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di _MoonShine_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Dreams ~ Sogni ***
Capitolo 3: *** Voice ~ Voce ***
Capitolo 4: *** Words ~ Parole ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO
 

Quando arrivai a Elbereth avevo solo dieci anni. Io e mia madre traslocavamo da villaggio in villaggio molto spesso. Lei era un’abile cuoca, ma si sa, quando l’economia in un paesino cala si perde il lavoro. Iniziammo questo girovagare poco dopo la mia nascita, i miei genitori non erano mai andati d’accordo stando a quello che diceva mamma, lui era un uomo terribile. Mi raccontava di quanto fosse falso e calcolatore, di come la trattava, la tradiva sempre. Mia madre non poteva sentirlo nemmeno per nome, era per questo che io avevo ereditato il cognome da lei. Fine Nar Caranthir, così mi chiamò mia madre, non voleva nemmeno saperne che io avessi qualcosa a che fare con mio padre, neanche una lettera.
Nar Caranthir, mi è sempre piaciuto tutto sommato, significa “sole dal volto rosso”, ne sono sempre andata fiera, in qualche modo rappresentava sia caratterialmente sia esteticamente me e mia madre. Chissà se anche il capostipite dei Nar Caranthir aveva i capelli rossi come i nostri e aveva preso spunto proprio da questi per il suo cognome.
Mamma non mi aveva mai nascosto nulla, fin da quando ero piccola mi parlava di papà, lei aveva deciso di chiudere ogni rapporto con quell’uomo che considerava come una bestia, lo odiava, al solo nominarlo si innervosiva rovinandosi la giornata. Solamente una volta mi disse il suo nome, poi non lo pronunciò più. Thilgon, era così che si chiamava. Lo avevo sempre considerato un nome strano ma in un certo senso affascinante, anche se ogni volta che accennavo alla mia opinione, mia madre malediva il suo nome allungandolo con qualche insulto poco delicato. Non so come abbia potuto amarlo se poi ci trovava così tanto gusto a parlare male di lui.
Nonostante ciò, mi aveva sempre detto che se avesse avuto la possibilità di tornare indietro nel tempo avrebbe rifatto le stesse esatte cose. Perché alla fine, dall’unione con quell’uomo ero nata io. Diceva sempre che ero il suo sole, la sua vita. E io cercavo sempre di non deluderla, di riempire le sue giornate di gioia cercando, oltre all’amore di una figlia, di sostituire anche l’affetto di un uomo. E lei faceva di tutto per non farmi sentire la mancanza di un padre. Ma sinceramente non avevo mai avuto bisogno di una figura paterna in questi quindici anni e credo che non ne avrò bisogno mai. In fondo a cosa serve un padre se hai una madre magnifica che si impegna in tutti i modi per renderti la vita la migliore di tutte pur non essendo ne nobile ne impercettibilmente benestante? Io e lei eravamo ognuna la vita dell’altra, eravamo sempre state insieme e io le dicevo tutto, non c’era una punta di un capello che lei non conoscesse di me. Avevamo sempre fatto le cose assieme, sempre e in ogni villaggio in cui avevamo vissuto.
Mia madre in ogni posto in cui ci stabilivamo apriva sempre una piccola bottega dove cucinava i suoi dolci speciali e preparava il pane, era un’ottima cuoca e per mia fortuna potevo sempre mangiare ciò che volevo e quando volevo, certo anche se a volte quando mangiavo di nascosto qualcosa della sua bottega se ne usciva sempre con una ramanzina mica male. Ma tutte quelle locande erano state poi destinate a chiudere.
Anche quando venimmo ad abitare qui ero certa che in pochi mesi avremmo cambiato di nuovo villaggio, soprattutto perché Elbereth era un ammasso di casette con circa duecento abitanti, forse meno, nella valle di Narwain, detta anche “Valle del Nuovo Sole”. Era isolato dal resto del mondo, circondato da boschi, valli e monti, poco più a est c’era la costa di un immenso oceano blu.
Mi era piaciuto subito, era accogliente e molto tranquillo, ci si conosceva tutti, e ognuno si dava da fare per mantenere la quiete e il benessere nel villaggio. Non aveva mura attorno, era a pieno contatto con la natura che lo circondava.
Le case erano tutte di legno e di mattoni, molto curate e colorate con fiori selvatici. Non avevano più di tre piani compresa la soffitta, l’edificio più alto era la biblioteca. I tetti si scorgevano da lontano, erano di tegole rossicce sbiadite ma abbastanza visibili, mentre i muri ben puliti di ogni tinta di bianco e grigio, con accurate rifiniture in legno.
Le strade erano in pietra, i gradini delle piccole scale nelle vie in salita per via del rilievo su cui sorgeva il villaggio non erano del tutto regolari, ma molto ben fatti con pietre di ogni genere.
Nella piazza principale c’erano diverse botteghe, una per ogni specialità. Tutti conoscevamo l’artigiano di ogni cosa, per esempio, all’angolo con la via che portava verso la Biblioteca c’era la bottega del fabbro Mich. Invece esattamente alla destra del centro della piazza si ergeva il panificio della signora Helen, una donna molto dolce e gentile, teneva sempre i capelli grigi in un basso shignon come una brava nonna. Ogni volta che andavo da lei mi regalava sempre una pagnotta in più. Accanto c’era invece il calzolaio e a seguire la pasticceria di mia madre. E così via, si susseguivano tutti i negozi del villaggio, molti anche nascosti tra le vie più piccole, come quello del falegname, il signor Dival.
Appena mia madre aprì la sua locandina le dissi di non affezionarsi troppo, tutte le volte che dovevamo lasciare un villaggio lei si faceva sempre lunghissimi pianti per il dispiacere di abbandonare la bottega. Ma questa volta sembrava non voler accadere una cosa simile. Imparammo a vivere lì a Elbereth, ci trovammo bene, molto bene. Inizialmente cercavo di non legarmi troppo alla gente e ai posti più belli di quel villaggio, ma alla fine cedetti: le cose andavano alla grande e sembrava non essere necessario cambiare luogo dove vivere.
Passarono cinque anni, il periodo più lungo che io abbia passato in un posto solo. Ma la cosa non mi dispiaceva per niente, consideravo Elbereth il villaggio migliore che avevamo abitato, e anche la gente era fantastica.
Mamma mi aveva iscritta alla scuola del villaggio, avevo fatto subito amicizia con tutti, i ragazzi erano persone per bene, anche se a volte il gruppo più allegro e dispettoso si divertiva a indispettire la vecchia  megera del villaggio che non mancava mai. E sì, in quel gruppo c’ero anche io. Mamma considerava la signora Hildegard una povera nonnina vedova, che non avendo più l’affetto dei suoi cari si divertiva a fare la pettegola con le altre anziane del villaggio, io invece ho sempre creduto che fosse solo una donna con un pessimo senso dell’ironia.
Anche mia madre conosceva ormai tutti nel villaggio. E posso dire con soddisfazione che era amata da tutti, sia per il suo carattere aperto e generoso, sia per la sua ottima capacità di cucinare prelibatezze di glassa, crema e quant’altro. Lei era felice, si vedeva che finalmente aveva trovato il posto e la vita che facevano per lei e io ero grata per questo. Anche se Elbereth non mi fosse piaciuto credo che non avrei mai avuto il coraggio di dirlo a mia madre, lei avrebbe messo da parte la sua felicità per farmi felice e cambiare ancora abitazione. Ricordo bene il giorno in cui a sei anni ce ne andammo da un villaggio perché ero convinta fosse infestato dai fantasmi. Dopo qualche giorno che ci eravamo stabilite nel “paese posseduto”, ero corsa verso una vetrina molto ricca di oggettini di ogni tipo. Il mio dito puntava verso un gruppo di pupazzi e i miei occhi fissavano al di là del vetro un folletto di peluche color indaco con uno strano copricapo e un mantellino scuro. Mamma era titubante, ma alla fine la obbligai ad entrare. Ricordo bene le sue parole: -Fine, è troppo caro- mi aveva liquidata uscendo per poi rientrare e tirarmi per una mano vedendo che non mi ero mossa.
Il giorno dopo andai da sola a fare un giro per la stessa via. Mi fermai a guardare il peluche e vidi al di là della vetrina il vecchio proprietario dalla particolare abbronzatura, se abbronzatura si poteva chiamare un verdognolo scolorito, farmi cenno di entrare con un dolce sorriso. E io, ingenuità di bambina, lo feci.
Gli dissi che mi piaceva quel peluche a forma di folletto blu, ma che era caro così non potevo comprarlo. Quell’uomo fece qualcosa che non mi sarei mai aspettata: me lo regalò. Disse che non c’era alcun bisogno di pagarlo perché era destinato a me, doveva essere mio amico. Io non avevo obbiettato, volevo quel pupazzo e così lo ringraziai milioni di volte ma senza mai dire “ no, non posso accettarlo”, in fondo ero solo una bambina.
Ma dopo quell’episodio convinsi mia madre a partire di nuovo: il giorno dopo che ricevetti quel peluche in quel grazioso negozio, l’edificio non c’era più. C’era un enorme spiazzo di terra vuoto nell’esatto punto dove sorgeva quella piccola bottega di artigianato, e la cosa non era umanamente possibile. Penso che fu il momento più terrificante della mia vita, un edificio di pietra con un simpatico proprietario dalle orecchie un po’ troppo allungate per essere normali, perché sì, le avevo notate, erano spariti nel nulla. O forse no, nessuno in quel villaggio ne avevano mai sentito parlare, non avevano mai visto nemmeno il suo negozio. Sostenevano che mi ero sbagliata. Ma io lo sapevo che quell’uomo e quel negozio erano veri, io ci ero entrata. Così mi arresi alla credenza che dei fantasmi avessero rapito l’uomo con la bottega intera. Poi ipotizzai che quell’uomo era lui stesso un fantasma.
Lì, mia madre, vedendomi terrorizzata e incapace di uscire di casa, decise di partire ancora, ero grata alla mamma per questo, il dubbio e lo spavento non mi erano ancora spariti. Restava il fatto che da quel giorno, Fil, il folletto di peluche, rimase sempre con me, era il mio oggetto preferito, il mio amico a cui potevo dire tutto quando mamma non c’era. Anche ora è sulla mensola sopra la mia scrivania, pronto ad ascoltare ogni cosa che io abbia da dire.
Qui a Elbereth per mia gioia non incontrai nessun fantasma, almeno non in questi cinque anni. Ma una cosa strana c’era davvero: Rein Marillie Gaerys.
Lei era una ragazza della mia classe, posso benissimo definirla la mia migliore amica. È una di quelle persone con cui ho legato subito appena arrivata, è stata la prima a condividere con me la sua merenda il primo giorno di scuola a dieci anni. Anche se poco, in questo lustro di tempo ha saputo tutto di me, credo abbia imparato a conoscermi fin troppo bene, che sappia più cose di me di quanto ne sappia la sottoscritta. Ma posso dire con orgoglio la stessa cosa, lei è un libro aperto per me. Conosco ogni sua abitudine, ogni suo gusto e ogni suo hobby. Dopo mia madre, è la persona che conosco meglio, non mi nasconde mai nulla, tutto quello che sa lei lo so anche io. Mia madre è sempre andata matta per quella ragazza, penso che abbia iniziato a considerarla come una sua seconda figlia dopo tutte quelle volte che Rein è stata a casa nostra. Non mi ha dato per nulla fastidio il loro rapporto, ero felice che mamma andasse d’accordo con i miei amici, ed ero anche contenta per Rein, sua madre morì quando aveva solo quattro anni, ma anche se non ha mai sentito la mancanza materna, credo che le faccia piacere avere una donna con cui ridere e che le prepari spesso i dolci, ma soprattutto che vada molto in simpatia con suo padre, Tolouse Marillie Gaerys. Lui è esattamente la copia di Rein, un brav’uomo, la cosa che mi piaceva più di lui erano i suoi occhi turchesi, come quelli di Rein. Lei come da tradizione prese il cognome da lui, significava “perla della schiuma di mare”, quel nome mi ricordava molto il color oceano dei loro capelli.
Mia mamma e suo padre avevano fatto amicizia subito, parlando inizialmente di noi per poi passare a qualsiasi argomento, anche il più futile. E questo perché si piacevano tanto, o almeno questo è ciò che continuammo a sostenere io e Rein. Molte volte avevamo cercato di combinare un appuntamento tra quei due finendo poi per ricevere un “Fatevi gli affari vostri”. Sia a me che a Rein non dispiaceva l’idea che quei due si mettessero insieme, non perché sentissimo il bisogno di avere quel genitore mancante che era il rispettivo dell’altra, ma perché si vedeva che andavano pazzi l’uno per l’altra, ma nessuno aveva il coraggio di fare il primo passo. E poi io e Rein saremmo potute diventare due specie di sorelle. Tutti nel villaggio sostenevano che Elza e Tolouse sarebbero stati una bella coppia, ma ahimè, credo che avrebbero dovuto aspettare ancora una decina d’anni prima di assistere al loro matrimonio o almeno alla prima dichiarazione.
Ma relazioni a parte, c’era una cosa davvero inquietante nel mio rapporto con Rein: lei aveva un peluche uguale al mio. Ero convinta di essermi lasciata alle spalle la faccenda del signore scomparso con la bottega, ma la prima volta che andai a casa della mia nuova amica credetti che la mia vita fosse stata segnata da una morte sicura a dieci anni. Eravamo bambine, all’inizio ci spaventammo, ma alla fine lo prendemmo come uno scherzo del destino che aveva voluto che ci incontrassimo. Il suo folletto di peluche era bianco, con un copricapo molto simile a quello del mio. Rein mi raccontò di averlo trovato davanti alla porta di casa sua quando compì sei anni, la stessa età che avevo io quando lo ricevetti. Non sapeva chi lo avesse messo lì o se fosse stato perso, anche se la cosa era poco plausibile.
Io le raccontai di come avevo avuto il mio, ma Rein non ebbe mai la mia stessa reazione, non credeva ai fantasmi, era molto più coraggiosa di me che potevo ritenermi la regina delle fifone. Già dopo qualche giorno però non ci pensammo più, anche se ogni volta che una andava a casa dell’altra a passare la notte si portava dietro il folletto, era una specie di usanza, per stare solo noi quattro. Anche lei faceva le stesse cose che facevo io con il mio folletto Fil, gli raccontava tutto come se fosse la sua coscienza. Il suo si chiamava Rin, era buffo come entrambe avevamo dato al rispettivo peluche un nome che ricordava i nostri.
Eravamo coscienti che fossero solo pupazzi, ma nonostante ciò rimanevano i nostri fedeli compagni anche ora a quindici anni, i nostri piccoli tesori che all’infuori di mia madre e suo padre nessuno aveva mai visto.


Prossimo capitolo: Dreams ~ Sogni






Prologo dedicato ad Alice, gliel'ho promesso ^^
Ok, ora vi starete chiedendo per quale assurdo motivo arrivo io bella tranquilla con una nuova storia. Beh mi è venuta di colpo l'ispirazione! E poi The Damned Kiss ormai è quasi al termine, due o tre capitoli massimo, quindi mi dedicheò a My sky, your World che la devo finire e a questa.
Inizio con il dire che sono consapevolissima che questa storia magari non avrà un successone perchè è incentrata su Fine e Rein e non sull'amore, però spero che vi piaccia. Ci tenevo tanto a fare una storia così, le vere protagoniste sono loro e non quel bell'imbusto di Shade che le fa litigare!
E' un fantasy, e l'argomento principale sono le avventure delle due ragazze. Poi ovviamente ci saranno i due fighetti, sicuro, ma non subitissimo.
So che sono noiosa ma volevo dire una cosa: il villaggio che ho descritto me lo immagino simile a quello di Fairy Oak (ma voglio precisare che la storia non c'entra assolutamente nulla con quella saga), e che il modo di vestire è sempre tipo quello di Fairy Oak, ma anche un po' tirolese.. non so se avete presente. Scuste, ma io se so tutti i particolari mi immedesimo meglio nella storia xD
Beh, credo di aver finito. Non so quando potrò aggiornare. Magari prima mi impegno a finire The Damned Kiss, così poi ho una fic in meno.
Spero di avervi un po' incuriosite, ditemi i vostri pareri, tutto, consigli, critiche, quello che volete! ;)
Buona serata 
Ross
 

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Capitolo 2
*** Dreams ~ Sogni ***


Dreams ~ Sogni
 

La valle di Narwain era un luogo molto soleggiato nella stagione estiva e primaverile, ma durante l’inverno e per gran parte dell’autunno diventava un vero e proprio insieme di ghiacci e nevi. Fortunatamente quest’anno non c’era stato alcun disastro tipo valanghe o fenomeni simili nella valle, e il nostro villaggio era sopravvissuto bene al gelo. La primavera era passata abbastanza lentamente, riempiendo tutti i rami spogli di fiori profumati e gli spiazzi gelati in prati verdeggiati. Si respirava un’aria calda ma rinfrescante allo stesso tempo, le fragranze dei fiori vagavano nel vento inebriando tutta Elbereth.
Questa era la stagione preferita della fioraia del villaggio che poteva ottenere diversi profumi dai fiori che vendeva. Diciamo che tutti i cittadini erano pressoché soddisfatti, potevano coltivare i loro orti e ottenere buona verdura. Anche mamma adorava la primavera, tutti gli anni la attendeva con impazienza per vedere spuntare i primi boccioli delle piantine che coltivava nella piccola serra nel giardino sul retro di casa nostra, se “giardino” si poteva definire un pezzo di prato di quattro metri per cinque. Avevo sempre sostenuto che sarebbe stato meglio mettere la serra a lato della casa, vicino al nostro orticello, nel vero e proprio giardino, ma la mamma aveva preferito dedicare quello spazio solo alle nostre verdure e a un albero a cui erano attaccate due altalene.
Con la fine di questa colorata e profumata stagione si stava avvicinando anche il caldo tipico dell’estate, e con essa anche la fine della scuola, ma ahimè, mancava ancora un mesetto.
Intanto noi giovani ragazzi obbligati a frequentare quel vecchio edificio scadente ci consolavamo con il fatto che qualche giorno dopo la fine della scuola ci sarebbe stata come da tradizione la festa dell’estate del paese. A metà di ogni stagione si organizzava qualcosa, le vie si riempivano di bancarelle e la piazza principale veniva occupata da grandi tavoli dove ognuno portava qualcosa da mangiare, come un buffet. Queste feste duravano per una settimana, quando arrivava la sera ognuno incartava e riparava i cibi e si ritirava nelle proprie case riprendendo la festività il giorno dopo. In inverno invece durava solo due o tre giorni per evitare inconvenienti con la neve e il gelo, ma di solito non si portavano cibi, ma solo cioccolate calde o tazze di tè da bere in compagnia ornati di sciarponi e cappelli di lana.
Era divertente, a noi ragazzi piaceva girovagare tra le bancarelle e stare fuori tutto il giorno spesso indossando vestiti tipici della tradizione. Quindi ne valeva la pena di finire quel mese di scuola per poi dedicare un’intera settimana a quell’allegra festicciola seguita poi dalle vacanze estive.
Rein faceva già progetti sull’abito che voleva indossare l’ultima sera. Solitamente all’ultimo giorno di quella famosa settimana si accendeva un focolare in piazza e si ballavano danze e mangiavano dolci fino a quando gli occhi ti permettevano di vedere e le gambe di stare in piedi e sveglio.
Tutti gli anni era Rein che sceglieva e disegnava gli abiti che dovevamo indossare, era la sua occasione per farmi mettere vestiti un po’ più eleganti di quelli che occupavano il mio armadio. Lei era sempre stata molto devota ai colori e ai modi di vestire, una volta le chiesi consiglio su cosa indossare il primo giorno di scuola a tredici anni. E lì imparai che non dovevo assolutamente farle una domanda simile se non volevo passare l’intera notte ad ascoltare i suoi abbinamenti tra gonne, camicette e giacchini.
-Lo voglio indaco- diceva quella mattina mentre andavamo verso scuola. Gesticolava disegnando in aria la forma che dovevano avere la gonna e le maniche. Non invidiavo la signora Yamhul, la sarta di Elbereth, doveva essere un inferno accontentare le richieste complicate e perfettine di Rein, ma lei c’era sempre riuscita, per questo Rein cercava di tenersi buona come amica la figlia, Mirlo, così da avere spesso sconti dalla madre sarta con la scusa di essere un’amica stretta della figlia.
Arrivammo a scuola che molti compagni erano già lì, c’erano tre classi del nostro anno e noi eravamo sempre state nella stessa sezione. Arrivate in classe ci sedemmo ai banchi perdendoci nei discorsi da tipiche sognatrici che immaginano la festa d’estate di quest’anno.
-Pensa, potrebbe essere la volta buona che mia mamma e tuo padre si decidano a dichiararsi- risi non pensando a ciò che avevo appena detto. Ormai quasi ogni settimana quella frase usciva spontanea o per abitudine, o dalla mia bocca o da quella di Rein.
-Già, magari l’ultima sera, davanti al focolare, con la musica e al chiaro di Luna- continuò lei unendo le mani al petto e guardando il soffitto come se vedesse immagini di Elza e Tolouse in momenti romantici. Lei era così, credeva nell’amore, nel romanticismo e che un giorno avrebbe sposato un vero principe. Erano sogni da bambina è vero, ma la apprezzavo, non si vergognava di dire in cosa credeva, e poi almeno lei aveva un sogno. Io no, cioè non ci avevo mai pensato, diciamo che l’unica volta che avevo detto una frase del tipo “Da grande sarò..” era stato a sette anni quando presi in mano per la prima volta una spada di legno: “Voglio imparare a combattere con questa”. Da quella volta mi piace maneggiare spade, ovviamente di legno. Mamma non mi ha mai permesso di averne una vera, dice che sarei capace di infilzarmi da sola inciampando. E poi anche Rein sostiene che sia molto poco femminile. Ma non mi è mai importato, mi sono sempre divertita a giocare agli spadaccini con i ragazzi del villaggio, e posso dire di essere molto brava, beh sempre parlando di spade di legno.
Quelle otto ore di scuola finalmente passarono, meno male che c’era un intervallo di trenta minuti, altrimenti penso che mi farei una bella collassata ogni giorno, chi le regge otto ore di cui due di matematica con quella professoressa simile ad un avvoltoio che riesce sempre a capire quando hai copiato?
-Rein- la richiamai uscendo da scuola. Ci dirigemmo verso la piazza, quando non avevamo tanti compiti ci piaceva allungare la strada -E se chiedessi al signor Mich di farmi una spada?-
La vidi voltarsi verso di me con un sopracciglio leggermente più in alto dell’altro e un’espressione dalla quale capii che era meglio se non le avessi detto nulla.
-Che?- mi disse sorprendendomi del fatto che non avesse urlato come suo solito quando le facevo domande simili -Una spada vera? Non dirai sul serio!-
-Andiamo, che c’è di male? Lo sai che ne ho sempre..-
-Oh Fine, quante volte ti ho detto che le armi non sono adatte ad una ragazza?!- mi interruppe fermandosi. Eravamo arrivate nel centro del villaggio, vicino alla fontana circolare costeggiata da tre gradini che portavano alla parte superiore della piazza dove vi era la pasticceria di mia madre. Entrammo spingendo la porta e facendo suonare le piccole campanelle appese allo stipite.
-E io quante volte ti ho detto che non mi interessa?-
Lasciammo il nostro discorso da parte sentendo mia madre dietro al piccolo bancone in legno ridere dolcemente -Non starete come ogni anno parlando dei vestiti per la festa d’estate?-
-No, mamma- sorrisi io pensando che in effetti ogni volta io e Rein ci riprendevamo a vicenda sul fatto che avevamo gusti pessimi. E questo era successo anche quella mattina.
-Elsa, Fine vuole chiedere una spada al signor Mich!-
A quella frase sentii le mie guance accaldarsi, ma ero certa che fosse per la rabbia. Mi spiaccicai una mano in faccia, perché Rein non poteva starsene zitta?! Adesso la mamma avrebbe iniziato con i suoi discorsi sulla sicurezza, l’ultimo che mi aveva fatto era stato due anni prima, una vera sfuriata. Da quella volta non le avevo più detto nulla sulle spade, mi accontentavo di quelle in legno.
-Fine, lo sai come la penso- mi disse appunto. Mi sorpresi però, era calma.
-Ma mamma! Lo sai che la saprei usare bene, è da sette anni che uso quelle di legno!- sapevo che protestare non serviva a nulla, ma erano passati due anni dall’ultima volta, ero una quindicenne matura adesso, anche se credo che chiunque avrebbe da dire su quel “matura”.
-Beh, continua a usare quelle di legno allora- disse mentre Rein annuiva. Mi innervosiva quando voleva fare la parte della seconda mamma, e soprattutto non mi andava giù quando entrambe le donne che amavo di più erano in combutta contro di me.
-Ma tutti i ragazzi ne hanno una vera!-
-No, non tutti- mi corresse Rein ricevendo un’occhiataccia da parte mia. Perché non si imbavagliava con quella massa di capelli che aveva?
-Fine, sei una ragazza, non dovresti pensare alle armi. Le giovani donne della tua età dovrebbero dedicarsi al cucito, alla casa, alla cucina..- iniziò mia madre.
-Ma sono una frana in tutto il resto- la interruppi con voce capricciosa per evitare che iniziasse con i suoi elenchi infiniti che faceva spesso per ogni minima cosa.
La sentii sospirare e Rein le lanciò un’occhiata allarmata, sapevamo entrambe cosa volevano dire quei particolari sospiri preceduti da una lunga inspirazione e una breve espirazione rumorosa: stava cedendo, e io non me lo sarei mai aspettato.
-Mamma, ti prometto che ti aiuterò in casa molto più di adesso, farò il bucato io tutti i giorni e raccoglierò tutte le verdure da sola!- proposi, anche se era scontato che quello che avevo detto di fare lo avrei fatto comunque per non darle troppo di cui occuparsi. Ma stava cedendo, calcare un po’ la mano non era peccato, era solo ridurre un po’ di tempo. Alla mia offerta mi fissò per un lungo minuto sotto gli occhi ansiosi e scioccati di Rein. Poi come se niente fosse prese uno straccio ed iniziò a passarlo lentamente e pressando a fondo sul bancone di legno un po’ opaco. -Tralasciando che ci conto che farai ciò che hai detto, dovrai comprartela da sola. Non intendo sborsare un centesimo per una spada- disse atona guardandomi di sottecchi e sottolineando “spada” come se fosse una schifezza. Collegai le varie parole riformulando la frase nella mia testa. Sulle mie labbra sentii un inarcamento che si trasformò in un sorriso che probabilmente mi arrivava fino alle orecchie. Corsi dietro al bancone saltandole addosso, la mia mamma era unica, non credevo che mi avrebbe mai detto di sì, le armi erano una delle poche cose che non mi aveva mai permesso di avere.
-Grazie, mamma, grazie!- urlavo, non riuscivo a smettere, era da otto anni che volevo sentire quelle parole.
Rein al contrario era rimasta ferma dov’era con gli occhi sgranati e un’espressione davvero buffa sul viso, almeno per me che ero dell’opinione opposta alla sua lo era.
-M-ma Elsa..-
-Tranquilla Rein, si stuferà presto di usare una spada. E poi dovrà guadagnarsi i soldi da sola-
Sorrisi di nuovo scoccando un bacio sulla guancia di mia madre e tornando accanto a Rein. La presi per un braccio tirandola fuori dalla pasticceria. La sentii protestare e mugugnare dei “Non è possibile”, ma non ci feci caso. Dopo qualche passo iniziò a imprecare del fatto che fossimo andate da mia madre per avere un dolcetto come merenda, ma io l’avevo letteralmente trascinata via.
Dopo qualche minuto ero certa che Rein avesse capito dove la stessi portando, lo dedussi dalla sua espressione contrariata.
-Salve signor Mich!- salutai euforica il vecchio fabbro seduto sul suo sgabello davanti a una grande incudine dentro alla sua bottega. Teneva sempre la porta aperta, e come biasimarlo, là dentro era un forno per uomini. Teneva con la mano sinistra un piccolo pugnale, mentre con l’altra un martelletto nero. Si fermò voltandosi verso l’entrata dove ci eravamo fermate io e Rein.
-Fine, Rein- sorrise facendoci segno di entrare. Lo conoscevamo bene, non perché ci andassimo spesso da lui, ma perché era lo zio di una nostra compagna di classe. E poi in quel paesino ci conoscevamo tutti come se fossimo parenti, eravamo una grande famiglia.
-Mi può forgiare una spada?- chiesi subito sorridendo e avvicinandomi a lui di qualche passo, sentii che Rein non si era mossa. “Tutto quel caldo produce sudore e non voglio sudare” diceva ogni volta che andavamo nella bottega del signor Mich per commissioni di mamma o di Tolouse.
Vidi il fabbro alzare un sopracciglio mentre un sorrisetto complice compariva sul suo viso -Tua madre si è decisa a comprartene una?- Lui sapeva bene che mia madre era contraria a farmi avere una spada, tutte le volte che andavo a trovarlo osservando quelle appese alle pareti gli raccontavo di come fosse preoccupata che io mi uccidessi da sola.
-Diciamo che mi devo guadagnare i soldi, ma ho già un piano- dissi sentendo lo sguardo curioso della mia amica su di me -Alla festa d’estate allestirò una bancarella e guadagnerò i soldi per comprarla!-
Il signor Mich rise per poi annuire e farmi cenno di avvicinarmi -E va bene- disse per poi iniziare a chiedermi la mia altezza, il mio peso e altre misure che doveva sapere per fare la spada adatta a me.
Dopo una decina di minuti eravamo fuori da quella fornace, all’aria aperta di fine primavera si stava molto meglio.
-Non posso crederci- mugugnò Rein per l’ennesima volta provocando il mio sbuffare -Non è per niente femminile-
-Ma almeno se qualcuno volesse farti del male potrei proteggerti- dissi io allegramente inventando la prima scusa che le potesse togliere quel muso. In risposta sentii un mugugno e un sospiro, segno che si era arresa.
Arrivammo a casa di Rein, lei aprì il cancelletto di legno lasciandolo spalancato per me che le ero un passo indietro. Entrammo in casa, Tolouse non c’era, da bravo lavoratore stava svolgendo il suo turno per controllare il terzo piano della biblioteca, quello del reparto “Storia, Miti e Leggende”.
Io andai in camera di Rein, ormai la sua casa era la mia e viceversa, mentre lei prendeva dalla cucina qualche frittella che mamma aveva preparato per loro, casualmente a forma di cuore. Mi raggiunse nella sua stanza, io avevo già tolto dalla mia cartella di scuola il quaderno e il libro di scienze e il mio inseparabile folletto di peluche. Lo posai sul letto accanto a Rin, quello di Rein, e io mi misi per terra sopra al tappeto aprendo il libro. Mi scappò un lieve sbuffo, odiavo i compiti. Fortunatamente io e Rein quasi ogni giorno, uscite da scuola, stavamo insieme a casa di una delle due a studiare e a darci una mano a vicenda.
Rein posò il piattino di frittelle sedendosi di fronte a me e prendendo a sua volta il libro. Iniziammo a studiare a intervalli di sospiri annoiati.
Un’altra giornata stava passando come sempre e piano piano ci stavamo avvicinando alla festa d’estate dove avrei guadagnato i soldi per la mia spada. 



Prossimo capitolo: Voice ~ Voce


 



Capitolo dedicato ad Arianna 
Salve :)
Scusate se ho aggiornato questa, ma avevo ispirazione per scrivere questo capitolo. Spero di non avervi deluso.
Se riesco o stasera o domani aggiornerò anche My sky, your world.
Aspetto con ansia i vostri pareri 
Bacioni, buona giornata
Ross

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Capitolo 3
*** Voice ~ Voce ***


Voice ~ Voce
 

I giorni passavano, l’aria era sempre più calda, ma spesso, la mattina e al pomeriggio dalle cinque in poi, potevamo ancora godere di una lieve brezza fresca che arrivava dall’oceano a est. Falastur, così si chiamava la costa vicino alla valle di Narwain dove sorgeva Elbereth. Era strano, a scuola avevo studiato, per quel che posso dire di studiare io, che tutti i nomi dei luoghi di quella valle avevano un significato particolare, mi piacevano. Il nome del nostro villaggio voleva significare Regina di stelle, ma non saprei dire che lingua sia, è già tanto che mi ricordi questo. Mentre il luogo che comprendeva la spiaggia, la costa, e il promontorio a sud che correva per diversi chilometri prendeva il significato di Signore delle Coste. Si diceva che molti anni prima un uomo molto devoto all’oceano era il guardiano della costa, era come un faro vivente. Quando morì gli abitanti diedero il suo nome a quel luogo magnifico da cui si poteva vedere l’infinito.
Spesso andavo con Rein a fare un giro sul promontorio, a volte evitavo di dirlo alla mamma, non le piaceva che mi allontanassi così tanto dal villaggio, ma alla fine, quelle volte che lo scopriva, accettava il fatto che non poteva capitarmi niente, eravamo completamente isolati dal resto del mondo. Il villaggio più vicino era a sei ore di viaggio a cavallo, figuriamo a piedi. Chi mai sarebbe venuto fino a Elbereth usando sei o più ore del suo tempo per rapire due fanciulle che si erano allontanate dal villaggio?
Quel giorno decidemmo di andare a fare un giro proprio lì, era da un po’ di tempo che non ci andavamo, in quel periodo ci avevano bombardato di verifiche e compiti visto che la fine della scuola si avvicinava sempre di più.
L’idea di andarci quel giorno che misteriosamente non avevamo compiti era stata mia. Tutto era collegato alla faccenda del comprare la spada che volevo tanto. Avevo detto a mia madre che mi sarei guadagnata i soldi da sola mettendo su una bancarella alla festa d’estate. Avevo cercato diverse idee su cosa vendere, alla fine mi arresi all’opzione di ghirlande e composizioni di fiori, era una delle poche cose che riuscivo a fare e poi la gente ne andava matta, tutte le case erano colorate con piante fiorite e profumate. Avevo pensato a vendere dei dolci ma io non ero capace a cucinare e non volevo nemmeno approfittarmi di Rein, si sarebbe anche rifiutata dato che era contraria al fine di quella vendita. E poi se anche avessi venduto dolci non sarei mai stata all’altezza di mia mamma che ero convita avesse l’intenzione di allestire uno stand di dolciumi. Così mi dedicai ai fiori e ne raccolsi molti, avevo già iniziato alcune composizioni facendoli seccare e poi unendoli tra loro. Ma tutti sapevamo che sul promontorio c’erano dei fiori molto particolari, erano gialli e azzurri, a Rein erano sempre piaciuti. Quindi perché non aggiungere anche quelli?
-Qui si sta proprio bene- erano ormai diversi minuti che Sophie lo ripeteva. Era una nostra amica, avevamo legato subito grazie a Rein che ci aveva presentate, ma sfortunatamente eravamo in classi diverse, lei era un anno più grande, ma si divertiva a venire in giro con noi. Mi dispiaceva dirlo, ma a volte dovevo ammettere che era un po’ tra le nuvole. Era una ragazza simpatica sì, ma molte volte si perdeva nei suoi pensieri dicendo cose senza senso o il peggio delle volte diceva apertamente quello che pensava, ingenua che le persone potessero prendersela. Ma eravamo molto affezionate a lei, ci piaceva la sua sincerità involontaria, e poi era una buona confidente. Così, mentre poco prima aveva sentito la mia proposta a Rein di andare sulla costa, ci chiese se era un disturbo se fossero venute anche lei e Mirlo, la figlia della sarta Yamhul, nonché sua compagna di classe e amica inseparabile. Ovviamente acconsentimmo, ci divertivamo in loro compagnia.
Grazie a Sophie avevo conosciuto Auleer, suo fratello. Con lui spesso simulavo combattimenti con spade, era bravo, poche volte riuscivo a batterlo, ma in quei momenti che vincevo mi sentivo il Dio in Terra. Lui aveva una spada vera, il signor Mich gliela aveva forgiata due anni prima. I suoi non avevano obbiettato, in fondo ora aveva diciassette anni, era più grande di me ed era anche un maschio e ai maschi non è negato il piacere di usare le armi, in fondo sono gli uomini che solitamente combattono.
Arrivammo presto sulla cima del promontorio, da lì c’era sempre stato un panorama mozzafiato. Non mi fermai molto a guardarlo, ormai sapevo che era impagabile una visione simile. Mi misi in ginocchio a raccogliere qualche fiore, quelli che stavo cercando. Mirlo si avvicinò aiutandomi a raccogliere quelli più belli, le avevo raccontato strada facendo il perché mi servivano. L’aveva definito un fine affascinante quello di comprarmi una spada. Mi piaceva quella ragazza, era gentile, cercava sempre di dire la cosa migliore e aiutare la gente. Non ero sorpresa che fosse fidanzata con il ragazzo più carino della scuola, Pastel. Almeno era quello che dicevano, io non ci avevo mai fatto caso, non guardavo i ragazzi in quel modo, li vedevo solo come leali avversari di combattimenti con la spada e compagni di scherzi da fare alla vecchia Hildegard, la megera di Elbereth, ma ora che ci pensavo non era poi così male quel ragazzo.
-Rein, vuoi darmi una mano o intendi stare tutto il tempo a guardare l’oceano?- le chiesi dopo diversi minuti vedendo che era ancora seduta a pochi metri da noi a guadare in basso. Come previsto sbuffò, sapevo che non voleva aiutarmi visto il fatto che alla fine ne avrei ricavato una spada, ma come sempre non sapeva dirmi di no.
Si alzò spolverandosi la gonna che la copriva quasi fino alle ginocchia, lei adorava le gonne. Sembrava che fossi io una delle poche ragazze che indossavano spesso dei pantaloni. Ok, ammetto che ero io quella diversa, non mi piacevano gli abiti lunghi, non riuscivo a muovermi e finivo per cadere ogni volta o ingarbugliarmici dentro. E poi con le gonne era difficile fare combattimenti con le spade.
La vidi di sfuggita fare un passo e bloccarsi. Poi vedendo che non accennava a muoversi alzai la testa. La vidi con gli occhi leggermente sgranati in un’espressione sorpresa, sembrava quasi un dipinto di una ragazza dai capelli turchini in movimento ritratta mentre cammina. I suoi occhi erano puntati verso di me come quando si stava alzando, ma sapevo bene che non mi vedeva, che le sue iridi turchesi in verità fissavano il vuoto. Scorsi nel suo sguardo una scintilla di incredulità e spavento, ma qui quella che si stava spaventando ero io, che aveva? Stava male? -Tutto bene?- le chiesi calma e non muovendomi.
Lei sembrò riprendesi, sbatté diverse volte le palpebre probabilmente pensando a quello che era successo -Sì, sì- disse distrattamente mentre voltava la testa indietro. Poi dopo essersi guardata intorno ci raggiunse chinandosi come se nulla fosse a raccogliere i fiori.
-C’è qualcosa che non va?- le sussurrai una volta che Mirlo si mise accanto a Sophie a raccogliere i fiori in un punto a poca distanza da noi due. Sapevo che Rein certe cose non voleva dirmele davanti ad altra gente, ogni volta faceva finta di nulla ma poi, quando sole, mi raccontava tutto.
-No, tranquilla. Mi era solo sembrato di sentire qualcosa, ma era il vento- sorrise e io mi tranquillizzai. La conoscevo bene e sapevo distinguere i momenti in cui mentiva, e ora non lo stava facendo. Probabilmente non era successo nulla davvero, avrà associato il fruscio del vento a chissà cosa.
Una volta raccolti abbastanza fiori da non riuscire a tenerne più in mano, tornammo verso Elbereth. Arrivate alle prime case sentii Rein fermarsi di colpo dietro di me. Mi voltai per vedere se le era caduto qualche fiore e se avesse bisogno di una mano. La vidi di nuovo guardarsi intorno un po’ incerta, come se avesse sentito un rumore strano. Quando si rivoltò verso di me c’era una nota di preoccupazione sul suo viso. Lei capì che la stavo osservando preoccupata e mi raggiunse con un sorriso poco convinto per poi superarmi e dirigersi verso il centro del villaggio e raggiungere casa mia dove depositare i fiori insieme a Mirlo e Sophie.
 
-Fine- mi chiamò. Io e Rein eravamo sedute sul divano di casa mia. Eravamo a gambe incrociate, io tenevo in mano una ciotola di patatine, mentre Rein era presa nel togliere qualche foglia secca dai fiori raccolti poco prima. Mirlo e Sophie mi avevano lasciato i fiori sul tavolo ma non erano volute rimanere, avevano da fare. Così eravamo rimaste io e Rein da sole come sempre, mentre i nostri folletti di peluche ci guardavano dalla poltrona accanto al divano. Mamma non c’era, era ancora nella pasticceria. Ora che la festa d’estate si stava avvinando passava qualche ora in più lì preparando qualche pasticcino per portarsi avanti.
-Sì?- la guardai interrompendo lo sgranocchiare delle patatine e vedendo che lei si era fermata dal suo lavoro di pulizia dei fiori. Mi guardò un po’ curiosa e un po’.. non lo so, era un’emozione che non le avevo mai letto sul viso.
-Che vuol dire Luinil?-
Le mie sopracciglia si alzarono da sole, probabilmente perché non avevo capito ciò che aveva detto. Cos’era? Un tipo di pasticcino? -Lu-che?- chiesi riprendendo il mio ingurgitare di quelle deliziose patatine.
-Luinil, non hai mai sentito questa parola?- mi chiese ormai scoraggiata dato che aveva capito che non avessi idea di che cosa stesse parlando. Infatti scossi la testa e lei la abbassò titubante sul fiore che teneva ancora in mano.
-Sarà una specie particolare di fiore o il nome di un dolce- ipotizzai lanciando in aria una patatina che atterrò perfettamente nella mia bocca. Mi accorsi che anche se non obbiettava non la pensava assolutamente come me. Sembrava quasi che quella parola la turbasse.
-Dove l’hai sentita quella Lui-cosa?- le chiesi non riuscendo a ripetere la parola che aveva usato lei.
-Beh..- bastò quella parolina, quell’incertezza nella sua voce che mi fece appoggiare la ciotola sul divano e farmi avvinare a lei. Era la prima volta che Rein titubava nel dirmi qualcosa.
-Ehi- la richiamai sussurrando mettendole una mano sopra la sua e facendola sobbalzare, probabilmente era persa nei suoi pensieri.
-Ho sentito una voce.. sul promontorio- disse riferendosi probabilmente al momento in cui si era bloccata a fissarmi -Ho creduto di aver sentito male, c’era vento così l’ho associato a quello..-
-Ma?-
-Ma poi l’ho sentita di nuovo, quando stavamo tornando qua- disse guardandomi sicura ma spaventata -Fine, sono sicura che era una voce, non era il vento, e ha detto la stessa parola, Luinil!- nel suo tono sentivo chiaramente la preoccupazione, capivo cosa stava pensando sicuramente credeva di essere pazza. Io invece come mio solito pensai ai fantasmi ricordandomi della mia avventura terrificante, ma non azzardai l’ipotesi di presenze e spiriti, sapevo che non credeva in quelle cose, era inutile.
-Non puoi essertelo immaginato? Magari hai solo ripensato a quello che ti era parso di sentire prima e ti sembra di averlo sentito di nuovo-
Sembrò pensarci, ma poi tornò a guardarmi seria stringendo a sua volta la mia mano contro la sua -No Fine, sono sicura era una voce umana, sembrava di una donna. Era.. era come se mi stesse chiamando usando quella parola-
Le credevo, sapevo che stava dicendo la verità, ormai la conoscevo meglio di me stessa, ma.. com’era possibile sentire una voce così dal nulla? Però in effetti era strano, quella “voce” aveva detto la stessa cosa due volte, quindi non era un suono a caso confuso con qualcos’altro, era proprio quella parola, stando a quello che diceva Rein.
-Fantasmi?- chiesi non riuscendo a trattenere la mia orribile ipotesi, anche perché iniziavo a tremare. Come previsto e come speravo, Rein liquidò la mia idea. Era confortante sentirle dire che non esistevano, mi tranquillizzavo sempre.
-Sembrava che fosse disperata-
-La voce?-
-Sì.. ho paura- disse lasciando la mia mano e stringendosi nelle braccia. Per la prima volta non sapevo cosa fare, come potevo aiutarla?  E poi stava mettendo paura anche a me. Chiunque altro avrebbe lasciato perdere dicendo che era la sua immaginazione, ma io no, io sapevo che era vero, me lo sentivo.
-Resti a dormire da me?- le chiesi dopo poco cercando di farle il mio solito sorriso. Lei sorrise a sua volta annuendo e accennando un “grazie”. Ci mettemmo pochi minuti ad arrivare a casa di Rein, dove suo padre era tornato da poco dal turno in biblioteca, e avvisarlo che Rein sarebbe rimasta da me. Come sempre non obbiettò, raccomandandoci come ogni volta di salutare mia madre e di non farla disperare.
La sera, dopo che mamma tornò, cenammo tutte insieme. Non le dicemmo nulla della voce di Rein, lei aveva preferito non parlarne ancora.
Aiutammo mia madre a sparecchiare e a lavare i piatti, dopodiché andammo in camera mia. Le prestai uno dei miei pigiami, dato che si era dimenticata di prendere il suo prima. Rimanemmo per un po’ a parlare, toccammo poche volte l’argomento della “voce”.
Dopo poco il mio stomaco affamato si fece sentire riecheggiando nella camera e provocando la risata di Rein.
-Vado a prendere dei pasticcini- sussurrai per non farmi sentire da mia madre, anche se stava già dormendo. Lei annuì trattenendo una risata e io uscii piano dalla stanza.
Scesi le scale in punta di piedi e raggiunsi la cucina dove presi un piatto e qualche dolcetto e dei biscotti dalla dispensa. Tornai su sempre cercando di non far scricchiolare le assi e svegliare la mamma, non osavo immaginare cosa mi avesse fatto se fosse venuta a sapere che mangiavo a quell’ora! Già mi faceva le paranoie sul fatto che le razioni di cibo che pretendevo era troppo abbondanti, figuriamoci se sgarravo anche.
Raggiunsi in silenzio la porta della mia camera e appoggiai la mano sulla maniglia. Non feci nemmeno in tempo ad abbassarla che un brivido mi percosse la schiena arrivando alla mia mano sinistra che reggeva il piatto di ceramica bianco. Il mio cuore iniziò a battere forte e sentii le mie dita farsi molli di colpo, e in meno di un istante il piatto era sul pavimento, ridotto in mille pezzi accompagnato dal suo atterraggio acuto. Ma credo che il rumore dei cocci sul legno non arrivò nemmeno alle mie orecchie per permettermi di capire che i biscotti erano a terra, in quel momento avevo sentito solo un suono.
-Carnil-



Prossimo capitolo: 
Words ~ Parole

 




Dedicato ad Alice, Laura e Desy a cui ho promesso di aggiornare stasera
Da quanto eh? Lo so, lo so, colpa mia e dei miei impegni.
Innanzitutto Buon Natale in ritardo (ehehe non sono mai puntuale in niente -.-)
e già che ci sono Buon Anno (preveniamo visto che magari non riuscirò ad aggiornare prima del 31.
Come sempre mi dispiace per i miei ritardi e bla bla bla.
Spero vi sia piaciuto, il mistero si infittisce ^^
A presto, aspetto con ansia i vostri pareri, e se avete consigli da darmi fate pure, anche critiche eh! 
Bacioni
Ross.

(Mi dispiace avervi fatto credere che fosse il nuovo capitolo, ma ho dovuto rimettere questo perchè, non so, è come se fosse stato cancellato, è la seconda volta, che "sparisce" -.- EFP è posseduto. Scusatemi ancora, mi spiace un casino.)

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Capitolo 4
*** Words ~ Parole ***


Words ~ Parole
 

Probabilmente qualcosa nella mia testa si era bloccato o avevo momentaneamente perso l’udito, restava il fatto che quando ripresi ad avere la capacità di pensare mia madre era accanto a me, in vestaglia da notte e in mezzo al corridoio, la porta della sua camera era aperta. Aveva la tipica espressione da povero genitore disperato dai guai del figlio. I capelli le ricadevano ondulati su una spalla un po’ arruffati e legati in una coda come sempre, che abbassava quando doveva dormire. Le braccia incrociate al petto e quello sguardo severo mi fecero capire che probabilmente una sfuriata era in agguato.
La maniglia su cui la mia mano era ancora appoggiata si girò da sola e la porta della mia camera si aprì allontanandosi da me e staccandosi dalle mie dita, mostrando di fronte a me una Rein alquanto spaventata. I suoi occhi mi fissarono un misero istante per poi guardare a terra. Seguii il suo sguardo e vidi i miei piedi circondati da cocci di ceramica, tre pasticcini e biscotti in briciole. La mia bocca ero certa fosse socchiusa, probabilmente era così da quando era caduto il piatto.
Vidi Rein alzare la testa e guardare mia madre ancora ferma nella stessa posizione, così mi decisi ad affrontarla anche io.
-Che ci facevi con quei dolci a quest’ora?- mi chiese usando un tono retorico non appena sbattei le palpebre guardandola ancora un po’ sorpresa. Sinceramente non avevo capito molto, ma il fatto che il piatto mi fosse caduto di mano dopo aver sentito quello strano suono era ovvio.
Sentii la mia bocca aprirsi, stavo boccheggiando, da essa non usciva nulla. Sicuramente Rein pensò che fossi a corto di scuse, ritrovandomi così ad essere preoccupata. Poi capii che era solo quello che lei voleva far credere a mia mamma, aveva intuito che c’era altro. Ormai conosceva il significato di ogni mia minima espressione. Non disse nulla davanti a mia mamma, anzi si preoccupò di dirle che era lei ad avere fame e così mi aveva chiesto qualche cosa. Mamma solitamente non faceva ramanzine a lei se mangiava fuori pasto, soprattutto se il cibo era comunque cucinato da lei. Le sfuriate e i divieti erano riservati a me.
Fortunatamente mia madre sbuffò solo per il piatto rotto, in fondo i biscotti e i pasticcini li faceva sempre in grandi quantità.
Si chinò seguita da me e Rein a raccogliere i cocci taglienti e le briciole di cibo.
Io me la cavai con un timido “Mi dispiace per il piatto” e mamma mi tranquillizzò con un buffetto sul naso, non se l’era presa più di tanto, meno male.
Mi rialzai che avevo in mano qualche coccio di ceramica, mentre Rein stava raccogliendo l’ultimo. Feci un passo in direzione di mia madre per seguirla al piano di sotto per buttare tutto, ma mi bloccai di nuovo.
-Carnil-
Le mie mani smisero di reggere gli oggetti che avevo in mano, sembravano tremare. Quella parola mi rimbombava nella testa, era la stessa di pochi minuti prima. Ben presto l’unica cosa che sentii furono i cocci che avevano di nuovo toccato terra con suoni acuti e irritanti.
-Fine!- mi richiamò mia mamma con una cantilena da “me ne combini sempre una”. Io alzai distrattamente la testa su di lei, mentre le mie mani erano nella stessa posizione di prima ma senza reggere nulla. -Hai le mani di pasta frolla stasera?!- continuò per poi sbuffare e avvicinarsi prendendo tutto quello che mi era caduto. Appoggiò i cocci e i biscotti sulla sua vestaglia che reggeva per due lembi a mo di vassoio, disse a Rein di appoggiare lì anche quello che aveva racconto lei. Poi ci mandò a letto dicendo che se ne sarebbe occupata lei, era meglio non combinare altri danni.
Una volta in camera mi lasciai cadere seduta sul letto fissando il pavimento che in realtà non vedevo. Ero certa di avere la stessa espressione di Rein al promontorio.
-Fine, che è successo?- mi chiese la mia amica sedendosi accanto a me e guardandomi preoccupata. Come sempre aveva capito che non era stata una semplice caduta di un piatto dovuto alla stanchezza della ormai passata mezzanotte.
Mi voltai a guardarla riprendendo a vedere quello che c’era nella mia stanza. Sarebbe stato meglio non dirle che anche io avevo sentito una voce disperata di una donna che diceva una parola senza senso, che quella follia, se così si poteva definire, aveva contagiato anche me. Ma alla fine anche se ero in dubbio se dirglielo o meno, ero certa che avrei vuotato il sacco, non ero capace di tenerle nascosto qualcosa.
-Ho sentito una voce- come avevo previsto la sua espressione mutò in ansia. Mi credette subito, anche perché lei stessa aveva sentito a sua volta una parola strana per più volte, quindi non doveva essere così difficile credermi. E per me ora era più facile capire cosa aveva provato lei.
-Una donna?-
Io annuii specificando che era anche “disperata”, come quella che aveva sentito lei.
-Che cosa ha detto?- mi chiese con voce tremante, ora mi accorgevo che aveva paura. Non l’avevo mai vista agitata così, solo qualche volta avevo avuto l’onore di vederla spaventata quando le facevo qualche scherzo poco simpatico.
Ripensai alla sua domanda. Già, la voce aveva ripetuto due volte la stessa cosa, ma non era una parola che conoscevo, non l’avevo mai sentita e non sapevo nemmeno se ero in grado di ripeterla, io vantavo di avere una memoria da vero pesce riguardo le cose a cui non prestavo la massima attenzione. Ma ero certa somigliasse a quella che aveva sentito Rein -Era qualcosa si simile alla tua..-
-Ma non te la ricordi? Era la stessa?-
-No, qualcosa del tipo Carnil- le risposi dopo un attimo che mi concentrai su quello che era successo prima, sicura di ricordarmi bene. Carnil, ero certa che avesse detto questo. Ma ora la domanda era: perché quella voce diceva parole inesistenti e senza senso?
 
Quando ci svegliammo, il sole era già abbastanza caldo. Ci eravamo addormentate pochi minuti dopo la nostra conversazione sulla parola che avevo sentito, le nostre mani erano intrecciate, avevamo dormito una abbracciata all’altra probabilmente per la paura di questa situazione strana. In fondo entrambe avevamo sentito qualcosa, non poteva essere immaginazione.
Dopo colazione presi la mia cartella di scuola con i libri del giorno, infilandoci dentro Fil e Rin. Con Rein ci dirigemmo veloce verso casa sua, dove cambiò i libri e i quaderni, dato che stando a casa mia aveva ancora quelli del giorno prima. Le consegnai il suo peluche che mise dentro alla sua cartella e andammo a scuola normalmente.
Solo per strada parlammo, mantenendo un tono basso, di quelle due parole, non volevamo che altri sentissero per darci delle pazze. Così, arrivate a scuola, facemmo finta di niente, come se quel discorso non fosse mai stato toccato. All’intervallo ci rifugiammo in giardino, su un pezzo di prato dove non andava mai nessuno. Tutti i ragazzi erano sempre occupati a giocare a pallone o a mangiare la loro merenda in classe. Di tanto in tanto il guardiano ci passava davanti per vedere se sporcavamo il suo adorato giardino, ogni volta nascondevamo i piccoli panini per togliergli la preoccupazione.
Finita la merenda, Rein prese un pezzo di carta e la penna che si era infilata in tasca prima di scendere nel cortine della scuola. Scrisse due parole: Carnil e Luinil, così da non dimenticarcene nel caso non sentissimo più quella voce.
-Che potrebbero voler dire?- la sentii dire -Magari è una lingua straniera-
-O forse un tipo di dolce- dissi io per l’ennesima volta. Sapevo che non poteva essere così, che senso aveva che una voce ripetesse a chissà chi il nome di un dolce. La sentii sbuffare e guardarmi con quell’espressione da “fai la seria”.
-Ok- mi arresi alla fine -più che altro io vorrei sapere chi è quella voce- dissi assumendo una posizione comoda a gambe incrociate, la tipica che avevo quando facevo la classica ragazza seria. Avevamo capito che la voce che avevamo sentito era la stessa, avevamo cercato di descrivercela a vicenda il meglio possibile, sottolineandone il timbro e l’accento. Tutto combaciava più o meno. Quindi restava da capire chi fosse quella donna.
-Già, e come avrà fatto a farsi sentire? Io non ho visto nessuno sul promontorio, e a casa tua non poteva esserci nessun altro-
La mia mente corse alla mia solita paura –F-fantasmi?-
-Oh Fine andiamo, te l’ho detto mille volte che non esistono!- a quell’ennesima frase annuii poco convinta, ripeteva sempre la stessa cosa.
Vidi Rein abbassare la testa sul foglio e rileggersi le due parole. Provò a leggerle al contrario, mischiando le lettere, unirle insieme, ma niente. Nulla portava a qualcosa di logico.
-E se fosse una lingua antica?- chiesi io dicendo la prima cosa che mi era passata per la testa. Era assurdo, ma Rein si stava impegnando tanto per capirci qualcosa, volevo ipotizzare qualcosa pure io anche se poco probabile. Rein invece la pensò diversamente, mi guardò seria pensando a chissà cosa.
-Può darsi- ragionò fissando l’erba e mordendosi il labbro inferiore, corrucciò le sopracciglia e poi mi guardò di nuovo -Magari in biblioteca troviamo qualche vocabolario antico-
-Oh, non crederai sul serio che sia così?- le dissi, nemmeno io credevo alla mia stessa supposizione, era assurda -Perché una voce dovrebbe parlarci con una lingua antica?-
-Beh è vero, ma non abbiamo nient’altro da provare. Tanto vale tentare e guardare se c’è una traduzione-
In fondo non aveva tutti i torti, non avevamo indizi, conoscenze, nulla. Magari erano davvero parole antiche e il mio genio incompreso era finalmente saltato fuori.
 
-Ciao papà- salutò Rein vedendo suo padre dietro al bancone del terzo piano della biblioteca, lui aveva il turno pomeridiano. Non sapevo come potesse stare tutto quel tempo dentro ad un’immensa stanza piena di scaffali di legno antico con milioni di libri impolverati e semidistrutti. Si sentiva perfettamente il profumo della carta e dell’inchiostro secco, l’odore del legno millenario di ciliegio e persino il frusciare della brezza estiva che muoveva le foglie dell’albero vicino ad una delle finestre. La luce del sole entrava sfacciatamente dai vetri delle finestre, illuminando diversi tavoli posizionati lì vicino. Molte corsie di libri invece erano più in penombra. Poteva benissimo sembrare un posto magico se io non lo considerassi un buco per secchioni.
Era una fortuna che Tolouse si occupasse della sezione “Storia, Miti e Leggende”, potevamo stare lì quanto ci pareva, e anche se avessimo alzato la voce non ne avremmo ricavato ramanzine terribili dalla bibliotecaria che si occupava del secondo piano, lei sì che era un vero avvoltoio.
-Ciao- salutai a mia volta per poi fissare intimorita tutti quegli scaffali. Non mettevo piede in biblioteca da un po’ di tempo, non me la ricordavo così grande. E pensare che era solo un piano. L’idea di dover cercare un libro in mezzo a quel milione di volumi mi faceva venire la nausea. Solo per il fatto che sapessero dove cercare adoravo i bibliotecari, ma Tolouse era un caso a parte, bibliotecario o no era un uomo fantastico.
-Vorremo vedere un vocabolario antico- gli disse Rein mentre lui si avvicinava a noi per aiutarci.
-Quale lingua?- ecco, sembrava troppo facile. A quella domanda io e Rein ci guardammo incerte, era proprio per quello che eravamo lì.
-Non c’è una sola lingua antica?- chiesi provocando la sua risata, la risposta era sottintesa: no.
-Beh qui ci sono tutti i volumi di studio e vocabolari delle lingue più antiche che possediamo, ma se non sapete quella precisa penso che avrete un bel po’ da cercare-
-Quante ce ne sono?- chiese scoraggiata Rein davanti a quell’intera corsia di volumi.
-Cinquantatre-
 
Chiusi l’ennesimo librone impolverato sotto ai miei occhi, appoggiandomi sconsolata al tavolo con i gomiti. Erano ormai due ore che io e Rein sfogliavamo i vocabolari. Ne avevamo preso una per ogni lingua, ritrovandoci con un tavolo pieno di cinquantatre insiemi di pagine ingiallite e puzzolenti.
Avevamo cercato in ognuno le due parole che conoscevamo o almeno qualcosa di simile, ma niente.
-Non troveremo mai quello giusto- dissi allungando le braccia e appoggiando anche la testa sul tavolo.
Per una volta Rein sembrò d’accordo con il mio pessimismo. Poi si riprese -Dai ancora due-
Prese un altro volume e io feci lo stesso. Prima di aprirlo lo osservai un attimo annoiata, era uguale a tutti gli altri. La copertina nera di cuoio e tutta un po’ sbucciata agli angoli. Ci soffiai sopra per togliere un po’ di polvere ritrovandomi a starnutire.
Non c’era nessuna scritta in quel nero. Lo girai pensando di guardarlo al contrario, ma nemmeno quello sembrava il lato giusto, sulla copertina non c’era scritto nulla.
Sbuffai, ci mancava solo questa. Lo aprii appoggiando la guancia su una mano e sfogliando le prime pagine svogliatamente. Iniziai a leggere qualche parola a caso per vedere di che tipo era quella lingua antica. Dopo aver accettato il fatto di non capirci niente come al solito, andai dritta alla lettera C. Feci scorrere il mio dito fino ad arrivare alle prime tre lettere della parola che avevo sentito io. L’unica parola che si avvicina a quella era Caran che voleva dire “rosso”.
-Trovato qualcosa?- mi chiese Rein facendomi alzare la testa.
-A parte un vocabolario che non dice di che lingua si tratta, no- le dissi. Si avvicinò a me, aveva già scartato quello che stava guardando lei, probabilmente non c’entrava per nulla con le nostre parole -L’unica parola che ci somiglia qui è Caran- dissi indicandole la parola e aspettando che leggesse.
La sentii irrigidirsi e mettersi dritta di scatto indicandomi un punto vicino a quella parola -Qui dice che il prefisso di questa parola è Car- riuscii a scorgere nel suo tono una nota di entusiasmo, ma non ne capii il motivo. Alzai un sopracciglio per farle intendere che per me non c’entrava nulla, erano solo tre lettere che per caso erano contenute in una delle nostre due parole.
-E se fossero due parole composte?- disse quindi togliendo il mio dubbio e prendendo il foglietto con le due parole scritte. Sottolineò  in entrambe la parte finale: nil. In effetti non avevamo pensato che potessero avere un significato simile data la fine uguale. Io personalmente non ci sarei mai arrivata, non mi era mai piaciuta la grammatica, per me bastava saper parlare.
-Abbiamo due parole che hanno come finale nil- ragionò mentre tracciava qualche linea e qualche appunto sul foglio -Quindi dobbiamo trovare cosa significa questa parola e capire questi due prefissi a quale parole appartengono-
Accidenti, perché non poteva parlare la mia lingua, sembrava che a furia di leggere vocabolari fosse diventata uno di questi -Cosa sono?-
-Le parti invariabili che stanno prima di una parola composta da due parole- ok, ora era chiaro, anche se con quel tono da saputella mi aveva fatta sentire una completa analfabeta.
Ci mettemmo a cercare in quel dizionario la parola Nil. Arrivammo a trovare il suo significato: stella. La parola vera e propria era Gil, ma nelle parole composte era usato o come il o come nil. Non ci credevo, e anche Rein era stupefatta. Che fossimo sulla strada giusta?
-Accidenti, Fine forse hai trovato il vocabolario giusto- disse scrivendo sotto alla rispettiva parola sconosciuta la parola “stella”. Ragionò un attimo scarabocchiando ancora qualcosa per poi tirarsi dritta e guardarmi soddisfatta ma intimorita -Se abbiamo tradotto bene Carn è il prefisso di rosso e gil, in questo caso Nil è stella. Quindi dovrebbe essere “Stella rossa”- 
La fissai senza dire nulla, il suo ragionamento non faceva una piega. Ora ero certa che fosse quello il vocabolario giusto, ci aveva tradotto la prima parola! Ma magari era solo un caso, magari era tutto sbagliato e ci stavamo facendo prendere dall’entusiasmo. Per capire se era quella la lingua giusta dovevamo tradurre anche l’altra. Ma ora era più difficile, prima per trovare il prefisso della mia parola avevo trovato il vero sostantivo, invece avere un prefisso ma non il nome era più complicato. Era praticamente impossibile da trovare per di più se era una lingua che non conoscevi.
-E adesso come facciamo con l’altra?- chiese infatti Rein scoraggiata buttandosi sullo schienale della sedia.
Io continuai a guardare il foglio e un lampo di genio mi attraverso la testa. Se la mia teoria era giusta potevo ritenermi un dio. La parola che avevo sentito io significava Stella Rossa, quella di Rein per ora solo Stella. Ripensai al mio cognome, tutto a che fare con il rosso, Caran. Così pensai che fosse dovuto al fatto del colore dei mie capelli e dei miei occhi. Allora perché non provare la stessa teoria sulla parola di Rein?
Presi di scatto il vocabolario andando nella metà che traduceva la nostra lingua in quella antica. Cercai la parola “Azzurro” sotto gli occhi curiosi e confusi di Rein. Percepii un “Che fai?” ma non le risposi troppo presa dalla mia idea.
Azzurro: Luin.
Probabilmente feci un salto sulla sedia perché Rein si tirò in dietro di colpo spaventata dalla mia reazione. Non persi tempo e scrissi sul foglio la traduzione. E unendo i significati delle due parole che formavano il suono che aveva sentito Rein veniva fuori “Stella Azzurra”, proprio come avevo intuito.
-C-come hai fatto?- mi chiese quando le feci leggere il mio capolavoro.
-Beh mi è bastato associare una parola a me, e l’altra di conseguenza era collegata a te- le dissi sorridendo e indicando i capelli. Rein sembrava scioccata, sia per aver trovato il significato sia per il fatto che il genio che era in me si era finalmente risvegliato. Ma devo dire che se Rein non avesse fatto il resto io non avrei mai trovato la parola “Azzurro”.
Fissammo di nuovo le parole scritte sul foglio. Carnil e Luinil, Stella Rossa e Stella Azzurra.
-Che quello fosse un modo per chiamarci?- sussurrò lei, credo che non si fosse nemmeno accorta di averlo detto ad alta voce. Però poteva avere un senso, una voce che non sa i nostri nomi ci ha chiamate con dei soprannomi che ci descrivono. Ma che linguaggio era? Non c’era titolo su quel volume, e perché non usare la nostra lingua? Voleva farci spremere le meningi per un pomeriggio intero tra vocabolari antichi per farci capire che stava chiamando proprio noi due?


Prossimo capitolo: 
Midnight ~ Mezzanotte




 

Ehilà :)
Sì, volevo farmi perdonare per l'assurdo ritardo e ho aggiornato anche questa storia.
Davvero mi dispiace, cercherò di essere molto più presente,
il fatto era che volevo godermi le vacanze e ho avuto la testa da un altra parte.
Comunque spero di cuore che vi sia piaciuto.
Sono consapevole che questo capitolo sia stato un po' noioso, ma volevo spiegare bene il significato di quei due nomi
e di come Fine e Rein abbiano preso sul serio la faccenda.
Dal prossimo capitolo la storia si farà un po' più interessante.
(E prima che qualcuno lo chieda, no gli attori Shade e Bright sono ancora in ferie, entreranno in scena tra un po')
Grazie mille a chi segue questa storia e al prossimo capitolo
Un bacione
Ross 


 

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