Sink or Swim

di TangerGin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ~ I ***
Capitolo 2: *** ~ II ***
Capitolo 3: *** ~ III ***
Capitolo 4: *** ~ IV ***
Capitolo 5: *** ~ V ***
Capitolo 6: *** ~ VI ***
Capitolo 7: *** ~ VII ***
Capitolo 8: *** ~ VIII ***
Capitolo 9: *** ~ IX ***
Capitolo 10: *** ~ X ***
Capitolo 11: *** ~ XI ***



Capitolo 1
*** ~ I ***


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~ I ~


 

Sink or Swim – di Harry Styles

 

“27 Marzo, 2003

Eccola là.
Con il suo caschetto perfetto, il ciuffo di capelli color del grano scende composto sulla sua fronte pallida, impreziosito da quella mollettina infantile con una fragola rosa.
La camicetta della divisa stirata a puntino, non una piega, non un’arricciatura, cade a pennello lungo le sue spalle fini. La tipica gonna verde e blu scuro, in tartan, è leggermente accorciata in modo strategico: non troppo lunga, così da mostrare le graziose ginocchia sotto le calze bianche, ma nemmeno troppo corta da risultare volgare.
Sta sorridendo in modo gentile e quasi accondiscendente a quel branco di pettegole del giornalino scolastico, mentre finisce di sistemare i libri dentro il suo zainetto in pelle marrone.
Tutto, in  Lorraine Welsh, è perfetto. Tutto è studiato in ogni minimo particolare per risultare impeccabile, ma senza sforzo. 
Ed il risultato finale è decisamente meraviglioso: quando cammina per i corridoi di questa rinomata scuola è evidente a tutti che lei è l’unica e sola regina. Lo so, sembra una scena da Mean Girls, ma la realtà è proprio quella. Lorraine Welsh brilla di luce propria, ed è assolutamente conscia dell’effetto che ha sui miseri esseri umani che la circondano.
 
Abbasso velocemente lo sguardo, infilando furiosamente i quaderni nella tracolla.
Lei lo ha fatto un’altra volta. Questa situazione è diventata ridicola.
Non le è bastato, a dieci anni, rubarmi il premio di “piccolo matematico dell’anno”: mi ero impegnato al massimo, sapevo di non avere rivali e quel primo premio, quella mountain bike rossa che agognavo da mesi, sarebbe stata mia se quella stupida smorfiosa della Welsh non avesse deciso di partecipare. Poi cosa se ne faceva, una bambina, di una mountain bike?
E non le era bastato nemmeno a 14 anni soffiarmi da sotto il naso la vittoria al concorso di scrittura creativa, quando tutti sapevano che io, Harry Styles, ero nato per fare lo scrittore. Ma no, ecco la Welsh con il suo stupidissimo saggio su qualche cazzata da ragazzina vincere quelle 500 sterline. E non ne aveva nemmeno bisogno, considerato che la sua era la famiglia più benestante di tutta Holmes Chapel.
Io, ingenuo, pensavo di essersi finalmente liberato di Lorraine Welsh vincendo la borsa di studio per il St. Martin College, una delle scuole più prestigiose di tutto il Regno Unito e che fortunatamente si trova nella campagna che circonda la mia cittadina, ma non potevo essere più nel torto. Era ovvio che una come lei aveva un posto riservato in questa scuola da quando aveva lanciato il primo vagito, appena nata.
E adesso, chiaramente, il posto di caporedattore del giornale scolastico era suo, quando io mi sono fatto il mazzo per tre anni e passa in quella redazione, dove mi hanno praticamente sfruttato per ogni cosa: facchino, segretario, rilegatore, fotografo. Tutto tranne che giornalista. Non mi hanno permesso di pubblicare mezza colonna di articolo, in questi tre anni, nonostante ogni settimana proponga idee sempre nuove. Certo, la situazione non è delle migliori, ma non sono tipo da mollare tutto: stringi i denti, mi ripeto ogni mattina davanti allo specchio, e vedrai che sarai ripagato.
Ma chiaramente non avevo messo in conto l’esistenza della Welsh.
 
«Styles, non ti dimenticare di impaginare l’oroscopo per domani!» squittisce Jane, il braccio destro di Satana. Jane Moers è una ragazzina del terzo anno, un esserino piccolo e magrolino, ha diciasette anni e ne dimostra sì e no tredici, con quei capelli lunghi sempre raccolti in due trecce. Inoltre sembra sempre malaticcia, eppure ha più energie di Usain Bolt sotto steroidi. Inutile dire che la odio, non sopporto i suoi occhietti vitrei che mi fissano con supponenza, non sopporto la sua voce stridula. E non sopporto quando mi dà ordini, nonostante abbia iniziato a lavorare al giornale solo da quest’anno e solo perché quella tiranna della Welsh è diventata magicamente caporedattrice.
Mi limito a fissarla con disprezzo, senza nemmeno risponderle. So benissimo di dover impaginare l’oroscopo (dio, che idea IDIOTA, l’oroscopo! Una delle novità proposte ed approvate da Sua Maestà, chiaramente) non c’è di certo bisogno che uno scarafaggio sottoforma umana me lo ricordi.
«Okay, prenderò questa occhiataccia come un sì – continua non curante la Moers – Lol, andiamo? Le altre ci aspettano giù in sala comune!»
Lol. Che soprannome ridicolo. Soprattutto per una come la Welsh, la quale però sembra quasi apprezzarlo. Ne va… fiera. Si crede talmente simpatica? Beh, news flash: non lo è. È una gorgone, un mostro mitologico nel corpo perfetto di una diciottenne.
Lei mi rivolge uno sguardo veloce e arrogante, come a suo solito, e “buon lavoro, Styles”. È così ovvio che stia provando un piacere sadico nel vedermi sgobbare. Lo ha sempre provato, da quando è iniziata questa tacita rivalità che, lo ammetto, la vede sempre primeggiare sul sottoscritto. Ciò che mi fa imbestialire è che io mi impegno, sputo sangue e sudore per ottenere quello che lei riesce ad assicurarsi con un battito di ciglia o un pomeriggio di studio.
Non che Lol Welsh sia una, come dire, sgualdrina.
Non è tipo da darla a destra e a manca per raggiungere i suoi obbiettivi. Ha soltanto avuto la fortuna di ottenere da madre natura un cervello ben funzionante ed un’eleganza innata che riesce ad incantare chiunque. È una di quegli esemplari di essere umano che dimostrano che la teoria darwiniana dell’evoluzione è vera: adesso non vige più la legge del più forte, ma del più affascinante. Del più scaltro. E Lorraine Welsh è la più affascinante e la più scaltra ragazza di tutto il Cheshire.
E sa perfettamente di esserlo.
 
«No, Louis, non puoi capire. Lei è… lei è…»
«Una figa stratosferica? Sì sono d’accordo»
«Pensavo più a “stronza colossale”, a dire il vero» sbuffo, alzando gli occhi al cielo.
Ci manca solo che pure il mio migliore amico finisca nella ragnatela di quel mostro dalle fattezze umane. Sì, perché ormai l’ho imparato: solo io, Harry Edward Styles, sono immune al fascino di quell’arpia. Certo, l’antidoto sono stati anni di sconfitte, di secondi posti, di premi di consolazione e compagnia bella, ma per lo meno posso considerarmi salvo da quella nefasta attrazione nei confronti della Welsh, che tutti gli esseri umani di sesso maschile sembrano avere. Forse è stato anche questo il motivo per il quale non sono mai riuscito stringere un’amicizia decente con qualche ragazzo: sono sempre stati tutti troppo presi a idolatrare quella strega. Mentre io sono sempre stato troppo preso a disprezzarla.
Grazie a Dio, Louis Tomlinson sembra non curarsene. Probabilmente è troppo preso da se stesso per rivolgere le sue attenzioni a qualcuno come la Welsh, che è egocentrica tanto quanto lui. Andare dietro ad una come lei comporta fatica, e Louis non è il tipo da sforzarsi: in poche parole, non ci ha mai provato per pura pigrizia. Dopotutto, gli bastano le cinque o sei ragazze che settimanalmente gli lasciano lettere d’amore profumate sotto la porta di camera e che gli lanciano occhiate adoranti in sala mensa.
«Ciò non toglie che un giro sulla Tommo-giostra glielo farei fare molto volentieri…» allude il ragazzo, tirandomi una gomitata nel fianco, mentre ci incamminiamo verso la palestra della scuola.
«Ti prego, evita questi dettagli macabri. Parlami di quanto s’è data da fare la Mitchell ieri sera, o di come è caduta ai tuoi piedi la Adams ma, ti prego, chiudiamo il discorso Welsh» sbotto irritato, sistemandomi il pesante borsone sulla spalla.
«Oh, piccolo, tenero Styles. Quando aprirai gli occhi sarà ormai troppo tardi!» sospira il mio amico.
Cristo, non sopporto le continue allusioni di Louis. No, non ci sono occhi da aprire: Lorraine Welsh è la mia nemesi. Punto e basta.
Non c’è nessun sentimento recondito di sottointesa e subconscia attrazione, non c’è un’inconsapevole amore tormentato per quella ragazza: la odio. E in fin dei conti come puoi non odiare qualcuno al quale persino i tuoi genitori ti paragonano da quando hai memoria? Spesso mi sembra quasi che preferiscano lei, figlia di altri, a me, loro unico figlio maschio.
No, non sono innamorato di Lorraine Welsh, non c’è niente di complicato in quello che provo per lei. La detesto.
 
Arrivati in palestra, indossiamo con cura le divise, inforchiamo i nostri fioretti ed usciamo con passo svelto dagli spogliatoi, pronti per il nostro allenamento giornaliero. Ammetto che non sono un tipo atletico, non mi sono nemmeno mai avvicinato ad alcuno sport che non fosse il calcio giocato con qualche ragazzino nel giardinetto dietro casa mia ma, da quando ho conosciuto Louis, sono stato quasi costretto a partecipare ai corsi di scherma del college.
Non che mi dispiaccia, anzi. E, modestia a parte, sono pure piuttosto bravino, senza contare che è un ottimo diversivo e sfogo per l’ansia accumulata durante la giornata – ansia che spesso è causata da quel diavolo sotto sembianze umane della Welsh.
E poi, ammettiamolo, fa colpo sulle ragazze, motivo principale che ha spinto Tomlinson a prendere in mano il fioretto: dire “sì, faccio sport, sono uno schermidore” ha tutto un altro effetto piuttosto che dire “sì, faccio sport, gioco a calcio”.
«Cazzo, Harry, fanculo! Vabbene che sei nervoso, ma è inutile che continui a colpirmi a vuoto sulle gambe! Mi fai anche male, dio cristo!» urla Louis, togliendosi furiosamente la maschera e gettandola per terra, dopo il mio ennesimo colpo errato ed incontrollato.
Ci risiamo. Mi sono fatto prendere troppo dalla foga, e sì, stavo immaginando che Louis non fosse altro che Lol. Alla fin fine non ho altri mezzi con i quali sfogare quell’odio e quella rabbia, quello è l’unico universo parallelo nel quale posso dare una lezione a quella stronza.
«Scusa, Tommo, lo so, ora mi calmo – borbotto, andandomi a sedere su una delle panche ai lati della pedana, afferrando una delle bottigliette d’acqua che le ragazzine del club di scherma ci lasciano per l’allenamento. Inizio a sorseggiare la bibita fresca, mentre le risatine delle gallinelle appollaiate sugli spalti attira la mia attenzione. Sono tutte ragazze che si reputano troppo sofisticate e superiori ai ragazzi del club di football, e quindi hanno ripiegato sull’andare in calore per noi, quelli della scherma. Cosa che fa piacere un po’ a tutti, tranne che a me.
Sì, perché quelle ochette non sono altro che scagnozze di lei, l’Ape Regina. Che oggi, guarda caso, è venuta a degnare della sua presenza anche i miseri mortali che sudano in palestra.
Lo fa di proposito, ormai ne sono certo. Evidentemente non si è divertita abbastanza durante la lezione di fisica, nel farmi notare che avevo sbagliato i calcoli di uno stupidissimo esercizio, ed il suo sadismo non si è consumato nemmeno durante la riunione in redazione, quando mi ha platealmente sputtanato per aver sbagliato lo spelling di una cazzo di parola.
Ah, no, a lei non basta. Lei deve rovinarmi anche l’unico momento della giornata che aspetto con trepidazione, durante il quale posso finalmente liberarmi di tutto quell’odio che lei mi procura con ogni suo sguardo, ogni sua parola sprezzante.
Incrocio quegli occhi nocciola, vispi e con quella sfumatura maligna. Un sorriso beffardo incrina le sue labbra fini e perfette.
Oh sì, lei lo sa.
Lo sa perfettamente cosa sta facendo, con la sua presenza su quelli spalti: sta peggiorando la rovina di questa giornata già di merda.
Ne ho decisamente abbastanza. Mi alzo furioso, per dirigermi a grandi passi nello spogliatoio. Non avrei voluto darle questa  soddisfazione, ma è più forte di me: se avessi respirato la stessa aria di quella vipera per un altro secondo sarei esploso.
 
Rientro in camera prima che l’allenamento finisca, trovandoci quindi solo Niall, intento a studiare, come a suo solito.
Niall Horan è l’altro mio compagno di stanza, assieme a Tommo. È un ragazzo irlandese di buona famiglia, dal fisico asciutto e da una chioma bionda che attrae le folle di ragazzine come mosche sul miele, ha un curriculum scolastico eccellente, è presidente del club di scacchi, e potrebbe essere benissimo la versione maschile della Welsh, se non fosse che lui ha del sangue umano che gli scorre nelle vene e, conseguentemente, ha una coscienza ed una morale. Insomma, Niall è proprio il tipico ragazzo che ti aspetteresti di trovare in un college come questo, sarà nominato miglior studente del nostro anno – assieme a Lol, ovviamente – e tra qualche anno ce lo ritroveremo a governare il Paese.
«Già di ritorno?» mi chiede, alzando gli occhi chiari dall’enorme libro che sta sottolineando con cura maniacale.
Sospiro, buttandomi a peso morto sul letto, senza dare spiegazioni.
«Ah, ho capito: qua c’è di mezzo lo zampino di Lorraine…»
«Non chiamarla con il suo nome. La fai sembrare umana, cosa che non è» ribatto io, tirandomi su sui gomiti «ti sembra possibile che oggi abbia dovuto tenermi sotto torchio dalla lezione di fisica delle otto fino ad adesso? Ti pare NORMALE che sia venuta a vedere gli allenamenti di scherma, con quel suo sorrisetto strafottente stampato in volto?»
Niall posa la matita nella piega tra le pagine del libro, si stiracchia la schiena ed, appoggiandosi di fianco allo schienale della sedia, mi rivolge il suo classico sguardo da “sfogati-così-poi-possiamo-farla-finita-ed-io-posso-riniziare-a-studiare”.
«Ti giuro, se non fosse che è una ragazza, a quest’ora… a quest’ora…»
«A quest’ora non avresti fatto nulla, caro mio. Perché stai sempre a rimuginare sulle cose, e non passi mai all’azione: perché non ti confronti con lei, una volta ogni tanto? Perché non hai detto nulla, quando l’hanno nominata, ingiustamente e su questo sono d’accordo anche io, caporedattrice del giornale? Perché non ti opponi MAI?»
Niall, oltre ad essere intelligentissimo e particolarmente avvenente – come sento ripetere da tutte le gallinelle della scuola -  è pure un dannatissimo psicologo. È una di quelle persone che, zitto zitto, legge tutti i segnali, tutti i dettagli e poi, SBEM ti spiattella in faccia la nuda e cruda verità. In questo è l’esatto opposto di Louis che, probabilmente perché troppo preso da sé e dalle sue fiamme, non sa dare un consiglio valido che sia uno. Anche se avrei preferito un parere senza senso di Louis, piuttosto che ammettere che Niall aveva perfettamente ragione.
Mi limito a sospirare un “lo so, lo so, domani lo farò”, per rigirarmi disteso sul fianco, agguantando l’iPod sul comodino, e lasciando il biondo al suo studio compulsivo.
Dovrei studiare anche io, tra tre giorni ho il test di Storia e non ho ancora nemmeno finito il programma. Ma tanto, incazzato come sono, non riuscirei a memorizzare nemmeno mezza data.
Grazie mille, Lorraine Welsh. Grazie mille per avermi rovinato l’ennesima giornata. Se fosse uno sport olimpico, vinceresti medaglie oro a mani basse.” 

 



Aprile 2010


Un'auto sportiva nera svoltò per il vialetto alberato, per poi rallentare man mano che si avvicinava al grande cancello in ferro battuto. Il ragazzo alla guida spense il motore dell’auto, ingranò il freno a mano, e portò nuovamente le mani sul volante, accarezzandolo sovrappensiero.
Tutte le sue attenzioni, infatti, erano rivolte a quel maestoso edificio in mattone bruciato che si stagliava dietro l’alta recinzione. Quello stesso edificio che era stata la sua dolceamara casa per quattro, lunghissimi anni, e che non rivedeva da circa… sette.
Dio, era assurdo da quanto tempo non tornasse là, al St.Martin College.
Nella mente gli pareva che fossero passati nemmeno dieci minuti da quell’ultimo giorno, con le toghe nere, i diplomi, e quell’insana gioia di aver finalmente chiuso quel capitolo della sua vita. Pronto, con in mano un biglietto di sola andata verso Londra, e pronto a buttarsi alle spalle tutti quegli anni di scuola infernale.
Invece sulla pelle, quei sette anni erano decisamente passati: quell’innocenza e quella ingenuità da diciottenne l’aveva lasciata là, tra quelle mura, ed ora stava tornando decisamente completo.
Uscì dalla macchina, chiudendo con forse un po’ troppa forza lo sportello, e si appoggiò ad esso, per dare un’ultima occhiata alla scuola, al suo giardino curato, sentendo in lontananza il classico chiasso degli studenti.
«Harry? Harry Styles? Che mi prenda un colpo! Che ci fai qua?» una voce familiare, flebile e gracchiante, distolse la sua attenzione. La vecchia professoressa Johnson. Possibile che lavorasse ancora? Avrà avuto sì e no… ottanta anni per gamba. Però era una donna eccezionale, la Johnson. Almeno era stata, durante i suoi anni di collegio, una delle poche professoresse che vedevano con occhio oggettivo tutti i loro alunni, senza alcuna parzialità, ed era stata per lui un confortevole porto di salvezza in svariate occasioni.
«Professoressa! Che bello trovare un viso amico al varco di questo inferno!
» risponse ironicamente Harry, per poi proseguire «Il preside  Goldberg mi ha contattato… sa, le lezioni tenute dai vecchi alunni e compagnia bella… lei invece? La trovo in gran forma, prof! Ma che fa, insegna sempre a quei diavoli del St.Martin?»
L’anziana donna gli rivolse un sorriso, prendendolo poi a braccetto «No, per carità. Alla mia età non riesco a sopportare queste pesti del 2010! Vengo qua di tanto in tanto per far compagnia a Judith, la giardiniera, ti ricordi?»
Il riccio annuì con la testa, mentre si incamminò, con la prof al braccio, verso l’entrata.
Varcare quel cancello portò con sé una quantità tale di ricordi e sensazioni che gli parve quasi di perdere il contatto con la realtà: nulla era cambiato. Le stesse aiuole curate, lo stesso pino imponente nel mezzo del parco, sotto il quale si radunavano le ragazze a cincischiare di chissà cosa, e dall’altra parte si intravedevano i campi da tennis, quello da calcio, e in lontananza la palestra di scherma.
I giovani studenti si godevano quei raggi di primavera, chi liberandosi della giacca della divisa – era ancora la stessa, da anni e anni – chi sbottonando un po’ la camicetta. E, nonostante quei sette anni trascorsi come il vento, calpestare nuovamente quell’erba portò con sé la stessa ansia, mista ad odio, mista anche a quei pochi momenti piacevoli che era riuscito a passare in quel posto.
Era come se l’Harry Styles, scrittore di successo, caso letterario a soli venticinque anni, fosse rimasto fuori da quel cancello, e quello al braccio della Johnson era ancora lui, quel diciottenne riccio, spilungone, dinoccolato, un po’ burbero e sicuramente rancoroso.
E come nel migliore degli incubi, una risata. Una risata squillante e tagliente, che trapassò tra tutti gli schiamazzi giovanili, tra tutti i parlottii e arrivò distinta alle sue orecchie. Quella risata, apparentemente innocua e quasi melodiosa, ma che per lui era sinonimo di una sola cosa: problemi.



Saaaalve a tutte, belle e brutte, siete tutte belle, che capperate dico u.u
Avevo già preannunciato questa long con protagonista il nostro Enrichetto Stili... diciamo dunque due parolette sulla storia: spero si sia capito che la prima parte è un estratto dal libro che Harry, ormai venticinquenne, ha pubblicato ed ha avuto successo. Le pagine del libro saranno quindi le narratrici del "passato" (come potete notare dalle date, ovviamente Harry non è nato nel 1994 xD), e chiaramente serviranno a capire il "presente", che invece è la seconda parte e per almeno i prossimi 5-6 capitoli ci sarà questa alternanza libro di Harry diciottenne / Harry "vecchio".
Che altro dire? Il libro di Harry è molto... infantile. È il diario dei suoi anni del liceo, per questo magari suonerà meno maturo. Per l'idea di base mi sono ispirata ad un telefilm, October Road, anche se in realtà, a parte il protagonista scrittore, sarà totalmente diversa dalla storia del telefilm :3

Per il resto bisogna ancora entrare nel vivo della faccenda, quindi spero solo che come prologo vi sia piaciuto y.y  E voglio ringraziare, as usual, la mia Louis (ovvero la Luisa, choco_cupcake, qua su efp) che mi ha fatto da cavia di salvezza ♥ Insomma, fatemi sapere cosa ne pensate di questo primo capitolo, dell'idea dell'impostazione della storia (se pensate di riuscire a seguirlo etc) e cosa ve ne pare di Harry, Lou, Niall e ovviamente cosa ne pensate di Lol :)
Ah, prima di concludere, diamo un volto ai personaggi inventati :D
Lorraine me la sono immaginata come Mia Wasikowska, un'attrice che io adoro e trovo tremendamente bella :')  ecco qui una foto di Lol negli anni del liceo, mentre qui è come è a 25 anni :')
Invece la sua "scagnozza" Jane me la sono immaginata come Dakota Fanning! Harry, Louis e Niall penso che abbiate ben presente che facce abbiano AHAHAHAHAHAH

Ok, bene, mi dileguo. Spero di avervi un po' incuriosite~
Luv ya~
xx Gin
PS: quasi dimenticavo: aggiornerò ogni venerdì - oggi è un'eccezione perchè tutto domani sono al concerto dei Mumford & Sons e mi era un po' impossibile postare ahahahah

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Capitolo 2
*** ~ II ***


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~ II ~


 

Con quella risata che gli rimbombava nelle orecchie, strinse ancora di più il braccio della povera professoressa Johnson, e cominciò a guardarsi attorno circospetto per cercare l’origine di quel suono familiare.
«Styles, posso capire che tornare tra queste mura dopo tanti anni possa comportare uno shock di un certo livello, ma mi piacerebbe poter utilizzare ancora questo braccio per i pochi anni che mi restano - disse, scherzosa e sarcastica, la anziana – comunque ti ringrazio per avermi accompagnata fin qua. Vado a trovare la cara Judith ma, mi raccomando, passa a trovarmi. Sai perfettamente dove abito, e mi piacerebbe tanto sapere come te la sei passata durante questi anni, nonostante ormai la tua vita sia sulla bocca di tutti, qua ad Holmes Chapel» concluse, sorridendo.
Il ragazzo lasciò la presa, scrutandosi ancora attorno per qualche attimo, per poi ricambiare il sorriso «Non creda a quello che legge sui giornali, conduco una vita molto più noiosa di quanto non la facciano sembrare! Comunque verrò a trovarla volentieri, ancora mi sogno la notte i suoi biscotti
paradisiaci al burro e cannella !»
Salutò quindi la vecchietta che, con passo calmo e traballante, si diresse verso la piccola casetta al margine del boschetto, dove abitava la giardiniera.
Adesso era solo.
Solo, in mezzo a quegli edifici pieni di ricordi, e con la consapevolezza che lei era là, da qualche parte.
Il telefono prese a vibrare nella tasca della giacca e rispose velocemente, senza nemmeno controllare chi mi stesse chiamando.
«Pronto?»
«Harry Edward Styles?»
«LOUIS WILLIAM TOMLINSON! – urlò il riccio – vecchia volpe! Si può sapere dove sei finito? Ci eravamo dati appuntamento all’incrocio per il St. Martin, ma ti ho aspettato per venti minuti e di te nemmeno l’ombra».
«Ero… impegnato» poteva vedere distintamente il ghigno marpione dell'amico dall'altra parte della cornetta, a sottointendere una certa malizia su quell’impegnato.
«Ah, beh, conosco i tuoi impegni, posso immaginare che siano stati molto, come dire, ludici» ed entrambi si persero in una risata complice.
Louis Tomlinson, il suo vecchio, caro amico, Louis Tomlinson.

Dopo il diploma, le loro strade si divisero: Louis diretto a Cambridge, dove lo attendeva una sicura carriera da avvocato, sulle orme del padre; Harry diretto verso la Capitale, con uno zaino pieno più di bozze e manoscritti che di vestiti. Ma erano rimasti in contatto, tra mail spedite ogni tanto, qualche cartolina da posti esotici e qualche visita quando Styles andava a trovare i suoi genitori ad Holmes Chapel, o quando Tommo si trovava a Londra per lavoro.
Adesso Louis, come previsto, era già diventato socio dello studio legale del padre, pronto a prendergli il posto non appena il vecchio fosse andato in pensione, mentre il riccio… beh, lui aveva fatto fortuna pubblicando i suoi diari del liceo. 
Il che gli pareva ancora assurdo considerata la quantità enorme di storie e scritti, nettamente migliori e più maturi, che aveva mandato alle varie case editrici. Eppure, per puro caso – e per pura disperazione – un giorno inviò quell’infantile diario da liceale e nel giro di pochi mesi non era solo stato pubblicato, ma era in cima alle classifiche dei best sellers dei libri per ragazzi del Regno Unito. E adesso lo stavano pure traducendo in qualcosa come cinque lingue. Ancora non se ne capacitava, ma si godeva la “fama”, se così si poteva definire.
Chiaramente, quando lo pubblicarono, Harry non si preoccupò di avvertire nessuno. Solo dopo venne a sapere che era potenzialmente citabile in giudizio – e fu proprio Louis ad avvertirlo della cosa. Inizialmente temeva anche che lui e Niall potessero essersi offesi, per le parole che aveva riservato loro in quelle pagine, ma dopotutto non era stato troppo severo, e soprattutto loro sapevano perfettamente che si trattava di un diario. Insomma, ringraziò il cielo di avere due amici intelligenti e svegli, che non si preoccuparono minimamente della cosa, anzi ne furono divertiti, se non lusingati – Tommo gli scrisse addirittura ringraziandolo per averlo citato con nome e cognome perché, a quanto pare, riusciva “a cuccare” più del solito.
Però di certo non aveva riservato mezzi termini per Lorraine Welsh e le sue tirapiedi. 
Louis gli disse subito di tenersi pronto, di mettere da parte soldi perché molto probabilmente lo avrebbero denunciato per diffamazione, o qualcosa di simile. Aveva pure pensato di cambiare i nomi, dargli dei soprannomi, ma il suo agente, concorde con la casa editrice, sentenziò che il libro avrebbe perso di veridicità. Quindi doveva solo tenersi pronto ad un’eventuale processo giudiziario.
Processo che non avvenne mai.
Nessuna di loro infatti lo citò in giudizio. Non ricevette nemmeno una telefonata infuriata, mail minacciose, nulla. Dal loro versante non fiatava un alito di vento, cosa che lo fece adagiare ancora di più sugli allori. Insomma, se non si erano incazzate loro – specialmente Lol – poteva ritenersi salvo.
Non si era nemmeno preoccupato più di tanto quando il preside Goldberg gli inviò l’invito per partecipare a quella iniziativa delle “lezioni tenute da ex-alunni del St. Martin, adesso uomini e donne di successo”.
In effetti era stato piuttosto stupido a non varare l’idea che lei ci sarebbe stata sicuramente: era già una donna di successo quando ancora non era nemmeno una donna.
In realtà, il ragazzo non aveva la benchè minima idea di che fine avesse fatto la Welsh, dopo il collegio.
Sinceramente, uno dei motivi – se non il principale – per cui era corso via a gambe levate dal Cheshire era stata proprio lei. Immaginò che fosse diventata manager di una qualche azienda, magari anche lei era subentrata al posto del padre come dirigente dell’industria di Jaguar che possedevano ai tempi. Provò a immaginarsi il suo classico sguardo sprezzante e strafottente, invecchiato di sette anni.
E mentre cercava di immaginare quegli occhi nocciola che aveva maledetto per anni, aspettando Louis seduto su una panchina sotto il loggiato, ecco che quello sguardo, quegli occhi freddi e affilati come lame, incrociarono i suoi. Era là, come previsto, che si dirigeva verso l’aula magna accompagnata da un uomo di mezza età che Harry riconobbe come il Professor Anderson. I capelli, adesso lunghi fin sotto le spalle, le incorniciavano il viso, che aveva perso quel candore tipico del liceo. La sua espressione era meno fiera e più stanca di quanto il ragazzo ricordasse. Però rideva, e quella risata che
prima aveva sentito chiaramente  perdersi nell’aria era proprio la sua.
Quando i loro sguardi si incrociarono, lui provò subito quelle stesse, fastidiosissime sensazioni di sette anni prima: rancore, astio, risentimento verso quel sorriso beffardo e quelle sfere color sabbia.
Eppure, dopo qualche frazione di secondo, ecco che tutto cambiò. Non lesse più, negli occhi della ragazza, quella tensione e quella sfida che le erano soliti, ma… vergogna. Imbarazzo, misto forse a delusione.
Perché evidentemente lei non aveva dimenticato quell’ultimo giorno di liceo, così come non lo aveva dimenticato lui, e non lo avevano fatto nemmeno i milioni di lettori del suo libro.
 


 

4 Aprile, 2003

La sveglia mattutina è sempre un trauma.
Lo so, è un luogo comune, ed è difficile per la maggior parte delle persone alzarsi la mattina, ma le sveglie del St. Martin sono pure più tremende del normale.
Il suono della tromba insistente, che proviene dal parco davanti all’ingresso, è ciò che ci penetra nelle orecchie alle sei e mezza di ogni sacrosanta mattina. Sì, perché oltre alla tromba, dobbiamo assistere alla cerimonia della bandiera, ogni giorno, non importa che ci siano metri di neve, o pioggia torrenziale, o un caldo asfissiante: tutti gli studenti, alle sette in punto, devono essere là, dritti sull’attenti, pronti a recitare fedeltà al Regno Unito. Io voglio bene alla Regina, dico davvero. E’ una vecchietta simpatica, e poi ha quei cagnolini che sono davvero spassosi. Ma se potessi dormire quella mezz’oretta in più, e non dovessi strascicarmi fuori all’alba per vedere la solita Union Jack issata sull’asta, beh, certamente ne sarei più felice, e magari ne guadagnerei anche in salute.
Inoltre, come se non bastasse lo stress provocato da un risveglio simile ogni giorno, devo anche beccarmi la Welsh, impeccabile nella sua divisa, come se svegliarsi a quell’ora improbabile non la scalfisse minimamente. Non c’è mai un segno di cedimento sotto quegli occhi perfidi, la sua pelle è sempre rosa e vivace, e quel sorriso è sempre piantato là, a ricordare a tutti quanto lei sia superiore.
«Lol, ti ricordo che oggi pomeriggio dobbiamo passare dall’ufficio del preside per parlare del ballo…»
Sentire la voce stridula di Jane Moers, di prima mattina, è forse peggio del suono della tromba. Chiaramente si sono messe in fila dietro di me. È sadismo puro. Stringo forte la mano in un pugno, serrando la mascella al contempo. Niall, alla mia sinistra, mi guarda con la coda dell’occhio e “ignorale” mima con la bocca. Annuisco impercettibilmente, cercando di concentrarmi sulla bandiera che viene lentamente issata, ascoltando la solita pappardella mattutina del preside Goldberg. Ma quelle voci fastidiose alle mie spalle sono peggio dei tarli, cristo.
«Lo so, Jane, non preoccuparti – il tono della voce di Satana è mellifluo ed accondiscendente – piuttosto vediamo di non far tardi per la riunione in redazione».
Sottolinea quelle tre parole con arroganza. E sappiamo tutti benissimo – lei, Jane, Louis, Niall ed il sottoscritto – che quelle parole sono dirette specificatamente a me. Come a sbattermi in faccia (o forse dovrei dire sulla nuca, dato che è dietro di me) che la redazione è sua.
Ma stavolta non voglio darle soddisfazioni, guardo avanti e fingo di ignorarla quando, in realtà, dentro di me sto covando scenari apocalittici con lei piantata sul rogo, pronta a fare la fine che si merita.
 
Mi avvicino alla porta dell’aula con il cuore nelle scarpe, un polpo aggrovigliato attorno alla gola, e una nuvola pesante sulla testa.
Perché non mi va, non mi va di doverla affrontare per tutto il pomeriggio, non mi va di essere sfruttato perché sono l’unico che sa usare decentemente il programma di impaginazione, e non mi va di dover reggere il confronto con lei, per l’ennesima volta. È… estenuante. Dopo quasi dieci anni, mi ritrovo davvero senza forze.
Sento il vociare concitato e divertito dall’altro lato di quella porta in legno di mogano, e rimango là, imbambolato, indeciso se varcare quella soglia o meno.
La professoressa Johnson mi vede, dal fondo del corridoio, mi sorride e mi fa il pollice su, come per incoraggiarmi. Quella donna avrà anche duecento anni ma è l’unica che forse ha capito come gira la giostra, qua al St. Martin. L’unica che per lo meno riesce a vedere dietro a tutti questi specchi, e non si lascia ammaliare dal riflesso di quello di Lorraine Welsh.
Sospiro profondamente, mi sistemo la tracolla sulla spalla e il ciuffo di capelli riccioli che casca di continuo davanti agli occhi ed entro.
Ed ecco la mirabolante redazione composta dall’arpia:
da una parte ci sono le sue scagnozze, capitanate ovviamente dalla Moers, che si occupano di articoli ai limiti del ridicolo (“SPOTTED: dichiaratevi in via anonima attraverso il giornale scolastico!” “I 10 consigli di bellezza per superare il cambio di stagione senza problemi!!” “WE ♥ SHOPPING!!!” – insomma, ogni articolo che contenga almeno un punto esclamativo);
al lato opposto della stanza possiamo notare i nerd, ovvero tutti quei poveri sfigati che sono stati ammaliati dalle false lusinghe di quella mantide religiosa della Welsh e ora sono costretti a smanettare al computer, alle prese con file salvati male da quelle incapaci, programmi impallati, idee grafiche irrealizzabili e chi più ne ha più ne metta;
in giro per la stanza, indaffarati, ci sono i tuttofare, tra cui – mio malgrado – rientro anche io: povere anime, con sogni di gloria ormai riposti in un cassetto, costretti in un limbo di tutto e nulla, ridotti a fare da impaginatori, da facchini, addirittura da cuochi – come dimenticare quando la Welsh ci costrinse a portare a lei e alle sue galline tea e biscotti?
Poi ci sono Zayn Malik e Kate Wu, gli unici due ragazzi sopravvissuti allo sterminio dei giornalisti decenti compiuto da Lorraine, e gli unici che scrivono articoli di questo nome. Loro si vedono poco da queste parti, a dire il vero: spediscono tutto qua in redazione e tocca poi a noi tuttofare il compito di leggere, correggere, e quindi pubblicare.
Infine ovviamente c’è lei, la Regina. Che si limita a controllare e tiranneggiare su ogni singola parola e frase che passa per le nostre mani. Perché se qualcosa non è di gradimento a Sua Maestà, state sicuri che non vedrà la luce del giorno: sarà accartocciato e gettato nel cestino della carta che, vi assicuro, è decisamente pieno. Non pensa nemmeno al disboscamento della Foresta Amazzonica, evidentemente.
Non saluto nessuno, se non qualche cenno del capo ai nerd e mi avvicino a Peter, uno dei miei compagni tuttofare, che è alle prese con l’impaginazione della terza di copertina.
Peter è, come me, un ragazzo del quarto anno, ben piazzato, che madre natura ha già premiato con una folta barba nonostante i 18 anni, ed è impossibile vederlo senza i suoi spessi occhiali in tartaruga. È un personaggio piuttosto singolare, ed altrettanto interessante: scrive benissimo, ed è una delle poche persone a cui forse frega davvero qualcosa del destino di questo giornale.
Mi lancia un'occhiata di saluto, per poi borbottare «Harry, non torna un cazzo: mi hanno dato due articoli da piazzare qua, in penultima pagina, ma sono troppo corti, cristo. Come dovrei fare a riempire questo buco qua? – sposta di lato il pc per farmi vedere, mentre io appoggio la tracolla sul banco e mi metto a sedere al suo fianco – sono delle cretine, se non capiscono nemmeno come si imposta un giornale io non so davvero che farci» conclude, parlando sottovoce, temendo che qualcuna possa sentirlo.
In effetti avevano pensato di dedicare la terza di copertina solo a due articoli, quando c’era posto per almeno quattro. Tirai fuori dalla borsa la mia penna usb.
Non avrei lasciato quegli spazi vuoti per nulla, cazzo.
 
«Styles? Hai finito di impostare le ultime pagine?»
Non sposto nemmeno lo sguardo dallo schermo del pc, unica fonte di luce della stanza. Ormai la sera è calata, se ne sono tutti andati e Peter mi ha mollato qua a finire il lavoro, dato che ha da studiare per il test di Matematica. Pensavo, e speravo, di essere rimasto da solo, ma come al solito mi sbaglio. Lei c’è sempre, l’ho sottovalutata per un secondo.
Clicco un ultima volta sul file, salvo, e mi alzo, sistemando i vari fogli che erano rimasti sparsi sul tavolo.
Lei si sporge verso il lavoro compiuto, scorre con il mouse e posso intravedere il suo sorrisetto beffardo spuntare sulle sue labbra.
«Non ricordavo di aver dato disposizioni simili per la terza di copertina» alza i suoi occhi nocciola verso di me. La fisso, senza risponderle.
Si avvicina a me, sempre con quel ghigno stampato sul volto ed, in questa penombra, assomiglia più ad una maschera grottesca della tragedia greca che ad una ragazza di quasi diciott’anni.
«Credo che qua ci andasse la pubblicità del pub dei Payne, o sbaglio? E qua ti sei dimenticato di inserire i ringraziamenti ai professori» continua lei, indicando i due articoli - uno di Pete sullo spreco di risorse della scuola, l’altro mio su una proposta di cineforum scolastico (un progetto che cercavo di portare avanti da mesi e mesi, senza successo), in pratica due articoli che entrambi abbiamo provato a proporre da settimane e nessuno ha mai calcolato, ovviamente.
Continuo a non proferire parola, sostenendo il suo sguardo sempre più fiammeggiante ed insolente.
«Devo ricordarti che la caporedattrice sono io? – posso sentire il suo profumo dolciastro insinuarsi nelle mie narici – quindi, adesso, da bravo: sistema questa pagina come ho detto».
No.
No, cazzo, basta.
Non ne posso più di lei, del suo tono presupponente, del suo dovermi sbattere in faccia che sì, lei ha vinto, ed io sono relegato, ancora una volta, al secondo posto.
Sbatto forte la mano sul tavolo, non ci vedo più dalla rabbia.
«NO. NO, BASTA! I nostri sono articoli ben scritti, interessanti, che potrebbero davvero aprire gli occhi a qualcuno. SAI A QUANTA GENTE GLIENE FREGA DI COME BISOGNA METTERSI LO SMALTO, CAZZO? A NESSUNO. A NES-SU-NO! Quindi, se vuoi i nostri articoli fuori dal giornale TE LI TOGLI DA SOLA, MI SONO ROTTO LE PALLE DI STARE AL TUO SERVIZIO, PORCA TROIA!» mi blocco, per riprendere fiato, mentre lei, muta, mi guarda soddisfatta.
«E togliti quel sorrisetto da quella faccia da stronza che ti ritrovi, sei inquietante – apro la porta della stanza – A mai più rivederci, pensaci tu a ‘sto schifo di giornale che hai rovinato e vaffanculo» ed esco, sbattendola con forza, sfogando così anche la furia e la frustrazione che quel mostro di ragazza mi ha causato.




Buon venerdì carissime~
bando alle ciance e ciance alle bande, inizio subito col dire due paroline sul capitolo :3 La parte di Harry 25enne è molto didascalica, perchè mi serviva far capire che strada avessero preso lui e Tommo, e soprattutto mi serviva approfondire sulla storia del suo libro... e poi ha rincontrato Lol! Ancora non si sono detti nulla - ci vorrà qualche capitolo, vi avverto xD - ma come vedete, è successo qualcosa che entrambi ricordano molto bene... non voglio anticipare nulla, però ahahahaha
Per quanto riguarda invece la parte "del libro", il piccolo Harry ha finalmente trovato le palle per opporsi a quella vipera u.u foooorse ha un po' esagerato con i termini, ma quando è troppo è troppo, ecchecccazzzzo (ah, ed è pure stato nominato Zayn :D vi avverto che non avrà un grande ruolo in questa fic, però ogni tanto comparirà in tutta la sua beltà - ho fatto anche la rima LOL)
Bene, penso non ci sia altro da aggiungere, se non un gigantesco, enorme, MASSIVE GRAZIE  a tutte voi che avete letto, recensito, e messo questa storia nei preferiti/seguite/ricordate nonostante sia solo il primo capitolo :) ♥ non so, mi sto affezionando molto a questa fanfic e spero di non deludervi con il continuo :*
luv y'all!

xx Gin
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Capitolo 3
*** ~ III ***


sos3



~ III ~

 

“Devo essere il volto della rabbia perché, non appena entro in camera, sia Niall che Louis cominciano a fissarmi spaventati.
Lancio una veloce occhiata allo specchio affisso sul retro della porta: i capelli sono arruffati senza un senso, la fronte è corrugata, così come la bocca, in una smorfia piuttosto terrificante, ed i miei occhi, solitamente verdi e tranquilli, sembrano aver assunto una sfumatura grigia e delirante.
Butto la tracolla sul letto e mi fiondo in bagno, senza nemmeno provare ad ascoltare i “Ma che è successo” interrogativi e quasi allarmati dei miei compagni di stanza.
Ho bisogno di una doccia. Una di quelle docce calde che lavano via ogni cosa, che sciolgono ogni nervo, e dalle quali esci mollaccioso e quasi privo di sensi. Mi fiondo sotto il getto di acqua e cerco di non pensare a nulla. Cerco di non pensare a quel profumo fastidioso che mi sembra ancora di sentire sotto il naso, cerco di non pensare al tono arrogante della sua voce, cerco di non pensare a quel dannatissimo ghigno di soddisfazione. Tutto inutile, ovviamente, perché continuo a rivivere quei pochi minuti all’infinito.
Quando esco dal bagno, con l’asciugamano avvolto in vita e uno appoggiato sulle spalle, riempio di quel vapore denso anche tutta la camera. Quel vapore, pregno di tutte quelle sensazioni sgradevoli e schifose, mi segue, come a volermi ricordare che, nonostante la sfuriata, non cambierà nulla: Lorraine Welsh è ancora qua, in questa dannatissima scuola, e continua a tiranneggiare.
Louis, disteso sul suo letto, sfoglia distrattamente il quaderno degli appunti di Biologia mentre Niall, come a suo solito, è chino sui libri alla scrivania.
Tommo mi rivolge un’occhiata inquisitoria, spronandomi a raccontare cos’è accaduto. Il mio “non voglio parlarne” risulta inutile, perché adesso ci si è messo pure Niall.
«Harry, falla meno lunga: cos’è successo in redazione?»
Mi metto a sedere sul letto, dando le spalle ad entrambi, e inizio a frizionare forte la chioma ribelle con l'asciugamano.
«Mi sono rotto le palle» rispondo semplicemente, destando così ancora più attenzione nei miei amici.
«Questo ce lo ripeti ad ogni minuto, di ogni ora, di ogni giorno, di ogni settimana da quando abbiamo messo tutti e tre piede in questa scuola. Sii un po’ più specifico» ribatte Louis, che ha definitivamente chiuso il quaderno.
«Mi sono rotto le palle. C’erano questi spazi vuoti, in terza di copertina, totalmente inutilizzati perché quelle cretine non capiscono nemmeno come si costruisce, un giornale. Ho semplicemente colto la palla al balzo, assieme a Peter, e ho inserito i nostri articoli – sapete, quelli che cerchiamo di proporre da mesi?» entrambi annuiscono, aspettando il proseguo della storia «Insomma, ero piuttosto soddisfatto, ci stavano a pennello, il resto del giornale era tutto pronto, le pubblicità erano ai loro posti. Quindi, per una sacrosanta volta, pensavo di poter effettivamente veder pubblicato qualcosa di mio. Ma no, cari miei. No. Perché quella stronza, puttana, viscida serpe non poteva sopportare di vedermi OTTENERE QUALCOSA PER UNA CAZZO DI VOLTA! - alzo il tono della voce, lanciando l’asciugamano contro il muro – no, per lei questo non era accettabile. Mi ha detto di togliere tutto e mettere altra pubblicità in quegli spazi. E A QUEL PUNTO NON C’HO VISTO PIÙ e, per farla breve, le ho detto che può attaccarsi, e io non le sistemo nulla, e se vuole impaginare come vuole lei che se lo faccia da sola, con le sue preziosissime manine e… e ho mollato il giornale» a quelle ultime parole l’irlandese sussulta.
«Harry, non credi che questa sia una decisione un po’… affrettata?» suggerisce Niall, dall’alto della sua inutile saggezza. Inutile, perché LO SO che è una decisione affrettata, lo so che è una decisione sconsiderata perché adesso perdo tutti i punti extracurriculari, che per me sono indispensabili per mantenere la borsa di studio, so che dovrò trovare qualcos’altro e conosco le offerte della scuola e non c’è niente che mi interessi abbastanza o nel quale sono abbastanza capace o che non frequento già.
«Grazie al cazzo, lo so anche io che è una decisione affrettata – sbotto malamente in risposta, imitando il suo tono saccente – ma io in quella redazione non ci posso stare per un secondo di più».
Niall annuisce, capendo che non è il caso di farmi ramanzine. Louis, dal canto suo, scrolla le spalle, come se la cosa lo avesse interessato meno del previsto.
«Troverai qualcos’altro, puoi sempre unirti al club di scacchi di Niall, oppure so che hanno aperto anche un club del Latino, magari sei portato».
Arriccio il naso, innervosito. Come al solito Tommo è la persona meno empatica dell’universo. A lui non importa un fico secco di quello che è successo, non gli importa nemmeno che io rischi di perdere la borsa, non gli importa di nulla. Solo di se stesso.
Mi hanno rotto le palle, entrambi.
Mi vesto in fretta, indossando la tuta della scuola con sopra il cappotto e mi fiondo fuori dalla camera, senza dire altro. Ho bisogno di sbollire, ho bisogno di aria.
 
«Harry Styles, dove pensi di andare? Sono già le nove, lo sai che nei giorni infrasettimanali non –»
«Devo andare a trovare la professoressa Johnson» dico, interrompendo Frank, il portinaio. Frank è un uomo sulla sessantina, con una chierica pazzesca che sembra più San Francesco che un portinaio, ed è soprattutto un uomo comprensivo. Capisce che non sto sparando balle e con un muto cenno del capo ed un occhiolino mi fa capire che posso andare.
Fuori fa decisamente freddo, nonostante sia già aprile ed in teoria dovrebbe esserci già la primavera. Vedo subito condensare il mio fiato davanti al naso, e il gelo si insinua prepotente negli spifferi della tuta. Chiudo in fretta il cappotto, infilo le mani in tasca e procedo a passi veloci verso la parte di campus dove ci sono gli appartamenti dei professori. Tiro un sospiro di sollievo nel notare che la luce del salotto della professoressa Johnson è accesa, quindi non mi faccio problemi nell’andare a bussare, nonostante sia ormai sera inoltrata.
Passa qualche secondo – sicuramente sta controllando chi è, dallo spioncino della porta – quindi sento il rumore del catenaccio che viene sganciato.
«Harry? Non è un po’ tardi per una spiegazione di letteratura inglese?» dice scherzando la donna anziana, aprendo la porta per farmi accomodare.
«Non è mai troppo tardi per un po’ di sano Wordsworth, o sbaglio? Sono parole sue, prof!» ribatto io, ironico. Lei mi sorride, stringendosi nel cardigan di spessa lana, un po’ rovinato. Mi fa quindi cenno di seguirla in cucina, dove mette subito l’acqua a bollire mentre io mi accomodo su una di quelle sedie di legno intagliato.
«Ragazzo, per cortesia, tu che sei alto e slanciato…» lascia sospesa la frase, ma colgo al volo.
Mi alzo per prendere i biscotti nella scatola di latta blu, che conserva sempre in uno scaffale troppo alto per lei. Sono i nostri biscotti, quelli al burro e cannella. Me li fa sempre mettere su quella mensola, fuori dalla sua portata, perché così non è tentata di mangiarli quando non ci sono.
«Se le tue visite serali inizieranno ad essere così frequenti, caro, rischio di diventare diabetica con tutti questi biscotti!» sospira la professoressa, spartendo l’acqua calda in due tazze.
«Mi creda, vorrei che fossero più rade queste visite ma… ma… ma non ce la faccio davvero più, prof» brontolo io, mentre afferro la tazza che mi porge la mano un po’ tremolante della anziana.
Si accomoda davanti a me, inizia a sorseggiare la bevanda calda, e socchiude gli occhi, come ad incitarmi ad andare avanti, perché ha capito che c’è qualcosa sotto, oltre alle solite lagne.
«Oggi sono scoppiato. Ero in redazione, lei ne ha fatta un’altra delle sue, e non ci ho visto più. Black out totale, sono impazzito, e ho vomitato fuori tutto quell’odio e quel rancore che covo sempre in silenzio» mi libero di quelle parole, sapendo che la professoressa le avrebbe colte in tutte le loro sfumature.
«E… ho lasciato il giornale» concludo, poggiando la tazza sul tavolo e addentando uno di quei biscotti deliziosi.
La signora mi guarda severa. Lo stesso sguardo che mi potrebbe rivolgere mia madre, o mia nonna. Dopotutto ho fatto della Johnson un surrogato materno, dato che vivendo nel college vedo la mia vera mamma solo per le feste comandate.
«Harry, sai perfettamente di non potertelo permettere, ed è inutile che te lo dica. Quindi, a quest’ultimo problema devi trovare presto una soluzione. Indipendentemente da ciò, da una parte sono contenta di sapere che ti sei svuotato di tutte quelle sensazioni sgradevoli che ti trascinavi dietro da tempo. Non ti senti meglio?»
Rifletto su quelle parole. In effetti, dovrei sentirmi meglio. Dovrei essere quasi felice di essere finalmente riuscito a confrontarmi con Lorraine. Eppure mi sento sempre quello stesso, fisso, cappio al collo, fatto di ansia e risentimento.
«No, mi sento sempre uguale. Perché mentre io mi liberavo di tutto quell’astio lei… lei mi guardava sorridendo. Capisce? Come se fosse contenta che io la stessi insultando. Come se stesse provando piacere, si stesse rigenerando grazie alle mie offese. E quindi no, non mi sento meglio, perché ancora una volta non sono riuscito a scalfirla minimamente».
Intravedo la bocca della Johnson incrinarsi in un sorriso, dietro alla tazza.
«Lorraine è una ragazza complicata, Harry. Tu non riesci a guardarla in modo oggettivo, così come non riescono a farlo la maggior parte delle persone, ma nel senso opposto al tuo. Non cercherò nemmeno di provare a farti capire da quante sfaccettature è composta quella ragazza, perché tanto so che le mie parole ti entrerebbero da un orecchio e ti uscirebbero dall’altro – o forse non ti entrerebbero affatto. Ma non credi che magari si sia nascosta dietro ad uno dei suoi soliti sorrisi proprio perché forse la stavi ferendo? Cosa ti aspettavi, da una come lei? Che si mettesse a piangere davanti a te? Dai, ragiona!»
È incredibile come quella donna riesca a capire tutto e tutti. Sembra così innocua, con i suoi capelli bianchi sempre in piega ed i suoi cardigan improbabili, eppure è come un microscopio umano che analizza fino alla più piccola fibra di ogni cosa e persona.
Perché effettivamente è impossibile che la Welsh possa mostrare a qualcuno di essere stata ferita, non rientra nel suo modus operandi. Lei si stampa addosso quel sorrisetto, sempre, in ogni situazione. Ora che ci penso, chissà in quante altre occasioni ha indossato quel sorriso falso per mascherare altre emozioni: noia, insofferenza, odio, delusione, dolore. E chiaramente non ha voluto darmi la soddisfazione di vederla cedere.
Ciò non toglie che è una cagna stronza che mi sta rovinando la vita e questa del giornale è stata proprio la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Non mi importa un beneamato nulla se magari sta soffrendo, anzi, ci godo. Sì, spero che stia ripensando ai miei insulti e stia soffrendo, nel buio della sua cameretta.”



«Insomma, mi pare di capire dalla tua espressione che hai già incrociato la Welsh» disse Louis, tirandogli una pacca sulla spalla, mentre si incamminavano pure loro verso l’aula magna, dove si sarebbe tenuta la conferenza di presentazione dei corsi speciali tenuti dagli ex alunni.
Harry annuì, senza aggiungere nulla. Era stato strano, incrociare quegli occhi, dopo sette anni.
In fondo sperava di rincontrarla, ammise a se stesso. Sperava di poterla rivedere, per poterle sbattere in faccia chi era diventato, quanto era maturato, cosa era riuscito ad ottenere senza che la sua ombra soffocante lo eclissasse. Certo, era dovuto andare via da Holmes Chapel, ma almeno adesso lui viveva in città, conduceva una vita accattivante e mai noiosa, mentre lei…
In effetti, ancora non sapeva cosa facesse Lol nella vita.
«Dai, allora, che mi racconti? Ti sei preparato qualcosa da dire, durante l’assemblea?» chiese a Louis, cercando di deviare il discorso su qualcos’altro che non fosse Lorraine Welsh. E Tommo, ancora egocentrico come un tempo, non si fece ripetere le domande due volte e cominciò a tartassarlo, raccontandogli della graziosa assistente laureanda in giurisprudenza che stava cercando di conquistare, e di non so che altro ancora. Harry infatti staccò la spina, dando cenni di assenso con il capo di tanto in tanto, fingendo di ascoltarlo, quando in realtà, con lo sguardo, continuava a cercare lei. Voleva sapere cosa era diventata, ma era troppo orgoglioso per chiederlo a Louis: non voleva che si facesse un’idea sbagliata. E Louis era proprio il re delle idee sbagliate.

Mentre Tommo finiva di raccontargli di una qualche causa vinta, svoltarono l’angolo, immettendosi nel corridoio, brulicante di studenti e professori, che portava all’aula magna.
Qualche ragazzina fermò addirittura Harry per chiedergli un autografo, cosa che lo sorprese alquanto: essere uno scrittore era sempre stato divertente perché, spesso e volentieri, i suoi lettori non sapevano nemmeno che faccia avesse. Gli era capitato più volte di dover convincere qualche fan del suo libro, addirittura con carta di identità alla mano, che Harry Styles era davvero lui. Ma, come lo aveva avvertito sua madre, là ad Holmes Chapel Harry era diventato quasi un idolo. Tutti conoscevano la sua storia, non solo quella raccontata nelle pagine del suo diario, ed in molti erano andati a bussare alla porta di casa Styles per farsi raccontare dai genitori com’era loro figlio da bambino. Insomma, l’intero paesino aveva sviluppato un interesse quasi morboso nei confronti del ragazzo, forse perché era stato il primo cittadino di Holmes Chapel ad ottenere un successo considerevole ed a finire in tv e sui giornali.
«Se fossi in te, ci farei un pensierino su quella…» ammiccò Louis, seguendo con lo sguardo la sedicenne gongolante che si allontanò dai due, dopo aver ottenuto da Harry un autografo sul libro ed una foto.
«Lou, sei malato, avrà dieci anni in meno di noi» lo rimproverò il riccio, alzando gli occhi al cielo per i soliti commenti inopportuni dell’amico.
«E che vuoi che siano dieci anni! Scommetto che se la incontrassi in discoteca a Londra una così, agghindata come si deve, non le chiederesti manco l’età, fidati. Ti fai problemi solo perché ha la divisa del St. Martin addosso!»
Harry rise, cercando di mettere a tacere la pressante sfacciataggine di Tomlinson, ed entrarono nella grande aula, dove erano state sistemate le panche per gli studenti, ed una serie di sedie sul palco, dietro al leggio del preside.
«Tomlinson e Styles… a chi tocca pulire il bagno oggi?» Una voce con uno spiccato accento irlandese fece voltare i due ragazzi, che si trovarono davanti il loro vecchio compagno di stanza, rigorosamente in giacca e cravatta.
«Niall! Pensavo fossi a Roma a lavorare per la FAO!» esclamò Louis, abbracciando il biondo.
«Lo sono. Cioè lavoro ancora per la FAO ma quando mi ha chiamato il Preside Goldberg per chiedermi se volevo partecipare a questa manciata di lezioni qua al St. Martin mi sono detto che era un buon momento per prendere ferie e tornare a rivivere un po’ i luoghi della nostra gioventù».
«Ah, quanto la fai lunga, Horan! Hai solo venticinque anni, non sessanta! – ridacchiò sempre il castano, mentre Harry stringeva in un abbraccio l’irlandese – Comunque sono contentissimo che ci sia anche tu qua! Saranno tre giorni di vera rimpatriata, chi l’avrebbe mai detto?»
E mentre Niall iniziò a raccontare loro del lavoro che stava svolgendo nella capitale italiana, Harry indagò con lo sguardo quell’ampia sala, cercando di riconoscere nei volti delle persone che lo circondavano qualche viso amico. Riconobbe Jane Moers, ma era sicuro di trovarla là, così come Zayn Malik: entrambi si erano trasferiti a Londra quindi, volente o nolente, sapeva già delle loro carriere. La prima lavorava in Borsa, dopo essersi laureata con il massimo dei voti alla London School of Economics; il moro invece, dopo essersi trasferito nella Capitale, si era spogliato di tutte quelle costrizioni che il paesino e la famiglia gli avevano imposto ed, oltre ad aver fatto coming out (Harry e gli altri avevano sempre sospettato che il pakistano fosse dell’altra sponda, e fu quasi soddisfatto nel venire a sapere che, alla fin fine, avevano ragione), decise di mettere al chiodo la toga di avvocato che desiderava tanto il padre per lui, iscrivendosi invece alla Scuola di Moda – adesso lavorava per Vogue ed era uno degli stylist più promettenti del Regno Unito.

«Ragazzi, se siete pronti direi che è il caso di iniziare a salire sul palco…» li riprese il Preside, invitandoli a prendere i loro posti mentre la mandria chiassosa di studenti iniziava a riversarsi nell’aula.
Harry si sedette sulla sedia che gli era stata assegnata da un cartoncino, con Louis alla sua destra e Zayn Malik alla sua sinistra, ma della Welsh non c’era ombra. A guardar bene, le poltroncine riservate a loro “ospiti” erano state tutte occupate: possibile che lei non rientrasse nella rosa degli ex-studenti illustri? E allora perché l’aveva vista poco prima?
E mentre si perdeva in questi pensieri, il corpo insegnati prese i loro posti nelle prime file davanti al palco. E tra loro c’era lei, Lorraine.
Il riccio, nel vederla, scosse la testa. Era diventata professoressa al St. Martin?
«Lou ma… la Welsh…?» disse il ragazzo, sporgendosi verso l’amico e sussurrandogli quella frase sospesa nell’orecchio, cercando di mostrare il meno interesse possibile, per non destare le solite allusioni.
«E’ rimasta a Holmes Chapel, anche lei. Non te l’aspettavi, vero? Pensavo che tua mamma ti avesse aggiornato – rispose Tommo, sogghignando – comunque ha preso la cattedra di Letteratura Inglese della Johnson, ed è diventata vice-preside circa sei mesi fa… stupefacente, se pensi che ha la nostra età, no?» continuò, ammiccando all’amico.
Harry annuì, sorridendo, senza proseguire nell’interrogatorio, dato che il preside Goldberg aveva appena preso la parola.
Tuttavia gli sembrò assurdo che una come la Lorraine fosse rimasta in quel paesino. Lei, talmente ambiziosa e fiera, una leader nata… se la immaginava a lavorare per l’ONU, o manager di una multinazionale. Non vice-preside in un college – seppur di rinomata importanza.
E per qualche strano motivo, quella sconfitta della Welsh non gli provocò alcun piacere. Perché, incrociando nuovamente quegli occhi penetranti che lo fissavano dalla prima fila, si rese conto di quanto fossero sprecati, tra quelle mura di mattoni rossi.



Buooooooonsalve a tutte ♥ Come state? :3 vi state riposando in vacanza, spero :D pure io ho deciso di chiudere i libri prima del previsto oggi e dedicarmi ad un po' di sana lettura... poi mi sono ricordata che devo postare AHAHAH
INSOMMA cavolate a parte: questo capitolo è un po' di passaggio, ma da una parte è piuttosto fondamentale. Sia perchè la professoressa Johnson avrà un ruolo importante nel corso di tutta la storia, sia perchè si scopre cosa fa Lorraine a 25 anni... cosa che sconvolge un po' il nostro Hazza, che se la immaginava già a dominare il mondo, mentre invece è rimasta ad Holmes Chapel! Ma la cosa, a sorpresa, non fa gongolare Harry... tutto il contrario...
Vabbeh, non dico altro, che altrimenti rischio di fare sparate e spoilerarvi il continuo ahahahah
Spero che continui a piacervi la storia, e grazie mille come sempre a tutte, a quelle che hanno recensito (amo ♥), alle lettrici silenziose, a coloro che hanno aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate... siete tutte meravigliose e vorrei trovare le parole giuste per ringraziarvi ma, ahimè, non credo che le abbiano ancora inventate u.u
Bon, vado a recuperare i telefilm che durante la settimana mi sono persa AHAHAHAH
Loveyou♥
xx Gin
PS: non uccidetemi per Zayn gay AHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAH ma volevo farlo diverso e poi ce lo vedo bene come stylist londinese super fighetto alla moda :333


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Capitolo 4
*** ~ IV ***


~ IV ~

 

Davanti a quella porta in legno laccato di verde, con le mani infilate nelle tasche degli stretti jeans neri, Harry provò le stesse sensazioni di sette anni prima: la consapevolezza che, dietro quella porta, c’era un porto sicuro, un’ancora alla quale confidare ogni problema. Eppure lui, ormai, di problemi, sentiva di non averne più. Allora, per quale dannatissimo motivo, davanti alla porta della professoressa Johnson si sentiva insicuro come quando era un ragazzino?
Aveva mille pensieri che gli frullavano per la testa, dopo quella mattinata passata in quell’aula magna che ricordava fin troppo bene.
Pensieri legati al passato, legati alle persone che erano state importanti nel suo percorso di crescita come Louis e Niall; pensieri legati anche al futuro, perché continuò ad interrogarsi sul perché tutti loro fossero riusciti a raggiungere i loro sogni, tranne lei.
In fondo al cuore, temeva quasi di esserne stata la causa. Temeva di averle davvero rovinato la vita, con quel libro. E se per caso lei si fosse presentata a qualche colloquio di lavoro, e si fosse vista chiudere la porta in faccia perché “era Lorraine Welsh del libro di Harry Styles”?
C’era un solo modo per scoprire cos’era stato a velare di imbarazzo e timidezza quegli occhi un tempo così risoluti. Ed era dietro quella porta.

La professoressa, ormai molto anziana, lo fece accomodare come un tempo, come se quei sette anni non fossero passati per entrambi. Mise su l’acqua per il tea e tirò fuori la vecchia scatola in latta blu.
«Non ci credo, la conserva ancora?» disse incredulo il ragazzo, rigirandosela tra le mani.
«Certamente! È uno dei ricordi più belli del mio passato da insegnante – spiegò la donna – vedi, dentro quella scatola ho racchiuso tutte le confidenze, tutti i dubbi e gli sfoghi che voi ragazzi venivate a liberare tra queste mura» sorrise dolcemente, mentre Harry la guardò stupita.
«Noi ragazzi? Ed io che pensavo di essere il solo! Prof, questa scoperta dopo sette lunghi anni è una pugnalata al cuore! Mi ha sempre tradita!» risponde scherzando il riccio, ancora meravigliato della confessione della prof.
E mentre sorseggiavano quel tea, e spiluccavano qualche biscotto, lui si sentì come ringiovanire, e sentì quasi la mancanza di tutto quel rancore e di tutto quell’astio che andava, quasi quotidianamente, a riversare in quella cucina, quando era un ragazzino. Perché dietro a quel rancore e dietro a quell’astio c’erano ancora le speranze ed i sogni di un diciottenne prossimo al diploma.
«Sa, ho visto Lorraine Welsh prima, alla cerimonia» esordì il ragazzo, cercando di iniziare il discorso.
La anziana sorrise sotto i baffi «Ero certa che eri venuto qua anche per parlarmi di lei, sai? Saranno passati anche anni, ma riesco sempre a capire dal tuo sguardo quando c’è di mezzo la Welsh».
Lui ricambiò quel sorriso, adesso quasi impacciato.
«Vi siete parlati?» incalzò la vecchia professoressa, notando che il ragazzo tentennava nel rivelare cos’altro c’era sotto.
Harry scosse la testa «No, non c’è stata l’occasione. In realtà, non saprei nemmeno cosa dirle. Voglio dire, tra il libro, e tra il fatto che l’ultima volta che ci siamo visti non è stata proprio una giornata… pacifica, non so proprio come approcciarla – disse lui, liberandosi di quella matassa di pensieri – inoltre non so nulla di lei. Ho chiesto a Tomlinson, ma mi ha solo detto che è diventata vicepreside… vede, io mi immaginavo che a quest’ora fosse a dominare il mondo, non vicepreside di un college inglese».
La Johnson posò la tazza sul tavolo, pensierosa.
«Vedi, Harry, Lorraine non ha mai avuto vita facile. Tu ti sei sempre illuso che fosse il contrario, perché non avevi idea di cosa stesse vivendo quella ragazza. È vero, anche io mi sarei aspettata di tutto da lei, tranne che vederla ancora rilegata tra le mura di questa scuola. Ma, come ho detto, nulla è sempre stato facile per lei: suo padre, il vecchio Stephen Welsh, te lo ricordi?, è morto qualche anno fa, poco dopo che lei prese la laurea in Relazioni Internazionali. La famiglia si sgretolò, completamente: erano sommersi dai debiti dell’industria che il padre aveva lasciato, la madre di Lorraine ebbe un crollo nervoso e fu ricoverata per mesi e mesi, gli zii iniziarono a reclamare parti del loro testamento che non erano di loro diritto… un vero inferno, tutto sulle spalle di una ventunenne. E così dovette mettere da parte i suoi sogni e le sue aspirazioni, per occuparsi della famiglia. E dopo tre anni e varie battaglie legali è riuscita a vendere non solo l’industria, ma anche la villa di famiglia, recuperando così anche un po’ di patrimonio per sistemare i vari zii petulanti e avidi, e adesso sta curando anche la madre, che è tornata a casa dopo una lunghissima degenza. Nel frattempo è pure riuscita a prendersi una seconda laurea in Letteratura Inglese, e il preside Goldberg le ha offerto subito una cattedra: se ci pensi, è straordinario che adesso si trovi in quella posizione di vicepreside, contando quante ne ha passate. Non tutti sarebbero stati capaci di affrontare un lutto, seguito da una crisi familiare del genere, pensando anche a costruirsi un futuro “di serie B”. Ed ecco spiegato il perché Lol Welsh si trova ancora qua, al St. Martin. Lei non ha mai voluto smettere di sognare, è stata costretta».
Harry rimase là, lo sguardo fisso sul fondo della tazza.
Era stato davvero talmente presuntuoso da pensare che Lorraine Welsh avesse accantonato le sue ambizioni solo perché lui aveva deciso di pubblicare il suo diario di ragazzino incazzato?
Si vergognò terribilmente per aver anche solo ipotizzato una cosa simile. Era Lorraine Welsh, non la prima arrivata, era ovvio che sotto doveva esserci stato qualcosa di più grosso ed adesso che lo sapeva… non sapeva come comportarsi.
A dire il vero, non aveva mai saputo come comportarsi, di fronte a lei. Perché lei era sempre stata più forte e determinata, e adesso aveva le prove che quelle due caratteristiche non le aveva perse negli anni e non erano state portate via dalla stanchezza che adesso solcava il suo viso.
«Io… non ne avevo idea, non ne avevo minimamente idea – sussurrò il riccio, alzando lo sguardo – crede che… sì insomma, crede che sarebbe opportuno se le parlassi, o qualcosa di simile?» lui, scrittore di fama internazionale, non riusciva a trovare le parole adatte per quella situazione.
La professoressa annuì, sorridendo con gli occhi, da sotto gli occhiali ovali.
«Harry, avresti dovuto parlarle tanti anni fa, sai? Però, come dico sempre io, non è mai troppo tardi, per nulla. E non sai da quanto tempo aspettavo queste tue parole, quindi sono pronta da una vita ad incoraggiarti: vai a conoscere davvero Lorraine Welsh. Non te ne pentirai.»

Era quasi ormai sera, ed Harry la vide, con i libri sotto braccio, seduta sotto il loggiato, su quel muretto che, per anni, era stato come il suo trono. Stava discorrendo, un po’ accigliata, con uno studente dall’aria invece molto afflitta. Harry, scrutandola da lontano, si chiese che tipo di professoressa fosse diventata. Se gli avessero fatto quella domanda una manciata di anni prima, lui avrebbe risposto “una stronza”, senza colpo ferire. Ma dopo averla rivista, ed aver saputo della sua storia, non riusciva proprio ad immaginarsi che tipo di insegnante era. Probabilmente era molto amata dalle studentesse, che l’avranno presa giustamente come modello da seguire; e sicuramente era amatissima anche tra i ragazzi, perché nonostante gli anni passati, e nonostante le occhiaie che segnavano la pelle candida, Lorraine restava sempre una bellissima giovane donna, con quella sua innata eleganza e quel suo sorriso che, adesso, gli pareva quasi dolce.
La seguì da lontano, per seguirla poi all’interno dell’edificio scolastico. Era un po’ come spiare un vecchio nemico adesso privo di ogni arma, e quindi era impossibile anche da attaccare. E poi lui non voleva affatto infierire su di lei.
Alla fine dei conti, forse non era nemmeno più un nemico.

Bussò deciso alla porta, che segnava con una targetta in ottone “Ufficio della Vicepreside – Ms. Welsh”. Sentì un rumore convulso di carte, le ruote di una sedia che strisciavano sul pavimento in marmo, e dopo qualche secondo il volto sorpreso di Lorraine comparve da dietro quella porta.
Oltre alla sorpresa c’era imbarazzo, e quasi vergogna, perché lei si aspettava qualche studente per una spiegazione, oppure un collega professore. Ed invece, dietro a quel pezzo di legno, lei trovò quegli occhi verdi tempesta, trovò quello sguardo che tanto aveva cercato in quegli anni, forse in modo sbagliato, ormai poteva ammetterlo. Dietro quella porta ritrovò anche quel sorriso che poche volte aveva visto su quel viso, un sorriso che le infuse una qualche sorta di fiducia. Eppure, ancora si sentiva troppo in difficoltà per sostenere quello sguardo e quel sorriso, soprattutto se si abbattevano su di lei senza alcun preavviso.
«Styles?» domandò retoricamente Lorraine, dando voce alla meraviglia che si era impossessata del suo volto.
«In persona – rispose lui, iniziando a dondolare da un piede all’altro, come era solito fare da ragazzino, quand’era in difficoltà – come stai?»
La domanda più idiota dell’intero universo.
La domanda alla quale si offre sempre una risposta mediocre, scontata e spesso falsa.
Lorraine però si prese qualche momento per rispondere a quel quesito tanto stupido quanto apparentemente banale. Cercò di intuire se, dietro a quelle due parole, ci fosse semplice circostanza oppure sincero interesse. E cercò di capirlo andando a fissare nuovamente quegli occhi che ricordava fin troppo bene, e le bastò poco per realizzare che Harry davvero le stava chiedendo come stava.
Lei aprì di più la porta, come a suggerirgli di entrare, e scrollò le spalle, senza dare un’effettiva risposta a quella domanda.

 


 

“Siamo rientrati in camera dopo la solita, noiosissima cerimonia della bandiera.
Non mi sono guardato in giro, non ho cercato con lo sguardo la rovina di ogni mio progetto, di ogni mia speranza. Sono ancora troppo pieno di odio e rancore nei suoi confronti, ed incrociare il suoi consueti occhi arroganti farebbe sfociare di nuovo quell’odio in parole sprezzanti.
Né Niall né Louis mi hanno rivolto parola da ieri sera, quando sono rientrato ancora incazzato, seppur calmato dopo la chiacchierata con la Johnson – non so se siano spaventati o solo incapaci di trovare le parole adatte.
Louis mi fissa sbuffando, mentre aspetta che io finisca di preparare la borsa con i libri per le lezioni di oggi. È chiaro che stia cercando qualcosa da dire, invano. Come ho già detto, comprendere gli altri non è il suo pregio maggiore. Mi guarda sottecchi, per poi stamparsi in volto uno di quei suoi classici sorrisoni.
«Coraggio Styles, andiamo a trovarti un nuovo corso extracurricolare da seguire e magari una ragazza con cui sfogarsi e che non ti tormenti, eh?» dice, battendomi una sonora pacca sulla spalla, mentre apro la porta di camera, infilandomi nel caos mattutino dei corridoi del dormitorio maschile.
Scrollo le spalle, spostandomi con un soffio verso l’alto il ciuffo di capelli indomabili che mi cade ripetutamente davanti agli occhi «Proverò davvero il corso di Latino, almeno farò pure contento mio padre che mi stressa che devo imparare quella lingua morta… per quanto riguarda le ragazze, preferisco non vedere l’ombra di cromosomi XX per un bel po’, se mi permetti».
Louis ride, forse pensa che io stia scherzando, non so.
«Se continui così inizieranno a girare voci sul tuo conto come per Malik - continua a sogghignare - tra l’altro, secondo te lui è davvero frocio?»
Storco il naso, salutando con la mano Niall che ci aspetta davanti all’entrata della mensa «Sempre fine ed elegante nei termini, eh Tommo? – rispondo scocciato – comunque in quanto all’orientamento sessuale di Malik ne so quanto te, lo vedo poco in redazione…»
«Di cosa si parla, stamani?» mi interrompe il biondo, precedendoci all’interno della mensa, dalla quale arrivano zaffate di puzzo di fritto misto a quello dolciastro stucchevole dei dolci.
Louis si frappone tra me e Niall, stringendoci le braccia attorno alle spalle «Parlavamo di ragazze, e del fatto che il qui presente Hazza ha detto che “non ne vuole vedere l’ombra”, cito testualmente, quindi mi sono chiesto se per caso non avesse deciso di iniziare a giocare per l’altra squadra» bisbiglia l’ultima parte della frase all’orecchio dell’irlandese, in modo ironico, facendo scoppiare l’altro in una risata sonora e portando anche un debole sorriso anche sul mio volto.
«Ecco spiegati i discorsi su Zayn…» aggiunge Niall, prendendo un vassoio e un piatto, liberandosi dalla stretta di Tommo.
«Vedi? Se anche Horan sa della presunta omosessualità di Malik vuol dire che è vero! Insomma, Niall è il re della scuola, se lui dice che è così è vero» esclama Louis seguendolo.
Mi limito ad annuire, estenuato dalle sue chiacchiere, e prendo una fetta di torta al cioccolato. Ho bisogno di zuccheri e cioccolato, ai brufoli ci penserò poi.
Dopo aver riempito i nostri vassoi, ci dirigiamo verso i tavoli: ed eccole là.
Jane Moers e Linda Chung, come ogni martedì mattina pronte a distribuire il giornalino scolastico a tutti gli studenti.
Faccio un respiro profondo, annuendo con lo sguardo a Niall che si è voltato verso di me, come a chiedermi se è tutto okay. In realtà non è tutto okay, per colpa loro e della loro dittatrice adesso io sono privato non solo di preziosi crediti scolastici, ma anche dell’attività che mi interessa e piace di più al mondo: scrivere.
«Giornalino scolastico?» mi chiede, con quella voce acuta e fastidiosa la Moers. Le rispondo con una semplice occhiata e procedo con lunghe falcate verso il nostro tavolo, seguito da Louis.
Nel momento in cui mi metto a sedere mi rendo conto che Niall non è dietro di noi: è stato placcato da Jane. Dalla mia posizione non riesco a sentire cosa si dicono, anche perché quella nanetta è di spalle e posso solo vedere Niall sorriderle con accondiscendenza. Quindi fa per andarsene, ma lei gli pianta uno di quei fascicoli sul vassoio, sorridendogli falsamente a sua volta.
«Scusa Harry, come al solito mi ha bloccato per parlarmi del club di scacchi» sospira il biondo, sedendosi davanti a me, sbrigandosi a buttare il giornale sotto il vassoio, quasi come a nascondere un’arma di un delitto.
«Secondo me quella vorrebbe un po’ di salsiccia irlandese, non so se mi spiego…» dice sottovoce Louis, facendo tossire Niall che aveva appena ingurgitato un morso di toast con marmellata. Scoppio a ridere per la scena, una risata finalmente autentica e spontanea come non avevo da qualche giorno.
Addento con piacere la fetta di torta, mentre sento una pacca sulla spalla e qualcuno sedersi al mio fianco.
«Congratulazioni Harry!» esclama Zayn Malik, sorridendomi.
Lo guardo stranito – e già mi preparo ai commenti di Louis, che mi ha tirato un calcio da sotto il tavolo – per poi rispondergli con un semplice «Cosa?»
«Come cosa, l’articolo no? Non avevo mai pensato al cineforum, ma sarebbe un’iniziativa davvero interessante!» replica lui, sventolando il giornale arrotolato con la mano destra, per poi sbattermelo accanto al vassoio.
Guardo quel pezzo di carta meravigliato, per poi iniziare a sfogliarlo freneticamente fino alla penultima pagina.
Ed il mio articolo era là.
Come lo avevo impostato io, il giorno prima, con accanto quello di Peter. Alzo lo sguardo per cercarlo nella grande sala mensa e intravedo la sua massa di capelli castani annuire felici ad un suo amico, mentre i suoi occhi sono presi nella lettura del giornale.
Guardo sorpreso i miei amici, che nel frattempo hanno recuperato la copia nascosta sotto il vassoio di Niall e leggono con foga quella pagina, alzando lo sguardo di tanto in tanto per sorridermi, o fare commenti sull’articolo.
«Grazie Zayn, non… non me n’ero accorto» bisbiglio, imbarazzato, mentre il moro sorseggia un caffè lungo, continuando a sfogliare anche lui quel fascicolo.
«Figurati, me lo immaginavo. Strano che la Welsh abbia fatto passare un tuo articolo… sì, insomma, pensavo ti odiasse o qualcosa di simile» risponde lui, accennando con la testa a Lorraine, seduta di spalle nel suo tavolo, in fondo alla sala.
La vedo voltarsi di profilo verso Jane e sorriderle, ed improvvisamente mi sento quasi… in colpa. Ieri sera le ho riservato parole decisamente forti, e forse… forse non se le merita?
Ma che cazzo dico, se le merita eccome.
Okay, sì, sono confuso.
«Harry, l’articolo è eccezionale! Secondo me Goldberg ci permetterà di aprire il club del cineforum in un batter d’occhi, dopo aver letto ciò!» esclama Louis, felice.
Non lo sto nemmeno ascoltando.
Perché adesso non so che cazzo fare.
«Secondo voi dovrei chiederle scusa?» chiedo sussurrando a Niall e Tommo, in modo da non farmi sentire da Zayn e dalla Wu, che si è unita a lui, presa anche lei nella lettura del giornalino. Insomma, non voglio che tutto il mondo sappia della mia litigata con la Welsh, né del fatto che me ne sono andato dalla redazione.
Niall mi guarda grave, come è suo solito fare prima di iniziare un discorso serio.
«Mi sembra ovvio, Harry. Questo è palesemente il suo modo per chiederti scusa, ma adesso tocca a te farlo. Insomma, è evidente che si è resa conto di aver esagerato stavolta. Però, da quanto ci hai detto, lo hai fatto anche tu: il minimo che tu possa fare è mettere l’orgoglio da parte per una santa volta, e chiedere scusa».
Louis, accanto a lui, annuisce. Per la prima volta in vita sua, preferisce evitare commenti inopportuni o consigli senza senso.




Salveeee babies! ♥ come state, in questo venerdì di pioggia - almeno qua LOL?
Mi ritrovo a postare questo capitolo in fretta e furia, perchè 1)devo finire di studiare (stamani non ho combinato un bel nulla, che scansafatiche pessima che sono ._.) e 2) devo prepararmi per uscire D: Dove trovano la voglia di andare a fare aperitivi le mie amiche, con questo maltempo, lo sanno solo loro. Ma parliamo d'altro!
Caaaapitolo number 4! Devo dire che sono ferma a scrivere il quinto, quindi se non mi sbrigo finirà che lascio incompleta la fanfic AHAHAH no, scherzo, le idee sono in testa e tanto basta (spero xD)

Allora... Harry da "vecchio" (mi fa impressione chiamarlo così visto che ha solo 25 anni ahahah) va a rifugiarsi e a cercare risposte proprio nella Johnson... sono contenta che il personaggio di questa amabile vecchietta sia piaciuto ♥ Non so, scrivere di lei mi rasserena e rassicura, quindi sapere che è un personaggio apprezzato è davvero importante! Quindi, insomma, si scopre la storia di Lol... qualcuna di voi forse c'era già arrivata che poteva essere successo qualcosa di simile, vero? xD
Ed Harry cosa fa? Prende il coraggio a quattro mani e va a trovarla... il primo, vero incontro da "maturi" :)
E che dire invece del passato? Qualcuno di voi si era immaginato un gesto simile da Lorraine? (E sì, Zayn è tornato in scena ;P prima o poi scriverò una slash su di lui perchè boh, mi piace troppo immaginarmelo gay *stomale*)

Ok, devo SERIAMENTE fuggire e non posso dilungarmi oltre ;_; Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, spero che riusciate a seguire la storia nonostante i flashbacks del diario, e vi ringrazio profondamente a tutte, per darmi la forza di continuare a scrivere! Siete troppo preziose <3

xx Gin
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Capitolo 5
*** ~ V ***


sos5



~ V ~

 

“Non so bene come dovrei affrontarla.
Come si fa a chiedere scusa ad una persona? Non mi sono mai trovato da questo lato della barricata, a dire il vero.
Ho sempre evitato di trovarmi in una situazione simile: in poche parole ho sempre evitato di confrontarmi con le persone, per non rischiare di cadere nel torto e poi andare a testa china a chiedere scusa. Ho sempre preferito essere la Svizzera, in ogni situazione: imparziale e neutrale, senza alcuna opinione da esternare. Certo, le mie idee ce le ho anche io, e come ben sappiamo non sono proprio un tipo serafico e che vede del buono in tutti, ma di solito  preferisco ammutolire i miei pensieri, piuttosto che farne una bandiera e combattere per loro.
Posso tranquillamente ammettere che la carriera politica non fa per me, questo è poco ma sicuro.
Insomma, quali sono le parole giuste per chiedere perdono a qualcuno? Dio, se lei non fosse mai esistita a quest’ora non mi troverei in questa situazione. Riesce a mettermi in difficoltà in ogni occasione, persino quando dalla parte del torto ci sono io.
 
Raccolgo un po’ di coraggio e mando giù quel groppo di orgoglio che mi si è piantato in gola, e mi dirigo verso il dormitorio femminile. Attraversare quei corridoi è quasi un’esperienza mistica: si possono quasi vedere gli estrogeni che vibrano nell’aria. O forse è semplicemente l’imbarazzo di trovarmi in questa situazione, non so.
Procedo con passo sicuro verso la porta di camera sua – l’ultima del corridoio del primo piano, sulla destra, come mi ha ripetuto sicura la Wu, guardandomi con aria interrogativa e divertita quando le ho chiesto quell’informazione – lo sguardo basso, per evitare di guardare dritto in faccia quei visi maliziosi che stanno bisbigliando al mio passaggio.
Bene, ci sono. Forza e coraggio, tra qualche minuto sarà tutto finito e ne uscirai vivo e vegeto, continuo a ripetermi. Okay, vegeto non lo so, ma spero almeno vivo.
Busso – tre battiti decisi – e arretro un attimo, fissandomi nuovamente i piedi.
«Harry Styles?»
La voce è più stridula e cantilenante di quella di Lol.
Alzo lo sguardo per incontrare infatti gli occhi vitrei di Jane e,  alle sue spalle, quelli nascosti dalle spesse lenti degli occhiali di Natalie Spencer. Mi guardano con la loro solita arroganza, aspettando una spiegazione.
«Cercavo Lorraine» mi limito a rispondere loro, sostenendo quelle due paia di occhi indisponenti che mi scrutano.
Un ghigno furbo ma accorto si impossessa della sottile bocca di Jane, che si ravviva una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si appoggia alla maniglia della porta «È in redazione, sta sistemando gli articoli per il numero speciale sul ballo di fine anno» spiega, fingendosi scocciata ed annoiata, quando so perfettamente che quella mia visita la sta mangiando viva dalla curiosità.
Sibilo un "grazie", per poi girare i tacchi e quasi fuggire, letteralmente, da quell’edificio e da tutte quelle inquietanti ragazzine che mi osservano divertite.
Non avevo messo in conto il fattore sfiga-Styles.
Perché, per la prima ed unica volta che in vita mia dovrò chiedere scusa a qualcuno che odio, ovviamente quel qualcuno è introvabile. E mi è costato un viaggio a vuoto in quel mondo parallelo tutto rosa, profumo e fiori. Chiudo gli occhi, mentre cammino, cercando così di scacciare la vergogna e l’imbarazzo provato là dentro, davanti a tutte quelle ragazze.
 
Sono quasi tentato di mandare tutto a monte.
Dopotutto, cazzo, è Lorraine Welsh. Perché dovrei chiederle scusa?
Perché finalmente si è degnata di rendermi qualche merito? Perché ha deciso di non eliminare il mio articolo, considerato che probabilmente nemmeno sa come si fa, a togliere un articolo?
Mi fermo, poco prima di entrare nel blocco aule. Davvero, perché dovrei rischiare di fare un’altra figura di merda, per di più con la mia nemesi?
Però poi ripenso alle mie parole sprezzanti, acuminate come coltelli affilati, che le ho scagliato addosso senza il benché minimo ripensamento. È vero, tra di noi non è mai scorso buon sangue, ma è sempre stata una rivalità onesta e corretta, e nessuno dei due si era mai abbassato nell’apostrofare l’altro con parole tanto disgustose.
Quindi sì, alla fine queste scuse le devo quasi più a me che a lei, per dimostrare a me stesso di essere ancora una persona civile. Mettiamo l’orgoglio da parte e andiamo.
 
La porta dell’aula redazione è aperta e mi affaccio silenzioso, giusto per capire com’è la situazione là dentro: Lol è sola, seduta davanti al pc, dando le spalle alla porta. E’ ingobbita, la testa appoggiata sulla mano, e sbuffa, scorrendo con la rotellina del mouse tra le paginate che si susseguono sullo schermo del pc. La osservo, e sembra così strano vederla talmente imperfetta, in quella posizione così scomposta. E quasi come a leggermi nel pensiero, si mette dritta e, alzando le braccia, si stiracchia, inarcando la schiena, per poi spostare la testa a destra e a sinistra, forse per stirarsi i muscoli del collo indolenziti. Il caschetto di capelli biondi ondeggia, le scapole tese si intravedono da sotto il tessuto fine della camicia bianca.
Decido che forse è meglio smettere di fare lo stalker. Sì, è decisamente meglio.
Tossisco, entrando nella stanza, per richiamare la sua attenzione, ed infatti si volta di scatto, presa alla sprovvista e forse addirittura un po’ impaurita.
«Ciao» biascico, cercando invano di risultare il più spontaneo possibile. Lei, sempre seduta, si appoggia con il fianco allo schienale, e mi fissa, indossando il suo solito sguardo arrogante.
«Qual buon vento, Styles - risponde lei, sarcastica – a cosa devo cotanto onore?»
Certo che lei, con questo suo modo di fare odioso, rende tutto più complicato, cazzo.
«Sono venuto a ringraziarti per l’articolo e… sì insomma, soprattutto sono venuto a chiederti scusa per ieri. Avrei dovuto evitare certe sparate» farfuglio, passandomi nervosamente la mano destra nel ciuffo di capelli che mi cade davanti agli occhi.
Lei mi guarda, sorridendo.
Ma è un sorriso diverso dal solito: non è sfacciato e sprezzante, ma non è nemmeno gentile. È strano. È come se fosse felice di queste mie parole, ma per un qualche motivo diverso dal solito aver primeggiato nuovamente su di me.
Si gira di nuovo verso lo schermo del computer, annuendo: «Sì, potevi evitare. Comunque grazie, apprezzo le scuse. Ammetto di averci messo del mio, e ammetto anche che i vostri articoli non erano male» risponde lei, non guardandomi, ma digitando qualcosa sulla tastiera, per poi mandare in stampa qualche foglio, quasi come se la cosa la disinteressasse.
«Bene, direi che siamo pari allora. Ci vediamo in giro, buona fortuna col giornale» replico io, sul punto di andarmene.
Okay, le ho chiesto scusa, ma non tornerò in redazione a farle da facchino.
Ed è proprio mentre sono sul ciglio della porta che sento nuovamente la sua voce.
«Styles, aspetta un attimo» ed io mi giro, trovandola a sedere sul banco, con un foglio in mano.
La guardo interrogativa, mentre lei mi porge quel pezzo di carta.  Non fa nemmeno la fatica di raggiungermi, sono io a dover tornare indietro da lei.  Come sempre.
Sospiro, raggiungendola, e prendendole di mano quel foglio. Lo leggo distrattamente e anche un po’ scocciato, la deve piantare di comandarmi.
Ad una prima e inattenta lettura quelle parole nere mi sembrano una lista di nomi qualsiasi. Poi rileggo, più lentamente.
Harry Styles – capo servizio, sezione “Arte e Spettacolo”.
Se mi sta prendendo in giro, non è divertente.
Alzo lo sguardo, incrociando quei piccoli occhi vivi e luminosi, che mi guardano quasi divertiti, ed impazienti di una mia reazione.
«È uno scherzo? Perché se devo tornare a sgobbare per nulla come sempre, e questo è solo una bieca trappola per riportarmi qua, sappi che non funziona».
«Sei sempre così diffidente? – ride squillante lei, e questa volta in modo sincero – comunque non posso assicurarti nulla, vieni qua in redazione lunedì e vedi cosa succede» conclude, con una nota furba in quelle parole.
Essere capo servizio di una sezione del giornale comporterebbe più crediti extra e conseguentemente voti più alti per la media finale. Possibile che Lorraine Welsh mi stia facendo… un favore?
Fisso di nuovo il foglio, dubbioso, per poi piegarlo ed infilarlo nella tasca dei pantaloni.
«A lunedì» dico semplicemente, uscendo quindi da quell’aula e, anche se non la vedo, posso immaginarmi il sorriso scaltro e soddisfatto che si è dipinto sulle sue labbra.”

 




Lorraine non si era mai nemmeno lontanamente immaginata come potesse essere un faccia a faccia con lui, dopo tutto quel tempo.
Forse pensava che entrambi non avrebbero mai avuto il coraggio di parlarsi di nuovo, a distanza di così tanti anni e con quel libro scomodo di mezzo, eppure adesso si ritrovavano là, in quella stanza, con tutte quelle parole non dette che aleggiavano sospese nell’aria, circondandoli.
Lei aveva volutamente evitato di rispondere falsamente al “Come stai?” di Harry, ma d’altro canto non era ancora completamente pronta a rivelarsi a lui: non se la sentiva di fargli capire quanto fossero stati duri quegli anni, non sapeva ancora se poteva fidarsi a tal punto di quello sguardo e di quel sorriso, quasi da volpe, del ragazzo. Anche perché Lorraine non aveva dimenticato il fatto che lui adesso era un caso letterario solo… beh, sì, solo grazie a lei.
Dopo qualche parola di circostanza sui vecchi professori, sulla scuola e la vecchia routine del liceo, Harry abbassò lo sguardo, andando a fissare le punte dei suoi piedi, appoggiato goffamente sul bracciolo della poltroncina davanti alla imponente scrivania della ragazza.
«Prima parlavo con Niall e gli altri, pensavamo di andare a prendere qualcosa da bere giù ad Holmes Chapel stasera. Quindi, insomma, se ti va di unirti… cioè se hai tempo! E voglia. Insomma, hai capito».
Balbettava, non si sa bene se per la vergogna di aver osato tanto, o per l’imbarazzo di averlo chiesto proprio a lei.
Lol sorrise, vedendolo così impacciato.
Erano passati anche sette anni, eppure le pareva di avere ancora una qualche sorta di controllo sulla vita di Harry. Quel ragazzo, ormai uomo, ancora la temeva come se fossero tornati a dieci anni prima, a quando erano appena entrati in quella scuola e lei ne era la regina. Si perse in quei ricordi agrodolci, per poi finire di sistemare la pila di compiti che aveva sul tavolo.
«Purtroppo mi tocca declinare l’offerta, devo correggere questi compiti per domani – disse lei, infilando quindi i fogli nella borsa – ed Holmes Chapel è a mezz’ora di macchina da qua. Ed io ho solo una bicicletta» concluse ridacchiando, per poi chiudere la tracolla con un click deciso.
Harry alzò lo sguardo, andando ad incontrare quelle iridi enigmatiche, così calde e fredde al contempo, quegli occhi che, nonostante il tempo passato, ancora lo rendevano indeciso, quasi debole.
Era ovvio che non le andasse di uscire con loro, pensò.
Anche lui, fosse stato nei suoi panni, avrebbe cercato qualche scusa per evitare una rimpatriata con vecchi compagni di scuola che adesso avevano raggiunto tutti quegli obbiettivi e quei sogni che invece, per lei, erano rimasti chiusi nel cassetto, messi sottochiave da un destino fin troppo crudele.
«Però potremmo andare noi due al pub dei Payne, quello all’incrocio! – suggerì Harry, illuminandosi – se esiste ancora, in effetti» sogghignò, pensando che in realtà non bazzicava da quelle parti da molto tempo e le cose potevano essere cambiate, così come erano cambiate per lui e per Lol.
Lorraine lesse un sincero interesse negli occhi e nelle parole del ragazzo. Forse poteva davvero fidarsi di lui.
Forse, per una volta, avrebbe dovuto cercare di cedere un attimo il passo alla diffidenza, e provare davvero a sentire cosa avesse da dire quel ragazzo.

 
Quando entrarono nel pub era tutto esattamente come sette anni prima: l’odore acre della birra che si era ormai incastrato in ogni anfratto del legno che rivestiva ogni superficie del locale; quell’aroma tipico dei pub inglesi, che portava con sé i tanti ricordi delle tante ubriacature passate, era rimasto lo stesso. Così come era lo stesso il vecchio Geoff, sempre con quello straccio buttato sulla spalla e quel vocione possente che prevaleva sul chiacchiericcio concitato degli avventori del pub.
«Ma per Dio! Harry Styles! FERMI TUTTI abbiamo una star nel locale!» ruggì Geoff, alla vista del ragazzo che, timidamente, era entrato nel bar. Il fatto che ancora si ricordasse di lui non sapeva se fosse un bene o un male – magari le sue sbronze, durante gli anni del liceo, erano state talmente epiche da essere ricordate dal barista nonostante gli anni passati.
«Allora, che ci fai qua? – continuò l’uomo, sporgendosi da dietro il bancone per tirare una sonora pacca sulla spalla di Harry, per poi spostare il suo sguardo a Lorraine, qualche passo più indietro – Oh Lol, ci sei anche tu! Se cerchi Liam è di là, tra poco dovrebbe staccare. Beh, insomma HARRY STYLES, dimmi un po’, sei venuto a spendere e spandere un po’ nella tua città natale?» continuò, senza curarsi minimente di ricevere una risposta, né da Harry, né da Lol.
La ragazza alzò gli occhi al cielo, e si diresse frettolosamente verso la cucina del locale, per poi uscirne qualche minuto dopo, recuperando il povero Harry che era rimasto stordito dalle chiacchiere del locandiere.
«Vieni, andiamo di là, cerchiamo di allontanarci da Geoff o non si schioda da te per tutta la sera, te lo dico» disse sottovoce lei, ridacchiando, e accennando alla sala contigua a quella principale del pub. Harry la seguì senza fare domande, e senza neanche rendersi conto che non avevano nemmeno ordinato da bere.
«Ne deduco che sei un habitueè, o sbaglio?» chiese scherzoso il ragazzo, sfilandosi la leggera giacca in pelle, e posandola distrattamente sulla sedia, mentre lei, seduta composta come era suo solito, si legava velocemente i capelli in una crocchia, cercando con lo sguardo qualcuno, o qualcosa, alle spalle di Harry. Quindi gli sorrise, senza dare una spiegazione.
«Ecco qua le vostre birre» una voce maschile profonda e strascicata fece voltare Harry, che si ritrovò davanti lo sguardo fermo e odioso di Liam Payne.
Non gli era mai piaciuto, quel ragazzo.
Non aveva frequentato il St. Martin – non era mai stato una cima negli studi, se dobbiamo dirla tutta – ma aveva sempre fatto sciogliere stuoli di ragazze che passavano i sabato sera al pub, con il suo fisico slanciato e muscoloso, e quell’aria strafottente di chi pensa di essere superiore ad un branco di “stupidi ragazzini viziati del collegio” – così li aveva definiti, una sera di molti anni prima.
Quindi, ritrovarsi davanti quel bellimbusto, ancora a servire birre in quel pub un po’ lercioso… era stato quasi soddisfacente, pensò Harry. Una rivalsa a tutti gli insulti gratis e le frecciatine arroganti che Payne gli aveva riservato durante gli anni del liceo.
Liam poggiò le due pinte sul tavolo, in modo distratto e versandone qualche goccia, lanciò un’altra occhiata cagnesca ad Harry e poi si rivolse alla ragazza.
«Ci vediamo dopo? Quando hai finito questa cosa se vuoi ti riaccompagno a casa, oppure puoi restare qua da me» sussurrò, sporgendosi verso Lol. Lei gli sorrise dolcemente, mimando semplicemente con la bocca un “vediamo dopo” e lasciò un bacio fugace sulle labbra del ragazzo, che aspettavano quel gesto come a marcare il territorio.
Harry era… incredulo.
D’accordo che erano passati anni, d’accordo che la Welsh ne aveva viste di cotte e di crude e doveva aver passato un periodo davvero difficile, ma tutto si sarebbe aspettato tranne che vederla con quel… coso. Lei era sempre stata una di quelle ragazze che guardavano con disprezzo al “figlio del barista”, una di quelle che lo consideravano troppo rozzo ed ignorante, una di quelle che quasi giudicavano le altre ragazze che magari si prendevano una cotta per lui.
Liam si voltò nuovamente verso il ragazzo, e lo fissò ancora una volta in modo ostile e minaccioso, per poi allontanarsi verso il bancone.
Lorraine si lasciò andare sullo schienale della sedia, sospirando, e diede un primo sorso a quella bevanda fresca, sporcandosi le labbra con la schiuma densa della birra.
«Perdonalo, lui è molto… protettivo. Soprattutto nei miei confronti, quindi puoi capire come abbia reagito quando gli ho detto che ero qua con te» spiegò tranquilla Lol, poggiando il boccale.
Harry, dal canto suo, non sapeva cosa dire. Gli pareva di sapere sempre meno su quella ragazza che, invece, pensava di conoscere alla perfezione – dopotutto ci aveva scritto un libro sopra.
Lei era indubbiamente andata avanti, mentre lui era paradossalmente rimasto incagliato nel passato. Se ne rendeva sempre di più conto, minuto dopo minuto.
 
Dopo il primo giro di birra, che si era accompagnato a delle svagate ma quasi imbarazzate parole sugli argomenti più vari – dagli ultimi libri letti alla condizione politica attuale del Regno Unito – Harry decise che non era il caso di indugiare oltre.
Se era riuscito ad arrivare fin lì, a parlarle più o meno tranquillamente, come una persona civile, adesso doveva fare quel semplice passo che solo un’altra volta in tutta la sua vita era riuscito a fare: chiederle scusa.
Perché in fondo lei non se lo meritava. La Lorraine di adesso non si meritava quelle parole sprezzanti di cui era disseminato il suo libro ed Harry stava cercando un ultimo, decisivo perdono, quello ovviamente più importante: il suo.
«Mi dispiace» disse serio, ma determinato, andando a cercare un segno negli occhi cangianti della ragazza seduta davanti a lui.
Lorraine alzò lo sguardo, che si era perso a fissare le vene irregolari del tavolino di legno, e cercò di metabolizzare quelle due semplici, inaspettate parole, mentre il ragazzo, visibilmente in difficoltà, tentava di spiegarsi, rigirandosi nervosamente tra le dita il sottobicchiere in cartone.
«Sì, insomma, mi dispiace per tutto: per il libro in primis. Mi sono fatto trascinare dal rancore, dalle prospettive di una fama effimera, da…»
«Non importa» lo interruppe lei, decisa, scuotendo il capo, e incrinando le labbra in un sorriso.
E davvero, non le importava.
Perché, alla fine dei conti, anche se non voleva ammetterlo né a se stessa, né agli altri, aveva apprezzato quel libro. O, per meglio dire, aveva apprezzato il gesto celato dietro quel libro.
Perché, assurdamente, grazie a quelle pagine, sentiva di essere ancora forte, di avere ancora un potere ed una dignità che erano state, negli ultimi anni, intaccate fin troppe volte, e con colpi fin troppo duri.
E poi aveva apprezzato il fatto che qualcuno la ricordasse, apprezzava quel libro perché, grazie ad esso, sarebbe rimasta impressa nelle memorie di tutti quei suoi boriosi compagni del liceo.
Ma soprattutto non le interessavano le scuse del ragazzo, e quel libro non le era affatto dispiaciuto perché era la prova che lui, nel bene o nel male, non l’aveva mai dimenticata.


Trallallà, eccoci qua :3
Come state, bellissime fanciulle?
Io sto cercando di riprendermi: mi sono dislocata un ginocchio, quindi sono ferma in casa con le stampelle ._." niente di grave, solo che devo stare a riposo, e per di più devo studiare come una scema per l'esame di giovedì prossimo... insomma, un grande divertimento, come potete immaginarvi.
Ma veniamo a cose più divertenti del mio ginocchio e le mie lagne universitarie!
Il piccolo Hazza ha inghiottito il rospo ed è andato a chiedere scusa alla Welsh u.u che gli riserva l'ennesima sorpresa: lo fa capo servizio. Cosa starà covando Lol dietro questo gesto? Lo scopriremo nelle prossime puntate ahahahah
Poi ho voluto fare un parallelo con i ragazzi ormai adulti, in cui anche qui Harry si trova a volersi scusare con la ragazza, per tutto quello che ha scritto su di lei u.u e insomma, a lei non importa perchè in realtà è quasi fiera di essere stata insultata in quel libro hahahaha
pooooi, poi poi: il prossimo capitolo sarà piuttosto... intenso, ecco. Mettiamola così :D Sto cercando di fare una scaletta definitiva della fic, per capire anche di quanti capitoli potrà essere composta, ma ancora non sono giunta ad una conclusione effettiva. L'unica cosa che posso dirvi per certo è che il parallelo libro/Harry 25enne si manterrà per i prossimi due capitoli, mentre poi la parte del passato diciamo che finirà (perchè finirà il libro lololol).
Bon, che altro dire? Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e spero vivamente di non deludervi con il continuo cwc e grazie mille a tutte voi che continuate a leggere e supportarmi in mille modi: vi adoro, letteralmente. Non potrò mai farvi capire abbastanza bene quanto siate importanti çwç
Adesso fuggo, che vado a cena al ristorante cinese *w*
xx Gin~
AH PS: martedì ho postato l'ultimo capitolo dell'altra mia long "Dalla A alla Z"! Quindi, se vi va di passare, adesso è completa :')

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Capitolo 6
*** ~ VI ***


 



~ VI ~

 

“«Forza, spicciatevi o faremo tardi».
Le quattro parole preferite del signor Horan.
Finisco di sistemarmi la cravatta allo specchio in bagno, mentre Louis davanti a me si sta impomatando i capelli, con la camicia ancora aperta ed il cravattino color porpora sfatto sotto il colletto. La vanità del mio amico sta raggiungendo vette preoccupanti: prima ha passato un’ora in doccia, poi un’altra buona mezz’ora l’ha spesa per scegliere quale camicia fosse più adatta all’evento (per poi optare per una normalissima camicia bianca) e adesso è da minimo dieci minuti che non riesce a decidersi se “è meglio il ciuffo sulla destra, sulla sinistra, oppure i capelli tirati indietro?”.
Esco dal bagno, per guardare innocentemente Niall. Non sono certamente io il motivo di quel ritardo.
 «Lou, dannazione, HAI FATTO?» sbraita il biondo, affacciandosi dallo stipite della porta. È nervoso come una zanzara, non è riuscito a stare fermo un attimo, e continua a controllare che i fiori siano ancora intatti, nelle loro scatoline di plastica.
«Chill out, fratello! – esordisce Louis, raggiungendoci finalmente in camera e tentando di sistemarsi invano il cravattino. I capelli, alla fine, li ha portati all’indietro: look più maturo, a quanto sostiene – non ti preoccupare, la tua micro-donzella ti aspetterebbe anche per ore, quindi non vedo che fretta c’è» conclude sospirando, con il suo solito atteggiamento a metà tra lo strafottente e lo scherzoso.
Niall sbuffa sonoramente, mentre prende in mano la situazione e lega, con un gesto abile, il farfallino di Louis «La pianti di chiamarla micro/mini/nana e quant’altro? Ha un nome, e lo sai bene» borbotta piano l’irlandese, sistemandosi i baveri della giacca allo specchio.
«Ehi, ehi, ehi… guai a chi tocca la Moers, eh? Quanto sei tenero quando hai gli ormoni in circolo, Horan!» risponde squillante l’altro, afferrando una guancia del biondo come se fosse un bambino.
«Ok, però andiamo seriamente, che poi devo occuparmi del dj e preferirei arrivare in tempo per salvare la situazione» mi impunto io. Adesso si sta veramente temporeggiando troppo.
A dire il vero, non è solo Niall quello ad essere nervoso.
Questa faccenda del prom mi sta assillando ormai da più di un mese: quasi tutta la redazione è impazzita per organizzare l’evento – visto che ovviamente è in mano alla Welsh e tirapiedi – quindi a gestire il giornale ci siamo ritrovati in quattro gatti. E, fidatevi, non è così semplice come pensavo, e speravo: dopotutto quelle galline riempiono paginate, anche se con stronzate. Riuscire a costruire un giornale in quattro è davvero dura, mi è toccato riciclare bozze di articoli di anni fa. E inoltre, visto che Sua Maestà mi ha fatto l’onore di nominarmi capo sezione di Arte e Spettacolo, mi è toccato scrivere un reportage di settimana in settimana su cosa stavano preparando loro del Comitato Prom e di quali mirabolanti e meravigliose novità avrebbero apportato all’evento.
E poi, a completare il tutto, mi hanno affibbiato il controllo del versante musica, perché non sono riuscite a trovare un DJ decente (si è improvvisato Josh, del terzo anno, ma nessuno si fida molto dei suoi gusti musicali).
Ma il dettaglio più irritante di tutta la faccenda deve ancora arrivare: invitare qualcuno al ballo.
Per settimane mi sono nettamente rifiutato, il mio piano ideale era: arrivare a quella stupida festa, piazzarmi in un angolo – possibilmente vicino alla console, giusto per tenere d’occhio la situazione musicale – sbronzarmi, farmi due risate con i miei amici, e poi fiondarmi a letto. Però no, questi due traditori che mi ritrovo come compagni di stanza nonché migliori amici hanno pensato bene di stare ai giochi, e si sono trovati “le dame”, come recita il volantino diffuso dalla Welsh & company:

“31 Maggio 2003, siete tutti invitati a partecipare al BALLO DI FINE ANNO, nel giardino del nostro College, proprio sotto al grande pino! Verrà allestito un gazebo con le bevute, non mancherà la musica, e vi lasceremo senza fiato grazie a giochi di luce straordinari! Non mancate, e voi maschietti abbiate il coraggio di invitare la dama che più vi ha rubato il cuore ♥!”

Ugh. Disgustoso, lo so.
Fatto sta che Tommo ha accettato l’invito di una ragazzina del secondo (che ha rischiato l’infarto quando Louis le ha detto di sì, giuro) mentre Niall… beh, Niall è unvero traditore. Oramai sono quasi riuscito a perdonarlo, ma quando mi ha confessato che stava uscendo con la Moers ormai da qualche settimana e quindi sarebbe venuto con lei al ballo, pensavo mi stesse prendendo per il culo. “Club di scacchi galeotto” queste furono le sue parole scherzose, a giustificarsi. Sai dove puoi ficcarteli i tuoi scacchi, avrei voluto rispondergli. Ma ho tentato un approccio maturo, anche se vederlo sbaciucchiarsi con quella nana da giardino mi provoca ogni volta un rigurgito. Quindi, in pratica, sono stato costretto a trovarmi qualcuno da portare al prom per non fare la figura dello sfigato. Ho ripiegato su Natalie Spencer, la compagna di stanza della Moers e di Lorraine.  È normo-carina, e poi è stata l’unica a chiedermelo.
Insomma, non vedo l’ora che questo inferno di serata finisca.
 
 
Ore 00.39
La situazione è la seguente: da una parte abbiamo i ballerini incalliti, tutti coloro che, nonostante ormai la musica sia limitata alle stesse tre canzoni messe in loop, continuano a scatenarsi sulla pista.
Dall’altro lato abbiamo “i rimasti”, ovvero chi ci ha corretto il ponch con un po’ troppo rum, chi ha trovato nella vodka la loro migliore amica, e chi ha pensato di prendersi una pausa fumando sigarette speciali: sono accasciati su un paio di seggiole e distesi sull’erba, resa umida dalla notte.
Se si procede camminando per tutto il giardino incontreremo la terza tipologia di studenti da prom: i pomicioni. Complici il buio e i numerosi anfratti appartati, i piccioncini della serata sono a scambiarsi effusioni più o meno spinte in giro per il parco - posso giurare di aver visto volare il cravattino rosso di Louis da uno dei cespugli vicino ai campi da tennis.
Poi c’è chi, come il sottoscritto, ha passato una serata del cazzo: di ballare non se ne parla, piuttosto la morte. Fatto che non è rimasto molto gradito alla mia dama: dopo nemmeno venti minuti dall’inizio del prom Natalie si è dileguata, l’ultima volta che l’ho vista stava ballando assieme a due sue amiche e a due ragazzini del secondo anno. Josh ha continuato a proporre pezzi musicali di merda, roba per lo più sconosciuta e ha persino cercato di rifilarci un brano “inciso da lui e dalla sua band” – Dio ce ne scampi e liberi. Per un po’ gli sono stato dietro, anche perché la Welsh continuava a lanciarci occhiate furenti, ma poi mi sono rotto le palle ed è stato allora che finalmente la mia serata ha cominciato ad avere un senso. Ah, tequila, cosa farei senza di te? Se tu fossi una ragazza in carne ed ossa, e non solo un inebriante superalcolico messicano, ti sposerei seduta stante. E soprattutto, sarei meno solo in questa nottata di baldoria.
Devo decisamente riprendermi, o farò la fine dei rimasti: sinceramente non voglio ritrovarmi a dormire sopra una panchina perché troppo ubriaco.
La piscina. Sì, direi che è un ottimo diversivo all’alcool che continua a scorrermi in circolo – e forse farei meglio a posare questa bottiglia di tequila, prima di andare a fare un tuffo.

Entro nella palestra e l’odore pungente del cloro si infiltra subito prepotente nelle mie narici. Le luci sono accese, suppongo che qualcuno abbia avuto la mia stessa, brillante idea.
Scendo le scalinate in cemento barcollando, cercando di mettere a fuoco dall’alto a chi appartiene la figura che sta nuotando ad una velocità pressoché furiosa, quando noto una bottiglia di spumante ed un vestito blu oltremare abbandonati al bordo della vasca.
Solo una persona indossava un abito di quel colore così profondo quanto audace, stasera.
Mi tolgo le scarpe, e arriccio il bordo dei pantaloni, per poi infilare i piedi in acqua, agguantando la bottiglia di champagne lasciata là da Lorraine, che continua a nuotare frenetica, ancora ignara della mia presenza.
Arriva in fondo alla vasca, quasi in apnea, e si appoggia al bordo, dandomi le spalle. Il fiato accelerato per la nuotata rimbomba per le pareti bianche della piscina, il ritmo è irregolare ed ipnotizzante. Forse è il troppo alcool che sto continuando ad ingerire che fa sembrare quel respiro quasi melodioso.
«Che c’è, ti stai allenando per entrare anche nella squadra nazionale di nuoto, adesso?»
Si volta di scatto, spaventata, immergendosi fino al collo nell’acqua, cercando di nascondere il corpo esile, coperto solo dalla lingerie.
«Styles, sei un cazzo di demente, porca puttana» sbotta lei. Non l’ho mai sentita imprecare, in – quanti sono? – dieci anni. Sentire quelle parole così forti uscire da quella bocca sempre così perfetta è un contrasto che mi spiazza, per poi provocarmi una sonora risata.
«Siamo sboccate stasera, eh? Ma nessuno te lo ha detto che gli alcolici non vanno consumati mai in solitaria?» alludo io, alzando la bottiglia di spumante, per prenderne un altro sorso. Le bollicine dolciastre scendono giù che è una meraviglia, e sento la mente annebbiarsi ancora un altro po’.
Lol si avvicina, nuotando sinuosa. Non sembra nemmeno umana. Forse è sempre stata una sirena, o qualcosa di simile, ecco spiegato perché mi supera in ogni cosa. Sarà una specie di divinità infernale.
Si issa da bordo vasca, per acchiapparmi la bottiglia di mano, ed iniziare poi a bere a piccoli gocci.
La osservo, intravedo il piccolo seno sotto il reggiseno a fascia nero, le goccioline d’acqua sul collo fanno compagnia alla pelle d’oca, ed il collo è teso, mentre assaggia quel liquido dorato.
«Che fai, non nuoti?» dice poi lei, posando la bottiglia ormai quasi finita accanto a me, e tuffandosi con la testa sott’acqua.
In effetti ero andato là per nuotare. Per svegliarmi un po’, e riprendermi dalla sbronza.
Mi sfilo i pantaloni e la camicia, e mi getto in acqua. Si sta decisamente meglio, qua sotto. Tutto è ovattato e più caldo, i movimenti sono più lenti e meglio calibrati. Inizio a nuotare, senza fermarmi.
Bracciata dopo bracciata, l’alcool invece di dileguarsi mi pare che inizi a pulsare sempre più insistentemente, come una benzina che non mi fa smettere di nuotare.
Dopo la ennesima vasca, mi aggrappo alla scaletta della piscina, quasi esanime. Lei continua a nuotare, come se non provasse minimamente fatica.
Si ferma, prende la bottiglia, e mi raggiunge per poi porgermela «Dai, ultimo sorso della serata» mi incita.
È strano. È strano essere qua, in una piscina, mezzo ubriaco, con la Welsh al mio fianco che non mi lancia occhiate arroganti o fa commenti acidi e strafottenti.
«Sai, sei stata brava stasera – le dico, passandole la bottiglia con l’ultimo goccio di champagne – è stata una bella festa».
Sto seriamente facendo dei complimenti a Lorraine?
Lei beve, con le labbra incrinate in un sorriso, poi poggia la bottiglia ormai vuota sul pavimento piastrellato.
«Lo so, grazie – risponde gongolando – dopotutto era la mia ultima occasione, no? Da domani siamo diplomati, ed il gioco inizierà a farsi serio».
Annuisco, appoggiando la nuca al bordo della piscina «Già. Che progetti hai? Tirocinio presso lo studio legale di Satana? Saresti un ottimo avvocato del Diavolo».
«Purtroppo tutti i posti erano occupati – replica lei, stando al gioco, e non la facevo così autoironica, sarà grazie al troppo spumante – mi limiterò ad andare a studiare Relazioni Internazionali a Cambridge» conclude, con un ghigno soddisfatto stampato in volto. «Tu invece?» mi chiede poi, senza aggiungere altro.
«Londra. Biglietto di sola andata, e chi s’è visto s’è visto. Ne ho abbastanza di scuole, di studio compulsivo, di esami. Voglio scrivere».
Lorraine mi guarda, e sorride. Sorride in modo dolce, quasi comprensivo, e con una vena che non riesco a decifrare.
«Sai, Styles, l’ho sempre saputo».
La fisso, interrogativo.
«L’ho sempre saputo che eri capace a nuotare» spiega poi.
Scoppio a ridere «Beh sì, mi ha insegnato mio padre quand’ero piccolo ed ogni estate vado al mare, non credevo fosse una cosa tanto particolare, e non sono nemmeno così eccellente, a dirla tutta».
Lei si volta nuovamente, per poi posizionarsi davanti a me, tenendosi con un braccio al bordo. La sua pelle calda è a contatto con la mia, ed è un tocco elettrico. Ma acqua ed elettricità sono letali, è un dato di fatto.
«Non intendevo questo, sciocco. Sai cosa mi ripete sempre mio padre, fin da quando sono piccola? “Sink or swim, Lorraine, sink or swim”: affoga o nuota. Nuotare è prendere in mano la propria vita, e farne ciò che si vuole. Affogare è stare al gioco degli altri, piegarsi alle loro decisioni per poi arrivare ad odiarsi. Tu sei sempre stato tendente all’affogamento, lo sai, vero? – mi parla soffiando le parole piano, quasi sussurrandole sul filo dell’acqua e vanno a fondersi con essa – per questo dovresti ringraziarmi. Non ti starò simpatica, è vero, ma almeno ti ho insegnato a nuotare» e le sue parole sono sempre più vicine, assieme alle sue labbra fini e rosse, che mi cercano e mi trovano. Ma io continuo solo a sentire le sue frasi rimbombarmi nella testa.
Mi sta rubando per l’ennesima volta un merito.
E questo bacio mi sta avvelenando, mi sta succhiando via la dignità.
La allontano violentemente. Cosa mi aspettavo? È pur sempre Lorraine Welsh. E se Lorraine Welsh vuole qualcosa, la ottiene, vero? Beh, no, col cazzo. Stavolta puoi anche andare a farsi fottere.
«SEI UNA STRONZA! Sei sempre la solita stronza! Se io “so nuotare” come dici tu, è solo perché mi sono fatto un mazzo così per tutti questi anni di inferno. E tu, cara mia, non c’entri proprio un bel nulla, lo sai? Credi che i tuoi atteggiamenti boriosi e le tue continue sfide maligne siano state il motivo per cui adesso io ho trovato una passione, il motivo che mi spinge ad avere le palle per andarmene a Londra? Beh, ti sbagli! – le urlo addosso, uscendo dalla vasca e raccogliendo furioso i vestiti mentre lei è ancora immersa e mi fissa impassibile – TI SBAGLI! TU NON MI HAI INSEGNATO UN CAZZO, MI HAI SOLO ROVINATO LA VITA. PER DIECI ANNI! TU MI HAI FATTO AFFOGARE, PER DIECI, FOTTUTISSIMI ANNI!»
Finisco di vestirmi velocemente, e mentre gli abiti restano appiccicati alla mia pelle bagnata e i brividi di freddo si impossessano del mio corpo io non sento nulla, se non puro odio.
Apro al porta, deciso ad uscire, ma mi giro un’ultima volta.
«E poi hai pure il coraggio di baciarmi: io non ci sto al tuo gioco perverso. Solitamente se tormenti qualcuno per anni, non è un buon modo per farselo amico, sai? Lorraine, io ti odio. Non ti sopporto, e stasera mi hai ricordato perché; hai riassunto perfettamente con poche frasi ed un gesto perché ti odio tanto: credi che il mondo ti appartenga e tu sia il suo Sole, che lo fa girare. Ma ti dirò una cosa: sei solo una ragazza viziata di un paesino del Cheshire».
Nei suoi occhi non c’è rimorso. Non c’è un briciolo di vergogna, né di imbarazzo, né di pentimento.
E quel cazzo di sorriso insolente si incrina ancora sulle sue labbra.”
 

 




«Sai, mi hai sorpreso» sospirò Harry, intrecciando le mani dietro alla nuca, ed alzando lo sguardo verso il cielo.
Era una serata serena, il cielo era terso e limpido e lui aveva dimenticato quanto si vedessero distintamente le stelle, da quella campagna. Avevano deciso di tornare verso il campus del college a piedi, un po’ perché l’effetto delle ripetute birre non assicurava niente di buono alla guida, un po’ perché entrambi erano, più o meno consciamente, desiderosi di passare altro tempo assieme.
Lol camminava silenziosa al suo fianco, sorridendo di tanto in tanto alle reazioni naturali e sorprese del ragazzo, che stava riscoprendo quei luoghi, quei campi che erano stati i suoi compagni per lungo tempo. Quindi lo superò, iniziando a camminare all’indietro davanti a lui, così da ritrovarsi faccia a faccia.
«Puoi tranquillamente ammettere che non è la prima volta che ti sorprendo» constatò lei stringendosi nelle spalle, ironica e con una vena di quella strafottenza che l’aveva sempre contraddistinta, soprattutto nel rapporto con quel ragazzo.
 
Dopo le scuse di Harry, lasciate a metà dalla decisione di Lorraine, finirono il secondo round di birre con molta più naturalezza.
Lui aveva letto, in quel “Non importa” sincero della ragazza, un condono, un’assoluzione a tutto il male che lui aveva creduto di averle inflitto. Lei, dall’altra parte, si era sentita sinceramente sollevata nel sapere che Harry, nonostante il successo, e nonostante il rancore che temeva covasse ancora, fosse invece diventato un uomo maturo, disposto ad ammettere i propri sbagli, ed aveva sentito onestà nelle sue semplici scuse.
Era come se quello scambio di quattro semplici parole (mi dispiace – non importa) avesse sigillato tutta quella prima parte della loro vita. Credevano entrambi di aver definito così una chiusura reciproca a quel capitolo fatto di dispetti maligni, parole ricolme di odio, arroganza e tanto infantilismo.
 
Harry sbuffò, sorridendo, all’affermazione della ragazza. Era perfettamente vero, lei lo aveva sempre sorpreso. E lui non lo aveva mai realizzato a trecentosessanta gradi, in realtà. Forse non si era nemmeno mai reso conto di tutte quelle volte in cui lei lo aveva stupito, perché lui era troppo preso a pensare alla competizione.
«È vero, lo ammetto. Ma quello che voglio dire è che… Liam Payne? Voglio dire, non-»
«So già dove vuoi andare a parare – lo interruppe lei. Lo interrompeva sempre, ma la cosa era talmente radicata, tra loro, che Harry nemmeno ci faceva più caso. Quasi quasi ci restava male se lei non lo bloccava, durante quei suoi discorsi sconnessi – ma Liam è davvero un bravo ragazzo. E non provarci nemmeno a rinfacciarmi quello che sostenevo al liceo, spesso e volentieri ero una grande stronza, lo so, ma in fondo ho sempre avuto un debole per i suoi bicipiti» concluse scherzosa, alzando poi lo sguardo per andare anche lei a fissare quel manto stellato che si stagliava sopra le loro teste.
«Se non erro ti ha dato della “scopa in culo” più di una volta, ai tempi d’oro…» insistette lui, come ha stuzzicarla.
«Che c’è, sei geloso? – ridacchiò lei, continuando a camminare lentamente all’indietro – comunque, si cambia, sai? Sono passati parecchi anni, e solitamente la gente va avanti. E poi mi è stato parecchio di aiuto, negli ultimi tempi, e non c’è una grande scelta di visi amici rimasti qua nei dintorni» sospirò infine lei, quasi a giustificarsi.
Il ragazzo si sentì quasi in colpa per averla provocata tanto. Ancora una volta aveva dato aria alla bocca prima di pensare: se si fosse fermato un solo istante a ragionare sugli anni passati di Lorraine, gli sarebbe sembrato ovvio quanto il supporto di qualcuno di deciso e forte come Payne le era stato indispensabile. E, come aveva detto lei, le persone normalmente vanno avanti, cosa che invece Harry pareva ancora non aver imparato: si era illuso di aver superato il periodo del liceo, con tutti i suoi pro e soprattutto i suoi contro, pensava di aver quasi esorcizzato tutti quegli anni pubblicando quel libro. Invece gli era bastato passare meno di ventiquattr’ore in quei luoghi, e imbattendosi in quelle stesse persone che avevano riempito la sua vita di adolescente, per realizzare che in realtà lui non era ancora riuscito a staccarsi da loro.

«Sai, oggi sono stato dalla Johnson e mi ha raccontato quello che è successo – disse Harry, spezzando il silenzio che si era creato. La sua voce era profonda, e aveva ripreso a fissarsi i piedi, come faceva ogni qualvolta che si trovava in difficoltà, come se fissando il terreno sotto di essi trovasse la certezza che qualcosa lo stava effettivamente sostenendo, nonostante gli sembrasse di vivere costantemente sull’orlo di un baratro – vedi, se avessi saputo, avrei agito diversamente. E adesso, che invece so quello che hai passato, non ti dico che mi sento in colpa, però… però vorrei poter tornare indietro, ecco. E anche in questo caso mi hai sorpreso, perché non mi hai detto nulla».
Anche lei abbassò nuovamente lo sguardo, andando a cercare quello del ragazzo, che saettava dal basso verso l’alto e che, nascosto dal buio ed illuminato solo dalla flebile luce della notte, le parve inquietantemente sfolgorante e frenetico.
«Cosa avrei dovuto fare? Telefonarti? “Scusa, Styles, sai è morto mio padre, sono nella merda, probabilmente lo stage all’ONU va a farsi fottere, potresti agire diversamente?”» disse nervosa lei, mentre varcavano il piccolo cancello che separava la strada principale dal viottolo che li conduceva alla schiera di case in mattone rosso, gli alloggi dei professori al St. Martin.
Lei nemmeno voleva affrontare quell’argomento, perché lui insisteva tanto? Credeva di essere riuscita a fargli capire quanto in realtà il suo libro era stato per lei paradossalmente d’aiuto. Eppure Harry, come sempre, aveva bisogno di altre conferme. Di una sicurezza maggiore, di un perdono completo.
Lol si fermò davanti alla prima abitazione e iniziò a frugare scocciata nella borsa, alla ricerca delle chiavi di casa che parevano essersi magicamente dissolte.
«No, certo, non mi aspettavo qualcosa del genere… ma almeno un segno di vita! Non lo so, Lorraine, è che… mi dispiace davvero» insistette lui, mettendosi a sedere sul muretto davanti alla casa della ragazza.
La ragazza sospirò, estraendo il mazzo di chiavi dalla borsa, e si sedette accanto a quel ragazzo dinoccolato dai capelli indomabili. Lo stesso ragazzo dinoccolato con gli stessi capelli indomabili di sette anni prima.
«Non farlo. Non dispiacerti, perché, lo so che ti sembrerà assurdo, ma quel libro mi ha davvero aiutata. Perché, nonostante tutto, sapevo che tu da qualche parte del mondo ancora ti ricordavi di me, e con te adesso pure migliaia di lettori. Tu mi hai resa immortale. Capisci perché non devi assolutamente chiedermi scusa? Ti rendi conto di quanto tu abbia fatto per me, senza nemmeno rendertene conto e forse pensando addirittura di ferirmi? Harry io dovrei dirti grazie, tu mi hai ricordato che so nuotare nel momento in cui stavo affogando».
Harry chiuse gli occhi, mentre la ragazza gli diceva quelle parole, per assimilarle piano, per ascoltarle meglio, per farle più sue e lasciare che restassero incastrate sottopelle.
E non era in realtà l’assoluzione quello che aveva cercato fin ora, bensì la certezza che lei stesse bene. La sicurezza di non averle fatto del male, la sicurezza del fatto che lei riuscisse ancora a nuotare. Ma non ne aveva mai avuto alcun dubbio, aveva solo bisogno di una conferma.
Harry si voltò di scatto, per stringere il volto della ragazza tra le sue mani, e sembrava talmente fragile in quella morsa se non fosse stato per gli occhi, che come sempre fiammeggiavano di vita e di forza.
«Lol, tu non hai mai smesso di nuotare. Sei tu che mi hai sbattuto in faccia quel “Sink or Swim”, quelle tre parole che mi hanno affondato da quanto dure ma veritiere. Te sai nuotare da quando sei nata, e non è una cosa che si dimentica, lo sai meglio di me. E mi ringrazi? Quello che dovrebbe farlo, per una buona volta, sono io. Grazie, senza di te probabilmente, anzi sicuramente, sarei annegato» e lo credeva davvero. Lo aveva sempre saputo, ma era troppo orgoglioso per ammetterlo a se stesso, eppure era pronto ad ammetterlo a quella che aveva da sempre considerato la sua acerrima nemica.
Lorraine cercò di abbassare lo sguardo per fuggire da quegli occhi così brillanti, quegli occhi che non erano altro che porte verso il cuore del ragazzo, e che adesso si erano totalmente spalancate, solo per lei. Eppure, nonostante tutto, lei le temeva, non voleva vedere cosa celassero. Era una responsabilità troppo grande.
Lui le alzò il viso, perché non poteva credere che davvero lei avesse paura di qualcosa o qualcuno, soprattutto di lui. Era Lorraine Welsh, e Lorraine Welsh non ha paura di niente. E mentre cercava di ancorare nuovamente la sua anima a quelle iridi profonde, andò a cercare con esse anche le labbra tormentate della ragazza.
E, esattamente come sette anni prima, si trovarono. Un incontro frenetico, desiderato così come rifuggito, un incontro che era fatto solo di contraddizione.
E mentre ancora le labbra di Harry cercavano l’ennesimo contatto impaziente, Lorraine raccolse tutte le sue forze e si alzò. Perché c’era troppa disperazione esasperata in quel bacio. Era troppo complicato, portava troppe conseguenze, e lei non era pronta. Si voltò correndo verso la porta di casa, lasciando ad Harry solo il sapore amaro della birra sulla bocca, e una lacrima fuggita dal ferreo controllo che aveva tentato di imporsi.


Buon venerdì, carissime :)
Ok, in realtà è stata una giornata di cacca, l'esame è andato malino e ho rifiutato il voto (non potete capire quanto è cretino il prof. Non voglio ripensarci o mi sale la rabbia), poi ieri notte ho dormito 3h per l'ansia... insomma, sono stanca stravolta D: per lo meno domani parto per London ♥♥♥ tre giorni nella città più bella del mondo~ so già che tornerò a casa con cianfrusaglie con le facce dei "miei bambini" ovunque HAHAHAH
Ma, cavolate a parte, parliamo del capitolo: come annunciato succedono parecchie cose :3 come vi avevo annunciato, è un capitolo abbastnza intenso - infatti è anche più lungo del solit, perdonatemi - e anche stavolta ho voluto fare un parallelo su il bacio da ragazzi, in cui è Lorraine a cercare Harry, in contrasto in quello da adulti, dove è il contrario :) Il "libro" di Harry sta arrivando agli sgoccioli, infatti con il prossimo capitolo "finirà" xD Vorrei spendere altre parole, ma sono davvero stanca e giù di morale D: e spero che il capitolo vi sia piaciuto, dato che ho notato anche un calo di letture, sobs ;_;
Ok, vado a cucinar qualcosa per cena c: love you ♥
xx Gin~

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Capitolo 7
*** ~ VII ***


 



~ VII ~

 

Il Big Ben.
Lo vedo, lo sento addirittura scandire l’ora, ma sembra meno grande e maestoso di quanto avessi mai immaginato. Il quadrante bianco dell’orologio inizia a illuminarsi, e la luce diventa sempre più forte, ma io non riesco a smettere di fissare quelle lancette nere. Iniziano a bruciarmi gli occhi a causa del bagliore, ma me ne infischio, i miei occhi sono incollati su quel quadrante che, pian piano, inizia a farsi sempre più vicino, sempre più intenso e…

Il bisbigliare frenetico di Louis mi fa svegliare di soprassalto.
Non sono affatto davanti al Big Ben, non sono a Londra, sono ancora qua, in questo letto. Circondato da questa gente che non mi capisce e non vuole nemmeno capirmi, persone che so perfettamente che mi giudicano solo per i miei risultati. Persone alle quali io non interesso, se non per un semplice fatto di circostanza.
Mi isso a sedere, sono sudato fradicio.
Lancio un’occhiata ai vestiti di ieri sera, accasciati sulla sedia ancora mezzi bagnati, e sento un brivido percorrermi veloce la spina dorsale.
Un brivido che non riesco a decifrare bene, è un misto di odio e piacere.
«Buondì Hazza!» esclama Niall, vedendomi sveglio. È più su di giri che mai, sta vorticando per la stanza senza tregua, ripete il suo discorso, sistema la sua toga nera appesa nell’armadio. Dall’altro lato della camera, sdraiato sul letto accanto al mio, c’è Louis, preso in un chiacchiericcio al cellulare non meglio identificato. Chiude la telefonata con un “scommetto che sarai uno schianto, a dopo” e lancia distrattamente il telefonino sul letto, alzandosi.
«Allora, Harry, com’è che ieri quando sono tornato in camera eri già qua, addormentato come un angioletto? Pensavo ti fossi dato alla pazza gioia, visto che sei scomparso verso mezzanotte!»
Eccolo, lo sapevo. Louis Tomlinson nei panni di Gossip Girl. Non l’ho mai sopportato, che bisogno ha di spettegolare su ogni cosa e persona che gli capita a tiro? Il detto “vivi e lascia vivere” per lui è aramaico antico, non riesce proprio a capirlo.
Scrollo le spalle.
È fuori questione che racconti loro quello che è successo ieri. Senza contare che non voglio nemmeno rivangare quei momenti, o rischia di partirmi un embolo, per quanto potrei incazzarmi nuovamente. Quindi sì, meglio edulcorare la realtà.
«Sono andato a fare un bagno in piscina per farmi scendere la botta, e poi son tornato a letto. Niente di che. Invece sono certo di averti sentito dietro ad un cespuglio, vicino alla palestra. Chi era la vittima designata, stavolta?»
Il metodo migliore per evitare un terzo grado di Louis-Gossip Girl è quello di rigirare la frittata in suo favore. Non saprà resistere al richiamo di stordirmi con le sue avventure sessuali.
«Ma ovviamente la mia dama per il ballo, Harry, per chi mi hai preso! Ho accettato il suo invito per un motivo, ovvero testare sul campo le sue doti che Daniel mi aveva tanto decantato».
«Certe volte sei davvero un porco, Louis» gli rispondo, mentre mi chiudo in bagno e lo sento ridere dall’altra parte della porta, e Niall continua a dedicarsi al suo discorso.
Non mi va di andare alla cerimonia.
Voglio dire, tanto i risultati degli esami li abbiamo già saputi, ieri abbiamo già festeggiato, quindi a cosa serve indossare questa stupida toga e questo ancor più stupido cappello? Un’altra, l’ennesima formalità della vita di uno studente.
Non ne posso davvero più.
E poi, a migliorare il tutto, sono letteralmente costretto a rivederla e stavolta ho pure meno voglia del solito.
Avevo iniziato a credere sinceramente che fosse cambiata. O, per lo meno, che in realtà fosse una persona diversa da quella che ha sempre voluto farmi credere di essere.
E ci stavo davvero credendo, pure mentre eravamo in quella piscina, e lei pareva così meravigliosamente… libera. E lei è sempre stata l’antitesi di una persona libera e spensierata, con la sua rigidità e compostezza. Per questo mi sono fatto illudere, per qualche minuto, che lei fosse davvero così, che sotto a quella patina di perfezione ci fosse una ragazza normale.
Ma Lorraine Welsh la parola “normalità” l’ha eliminata dal suo vocabolario. Perché lei è speciale, sempre. Lei è superiore, sempre. Lei, con le sue parole sempre perfettamente calibrate, sa colpire dritto al centro del bersaglio. Ieri sera ho abbassato la guardia, solo per qualche istante, e le ho dato modo di scagliare l’ultima, decisiva, mortale freccia.
Vorrei solo non dover incrociare i suoi occhi, ancora una volta. Ce li ho incisi già nella mente, con tutte quelle vene di sottointesa malizia e arroganza. 
 
Uno scrosciante applauso, seguito addirittura da qualche fischio di approvazione, accompagna Niall, che sta scendendo dal palco dopo il suo emozionante intervento. E’ stato eletto miglior studente dell’anno, assieme a Lorraine, e gli è toccato quindi preparare un discorso per coronare al meglio la cerimonia. Devo ammettere che è stato davvero bravo, è riuscito a infondere fiducia in tutti noi per il nostro futuro e, al contempo, è riuscito ad elogiare la scuola. C’è poco da fare, è un ragazzo in gamba, nonostante tutto.
Riprende il suo posto a sedere, alla mia destra, e vedo le sue guancie un po’ arrossate, probabilmente per l’imbarazzo di tutte le pacche ed i complimenti che sta ricevendo.
Il preside Goldberg si avvicina al microfono, e si schiarisce la voce «E adesso, chiamiamo sul palco la miglior studentessa dell’anno: non solo questa ragazza ha una media impeccabile, ma è anche presidentessa del club di latino, caporedattrice del giornale scolastico, e un membro attivo del comitato studentesco per l’organizzazione di eventi. Un grande applauso quindi per Lorraine Welsh!»
E mentre sale quei pochi gradini, e si posiziona fiera davanti a quel leggio, è come se potessi leggere distintamente ogni suo pensiero. Dietro quegli occhi strafottenti c’è l’orgoglio di essere su quel palco, la consapevolezza di non essere affogata ma, anzi, di essere quella che sa nuotare meglio.
 
«Harry, mi raccomando: mi aspetto una lettera almeno ogni mese! Sappi che Londra può divorarti in un sol boccone, quindi stai attento» l’ennesima raccomandazione della Johnson. La abbraccio, un’ultima volta, e mi beo dell’odore di biscotti che emana. Mi mancherà, lo so che è buffo da dirsi, ma questa vecchietta è l’unica persona che davvero mi mancherà. Mi scruta da sotto i suoi occhiali a mezzaluna, cercando una rassicurazione.
«Le prometto che non sarò prudente: di più» sghignazzo, mentre lei apre la porta di casa, lisciandomi la toga nera con l’altra mano.
«Ancora mi sembra uno spreco che tu non faccia l’università… ma non voglio insistere oltre» commenta lei.
Ci risiamo. Ancora non ha accettato la mia decisione di chiudere una volta per tutte con gli studi, nonostante sappia perfettamente che sto andando a perseguire il mio sogno. Senza contare che è stata proprio lei, con i suoi discorsi e la sua fiducia, a darmi il coraggio di intraprendere questa strada.
Sbuffo, senza dire nulla, ed esco sull’uscio di casa. Le rivolgo un inchino, divertito, e poi le consegno quel cappello squadrato ridicolo.
«Voglio che questo lo tenga lei. È stata la mia madre adottiva, per questi quattro anni, ed è giusto che lo conservi lei: io rischierei di buttarlo via, glielo dico».
Lei mi sorride, prendendo il mano il cappello «Lo conserverò gelosamente» sorride, per poi lanciare un’occhiata alle mie spalle.
Mi volto, e lei è là: le guancie rosee, un sorriso felice, la toga sgualcita e aperta che fa intravedere un vestitino color crema, il cappello in testa posto sulle ventitré, e il papiro di diploma sottobraccio. Non appena mi vede si rabbuia, per qualche istante. So benissimo che sta provando fastidio e disagio, ma se li merita tutti.
«Salve Lorraine! Il tuo discorso è stato magnifico, lo sai?» esclama la Johnson, mentre io mi sposto per farla passare. Lei si curva per abbracciare la professoressa, mentre io mi allontano.
«Beh insomma, prof, è stato un piacere. Le scrivo non appena arrivo nella Capitale» mi affretto a dire io.
Voglio andarmene. Subito. All’istante. La sua vicinanza mi sta avvelenando, come al solito. Lol non mi guarda nemmeno, continua a gingillarsi con il diploma.
La anziana mi sorride, annuendo, alternando lo sguardo da me a Lorraine. Sospira, facendo segno alla ragazza di entrare in casa «Ci conto, Harry – sospira, facendo una pausa - E comunque, voi due, dovreste seriamente smetterla di comportarvi come due bambini. Avete 18 anni e vi siete diplomati, che ne dite di mettere una tregua a questo astio inutile?»
La fisso sorpreso, con il cuore in gola, e il fiato mozzato. E’ impazzita?
Mi allontano ancora un po’ dall’uscio, scendendo un gradino. Cerco di valutare cosa è meglio dire, e cosa è meglio fare.
«Non c’è nessun astio – dice la Welsh, squadrandomi da capo a piedi – è semplice e sana competizione. Comunque, buona fortuna Styles» conclude, fissandomi con insolenza. Lo so cosa sta facendo: tenta di mettersi ancora una volta al di sopra di me. Ma non abbasso lo sguardo, stavolta.
«In bocca al lupo, Welsh» rispondo, per poi voltarmi.

E spero che quel lupo non crepi, ma ti divori, bisbiglio tra i denti. 

 



 

Lo sciame di studenti che avevano assistito al suo ultimo seminario stava defluendo via dalla classe, ed Harry si sentiva incredibilmente appagato.
Quei tre giorni erano volati. Certo, dopo quella prima, decisamente intensa, giornata, aveva deciso di mettere un freno alle proprie emozioni e aveva cercato di evitare in tutti modi altri incontri sbagliati. Sia con Lol, che con altri ex compagni.
Non aveva smesso di ripensare a quella serata, assieme alla ragazza. Aveva tentato di occupare i propri pensieri organizzando le lezioni per i ragazzi, oppure uscendo assieme a Louis e Niall, rimembrando i tempi passati ma in quelle due notti appena trascorse, nelle quali si ritrovava a dormire nella sua vecchia camera, nella casa di famiglia, l’immagine di quelle labbra sottili e vivaci si stampava nella sua mente.
Si era subito maledetto per aver agito in un modo talmente impulsivo.
Non era da lui, era sempre stato uno che meditava molto, fin troppo, sulle sue azioni, ma Lorraine aveva ancora una volta stravolto ogni sua certezza. Ogni suo freno. Come poteva essergli passato per l’anticamera del cervello di baciarla? Un macigno di vergogna si fissava dritto sul suo petto, mentre riviveva quell’istante, ed il successivo rifiuto della ragazza.
Ma, grazie a Dio, quei tre giorni nel vecchio St. Martin si erano conclusi. Non avrebbe più dovuto evitarla ad ogni angolo di corridoio della scuola, esattamente come quando erano al liceo e cercava di non incontrarla, tanto la odiava. Anche se adesso si nascondeva da lei ma il sentimento era decisamente mutato. Non la scansava per l’astio ed il rancore, ma per un imbarazzo misto ad un sentimento stranamente profondo ed incomprensibile.
Spense il pc e lo staccò dalla presa del proiettore. Doveva dileguarsi da quella scuola il più in fretta possibile.
 
«Hazza! – si sentì chiamare, mentre con passo lesto attraversava l’atrio principale del collegio – che fai, scappi già?»
Un Niall in borghese, senza quella giacca e quella cravatta che sembravano essere diventati la sua seconda pelle, gli rivolse un sorrisone sincero.
Harry sospirò, fermandosi, mentre l’amico lo raggiungeva «Mi ha chiamato il mio agente, ho una conferenza skype stasera con l’editore americano del libro… sai bene cosa significa, no? Là sono le sette di sera, e qua l’una di notte» fece una smorfia, pensando al fatto che sarebbe dovuto correre a Londra per poi restare in ufficio fino a notte inoltrata.
Niall gli diede una forte pacca sulla spalla, mentre lo accompagnava fuori dall’edificio «Conosco bene la situazione, fidati. Non ti dico quanto sono divertenti le video-riunioni FAO/ONU… ovviamente quelli che devono restare in piedi fino a notte fonda siamo noi della FAO a Roma, mica loro a New York! Senti, ma non hai nemmeno il tempo per bere qualcosa prima di partire?»
Harry soppesò la proposta. Da una parte sarebbe voluto correre via da quel posto subito, all’istante. Non voleva incontrarla, ed il rischio cresceva se restava ancora là, ad Holmes Chapel. Ma dall’altra gli erano mancate le chiacchiere con il suo vecchio compagno di stanza, e chissà quando gli sarebbe ricapitato di incontrarlo in polo e jeans, senza troppi pensieri per la testa. Quindi sì, una birra prima di inforcare la via di ritorno verso la Capitale ci stava.
 
Chiaramente Niall insistette per un pub, da buon irlandese che si rispetti. E chiaramente l’unico pub nel raggio di qualche chilometro era quello dei Payne. Harry mascherò il suo disagio alla perfezione, quando l’amico gli propose di andare a scolarsi una birra al vecchio bar che frequentavano al liceo. Non aveva detto nulla, né a Niall né a Louis, di quella serata assieme a Lol. Avrebbe portato a troppe domande e lui non era mai stato bravo a mentire, soprattutto agli interrogatori senza freno di Tommo. Adesso sperava solo che Geoff non fosse in servizio, o sicuramente avrebbe mandato all’aria tutto.
Niall, precedendolo, entrò nel pub e «Lo senti? Questo è l’odore della nostra gioventù!» disse scherzando, mentre inspirava profondamente, nemmeno si trovasse in riva al mare.
Harry rise, mentre si scrutava attorno sospettoso. Al bancone non c’era nessuno ma un forte chiasso proveniva dalla stanza adiacente, verso la quale il suo amico si stava dirigendo, con fare interrogativo.
Un coro di “congratulazioni” e un suono di bicchieri che cozzavano in ripetuti brindisi li accolse, la stanza era gremita di gente, tra cui individuò anche la Moers e Geoff. Erano tutti raccolti attorno a qualcuno, ma le risate e il parlottio generale erano troppo assordanti per far capire bene quello che stava succedendo.
Niall cercò di inoltrarsi nella folla, salutando a destra e a manca i vecchi compagni e le vecchie conoscenze, ed Harry lo seguiva titubante. E mentre cercava di rendersi conto di quello che stava succedendo – di chi era il compleanno? Che ci faceva Jane là? – trovò tra tutte quelle persone i suoi occhi. E quel brivido incomprensibile che gli percorreva la schiena ogni qualvolta che incontrava quelle sfere, lo percorse da parte a parte, pietrificandolo.
Liam Payne cingeva la sua vita sottile, ringraziando di tanto in tanto e sorridendo come un ebete, mentre lei lasciava sorrisi imbarazzati e timidi.
E prima che potesse rendersi effettivamente conto di quello che stava succedendo, Niall lo raggiunse, divertito.
«Ma ci credi? La Welsh che si sposa CON PAYNE! Una coppia più improbabile la devo ancora trovare, chi l’avrebbe mai detto?»
Sposarsi.
Lo sguardo frenetico di Harry indugiò lungo il braccio della ragazza, per poi trovare il segno di quello che stava accadendo: un anello sull’anulare affusolato.
Si sposava.
Una valanga di scosse iniziò a colpire il ragazzo: rabbia, invidia, gelosia, imbarazzo, vergogna.
Andò a cercare ancora una volta, un’ultima volta, quegli occhi prepotenti. Lui cercava una risposta, una spiegazione a quello che stava succedendo. Lui sapeva che, accettando di sposarsi con quel ragazzo, lei decretava la sua stessa fine. Sarebbe rimasta per sempre là, in quella minuscola cittadina, quando aveva un potenziale immenso da offrire al mondo. E lui non riusciva ad accettarlo, era uno spreco troppo grande.
E cercò di leggere oltre quelle iridi brillanti, tentò di leggere oltre l’imbarazzo della ragazza che lo fissava, come a chiedergli scusa. Scusa per cosa? Per averlo tormentato per tutti gli anni della scuola? Per aver creduto di essere meglio di lui? Scusa per averlo illuso? La realtà era che lei era semplicemente delusa, più da se stessa che dal ragazzo.
Delusa per non essere riuscita a nuotare come sapeva fare, delusa per aver accettato quella proposta che, sapeva perfettamente, l’avrebbe relegata in quel ruolo che le stava già stretto. Delusa perché lui non era riuscito a portarla in salvo in tempo. Ed era anche arrabbiata con il destino che, ancora una volta, le aveva giocato contro, perché sarebbe bastato che si mettesse in moto poco prima, e lui avrebbe potuto donarle quello che si meritava: una vita. 


Ed eccomi qua, dopo due settimane. Quindi direi di iniziare con delle scuse ;_; non so bene il motivo, ma dopo essere tornata da Londra la voglia di accendere il pc e, conseguentemente, di scrivere, era pari a zero. Per di più sapevo di dover scrivere questo capitoletto di simil-passaggio, e non mi andava proprio D: infatti fa veramente, veramente pietà. È pure cortissimo. Provo sinceramente vergogna a postare 'sto obbrobrio ma vi tocca prendervelo così com'è perchè sono davvero in un periodo di blocco scrittura pazzesco :| spero di uscirne presto, sobs.
Insomma, due parole su 'sta cacatina: Harry giovincello è seriamente incazzato con Lol, e in realtà è anche comprensibile: lei non si è comportata molto bene al prom, suvvia u.u
Mentre nel presente... BOOM. Lol si sposa. Volevo rendere la cosa con molto più...pathos. Ma ribadisco che non sono assolutamente in vena, quindi non sono riuscita a fare niente di meglio di questa roba. Spero che si intuisca il tormento, non solo di Harry, ma anche di Lol, per questa scelta di sposarsi. Ecco, comunque sarà tutto più chiaro andando avanti - spero AHAHAHA.
Ok basta, meglio dileguarsi, sono davvero imbarazzata per questo capitolo :DDDDDDDDDD addio.
xx Gin~

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Capitolo 8
*** ~ VIII ***


 



~ VIII ~

 

Gennaio 2013

 
Ci sono molte cose che cambiano, con il passare del tempo.
Cambiano i mezzi di comunicazione. Cambia il modo di rapportarsi con chi ci circonda. Cambia il linguaggio. Cambia il corpo, solcato dai fiumi delle esperienze che sei costretto a vivere, volente o nolente. Cambiano le personalità, i caratteri, le espressioni. Cambia la nostra psiche, e si adatta al ripetitivo susseguirsi delle stagioni, ed arrivi ad un punto in cui non riesci più a distinguere i confini tra le settimane, tra i mesi, tra gli anni.
Nel momento in cui ci si rende conto di essere solo semplici burattini, giostrati dalle mani abili ma imperscrutabili della vita, tutto diventa più semplice, più sereno. Ci si abbandona alla tranquilla e confortante rassegnazione di essere umani e, conseguentemente, mortali. E da questa rassegnazione si ricava l’unico obiettivo che dobbiamo perseguire, per non rischiare di finire come pulviscoli dimenticati: amare.
L’amore, in ogni sua forma, che sia amore familiare, amore fraterno e di amicizia, o amore profondo e totalizzante, è il solo fattore che ci distingue l’uno dall’altro e ci permette di restare immortali.

 
 
Odio viaggiare.
Forse ho viaggiato troppo, o forse semplicemente non è nella mia natura non avere la possibilità di piantare le radici in un luogo. Cambiare sei fusi orari almeno due volte a settimana, addormentarsi nel pieno pomeriggio, mentre si resta svegli nel bel mezzo della notte: questa vita non fa per me. Ma è la vita che mi sono scelto, è la vita che ho cercato, che ho sognato e che ho ottenuto, forse con fin troppi sacrifici.
Mi lascio cullare dalle parole ripetitive della hostess, che illustra le procedure di sicurezza dell’aereo, fissandola mentre spiega come indossare il giubbotto salvagente. La fisso, inerme, e quasi mi ritrovo a sperare di doverlo indossare, quel giubbotto.
Mi ritrovo, ancora una volta, a sperare di arrivare ad una fine.
Ma, come sempre, questi pensieri così inconsci quanto shoccanti mi fanno destare dal tepore.
Scuoto la testa, cercando di scacciarli, e cercando di svegliarmi. Devo ancora rispondere alla mail del mio editore, nonché aspettare notizie dalla casa di produzione americana. Non ho il tempo né per dormire, né per abbandonarmi a pensieri decisamente poco allegri.
Ho bisogno di una casa.
Londra non è la mia casa, così come non lo è Los Angeles. Sono luoghi di passaggio, dove lascio frammenti della mia personalità. Mi sto lentamente impoverendo di me stesso, senza però riempirmi di altro. Ho come la sensazione che pian piano inizierò a diventare opalescente, i contorni si sfumeranno e infine mi unirò al vuoto che ci circonda. Non sarò nemmeno dimenticato, perché non ci sarà nulla da dimenticare. Semplicemente, non sarò.
Per questo ho bisogno di una casa.
Ho bisogno di poter tornare tra quattro mura e sentire un odore unico che mi riempia ogni anfratto del cuore, ogni cellula, così da potermi ricaricare di me stesso. Ho bisogno di una benzina, ma non conosco ancora la sua composizione chimica ideale perché ingrani perfettamente con gli ingranaggi della mia anima.
Il pavimento sotto i miei piedi inizia a vibrare forte, sento la cassa toracica comprimersi contro lo schienale morbido del sedile, la cintura ben stretta che mi tiene saldo ad esso. Sento le orecchie tapparsi. Sento tutte queste cose, eppure non mi sento completamente vivo.
Chiudo gli occhi, assaporando la sensazione particolare di librarsi in volo, e mi sembra ancora una volta che gli organi inizino a confondersi tra di loro. Avrei bisogno di qualcuno che me li sistemi, con tocco dolce e sapiente. Non sono più sicuro di avere il cuore al posto giusto, non sono sicuro che i miei polmoni stiano pompando aria, non sono certo che il cervello sia connesso al sistema nervoso.
Non ho più alcuna sicurezza.
 
Il mio agente vuole, pretende, mi obbliga a sottopormi a sedute da uno psicologo. Dice che è normale sentirsi così dopo un successo mondiale, dice che non sono il primo e non sarò l’ultimo a ritrovarsi senza una bussola a 28 anni, dice che è solo paura.
Ma io non ho paura.
Io non ho perso nessuna bussola.
Innanzitutto avere paura comporta provare effettivamente qualcosa. Io, invece, mi sento come anestetizzato, ibernato, privo di recettori nervosi. Non sento le carezze delle ragazze che si succedono tra le mie lenzuola, notte dopo notte. Non sento le lusinghe e non sento le critiche. Non riesco più a distinguere chi mi è amico, non per diffidenza, ma per semplice insensibilità. Non percepisco più le emozioni altrui così come non percepisco più nemmeno le mie.
E poi per perdere una bussola, si suppone di averla posseduta, ed io non mi sono mai sentito orientato, in vita mia. Ripensando anche agli anni passati, è come se andassi a tentoni, procedessi zoppicando per varie strade, incerto come un piccolo cerbiatto che tenta di fare i suoi primi passi. Non avendo mai avuto una bussola, non so se poi la via che ho scelto sia quella giusta. Non credo di aver mai avuto un Polo Nord a cui mirare, una certezza fissa, imprescindibile, assoluta. Ogni cosa e persona che hanno  fatto parte della mia vita sono state labili e momentanee, come polaroid che restano ferme da subito su un solo istante, e non guardano né al passato né al futuro.
Per questo credo che l’aiuto di uno psicologo sia piuttosto… inefficace. Cerca di liberarmi di una paura che non esiste e tenta di ritrovarmi un punto cardinale che non ho mai avuto.
In più mi fa raccontare della mia infanzia, dei miei anni della scuola, mi costringe a ricordare.
Io non voglio ricordare.
Non è il momento per ricordare, questo. Dovrei costruire ricordi per un domani, non rivangare tutti i miei ieri. Nel mio ieri ero diverso, ma non per questo migliore. Non per questo dovrei tornare ad essere quello che ero stato un tempo.
Dopotutto si dice sempre che dobbiamo evolverci, giusto? Che senso ha ripercorrere i miei passi? Non sono scarpe che ho intenzione di indossare nuovamente: ho bisogno di scarpe nuove.
Se questo aereo arriverà a Londra, la prima cosa che farò sarà licenziare quello psicologo.
 
Non sono mai sincero con me stesso.
Non sono sincero nemmeno quando tento di parlarmi a tu per tu, fissandomi dritto negli occhi, davanti ad uno specchio. Probabilmente questo è dovuto al fatto che in quegli occhi verdi non ritrovo i miei, che quelle occhiaie blu non le sento mie, che quella piccola ruga sopra al sopracciglio mi pare anacronistica.
O forse non sono sincero perché voglio convincermi di essere senza speranza, è più comodo.
Il dottor Marling mi ha ammonito duramente. Non credevo fosse nelle possibilità di uno psicologo rimproverare i suoi stessi pazienti, ero sicuro che loro fossero semplici pupazzi, piazzati lì per ascoltarti, o obbligarti a parlare, come nel mio caso. Quando invece ho espresso l’intenzione di finirla con queste sessioni, il dottore si è alzato e, con voce quasi rabbiosa, mi ha detto che rischio grosso.
Rischio grosso. Non so cosa intendesse dire, con precisione. Dopodiché, si è tolto gli occhiali, si è massaggiato il naso e mi ha detto una banalissima frase, una di quelle frasi classiche da psicologo ma che lui aveva sempre evitato di pronunciare: “quello che devi capire, Harry, è che devi imparare ad avere rispetto per te stesso”.
Per questo adesso mi ritrovo come un ebete a fissarmi, ormai da quasi un’ora, allo specchio.
È molto strano, guardarsi a lungo. Inizi a non riconoscerti più, inizi a vederti filtrato dagli occhi del mondo che ti circonda.
E nel momento in cui inizi a percepirti come un estraneo, è allora che capisci perfettamente con chi hai a che fare.
Sono un bugiardo cronico, che si nasconde dietro a facili teatrini per evitare di affrontarne di più duri.
La mia recita preferita, a questo punto ne sono consapevole, è appunto credermi insalvabile.
Mi sono convinto di essere dominato dal caos e, così, mi sono lasciato trasportare dalla comodità di questa situazione: mantenere l’ordine è sempre più dispendioso, persino in fisica.
Il mio problema è che devo ricordare perché mi sono abbandonato a questa dimensione confusa e conveniente, così diversa da quello che ero sempre stato.
Ero un ragazzo deciso, quadrato, tagliato con l’accetta. Prendevo la mira, scagliavo la mia freccia, spesso mancavo il centro, ma ero subito pronto a scagliarne una seconda, una terza, una quarta se necessario, fino ad centrare all’obiettivo. Vivevo per tutti gli stimoli che mi offriva il mondo e vivevo per dimostrare a quello stesso mondo che le sue opportunità non andavano perse. Schematizzavo ogni singola azione in qualcosa che portasse un guadagno, e non c’era nulla di caotico in questo. Era puro, faticosissimo, ordine.
Abbasso lo sguardo dalla figura sempre più alienata che è rifratta nello specchio, mi fisso le mani. Si dice che dalle mani di un uomo puoi capire tutto di lui: il suo lavoro, il suo passato, i suoi amori, le sue delusioni, la sua intera vita. Le mie mani grandi ed affusolate non sono cambiate, sono rimaste intatte, come a testimoniare che esiste ancora quel ragazzo deciso di un tempo. È arrivato il momento di richiamarlo alle armi.

 ~ ~ ~ 

Giugno 2013

 
«Dunque: sono arrivati i video dei casting, la casa di produzione vuole che tu gli dia un’occhiata per scegliere una rosa di attori migliori per i vari ruoli; poi ti ricordo dell’appuntamento con l’editore per discutere del nuovo libro e… – Steven fa scorrere frenetico lo sguardo sullo schermo luminoso del suo iPhone – e poi hai quella cena di beneficienza all’Università» conclude, senza nemmeno guardarmi, e iniziando a controllare compulsivamente i documenti accatastati sulla sua scrivania.
«Buongiorno anche a te Steve – rispondo sorridendo, e lasciandomi cadere su una delle comode poltrone in pelle del suo ufficio – i piani per la giornata sembrano interessanti. L’unico problema è l’incontro con l’editore, lo sai benissimo» sospiro, mentre bevo l’ultimo sorso del mio caffè, per poi cercare di gettare il bicchiere nel cestino, peccato che non sia mai stato bravo a basket: il bicchierino di plastica cade rovinosamente per terra, sporcando il chiaro parquet con le poche gocce di bevanda rimaste sul fondo.
Steve alza lo sguardo, sbuffando, non so se per il mio gesto infantile o per quello che gli ho appena detto. «Harry, questa storia non può andare avanti così, ci rimettiamo tutti. Sono quasi sei anni che non scrivi qualcosa, tranne quegli sporadici articoletti per i giornali musicali. Il mondo ha bisogno di un nuovo romanzo di Harry Styles. Ed Harry Styles ha bisogno in primis di un nuovo romanzo di Harry Styles, lo sai benissimo. Soprattutto adesso, con l’imminente uscita del film… un nuovo libro sarebbe l’ideale».
La solita ramanzina.
Vorrei dirgli che è già tanto se sono arrivato a sopportare questi mesi, se sono riuscito a superare l’inverno, e quindi di ritenersi e ritenermi fortunato.
Quando si arriva a toccare il fondo non se ne è mai consapevoli, perché il fondo è un luogo tanto pauroso quanto confortevole. E questo è un aspetto che tutti hanno sempre evitato di puntualizzare: quando si arriva a non avere più nulla per cui tirare avanti, ci si sente molto più leggeri, e la leggerezza, quel senso di vuoto che ti fa sentire come un palloncino pieno di elio, è una delle sensazioni più appaganti, dolci e ingannevoli.
«Steve, non ce la faccio» rispondo semplicemente, senza aggiungere alcun tono a quelle parole. Non sono irritato con lui, dopotutto fa il suo mestiere, e la casa editrice lo pressa quotidianamente. In realtà mi dispiace moltissimo per lui, essere il mio agente è un peso non da poco, gli ho ripetuto spesso di lasciarmi perdere ma continua a vedermi come una gallina dalle uova d’oro. Il suo radar da ornitologo mi sa che fa cilecca: sono più un pollo spennato, pronto da mettere nell’acqua bollente per dare un brodo insipido.
Lui mi fissa, lo sguardo severo ma al contempo comprensivo: sa perfettamente che è inutile insistere. Quindi sospira, passandosi una mano tra i capelli brizzolati.
«In ogni caso l’incontro con l’editore non può essere rimandato, è già la quarta volta che lo faccio, in tre mesi. Inizieranno a innervosirsi, quindi è meglio se ti prepari uno dei tuoi soliti discorsetti ben calibrati per rigirare la frittata in tuo favore, caro il mio Styles».
Ho smesso già di ascoltarlo, mentre mi ripete le solite cose: è normale avere un blocco dello scrittore, come procede la terapia psicologica, magari potrei parlare di quella, eccetera, eccetera, eccetera.
Non voglio scrivere un libro sul mio crollo. Sulla mia paura, perché di quello si è trattato: pura e semplice paura. Non è vero che non provavo nulla, era ciò che cercavo di ripetermi, a giustificazione, perché non potevo essere un tale codardo. E non voglio ammettere di fronte al mondo di non essere riuscito a sopportare il peso di tutto questo terrore paralizzante, anche perché, in realtà, non è stata la fama a ridurmi in quello stato.
Ho passato tutta la vita illudendomi di potermi bastare da solo. Chi fa da sé fa per tre, recita il noto proverbio. E io ne ho fatto il mio mantra, sin da quando ero un bambino. Ho sempre creduto di non aver affatto bisogno di qualcuno, non mi sono mai appoggiato nemmeno alla mia stessa famiglia: mio padre è sempre stato troppo distante per imporsi come un modello, mia madre è sempre stata troppo succube del microcosmo patriarcale che dominava nella mia famiglia. Sono stato cresciuto nella convinzione che la solitudine e l’impegno sono i due tesori più preziosi che un uomo possa serbare, ma dopo circa vent’anni mi rendo conto che io non sono nato per seguire questa filosofia di vita.
Eppure, quando vivevo a Holmes Chapel, non mi sentivo così perduto, così disorientato. È stata questa presa di coscienza che mi ha fatto a lungo riflettere e mi ha aiutato a uscire da quel fondo confortante nel quale mi sono crogiolato per anni.
Perché, sì, quando vivevo in quel paesino sperduto mi sentivo più vivo che tra le vie di ogni capitale del mondo.
Mi sentivo vivo perché non ero solo. Ero vivo, perché c’era lei.
È inutile che continui a mentire e mentirmi, ma la sua costante e fastidiosa presenza era l’unico legame che mi manteneva ancorato ad una via giusta e retta. Era ciò che mi ha insegnato a nuotare, eppure me ne rendo conto solo adesso: lei aveva ragione. Ha sempre avuto ragione, c’è poco da meravigliarsi, era pur sempre Lorraine Welsh.
Peccato che le tempistiche non siano mai state il nostro forte: siamo stati totalmente scoordinati. Se lei faceva un passo nella mia direzione, io ne facevo uno in quella opposta. Se io le tendevo una mano, lei si voltava dall’altro lato.
Mentre Steve continua a ripetere frasi su frasi, lascio che il mio sguardo vada a perdersi tra le linee dritte degli edifici della città, tra i riflessi delle vite che si intrecciano frenetiche tra le mura di questi palazzi.
«… ah, e poi è arrivata questa lettera dal Cheshire, non l’ho aperta visto che l’indirizzo è pure scritto a mano, suppongo sia privata? Lo vedi come sono premuroso?» borbotta spiritoso lui.
La parola "Cheshire" spezza quel legame tra i miei occhi e il mondo fuori dalla finestra. Riporto la mia attenzione dentro le quattro mura della stanza: adesso ogni fibra del mio corpo vibra e tende verso quella busta bianca, un po’ stropicciata.
Mi avvicino cauto, perché non voglio lasciar trapelare niente: Steve potrebbe prenderlo come un segno di un qualcosa di “succulento” e potrebbe costringermi a parlargliene. Devo tentare di restare impassibile, indifferente.
Osservo per qualche secondo la lettera, ne studio velocemente i particolari: sembra provenire non solo da un’altra contea, ma da un’altra epoca. Il mio nome, scritto a mano, con una calligrafia chiara ed elegante mi fa sussultare, e sento distintamente il cuore fermarsi, assieme al mio respiro.
È una calligrafia che conosco, che ho già visto prima.
Volto la busta, non c’è il mittente. Il respiro riprende, forse più incerto di prima. Steve, fortunatamente, è troppo preso a rispondere a qualche e-mail, o ad occuparsi del casting, per darmi retta.
Mi volto, dandogli le spalle, e mi rivolgo ancora una volta alla grande vetrata che apre la vista sulla città: fisso quei tetti cercando una forza che in questo momento mi manca totalmente, pietrificato dalla paura di scoprire cosa cela quel sottile strato di carta. Terrorizzato, perchè dietro a quella filigrana potrei trovare ancora una volta la mia stella cometa.
Lascio passare un dito nella fenditura della busta e apro di scatto, così come potrei togliere un cerotto: veloce ed indolore.
Ma mentre mi perdo tra quelle lettere tondeggianti che iniziano a riassestare ogni molecola del mio organismo, mi rendo conto che non c’è nulla di indolore, in quelle righe.
Quel cerotto ha aperto una ferita dalla quale sgorga sangue vivo.

  

 

 

Saaaalve bellezze, stavolta son stata puntuale, mi merito *quasi* un premio ahahah No, scherzi a parte, ho tante cose da dire sia su questo capitolo che sulla storia in generale, quindi bando alle ciance:
- come avrete notato, la parte del parallelo tra il libro e il "presente" si è conclusa. Con questo si è svelato anche che in realtà quello del 2010 non era propriamente il presente della vicenda eheh insomma, d'ora in poi tutto si svolgerà "ai giorni nostri": Harry e Lol hanno quindi 28 anni, e ne sono passati tre dal loro ultimo incontro.
- Ho voluto dedicare un capitolo intero al tormento interiore di Harry: è un ragazzo staziato dalla indecisione, dalla solitudine. Un ragazzo che vacilla, ma non molla :) per questo ho ritenuto di accostare il suo disagio con la sua ripresa nei mesi successivi... insomma, spero che questo capitolo vi abbia fatto comprendere un po' meglio il "nuovo" personaggio di Hazza che d'ora in avanti sarà il protagonsita della storia. È un Harry diverso da quello dei capitoli precedenti, e ci tenevo a sottolinearlo :)
- ecco, so bene che questo 
è un capitolo molto... introspettivo, me ne rendo conto. Chi ha letto l'altra mia ff Awake My Soul, sa bene quanto io tenda a sfociare sulle riflessioni dei personaggi, è una cosa che tento di evitare perché ho come il sentore che voi lettrici non apprezziate troppo questo aspetto del mio, se così possiamo chiamarlo, stile. Tuttavia mi sono ritrovata a pensare che devo restare fedele a me stessa, altrimenti perdo anche io la bussola, come Styles :D per questo spero che, nonostante manchi l'azione nel vero senso della parola, possiate apprezzare comunque questo capitolo :) e comunque, don't worry, dal prossimo capitolo torneranno a succederne, di cose :*

E niente, spero che la storia continui a piacervi ;_; avendo notato un calo di recensioni, forse dovuto anche all'attesa, mi sono chiesta se stessi andando nella giusta direzione u.u spero di non avervi deluse di nuovo, sobs çwç 
Bon, adesso scappo a studiare (che NOVITA' D: ) e vi auguro come sempre un buon fine settimana ♥
Ah, e quasi dimenticavo: grazie di tutto, ragazze ♥ ~
xx Gin~

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Capitolo 9
*** ~ IX ***


 



~ IX ~

NDA: lo so lo so lo so, sono imperdonabile. Ho fatto passare quasi due mesi dallo scorso capitolo. Spiegherò tutto meglio in fondo, ma volevo giusto fare un riassuntino a inizio per chi si fosse dimenticato a che punto eravamo e giustamente gli fa fatica rileggersi l'altro capitolo: sono passati 3 anni dall'ultimo incontro tra Harry e Lol, lui è caduto in depressione e non riesce più a scrivere, la sua vita pare essere ridotta a pezzi. Nel momento in cui inizia a riprendersi riceve però una misteriosa lettera da Holmes Chapel, che apre una ferita nel suo cuore.

 

 

Il rimbombo dei passi che procedono decisi lungo la navata, l’odore pungente dell’incenso che si insinua prepotente nelle narici, e quel velo freddo che mi percorre la schiena, dalla nuca fino ai talloni, tipico di quando varco questi luoghi.
Non amo le chiese. Non le sopporto proprio, ad essere sinceri, e non capisco perché Dio dovrebbe apprezzare dei luoghi così tetri, austeri, lontani da tutto ciò che è vita, è sentimento.
Continuo a fissare la punta delle mie scarpe lucide nere, mentre attraverso quel pavimento in dura e fredda pietra grigia, quando sento il mio nome bisbigliato da una voce che conosco bene. Alzo lo sguardo, e quasi sorrido nel trovare gli occhi cristallini di Louis, che mi fanno cenno di prendere posto al suo fianco.
Mi siedo accanto a lui, all’estremità della panca in legno scuro di mogano, abbandonando le braccia lungo i fianchi. Mi allento un po’ il nodo della cravatta, che sembra incredibilmente stretto, quasi come a volermi soffocare, e chiudo gli occhi, inclinando la testa all’indietro. Adesso, senza un apparente motivo, inizio a sentire caldo.
«Haz, vecchio mio, come stai?» mi chiede l’amico alla mia destra. Apro gli occhi, fissando il soffitto solenne che ci sovrasta, caratterizzato da alte arcate gotiche, quindi vado a posare il mio sguardo stanco su Tommo. Non gli rispondo, mi limito ad una scrollata di spalle. Lui sa già perfettamente come mi sento ma, dopo quasi un anno che non ci vediamo, è normale fare una domanda del genere, nonostante l’occasione implichi già che no, non sto bene.
Una ragazza alta e molto magra si siede al suo fianco, sussurrandogli qualcosa all’orecchio, per poi posargli l’esile mano sul ginocchio e sorridere. Lui unisce la sua mano più possente a quella della ragazza, andando ad intrecciare le dita, e poi si volta nuovamente verso di me.
«Ecco, Harry, avrei preferito fartela conoscere in un’altra occasione, ma… lei è Eleanor» dice sottovoce, spostandosi un attimo in modo che io possa vedere bene e salutare la ragazza al suo fianco. Mi ha già parlato di lei, da un sacco di tempo: l’ultima volta che lo beccai, quasi per caso, a Londra, aveva già perso la bussola per questa ragazza quindi direi che si frequentano da più di un anno. Un record, contando i precedenti di Tomlinson. Lei è composta e molto educata, i capelli castani raccolti in un’alta crocchia, il vestito nero che le va un po’ largo cade comunque in modo assolutamente grazioso lungo le linee sottili del suo corpo.
Bel colpo, Louis, mi ritrovo a pensare, e lo invidio. Invidio la luce magnetica che si rifrange nei suoi occhi ogni qualvolta lei gli parla, o gli rivolge un gesto di affetto. Invidio i sorrisi ricolmi di amore che lei gli dedica, perché non sembra sorridere solo con le labbra, ma sembra che quella gioia, quella felicità – che stonano così tanto con l’ambiente in cui ci troviamo – lei riesca a provarle con ogni singola cellula del suo corpo.
Discosto lo sguardo da loro, cercando di ignorare anche la fitta all’altezza del petto che sembra distruggere, con una lentezza sadica, ogni costola che tiene salda la mia cassa toracica; e tento di non far caso anche al conseguente senso di oppressione, all’aria che sembra essere sempre meno, all’ansia che invece mi pare che si faccia strada inesorabile lungo ogni vena ed arteria. Discosto lo sguardo, e mi perdo in tutto quel nero, mi perdo tra quelle teste chine, tra quei sussurri, tra quegli occhi tristi.
In realtà i miei occhi non sono persi, stanno solo cercando la loro stella cometa.
E come nel migliore dei film (o nel peggiore, a seconda dei punti di vista) intravedo i suoi capelli biondo grano compostamente raccolti in una lunga treccia, con un fiore bianco incastonato tra la trama fine dei capelli: un punto di luce, di vita, in quell’incubo. Pian piano le costole iniziano a saldarsi nuovamente tra loro, il sangue lava via l’ansia, il cuore inizia a riacquistare un battito regolare. Mi è bastato intravederla, per capire che non esiste morte, se lei è presente nella stanza.
 
«Anjelica è stata una donna straordinaria, ma prima di tutto è stata una grandissima insegnante: lei stessa, se doveva definirsi, si considerava prima insegnate, e poi donna. Anjelica è stata un’eroina silenziosa tra le spesse mura del St. Martin college, era un’amica ed un’ancora per tutti noi studenti che siamo passati sotto il suo sguardo dolce ma severo. Era una fonte inesauribile di buoni consigli e soprattutto, come molti di voi ricorderanno, di deliziosi biscotti al burro e cannella – abbasso lo sguardo sul fogliettino sul quale ho segnato quei pochi punti, mentre un brusio e qualche sorriso si levano dalla folla mesta che mi sta fissando, seduta sulle panche – in poche parole Anjelica era una madre e una nonna, con tutti i lati positivi e negativi che questi ruoli ricoprono. E, non me ne vogliano gli altri professori, ma non credo che ci sarà mai nessun insegnante al suo livello: lei ha dato tutta la sua vita a questo lavoro, tant’è che potremmo dire che non c’era ormai più distinzione tra vita e lavoro stesso. E lei adorava il suo lavoro così come adorava la sua vita, e quindi, per Anjelica, vi chiedo di mettere da parte le lacrime, vi chiedo di provare a sorridere: lasciamola andare con un raggio di quel sole che lei amava tanto».
Un applauso composto ma deciso segue la fine del mio discorso, e non riesco a fare altro che cercare quelle iridi nocciola, tra i tanti sguardi che adesso sono puntati su di me.
Le cerco, e le trovo, ancora lucide ed un po’ arrossate dal pianto, ma che mi sorridono, come la professoressa Johnson avrebbe voluto vederle sorridere: non è una smorfia costretta, è un’esplosione di gioia incontrollabile, è sincerità, è complicità.
E’ tutto ciò che desideravo ritrovare in quello sguardo, è tutto ciò che ho cercato instancabilmente per tutti questi anni. E mi rendo perfettamente conto che dovrei essere triste, ma aver ritrovato i suoi occhi e averle donato uno spiraglio di luce mi scalda e mi gonfia il petto di un sentimento tenero, tiepido, quasi liquido.
L’applauso continua a seguirmi mentre scendo dal leggio e vado a prendere posto di nuovo accanto a Louis, mentre qualche pacca sulle spalle, e qualche stretta di mano mi accompagnano. Gesti futili e vuoti, perché è solo un gesto quello che ho impresso nella mente, in questo momento: il suo sorriso.
«Gran bel discorso Styles – mi dice Tommo, stringendomi la mano – credo che tu sia l’unico che sia riuscito, con una manciata di parole, a far sorridere una folla ad un funerale, sai?»
Sorrido a mia volta, senza dire niente, mentre altri ex alunni della professoressa si susseguono, volendo lasciare il loro ultimo saluto alla bara chiusa: c’è chi lascia attorno dei libri, chi scatole di biscotti, chi ancora lettere, fiori, baci.

E allora mi rendo conto del fatto che la professoressa Johnson davvero non c’è più.
Che la sua voce gracchiante si è persa nell’aria con il suo ultimo respiro, che i suoi occhi vivaci si sono spenti, che l’odore di naftalina misto a quello di cannella della sua casa pian piano andrà disperdendosi per poi scomparire del tutto. Eppure, nonostante io abbia piena coscienza del fatto che lei, e con lei una parte importantissima della mia vita, se ne sia andata per sempre, non sono triste: penso a quegli occhi anziani, nascosti sotto le mezzelune dei suoi occhiali, e li vedo sorridere con me, e con Lorraine. Dopotutto, lei ha sempre cercato di farci ragionare, ma noi eravamo troppo giovani e cocciuti. Adesso si prenderà la sua rivincita.
Aiuto a portare fuori la bara, assieme a Zayn, al vecchio preside Goldberg, e a qualche altro ex alunno che non conosco. E’ una bellissima giornata primaverile, il che ha un che di miracoloso considerate le passate settimane di pioggia ininterrotta: lo interpreto come l’ennesimo segno e saluto della professoressa, che se n’è andata lasciandoci un tiepido sole.
Adagiamo la piccola bara in legno chiaro nel carro funebre, mentre la folla composta di persone ci segue, con solennità. Lascio un bacio leggero, con la mano, sulla superficie liscia della cassa, sorrido e mi accuccio davanti a quel legno, quasi come se potessi parlarle ancora «Lo so che avevi programmato tutto, vecchia volpe» sussurro, cercando di far sì che le mie parole attraversino le fibre spesse, e appoggio quindi la fronte contro il freddo legno.
E’ l’ultimo saluto ad una delle donne più importanti della mia vita.

 
Guardo il carro funebre allontanarsi dalla chiesa, seguito dalle auto dei familiari della professoressa, lo sguardo perso nel fissare la strada davanti a me. «Hanno organizzato una specie di veglia funebre, nella hall della scuola, se ti va di venire. Mi sono dimenticata di accennartelo, nel telegramma»
Come un lampo, sento la sua voce morbida, e chiudo gli occhi, come per assaporarne ogni suono, ogni inflessione, lasciando che quelle parole mi penetrino fino al cuore. Mi volto, e la trovo davanti a me, piccola, fragile ma assieme inflessibile e decisa, come era un tempo. Mi trovo davanti i suoi occhi stanchi, ma non sono rassegnati, come l’ultima volta che li ho incrociati, tre anni fa. Sono pieni di speranza, sono risoluti.
Annuisco, mentre mi sistemo il bavero della giacca «In teoria dovrei tornare a cena dai miei, sai non li vedo da un sacco…» le rispondo, tentando di instaurare una conversazione impacciata.
Lei sorride, tranquillamente, scrolla le spalle e aggiunge un «Non ti preoccupare. Se ti cambi idea, noi siamo là» quindi gira i tacchi e vola dentro ad un macchinone nero. Non ho nemmeno il tempo di dirle nulla, di chiederle come sta: lei è sfuggente, come sempre.
Sono bloccato davanti alla chiesa, guardandola sfrecciare via verso il college, e valuto la sua proposta.
Devo considerare ogni fattore in gioco, come il fatto che lei ormai ha un marito e una vita, qua ad Holmes Chapel, e sembra addirittura felice o, per lo meno, serena. Quel sorriso che mi ha regalato prima, in chiesa, adesso mi pare come un piccolo dono celato, qualcosa che dovrebbe restare tra me e lei, segregato in quell’attimo. Forse, andare a quel ricevimento non è una buona idea: considerati i precedenti, ogni volta che ci troviamo faccia a faccia ne usciamo con cuori sbrindellati, e da ricucire con fatica. Senza contare che, se da una parte lei pare aver trovato la sua stabilità, io sono ancora barcollante.
Tuttavia, nonostante ci siano migliaia di motivi logici e sensati per evitare di andare a quella veglia, nonostante abbia soppesato ogni dettaglio ed i contro battono alla stra grande i pro, inforco senza pensarci due volte la piccola auto di mia mamma, che mi ha prestato per questi giorni, e mi lascio trasportare dal cuore verso quelle solite, dannatissime, mura in mattone bruciato.
 
Freno quasi all’improvviso davanti al familiare cancello in ferro battuto, cercando di trovare posto per la macchina, tra le tante già parcheggiate. La lascio incastrata tra un grande suv bianco, ed una volvo nera: tutte macchine lussuose che mi fanno già intuire chi troverò al ricevimento. La luce del giorno sta già cominciando ad affievolirsi, lasciando che un caldo arancione abbracci ogni facciata del college, rendendolo ancora più rosso e fiammeggiante.
Quando entro nella grande hall della scuola, vedo subito una gigantografia della professoressa Johnson, circondata da fiori e lettere. Sorrido istintivamente nel trovare il suo sguardo buono, in quella foto, e nel notare quanto fosse amata, da tutti: la sala è gremita di gente, e l’atmosfera è decisamente più leggera e serena rispetto al funerale in chiesa. Una musica classica ma allegra aleggia nella stanza, e incrocio più volte occhi che ricordo, dagli anni del liceo: saluto con la mano Zayn, che è preso in una fitta conversazione con Louis, mi intrattengo in qualche chiacchiera con Niall, che deve ripartire subito per l’Italia, ma nel frattempo continuo a cercarla.
Ma niente, nessuna traccia di Lol, né dei suoi capelli fini, né dei suoi occhi vivaci, men che meno della sua voce delicata e decisa. Mi arrendo all’evidenza che lei non è lì e forse, penso, questo è solo un bene.
Mi avvicino rassegnato al bancone delle bevute, ed inizio a versarmi del vino bianco fresco, in un bicchiere basso, da acqua. Non ho mai sopportato bere dai calici, sono troppo fragili. Mentre prendo un sorso di quel liquido dorato, lasciando che l’alcool vada a pizzicare lievemente lungo l’esofago, sento qualcosa andare a sbattere contro la mia gamba. Allarmato, abbasso lo sguardo, stando attento a non rovesciare il contenuto del bicchiere, e mi ritrovo faccia a faccia con un marmocchio di più o meno tre, quattro anni, che mi fissa impaurito e preoccupato: i suoi occhioni scuri iniziano a diventare lucidi, preannunciando un’imminente catastrofe di pianto.
Lascio velocemente il bicchiere sul tavolo e mi accoscio al suo livello, per cercare di rassicurarlo «Ehi, ehi, non è successo nulla! Ti sei fatto male, piccolo?» gli chiedo, cercando di avere un tono di voce il più dolce possibile. Non sono mai stato un asso con i bambini, figuriamoci di quest’età. Lui annuisce, titubante, e sussurra uno “scusa”, cercando di ricacciare indietro le lacrime, forse confortato dal fatto che io non mi sia affatto arrabbiato. Gli scompiglio con una mano la folta chioma di capelli biondi ribelli, mentre lui mi sorride, e improvvisamente mi sembra di riconoscere quelle labbra infantili.
«Ah eccoti qua, finalmente! La smettiamo di scappare, eh?» e quella voce che ormai potrei riconoscere tra milioni fa alzare lo sguardo sia mio che del bambino, il quale allunga le braccia verso Lorraine, per farsi prendere in braccio. Lei sospira, assecondando la richiesta del piccolo «Quindi alla fine ce l’hai fatta a venire» dice poi, rivolgendosi a me, ma senza guardarmi negli occhi. Io annuisco, riprendendo in mano il bicchiere che avevo posato poco prima «Sì, ma tra poco devo andare, sai come sono fatte le madri…» rispondo, prendendo un sorso di vino, cercando di trovare un modo per rendere quella situazione meno imbarazzante, ma non riesco a fare a meno di guardare quello scricciolo di bambino che ora sta giocherellando con il suo lungo orecchino sinistro. Lei ride, con quella risata squillante di sempre «Ah beh, lo so fin troppo bene, visto che ormai mi sono unita al club» replica divertita, accennando al piccolo che tiene ancora in braccio.
Dovevo immaginarmelo, dopotutto.
Solitamente, sposarsi è sinonimo di voler iniziare una vita ed una famiglia assieme, quindi sono stato per l’ennesima volta uno sciocco a non pensare a questa eventualità. E guardarla mentre lo tiene in collo con una naturalezza quasi disarmante, mentre gli sistema i capelli lontano dalla fronte per poi lasciare un bacio leggero sulla pelle liscia del bambino, mi spiazza, mi disarma completamente. E’ talmente bella, brillante e completa, con quel bimbo tra le braccia, che vorrei solo scappare, per non rischiare di rovinare quel quadro pressoché perfetto.
«Sono contenta che tu sia passato – sospira lei, lasciando poi il figlio a sedere sul tavolo – sono certa che Anjelica ti avrebbe voluto qua» conclude poi, come se avesse letto nel pensiero tutti i miei dubbi.
Io annuisco, incapace di trovare qualcosa di decente da dire.
Nel frattempo, una donna anziana si avvicina, sorridendomi composta, per poi rivolgersi alla ragazza «Lol, senti, io vado a casa… porto con me Eddie e lo metto a letto, okay? Così puoi stare un altro po’ qua…»
«Grazie mille mamma – risponde lei, annuendo, per poi prendere di nuovo in braccio il bimbo, andandolo a fissare negli occhi – Ed, adesso te vai a casa con la nonna, d’accordo? Mi raccomando, non fare le bizze, altrimenti domani niente cartoni, intesi?» il bimbo sbuffa, lasciandosi prendere in collo dalla signora, e ci saluta poi ad entrambi con la piccola mano.
«Sì, lo so, sei shoccato» dice lei, spezzando quel silenzio, ed iniziando a versarsi del vino rosso.
«No, cioè, sì…nel senso… hai un figlio».
«Arguto come sempre, Harry Styles!» mi sbeffeggia lei, appoggiandosi contro il bordo del tavolo.
Sospiro, mandando gli occhi al cielo. Non è possibile che io perda ogni capacità di parola e di controllo, quando sono assieme a lei «Ah-ah, molto spiritosa. Insomma, quello che volevo dire è che non me lo aspettavo, ma in teoria era prevedibile, no?»
Lei si stringe nelle spalle, staccando le labbra fini dal bicchiere «In realtà la cosa è più complicata di quanto sembri. E con questo non voglio dire che Edward sia stato uno sbaglio, al contrario è la cosa migliore che mi sia mai capitata, però è più difficile di quanto avessi mai immaginato e sperato».
Pragmatica, come al solito. Devo cavarle le parole di bocca, per riuscire a sapere qualcosa di più. Devo, come sempre, farle domande, piegarmi al suo gioco, ed è un gioco che mi affascina, nonostante mi veda da sempre sconfitto.
Soppeso ogni sua parola, cercando di leggere tra le righe. E mentre ripeto quelle parole, cercando di scovarci quel qualcosa che non vuole ancora rivelarmi, il mio occhio cade sulla sua mano sinistra, su quell’anulare sul quale mi aspettavo di trovare sigillato da una fede.

 

 

 

Ok, mille scuse non basteranno mai, ma ci provo lo stesso. (SCUSA SCUSA SCUSA SCUSA SCUSA SCUSA SCUSA) x 1000. Mi scuso non solo perchè ovviamente ho smesso di postare capitoli da mesi, ma soprattutto perchè sono totalmente scomparsa nel nulla, ho smesso di leggere le fanfic, e mi sono praticamente dileguata da efp e da twitter. E' un periodo decisamente incasinato: ho iniziato il tirocinio che mi vede occupata tutti i giorni fino a tardi, sto anche studiando per uno dei due ultimi esami che mi mancano prima della laurea, e per di più il mio pc si è rotto... insomma, tanti bei fattori che sommati mi hanno portato ad allontanarmi dal mondo delle fan fictions.
Però a me dispiace, perchè amo scrivere, nonostante magari non l'abbia dimostrato, con questo mio "abbandono". Amo scrivere ed amo leggere e leggervi, quindi mi scuso con tutte le ragazze che ero solita leggere e recensire ;_; mi dispiace davvero un sacco, e sto facendo del mio meglio per recuperare le vostre storie.
Insomma, venendo alla storia, nessuno si ricorderà più una beneamata mazza ahahahahahah per questo ho messo un riassuntino all'inizio, mi sembrava consono... per il resto, mi scuso per la brevità e la schifezza del capitolo :|  non scrivere per quasi due mesi fa perdere "la mano", infatti non sono assolutamente soddisfatta di questo coso :/// Tuttavia, dato che ci stiamo avvicinando alla fine, cominciano a succedere cose più succulente: Lorraine è madre, di un piccolo adorabile pargoletto con un nome, diciamo PARTICOLARE (qualcuna di voi l'ha notato? :3) ma... non ha la fede! TA DA DA DAAAAAAAAAAAAAAAN ahahahahahah insomma, Liam??? Si scoprirà nella prossima puntata xD Che, spero, arriverà prima del previsto, o per lo meno non ci metterò un mese e mezzo xDDDD Adesso vi saluto, che devo pure prepararmi per uscire, allegria -____-  
Mi siete mancate un sacco ;_; ♥ scusate ancora ♥
xx Gin~

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Capitolo 10
*** ~ X ***


 



~ X ~
 

 
«Prof,  bisognerebbe iniziare a ripulire i tavoli... »
I suoi capelli luminosi ondeggiano seguendo il cenno di assenso della testa.
«Sì, Stacey, arrivo subito. Intanto iniziate a togliere i bicchieri e vi raggiungo.»
Non posso far altro che seguire ogni suo movimento, ogni inflessione della sua voce, ogni gesto impercettibile del suo volto. Legato, come un burattino al suo burattinaio. Incantato, come un serpente al suono del flauto.
I suoi occhi mi trafiggono come dolci e sottili lame, sezionando attentamente e con minuzia ogni dettaglio del mio viso.  «Devo andare - annuncia con voce atona, quasi piatta, come a non lasciar trapelare alcun sentimento - ci vediamo domani?» ed è più un'affermazione che una domanda. Io annuisco muto, ormai privo di una qualsivoglia forza di volontà. Lei annuisce di rimando,  abbassando gli occhi, e le lunghe ciglia chiare accarezzano la sua pelle e mi ritrovo ad invidiarle. Vorrei poter sfiorare quella pelle diafana, ma mi sento sporco. Quasi sacrilego.
«Ci vediamo davanti a casa mia, verso le tre. Ti ricordi dov'è?» continua lei, con un tono quasi tirannico, e mi pare di intravedere per un attimo quella stessa Lol che odiavo tanto, la reginetta della scuola,  la diciottenne che viveva di aspirazioni ed ambizione. Annuisco ancora una volta, forse sussurro un «D’accordo». E lei torna a posare le sue iridi calde su di me e sorride.
Un sorriso fatto della stessa materia impalpabile di cui sono fatti i sogni, un semplice movimento di labbra che racchiude parole non dette, speranze appena nate, ricordi agrodolci. Un sorriso che cela la mondo una storia: la nostra. Una finestra che lei sta aprendo solo per me.
Si alza poi sulle punte dei piedi, annientando piano ogni distanza che ci divide, e lascia un leggero bacio sulla mia guancia fredda e tesa. Mi cinge il collo, con il braccio sottile, per aiutarsi a non cascare, o forse per farsi sentire, per provarmi che è viva, accostando il suo cuore al mio petto, e percepisco nettamente il suo battito frenetico ed incessante, che svela un’emozione che la sua voce invece teneva chiusa sottochiave.
Quindi si volta e, come sempre, sfugge in un soffio, tra le tante persone che ancora riempiono la grande hall, mentre io resto qua, paralizzato. Immobile. Ancora incapace di metabolizzare l’ultimo quarto d’ora appena trascorso.
«E’ stato un gesto di affetto tra Lorraine Welsh ed Harry Styles quello di cui sono appena stato testimone? Sogno o son desto?» Una voce profonda ma al contempo squillante mi costringe a concentrarmi su qualcosa che non sia la sensazione delle sue labbra morbide che mi pare di sentire ancora contro la pelle ruvida del mio viso. Uno Zayn divertito, e con una luce furba e curiosa negli occhi, mi fissa, in attesa di una risposta o di una spiegazione. Risposta che però sono incapace di dargli, dato che nemmeno io sono ancora pienamente conscio di quello che è appena successo.
Batto velocemente le palpebre, come se mi fossi appena svegliato, e mi giro per versarmi un altro bicchiere di quel fresco vino bianco. Il moro, non demordendo, mi si avvicina, posizionandosi al mio fianco e facendo perno con il braccio sul tavolo, si sporge verso di me, con quello sguardo brillante che lo contraddistingue. Sento il forte odore della sua colonia di prima qualità infiltrarsi prepotente nelle mie narici e verso un bicchiere anche per il mio amico. Quindi mi appoggio al tavolo e prendo un lungo sorso di quel liquido dorato. Zayn sta ancora aspettando impaziente un mio commento.
«Sapevi che ha un figlio?» dico di botto, destato da quello strano stato di trance, ed evado completamente la domanda del pakistano.
Lui strabuzza gli occhi, facendo poi scorrere lo sguardo frenetico da me alla folla, come per cercarla, e per poco non si strozza con il vino.
«COSA? Ma che cazzo dici! Stiamo ancora parlando di Lorraine?!»
Io annuisco, continuando a bere, mentre il moro assume un tono di voce decisamente troppo acuto.
«SCHERZI?!» ripete insistente, adesso quasi urlando. Mi ritrovo a sorridere per la sorpresa negli occhi del mio amico e penso che forse io stesso ho avuto quella stessa espressione stampata sul volto, qualche minuto prima.
«Già, un piccoletto di circa tre, forse quattro anni, con una massa di capelli biondi come i suoi, e due occhietti vivaci scuri» rispondo, posando il bicchiere vuoto, andandolo a riempire ancora una volta. La bottiglia di vino è ormai finita, ma non me ne curo più di tanto.
«Le mie sorelle me la pagheranno cara... avevo detto loro di tenermi aggiornato sugli scoop di Holmes Chapel!» esce fuori il suo animo più pettegolo, e temo che inizi a riempirmi di domande ma, fortunatamente, arriva Louis in mio soccorso. Ci sorride divertito, mi immagino che la scenetta vista da fuori risulti alquanto spassosa e « Ragazzi, vi va di andare a bere qualcosa, giù in città? Ne stavamo parlando con Niall e la Moers...» lascia la frase sospesa, accennando con la testa ai due ragazzi che stanno chiacchierando tranquillamente con Eleanor, a qualche metro di distanza da noi. Sembrano complici, sereni.
«Ma... è riscoccato il fuoco della passione tra quei due?» chiede Zayn, spostando la sua curiosità invadente su di loro, e li ringrazio mentalmente per averlo distratto da me e Lol.
E’ strano e buffo come, appena messo piede tra queste mura, tutti noi siamo tornati esattamente come dieci anni prima: io, come il me diciottenne, ancora non riesco a sostenere lo sguardo di Lorraine; così come Niall pare essere tornato al tempo del club di scacchi, quando quella piccola e fastidiosa ragazzina gli aveva inspiegabilmente rubato il cuore; e Zayn sembra di nuovo lo stesso reporter d’assalto del giornalino scolastico. Sorrido sotto i baffi nel ricordarci così giovani, ancora così inesperti ed ingenui, e mi conforta l’idea che un briciolo di quei ragazzini sia ancora dentro di noi. Mi fa sentire a casa, mi fa sentire che c’è ancora qualcosa a cui io possa aggrapparmi: la consapevolezza che, nonostante tutto, quel ragazzo scontroso e pieno di ambizioni e sogni è ancora parte di me.
 
 
Facciamo cozzare per la terza (forse quarta?) volta i nostri boccali di birra, e le nostre risate si mescolano al brusio tipico dei pub di paese.
Nonostante ormai l’alcool sia iniziato a fluire copioso, so che questa sensazione di appartenenza e di tranquillità non è merito del bere. Mi sento sereno, completo, mi sento di appartenere ad un qualcosa di vero e sincero, ed è solo merito delle persone che mi circondano. Con loro, con i miei vecchi compagni del liceo, ogni cosa è più semplice: è più facile sorridere, è più facile parlare, è più facile alleggerire il proprio cuore. Sono stato a centinaia di feste, giù a Londra, ma non mi sono mai sentito parte di un qualcosa come in questo momento. I ritmi, nella Capitale, sono troppo veloci. L’incessante necessità di apparire, di conquistare, di dominare le attenzioni delle persone che ti circondano è spossante e solo adesso realizzo quanto mi abbia cambiato e mi abbia consumato, sfibrandomi di tutte quelle piccole qualità che mi avevano da sempre contraddistinto: la caparbietà fusa a quel pizzico di onesta spensieratezza. Sto lentamente riacquistando la mia identità, semplicemente beandomi della loro compagnia e del tempo che scorre lentamente, come se ci trovassimo in un’altra dimensione spazio-temporale.
«Insomma, dobbiamo girarci ancora attorno o possiamo togliere questo elefante nella stanza? Su, ragazzi, diteci la verità: siete tornati assieme?!» Zayn proprio non riesce a fare a meno di curiosare, e si sporge verso Niall e Jane, che sorridono imbarazzati.
«No, cioè, insomma ci siamo ritrovati ad un convegno qualche settimana fa... poi abbiamo saputo della Johnson e siamo venuti insieme qua, ma sì, insomma.. - Niall girava attorno al discorso, senza colpire mai il punto focale, mentre la Moers gli tirava gomitate nel fianco, sbuffando – voglio dire, vedremo. Sono passati tanti anni, per ora stiamo andando piano, dopotutto abbiamo entrambi delle vite piuttosto impegnative» concluse il biondo, andando a posare il suo sguardo premuroso sulla ragazza al suo fianco, che gli sorrise di rimando.
I loro occhi di ventottenni, che si cercano innocenti, si sovrappongono a quegli stessi occhi, con quella stessa luce, di dieci anni prima.
«Mentre tu Zayn? Sbaglio o ti ho visto su qualche rivista di gossip in compagnia di un aitante americano?» gli chiedo, venendo in aiuto del biondo che pare ancora visibilmente imbarazzato dalla domanda di Malik. Il pakistano sbuffa, muovendo veloce la mano davanti al viso, come a scacciare un invisibile mosca «Vuoi dire Matthew Evans? Quel bellimbusto mi ha dato buca dopo qualche uscita... mai fidarsi degli yankee ragazzi, ve lo dico io!» risponde lui, suscitando l’ennesima allegra risata.
«Haz, a proposito di rotocalchi: ti ho visto con una bella attrice bionda sulla copertina di OK magazine, ci tieni nascosto qualcosa?» esclama Louis, con lo sguardo un po’ annebbiato dalla birra, e il braccio appoggiato distrattamente sulle spalle della sua ragazza.
Alzo gli occhi al cielo «Naaa, quella è una delle attrici del film, eravamo andati a cena per discutere del copione...» un coro di “sì, certo, adesso si dice così” si sussegue, e io rido divertito dalle reazioni dei miei amici.
Mi sento bene.
E’ quasi strano pensarlo, ma è così.
Mi sento bene, come mi sentivo bene quando uscivamo la sera di nascosto, per andare a fumare dietro la palestra. Mi sento bene come quando Niall ed io facevamo le nottate di studio, in vista degli esami, e ci scolavamo litri di caffè. Mi sento bene, come quando ci ritrovavamo sotto il pino, nel parco del St. Martin, a bearci dei primi raggi di sole, sbottonando le camicie e alzando un po’ le gonne.
Mi sento bene, nonostante un velo pesante di malinconia ricopra piano il mio cuore, e mi lascia per qualche istante soffocare, perché mentre noi siamo qua, e torniamo bambini per qualche ora, lei deve fare i conti con una vita che non le ha mai permesso di guardarsi indietro, nemmeno per un attimo.
« Ma piuttosto...vogliamo parlare di te e la Welsh invece? Ancora non mi hai spiegato quello che è successo prima: cos’era quel bacio sulla guancia?! E poi, RAGAZZI VOI SAPEVATE CHE E’ MADRE?» ecco, lo sapevo. Avevo risvegliato la bestia pettegola di Zayn, accidenti a me.
Gli altri continuano a ridere, per il tono esagerato del moro, ma noto che Jane annuisce piano. Gli occhi cristallini fissi nella birra, tenta di porre una parola dietro l’altra, senza lasciarsi trasportare dal troppo alcool che ha bevuto «In realtà... io lo sapevo. Cioè, sono la madrina di Eddie – sorride, con gli occhi adesso bassi sulle venature del legno duro del tavolo, mentre Niall le cinge le spalle con un braccio, come a rincuorarla – Lol mi ha fatto promettere di non girare troppo la voce, sapete, con il fatto di Liam...»
Louis abbassa lo sguardo proprio mentre io vado a cercarlo, Niall mi lancia occhiate nervoso, in evidente disagio. Zayn, confuso tanto quanto me, fissa Jane, in attesa di spiegazioni, che però non sembrano arrivare.
Il fatto di Liam. Non capisco.
Tommo finisce la sua birra, in un solo sorso, forse a cercare coraggio, quindi scuote la testa «Certo, avrei preferito fartelo sapere in un altro modo, in un altro momento... – sussurra quasi, ed è chiaro a tutti che si sta rivolgendo solo ed esclusivamente a me – e soprattutto pensavo, e speravo, che voi fosse riusciti a parlare, in questi anni.»
Continuo a non capire. E’ come se Niall, Jane e Louis stessero giocando ad un girotondo incessante attorno a me. Potrei crollare da un momento all’altro.
Poso distrattamente il boccale, qualche goccia di birra cade sul tavolo, e mi alzo. Non sono arrabbiato, ma devo sapere, e se loro non vogliono spiegarmi cosa è successo, c’è solo una persona a cui posso chiedere delucidazioni: Lorraine.
I miei amici mi fissano, forse confusi, Zayn cerca di estorcere spiegazioni ma sono tutti ammutoliti, quattro paia di occhi fissi su di me. Mi volto, attraversando con lunghe e decise falcate il locale, e sento la voce di Jane che mi richiama, mentre esco frettolosamente dal pub. I suoi passi veloci, il ticchettio insistente dei suoi tacchi sull’asfalto buio e caldo, mi seguono fino a raggiungermi.
«Styles, aspetta – inspira profondamente, per recuperare ossigeno, ma io ho solo un’incessante necessità: sapere – possiamo parlare, un attimo? Dove stai andando?»
«Da Lol» rispondo secco, senza aggiungere nulla, e aspetto una sua reazione, pronto però a correre da lei, se Jane non inizia a far chiarezza in tutto quel confuso marasma di cose non dette e tenute nascoste.
Lei annuisce, il fiato ancora spezzato per la corsa, e si toglie le scarpe, rimanendo a piedi nudi.
«Lasciami spiegare, è meglio se lo faccio io, davvero. Lei ha bisogno di tempo.» sussurra, anche se non mi pare molto convinta, ma decido di concederle una possibilità.
Si mette a sedere sullo scalino del marciapiede e, accucciata in quel modo, anche lei pare essere tornata quella stessa ragazzina tutta pelle e ossa degli anni del liceo.
Mi sistemo al suo fianco, distendendo le gambe davanti a me, cercando come sempre una risposta nelle punte dei miei piedi. Ma sono scarpe, non sfere di cristallo.
«Tre anni fa, quando tu tornasti qua, Lorraine si era appena ripresa da quello che era successo dopo la morte del padre, e penso che questo tu lo sappia già – esordisce lei, sospirando, mentre io annuisco muto, lo sguardo sempre fisso sulla strada innanzi a noi – il tuo ritorno, seppur breve, sconvolse tutta Holmes Chapel. E sconvolse Lol per prima. Dopo tutto quello che avevate passato, dopo le ultime parole che vi eravate scambiati, dieci anni fa, lei non si aspettava di rivederti, e soprattutto non in quel particolare periodo della sua vita».
Cerco di leggere tra le righe, ma ancora qualcosa mi sfugge.
«Tu l’hai sempre stravolta, nel bene e nel male, Harry. Come un uragano, che non si cura di chi ha di fronte a sé, sei entrato e uscito dalla sua vita per anni. Ti sei scontrato con lei, totalmente cieco e sordo, senza accorgerti minimamente di cosa lei provasse realmente. E quando sei tornato ed eri così diverso, beh, hai come tagliato ogni filo che la reggeva in piedi».
Le parole di Jane si abbattono contro il mio cuore come piccole onde sulla spiaggia. Sono parole sussurrate, frasi lasciate sospese e completate dalla brezza che ci circonda, ma mi perforano e si incastrano precise tra le mie costole, impedendo alla mia cassa toracica di espandersi, rendendomi impossibile anche solo respirare.
«Cosa c’entra tutto questo con Liam e col bambino?» e lascio semplicemente che la ragione scompaia. Se continuo a darle ascolto, finisco con le ossa rotte e il cuore a pezzi, come sempre. Devo solo sapere, e non mi interessa se conoscere tutti i fatti mi porterà a perdere il mio equilibrio precario.
Jane prende un respiro. Cerca le parole giuste nelle molecole di ossigeno che vanno a riempirle i polmoni.
«Quando tu tornasti, tre anni fa, lei era già incinta. Ne aveva parlato con Payne, il quale, controvoglia e costretto dalla famiglia, le chiese di sposarlo. Lei non ne aveva la benché minima intenzione, non aveva paura di crescere Eddie da sola: aveva programmato di lasciare questo paesino, e trasferirsi a Londra. L’avrei aiutata io, e con le sue due lauree non avrebbe avuto problemi a trovarsi presto un lavoro di tutto rispetto. Ma poi arrivasti tu e, come ti ho detto, ancora una volta portasti il caos più totale nella sua vita. Tu, con il tuo libro, la tua fama ed il tuo successo, con la tua maturità, eri così diverso e al contempo così uguale a quello che aveva lasciato, l’ultimo giorno di scuola. Ed eri una viva testimonianza del fatto che tu ce l’avessi già fatta, mentre lei no, costretta e tenuta imbavagliata in questa minuscola cittadina che sta stretta a chiunque, ma a lei più di tutti. Quindi, decise di accettare la proposta di Liam, rassegnata al fatto che questo fosse il suo posto, convinta che non ce l’avrebbe mai fatta nel mondo reale, non con un bambino, non nella stessa grande città in cui il tuo nome era sulle bocche di tutti».
Se prima le sue parole erano onde, adesso erano tempesta. Ed io sono come una delle classiche barchette lasciate in balia della furia del vento e del mare. Non riesco a trovare un’ancora, un appiglio che mi aiuti a restare fermo, fin quando la burrasca non sarà passata, perché non c’è nessun appiglio, se non lei.
Jane mi scruta, indecisa se proseguire o meno. «Ma, come puoi ben immaginare, le premesse del matrimonio non erano certamente delle migliori. Payne non è mai cresciuto veramente, e non gli è mai interessato molto di Lorraine: per lui era ancora quella ragazza carina che ogni sabato veniva nel vecchio pub di suo padre a squadrare con sguardo strafottente chiunque la circondasse. Ma quando si è ritrovato invischiato in una casa, con una moglie ed un bambino a cui badare, ha scelto la via più semplice: è saltato su un treno per il Galles, e non è più tornato».
I miei occhi vanno a posarsi sulle mie mani che, quasi inconsciamente, sono strette in pugni, le nocche bianche si intravedono nonostante l’oscurità e sento nettamente il lieve dolore delle unghie contro il palmo delle mani. Sento l’impellente desiderio di alzarmi da questo marciapiede e spaccare la macchina parcheggiata dall’altro lato della strada, ma la magra mano di Jane si posa sulla mia spalla, prima che possa fare una qualsiasi follia. Mi volto, e trovo nei suoi occhi chiarissimi la forza per resistere.
«Lorraine non lo vorrebbe» bisbiglia soltanto, e so che ha ragione.
Ma è tutto troppo ridicolo, è tutto talmente sbagliato che vorrei solo distruggere e distruggermi.
Serro le labbra in un sorriso, ma sono certo che ne sia uscita una smorfia piuttosto terrificante, mi isso in piedi e «Stai bene?» chiede piano la Moers, ancora rannicchiata su quel freddo marciapiede.
No, non sto bene.
Non sto bene da dieci anni, da quella stupidissima serata in piscina, e da quelle parole sputate come veleno addosso all’unica ragazza di cui sia mai stato innamorato. 

 

Stavolta non potete dirmi nulla, son stata brava con i tempi AHAHAHAH. Sono appena tornata da un mini viaggio, e il treno, come sempre, mi ha ispirato a scrivere quindi eccomi qua, stranamente :) Vi avevo detto o no che non avrei fatto passare un altro mese? xD
Venendo alla storia... l'incontro con Lol sconvolge Harry, come sempre. E sconvolge anche Zayn :P Ho voluto dedicare un po' di spazio a lui perchè... boh perchè mi mancava, e mi piace scrivere di lui in queste vesti diverse, ahaha.
Pooooi... Harry capisce quanto gli siano mancati i suoi amici, e quanto gli manchi la sua infanzia: è un punto focale del suo personaggio, e spero di essere riuscita a renderlo in modo comprensibile ;_; quindi, la patata bollente viene messa in campo: perchè Lorraine non portava la fede? Ed ecco spiegato :3 lo so, ho ritratto un Liam un po' stronzo, ma (ora mi arriveranno i pomodori in faccia) secondo me lo è AHAHAHAHAH non so, non me la racconta giusta con quella sua faccia bonaria, secondo me fa tanto il bonaccione ma sotto sotto è un po' stronzetto, come tutti gli altri xD  (Dovete capire che io ho una visione dei 1D molto particolare, se non si fosse capito u.u)
Vabbè insomma, la smetto di continaure a sparare cavolate, e vi saluto ringraziandovi ancora una volta per non esservi dimenticate di me, anche se me lo meritavo u.u 
E, per tutte le ragazze di cui seguo le storie: le sto recuperando piano piano, scusate se manco dal recensire, ma ho poco tempo davvero :( appena mi libero un attimo non mancherò dall'inondarvi con le mie inutili chiacchiere :D
un bacione, e grazie ancora di tutto ♥
ps: vi lascio con una gif di Lol, giusto per ricordarvi che faccia ha nella mia mente AHAHAAH xx Gin~

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Capitolo 11
*** ~ XI ***


 



~ XI ~
 

 
Sono dell’opinione che esiste un momento particolare, nella vita di ciascuno di noi, che resta impresso nella nostra memoria.
Un ricordo, paragonabile ad un tatuaggio invisibile, che marchia il nostro passato e ci permette di non dimenticare mai cosa o chi ci ha condotto a diventare le persone che siamo adesso – e saremo in un futuro. Un semplice click che ha fatto scattare la molla e che, con il senno di poi, ci fa comprendere che è solo grazie a quello scatto se adesso siamo delle persone complete.
Per molti questo momento è qualcosa di comune: alcuni di voi diranno che è stato, per esempio, il diciottesimo compleanno, che apre le porte ad un mondo nuovo ed adulto. Altri ricorderanno alla perfezione il giorno della loro laurea, o del loro matrimonio, o la nascita dei loro figli: delle giornate importanti e che cambiano nettamente la vita, senza ombra di dubbio. Eppure sono momenti che anche io ho vissuto, e che conservo gelosamente, ma che non sono stati quell’attimo che mi ha completamente plasmata, quel qualcosa che mi ha permesso di completarmi e poter finalmente dire “Sì, questa sono io”.

In realtà, se guardo attentamente i fatti con oggettività, tralasciando molti dettagli più o meno dolorosi e complicati, posso dire di essere stata quasi fortunata, sotto questo punto di vista. Molte persone, infatti, non riescono a sentirsi complete e non riescono a trovare loro stesse nemmeno dopo un’intera vita: io, invece, ho avuto la fortuna di  incontrare quella scintilla a sei anni.
Il primo giorno di scuola è sempre traumatico e scommetto che in molti lo avrete addirittura cancellato dalla memoria: tutte quelle divise uguali e ben stirate, gli zainetti troppo grandi per le piccole spalle dei bambini, le facce tirate e felici dei genitori orgogliosi che vedono i loro piccoli iniziare il loro viaggio. E poi c’è lo shock di entrare in una classe per la prima volta: dover passare ore ed ore assieme a bambini sconosciuti, con adulti altrettanto sconosciuti, che cercheranno di mettervi in riga e insegnarvi numeri e lettere che magari conosci già.
Ecco, sì, più o meno questo è stato il mio primo impatto con la scuola: da una parte i miei genitori, che avevano già riposto in me ogni speranza, nonostante avessi compiuto sei anni solo da qualche settimana, e dall’altra una mandria di sconosciuti che mi terrorizzava tanto da paralizzarmi sul ciglio della porta della classe.
Ricordo lo sguardo fiero di mio padre e la sua carezza dolce che mi invitava ad entrare, ricordo la punta delle mie scarpe di smalto nere, ricordo l’odore forte dell’amido usato per stirare la mia camicia. Ricordo i passi traballanti per quel corridoio, ricordo il brusio, ricordo gli infissi in legno chiaro delle aulee. E ancora, ricordo nettamente il colore giallo ocra delle pareti, ed i banchi bianchi puliti ed ordinati, e tutte quelle testoline che trottolavano da una parte all’altra, parlottando, cercando di fare amicizia, e la maestra che ci guardava sorridendo, rassicurando qualche mamma apprensiva che non riusciva a lasciare il suo pargoletto. E ricordo perfettamente la mia paura, ricordo il battito incessante del mio piccolo cuore nel petto, che mi pareva talmente forte e incontrollato da farmi esplodere da un momento all’altro, ricordo la mia incapacità di riuscire ad avanzare in quell’aula. E poi ricordo quella spinta un po’ troppo forte che mi fece perdere l’equilibrio, ricordo le mie ginocchia sul pavimento freddo, un po’ sbucciate, e ricordo quei capelli già fin troppo riccioli, e quegli occhietti vivaci, e quella bocca grande rosa. E poi ricordo «Scusa, ti sei fatta male?» seguito da un sorriso e la sua piccola mano che prendeva la mia, per aiutarmi.
«Guarda che non devi avere paura, è bello andare a scuola» ed io lo seguivo, come se improvvisamente fosse diventato tutto molto più semplice. Come se le mie ginocchia rosse ed ammaccate non avessero importanza, e non ne avesse nemmeno quel cuore, che non si azzardava a smettere di tamburellare come un pazzo.
Che poi, ripensandoci, in effetti non c’era nulla di cui aver paura, ed era davvero bello andare a scuola e, alla fin fine, tutto è semplice se c’è lui a tenermi la mano.
Non so perché, e non saprei dirvi nemmeno quando, quella stretta di mano tra due bambini diventò una più o meno subconscia rivalità tra noi.
A posteriori, dopo averci pensato per anni, sono giunta alla conclusione che per me l’idea di stuzzicarlo era un modo per poter sempre sentire i suoi occhi fissi su di me, la chiave che avevo trovato per non perderlo. Era l’unica maniera che avevo per riuscire a non allontanarlo da me ma, anzi, avvicinarlo sempre di più. Perché io, da quel primo giorno di scuola, avevo perfettamente compreso che potevo dirmi completa solo se c’era quella mano ad accompagnarmi attraverso ogni porta che mi avrebbe fatto paura. E nel corso degli anni ho pure creduto di essermi sbagliata, che quella sensazione di formicolio che dalla punta delle dita mi risalì fino alla punta dei capelli, era stata solo la fifa mista all’emozione di essere in prima elementare. Mi ero convinta che a sei anni si è troppo piccoli per aver trovato quel qualcuno che davvero ti fa sentire a posto non solo con il mondo, ma soprattutto con te stessa. Ed in questa convinzione ho tentato di arrancare in questi anni passati senza di lui, senza il suo sguardo, spesso fin troppo indagatore e senza le sue parole, spesso fin troppo acide, ma che per me erano piccole ancore di salvezza.
Sono anche riuscita ad andare avanti, nonostante la sua mancanza.
Sono riuscita a superare delle difficoltà che mi parevano insuperabili. Sono riuscita a risorgere, sono riuscita a ricostruire pian piano una vita che non volevo ma che mi pareva giusto avere.
Ma soprattutto, sono riuscita a mettere al mondo la creatura più bella di questo universo e, per la prima volta dopo quel primo giorno di scuole elementari, mi sono sentita calibrata alla perfezione mentre stringevo Eddie tra le braccia.
Tuttavia mi sono anche convinta che il mio intero fosse stato completato da quel piccolo marmocchio, nonostante sentissi sempre quello strano e piccolo vuoto in fondo alla bocca dello stomaco. E dopo che Liam se ne andò – e non mi aspettavo niente di più e niente di meno da lui e, sinceramente, mi sono sentita quasi sollevata quando mi disse che non se la sentiva di metter su famiglia con me – iniziai a prendere lentamente consapevolezza che quel minuscolo vuoto si stava pian piano espandendo, e non bastavano i primi passi di Eddie, o la sua risata, o il suo balbettare parole, a colmarlo.
Era un vuoto diverso, era qualcosa che stanziava là ormai da anni, era come una fessura nella stiva di una nave: nessuno si rende conto che c’è finché la nave non affonda. Ed io ero conscia di stare inesorabilmente affondando, e che avrei portato con me anche Edward, ma l’unico tappo che entrava alla perfezione in quel foro era lontano chilometri da me, non solo fisicamente, ma pure mentalmente.
Perché ormai Harry aveva una vita, una vita che pensavo essere perfettamente piena, ricolma di ogni soddisfazione, strabordante di successi. Harry è un uomo che aveva volontariamente lasciato ogni cosa e persona che riguardasse Holmes Chapel alle sue spalle ed io so benissimo che la colpa di tutto ciò è stata mia. In pratica me le ero suonate e cantate da sola: io ho tentato di tenerlo il più vicino possibile a me con l’arroganza, e sono stata ripagata con la giusta moneta della sua indifferenza.
E, nonostante sia dura ammetterlo, ormai l’ho accettato: ho sbagliato da sempre, su tutta la linea.

 


 

Sbuffare non serve a nulla, me lo ripete mia madre da quando sono nato.
Ma io sono uno sbuffatore di professione: sbuffo per protesta, sbuffo per mostrare approvazione, sbuffo per disgusto, sbuffo per divertimento. E di certo non riesco a fare a meno di non sbuffare faticosamente, mentre procedo con passo lento ed indeciso verso quella casa di mattoni rossi. Sospiro perché sento distintamente l’aria che inizia ad appesantirsi e condensarsi a livello dei polmoni, e diventa tutto così difficile e complicato.
Pure pensare, in queste condizioni, mi pare un’impresa titanica. “Sono un adulto, devo smetterla di comportarmi come un ragazzino” e mi ripeto questa frase come fosse un mantra, come se chiarificasse ogni cosa, come se non fosse già abbastanza palese.
Eppure le articolazioni molli, questo senso di nausea mista a fame, e le piccole gocce di sudore freddo che iniziano ad imperlarmi la fronte, coperta dai ricci, tendono a dimostrare tutto il contrario: ho le emozioni di un ragazzo di quindici anni racchiuse nel corpo di un ventottenne.
Mi blocco, davanti al cancelletto che apre sul piccolo cortile. Poso la mano sul ferro freddo e mi sembra quasi confortante, mentre stritolo le dita attorno a quella curva in metallo.
Ho paura.
Ho il terrore di cosa leggerò nei suoi occhi, ho paura del movimento sinuoso dei suoi capelli, e del tocco leggero delle sue mani. Ho paura, perché non ho idea di come potrò reagire io, né di come reagirà lei. Ho paura, perché temo di essere incapace di poterle dimostrare quello che è sempre significata per me, e sono spaventato a morte dalla probabile prospettiva di perdere l’uso consapevole della parola.
La logica, quando si tratta di me e Lorraine, è sempre stata un optional.
«Eddie, per favore, NON APRIRE LA PORTA E NON USCIRE!»
Mi allontano di scatto dal cancelletto, mentre quel bimbetto, fin troppo vispo, è evidentemente riuscito ad aprire la porta di casa e a sfuggire dalle grinfie della madre e si è precipitato nel giardino. Non appena mi vede, la piccola bocca scarlatta si schiude in una minuscola “o”, per poi allargarsi in un sorriso, terribilmente simile al suo.
“Mammaaaa!” inizia ad urlare, avvicinandosi a passi traballanti ma veloci verso di me. Ormai mi ha raggiunto, e mi fissa dal basso divertito, mentre si appende alle sbarre del cancello, forse per tentare di toccare la mia mano, che è tornata ad agguantare quel ferro come se fosse l’unico appiglio materiale per non rischiare di affogare.
E poi lei esce, sospirando esasperata, ma distendendo quelle labbra che amo in quel sorriso che adoro. Un sorriso che ora è davvero solo per me, e quegli occhi brillanti davvero sono rivolti solo a me.
E tutto comincia a ingranare diversamente dentro di me: quel ticchettio sconclusionato che mi ha accompagnato fin ora sembra assumere un ritmo più regolare, man mano che lei si avvicina.
Prende in braccio il piccolo, guardandolo severa, un po’ per gioco, e poi gli stampa un bacio sulla fronte.
«Lo sai che non devi uscire di casa da solo, Ed» lo rimprovera poi, facendolo scendere per andare a giocare verso il piccolo scivolo in plastica, sistemato in un angolo del cortile. E la fisso, mentre segue suo figlio con lo sguardo: l’amore che prova per Eddie è talmente potente che pare quasi di poterlo sfiorare, sembra quasi palpabile. Quindi si volta ancora una volta verso di me, e quello sguardo non cambia. Quella stessa forza tangibile è ancora densa nel suo sguardo, e mi sta avvolgendo dolcemente.
E quel ritmo regolare dentro di me sta diventando adesso una melodia.
Si abbassa per aprire il piccolo cancello che ci separa, e mi fa cenno di entrare. Non riesco a fare a meno di seguire ogni suo movimento, per quanto piccoli ed insignificanti possono essere: sembrano essere dettati da una scia luminosa che la segue. Lei intera sembra quasi brillare, e mi sento bene.
«Ha imparato ad aprire la porta di casa, si prospettano guai» sospira, mentre si mette a sedere sui gradini dell’ingresso, accennando con la testa al bambino che è ancora preso a giocare.
«Dovrai iniziare a tenerlo sott’occhio o inizierà ad andare ai party ed in discoteca!» rispondo scherzando, ed è tutto semplice. È semplice porre una parola dietro all’altra, è semplice la sua risata cristallina, sono semplici le piccole rughe attorno ai suoi occhi, mentre li socchiude per controllare Eddie.
È semplice il coraggio che, pian piano, inizia a riappropriarsi delle mie azioni, dei miei gesti, dei miei pensieri.
La seguo in cucina e, seduto al piccolo tavolo in legno scuro, la osservo preparare pazientemente il tea, con una calma rassicurante.
«Jane mi ha detto tutto. Mi ha raccontato ogni cosa: del fatto che eri incinta quando tornai e che avresti voluto andartene da qua, ma Liam ti chiese di sposarlo… e mi ha detto che se n’è andato» e mi ritrovo a pronunciare queste parole quasi sovrappensiero, ipnotizzato dal movimento altalenante delle sue spalle mentre respira. Vorrei aggiungere altre mille altre cose, vorrei poterle chiedere scusa per non esserci stato, per la mia ottusità, ma la vedo irrigidirsi un attimo, e ogni movimento si blocca per qualche secondo: chiude poi di scatto la teiera, e la pone sulla fiamma calda. Non si volta, continua a fissare 
dalla finestra della cucina Eddie che gioca in cortile, ed anche io sono in stand-by, immobile in attesa di una sua risposta, di una sua reazione.

Quindi si volta, e con lei tutto inizia nuovamente a scorrere: il  mio tempo ed il mio spazio sono dettati da lei. Si siede davanti a me, poggiando i gomiti sulla superficie liscia del legno, e non c’è alcuna rabbia né alcun risentimento nei suoi occhi o nei suoi gesti.
«Il tempismo non è mai stato il nostro forte» sussurra piano, avvicinando le mani al viso, nascondendo le emozioni in una gabbia di dita. Ma io so perfettamente cosa sta provando: sta rivivendo tutti gli attimi che ci hanno portato fino a qui.
Sta rivivendo quel primo giorno di scuola elementare, sta ripensando a quando vinse il premio di matematica, ed io arrivai al secondo posto – il mio primo secondo posto di una lunga serie, sta rivedendo quella rivalità acida e quella tensione adolescenziale. Sta riassaporando quel bacio umido ed arrabbiato e sta risentendo quelle parole sprezzanti che le vomitai addosso in piscina. E sta riassaporando l’esasperazione di quel bacio di tre anni fa. Ed io so tutto questo perché è esattamente ciò che sto provando anche io in questo momento.
Allungo la mano per cingere il suo polso sottile, facendo poi scivolare via lentamente la mano dal suo viso splendente, adesso solcato da calde lacrime, che assomigliano più a rugiada che ad un pianto umano.
Stringo le sue mani nelle mie e non stacco nemmeno un attimo i miei occhi dai suoi, ed è come se tutte le parole che mi ero programmato di dirle stessero fluendo silenziose e mute, da questo incontro di sguardi.
Porto la piccola mano vicino alla mia bocca, e mi ritrovo a baciarla piano, con timore quasi reverenziale. Continuo a posare leggere scie di baci lungo le nocche e lungo le dita fini, e vorrei che tutti questi baci possano lenire ogni sua ferita, come cerotti immaginari. E dietro ciascuno di quei baci c’è una richiesta di perdono: perdonami Lorraine, perdona la mia cecità, perdona il mio egoismo.
Riesce a liberare la mano dal mio lento rituale e sento il suo pollice che si muove lento lungo la mia guancia, e lo seguono poi le altre dita: una carezza calda che mi avvolge. Una carezza che per me è più un condono, che un gesto di affetto.
E lentamente le parti si capovolgono, e mi ritrovo a singhiozzare come un bambino, la fronte appoggiata sul tavolo, continuando a baciare il palmo della sua mano, mentre l’altra mi accarezza piano i capelli.
«Guardami» bisbiglia poi, soffiandomi piano le parole tiepide sul viso.
Socchiudo gli occhi, la testa ancora posata sul tavolo, e lei è là, che mi riscalda piano con il suo sorriso debole. Non smette di accarezzarmi la guancia, e non si cura del fischio incessante del bollitore dell’acqua: ogni sua attenzione è rivolta solo ed esclusivamente a me.
Si avvicina lenta, posando quelle labbra deliziose sul mio naso, procedendo poi verso il lembo di pelle che separa il labbro superiore e la punta del naso. Si stacca per un istante, cerca di valutare la mia reazione o forse sta solo constatando quanto fottutissimo tempo ci abbiamo messo ad arrivare fin qua. Alzo la testa dal tavolo, di scatto, impaurendo non solo Lol ma anche me stesso, ma non mi fermo.
Dobbiamo smetterla di avere paura, entrambi.
Dobbiamo piantarla di sprecare tempo, di far trascorrere secondi preziosi in gesti pigri e tentennanti.
Perché è da quando sono alto un metro e un tappo, è da quando la aiutai ad alzarsi quel primo giorno di prima elementare, è da allora che entrambi sapevamo di dover stare assieme, ma siamo sciocchi.
E codardi.
Mi alzo, e faccio scorrere deciso le mie mani tra i suoi capelli fini - e, Dio, da quanto tempo è che desideravo farlo? – e lei sorride e, con altrettanta decisione, avvicina il suo viso al mio e, finalmente, le nostre labbra si incontrano.
Ed è un bacio desiderato. Un bacio giusto, un bacio intenso ma sereno. La sento cercarmi così come io cerco lei.
Quel ticchettio stonato, che era diventato un ritmo regolare e poi una melodia, adesso è una sinfonia.
Noi siamo sinfonia.
Sentiamo la voce squillante di Eddie, che ci chiama dal giardino, e si unisce al fischio del tea, e le labbra di Lol, ancora unite alle mie, si schiudono in una risata che rimane soffocata in un altro bacio.
«Ci abbiamo messo solo ventidue anni per arrivare a questo, lo sai vero?» borbotta poi, affondando il viso nella stoffa della mia camicia. E mentre rido, stampandole un altro bacio sulla fronte, realizzo che questa è la nostra morte e la nostra rinascita.
Adesso siamo contemporaneamente alla fine e l’inizio del nostro viaggio.
 
 

 

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