The sound of an old guitar has saved me from sinking.

di hellrid
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Annie - Wish you were here. ***
Capitolo 2: *** Finnick - Take care of me. ***
Capitolo 3: *** Finnick - Heal me with your holy touch. ***



Capitolo 1
*** Annie - Wish you were here. ***


Wish you were here.
 
Non sai quante volte ho pregato che tutto questo fosse solamente un perfido inganno della mia mente malata e che tu, dopo uno dei tanti incubi che popolano le mie notti, arrivassi in camera mia e mi tranquillizzassi, stringendomi forte e soffocando i miei singhiozzi con quelle carezze così delicate.
Ma tu non sei mai venuto: mi hai lasciata qui, da sola, con un enorme vuoto nel petto che nessuno mai riuscirà a colmare, perchè nessuno sarà mai come te.
Dove sei? Dimmelo, ti prego! Tutti mi credono pazza, quando, mentre cammino per la strada, scoppio in lacrime urlando queste parole: il fatto è che, tu lo sai, io non sono pazza. Semplicemente, io so. So che non puoi essere veramente un corpo morto, dilaniato dagli ibridi e dalla ferocia di Snow, perchè nessuno riuscirebbe mai a ridurti in quello stato.
Magari ora sei nel vento, nella gentile brezza marina che mi accarezza il viso prima dell'alba.
Oppure nella pioggia, che nasconde le mie lacrime dandomi una strana sensazione di forza.
O nel sole, che nemmeno nei giorni più luminosi potrà mai competere con la bellezza del tuo sorriso.
Ricordi quando ti accorgesti di essere innamorato di me? Dicesti di non sapere quando era successo, ma che, probabilmente, lo avevi sempre saputo. È esattamente quello che intendo io: non so come faccio a sapere che tu sei ancora con me, che non mi hai mai lasciata del tutto, lo so e basta. È solo per questo che sono ancora qui a combattere, amore mio: dicevi di odiare chiunque volesse farmi del male e non credo che mi avresti mai perdonato, se avessi deciso di spegnermi lentamente, bevendo solo le mie lacrime e nutrendomi dei miei ricordi. Dei nostri ricordi.
Ma nonostante questo, certe volte penso a te e fa male. Mi odio per questo, perchè non sono stata abbastanza forte da mantenere la promessa che feci a me stessa quando Katniss arrivò da me con le lacrime agli occhi, dicendomi che tu non c'eri più: giurai che mai pensare a te mi avrebbe fatta star male.
Tu non eri lacrime, eri la battutina oscena che mi faceva ridacchiare imbarazzata.
Tu non eri dolore, eri l'abbraccio caldo che mi faceva sentire protetta.
Tu non eri tristezza, eri il "ti amo" sussurrato piano al tramonto, in riva alla spiaggia, in uno di quei momenti che nessuno avrebbe mai potuto rovinare.
Eppure, quando penso che non sei qui accanto a me, è difficile rimanere lucida: dimentico persino come mi chiamo, a volte. Dopotutto, il nostro nome racchiude la parte più importante della nostra essenza: è la prima cosa che gli altri conoscono di noi. Ma chi sono, io, senza la metà più importante della mia anima?
Ma sii orgoglioso di me, perchè non mi sono lasciata andare, non di fronte a lui. È la mia unica ragione di vita, l'unico uomo che, oltre a te, ho amato incondizionatamente: nostro figlio. Sai, sono sicura che voi due sareste stati sempre a battibeccare: avete lo stesso caratteraccio e la stessa voglia di essere sempre al centro dell'attenzione. Ma sono più che certa che vi sareste adorati, perchè tutti e due avete lo stesso cuore grande come il mare che entrambi adorate.
Ora è lui che mi difende quando gli altri dicono che sono pazza, proprio come facevi tu quando eravamo giovani.
Non mi ha mai vista piangere, riesci a crederci? Non sono sempre stata la madre perfetta, ma ho sempre fatto in modo che il nostro Nathaniel fosse orgoglioso di essere se stesso. Che fosse orgoglioso di essere un Odair.
Ed è buffo, perchè è proprio lui a dirmi che, dopo tutto questo tempo, sarebbe ora che mi trovassi un altro marito: dopotutto, sono ancora giovane e bella, dice lui, nessuno me ne farebbe una colpa. Sono certa che anche tu saresti d'accordo, ma non avrebbe senso. Sono ancora tua e sempre lo sarò, Finnick Odair. Ed è ora che nostro figlio sappia di te. Di noi, di come ci siamo conosciuti. Della musica di quella vecchia chitarra che mi ha salvata dall'abisso.

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Capitolo 2
*** Finnick - Take care of me. ***


DISCLAIMER: questo capitolo è ambientato molti anni prima del precedente. Precisamente, avremo a che fare con un baby-Finnick alle prese con la sua vita di tutti i giorni. Fatemi sapere che ne pensate, sono ben accetti tutti i tipi di recensione! Enjoy! ;)

 

Take care of me.

 

«Tesoro, svegliati! Papà è già fuori, ti sta aspettando sulla spiaggia!»

Ancora con gli occhi chiusi, sento che mamma sta sorridendo, accarezzandomi dolcemente la testa. “Ma che ore sono?” penso, mentre lei cerca di tirarmi fuori dalle lenzuola di peso: ancora mezzo addormentato, riesco a intravedere un debole bagliore filtrare dalla finestra socchiusa e capisco che il sole non è ancora sorto. Nel silenzio di casa mia, un rumore molesto attira la mia attenzione: quell'idiota di mio fratello sta bellamente russando, stravaccato sul suo bello e comodo letto. Cioè, definirlo bello e comodo è un'esagerazione, ma è sempre meglio del divano bitorzoluto e cigolante che papà ha comprato al mercato un paio di anni fa. Prima io e quell'essere dormivamo insieme – e sì, vi capisco, anche a me si accappona la pelle, se ci penso -, ma da quando lui ha deciso di allenarsi per offrirsi come Volontario agli Hunger Games, mamma ha deciso che deve avere un letto tutto per sé, perchè è importante che riposi bene. Non sono del tutto sicuro che abbia realmente qualche probabilità di farcela, se non altro perchè, nonostante il Distretto 4 non sia fra i più poveri, la mia famiglia non è che se la passi granchè bene. Sì, insomma, ce la caviamo: papà è un pescatore eccezionale e mamma conosce praticamente tutte le piante commestibili della zona, ma il quantitativo di cibo che dobbiamo fornire ai Pacificatori per Capitol City aumenta anno dopo anno.

Quindi, trovare qualcosa da mangiare sta diventando sempre più difficile: per questo mi sono offerto di dare una mano a papà, in barca. Okay, non ho ancora molta esperienza, ma mamma dice che sono il bambino più intelligente del mondo. Non so se è vero, ma di sicuro sono molto più sveglio di Nate, che, beato lui, continua a russare beatamente alla faccia mia. Comunque, non mi sono presentato: il mio nome è Finnick Odair e ho sette anni.

Sono nato in un caldo giorno d'estate, cinquantuno anni dopo la vittoria di Capitol City sui Distretti Ribelli: come avrete già capito, essendo del Distretto 4, fra qualche anno toccherà anche a me partecipare alle mietiture per gli Hunger Games, ma non ho intenzione di pensarci, per il momento. Anche perchè se Nate riuscirà veramente a diventare un Favorito e a vincere, probabilmente non dovrò nemmeno iscrivermi per le tessere. E poi noi del 4 li troviamo piuttosto facilmente, dei fessacchiotti come mio fratello che andranno a farsi ammazzare come Volontari, quindi sono abbastanza tranquillo, no? Cioè, sto parlando di fessacchiotti deboli e indifesi: mio fratello sarà anche tonto, ma è fortissimo e sono sicuro che lui, i suoi Hunger Games, li vincerà. Me lo ripeto, quasi fosse una filastrocca, mentre mi sciacquo la faccia in una bacinella d'acqua resa tiepida dal clima afoso del Distretto: l'unica cosa che posso fare per lui è assicurarmi che abbia cibo a sufficienza per diventare un Favorito con i controfiocchi.

Per il momento, direi che promette bene: insomma, fa paura solamente a guardarlo. Ha undici anni ed è alto una trentina di centimetri più di me, oltre ad essere molto, molto brutto: non è per vantarmi, ma io, oltre ad essere il più intelligente, sono anche il più carino fra noi. Sono piuttosto slanciato, grazie alla mia passione per il nuoto, al duro lavoro in barca con mio padre e ad una ferrea dieta a base di pesce, pesce e, beh, pesce. Sono abbastanza abbronzato, come la maggior parte della gente del Distretto 4, e tutti dicono che somiglio ad una versione in miniatura di mio padre: capelli castano-rossicci, color bronzo, sempre e costantemente scompigliati e occhi verde-azzurri, grandi e luccicanti. Non per vantarmi, ma è proprio grazie al mio sguardo innocente che ogni domenica riesco a rimediare un pacchetto di caramelle da Josephine la Guercia al Mercato pagandole solamente un'ostrica.

Non mi sono ancora svegliato del tutto e già i grugniti di mio fratello hanno cominciato a darmi altamente sui nervi. «Mamma, fallo smettere, ti prego!» supplico, nascondendo il viso fra le mani, in preda allo sconforto più totale. «Finnick, sai che Nathaniel deve riposare. Lui lavora sodo per noi!» Mia madre distoglie lo sguardo mentre lo dice, fingendo di riordinare il cibo in una credenza che è fin troppo vuota per essere pulita. È il suo modo per non pensare che Nate si sta lanciando in un'impresa praticamente suicida, suppongo: io pesco e nuoto fino allo sfinimento e lei pulisce. Non credo di riuscire a reggere ulteriormente il silenzio seguito a quell'affermazione, quindi saluto velocemente la mamma e mi dirigo verso la spiaggia, dove mio padre sta finendo di rattoppare la rete da pesca. Mi stringo nella mia casacca di seconda mano per ripararmi dal freddo mattutino, mentre osservo le mani abili di papà spostarsi da un nodo all'altro: cerco di memorizzare i veloci movimenti delle sue dita, anche se la tenue luce diffusa dell'aurora non è esattamente l'ideale per questa delicata operazione. «Okay, ho finito. Siamo pronti a salpare, Campione?» mi apostrofa lui, mentre, con una delle sue mani forti e callose, mi scompiglia vigorosamente i capelli. Non posso fare a meno di sorridere, perchè le gite in barca con papà stanno diventando sempre più divertenti, ora che lui mi permette di aiutarlo: so che preferirebbe che evitassi di alzarmi così presto, considerando che devo anche andare a scuola, ma a me non interessa. «Signorsì, signor Capitano!» rispondo, sollevando il pugno come farebbe un vero pirata e cercando di issarmi sulla barca da solo. Non mi riesce ancora molto bene, visto che al terzo tentativo è papà a sollevarmi sulla pedana di legno screpolato dal sale e dal sole, ma sto ancora imparando, giusto?

La pesca è fruttuosa: dopo esserci allontanati circa un miglio dalla costa incontriamo un banco di grossi pesci che non ho mai visto, ma che vengono facilmente catturati dalle nostre reti. Ovviamente, non riusciamo a pescarli tutti: alcuni, divincolandosi, riescono ad allargare le maglie della rete e a scappare, mentre altri nuotano troppo lontano dalla trappola perchè essa possa anche solo sfiorarli. Se solo papà mi lasciasse usare il tridente, vi giuro che non ne lascerei scappare nemmeno uno. Non che io abbia mai usato un tridente – insomma, sveglia, ho sette anni! -, ma sono più che sicuro che sarei bravissimo: quando accompagno mio padre alla locanda vicino al Mercato per barattare un po' del nostro pesce con qualche scoiattolo, mi fermo sempre a fare una partita a freccette con i clienti e... Beh, non so se è perchè una mira micidiale o perchè gli altri, solitamente, sono ubriachi come scimmie, ma vinco quasi sempre io!

Arrivati a questo punto, potremmo andare ancora più al largo alla ricerca di nuove prede, ma papà decide di fare marcia indietro e di fare un altro giro più tardi, quando io sarò a scuola.

Arrivati sulla spiaggia, mi strofino forte forte le braccia e le gambe con un ruvido panno di iuta: nuotare mi piace, è vero, ma la sabbia e la salsedine sul corpo proprio non le sopporto. A giudicare dall'altezza del sole nel cielo, non ho molto tempo prima che cominci la scuola. «Papà, ti serve aiuto per recuperare il pesce?» chiedo comunque, consapevole che, quest'oggi, la mia unica utilità è stata quella di vedere il guizzo argentato del banco di prede, in lontananza. Mio padre sembra quasi leggermi nel pensiero, perchè mi sorride. «No, va pure Finn, o farai tardi per la scuola. Ciao, buon lavoro e... Beh, grazie, Campione. Se stasera mangeremo qualcosa è merito solo della tua vista da gabbiano!»

Non posso fare a meno di rivolgergli un sorrisone a sessantaquattro denti, mentre mi affretto verso il cadente ed enorme edificio azzurro che, ogni mattina, obbliga diverse migliaia di studenti dai 6 ai 18 anni a studiare cose che, nel Distretto 4, non serviranno assolutamente a niente. Cioè, spiegatemelo a cosa serve sapere qualcosa di “Storia della pesca”, oppure di ittiologia: un pesce è solo un pesce, chissenefrega di riconoscerlo. L'unico possibile interesse sarebbe capire quali organismi marini sono commestibili e quali non lo sono. Praticamente, credo che l'unica utilità della scuola in un Distretto di pescatori sia per gli Hunger Games: qualche volta anche noi del 4 veniamo inseriti fra i Favoriti, non possiamo fare la figura degli analfabeti di fronte a tutto il pubblico di Capitol City. O almeno, così dice papà.

La mattinata scorre lentamente come al solito, se non fosse per un solo, piccolo particolare: alla fine della terza ora ci viene comunicato che, alla fine delle lezioni, saremo tutti convocati davanti al Palazzo di Giustizia per una comunicazione del Sindaco. Nessuno dice una parola, ma so di non essere l'unico della mia classe che già cerca di collaborare per mantenere la propria famiglia: gli sguardi tesi e frustrati che ci lanciamo mi fanno capire che non sono il solo a temere che il Sindaco voglia solo chiederci più cibo da consegnare ai Pacificatori.

Come era facile prevedere, la piazza è affollata alle due, poco prima che la massima autorità del Distretto cominci il suo discorso. Benjamin Cresta è Sindaco del Distretto 4 da che io mi ricordi: credo che sia alla guida del distretto da almeno un paio di secoli, anche se per essere così vecchio se la passa piuttosto bene. Solitamente è un uomo brioso e sorridente, che fa del suo meglio per comprare molto più pesce di quanto la sua famiglia – composta da lui, sua moglie, un ragazzino di dodici anni e una bambina più piccola di me, che mi pare si chiami Fannie o Ronnie o Lonny – avrebbe bisogno: cerca di distribuire il più equamente possibile il suo denaro fra tutti i pescatori del Distretto. Il che, considerato quanti siamo, non è molto, ma è già qualcosa!

Ma oggi il signor Cresta ha una faccia decisamente abbattuta, così come il resto della sua famiglia: noi del 4 sappiamo tutti che l'idea di privarci del nostro cibo fa star male anche lui. Per questo, nonostante tocchi a lui fare il lavoro sporco, nessuno se la sente di essere veramente arrabbiato con il Sindaco: dopotutto, la colpa è solo di Capitol City e dei suoi crudeli e superficiali abitanti. Sollecitato dai Pacificatori, il signor Cresta comincia stancamente tutto il discorso di rito, ricordandoci che è solo per colpa della nostra ribellione durante i Giorni Bui se siamo costretti a subire tutto questo. E poi, la comunicazione finale: gli abitanti del 4 dovranno consegnare ai Pacificatori due tonnellate di pesce entro fine mese. Il che è un'assurdità: chi ha la fortuna di avere una barca può anche sperare di farcela a pagare il dazio e a sopravvivere, ma per coloro che vivono di molluschi raccolti a riva sarà impossibile saldare l'inestinguibile debito che abbiamo con la capitale e, allo stesso tempo, mangiare qualcosa.

Ma nessuno osa protestare: sappiamo bene che qualunque manifestazione di dissenso servirebbe solamente a procurare una pubblica fustigazione, quindi tutti annuiscono duramente. Ma solo ora noto che, in tutta la piazza, c'è qualcuno che ha un'espressione diversa: la figlia del sindaco. Sta a testa bassa, cercando di nascondere la maggior parte del viso sotto la lunga frangetta, ma l'oscillazione spezzata delle sue spalle lo indica chiaramente: la bambina sta piangendo.

Perchè, mi chiedo io? È una delle bambine più ricche della città, può persino permettersi di comprare dei dolci ogni giorno, non le mancherà di certo del cibo. E, di sicuro, le sue lacrime non serviranno per sfamare me e la mia famiglia. Come cavolo si fa ad essere così viziati? Ci considera alla stregua di piccoli cuccioli randagi, forse, di quelli che ti fanno venire voglia di accudirli fino a che non ti ricordi che, probabilmente, se li tocchi ti verrà la rabbia. Beh, cara figlia del signor Cresta, magari fosse la rabbia il nostro problema più grande! Di quella in giro ce n'è tanta, ma siamo troppo occupati a trovare un modo per non morire di fame per sfogarla.

Sono infuriato, mentre lascio l'assemblea e mi dirigo velocemente verso la spiaggia: devo calmarmi, non posso rischiare di fare qualcosa di stupido che metta in difficoltà la mia famiglia. Dopotutto, sono io il fratello bello e intelligente, no?

Lancio la mia maglietta logora sulla sabbia e mi getto fra le onde azzurre e verdi: solo il mare e mio padre riescono a farmi dimenticare di tutti i miei problemi. Nuoto a occhi aperti, ignorando il bruciore causato dall'acqua salmastra, facendo capriole ed avvitamenti: probabilmente è per questo che questa enorme distesa azzurra mi mette così di buon umore. Perchè sott'acqua i rumori esterni arrivano attutiti, come se fossero degli ospiti indesiderati, in questo mondo così tranquillo. Nuotando, mi sento libero di essere me stesso, ecco.

È allora che la vedo, sul fondale sabbioso: un'ostrica molto grande, di quelle che ti fanno pensare subito “Bene, qui ci deve essere una perla enorme!” La afferro e, immediatamente, ritorno a riva, avvicinandomi ad uno scoglio che non sembra troppo friabile. Sollevo il braccio con cui afferro l'ostrica, preparandomi a sfracellare bellamente il mollusco sulla roccia: probabilmente rimarrò a digiuno per giorni, tanto vale mettere sotto i denti qualcosa, visto che ne avevo la possibilità.

Ma qualcuno alle mie spalle non sembra essere troppo d'accordo. «Ti farai male, così.» Mi giro di scatto: la voce è infantile, non può essere quella di un Pacificatore, ma sono piuttosto sicuro che la mia azione violi almeno una dozzina di leggi, quindi decido di controllare comunque. Una bambina castana è in piedi dietro di me e mi fissa: il suo vestitino di raso rosa mi rivela che quella è la nostra piccola celebrità. La figlia di Cresta.

Sorrido amaramente, mentre le do le spalle e mi accingo nuovamente a rompere il guscio del mollusco. «Ma davvero? E tu che ne sai? Dubito che tu abbia mai dovuto mangiare un mollusco crudo!» Sollevo nuovamente il braccio, mentre la sento sospirare. «Fa come ti pare, ma non dire che non ti avevo avvisato.»

Ma chi si crede di essere, quella lì? Non mi faccio di certo insegnare da una mocciosa come procurarmi il cibo: farò a modo mio, come ho sempre fatto. Sollevo l'ostrica in alto, prima di sbatterla con tutta la mia forza sulla roccia. Niente. Riprovo: il guscio ancora non si è rotto, ma questa volta ha fatto un rumore strano, quindi sono abbastanza sicuro di esserci quasi. Al terzo tentativo, la parte inferiore della conchiglia si frantuma. Ottima notizia. Ma, a smontare il mio entusiasmo, uno dei pezzi rotti mi si conficca nel palmo della mano destra, con cui ho compiuto l'operazione. La mocciosa aveva ragione, pessima notizia. Cerco di soffocare un gemito di dolore, mentre controllo la ferita: sembra abbastanza profonda. E il fatto che un pezzo del mollusco vi sia rimasto dentro non contribuisce a rassicurarmi.

Sto cercando di non mettermi a piangere – insomma, sono pur sempre un maschio Odair -, quando sento che la bambina è arrivata al mio fianco. Mi prende la mano, rigirandosela con cura sotto il naso come se fosse qualcosa di estremamente interessante. «Sei un tonto, ma poteva andarti molto peggio. Almeno non ti ha trapassato la mano!» La guardo, leggermente risentito da quell'affermazione: mi sta sorridendo e, senza nemmeno rendermene conto, rispondo al suo gesto sorridendo a mia volta. Non l'avevo mai guardata da vicino, ma penso che sia una bambina carina: mio fratello ha cercato di farmi capire quali sono i gusti che dovrei avere in fatto di donne. Per la precisione, tutte quelle che, al posto del seno, hanno due meloni. Non lo so, forse ancora sono troppo piccolo per pensarla in questo modo, ma quella bambina mi colpisce subito: non posso fare a meno di pensare che abbia degli occhi stupendi. Sono verdi, ma più chiari dei miei, dello stesso colore degli enormi smeraldi che Annabelle Delacourt, l'irritante funzionaria di Capitol City che ogni anno viene al Distretto 4 per la mietitura, porta alle dita.

«Ma come, non mi dirai che ti fa schifo il sangue! Pensavo fossi un vero uomo, tu!» La piccoletta mi prende in giro: evidentemente, deve essersi accorta che mi sono imbambolato. Immediatamente, gonfio il petto, cercando di assumere la mia posa più virile. Ma quegli occhi verdi continuano a fissarmi, quindi io faccio quello che, in queste situazioni, mi riesce meglio: la figura del perfetto idiota. «S-schifo? N-no, assolutamente! Per chi mi hai preso?» Non so perchè, ma improvvisamente mi rendo conto di avere il fiatone: è come se stessi nuotando da ore senza mai fermarmi, con il cuore che sembra volermi sfondare il torace, da quanto batte veloce. Per tutta risposta, la castana scoppia in una risata cristallina, sincera. «Mi sarò sbagliata, probabilmente!» dice, facendomi abbassare lo sguardo, imbarazzato. Ma, ditemi, sentite così caldo anche voi? Credo di avere le orecchie in fiamme, quando la piccola si alza sulla punta dei piedi e si aggrappa alla mia spalla. «Non preoccuparti, mi prenderò io cura di te, ora.» Sempre che ci sia ancora qualcosa di cui prendersi cura, perchè nell'esatto istante in cui quella bambina mi sorride per la seconda volta in un minuto, quasi dimentico di avere la mano destra squarciata da una conchiglia.

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Capitolo 3
*** Finnick - Heal me with your holy touch. ***


 

Heal me with your holy touch.

La bambina continua a sorridermi, mentre io trovo sempre più difficile formulare un pensiero coerente: ovviamente, sto morendo dissanguato. Deve essere così, perchè io non ho mai avuto problemi a parlare con le altre ragazze, a scuola, nemmeno con le più grandi. Improvvisamente, la vedo distogliere lo sguardo dal mio, come se si fosse ricordata di qualcosa di così importante da esigere la sua immediata attenzione. Apro la bocca, come a voler dire qualcosa, ma è lei a precedermi: la sua voce ora è tranquilla e squillante. «Bene, grand'uomo, sei molto fortunato, sai? Già, perchè so esattamente cosa fare, ora. Ma prima dimmi qualcosa di te!» Sgrano gli occhi, sorpreso: ma a che gioco sta giocando?

Lei inarca un sopracciglio, incitandomi a parlare: sono un po' confuso, ma decido di darle retta. Lei sa cosa fare, dopotutto, no? «Mi c-chiamo Finnick, ho sette anni e... Ah, fa piano, che cavolo!» mi lamento, tirando via il braccio ferito dalle sue mani con uno scatto secco della spalla. Non capisco esattamente cosa abbia combinato fino a che non la vedo sventolare trionfante un frammento bianco di conchiglia, lungo almeno quattro centimetri, imbrattato di sangue.

La piccola si avvicina nuovamente a me, con fare incoraggiante. «Non fare quella faccia! Ti ho solo distratto un po' mentre io pensavo alla parte più dolorosa. Beh, forse non proprio la più dolorosa, ma...» «Frena, frena, frena! Cosa vuoi fare, adesso? Lo sai che quando si viene feriti, non si deve togliere l'arma dal corpo? Si può morire dissanguanti!» Mio malgrado, assumo lo stesso tono saccente che ho con mio fratello quando non riesce a capire un concetto elementare. Poi mi ricordo che, probabilmente, alla gente non piace sentirsi parlare in questo modo: perlomeno, a Nate non piace e mi picchia sempre quando “non gli porto il rispetto che un moccioso come me gli dovrebbe”. Ma la piccola è diversa: chiude gli occhi e sospira, quasi spazientita, mentre si porta le manine ai fianchi. «Ti sei tagliato con una conchiglia, dolcezza. Nessuno ha provato ad ucciderti, mi sembra.» Mugugno qualcosa di incomprensibile riguardante il fatto che quella che ho di fronte non è una bambina, ma un piccolo mostro travestito da poppante, ma lei non sembra farci caso, mentre mi afferra la mano ferita. Dopo qualche secondo, si morde il labbro, pensierosa.

«Ehm, scusa se ti interrompo, ma... Non sto morendo, vero?» le chiedo, cercando di assumere un tono neutrale e indifferente: perchè io NON ho paura del sangue. No, assolutamente. E poi rifletteteci: non posso mica essere meno coraggioso di una femmina. Insomma, non ha senso! «No, non preoccuparti!» ridacchia lei, rivolgendomi uno sguardo veloce prima di tornare ad occuparsi della mia mano. «Non stai affatto morendo, ma non vorrei che la ferita si infetti. Dobbiamo disinfettarla, vieni!» A questo sono già preparato: ho visto mio padre farlo centinaia di volte, quando si taglia con il filo da pesca. La mia curatrice si avvicina alle onde, formando una piccola conca con le mani e raccogliendovi un po' d'acqua salata. Che, ovviamente, non esita a rovesciarmi sulla ferita: improvvisamente, il bruciore aumenta d'intensità, ma questa volta riesco a non urlare e ad emettere solo un piccolo gemito. Ripete l'operazione più volte, la piccola, fino a che non pulisce completamente la ferita che, nel frattempo, ha smesso di sanguinare.

Ma non sembra soddisfatta: ha un'aria preoccupata, quasi dispiaciuta, mentre la sua presa piccola ma salda continua a bloccarmi il polso. Non riesco a capirla, dal momento che sembra cambiare umore ogni trenta secondi – insomma, prima fa la saccente, poi la gentile, poi la simpatica, puoi nuovamente la saccente e ora è triste -, ma sento lo strano desiderio di vederla sorridere di nuovo. «Ehi, che ti succede? Dovrei essere io quello preoccupato, ho appena rischiato di morire!» ridacchio, cercando di assumere un finto tono melodrammatico. So che probabilmente, a questo punto, lei mi prenderà in giro come ha fatto prima, ma non mi interessa più di tanto: è sempre meglio che vederla con quell'espressione abbattuta. Lei, comunque, non sembra prestarmi attenzione, perchè non solleva lo sguardo dalla ferita. «Ti fa ancora tanto male?» chiede, con un filo di voce.

È veramente preoccupata per me?” mi ritrovo a pensare, improvvisamente felice. Cioè, voglio dire, sorpreso, perchè uno non può essere felice perchè una conosciuta da nemmeno cinque minuti pensa a lui. Giusto? «No, non preoccuparti, va molto meglio!» mento: in realtà, credo che la ferita mi faccia più male di prima, ma non è colpa sua, è inutile che lo sappia. Le sollevo il mento con due dita, cercando di non spaventarla, per fare in modo che mi guardi. «Dico sul serio! Guarda come la muovo bene!» esclamo, aprendo e chiudendo le dita della mano ferita. Cerco di rimanere impassibile al dolore, ma non devo riuscirci molto bene: non appena la piccola mi guarda in viso, scoppia a ridere, nonostante abbia gli occhi leggermente lucidi. «Allora sono veramente brava!» dice, soddisfatta, prima di cominciare a guardarsi intorno concentrata.

Nemmeno questa volta riesco a capire cosa le passi per la testa, mentre si allontana da me e afferra qualche alga trascinata dalla marea sulla spiaggia. Ne osserva di vari tipi e colori, esaminandole accuratamente, prima di rigettarle tutte al proprio posto. Qualunque cosa stia cercando, la sua espressione corrucciata mi dice che non la trova. Alla fine si osserva le braccia fasciate dal suo bel vestitino rosa e scrolla le spalle. «C-che cosa stai facendo? Non vorrai mica farti un bagno, adesso!» So già che questa qui è un po' strana, ma quando la vedo togliersi il suo abitino di dosso mi lascia senza parole: completata l'operazione, si mette l'attaccatura della manica fra i denti e comincia a tirare con tutte le sue forze. Dopo qualche tentativo, le cuciture, per quanto ben fatte, cedono e la castana si ritrova fra le mani un vestito stracciato. «Perchè l'hai fatto?» chiedo, preoccupato: forse vuole farmi uno scherzo e mettersi a urlare, chiedendo aiuto e richiamando qualche Pacificatore, dicendo che l'ho aggredita. Sarei spacciato: i Pacificatori non sono proprio dei giocherelloni e non mi crederebbero mai, visto che lei è la figlia del Sindaco e, di conseguenza, è una delle poche persone che hanno il compito di proteggere.

Ma lei non urla: si avvicina ancora una volta a me e comincia a fasciarmi la mano con la manica del suo vestito. Incredibilmente, la piccola è bravissima: le sue dita si muovono abilmente intorno al palmo ferito, riuscendo in pochi secondi a creare un bendaggio coi fiocchi. So che, arrivati a questo punto, almeno un ringraziamento sarebbe carino, da parte mia, ma tutto ciò che faccio è rimanere a bocca aperta a fissare la bambina che finisce il suo lavoro e indossa di nuovo il suo abitino, ormai rovinato. Non riesco a capire cosa abbia in mente: insomma, nessuno può essere così gentile e non volere nulla in cambio, quindi decido di essere prudente e cercare di indagare.

«L'ho fatto perchè tu hai avuto la geniale idea di squarciarti la mano con un mollusco. Questo tipo di ferite ha bisogno di una fasciatura, se non vuoi rischiare un'infezione. E ti assicuro, non è un bello spettacolo.» risponde lei, secca, alla domanda che le ho posto qualche secondo fa. Non accenna a porre condizioni, ne a chiedermi di fare qualcosa in cambio, quindi decido che è il mio momento di dire qualcosa. «Grazie, ma... Il tuo bel vestito...» non riesco a terminare la frase, quindi abbasso lo sguardo, imbarazzato: probabilmente i suoi genitori si arrabbieranno parecchio, visto che quello non sembra il genere di abito che una comune ragazzina del Distretto 4 potrebbe permettersi di indossare, in un giorno qualunque. Lei aggrotta un sopracciglio, come se non capisse di cosa parlo, per poi ridacchiare nervosamente. «Oh, beh, non preoccuparti, tanto non mi piaceva tanto...»

Capisco che sta dicendo una bugia: il suo tono è troppo simile a quello che uso io quando, dopo un magro pasto a base di radici, dico a mia madre di essere pieno come un uovo per non farla preoccupare. Mi sto sforzando di trovare qualcosa di intelligente da dirle, quando una presa salda e forte mi afferra la spalla e mi scaraventa all'indietro: cerco di mantenere l'equilibrio, ma la spiaggia sabbiosa non mi aiuta e finisco con la schiena a terra. Cerco di rialzarmi in fretta, ma quando vedo la canna di un fucile a luce solare a due centimetri dal mio naso, capisco che fare movimenti troppo bruschi non sarebbe così intelligente da parte mia. Un uomo che indossa un pesante mantello bianco mi osserva con disprezzo, quasi fossi un criminale fuggito di galera. Un Pacificatore. «Che diavolo stai facendo qui, ragazzino?» Mi dice, avvicinando la sua arma al mio viso: ormai deve essere a pochi millimetri dalla fronte. «I-io... Beh, ecco, io...» “Pensa, Finn, pensa a qualcosa di credibile!” mi dico, cercando di far funzionare il cervello. Non posso dire che sono venuto qui a cercare del cibo, o mi ucciderà. «Posso spiegarle io, signore.» La voce della bambina è rotta dal pianto e solo allora capisco di essere completamente fregato. Non avevo fatto i conti con lei: non è cattiva, ma non ha mai dovuto aver paura dei Pacificatori. Anzi, di sicuro li considera come delle guardie del corpo: racconterà tutto a quest'uomo e io mi beccherò una ventina di frustate in piazza. Se tutto va bene. «M-mi ero arrampicata su uno scoglio. Io credevo che fosse divertente, capisce? Ma arrivata in cima mi sono spaventata e non sono più stata capace di scendere! Io, oh, ho avuto così paura!» esclama, scoppiando in lacrime, abbracciando le ginocchia del Pacificatore.

Non so veramente cosa dire: quasi quasi ho voglia di mettermi a piangere pure io e di gettarmi ai suoi piedi. Ma la canna del fucile è ancora troppo vicina alla mia bellissima faccia per rischiare di muovermi. «Tranquilla, piccola. Ma dimmi, lui cosa c'entra?» Mi stupisco di quanto il tono del Pacificatore sia conciliante, con lei: ma dopotutto, sta sempre parlando con la figlia del Sindaco Cresta. Non esiterebbe a ucciderla, se ce ne fosse bisogno, ma i funzionari di Capitol City ci tengono parecchio alle apparenze. «Questo bambino è arrivato e mi ha trovata là sopra. Allora si è arrampicato anche lui e mi ha aiutata a scendere! La prego, non gli faccia del male, è stato così buono!»

È incredibile: sembra veramente che sia andata così, a giudicare dalla sfumatura di paura che trapela dalla sua voce. Il Pacificatore sembra bersela, perchè allontana leggermente il fucile dalla mia faccia. Ma quando parla, il suo tono di voce è nuovamente duro. «E allora dimmi, piccola, perchè il tuo abito è rovinato?» Sembra una domanda casuale, ma non ci vuole un genio per capire che il Pacificatore non è pienamente convinto della storia. Panico. Anche negli occhi della mia piccola salvatrice, per una frazione di secondo, vedo scorrere una scintilla di terrore. Mi guarda, emettendo un piccolo verso dalla bocca leggermente dischiusa, come se stesse cercando la soluzione di un quesito di cui non conosce la risposta. Sto per confessare tutto: non posso permettere che, dopo quello che ha fatto per me, le succeda qualcosa. Dopotutto, io ho infranto la legge e io ne pagherò le conseguenze. Sto per cominciare a parlare, quando lei mi rivolge uno sguardo assassino: ha capito le mie intenzioni e, silenziosamente, mi sta lanciando un messaggio chiarissimo. “Prova-a-dire-una-sola-parola-e-ti-conviene-sperare-che-i-Pacificatori-ti-uccidano-altrimenti-lo-farò-io”. Senza smettere di guardarmi, la vedo rilassare le guance, prima che ricominci a parlare, con un tono leggermente indispettito. «Ma come, non lo sa? I vestiti asimmetrici sono l'ultima moda di Capitol City. Ma sono sicura che un uomo del suo calibro sia già a conoscenza delle ultime tendenze, vero?» Quella bambina è mostruosa. Davvero, sembra un'adulta, mentre fissa il Pacificatore con circospezione: l'uomo tossicchia, leggermente imbarazzato, borbotta delle scuse incomprensibili e se ne va velocemente. Sono letteralmente allibito, non ho mai visto nessuno sbeffeggiare in questo modo uno di quei tizi: questa deve essere, probabilmente, la bambina più coraggiosa che sia mai esistita in tutta la storia di Panem.

La sento sospirare di sollievo, quando l'uomo si è allontanato così tanto da essere diventato invisibile: improvvisamente, sembra che tutta la sua forza l'abbia abbandonata, mentre si lancia addosso a me e mi abbraccia, affondando la testa nel mio petto. «Sai, gran fusto, adesso sì che puoi dire di essere stato vicino a farti ammazzare.» bofonchia. Non posso fare a meno di scoppiare in una risata liberatoria, mentre, goffamente, le cingo la schiena con le braccia. «Dai, ti riaccompagno a casa!» le dico, slacciandomi dall'abbraccio e prendendole la mano. È un gesto che compio senza pensare e, quando mi rendo conto di ciò che ho fatto, sento nuovamente le orecchie andarmi a fuoco; lei comunque non fa niente per farmi capire che le dispiace, quindi non mollo la presa. «Sai, è un po' inquietante che una bambina della tua età sia così brava a dire le bugie, te l'ha mai detto nessuno?» dico improvvisamente, per rompere un silenzio che si sta facendo imbarazzante. Questa volta è lei ad abbassare lo sguardo, leggermente a disagio. «Non mi piace mentire, ma papà dice che qualche volta è giusto dire le bugie, se la verità può fare male a qualcuno.»

Mi torna alla mente quello che, poco più di un'ora prima, avevo pensato di quella bambina. Viziata, volubile, debole. Scuoto la testa e sorrido, pensando a quanto mi fossi sbagliato. «Qual è il tuo sogno?» mi chiede, interrompendo il flusso dei miei pensieri. La guardo come se fosse una strana creatura con otto braccia. Che domanda è? “Ti ha salvato la vita, Finn, il minimo che le devi è un po' di educazione!” mi dico, mentre cerco di trovare una risposta decente. «Non lo so, non ci ho mai pensato...» dico, semplicemente. Le sue labbra si stringono: la risposta non l'ha soddisfatta. «Il mio sogno è diventare una guaritrice.» dice, all'improvviso. «Sì, insomma, aiutare quelli che ne hanno bisogno, come ho fatto con te prima. Sento che è questo quello che voglio. E dovresti trovarti un sogno anche tu. Sai, mia mamma dice che solo quando si smette di sognare, si comincia a morire.» Lo dice con semplicità: di sicuro è una di quelle frasi che le madri tramandano alle figlie per generazioni. Mia mamma potrebbe scriverci un libro, con tutte queste sentenze. Ma quella mi colpisce particolarmente. Rimango in silenzio a pensare, stringendo sempre la sua mano, fino a che lei non interrompe, per la seconda volta, i miei pensieri. «Beh, io sono arrivata, quindi, beh... Ciao, Riddick!» Roteo gli occhi al cielo, un po' innervosito. «Mi chiamo Finnick, non Riddick!» Nonostante io odi che si storpi il mio nome, questa volta non posso fare a meno di sorridere. La bambina sta già percorrendo il vialetto di casa sua, quando mi rendo conto che devo assolutamente chiederle una cosa. «Ehi, aspetta, non mi hai detto la cosa più importante!» la richiamo a bassa voce, cercando di non attirare troppo l'attenzione degli altri abitanti della casa. Dopotutto, suo fratello è un bestione più grosso di Nate e io voglio abbastanza bene al mio riflesso allo specchio. Sì, insomma, è un tipo forte, mi dispiacerebbe cambiargli i connotati.

Ma lei mi sente e si gira verso di me, curiosa. «Che cosa?» Ancora una volta, il suo sorriso mi colpisce come un cazzotto alla bocca dello stomaco. «Il t-tuo nome.» balbetto senza fiato, distogliendo lo sguardo da quegli occhi verde smeraldo così brillanti. «Annie!» esclama contenta, come se dicendomelo si fosse tolta un peso dalle spalle. Chissà perchè, la cosa mi sorprende. Mi sarei aspettato un nome nobile, altisonante, lungo. Non di certo Annie. “Le sta bene, però!” mi ritrovo a pensare, sorridendo. «Allora, Annie, c'è una cosa che ho bisogno che tu sappia.» Ora non ho più paura. Qui non si tratta più di discorsi personali, ma di orgoglio. Lei non parla, ma la sua espressione mi incita a continuare.

«Sono in debito con te. Sì, insomma, per prima, cioè, sì, hai capito. Ti devo un favore. Forse anche più di uno. Okay, sì.» Non so cosa mi prenda, ma pronuncio questo semplice concetto a scatti, come farebbe un disco che sta per rompersi. Lei scoppia a ridere, come se quello che le ho detto fosse la barzelletta più comica del mondo. Con chiunque altro mi sarei arrabbiato, ma non con lei: la sua è una risata troppo innocente per essere di scherno. Quando si riprende, si appoggia il mento nell'incavo fra il pollice e l'indice della mano destra, assumendo una posa riflessiva. Cammina nella mia direzione, mentre pensa a cosa può ottenere da uno come me. Deve aver capito che non scherzo e che farò ogni cosa che lei mi chiederà. «Adesso che ci penso, sì, ci sarebbe una cosa che vorrei che tu facessi.» La guardo, un po' spaventato da tutto quel mistero: spero che non mi chieda di correre in piazza nudo. Sono veloce, ma se qualcuno mi riconoscesse sarebbe veramente imbarazzante. Ma quello che Annie mi chiede mi coglie ancora più di sorpresa. «Ti andrebbe di essere mio amico? Sì, insomma, ho cinque anni, ancora non vado a scuola e sto sempre a casa da sola! Mio fratello non gioca mai con me e, ecco, se tu ne hai voglia, qualche volta...» Questa volta, è lei a distogliere lo sguardo dal mio, mentre, imbarazzata, comincia a fissarsi le scarpe. E questa volta, sono io a scoppiare a ridere, sollevato. «Certamente, Annie, sarà un vero piacere!» le dico, prima di scoccarle un sonoro bacio sulla guancia, voltarmi, e correre a casa. È strano, solitamente non faccio amicizia con le ragazze, perchè sono noiose e parlano solo di bambole e pony. Insomma, i maschi sono molto più divertenti: si può giocare a calcio con le pigne oppure fare le gare di nuoto. Ma questa volta, non mi è costato niente accettare l'amicizia di una bambina, peraltro più piccola di me.

Perchè quella che mi era sembrata una mocciosa viziata, volubile e debole, è in realtà, la ragazzina più gentile e coraggiosa di Panem. E vuole essere mia amica. Che altro mi serve per essere contento?

 

RID'S MEMOS:
Grazie mille a chiunque abbia recensito la storia o l'abbia messa fra le seguite!
Scrivere di questi due è veramente una cosa esaltante, anche perchè sono troppo belli come coppia. 
Sappiate che qualsiasi recensione, tanto positiva quanto negativa, è assolutamente ben accetta! 
Una domanda: voi chi immaginate come "volti" di Finn ed Annie da bambini? E da adolescenti? E da adulti? 
Fatemi sapere, grazie mille a chiunque abbia avuto il coraggio di arrivare fin qui! ;)

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