Memoria

di Drown
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Memories.

Capitolo 1


Chiuse la porta alle sue spalle.
Infilò la chiave nella serratura e girò. Il rumore dell’ingranaggio che funzionava la fece sentire sollevata.
Era tutto fuori.
Nessuno era lì, a parte lei.
“Ed è questo il vero problema, forse.” pensò inavvertitamente.
Ricaggiò giù quelle parole, pesanti come pietre, che le rimasero piantante in gola.
Non doveva fare certi ragionamenti. Era stupido ed inutile. Soprattutto inutile.
Tanto che poteva cambiare? Nulla.
“Basta.”
Posò il mazzo delle chiavi sul tavolino del soggiorno adorno di vecchie fotografie, si tolse la pesante pelliccia maculata e si diresse verso il bagno del suo freddo appartamento.
Era presto, solo le nove di sera, ma si sentiva stremata, come se quell’ennesima giornata vuota le avesse risucchiato le poche energie rimaste nella sua vecchia anima.
 Forse aveva solo bisogno di dormire.
Sì, un po’ di riposo le avrebbe fatto bene, avrebbe cancellato tutto.
Si sfilò frettolosamente la maglietta leopardata troppo stretta e troppo scollata, evitando accuratamente di posare gli occhi sul proprio corpo, fingendo quasi non esistesse. Via anche la gonna rossa, con quello spacco che mostrava le sue gambe gonfie.
Non perse tempo e, sempre senza guardarsi, infilò una lunga camicia da notte bianca.
La odiava.
Era così… così… da vecchia.
Scosse le spalle, tanto cosa importava? Non c’era nessuno.
Era il momento.
Lo sapeva, e sentì le viscere attanagliarsi. Non voleva.
Si sedette con lentezza  sul bordo della vasca da bagno rosa e respirò profondamente.
“Va tutto bene.”
Non era vero, e pensarlo non la calmava.
Si alzò a fatica, la schiena le doleva a causa dei tacchi da 11cm che aveva portato per tutto il giorno.
Il dottore gliel’aveva detto: “Signora, guardi, con la schiena in queste condizioni sarebbe meglio se evitasse di continuare a camminare con scarpe come quelle che porta… Delle calzature ortopediche sarebbero l’ideale per la sua situazione.” Lei inizialmente aveva storto la bocca rosso fuoco. L’idea non le piaceva, non le piaceva per niente. E glielo disse, al dottore, che non era minimamente disposta a mettersi quelle cose ai piedi. Lui aveva scosso le spalle e l’aveva guardata con compassione, in quel modo che lei odiava, ma non aveva ribattuto.
Adesso pagava le conseguenze della sua stupida ostinazione.
Accese la luce sopra al lavandino.
Un paio di stanchi occhi blu, dalle palpebre di un azzurro intenso,  la fissarono.
La matita nera era un po’ colata, e l’ombretto era sbavato. Sembravano gli occhi di pagliaccio triste. O forse lo erano.
Spostò lo sguardo sulle labbra rosso fuoco, senza trascurare le guancie di un rosa troppo intenso e finto.
Schiuse leggermente la bocca, osservando quei suoi denti così rovinati, storti e giallognoli.
Neppure lo sbiancamento del dentista era servito a qualcosa.
La richiuse, serrandola forte.
Girò la manopola del rubinetto e aspettò che l’acqua si scaldasse. Appena raggiunse la temperatura adatta si tirò indietro i capelli biondo paglia cotonati, chiuse gli occhi e si buttò il liquido bollente sulla pelle del viso.
Sentì il trucco colarle, prima lungo gli zigomi, per poi scendere alle guance e giungerle fino al mento.
Quando alzò il viso e si rivide nella superficie  dello specchio al suo posto c’era una maschera con due solchi neri che le scavavano il volto. Lacrime di pece.
Prese una salvietta e finì ciò che l’acqua aveva iniziato; si struccò completamente, metodica e precisa, senza fretta.
Gli ultimi furono gli occhi. Chiuse le palpebre per togliersi l’ombretto, e, dopo aver finto, aspettò prima di riaprirle. Inspirò.
Quindi lasciò che l’intensa luce artificiale della lampada tornasse ad abbagliarla.
“Vecchia. Persa. Sola.”
La pelle del viso era cadente e raggrinzita come quella di una pesca troppo matura, solcata dalle profonde cicatrici del tempo: rughe.
Queste, come un’intricata ragnatela, si intrecciavano lungo la sua fronte, diventando più profonde all’altezza degli occhi e, soprattutto, attorno alla bocca, ora di un rosa pallido e malaticcio.
Era questo il suo vero trucco, quello naturale, a cui non bastava un po’ d’acqua calda per andare via.
Si concentrò su ogni singolo segno, dal più marcato a quello quasi invisibile che le percorreva la tempia sinistra, cercandone di nuovi ed esaminando ogni singolo centimetro di pelle con metodo, come si fa con un rito che si è ormai abituati a ripetere.
Sentì gli occhi inumidirsi e qualcosa di caldo uscirne fuori.
“Stupide lacrime. Stupida.”
Voleva smettere, ma non ci riusciva, ormai, lo sapeva, era troppo tardi.
Quelle odiate gocce salate continuavano a colare, interminabili.
Era insopportabile. Quella non era lei, non poteva esserlo!
Non poteva veramente nascondersi dietro quel viso rugoso, rovinato dagli anni, sporcato dai decenni. No. Era ancora giovane, doveva esserlo.
Rimase ad osservare quella caricatura di sé stessa per un tempo infinito. I secondi erano secoli, e i secoli erano secondi.
Ad un certo punto, inspiegabilmente calma, con una decisone ed una freddezza che non le erano mai appartenute tanto come in quel momento, spense la luce e si diresse in camera.
Aprì il cassetto del comodino e, sempre con quell’insolita apatia, prese il piccolo barattolo che v’era dentro.
Andò in salotto e si sedette davanti alle foto in bianco e nero ritraenti una bella ragazza che sorrideva e mandava baci all’uomo invisibile e dimenticato dietro l’obbiettivo.
Sollevò il tappo del blister. Era già mezzo vuoto, ma il suo contenuto era più che sufficiente per quella sera.
Senza esitazione ingoiò cinque pastiglie.
Poi sei.
Quindi finì tutti sonniferi.
Mentre gli occhi le si chiudevano non smise di osservare l’avvenente ragazza delle fotografie. Chissà, forse, con un po’ di fortuna, avrebbe ripreso a vivere. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***



Capitolo 2

Aprì gli occhi con lentezza, quasi timorosa, ma il buio non si dissolse subito.
Ci vollero un paio di minuti prima che potesse scorgere qualcosa tra le tenebre, e decisamente molti di più per riuscire a credere di non star avendo una qualche allucinazione.
C’era una persona seduta, come appollaiata, sul tavolino del soggiorno.
Il fisico minuto, l’atteggiamento sbarazzino e gli abiti curati, tipici degli anni 40’ non lasciavano dubbi su chi fosse.
Era la ragazza della foto.
E la fissava.
- Beh, ti sei svegliata finalmente! Non ne potevo più di aspettare! -
Non riuscì a proferire parola. Come poteva essere lì, adesso? Era impossibile, completamente impossibile.
-Ehy, mi senti? – disse, alzandosi e volteggiando leggiadra verso di lei, ancora distesa sulla poltrona - Sai, gradirei proprio facessi un cenno, tanto per avere la conferma che almeno l’udito c’è ancora. -
A stento riuscì a parlare.
-Tu… tu non puoi essere qui. Non è possibile, devi essere un’allucinazione. -
-Un’allucinazione? Ahahah, per favore tesoro! Non dirmi che ci credi veramente! Io sono reale esattamente quanto te.  E lo dovresti sapere bene. Sai chi sono, no? -
Certo che lo sapeva. D’altra parte come poteva non riconoscerla?
-Tu… - Venne interrotta dalla voce squillante della giovane.
-No no no mia cara, così iniziamo male! Tu è proprio sbagliato. Sarebbe più corretto dire “io”. O “noi”, se preferisci.-
Era come immaginava. Non era possibile, ovviamente, che la sua “io” del passato fosse uscita dalla cornice per farle visita, eppure era lì, identica a quella immortalata nella fredda immagine in  bianco e nero. Lanciò una rapida occhiata alla fotografia. Era vuota.
Dovette distogliere lo sguardo dalla ragazza, che la fissava senza battere ciglio. Osservare la sua pelle perfetta, gli occhi vivi e il sorriso smagliante la faceva stare troppo male.
-Perchè sei qui? -
-Bella domanda, mia cara! Diciamo che sono venuta per darti una piccola rinfrescata alla memoria, se vuoi vederla così.-  Rispose, sfoggiando un sorrisetto malizioso che le fece brillare gli occhi blu intenso.
-E, quindi, cos’avresti intenzione di fare? Impiantarmi nel cervello tutte le stupide cose che ho dimenticato?-
-Ti ricordi di Johnny? E di Pietro? Papà l’hai dimenticato?  Sai, pare che gli anni te li abbiano cancellati dalla testa. Non mi sembra proprio corretto nei loro confronti. No, affatto.-
-E’ passato, sono morti, non torneranno indietro.- disse freddamente, calcando su ogni sillaba con tono quasi arrabbiato. Voleva dimenticare, doveva rimuovere tutto quello che era accaduto.
-Dici? Eppure guardami, anch’io sono qui. E vengo da molti anni fa, se non sbaglio. Nessuno muore finché ti ricordi di lui, Clara, lo dicevi sempre un tempo… e certo non puoi dimenticarti di loro, ne’ di tutti gli altri. -
Gli occhi color zaffiro della giovane erano puntati su quel volto raggrinzito, lo squadravano, implacabili, con uno sguardo così critico, superiore… uno sguardo che era quasi una sfida.
-Bene, come vuoi tu, mia cara. Da dove vuoi che partiamo?-
La ragazza sgranò impercettibilmente gli occhi, non si aspettava una risposta così pungente, non immaginava sarebbe stato così facile farla cedere. Inarcò appena le sottili sopracciglia, forse in quel vecchio corpo c’era ancora un po’ dello spirito che l’aveva tanto animato in gioventù.
-Da dove tutto è iniziato.- 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Le unghie di lui piantate nella schiena, a graffiarla con violenza.
Il volto rosso e accaldato, imperlato da gocce di sudore, così vicino.
Il fiato asfissiante, che, insieme al peso dell’uomo sdraiato sopra il suo piccolo e candido corpicino, le impediva quasi di respirare.
E quella cosa tra le gambe. Continuava a farle male, la sentiva entrare dentro di lei e poi uscire, rientrare e ancora uscire…  ogni volta sembrava che una barra incandescente le bruciasse tutto, là dentro.
Voleva che smettesse, che smettesse subito. Voleva svegliarsi dal brutto incubo. Voleva che papà non le facesse mai più male.
Ma non  poteva essere papà, lui era buono e le voleva tanto bene…  glielo ripeteva sempre, “Ti voglio bene piccina, tu sei il mio fiorellino e io sono la tua apetta”.
Solo che questa volta la cara apetta aveva tirato fuori il pungiglione e glielo aveva conficcato dentro.
No, no, no. Non era papà. 
Quello era l’uomo cattivo uguale a lui. Papà stava venendo a prenderla, l’avrebbe portata via, al sicuro. Ne era certa.
Ma il tempo passava, e lui non veniva. “Forse l’uomo cattivo l’ha imprigionato e lui non riesce a liberarsi. Oppure sono morta come mamma e adesso sono all’Inferno perché mi sono comportata sempre tanto male. Io non voglio essere morta, io voglio essere il fiorellino del mio papà. Come farà lui senza di me? Oh, povero babbo!”
Un dolore improvviso, ancor più grande del precedente, le perforò la testa. Voleva urlare, urlare fino a morire, urlare e basta. Ma il grido le rimase piantato in gola, come un masso, e le esplose nel cranio, perforandole le orecchie. Senza emettere alcun suono la assordò.
Ma se lei non poteva gridare lui non si risparmiava, oh no, di sicuro. Anzi, i gemiti si fecero sempre più concitati, sempre più veloci, sempre più intensi, fino ad culminare in un’unica somma degli stessi.
Sentì un odore ferroso, di sangue. La stava uccidendo! Le aveva piantato un coltello proprio lì, nella carne, e voleva ucciderla! Ecco, lo sentiva, stava per infliggerle un altro colpo...
Ma, improvvisamente, la cosa smise di entrare. Sentì qualcosa di viscido, così simile ad una lumaca, passarle su tutto il corpo, sporcarla della sua bava. Cos’era? Avvertì un fiato caldo e acre accompagnare quell’animale schifoso che le strisciava addosso. Provò a scacciarlo via.
Fu allora che scoprì di non riuscire a muoversi. Delle mani, grandi e ruvide, le stringevano saldamente le braccia, facendole male e costringendola a rimanere immobile, in balia della brutalità di quell’uomo cattivo.
Era in trappola. Improvvisamente il panico, che fino ad allora era rimasto sopito, convinta com’era che fosse tutto un sogno, si impossessò di lei.  Avrebbe voluto urlare, ma non poteva, la gola era chiusa, non riusciva a respirare!
Il corpo non le rispondeva più, la tradiva, rimanendo immobile e impotente mentre la sua mente esplodeva di dolore e terrore.
La cosa cattiva aveva ripreso a torturala, era come un chiodo grosso e appuntito che le veniva piantato dentro a forza. Un pungiglione gigante.
-Basta… per favore, basta…-
Le parole erano sussurri inudibili, lievi sillabe che la furia di un uomo violento portavano via. Chiuse gli occhi, incapace di tenerli ancora aperti, e si mise a pregare il caro Gesù, che era tanto buono, di farla svegliare, oppure di perdonarla e di mandarla in Paradiso, dove non avrebbe più incontrato l’uomo cattivo, perché in Paradiso ci va soltanto la gente gentile.
Sentiva che però Gesù non l’avrebbe mai ascoltata, e che tutto questo non sarebbe finito, che il dolore avrebbe proseguito per sempre.
Ma lui, ad un certo punto, si fermò, ansante e sudato. Si fermò, con la camicia slacciata a mostrare il petto peloso e i pantaloni abbassati. Si fermò.
La bimba sentì che le grosse mani le lasciavano libere le braccia e che quel peso che la schiacciava si sollevava, lasciandola respirare.
Non osò muoversi. Temeva che se si fosse anche solo spostata di un millimetro tutto sarebbe ricominciato.
Sentì il rumore di qualcuno che si alzava, ansimando, e che camminava. Il frusciare delle vesti mentre se le infilava. Quindi una porta che si apriva.
Aveva ancora gli occhi chiusi, le membra tremanti per la paura che potesse ritornare e farle ancora male, ma, nonostante il terrore, riuscì a distinguere una voce. La voce che aveva tanto atteso.
-Buonanotte fiorellino, la tua apetta tornerà presto.- La porta si chiuse.
Papà era tornato, e ora che era lì non l’avrebbe mai, mai, mai lasciata andare.

~
 

Clara riaprì gli occhi di scatto, quasi spaventata.
-Lo vedi che ricordi allora?- Lo sguardo della giovane era freddo e penetrante. Il suo sorriso era scomparso.
-Tu… Perché?! Dio mio, si può sapere il maledetto perché di tutto questo?!
Si alzò e iniziò a camminare concitatamente per la stanza; più che essere arrabbiata pareva quasi sconvolta dalla terribile visione (o ricordo?) che aveva appena avuto.
-Non hai alcun diritto di venire qui e di… di riportare sa galla quelle cose! Perché? Perché perché perché?!-
-Perché non puoi fuggire dal passato. Devi affrontarlo e,  per quanto doloroso possa essere, imparare ad accettarlo. Non si scappa per sempre e, Clara, questo è il tuo momento di guardare in faccia ciò che è stato. Dimenticarlo non lo cancellerà: lui è lì e tu non puoi farci proprio niente, se non lasciarlo esistere per ciò che è. Io sono qui per questo, per aiutarti.-
L’anziana si fermò di botto.
-E quindi cosa dovrei fare adesso? Iniziare a chiedermi perché le puttane da cui andava evidentemente non gli bastavano più? Domandarmi perché quel porco godesse tanto a mettere le sue luride manacce sul corpo della figlia di 5 anni?! O magari potrei chiederlo a lui, perché no, potrei andare al cimitero con un bel badile e toglierlo dalla terra in cui è da 58 anni e aprire quella bara di legno marcio e chiederlo a lui, sì, urlarglielo in quelle orecchie tappate dai vermi il perché avesse violentato sua figlia!-
Era livida dalla rabbia ora, e ebbe bisogno di sedersi, perché l’ira l’aveva stremata, rendendole faticoso lo stare in piedi. I capelli le cadevano a ciocche scomposte sulle spalle e il suo respiro si era fatto rapido e convulso.
-Lo sai perché faceva quel che faceva.  Non accettava che la moglie, tua madre, fosse morta. E che fosse morta dandoti alla luce, per giunta!  No, tu lo sai benissimo che quell’uomo era impazzito, andato completamente fuori di testa, distrutto da un dolore che gli era impossibile sostenere. Era solo, gli eri rimasta unicamente tu, sempre lì, a ricordargli costantemente la sua perdita. Oh, non che le assomigliassi più di tanto in fondo, ma questo non importava, non era che un trascurabile dettaglio per la sua mente malata. Nella sua visione distorta tu eri lei. Un po’ come in quel racconto di Poe, ricordi? Morella. Ne avevi discorso un giorno in uno di quei salottini pieni di gente con la puzza sotto al naso, l’avevi tirato fuori per fare un po’ di scena, per farti credere un’intellettuale, tu, che non avevi neanche la terza media! Certo i finali furono diversi, Morella morì, mentre tu scappasti, ma questo non cambia la medesima folle immagine che entrambi i padri avevano delle proprie bambine. Per lui tu eri figlia, moglie e amante. Per lui eri tutto.- La guardava dritta negli occhi, nei suoi stessi occhi, penetrandola, leggendola dentro e violandole l’anima.
-Mi ha distrutto l’infanzia! Mi ha rubato tutto ciò che avevo, tutto ciò che ero! Sai che non lo potrò mai perdonare. Non mi interessa se era matto o se semplicemente malvagio, non ha senso saperlo, perché non cambierà nulla.-
-E’ vero, non cambierà nulla, almeno in termini meramente pratici. Ma cambierà te stessa, ciò che sei ora. Non smetterà mai di bruciarti dentro, proprio come ti bruciò quella puntura, ma se lo accetterai, se troverai il coraggio di affrontare tutto questo, riuscirai ad andare avanti, veramente avanti. Non recupererai nulla del tempo che ti è stato rubato continuando ad essere cieca davanti alla vita. Devi guardare in faccia il passato e il presente, devi accettare che è successo per iniziare ad accettare ciò che sei.-
Gli occhi circondati da rughe la fissarono, immobili. Aveva ragione e lo sapevano tutte e due in quella stanza. Due palpebre si chiusero su di essi, inondandoli di pece.
Aveva rimandato il momento così a lungo, per paura.
Ora non poteva, non doveva, più aspettare. Aprì gli occhi e guardò dritto davanti a sé, consapevole del viaggio che stava, finalmente, intraprendendo. 

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