Rosa, rosae

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1.

«Ma allora me lo fai apposta?!»
«Cosa?», rispose lui. Canticchiando.
«Come sarebbe a dire cosa? Quella!», rispose lei indicando il tavolo.
Lui seguì la direzione del suo indice, poi commentò: «Questa? Ah, sì. Si chiama rosa...».
«Lo so come si chiama», replicò stizzita. «Quello che non so è perché ne hai presa una. E di quel colore!»
«Aphrodite le aveva finite di bianche...»
«E da quando in qua Aphrodite coltiva rose fuxia?!»
Lui fece spallucce. «Non lo so, fatto sta che ce le ha. Ed ha anche un anello alquanto pacchiano, ma tu lo sai com'è fatto Aphrodite, no?»
«A...anello?», domandò lei ad occhi sgranati. «Che genere di anello?»
«A fascia. D'argento, credo. Con una rosa stilizzata al centro. Perché?»
«E dove l'avrebbe preso?»
«Non l'ha preso. Gliel'hanno dato.»
«E... e chi glielo avrebbe dato?»
«E io cosa ne so, scusa. Prova a chiederglielo, no?»
«È quello che ho intenzione di fare! Andiamo!»
«Non posso, devo ancora dare l'acqua ai fiori!»
«Al diavolo i fiori!», urlò lei sconvolta. «Voglio vederci chiaro in questa faccenda! Adesso!»
«Quale faccenda?», chiese lui confuso, posando l'annaffiatoio.
«Ma come quale? Non vedi questa rosa di questo colore? Ti sembra una cosa normale?»
«Secondo me ha avuto un pensiero carino a piantare rose del tuo colore di capelli, no?»
Lei si portò le mani alla testa e vide il colore dei suoi capelli. Rosa acceso. E urlò.


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Capitolo 2
*** 2 ***


2.



Diluviava quando raggiunsero la Dodicesima Casa. Il sacchetto che lei teneva ben calcato sulla testa era zuppo e pressoché inservibile.
«Secondo me, non è educato piombare qui senza preavviso», disse Mask asciugando la condensa dagli occhiali. «Speriamo che Chuchu stia bene...»
Lei non rispose. Si strizzò l'orlo del vestito e si diresse a grandi passi verso la fonte di un persistente profumo di rose.
«Aphrodite!», chiamò a voce alta, con l'eco che l'accolse gentile. Il nome del cavaliere dei Pesci rimbalzò contro le colonne e le pareti di candido marmo, ma niente più.
«Forse non è in casa», suggerì lui.
«E dove vuoi che sia andato? A farsi un goccetto?»
«Non saprei... Io direi che è il caso di andarcene.»
«Senti, tu tornatene pure indietro se vuoi, ma lasciami quella maledetta rosa.»
«Cos'è tutta questa confusione?»
I due si voltarono. Aphrodite emerse dall'ombra della Dodicesima Casa con indosso un kimono da kendo, una spada di bambù in mano e i capelli legati a coda di cavallo. «Si può sapere cosa sta succedendo?»
«Che hai fatto ai capelli?!», chiese lei indicando la sua acconciatura.
«Li ho semplicemente legati», rispose Aphrodite, le labbra imbronciate e l'espressione torva. «È vietato, forse?»
«Io parlo del colore!», strillò quasi lei. «Tu hai sempre avuto i capelli del colore del cielo, e adesso sono verde marcio!»
«Che cosa?!» Aphrodite aggrottò le sopracciglia e strinse la spada di bambù, che scricchiolò nella sua morsa. «Come ti permetti, tu piccola... Oh... buongiorno.»
«Buongiorno», rispose l'altro, una nota di improbabile timidezza a colorargli la voce.
«Ti trovo in splendida forma», disse Aphrodite avvicinandosi. «Non hai idea di quanto io senta la tua mancanza. Ogni giorno. Ogni notte...»
«Aphrodite, io...», mormorò lui, facendosi piccolo piccolo. Era come se Aphrodite cercasse di sovrastarlo, anche se le loro altezze erano pressoché identiche.
«Sono stato imperdonabile. Lo so. Ma vedrai, riuscirò a sconfiggerla, e allora...»
«Sei impazzito?!», urlò lei. «Ma cos'è successo qui? Tu non dovresti maneggiare quella spada! Dovresti camminare vanesio per il Grande Tempio e lanciare rose avvelenate a destra e a manca!»
Per un attimo soltanto, la mente di lei fu attraversata dall'idea che forse, se si fosse limitato a sfiancarsi di esercizi con la spada, sarebbe stato un bene non trovarsi quelle rose avvelenate a ogni passo. Aphrodite, però, interruppe questo flusso di pensieri. Le puntò la spada contro il viso e le mormorò rabbioso: « Cerchi guai, ragazzina? Non ti basta avermi sottratto Anthy?»


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Capitolo 3
*** 3 ***


3.



«La voce delle campane del tempio di Gion è l'eco dell'impermanenza di tutte le cose. Il colore dei fiori delle coppie di alberi di Sala esprime l'ammonimento che i potenti sono destinati ineluttabilmente a indebolirsi. Anche gli arroganti, prima che passi molto tempo, saranno in tutto simili a sogni in una notte di primavera. Perfino i coraggiosi, alla fine, finiscono con lo sparire, come polvere di fronte al vento.»
I petali dei fiori dell’albero di Sala danzavano un valzer nel vento caldo in un tramonto d'oro.
«Però! Hai impiegato quasi due minuti per dire questa cosa!», disse Miki fermando il cronometro. «Sono parole molto belle. Tue?»
«No», rispose Juri sorseggiando il tè, i capelli biondi e liscissimi sciolti a cascata sull'Armatura della Vergine. «È un celeberrimo brano tratto dall'Heike Monogatari
«Non credo di conoscerlo.»
«Allora, te lo presterò.»
«Grazie», e si cacciò in tasca il cronometro. «Potrei avere del tè anch'io?»
«Solo se prometti di smetterla con quel dannato affare», disse acido Touga.
«Nervosetti, eh?»
«Ha ragione lui. E lo sai», commentò fredda Nanami, specchiandosi nel riflesso bruno della sua tazza.
«È che non capisco cosa ci stiamo facendo, su questa terrazza. Da quando in qua ne hanno costruita una al Grande Tempio?»
«Non saprei. Athena ha una visione molto personale delle regole del Santuario. Avrà voluto apportare qualche modifica», riprese Touga sorseggiando il tè con l'aria di aver sempre fatto quel genere di cose. «Camus, cos'hai?»
«Nulla», rispose Nanami, con una capacità di reazione che stupì lei per prima. «Gustavo l'aroma intenso di questo tè», mentì sapendo di mentire.  No. Non è possibile. Devo essermi sbagliato.
Ma quando portò coraggiosamente i suoi occhi blu a specchiarsi nella tazza, ne vide sì un paio dello stesso colore, ma erano quelli di qualcun'altro.
Erano quelli di una ragazza.

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Capitolo 4
*** 4 ***


4.



Un tono di voce di quelli che ti fanno squagliare come una coppa di gelato lasciata al sole - fragola e cioccolato, senza panna-, e un sorriso abbagliante, da pubblicità: ecco le due cose che lei aveva sempre sognato di trovare in un uomo. Da quand'era alta così. E infatti ci sarebbe caduta con tutte le scarpe se non fosse stato per il colore dei suoi capelli - un punto indefinito tra il rosso vermiglio e l'arancio - e per la divisa immacolata come neve di Gennaio che fasciava la sua figura imponente. Solo gli occhi avevano mantenuto lo stesso punto di colore, anche se la consapevolezza del proprio potere aveva lasciato il posto ad una malizia latente e ad un inappagabile desiderio.

Forse, il lupo di Cappuccetto Rosso aveva lo stesso sguardo affamato, pensò lei deglutendo.
Perché a disarticolarle la mandibola non fu tanto scoprire che il noumenon di Touga Kiryu aveva deciso di manifestarsi attraverso il phenomenos di Milo di Scorpio, quanto il trovarsi di fronte un Camus, biondo cenere e con una treccia di capelli a mo' di cerchietto, che la stava fissando con aria truce, ben deciso a spingerla in una fossa dalle pareti alte e ripide e piena zeppa di schifezze tentacolari ed altamente infiammabili, nel malaugurato caso in cui qualcuno vi avesse inavvertitamente lasciato cadere un fiammifero acceso. Per distrazione. Distrazione che Camus - o chi per lui - non vedeva l'ora di commettere.

«Buon... buongiorno...», balbettò, tentando di rimettere al suo posto l'osso mobile del cranio.
«Adesso che ti ho visto è un buon giorno», rispose Milo raggiante. Gli occhi di Camus si restrinsero ancor di più a due fessure strette strette. «Come mai porti in testa quel copricapo originale?», chiese Milo alludendo alla busta di carta - l'ennesima - che lei teneva ben calata sui capelli.
«Voglio lanciare una nuova moda...», mentì lei indietreggiando.
«Una nuova moda? Permettimi, ma non rende giustizia alla tua bellezza...», le disse Milo avvicinandosi.
«Tu dici, fratello?», s'inserì Camus. «Io, invece, trovo che il marrone sia un colore che le si addice... E molto anche.»

Ora, lei aveva sempre sostenuto che Nanami Kiryu fosse sì una minaccia velenosa, ma bassa com'era, la si poteva neutralizzare in tre mosse- leggi: due sventagliate di ceffoni e un pugno a piantonarla per bene nel terreno; tuttavia, ritrovarsela di fronte e in un corpo maschile di quasi un metro e ottantacinque minò seriamente le basi di questa sua teoria.

Se quello che ho letto in tutti quei racconti di fantascienza è vero, questa qui ha anche la forza di Camus. E anche se non sa maneggiare il suo Cosmo, non credo che esiterebbe a prendermi a sberle non appena Milo volterà le spalle.

E tu non farti prendere a sberle!

Sì, ma devo stare appiccicata a quel mandrillo in calore!

E tu stacci! Vuoi finire spiaccicata come una banana sull'asfalto?

La fai facile tu! Non è te quella che palpeggia!

No, ma se le prendi tu, le prendo anche io. Ragion per cui, sii buona e stagli appiccicata.


Immersa in questi pensieri non si accorse di Milo, che le si era avvicinato di soppiatto, e le sfilò il sacchetto di carta dalla testa e lo lanciò alle sue spalle. «Ora sì che ci siamo...»
«No!», strillò lei coprendosi i capelli con le mani. Una ciocca le finì sotto gli occhi, e solo allora notò che il loro colore era quello della coppetta di gelato di cui si parlava all’inizio. Fragola e cioccolato.


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Capitolo 5
*** 5 ***


5.



«Questo sì che è lanciare una moda...», commentò Camus, braccia incrociate e un sorrisetto di quelli che chiama i pugni come un pastore le pecore. «Cos'è, tu e Himemiya avete pasticciato in bagno con le tinture fai-da-te?»
«Nanami...», lo rimproverò Milo mettendogli una mano sulla testa. «Devi perdonarla, le piace scherzare.»
Scherzare?, pensò lei. «Nulla, nulla. In effetti il mio... parrucchiere ha fatto uno strano miscuglio con i colori...»
«A-hem», tossì Aphrodite, la spada di bambù lasciata alla Dodicesima Casa e una divisa bianca bordata di verde petrolio. «Ci saremmo anche noi...»
«Ma certo, ma certo», lo blandì Milo. «Come potrei non aver notato la Sposa della Rosa e il mio migliore amico?»

Fece loro un gesto come per dire «Accomodatevi» e i due obbedirono, avanzando verso un cono di luce chiara ed un tavolino in ferro battuto bianco e delle sedie dall'ampio schienale.

Oh. Mio. Dio.

«È alquanto inusuale vedere qui la Vincitrice dei Duelli e la Sposa della Rosa. A cosa dobbiamo questa piacevole sorpresa?»
«La vincitrice», disse Aphrodite sedendosi a ore nove, «ha detto che, se voglio, posso riprendermi la Sposa della Rosa.»
«Certo che puoi», disse Milo, seduto a ore tre. «Basta che tu sconfigga la Vincitrice in duello.»
Aphrodite arricciò le labbra in una smorfia ferina e poi rise, di gola, fissando Milo dritto negli occhi: «Ed eccoci al motivo della nostra visita, Presidente... La Vincitrice ha detto che posso riprendermi la Sposa della Rosa senza batterci
«Questo non è possibile», disse accigliato Milo. «Va contro il regolamento.»
«Questo lo so. Ma lei», proseguì Aphrodite con un cenno del mento verso le due ragazze, «ha insistito tanto, ed eccoci qui.»
«Ma non si può!», pigolò insoddisfatto Camus. «Le regole sono regole! Diglielo anche tu, fratello.»
«È vero?», domandò Milo con una nota di sincero stupore.
«Cer...»to che è vero!, stava per concludere lei, quando una voce stentorea e parecchio alterata disse: «Certo che no! Non lascerei Anthy nelle grinfie di quel bruto per tutto l'oro del mondo!»

Perdere un battito non è una bella sensazione. Fa male. Da cani. È come se qualcuno ci avesse piantato un pugnale in pieno petto, mentre tutto l'ossigeno che abbiamo in corpo evapora.
May day, may day!
E lo stesso allarme glielo lanciò il suo corpo un istante prima di girarsi e di vedere Shura avanzare verso di lei, i capelli fuxia che brillavano lucenti.


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Capitolo 6
*** 6 ***


6.



Indietreggiò fino ad aderire con la schiena alla prima colonna a tiro. L'occhio di bue che illuminava il tavolino si tinse di giallo ocra e si spostò su Shura, che avanzò veloce verso Death Mask, gli posò una mano sulla spalla e con il suo sguardo più truce sibilò ad Aphrodite: «Hai fatto i conti senza l'oste, Saionji!»

Il silenzio piombò sulla terrazza come un'incudine. Camus mostrava il suo tre quarti migliore, Aphrodite era livido di rabbia e lei se ne stava a bocca aperta come una triglia appena pescata; soltanto Milo sembrava non essersi scomposto.
“Quanto appena detto da Saionji non corrisponderebbe alla realtà?”, chiese rivolto a Shura.
“Certo che no!”, esclamò questi. “Per fortuna, Wakaba mi ha avvisato appena in tempo. Sei un essere spregevole, Saionji! Come hai potuto mentire così spudoratamente, approfittando della mia assenza in modo così ignobile?”
“Cosa staresti insinuando? Sei stata tu a venire a cercarmi al dojo per dirmi che se solo avessi voluto, mi sarei potuto riprendere Anthy senza combattere! Cos'è, ci hai per caso ripensato, Utena Tenjo?”
“Non dire assurdità! Io sarei venuta a cercarti per proporti una cosa del genere?”, fu la risposta di Shura. La mano che teneva sulla spalla di Death Mask si modellò con maggiore perizia sui contorni dell'osso. “Non farmi ridere!”
“Ma sei impazzita? Sei stata tu a cercarmi. Al dojo. E sei venuta qui. Con Anthy e con me. Touga, avanti! Di' qualcosa!”
“In effetti qualcosa che non mi torna nel tuo racconto c'è, Saionji...”, disse Milo illumiato da un cono di luce viola.
“Qualcosa? Che intendi dire? Non metterai in dubbio le mie parole anche tu?”, chiese Aphrodite quando la luce corse su di lui, tingendosi di verde acqua.
“Tu affermi...”, riprese Milo, “tu affermi di aver ricevuto una visita di Utena Tenjo e di essere entrato con lei ed Himemiya qui, sulla Terrazza del Consiglio Studentesco. È corretto?”
“Ma se mi hai visto tu stesso!”
“Rispondi alla mia domanda: è corretto?” “Sì”, ringhiò Aphrodite, nero in viso.
“Bizzarro. Perché vedi, Saionji... io ricordo di avere visto soltanto te ed Himemiya varcare quella porta...”
“Che cosa?!”
“E' vero”, s'intromise Camus, sotto una luce celeste. “Anch'io ho visto solo te ed Himemiya. Tenjo è arrivata in un secondo momento.”
“Anche tu? Cos'è, una congiura?”
“Rassegnati, Saionji. Sei entrato insieme alla sola Himemiya”, disse Shaka, seduto a ore quattro, sotto una luce arancio.
“E tu quando saresti arrivata, Juri?”, domandò Aphrodite alzandosi in piedi di scatto e rovesciando la sedia alle sue spalle.
“Sono sempre stata seduta qui. Ti ho anche salutato, non ricordi?”, rispose Shaka, i capelli di un caldo albicocca ad amalgamarsi con il candido corpetto della divisa.

Ma quando mai?, pensò lei, notando come nessuno dei presenti, Saionji escluso, cogliesse quelle incongruenze. Aphrodite con la divisa di Saionji e Shaka quella di Juri.
Ognuno vede il noumenos dell'altro, come se si trovassero nel proprio universo, disse una voce maschile che rimbombò direttamente nel suo cervello.

“Tu eri qui?!”, disse Aphrodite incredulo.
“Certo”, rispose Shaka.
“E ci sono anch'io”, disse Aiolia apparendo a ore undici, sotto un luce azzurra.
“Miki?”
“Tu pensi solo a te stesso, Saionji. Sfido che non cogli nemmeno la presenza del tuo prossimo...”, e le mani magre di Juri si serrarono pazienti attorno ad una tazza di tè.
“Tutto questo non ha senso!”, gridò uno sconvolto Saionji.
“Ascolta, Saionji”, disse Shura con un sorriso di sfida, “perché non chiediamo ad Himemiya come sono andate le cose? Lei era lì, giusto? Quindi saprà per certo come si sono svolti i fatti.”
“Io...”, mormorò un irriconoscible Mask.
“Non ha senso!”, strillò Saionji paonazzo. “La Sposa della Rosa fa tutto quello che le ordina di fare il Vincitore dei duelli! Mentirà, se Utena Tenjo glielo ordina!”
“Io non sono come te, Saionji”, rispose Shura sprezzante. “Per me Anthy non è un oggetto, ma una persona. Anthy”, riprese con voce più dolce ma ferma, “di' la verità, per favore.”
Mask fissò Shura dritto negli occhi, la testa all'indietro come se fosse molto più basso di lui, e non alla sua stessa altezza, e mormorò:”Come desideri, Utena.”
Sei paia di occhi si posarono sul volto abbronzato di Mask, il quale, le mani nelle mani, avanzò di un passò e disse:” Sei uscita per portare a mio fratello una rosa fuxia che sarebbe stata benissimo nel suo studio. Poi sono uscita anch'io per andare ad annaffiare le rose, e nella serra ho incontrato Saionji che...”
“Che?”, l'incalzò Shura, le mani strette a pugno.
“Che mi ha preso per un polso e mi ha portato qui.”
“Anthy!”, gridò uno sconvolto Aphrodite quando tutti gli occhi si posarono su di lui ad accusarlo.
“Visto, Saionji? Il tuo gioco è stato smascherato!”, disse Shura additandolo.
Milo alzò la testa distratto ed afferrò una busta che stava piovendo dal cielo. “Per te, Utena Tenjo. Credo sia una lettera di duello...”
“Non importa” l'interruppe Shura. “ Confine del Mondo o no, io sfido Saionji a duello.”
“Così vuole il Confine del Mondo”, sentenziò Milo.
“Così sia”, dissero gli altri.
E si spense la luce.

 

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Capitolo 7
*** 7. ***


7.
Nel buio brillava una rosa.

 
Mignonne, allons voir si la rose
Qui ce matin avait déclose
Sa robe de pourpre au soleil,
A point perdu cette vesprée
Les plis de sa robe pourprée, 
Et son teint au votre pareil.
 
 
Rosa carico, fresca ed aulentissima, svettava alla fine di un gambo lunghissimo, un paio di foglie per ornamento ed una serie fittissima di spine che ricordava la corona della Passione che adornava il volto di quel Cristo che sua nonna teneva appeso sopra il letto. Spiccava, contro un fondo nero pece. Violator, pensò la sua mente, per associazione di idee. Vedeva solo la rosa, i suoi petali attraevano i suoi occhi come calamita con ferro.
 
 
Las ! voyez comme en peu d'espace, 
Mignonne, elle a dessus la place, 
Las, las ses beautés laissé choir ! 
O vraiment marâtre Nature, 
Puisqu'une telle fleur ne dure
Que du matin jusques au soir !
 

Gocce di rugiada imperlavano i suoi petali più esterni. E lei aveva sete. Come alla fine del più sterminato dei deserti, dopo giorni arsi sotto un sole implacabile, e notti ghiacce d'inferno sotto zero. Sete. Come un vampiro davanti alla sua vittima, davanti alla vista del sangue rubino che stilla goccia a goccia da un candido collo. Sete, come il marinaio in mare che guarda il cielo per non sentire in bocca il gusto del sale. Sete, della pelle che desidera il contatto con la fresca rugiada della verzura in un giorno di Giugno.

La rosa è Bellezza. La rosa è Verità. La rosa è il Mistero. La rosa è il Tutto.

La rosa splendeva sempre di più. Brillava, come se un artista avesse sparso con sapienza polvere di diamanti su quei petali di seta che non chiedevano altro che di essere accarezzati, lisciati tra indice e pollice, e sfiorati con la punta delle labbra. Vieni. Vieni. Assapora il mio bacio. Ma temi le mie spine, l'invitava la Rosa, come una sirena che canta note irresistibili al riparo degli scogli. E lei non era poi tanto sicura che quella voce che la stava chiamando con così tanto ardore appartenesse ad un fiore, o ad una donna, santa o puttana, madre o criminale, desiderio mistico o pura lussuria. O forse, era la voce roca di un uomo? O di un qualche essere androgino?
  
Donc, si vous me croyez, mignonne, 
Tandis que vôtre âge fleuronne
En sa plus verte nouveauté, 
Cueillez, cueillez votre jeunesse : 
Comme à cette fleur, la vieillesse
Fera ternir votre beauté.
 
 
 
 
Vieni. Vieni a me con cuore umile. E conoscerai il Mistero. La Fede. La Conoscenza, disse ancora la voce. 
«Sì!», disse lei, in bocca già il sapore della rugiada, la dolcezza di un bacio appassionato e il ferroso gusto del sangue. «Sì! Voglio la Conoscenza. Voglio il frutto proibito!»
E sia, disse la voce. E la luce si spense, portandosi dietro la rosa. 
 
 
Il viso di Utena Tenjo era l'unica cosa che potesse vedere, un’immagine al confine tra primissimo piano e particolare. Aveva gli occhi chiusi, la testa reclinata di lato - destro? sinistro? Decise che non le importava - e la bocca socchiusa in un sogno di visioni. 
Le ciglia nerissime gettavano un'ombra lunga sul suo colorito pallido. Malato. Aveva forse la febbre, la piccola Utena? Poi il viso cambiò. Il mento affusolato si fece più volitivo, e la mascella pretese l'importanza che assume, di solito, nei volti maschili. I capelli si ritirarono come la spuma del mare contro la battigia, e la figura aprì gli occhi, ancora annacquati da sogni e visioni troppo reali per essere fole della mente durante il sonno.
«Cosa... cosa mi hai fatto?», domandò.
E lei non rispose. Annegò in quegli occhi verde scuro, mentre teneva stretto tra le mani il gambo spinosissimo della rosa. 
 

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Capitolo 8
*** 8. ***


8.

 
Rosa che rosa non sei, 
rosa che spine non hai
rosa che spine non temi, 
che piangi e che tremi, che vivi e che sai
rosa che non mi appartieni
che sfiori e che vieni, che vieni e che vai
 

Shura svanì, dissolvendosi come la bruma al contatto coi raggi del sole. Lei allungò una mano gridando: «NO!», e trovandosi a stringere tra le dita solo l’aria umida della stanza. Attorno a lei era ancora tutto buio, scorgeva solo una flebile luminescenza propagarsi dal letto di Shura e dal gambo della rosa.
«No…», mormorò Lei, conscia del fatto che era tutto inutile. Lui soffriva. Stava soffrendo, e la colpa era sua. Solo sua. In questo dove e in questo quando, dove i mondi si intrecciano, le stelle collidono e i vettori…
Vettori?, si chiese specchiandosi in una goccia di rugiada in bilico sul petalo più esterno. 
In quale dove e in quale quando era finita? Perché sentiva solo l’odore del vento e il suono delle palle di sterpi che rotolano indolenti sulla terra bruciata dal sole? 
«Il mondo è andato avanti…», disse la voce dell’uomo, la stessa che le era esplosa nella testa sulla terrazza. «Loro non lo sanno ancora, ma tu ed io…»
Lei si alzò, la rosa stretta tra le dita, le spine che le graffiavano la pelle candida. «Tu ed io… cosa, di grazia?» 
«Lo sappiamo. Questo conta davvero per un uomo, dico sai e rendo grazie», rispose lui trafiggendola con i suoi occhi di ghiaccio. 
«Un punto per te», convenne lei. Gli occhi di lui erano come calamitati sulla rosa. «Stai cercando questa, non è vero?» 
«Tu lo sai…»
“Rispondi alla domanda, pistolero… Tu stai cercando la rosa, non è vero?»
Il pistolero sorrise, le rughe che gli segnavano il viso come fa il sole con una terra non irrigata, ma non lo fece con lo sguardo. I suoi sono occhi di chi ha già ucciso. Poco importa se con la mente, la mano o il cuore. Se non sto attenta, farò anch’io la stessa fine...
«Sto cercando la rosa. Quella rosa. Di questo dove e di questo quando.»
«Capisco. E immagino che io sia sulla tua strada, nevvero?»
«Immagini bene, dico sai e rendo grazie», rispose alzandosi dalla sedia a dondolo. Lei sapeva che quella posizione non era affatto comoda per lui, con l’agra secca che gli stava mangiando le carni dall’interno, ma qualsiasi vantaggio che le sue gambe agili e veloci avrebbero potuto fornirle, evaporò non appena vide la pistola dal calcio di sandalo appesa al suo cinturone.
Merda, pensò. «E dimmi, pistolero… cosa accadrebbe se questa rosa servisse anche a me?» 
Lui sollevò le spalle. «Temevo l’avresti detto», confessò. «Finisce sempre così, c’è sempre qualcuno che ha un bisogno disperato di ciò che serve a te», rispose lui con filosofia. 
«Quindi?» 
«Quindi, ci sfideremmo, e in tutta sincerità, non credo che questa sia una soluzione che a te convenga adottare…»
«Perché sono disarmata, vero?» 
L’uomo annuì. «E perché non sei una pistolera.» 
Aspetta a dirlo, pensò lei, nelle vene la terrificante certezza che sì, quell’odiata rosa serviva anche a lei, e che anche ammesso che per quell’uomo fosse più necessaria dell’aria per respirare, se gliel’avesse concessa o se gli avesse permesso di sconfiggerla, lui non ne avrebbe fatto un buon uso. Affatto. 
«Dunque?», chiese lei. «Me la strapperai di mano?» 
«E perché dovrei?», ribatté lui. «Quella rosa ha fatto confusione cadendo qui. Non doveva trovarsi in questo quando, ma la colpa non è tua, né mia. Non è di nessuno. I Vettori stanno collassando su loro stessi, e il tempo stringe e tu non hai alcuna voglia di essere ragionevole. Quindi…», e l’uomo estrasse dal cinturone una cartuccia d’argento.
Non guardare, non guardare, non guardare!, strillò la voce della Rosa dentro di lei, dritto dritto nella sua testolina, ma era tardi: dal primo istante in cui lei aveva posato gli occhi sulla pallottola, tutto era svanito, uscito dalla porticina sul retro con un gran colpo di vento.
«Adesso ti senti meglio, vero?», le chiese lui. E lei rispose. 


Calmati. Respira, così, da bravo, su. Lento. Dentro. E. Fuori. Ecco, così. Lo vedi che ne sei capace? Lo vedi che ci riesci se lo vuoi?
Camus respirava con lentezza, senza  avere il coraggio di tornare a specchiarsi nella propria tazza. Milo lo osservava di sottecchi, pronto a chiedergli che diamine ci fosse di così terribile in una tazza di tè da non avere il coraggio di finirla, ma da non riuscire a staccarsi da essa.
«Tutto bene?», gli domandò, regalandogli un piccolo infarto. 
«Certo. Perché non dovrebbe?», rispose quest’ultimo. 
Dimmelo tu, pensò Milo posando la propria tazza sul tavolo. «Così. Te ne stai imbambolato con la tazza in mano…»
«Pensavo», rispose Camus prima di mordersi la lingua. Adesso Milo non avrebbe lasciato l’osso sino a quando non l’avrebbe sentito scricchiolare. 
«A cosa? Sempre se posso chiedere, s’intende…», domandò questi con un sorriso poco rassicurante.
«A tutto. E a niente…», rispose evasivo Camus, ben sapendo che così non avrebbe fatto altro che incuriosire la scimmia che gli stava parlando. 
«Ma dai?», continuò Milo. «Anch’io! Com’è fatto il tuo niente?» 
«Come il tuo», replicò Camus. 
«Quindi è un gigantesco coniglio assassino?» 
«Lune la fune e fine non avrà, e la Rosina bella la va' al mercà,e la Rosina bella la va' al mercà», s’intromise Aiolia giocherellando col suo cronometro. Milo lo guardò come se lo stesse canzonando, ma Camus impallidì.
«Sei scemo?», chiese Milo aggrottando le sopracciglia. 
«Marte le scarpe, Lune la fune e fine non avrà, e la Rosina bella la va' al mercà, e la Rosina bella la va' al mercà», rispose Aiolia con un sorriso. 
«No, dico», fece Milo, quando Shaka s’intromise:«Mercole le nespole, Marte le scarpe, Lune la fune e fine non avrà, e la Rosina bella la va' al mercà, e la Rosina bella la va' al mercà.» 
Camus non sapeva cosa aspettarsi. O meglio, non sapeva cosa temere di più, se la pazzia improvvisa dei suoi compagni d’arme o una qualche spiegazione stramba travestita coi panni della fantascienza. Qualcosa come mondi che collimano, piani che si intersecano e cose di questo tipo. 
«Giove le ove, Mercole le nespole, Marte le scarpe, Lune la fune e fine non avrà, e la Rosina bella la va' al mercà, e la Rosina bella la va' al mercà», annuì Aiolia rivolto a Shaka. Il Leone sorrise, posò il cronometro e bevve le ultime gocce del tè. 
«Venere la cenere, Giove le ove, Mercole le nespole, Marte le scarpe, Lune la fune e fine non avrà, e la Rosina bella la va' al mercà, e la Rosina bella la va' al mercà?», s’intromise Aphrodite, apparendo da chissà dove, con Mask e Shura alle sue spalle. Il Santo dei Pesci sorrise, poi regalò una rosa candida a Milo e si allontanò verso il colonnato che delimitava la terrazza. 
«Se è uno scherzo, è durato anche troppo. Chiaro?», disse Milo gettando ai suoi piedi la rosa. «Finitela. Adesso!», intimò a muso duro, prima che Camus trovasse il coraggio di far scendere gli occhi blu sul proprio tè. La ragazza era sempre lì, che lo osservava curiosa e annoiata alla stesso tempo. 
«Sabato il soprabito, Venere la cenere, Giove le ove, Mercole le nespole, Marte le scarpe, Lune la fune e fine non avrà, e la Rosina bella la va' al mercà, e la Rosina bella la va' al mercà», commentò Mask ravviandosi un ciuffo di capelli. 
«Adesso basta!», ringhiò Milo che fece per alzarsi e intimare ai propri compagni di finirla lì a suon di pugni, quando Camus fu più lesto di lui e lo ricacciò a sedere.
«C’è qualcosa che non va», gli disse piantandogli gli occhi addosso. 
«Sì. Ci stanno pigliando per il culo, nel caso tu non te ne fossi accorto», ringhiò basso Milo. 
«No», lo corresse Camus. «Qui sta succedendo davvero qualcosa di strano. Guarda il tè!» 
«Ma vi siete coalizzati?» 
«Guarda. Il. Tè», ringhiò stavolta Camus. E Milo obbedì, trovandosi vis à vis con un paio di occhi dolci e dorati. Gli occhi che potrebbe avere un cane, o una qualche altra bestia intelligente. 
«Ma che…»
«Ché!», rispose una voce, dall’altra parte del tè.
«Festa la vesta, Sabato il soprabito, Venere la cenere, Giove le ove, Mercole le nespole, Marte le scarpe, Lune la fune e fine non avrà». 
Poi si spense di nuovo la luce. 

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Capitolo 9
*** 9. ***


9.



«Sorella.»
Delirio si voltò. Fissò i suoi occhi di stelle, che la stavano scrutando. Era cupo. Ombroso. In pratica, lui. Gli sorrise, una mezzaluna bianca e rossa e lucente di zucchero filato e metallo.
«Ciao», rispose, le mani ad accarezzare il gambo spinoso ed i petali delicati di una rosa.
«Cosa stai facendo, Sorella?»
«Osservo questa rosa», rispose. Come se fosse la domanda più scintillante del mondo. «O è lei che osserva me? Non me lo ricordo più.»
«Capisco.»
Lui le si avvicinò e richiuse la campana di vetro. La rosa brillò per un istante, uno solo, e lei vide innumerevoli universi e sogni e incubi e risate e pianti affacciarsi sui petali vellutati tutti insieme, per poi brillare in un’ultima stilla trasparente. Le visioni non c’erano più. C’era solo una goccia di rugiada sulla punta di un petalo.
«Cosa ti porta nel mio regno, Sorella?»
Lei non rispose. O meglio, non staccò gli occhi, uno azzurro e l’altro verde, dalla rosa sotto la campana di vetro, mentre le sue labbra arancio sillabarono: «Mi sono persa».
Ed era vero, stavolta. Non era un’idea di stelle e campanule, no. Si era persa davvero. Un minuto prima era con Barnaba, a passeggio sotto un cielo di trine e marmellata di piombo, e poi, l’attimo successivo al passaggio di un’idea – bolle di sapone e vento rosso di sabbia – Barnaba non c’era più. Andato, sparito. PUFF
«Lo sto cercando», disse. Come se lui fosse nella sua mente e avesse potuto e saputo dire dove iniziava un pensiero e ne finiva un altro.
«Capisco», rispose lui, ed era vero anche questo. Lui era l’unico che la capiva, quello, tra i suoi fratelli e sorelle e fratello/sorella, che le era più vicino. «Ma non dovresti giocare con la Rosa, Sorella.»
«Perché?», domandò lei, guardandolo da sotto in su. «Che ha di speciale la Rosa?» È così bella
Lui la osservò, fissando interessato qualcosa dentro di lei – un sole lontano? Una stella morente? Una sirena dal corpo di cavallo? – ed al contempo oltre. «È la Rosa che sogna nei sonni dei poeti. Invia loro sogni, visioni. Quello che gli esseri umani chiamano Ispirazione.»
«Era anche lei una tua fidanzata?», domandò la fanciulla grattandosi la punta del naso con una mano smaltata di blu.
Suo fratello scosse il capo. «La Rosa deve dormire, Sorella. Indisturbata.»
«Non le stavo dando fastidio», precisò lei. E pensò: A Lucca a Lucca, a comprare una parrucca. A Pisa a Pisa, a comprare una camisa. A Roma a Roma, a comprare una corona.
«Ne sono certo. Ma la Rosa deve sognare da sola. Sotto la campana di Cristallo Eterno. Perché la Rosa stava sognando più sogni insieme», le spiegò con pazienza, osservandola con i suoi occhi di stelle.
«E allora?», chiese lei, facendo spallucce. «Anch’io sogno più sogni insieme.»
«La Rosa non è come te, Sorella», e qualcosa, forse la visione di un sole azzurro nei suoi occhi o il sapore di ghiaccio della sua voce, sottile ma profonda al tempo stesso, avrebbe dovuto consigliarla. Farla desistere dal portare avanti questa conversazione. Ma non l’ascoltò, distratta da un volo di farfalle d’ombra.
Delirio si voltò. «Hai visto Barnaba?», gli chiese. «Ero a passeggio con lui, fino a poco fa, ma è sparito. E sono preoccupata.»
«No, Sorella. Prova altrove. Nel mio Regno non c’è», le disse. E si separarono. Lei volò via, sulle ali di un pensiero, alla ricerca di Barnaba. Lui osservò il suo volo con i suoi occhi di stelle e tante cose da fare.
La Rosa tornò a dormire.


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Capitolo 10
*** 10. ***


10.

È mattina all'Istituto Ohtori.
Kyoichi Saionji si alza. Si lava. Pettina i suoi lunghi capelli con le dita. Indossa l’uniforme e segue le lezioni del mattino. Nell’intervallo per il pranzo scende in cortile. Anthy Himemiya è lì. Nella serra, a curare le rose. Da sola.
Kyoichi Saionji entra. Si avvicina ad Himemiya. Che gli sorride, con le labbra ed il cuore. Lui le prende la mano. Lei lo lascia fare.
Utena Tenjo arriva. Li divide. Li separa. Utena Tenjo è gelosa. Perché Kyoichi Saionji lo sa. Lei non potrà mai avere Anthy Himemiya. Perché Anthy Himemiya appartiene solo a lui. 
 

Camus dell’Acquario parte in missione. Il Sacerdote l’ha convocato per ordinargli di sterminare dei ribelli. Giovani Santi che hanno tradito i precetti della dea Athena. Camus dell’Acquario sa che non può fare nulla. Camus dell’Acquario sa che dovrà eliminarli. Uno per uno. Camus dell’Acquario serra la mascella mentre scende le scale che lo porteranno alla Prima Casa. Saluta con un cenno del capo il suo amico Milo di Scorpio. Lui sa. Le parole sono superflue. Hyoga del Cigno morirà con loro. Ma morirà per ultimo. Con lentezza. Anche se si tratta dell’allievo che ha forgiato con le sue stesse mani. 
 
 
Roland Deschain è ad un passo dal suo sogno. Ha seminato una manciata sterminata di croci alle sue spalle. Amici, nemici, amori, compagni vecchi e nuovi, il ka-tet, tutto Roland Deschain ha sacrificato per lei. Per la Torre. Torre che sta scalando. Gradino dopo gradino. Fino ad arrivare in cima. Cosa lo aspetta al suo arrivo, non lo sa, ma sa che è alla fine del viaggio. E che il viaggio, alla fine è l’unica cosa che importa davvero. Roland Deschain apre una porta incardinata nella pietra, all’ultimo livello della Torre Nera, in bilico tra i Vettori. Ed esce fuori. A rimirar le stelle. 
 

La Rosa dorme. Sogna di mondi, e stelle, e pianeti, e universi. La rosa sogna da molto tempo. Da sola o in compagnia di un Piccolo Principe Curioso. O sogna anche lui? La Rosa non sa più dirlo ormai. Non ricorda neppure di essere stata colta, secoli fa – ma il quando ha importanza se la tua vita è un eterno attimo di presente? – da mani gentili e grandi e forti e sicure. Mani sognatrici. E la Rosa sogna. E nel sonno sussurra la sua canzone. È anche tua, se la vuoi ascoltare. Prestale orecchio. Lei canta. Da sola. Notte dopo notte.
Canta dai Reami del Sogno. 

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