
trattarsi
della meteora che correva rapida verso il suolo.
«Beh».
Quella voce fine d’un
cantante d’opera mi bloccò l’ultimo boccone. «Dunque è così che deve
andare? Tu
mangi cereali seduto comodamente ed io osservo preoccupato quel coso
lassù,
pregando in Dio per il nostro ultimo viaggio». Era Pussy. Pussy che
aveva
parlato ed io a bocca aperta lo fissai sbalordito. «Non credevo di
finire così.
Va bene, non sarò stato il gatto d’eccellenza che ogni padrone volesse
amare
ma, a mia discolpa, posso dire di essermi sempre lavato, e pulito la
mia lettiera
ogni dì… Ogni dì!», continuava mugolante, osservando prima me e poi la
finestra.
«E-Ed
io che posso fare…?»,
mi decisi a parlare. Avevo paura in verità, di una sua eventuale
risposta:
Pussy sembrava così dannatamente superiore, nel suo miagolare degno
d’un
attore, che mi salì un pizzico d’angoscia.
Nuovamente,
mi fissò dritto
nelle iridi spaventate. «Tu? Era qui che ti volevo», parve sorridere.
«Tu sei
l’unico che può fermare ciò».
«Oh…
io? E come?». Decisi di rimettere
giù il cucchiaino con l’ultimo boccone di cereali e di alzarmi dalla
sedia, per
mettermi al centro della stanza. Se potevo fare qualcosa, dovevo farla
subito.
«Mio
giovane padrone…»,
ricominciò a miagolare Pussy, fissandomi. «June»,
sottolineò il mio nome. «Trova gli innamorati e avrai la soluzione.
Segui il
percorso, vinci la sfida, aggiusta l’intuito e apri gli occhi, solo
così avrai vinto.
E Pussy te lo promette, mio campione, riavrai indietro ogni cosa».
Deglutii.
Era come se avessi
capito ogni cosa di quelle parole, per quel solo momento, che mi sembrò
quasi
vero d’aver già terminato. Riavere indietro ogni cosa: i miei genitori,
la mia
campagna, la mia vita? Tutto vero, mai dimenticato, ma la nuova realtà
mi dava
consolazione: non sentivo nessun dolore.
Sguardo
veloce, quello di
Pussy, che dopo un altro sorriso scivolò via dalla finestra com’era
venuto,
lasciandomi solo con il pensare: da dov’era che dovevo cominciare?
Dovevo
trovare un percorso,
ma l’unico che vidi fu l’andito per la porta di casa: strana, aveva una
forma
inusuale, e così capii che da lì tutto poteva iniziare.
***
Questa
che vi state apprestando a leggere è una piccola storiella immersa in
un mondo
onirico, dove ogni cosa ne nasconde un’altra… quindi non aprite gli
occhi, ma
la mente!
Per
aiutarvi, comunque, vi farò una piccola guida sotto ogni capitolo, che
metterò scritta
di bianco, così basta passare sopra il mouse per leggere ma evita la
lettura
invece a chi non ha interesse.
Il
primo e l’ultimo capitolo sono le cornici della storia, quindi non c’è
molto da
dire su questo primo capitolo che non valga la pena se non dopo aver
letto
l’ultimo.
Forse,
però, annoto una cosa…
June:
il protagonista si chiama June? No. Il protagonista “pensa”
che si chiamerà June, da quel momento in poi. Perché June non è il suo
vero
nome ma dal momento in cui è “entrato” in quello strano mondo non aveva
bisogno
del suo nome, ma del giugno.
E
giugno non è forse il sesto mese dell’anno?
Questa
storia è arrivata seconda (su tre) al contest [Original Malefica 1] L'Ala e...
il Gatto:
(Il
banner mi piace un sacco <3)
Al
prossimo capitolo!
Ciao, ciao da Ghen =^____^=
|
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Capitolo 2 *** 2. Sangue e fiducia ***
2.
Sangue e fiducia
La
porta di casa mia non era
mai stata tanto alta, con grosso manico d’ottone e disegni in rilievo
con buffe
forme d’animali. Non ne riconoscevo neanche uno ma sapevo che dovevano
esserlo,
altrimenti cosa volevano apparire con quelle bizzarre corna e gambe
snelle se
non per animali? In fondo non ci diedi nemmeno poi tanto peso, quanto
che tutto,
mi prendeva la luce fioca che scivolava sotto la porta, che sapeva di
grigio e
non certo d’arancio, come il cielo s’era macchiato.
La
spinsi appena e subito mi
lasciò entrare, come invitato: si spalancò e un vento leggero mi
pervase.
Laggiù tutto sembrava diverso: vi era un sentiero segnato da ghiaia e
tenuto
insieme da alberi lunghi, altissimi, e dalle foglie gialle. Sembrava un
tetto
quello che prendeva il posto del cielo, grigio quanto era vero che
tutto là
dentro, era immerso nella fitta nebbia. Non era certo il giardino di
casa mia, quanto
più una camera che voleva farmi credere di essere in una foresta
d’autunno.
Sentii
qualcosa strisciare lungo
le mie gambe e Pussy mi sorrise.
«Andiamo,
June, hai trovato
il percorso», miagolò, per poi sparire ancora dietro un albero.
Tentai
di fermarlo facendo un
passo verso il sentiero, tuttavia in quel momento capii che il mio
gatto mi
sarebbe stato vicino, nonostante la sua presenza fosse un continuo
viavai.
Era
di un piacevole fresco
laggiù, che mi ricordò di avere indosso solo una maglietta a maniche
corte che
avevo usato come pigiama, e un pantalone da tuta da ginnastica vecchio
e
logoro, che usavo per stare a casa. Ero scalzo. Non era certo
l’abbigliamento
adatto per stare in un posto come quello, eppure non me ne importavo,
tentavo
di ignorare il dolore ai piedi freddi che si sformavano e infossavano
passando
fra la ghiaia.
Mi
voltai e della porta di
casa mia non c’era più traccia, solo il sentiero che proseguiva nella
strada
opposta. Capii che non c’era più verso di tornare indietro, ora che
avevo fatto
il primo passo verso l’avanti, un avanti che non conoscevo e che mi
sembrava
curioso.
Più
camminavo lungo gli
alberi e la ghiaia e più mi saliva una sensazione di forza. I piedi non
li
sentivo più che neanche ricordavo di averli; tutto ciò che mi sembrava
avere
importanza stava nell’idea che il sentiero non era poi tanto male, che
non vi
era niente di pericoloso che potesse crearmi difficoltà, che cominciavo
ad
abituarmi a quell’arietta fresca e lucida, e che tutto laggiù
cominciava ad
essermi amico, man mano che osservavo la foresta.
Sorridevo
fiero che neanche
sapevo più perché, quando all’improvviso un mugugno di dolore prese la
mia
completa attenzione e mi fermai. Era l’unica cosa diversa che avevo
sentito dal
momento in cui misi piede laggiù; anzi era l’unica cosa che sentii, che
di rumori,
dal momento che ci feci caso, non sentii proprio altri.
Un
altro mugugno e infine
capii da chi o cosa provenisse, accostandomi ad un masso, che stava in
mezzo al
sentiero mio. Una palla di pelo si muoveva con lentezza, continuando a
lamentar
dolore, e annaspando come nessuno avevo visto fare mai.
«Ehi…
Stai male?», chiesi
incoscientemente, che una domanda simile non poteva aver alcun
significato se
vedevo bene già con gli occhi miei che bene non stava e che sangue
perdeva.
«Dove sei ferito?».
Avevo
paura di toccarlo, quel
cucciolo. Era piccolo, bagnato e tremava: un cagnolino solo nella
foresta, cosa
mai poteva farci?
«So-»,
prese respiro il cane.
«Sono stato ferito», disse poi, fissandomi con quegli occhi neri e
lucidi, che
in me avevano smosso qualcosa.
«Ma
chi è stato a farti una
cosa del genere?». Non potevo credere potesse esistere qualcuno a
questo mondo
tanto cattivo da poter fare un male tanto grave ad un piccolo
cagnolino; era
una cosa che accettare non potevo.
«Non
so chi sia stato… Io mi
ero fidato», mi gemette tremante.
«Posso
fare qualcosa?»
«Portami
alla fine del
sentiero, ti prego», mi implorò con lo sguardo il cane. «Lì troverò via
di
casa»
Forse
avrei dovuto chiedergli
come fare a fermare il sangue che perdeva, eppure non ci badai,
cominciando a
chinarmi, per farlo salire sulla mia schiena.
«Io
guarirò», gemette poi da
solo, come se avesse potuto leggermi la mente. «Se sarai gentile con me»
Continuammo
il sentiero, e mi
accorsi come quella sensazione di forza che provai agli inizi svanì
lentamente
dal mio corpo. Ero preoccupato per il cane alle mie spalle, che era
piccolo e
innocente, e io dovevo prendermi cura di lui.
Sentivo
la schiena bagnata
del suo sangue, ma il cane non mugugnava più dolore da qualche metro,
al
contrario lo sentivo odorare con fervore sotto i miei capelli,
procurandomi un
certo solletico.
Non
mantenni più le risate e
il cane sembrò ridere a sua volta dopo di me. Ne fui sollevato.
«Hai
un buon odore», abbaiò
ad un certo punto. «Vuoi essere mio amico?»
«Ma
noi siamo già amici»,
conclusi io.
Fu
in quel momento che mi sentii
pervadere di felicità: un sentimento che già conoscevo ma che eppure mi
pareva
così lontano da procurarmi nostalgia. Avevo mai avuto degli amici?
Degli amici
veri?
Fu
quando stavo per
accorgermi che mi mancava qualcosa che Pussy sbucò da un albero alla
mia
sinistra, con il consueto sorriso. «Dobbiamo fare presto, June»,
miagolò.
«Fortunatamente la porta non è lontana da qui, e meno male che hai
seguito il sentiero
come ti avevo chiesto»
In
quel momento mi chiesi se potessi
anche non farlo, ma forse avrei potuto perdermi e non ero certo uno che
rischiava. Se dovevo fare presto, non avevo il lusso di perdere del
tempo
prezioso a lasciarmi in sciocchezze. Forse, pensai, che se non avessi
conosciuto il cane, avrei anche rischiato. Non per volontà di
rischiare, ma la
sensazione di forza che era svanita, se non lo avesse fatto conoscendo
il cane,
forse mi avrebbe tentato.
Forse,
pensai. Ma al momento di certo non poteva interessarmi.
«Chi
è lui?», mi chiese
Pussy, scrutando sulla schiena. «Non perdiamo tempo, caro padrone,
magari
saresti più veloce senza peso in più»
«Lui
è mio amico»
«Credevo
di esser io amico
tuo», tuonò.
«Siete
entrambi amici miei»,
brontolai, pensando alla solita gelosia tra animali.
Pussy
si zittì e per un
attimo pensai di dover aggiungere qualcosa, quando finalmente vidi la
porta che
chiudeva il sentiero. Non riuscivo a vedere cosa andava al di là di
quel grande
portone di legno che tutto era chiuso tra nebbia e alberi, talmente
fitti, in
quel breve spazio, che costruivano un muro per concludere il percorso.
Pussy
corse per primo e io a
breve mi accostai a lui.
Vi
era una strana apertura
sulla porta, all’altezza del mio petto, e sopra di essa una targa. Non
riuscii
a comprendere tutte le parole, forse non lessi con la dovuta cura, ma
ciò che
compresi mi fece impallidire.
M’inchinai
per far scendere
il cane dalla schiena, che felice mi leccò il viso, scodinzolante.
Sorrisi
vedendo che si poteva reggere perfettamente sulle sue zampe e che il
sangue si
era fatto molto meno: le ferite non erano più quelle di quando lo
trovai per
strada.
«Adesso
apro la porta, dovete
aspettare un attimo», dissi.
«Io
vi saluterò quando
andrete oltre la porta», abbaiò il cucciolo. «Devo tornare a casa»
«Non
verrai con noi?». Fui
come ferito; la sua presenza mi mancava ancor prima che se ne fosse
effettivamente andato.
«Devo
tornare dalla mia
famiglia»
«E
se ti faranno ancora del
male?»
«Può
succedere, ma mi
ricorderò della nostra amicizia e guarirò ancora, lentamente», sorrise
il cane.
Lo
sguardo di Pussy che
indicava la porta mi fece ricordare ancora una volta che non avevo
molto tempo
a mia disposizione e così mi ressi di nuovo in piedi, osservando quella
fessura
sulla porta, con timore.
«Come
bisogna aprire questa
porta, Pussy?», mi voltai a lui.
«Temo
tu conosca già la
risposta», miagolò. Per un attimo il suo sguardo andò a depositarsi sul
cucciolo ed io lo seguii: il sangue. Ne aveva ancora un po’ sulle
zampe.
La
bocca della porta era
piccola e una zampa poteva esser infilata senza problemi. Sacrificio,
sangue,
pegno da pagare. Se volevo proseguire dovevo pagare.
Strinsi
i denti e decisi: ero
io quello che doveva proseguire ed io quello che doveva pagare, non
avrei mai
sacrificato un mio amico. Infilai di fretta il mio dito indice della
mano sinistra,
per non cadere in ripensamenti, quando la bocca della porta si fece più
grande
per farmi spazio e infilai l’intero braccio.
Una
lama veloce mi parve di
sentir strisciare dentro la bocca e un taglio netto accompagnato dal
dolore.
Volevo piangere, ma dovevo esser forte di fronte a loro e mantenni
saldamente
la mia postura.
«Tutto
a posto, mio
campione?», miagolò Pussy, mantenendo un tono vagamente compiaciuto.
«Più
la paura, che il resto»,
dissi, convinto, udendo la serratura della porta scattare e aprirsi
lentamente.
Ne
tirai fuori il braccio e
notai una ferita lungo l’arcata del pollice: tutta rossa al suo interno
mi
parve di vederne un baratro, mentre tutto intorno ad essa le macchie di
sangue
asciutte facevano capire che ciò che serviva era stato prosciugato.
«Buona
fortuna, amico mio»,
mi parve di sentirlo piangere, mugugnando nella flebile voce e
m’inchinai a
salutarlo. «Saremo amici per sempre, lo giuro», abbaiò scodinzolante e
prese
leccarmi la ferita.
«Lo
giuro», dissi anche io e
mi voltai alla ricerca di Pussy, alzandomi in piedi.
«Sono
già innanzi a te»,
miagolò il gatto a pochi passi, dentro la nuova stanza, nel nero più
totale. Lo
seguii e il cane corse indietro.
«Spero
tu sia pronto per
questo, June», miagolò. «Questa sarà difficile»
Mi
guardai la ferita alla
mano e strinsi i denti: nulla poteva esser peggio, pensai, e deciso
presi
passo.
***
Non ci sono scusanti! Da
più di un anno non aggiorno Il
sesto, mi dispiace :(
Da
adesso spero di aggiornare con tempi un po’
più regolari, visto che comunque la storia è finita non dovrei avere
troppi
problemi.
C’è qualcosa da dire su
questo capitolo?
Passate
il mouse...
Due
elementi principali: il cane e la forza. La sensazione di
forza lo avrebbe condotto a sbagliare, questa è stata persa quando ha
deciso di
prendersi cura del cane. Il cane rappresenta un amico, colui che ti
consiglia,
aiuta nel momento di bisogno e ti sta accanto; se un amico non ci fosse
stato
non si sarebbe forse perso? Senza amicizia qualcuno rischia di
perdersi. La
forza rappresenta la spavalderia ed era causata dal sentiero, che
sembrava facile e senza rischi, senza capire che il rischio stesso di
quel posto era dato da quella sensazione, perché lo avrebbe fatto
smarrire e quindi fallire. Invece un amico lo ha aiutato a prendere la
decisione giusta.
Il cane era
ferito. Com'era stato ferito? Le ferite interiori in questo senso erano
esteriori. La ferita del cane era una ferita dell'anima, qualcuno lo
aveva tradito oppure trattato male e si era ferito al cuore. Il cane è
guarito grazie all'amicizia legata a June. La fessura
sulla porta era piccola apposta per la zampa del cane. Una trappola o
un consiglio? June poteva benissimo
sacrificare il cucciolo ma ha preferito farsi male. È stata la
decisione giusta?
Onni Onni ->
Scusami
davvero tanto per
l’attesa!
Comunque sembri perfetto per questa storia, sei perfino nato a giugno
:D Spero
di non deluderti con i capitoli che seguiranno ^_^’
Il
prossimo capitolo de “Il sesto” s’intitolerà “Battito,
nero, e paura”!
Ciao,
ciao da
Ghen =^____^=
|
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Capitolo 3 *** 3. Battito, nero, e paura ***
3.
Battito, nero, e paura
Più
mi guardavo la ferita
alla mano e più notavo qualcosa che cambiava. Non era il solo fatto che
non
riuscissi più a muoverla come volevo a preoccuparmi, quanto più quello
strano
colore grigio che aveva iniziato a formarsi tutt’intorno, che cresceva
ricoprendo la mia mano.
Rividi
Pussy che continuava a
pochi passi da me a camminare lungo l’unica strada presente,
ondeggiando la sua
coda a sinistra e destra in una lenta musica, mi chiedevo com’era che
non fosse
già sparito per poi ricomparire più avanti. Pensai doveva esser a causa
della
camera, o quel che pareva dov’eravamo capitati, se ancora restava al
fianco mio.
Faceva paura in effetti, tutto quel nero, che la sola luce era data
grazie alle
finestre, o quel che erano. Era un lungo andito, con dei soli buchi
rettangolari e bianchi a pochi passi l’uno dall’altro e nient’altro. La
porta
si richiuse da sola e mai più la rividi.
Avevo
paura, ammisi a me
stesso, quando iniziai a sentire un battito lontano, che si faceva man
mano
meno lontano da noi.
«Dimmi,
Pussy». Quel pensiero
non mi abbandonava. «Tu sai chi era stato a ferire il cane, non è vero?»
Nemmeno
si voltò a me, che
fosse per poca importanza o per non voler fermare il lungo camminare.
«Il
tradimento, June, procura
ferite profonde», miagolò. «Più profonde e taglienti quanto più la
fiducia e
l’amore riposto erano grandi. E mi spiace dirlo per lui, ma i cani… Ai
cani
basta poco… per ferirsi»
Sentii
un groppo alla gola ma
non ebbi il tempo sufficiente per distrarmi che il battito si era fatto
infinitamente più forte e mi fermai, spaventato.
«Non
fermarti, June, potrebbe
arrivare», urlò Pussy tanto forte che vidi scintillare i suoi denti
fini. «Dobbiamo
andare dritti alla fine. Tu non ci devi cascare»
«Cascare
dove?»
Il
battito si fece più forte
che raschiò alle orecchie e mi fece cadere a terra.
Nero.
I
canini di Pussy sulla carne
del braccio destro mi fecero tornare in me e scossi la testa. Il mio
gatto
tentava di tirarmi poi per la maglia e così capii di dovermi alzare.
Non
ricordavo nemmeno più
come arrivai a cadere.
«Un’altra
caduta potresti
pagarla a caro prezzo, June», miagolò lui.
I
battiti erano lontani ma l’ansia
cominciava a crescere. Non sentivo più il braccio sinistro e guardai ad
occhi
spalancati, scioccato, com’era divenuto: il grigio s’era fatto strada
lungo la
mano e aveva ricoperto tutto fino al gomito. Una domanda mi venne così
in mente
che mi ghiacciò al sol pensiero: ma da quanto tempo fui sdraiato a
terra?
Non
passò molto tempo che
Pussy mi ricordò che dovevamo fare presto e veloce, con lui al suo
fianco presi
a correre, finché non colpii contro qualcosa e cadendo di nuovo a terra
mi voltai
indietro, fu in quel momento che lo vidi… Era un uomo, o una sagoma
d’uomo,
completamente nero, armato di una lunga spada, che si avvicinava
pericolosamente a me. Il battito, quel battito d’un tamburello, da lui
proveniva e diveniva più forte come s’accostava pericoloso.
Mi
rialzai rapido prima che
la sua spada mi ferì e ripresi a correre. Correre e solo correre che
non vidi
più Pussy né avanti né dietro e mi sentii perso, spaventato, vuoto.
Mi
colpii ancora e caddi,
sbattendo la testa. Davanti a me, il tamburello aveva aumentato il suo
battito,
e la spada mi pendeva pericolosa sulla testa.
Mi
chiesi il perché. Il
perché di tanto odio senza fondamenta. Il perché di tanto male senza
ragione,
verso una persona piccola quale ero, da una persona grande e grossa
come
quello.
La
sua spada stava per
colpirmi e pensai d’esser spacciato, davvero; ma d’istinto posi il
braccio
sinistro a difendermi e straordinariamente lo fece davvero. La sua
spada si
tagliò un poco e il braccio dallo scontro ne fu illeso. Grigio come
l’acciaio, pensai
di avere io il coltello dalla parte del manico, per una volta, e
mostrandomi
arrabbiato e tanto sicuro dal non aver più paura di lui, la sua spada
si tagliò
e l’uomo la gettò a terra, restando immobile a me dinnanzi.
Pussy
sorrise e si sedette sul
pavimento. «Ben fatto, mio campione, una ferita alle volte può
proteggere se
stessi»
Il
tamburello stava sul suo
petto, tanto piccolo ma che adesso potevo veder: i suoi battiti
andavano più
lenti; le bacchette si prendevano lunghe soste tra un respiro e
l’altro. Gli
occhi dell’uomo lacrimavano ma il suo sguardo, ora che si mostrava, era
truce ed
infuriato.
La
porta, lungo il corridoio,
era il rettangolo più luminoso di tutti. Ignorai l’uomo, per il male
che mi
aveva procurato, e seguito da Pussy solcai la luce.
***
Eccomi
di ritorno! Me la prendo straordinariamente comoda,
chiedo perdono :P
Passate
il mouse...
Se
June avesse sacrificato il cane non si sarebbe
procurato quella ferita e lo scontro contro l’uomo come si sarebbe
concluso?
Non avrebbe potuto difendersi e sarebbe stato spacciato.
La ferita in fondo è il ricordo di un’amicizia e l’uomo è stato
sconfitto per
questa ragione. Ma chi era quell’uomo? Il tamburello era il suo cuore,
lui per
primo era stato ferito, rappresenta un uomo solo e arrabbiato con il
mondo, che
ferisce gli altri per proteggere se stesso. Può essere un bullo della
scuola o
il vicino di casa impiccione che cerca di interessarsi nella tua vita
perché la
sua non dà nulla.
E ritornando al capitolo precedente, si parla ancora del cane: Pussy
dice che il cane ha buone possibilità di ferirsi e tutto parte dal
presupposto che i cani, solitamente, al contrario dei gatti, si
affezionano molto facilmente e offrono amore incondizionato. Non che i
gatti non si affezionino
o
che, ma loro sono più per i fatti propri e credono a volte
che sia l'umano di loro “proprietà”
(passatemi il termine non corretto)
e non il contrario!
Il
prossimo capitolo de “Il sesto” s’intitolerà “Solitudine,
finti eroi, odio, e soluzione”!
Ciao,
ciao da
Ghen =^____^=
|
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Capitolo 4 *** 4. Solitudine, finti eroi, odio, e soluzione ***
4.
Solitudine, finti eroi, odio, e soluzione
Il
cuore mi batteva furioso. Avevo
rischiato di morire e il pensiero non mi si scacciava dalla mente.
Avevo
rischiato la morte per
una persona anonima armata di spada.
Mi
fissai il braccio e vidi
come il grigio stava ormai salendo su per la maglietta: quella stessa
arma
usata per difendermi avrebbe finito per uccidermi a sua volta, me ne
rendevo
conto sempre più.
La
ferita alla mano: quella
stava cominciando a divenire più grossa, spaccandosi e mangiando ciò
che
trovava per la sua strada. Non perdeva sangue ma il rosso era ormai
imponente,
e sembrava profonda come un baratro; mi ci potevo buttare giù ogni
volta che la
fissavo.
Avevo
caldo e sudavo: il sole
picchiava forte i suoi raggi contro di me. Pussy era svanito fra le
dune di
sabbia da parecchio tempo ed io continuavo da altrettanto parecchio
tempo a
seguire la strada indicata dalle pietre sparse per il deserto, come mi
aveva
suggerito di fare.
Mi
fermai e guardai attorno
spaesato: non c’erano mura, non c’era soffitto, solo sabbia e
stanchezza a
farmi compagnia in quell’immenso mondo senza fine.
Mi
gettai sulla sabbia
afferrando una di quelle pietre che m’indicavano il cammino. La gettai
lontano,
infuriato, e la sabbia mi prese con sé, dondolandomi fino al creare una
zolla
d’ombra, solo per me, che scivolavo al suo interno. Al
diavolo tutto, pensai adirato, mantenendo strette le mie
ginocchia, osservando ancora una volta la ferita dolorante. Non c’era
via di
scampo e tutto mi aveva chiaramente abbandonato. Avrei preferito stare
là
dentro a vita, al sicuro, e lasciarmi uccidere dal grigio che stava
prendendo
poco a poco il mio corpo. Mi avrebbe ridotto in cenere. Niente aveva
ormai più
importanza.
«Non
vorrai farmi credere di
star prendendo un po’ di fresco», il miagolio della fine voce simile ad
un
cantante d’opera di Pussy mi distrasse appena un attimo. Mi osservava
da sopra
la zolla, muovendo la coda su e giù, ma ritornai ai miei pensieri e lo
ignorai.
Come ignorai la zolla farsi a poco più profonda. «Stiamo perdendo
tempo, June,
la meteora non aspetterà certo te».
«Non
m’importa più»
La
mia voce dura lo doveva
aver sicuramente lasciato per un attimo esterrefatto, tanto che ci mise
un po’
a riformulare qualcosa da dirmi.
«Hai
idea di ciò che accadrà
se la meteora si schianta? Come sarebbe a dire che non t’importa più?»
«Ci
sono cose di cui
m’importa e altre di cui non m’importa, Pussy. E al momento… non
m’importa più
di nulla: potesse il mondo annullarsi completamente, io morirò con lui»
La
ferita si faceva più
profonda e aperta quanto più dolore mi procurava. Ed io, come allocco
di
prim’ordine, restavo là a fissarla senza pensare alla soluzione, ma
solo al
fatto che era accaduto e al male che faceva.
«Tu
sei uno stupido sciocco,
June», mi gridò. «Condannerai miliardi d’animali solo per il tuo
stupido cuore
ferito»
«Lo
stupido cuore ferito
stava facendo il possibile», le lacrime mi rigarono il volto. «Ma non
c’è
davvero più niente ch’io possa fare. Lo stupido cuore ferito vuole star
da solo
adesso, stupido gatto morto»
Non
mi resi conto che forse,
con quelle mie parole, procurai una ferita anche a Pussy. Lui se ne
andò e mi
lasciò solo come desideravo, senza aggiungere una parola in più che
potesse
smuovermi qualcosa, ed io piansi più forte. Piansi più forte e urlai,
quanto
più profondi divenivano la zolla di sabbia e la mia ferita sulla mano.
Perché,
mi domandavo, dovevo
andare là e salvare il mondo quando il mondo non aveva salvato me?
Quando tutto
mi fu portato via, quando mi sentii solo e svuotato, quando tentarono
di
uccidermi, dov’era il resto del mondo? Perché dovevo salvare anime che
non
avrebbero fatto altro che ferirmi e ferire il loro prossimo
continuamente,
senza riserve e senza ragione, e perché proprio io?
Fosse
per me, pensavo,
potevano anche morir tutti.
Potevano
morir tutti loro,
nelle loro chiassose risate e parole affilate. Nel fuoco potevano
bruciare, e
nel dolore perire, per ciò che meritavano, per ciò che facevano della
loro vita
e per quelle che rovinavano.
Ch’io
non ero né santo né
eroe e potevo permettermi il lusso d’odiare. Odiare per il dolore che
portavo
indosso come un guanto, e che non potevo abbandonare.
Un
giorno, anzi notte, udì
una voce già conosciuta e lontana, che chiamava il mio nome. I miei
occhi erano
gonfi e rossi, pesanti e rotondi, non vedevano più molto bene avendo
continuato
a piangere senza limiti di tempo, ma infine lo riconobbi, il mio
stupido gatto
morto.
Non
mi resi conto di quanto quella
zolla di sabbia fu diventata tanto profonda finché non guardai lui
ricoperto di
stelle.
«Hai
pensato al tuo uscire da
qui, June?», mi domandò. «Il piangersi addosso ha portato tante vittime
quanto
le pulci ne fanno ogni dieci anni», miagolò.
«Cosa
ne sai?»
«Sono
un gatto, e se permetti
di pulci ne ho avuto a che fare parecchio molto più di te», rimbeccò
aspro.
«Non
parlavo di pulci»
Si
mise più comodo nel suo
guardarmi attento: gli occhi verdi divenivano così più fini e accesi da
farmi
quasi da fari per la notte.
«Sei
il sesto, June», disse
lui ad un certo punto. «Altri si sono fermati a questo punto, come te»
«Che
fine hanno fatto?». Il sesto in
cosa non capii, agli inizi,
eppure era come se tutto fosse comunque chiaro.
«Morti», sottolineò con garbo, prendendo
ad affilarsi i baffi con
gli artigli di una zampa. Sembrò non importagli particolarmente. «I
primi
cinque sono caduti nelle trappole più sciocche, tra chi si è perso, tra
chi
sacrificò il sangue sbagliato e si fece affettare e chi, ahimè, cadde
vittima
del suo animo ferito. Ma sai, tu June, sei arrivato fin qui, e solo un
altro
oltrepassò la porta dopo»
«Tu
eri con loro?»
«Oh
no, loro avevano i loro;
io appartengo solo a te»
Mi
fissai ancora una volta la
ferita. Il baratro rosso mi richiamava a sé e il dolore era lancinante.
Versai
altre lacrime, nella vergogna, davanti a Pussy.
«Ma
sono solo», mugugnai. «È
troppo, accidenti. E certa gente merita la morte»
«Certa, appunto, mio caro. E molti,
credimi, non sono quella certa»,
miagolò. «E chi ha detto mai che
sei solo?»
«I
miei genitori… mi hanno
abbandonato. I miei amici… non ne vedo neanche uno qui con me. Sono
solo nel
mio dolore e nessuno potrà farci mai niente»
«Sarai
solo se non farai
nessuno partecipe del tuo dolore, perdiana»,
si lasciò sfuggire il mio micio. «Ed io, comunque, non sono nessuno. E
sto con
te».
«Un
gatto morto, accidenti».
Mi richiusi la testa fra le ginocchia.
Sentii
la presenza di Pussy
ancora con me, anche se non proferì più parola e così, invece che
guardare la
ferita sulla mia mano, osservai a me dinnanzi e vidi un raggio di sole,
per la
prima volta dopo tanto, farmi visita. Pensai, non so come, che forse
qualcosa avrebbe
potuto cambiare, se davo delle possibilità.
Fu
così che piovve dal cielo una
piccola foglia e la raccolsi estasiato. Era la prima completamente
verde che
vidi da quando… da quando, ormai, nemmeno più lo sapevo.
«Wow…
Sei bellissima. Sei l’unica»
«Davvero?»,
sorrise a quel
punto la foglia, solleticandomi il dito con cui la mantenevo, poggiato
sul suo
mento. «Sono… speciale?»
«Oh
sì… Sei speciale per davvero,
credimi», risposi sorridente a quella graziosa voce femminile.
«Credo
che anche tu sia
speciale», mi sussurrò. «Ma come mai sei così triste?»
«Sono
ferito»
Sembrò
crucciarsi, per me. Mi
sentii speciale per davvero anch’io, solo ed esclusivamente per quel
viso.
«Ci
penso io, adesso», mi
sorrise la piccola foglia.
La
poggiai sulla ferita della
mia mano e questa restò attaccata al sangue, impedendomi di veder quel
baratro
rosso.
«Usciamo
di qui», mi ressi in
piedi più deciso, senza sentir male alle ossa per il tempo passato.
Pussy
rallegrato si fece due giri su se stesso, mentre la duna riprendeva il
suo
aspetto originale.
«Mi
hai aspettato», sorrisi
al mio caro gatto.
«Non
male, per uno stupido
gatto morto, non trovi?», miagolò acidamente.
«Scusami.
Ti devo aver
ferito»
«Oh,
nulla che non sia
guarito in poco tempo… Dopotutto, per fortuna sono un gatto»
Seguito
dal fedele felino ripresi
a seguir le pietre.
***
Rieccomi
qui! Credo che questo sia il mio capitolo preferito
di questa piccola e stupida storiella XD
June
è il sesto perché ce ne sono stati altri 5
prima di lui, esatto. Hanno fatto lo stesso suo percorso per fermare il
meteorite ma hanno fallito.
Passate
il mouse...
“I
primi cinque sono caduti nelle trappole più
sciocche, tra chi si è perso, tra chi sacrificò il sangue sbagliato e
si fece
affettare e chi, ahimè, cadde vittima del suo animo ferito.”
Poteva
capitare di perdersi al secondo capitolo,
nella foresta. E sempre nel secondo, alla fine, sacrificare il sangue
sbagliato
e cioè quello del cane invece del proprio significava farsi affettare
come
conseguenza nel terzo capitolo dall’uomo con la spada. Poi invece ci fu
quello
che si lasciò ingoiare dalle sabbie in questo capitolo, lasciando che
la duna
scendesse sempre più a fondo.
Animo
ferito? Questo capitolo rappresenta più una
fuga dall’adolescenza: il protagonista è stato oggetto di bullismo
(capitolo
precedente), si sente solo e sconfitto, ferito dal mondo e dalla sua
cattiveria. La duna rappresenta il baratro personale di ognuno di noi
quando ci
sentiamo giù e senza alcuna voglia di risalire, quando abbiamo perso
tutte le
speranze. June si chiede perché debba salvare il mondo quando il mondo,
quando
lui sta male, non c’è. Si rende poi conto che non può fare dell’erba un
fascio
e condannare tutti indistintamente; che sì, certa
gente merita cattiveria, ma non tutti.
E
allora quando vede la luce della speranza cade
dal cielo una foglia, una piccola creatura speciale.
Il
suo ruolo si vedrà meglio nei piccoli capitoli
successivi...
Il
prossimo capitolo de “Il sesto” s’intitolerà “Potenza,
scelta, giusto e sbagliato, e delicata carezza”!
Ciao,
ciao da
Ghen =^____^=
|
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Capitolo 5 *** 5. Potenza, scelta, giusto e sbagliato, e delicata carezza ***
5.
Potenza, scelta, giusto e sbagliato, e delicata carezza
Avevo
ormai abbandonato il deserto
e la sua porta di legno grezzo, nulla c’era laggiù che valeva la pena
di
ricordare. Avevo intravisto l’albero verde da cui sicuramente s’era
separata la
mia foglia, ma nessuna di quelle piccoline poteva essere tanto bella
quanto la
mia, che non era importante andarlo a trovare.
Questo
nuovo andito pareva
quello d’un albergo lussuoso, stretto e un poco lungo, aveva le
mattonelle
bianche che vidi per la prima volta e il battiscopa in legno lucidato.
Mobili
grandi e piccoli lo abbellivano e sulla mia testa vidi un gran
lampadario; ed
era tutto. Già s’intravedevano le porte. Già, le porte. E lì pensai che
la
prova, questa volta, consisteva in scegliere quella giusta.
«Se
dovessi fallire… Il mio
posto lo prenderebbe il settimo?»
Pussy mi
fissò senza alcun’ombra
di sorriso questa volta, per poi fissare le tre porte. «Stai pensando
di
gettare ancora una volta la spugna, June?»
«Oh, no di
certo»
«E allora
vai avanti»,
miagolò.
«Non hai
risposto»,
insistetti.
Non seppi
nemmeno il perché
di quella domanda, forse in cuor mio volevo sapere che se avessi
fallito
qualcun altro dopo di me avrebbe fermato il meteorite, eppure speravo
nel
contrario, in modo dal creare un me stesso veramente speciale, come
credeva la
mia foglia.
«Non
ci sarà nessun settimo,
June», dichiarò infine Pussy. «Il meteorite non può aspettare altro
tempo, la
fine è segnata per luglio»
Vi erano
tre porte. E tra le
tre, solamente due presero la mia attenzione e importanza. L’altra non
la vidi
neppure, anche se sapevo della sua presenza.
Quella a
sinistra portava nel
suo legno inciso un cavallo, che fiero si reggeva a due zampe. Il
pomello era
di un lucido dorato. Quella che avevo scelto io invece, era quella che
stava
nel mezzo: una porta meno rifinita, con il pomello chiuso da una catena
pesante, stretta e forte.
La foglia
mi sorrideva felice
ed io sorridevo a lei, seduto poggiato con schiena alla parete.
Avevo
setacciato l’intero
andito, ma nessuna chiave stava in quel posto, né tanto meno l’unico
piede di
porco trovato era riuscito a sortire gli effetti sperati, spezzandosi
tentando
di piegare quella catena.
«Dimmi,
Pussy, ho per caso
scelto la porta sbagliata?»
«Io non
direi si tratti di
porte sbagliate o porte giuste, mio caro padroncino», miagolò lui,
seduto
davanti a me, fissandomi come meglio sapeva fare.
«L’altra…
L’altra non fa per
me», scossi la testa.
«Lo so»,
mi aggiunse lui.
«Purtroppo»,
aggiunsi invece
io. Carezzando la foglia rivolsi il mio sguardo al soffitto.
«June, non
siamo tutti uguali»,
miagolò ancora.
«Ma
a volte vorrei poter
essere diverso. Sarebbe stato più facile girare quel pomello e andare
avanti,
riuscendo a fregarmene del resto»
«Ma non
saresti tu, saresti
un altro», mi sorrise. «Più facile, certo, ma quante cose indietro
lasceresti? Con
quante cose pagheresti quella decisione? Non sei il tipo, mio caro,
devi solo
trovare la soluzione giusta e andare avanti per la tua strada, non per
quella
di un altro»
La mia
testa restò a fissare
quel muro bianco del soffitto per tanto, troppo tempo, fin quando mi
resi conto
che restare lì a pensarci non mi avrebbe portato da nessuna parte.
Presi dei
mobili e gli gettai
addosso alla catena. Uno dopo l’altro e tutti finirono per rompersi.
Carezzai
ancora la mia bella foglia, e ricordai il sangue che riuscì ad aprire
una delle
prime porte. Staccai la foglia dalla ferita, pensando di poter far
uscire del
sangue, ma quando la poggiai sulla catena questa ebbe un sussulto, per
la prima
volta.
«Cos’è
successo?», chiesi
alla mia adorabile foglia.
«Sì è
mossa», mi sorrise lei.
Solo
allora capii che per
ogni potenza che potevo scatenare, niente, e davvero niente, avrebbe
rotto quella
catena quando invece avrebbe ceduto solo per un pizzico d’amore.
Ripresi la mia
foglia e carezzai delicato con lei gli anelli arrugginiti, che si
aprirono e la
porta scattò.
***
Aw!
Questo è un capitolo
cortissimo che ancora più degli
altri sembra appartenere ad un sogno.
Mi
spiego meglio… passate
il mouse!
Il cavallo
rappresenta una sorta di fierezza, di
orgoglio e spavalderia. June non è mai stato un ragazzino spavaldo. La
porta
con il cavallo è stata creata per chi è all’opposto di June. Quella è
una porta
facile, perché non ha catene e basta girare il pomello per andare
avanti ma
non essendo adatta al nostro protagonista, cosa avrebbe lasciato
indietro? Se
lui si fosse imposto di essere diverso
quella porta sarebbe stata adatta a lui ma nel cambiamento, sempre, si
lascia
qualcosa. Ad esempio un ragazzino come lui, se diventasse più freddo e
scostante, non avrebbe più gli amici che si è fatto che lo troverebbero
insopportabile. June si
chiede se non fosse meglio essere diverso: non è mai successo a nessuno
chiederselo? "Se fossi diversa, forse questo sarebbe più facile", "Forse non soffirei
così", "Forse me ne fregherei", "Se fossi diversa andrei avanti e
basta, senza pensarci". Ecco, l'ultima è la più adatta per descirvere
la porta con il cavallo.
La porta
con la catena invece è quella più adatta
a lui, perché rappresenta la difficoltà dell’essere
se stessi e restare se stessi lungo il cammino.
Ricordiamo
però che c'è un'ultima porta: June sa che c'è ma non la vede. Come la
sensazione strana in un sogno, che sai che c'è qualcosa e ne sei certo,
anche se non lo vedi. In un sogno ha senso anche se nella realtà sembra
strano. Quella è una porta totalmente distante dalle caratteristiche di
June, per questo non la vede. Non può toccarla né averci a che fare,
non è adatta. Magari rispondeva alle caratteristiche di altri ragazzi
passati prima di lui, gli altri cinque.
Il prossimo capitolo del
“Il sesto” s’intitolerà “Vedere e
guardare, velo, pezzi d’affetto, illusione, e i due innamorati”!
Ciao, ciao da Ghen =^___^=
|
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Capitolo 6 *** 6. Vedere e guardare, velo, pezzi d’affetto, illusione, e i due innamorati ***
6.
Vedere e guardare, velo, pezzi d’affetto, illusione, e i due innamorati
Quel
giardino dov’ero finito
era una delle meraviglie più belle che avessi mai visto. Vi erano
innumerevoli
sentieri e tante aiuole fiorite, sculture di pietra e grandi fontane.
Erano
altissimi i lampioni per illuminare le strade in ciottoli nella notte.
«Questa è
l’ultima prova,
June», mi sorrise talmente fiero, il mio caro gatto, che mi sembrò di
essere ad
un passo dall’aver vinto. «Trova gli innamorati e avrai la soluzione».
Questa
volta, come ormai da tempo non faceva, Pussy svanì dietro un albero e
non lo
vidi più.
Mi
domandai se anche l’unico
mio predecessore che non era caduto in inganno dal cuore ferito era
stato là
dentro a cercare gli innamorati.
«Dove
potrebbero nascondersi
mai due innamorati?», chiesi alla mia piccola compagna foglia.
«Questo
posto è talmente
romantico che anche noi due potremmo esserlo», arrossì la foglia che mi
fece arrossire
a mia volta. Era adorabilmente carina, anzi bellissima, e le sue
piccole spine,
quasi impercettibili ad occhio, la rendevano ancora più speciale,
contornando
la sua bellezza come dei piccoli gioielli.
«Forse
siamo veramente noi»,
risi io, scioccamente. Iniziai un balletto fra i fiori di un’aiuola,
quando lei
mi interruppe.
«Ma
due innamorati sono per
sempre»
Me lo
disse con un tono
troppo serio che odorava di cattiva notizia e il mio ballo perse ritmo,
cadendo
a terra.
«Sì»,
risposi.
«Guarda
bene, June, per
quanto ti ami, non staremo mai insieme per sempre», sussurrava tentando
di non
incrociare il mio sguardo. «Io ti ho aiutato e tu hai aiutato me, ma
non siamo
gli innamorati che durano per sempre»
«C-Che
vuoi dire…?». Nemmeno
mi resi conto di quando cominciai a piangere e le mie lacrime fredde
rigarono
il mio volto. Ero un ragazzino, tonto per di più, che credeva a tante
cose ma
che non riusciva mai a vederle per com’erano veramente e confondevo
tutto.
«Che devi
trovare gli
innamorati o la meteora spazzerà via ogni cosa. Anche l’amore vero»
«Tu sei
l’amore vero»
«Apri
gli occhi, June»,
sorrise, per l’ultima volta, e piansi ancora più forte. «Sto morendo»
Divenne
presto vecchia e si
sgretolò in tanti pezzi color arancio, che rimasero attaccati alla
ferita nella
mia mano per via del sangue. Urlai e sentii battiti d’ali di uccelli
spaventati
volare via.
L’amore
era una cosa crudele
ma la ferita non si riaprì questa volta, grazie ai suoi pezzi su di me.
Andare
alla ricerca degli
innamorati era l’unica cosa che poteva salvare tutto e aguzzai bene la
vista. Vidi
una scultura senza braccia, degli uccelli su un albero, una fontana con
sopra
un bimbo alato e fiori, tanti fiori. Dov’erano gli innamorati? Come
potevo
trovarli?
E scovai
degli specchi, ma
questi non mi aiutavano, riflettendo attentamente solo ciò che avevo
già
vissuto, nei posti in cui ero già passato.
Corsi per
un breve pezzo
finché una scultura non prese la mia attenzione e mi accostai. Erano un
uomo e
una donna, abbracciati, sembravano volersi scambiare un bacio.
Sorrisi
fiero, pensando finalmente
di averli trovati.
«Ancora
alla loro ricerca? Il
tempo scorre», si accostò dietro un cespuglio Pussy.
«No,
guarda, credo di averli
trovati», indicai orgoglioso quel pezzo di pietra scolpito, ma lo
sguardo del
gatto mi fece immediatamente capire di aver appena fatto la figura del
povero
babbeo.
«Sei
sicuro in quello che
dici?», miagolò scettico. «Guarda meglio»
«Cosa devo
guardare?», mi
accostai come potevo. «Stanno per baciarsi»
«Io ti
consiglierei di
guardare altrove per cercare gli innamorati, ma se davvero tu credi…»
«No, no,
hai ragione,
guarderò altrove», sbuffai. In fondo aver trovato quei due buffoni
abbracciati
non aveva cambiato per nulla la mia situazione attuale e per di più,
quel mio
bel gatto sembrava aver sempre ragione.
Ritornai
ai miei passi per
veder cosa mi ero potuto perdere per il giardino della notte, finché
non rividi
di nuovo quegli uccelli sopra un albero. Curioso decisi di dargli una
possibilità e mi accostai. Avevano una buffa forma e capii così che
doveva
esserci qualcosa, in mezzo, che m’impediva di vederli chiaramente:
allungai una
mano verso il nulla finché realmente non toccai qualcosa e stringendolo
lo
tirai via. Un lungo velo, che fino a poco prima era niente meno che
trasparente, era ciò che mi stava in mezzo da sempre. Tra me e il
mondo, un
velo che mi accorciava la vista.
Lo
presi tra le braccia e
fissai di nuovo quegli uccelli. Ora li vedevo, e sì, avevo trovato i
miei due
innamorati: due gufi si baciavano ed io sorrisi.
«Ehi»,
tentai di richiamare
la loro attenzione. «Ehi, a voi! Siete innamorati, vero?»
La
richiamai eccome, la loro
attenzione, che subito mi fissarono torvi.
«Che
cavolo vuoi tu, eh?», mi
disse il primo.
«Fatti i
fatti tuoi e torna a
casa», mi rispose invece l’altro.
«Oh no,
devo solo parlare con
voi, non voglio disturbare»
«Si dia al
caso, caro
ficcanaso, che tu stia già disturbando», mi urlò sempre il primo, per
poi
sentire il secondo in replica.
«Fila
via»
Tornai
ai miei passi
sbuffante: ora avevo trovato i miei innamorati, ma erano dei gufi
scorbutici che
non volevano starmi a sentire. Mi riaffacciai agli specchi e vidi come,
di
striscio solamente, l’uomo che tentò di uccidermi era in verità molto
magro e
piccoletto.
«Mio caro
campione, hai
trovato ciò che cercavi?», Pussy mi raggiunse.
«Sì,
e questa volta li ho
trovati davvero», indicai i gufi. «Ma non vogliono starmi a sentire»
«Se non
stanno a sentire te,
June, è finita. Non abbiamo altro tempo»
A quelle
parole strinsi i
denti e tornai indietro a passi veloci: nemmeno quei due gufi potevano
ignorare
la fine del mondo.
«Oh, è
tornato», mi sbottò
sempre il primo, fissandomi appena; facendo finta di nulla credeva non
l’avessi
sentito.
«Sentitemi
bene, voi due! Io
non voglio disturbarvi, ma qui c’è in gioco la fine del mondo», tentai
di
scandire bene le parole, questa volta, tanto che quei due, per l’amor
di Dio,
non potevano ignorarmi ancora.
«Oh,
la fine del mondo dice
lui», mi sussurrò il secondo.
«Cosa non
si dice per farsi
gli affari degli altri e disturbare la vita altrui», commento aspro il
primo.
«Ma io
dico davvero. Dovevo
solo trovare due innamorati e voi lo siete. Perché mai dovrei
disturbarvi e
farmi gli affari vostri?»
«Non
saprei, diccelo tu»,
aggiunsero in coro.
«Tutti
state qui a fissarci e
a sparlare alle nostre spalle», proseguì il primo gufo.
«Tutti che
commentate cosa è
giusto e cosa è sbagliato, senza lasciarci vivere in pace», terminò il
secondo
gufo.
«Io non
vedo cosa commentare,
siete solo due innamorati», sorrisi. «Ma se gli spettatori vi
disturbano, ho la
soluzione per voi». Guardai il velo e pensai che, in fondo, a me non
era mai
servito e a loro di certo poteva esser molto più utile. Lo alzai al
cielo, sorridendo.
«Aprite bene questo velo e sistematelo sopra l’albero: vi vedranno più
soffusi
e nessuno avrà più da commentare»
Li vidi
scambiarsi occhiate complici
e il primo planò verso di me per afferrare il velo con le zampe. «Sai»,
mi
sussurrò lui in confidenza. «Non ci dà fastidio se qualcuno ci guarda,
per
carità; ma la lingua è lunga e affilata, di chi non vuol capire». Prese
il velo
e lo portò sull’albero. Mentre il primo sistemava, il secondo planò
verso di me
e mi consegnò qualcosa, ed io felice capii di aver raggiunto
l’obiettivo. «Un
regalo per averci aiutato», mi sorrise, per la prima volta, arricciando
in modo
strano quel becco fine. «Noi gufi non dimentichiamo mai chi ci ha
prestato
favori»
Poi volò
via sull’albero e
sotto il velo sapevo che si sarebbero baciati ancora, i miei
innamorati. Pussy
mi raggiunse e aprii la mia mano, scoprendo ciò che mi aveva regalato
il
secondo gufo: uno spillo.
***
So bene che questa storia
è scritta male. Mi piaceva l’idea
che mi ero fatta della trama e sì, mi piace ancora, ma non sono
riuscita a
scriverla come avrei voluto e adesso più che rileggere e correggere
qualche
errore dovuto alla distrazione non sto facendo altro, non credo che la
riprenderò mai per riscriverla daccapo. Lo dico giusto per correttezza
(ormai
manca un solo capitolo alla fine), l’ho scritto anni fa, non so come
l’avrei
scritta oggi.
Bando alle ciance, come
sempre passate il mouse per leggere
cos’ho scritto su questo capitolo…
June amava
la foglia e la foglia amava June. È il
primo amore e, come spesso accade, non va sempre come previsto. Qui la
foglia è
morta ma rappresenta semplicemente l’amore che muore in una giovane
coppia. La
foglia tuttavia si sgretola nel diventare vecchia e morire, lasciando
dei
pezzetti sulla ferita, impedendole di aprirsi e recare a June del
dolore: anche
se l’amore è finito gli è rimasto qualcosa che lo consola e non si
dispera.
June deve trovare gli innamorati, non
c’è ancora
molto tempo e quando scopre la statua di due che stanno per baciarsi
crede di
averli trovati. Ma due che si stanno per baciare sono per forza
innamorati? Prende
una cantonata, non vede bene e scopre il perché quando trova i due
gufi: c’è un
velo. Il velo rappresenta i pregiudizi, i preconcetti che la società
tutti i
giorni ci bombarda e ci offusca la vista. I due gufi infatti sono
innamorati ma
a prima vista non ci avrebbe mai fatto caso perché sono semplicemente
dei gufi.
I gufi infatti sono stufi della gente che si fa i fatti loro e li
giudica,
rappresentando tutte quelle persone che ogni giorno vengono giudicate,
in
questo caso per il loro amore.
I gufi
prendono il velo e lo usano per mostrarsi
semplicemente uguali a tutti gli altri.
“Non ci dà fastidio se qualcuno ci
guarda, per
carità; ma la lingua è lunga e affilata, di chi non vuol capire”
La lingua,
quello che si dice, fa male alle
persone. E quelle che appartengono alle persone che giudicano senza
conoscere
lo sono ancor di più. Bisogna sempre stare attenti a ciò che si dice.
Arrivederci
al prossimo e ultimo capitolo, che s’intitolerà
“Riflessione, ultimo capitolo, ala,
arcobaleno, rinascita, vita, scatoletta di pesce per gatti”!
Ciao,
ciao da Ghen =^___^=
|
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Capitolo 7 *** 7. Riflessione, ultimo capitolo, ala, arcobaleno, rinascita, vita, scatoletta di pesce per gatti ***
7.
Riflessione, ultimo capitolo, ala, arcobaleno, rinascita, vita,
scatoletta di
pesce per gatti
Uno
spillo contro una
meteora. C’era qualcosa che avrebbe dovuto farmi pensare che, forse,
non
avrebbe funzionato, eppure non ci badai nemmeno per un attimo. Ero
convintissimo della riuscita, perché avevo superato tutti gli ostacoli
e mi
mancava ormai solo quella meteora.
Non
mi ero perso per la
foresta e non avevo sacrificato il sangue del cane mio fedele, ma il
mio. Avevo
sconfitto l’uomo che mi avrebbe potuto fare a fette grazie alla
maledizione
della ferita che mi ero procurato alla porta. Non mi ero lasciato
ingoiare dal
deserto trasportato dal cuore ferito. Avevo imparato che la forza non
era tutto
e che si poteva sistemar ogni cosa con dolcezza. Avevo aperto i miei
occhi e
scoperto l’amore. Questo era l’ultimo passo mio e poi avrei riavuto
ogni cosa,
come miagolò Pussy. Riavuto ogni cosa… e mi domandavo quasi cos’era che
avrei
riavuto indietro. Sembrava passato del tempo, e così tanto laggiù, da
non
ricordarmi davvero più chi fossi.
June,
il mio gatto morto, la
meteora, malinconia, una forza apparente, il mio amico cane, sangue, un
male
senza ragioni, una ferita profonda, la solitudine, il pianto, la mia
cara
piccola foglia, l’essere speciali, la dolcezza e la carezza, un amore,
fiori, frammenti
dell’amore morto sulla ferita, i gufi innamorati, l’aprire gli occhi.
Chi ero e
cos’avevo passato? Chi ero prima d’essere June e chi ero in quel
momento?
Fissai
lo spillo. Non era poi
così importante capire proprio tutto in quel momento, se prima non
avrei
fermato quella meteora.
«Sei
pronto, June?», miagolò
Pussy, destandomi. «Questo è l’ultimo capitolo, poi si torna a casa»
Seguendolo
per il giardino,
che avrei visto per l’ultima volta, mi accorsi di quant’era ancora più
bello e
magico: i fiori tutti parlavano e le statue si muovevano per ragione
propria. Rividi
la scultura dei due che s’abbracciavano e i loro visi schifati: forse
s’odiavano, pensai, e lo scultore li aveva comunque fatti accoppiare,
dove
sarebbero restati per sempre. Una maledizione, era quella, altro che
amore. Nemmeno
si muovevano, loro: erano solo pezzi di pietra senza sentimento.
«Per
di qua», Pussy si voltò
e poi corse per degli scalini in pietra contornati da fili d’erba,
sopra di
essi vi era una grande arcata. Non vedevo ciò che c’era al suo interno
se non
della luce rossa. Non appena m’avvicinai il tanto che bastava,
tuttavia,
riconobbi il cielo ch’avevo abbandonato, e la meteora, che imponente
lasciava
scie di luci taglienti nella sua corsa spericolata contro il suolo.
Passata
l’arcata mi ritrovai
a salire sull’erba marrone e morta che era rimasta del mio giardino, e
lo
pensai perché riconobbi la mia casa, seppur un po’ diversa, poco
lontana da lì.
Fissai
la meteora e lo
spillo.
Fissai
la ferita con i
frammenti di foglia rimasti a tenermela chiusa. Fissai il braccio
sinistro
grigio con la maledizione che sentii arrivata fino a metà petto. Fissai
il mio
caro gatto, ch’era morto, ma che mi guidò fin lì.
«Cosa
devo fare, di preciso?»,
domandai.
«Credo
tu già conosca la
risposta, mio caro June», sorrise Pussy.
Alzai
lo spillo contro l’imponente
meteora, pronto a lanciarlo. Prima che ciò avvenne, però, qualcosa di
strano
accadde e rimasi a fissare lo spillo che avevo tra le dita: una piccola
ala, trasparente
com’era che mi ricordava quelle delle fate, riportava alla luce i
colori
dell’arcobaleno, e si muoveva lentamente, come un cucciolo al suo primo
tentativo
di volo, era nata dallo spillo. Mi venne da sorridere senza ragione. O
forse la
ragione già c’era, che era la felicità nel vederla.
«Perché
una sola?», chiesi a
Pussy.
«Oh,
June, lo spillo è
piuttosto piccolo: cosa ne avrebbe fatto di ali in più?»
Era
chiaro; ora tutto era
chiaro. Lanciai lo spillo come avrei fatto con un aeroplanino di carta
e la
piccola ala tagliò il vento impavida finché, com’era che doveva essere,
arrivò
a colpire la meteora e questa, come un palloncino bucato, scoppiò e si
arricciò
nel cielo più e più volte diventando infinitamente più piccola ad ogni
sbuffo, riproducendo
del chiasso sempre minore. Risi felice quando vidi che la piccola ala
aveva
perso le sue piume e i colori dell’arcobaleno cadevano dal cielo.
Saltellai
estasiato e risi ancora, osservando Pussy che tentava di acchiapparle
con le
zampe, come ogni gatto che si rispettasse.
«Quest’avventura
è finita, mio
caro campione, non saprei essere più fiero di te», miagolò colmo
d’affetto.
«Mi
mancherai. E mi mancherà
tutto questo», dissi invece io.
«Oh
andiamo, June,
quest’avventura è finita ed è pur vero, ma non hai idea di quante altre
ancora
ne avrai», strizzò un occhio verde. «Basterà tenere sempre a mente ciò
che hai
imparato e seguire il sentiero»
«E
ci sarai sempre tu a
guidarmi?»
«Non
ti viziare, mio caro ragazzo,
io sono solo un gatto»
Una
piuma d’ala mi cadde dinnanzi
e la presi con la mano, orgoglioso di quei colori.
«Cosa
posso fare per te,
Pussy?»
«Una
cosa ci sarebbe»,
sghignazzò con quella sua fine voce che mi ricordava tanto un cantante
d’opera.
«Una scatoletta di pesce fresco. Ne voglio una. Dissotterrami e
mettimela
accanto, aperta»
In
quel momento non pensai nemmeno
per un attimo che quella richiesta pareva tanto insolita quanto da un
lato
orribile, o almeno no, non insolita nella sua irregolarità, ma il mio
gatto
morto, morto da un anno, poteva esser irriconoscibile là sotto la
terra,
adesso. Ma in fondo Pussy era un gatto, e amava le scatolette di pesce
quant'era
vero che amava fissarmi.
Annuii
e osservai nuovamente
il cielo: qualcosa lassù stava finalmente cambiando. Riprendeva ora
l’azzurro
colore del mattino e le nuvole bianche si gonfiarono ancora, paffute
come
sempre. La meteora finì per scomparire in una cicatrice bianca nel
cielo e le
piume d’ala terminavano di precipitare lente. L’erba e le foglie
riprendevano
vita e ad esser verdi; gli alberi ricomparvero tutti spuntando da sotto
il
terreno fino ai massimi livelli d’altezza loro permessi. Gli uccellini
ripresero a cinguettare e le altre case di campagna, miei vicini,
rispuntarono
dietro una fitta nebbia. Il grigio, la maledizione mia che non aveva
fatto in
tempo a mangiarmi, fu risucchiata fin dentro la ferita e questa,
rapidamente,
si richiuse, portando con sé i frammenti della mia piccola amata
foglia. Mi
voltai e Pussy non c’era già più.
Udii
il rumore di pentole di
chi lavava i piatti prima di far colazione e sorrisi, ricordandomi dei
miei
genitori e di quanto li amassi. Avevo riavuto indietro ogni cosa come
promessomi. La vita mia, era tutta di nuovo fra le mie mani.
Corsi
verso casa guardando
come, ovunque, il color arcobaleno delle piume della piccola ala mi
avrebbero
ricordato chi ero. E grazie tante avrebbero ricordato qualcosa un po’ a
tutti,
bastava solo esser lì pronti, che per vederle bastava saper guardare.
Aprii
una scatoletta di pesce
dopo un anno che non sentii più quell’odoraccio e brandii una vecchia
pala. Mi
fermai in giardino e presi a scavare. Non credevo di aver mai potuto
fare una
cosa simile, ma glielo dovevo, al mio caro gatto morto. Una parola data
era una
parola data e scavai fino al sentire qualcosa, così cercai di ripulirlo
dalla
terra. Oh no, quell’ammasso di cosa informe e puzzolente aveva ormai
ben poco
del mio caro gatto ma gli lasciai comunque la scatoletta di pesce e
ripresi a
rimettere la terra inverminita al posto suo. Colpii per schiacciarla e
vidi che
qualcosa si era attaccato alla mia mano sinistra, forse un pezzo di una
piuma
dell’ala ma, quando cercai di toglierla, una zampa a ciuffi bianchi e
neri
sbucò dalla terra e spaventato caddi a terra.
Quando
presi il coraggio di
guardare e capii che non c’era più niente, pensai solo che, frutto
della mia
immaginazione o verità ben celata, il mio caro gatto morto aveva un
pessimo
senso dell’umorismo.
Ripresi la
pala e la
conficcai nel terreno. La prossima volta, per lui, non ci sarebbe stata
nessuna
scatoletta.
***
Ed è… finita *-* Il
finale è frettoloso ma in fondo è tutto
frettoloso; poi per partecipare a quel contest per cui era stata
scritta dovevo
scrivere 7777 parole esatte! Ora non so se sono ancora 7777, credo di
aver
cambiato qualcosa nei capitoli precedenti e non ho contato, ma non
importa.
Ah, l’idea del palloncino
mi è sempre piaciuta e volevo
usarla da qualche parte :D
Passate il mouse come
sempre…
“«Oh
andiamo, June, quest’avventura è finita ed è
pur vero, ma non hai idea di quante altre ancora ne avrai», strizzò un
occhio
verde. «Basterà tenere sempre a mente ciò che hai imparato e seguire il
sentiero»”
La verità è
che la vita, in fondo, è un’avventura.
La crescita lo è e il percorso fatto da June in tutti questi capitoli è
appunto
la rappresentazione di una crescita: le amicizie, gli amori, la fiducia
ecc…
Credevo di avere tante
altre cose da dire su questo capitolo
e su tutto l’insieme ma credo di essermi scordata °.° Eh va beh, nel
caso non
dovrò fare altro che modificare il capitolo.
Ringrazio tutte le
persone che mi hanno seguito fin qui,
nonostante tutto ^_^
Alla
prossima! Ciao, ciao da Ghen
=^___^=
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