I sentieri della nostra vita

di Niere
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incidente ***
Capitolo 2: *** Aprire gli occhi e capire che... ***
Capitolo 3: *** E' finita ***
Capitolo 4: *** Al The Paradise ***
Capitolo 5: *** La verità fa male ***
Capitolo 6: *** Primi chiarimenti ***
Capitolo 7: *** Un caffè con Fabrizio ***
Capitolo 8: *** Una tranquilla serata ad Anzio ***
Capitolo 9: *** Messaggi inaspettati ***
Capitolo 10: *** Verità nascoste ***
Capitolo 11: *** Non si arrenderà mai ***
Capitolo 12: *** I ricordi non si possono archiviare ***
Capitolo 13: *** Disegni e riviste ***
Capitolo 14: *** Il progetto misterioso ***
Capitolo 15: *** Finalmente vacanza ***
Capitolo 16: *** Un incontro inaspettato ***



Capitolo 1
*** Incidente ***


Incidente - POV Livia

“Mamma, quando si sveglia papà?”. Matteo mi fissava preoccupato, in attesa di una risposta positiva. Lo osservai attentamente, ero stanca, arrabbiata, spaventata.
Mi imposi di mostrarmi serena, era solo un bambino e non potevo soffocarlo con la mia negatività. Cercai di sorridere e, accarezzandogli i capelli, risposi: “I dottori hanno detto che si sveglierà tra poco. Se vuoi, possiamo entrare nella sua stanza e aspettare lì.”.
Matteo, il mio piccolo ometto di quattro anni, annuì soddisfatto. Ci alzammo dalle sedie grigie e fredde della sala di attesa e ci avviammo alla stanza 158, dove Gianluca era stato ricoverato due giorni prima. In quei due giorni, avevo passato più tempo in ospedale che in qualsiasi altro posto. Non ne potevo più di quelle pareti bianche, dei discorsi dei medici, sempre troppo complicati, dei genitori di Gianluca che erano tesi al massimo. Volevo solo che quell’ incubo finisse, che Gianluca venisse dimesso al più presto, che tutto tornasse come prima.
Entrammo nella stanza e Matteo prese posto sulla sedia accanto al letto, in attesa di non so cosa. Io mi avvicinai ai genitori di Gianluca, Anna e Giorgio, che se ne stavano in piedi, in silenzio, troppo presi dai loro pensieri. A vederli in quel momento, sembravano una coppia affiatata e solidale, nessun estraneo avrebbe potuto immaginare che in realtà erano divorziati da quindici anni. Anche dopo la rottura del loro matrimonio, erano sempre riusciti ad andare d’ accordo, non come me e Gianluca, che eravamo carichi di incomprensioni e che discutevamo per ogni cosa. Anna mi sorrise e quel sorriso mi fece gelare: potevo leggere tutta la sua paura, un terrore che voleva nascondere a tutti, per non sembrare troppo fragile. L’ unico che mostrava veramente la sua forza d’ animo era Giorgio. Indicò il monitor collegato a Gianluca e disse: “I battiti sono regolari e gli hanno tolto i respiratori. Tra poco aprirà gli occhi…”.
Ripeteva ciò che aveva sentito dire dai dottori, ma nella sua voce c’era la certezza che suo figlio ce l’ avrebbe fatta, che quella brutta caduta dalla moto non avrebbe spezzato la sua esistenza. Anna mi prese per mano ed io ricambiai la stretta, volevo farle coraggio.
Dopo minuti eterni di attesa, qualcosa cambiò. Gianluca mosse una mano. Matteo fu il primo ad accorgersene e si alzò di scatto dalla sedia: “Mamma, nonna, guardate…”.
Con il dito indicò la mano di suo padre e noi tre, come degli automi, seguimmo con lo sguardo ciò che il bambino ci voleva mostrare. Smisi di respirare per qualche istante. Avevo sperato per ore che tutto si risolvesse rapidamente e forse, per la prima volta in vita mia, le mie preghiere erano state ascoltate. Anna e Giorgio si avvicinarono, speranzosi. Gianluca aprì gli occhi e gli ci volle qualche secondo per abituarsi alla luce. Si guardò intorno: il suo primo sguardo fu per Matteo, poi osservò confuso i genitori ed infine i suoi occhi color nocciola si puntarono su di me, per degli istanti che mi sembrarono eterni. Per la prima volta dopo tanti anni, non mi squadrava con rancore.
La prima cosa che disse fu: “Cos’è successo?”.
Anna si avvicinò e cercò di riassumere brevemente gli eventi degli ultimi giorni: con voce rotta dall’ emozione gli raccontò dell’ incidente con la moto, della corsa in ospedale, delle analisi dei medici.
Gianluca ascoltò in silenzio ed io fui l’ unica ad accorgermi che tutti quei paroloni stavano turbando Matteo. Rivolsi uno sguardo a Giorgio: “Devo far allontanare Matteo… Non voglio che senta tutto nei dettagli”.
Giorgio capì all’ istante: “Se non ti dispiace, ci penso io... Lo porto a prendere qualcosa al bar…”. Si rivolse al nipote: “Matteo, hai voglia di un bel gelato? Così facciamo riposare un po’ tuo padre…”.
Matteo annuì e si rivolse a Gianluca: “Papà, ci vediamo dopo. Vado a fare merenda.”.
Sorrisi, commossa dalla forza di mio figlio. Anna e Gianluca parlarono ancora per qualche minuto, mentre io leggevo il modulo che il medico aveva lasciato sul tavolo verde e anonimo. C’erano riportati i nomi dei medicinali che avevano inserito nelle flebo, ma per me erano solo nomi indecifrabili. Anna, poi, improvvisamente se ne uscì: “Vado a chiamare un’ infermiera. Livia, rimani tu con lui?”.
Annuii, poco entusiasta all’ idea di rimanere da sola con l’ uomo che nel giro di qualche mese sarebbe diventato il mio ex marito. Anna uscì, chiudendo dietro di sé la porta. Poggiai il foglio nuovamente sul tavolo e Gianluca disse: “Puoi essere sincera con me… E’ tutto a posto o ho subito qualche danno?”.
Puntai il mio sguardo sul suo volto, bello e perfetto come sempre, nonostante il colorito pallido e delle occhiaie dovute alla debolezza. Risposi in modo irritato e deciso: “Sei stato molto fortunato. I medici dicono che cadere sull’ erba ha minimizzato i danni… La loro unica paura era che riscontrassi un’ amnesia causata dalla forte botta in testa. Nel giro di pochi giorni tornerai in splendida forma…”.
Gianluca sembrò sollevato, ma non disse nulla. Rimase a studiarmi, impassibile. Odiavo quando faceva così, la sua aria strafottente mi faceva innervosire. Così, nonostante i miei buoni propositi, sputai fuori quello che mi balenava per la testa da giorni interi: “Tu e quella dannata moto… Diamine, ti rendi conto di quello che hai rischiato? Potevi rimanere paralizzato, o, peggio ancora, potevi morire. E cosa ne sarebbe stato di Matteo? Tu non sai cosa significa crescere senza un padre, ma io si… Ed è uno schifo…”
Gianluca mi guardò disorientato: “Ehi, piccola… Mi dispiace…”.
Il mio sguardo si caricò di rabbia: “Sono stanca di sentire queste parole… Ti dispiace sempre, ma non cambi mai… Sei il solito irresponsabile ed egoista. L’ egoismo lo potrei anche capire, ma l’ irresponsabilità no… Non hai più quindici anni…”.
Il suo sguardo si fece duro: “Dannazione… Vuoi farmi la morale anche adesso? Non potresti aspettare almeno qualche giorno?”.
Incrociai le braccia, arrabbiata e nervosa: “Certo, adesso è colpa mia. Perché sono insensibile, vero? Sono sempre quella che rovina tutto, che non vuole capire… Avanti, puoi dirmi apertamente quello che pensi di me…”.
Avevo alzato la voce e avevo perso il controllo. Gianluca replicò: “Smettila di fare questa scenata… Siamo in un ospedale. Il litigio risparmiatelo per quando verrò dimesso e tornerò a casa mia…”.
Non dissi nulla, non volevo più aver niente a che fare con lui per quel giorno. Fortunatamente, Anna tornò subito dopo, seguita da un’ infermiera e un medico, che ci spiegò che tutto stava procedendo bene e che, dopo quattro o cinque visite d’ obbligo, Gianluca poteva lasciare la clinica.
Matteo ritornò in stanza quando il medico ci aveva già lasciati soli e la sua presenza si fece notare subito: doveva assolutamente raccontare a Gianluca degli ultimi giorni di scuola, del piccolo spettacolo che la sua maestra stava organizzando e della canzone in inglese che avrebbero cantato come gran finale.

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Capitolo 2
*** Aprire gli occhi e capire che... ***


Aprire gli occhi e capire che... - POV Gianluca

Ero di pessimo umore. D’ altronde, ne avevo tutto il diritto, ero ancora sdraiato su quel maledetto lettino bianco d’ospedale, che sapeva di disinfettante, mentre io volevo solo tornarmene a casa. Mi sentivo abbastanza bene, perché rimanere lì?
Fortunatamente, mia madre era venuta a trovarmi e mi aveva portato del cibo commestibile. Nel frattempo, la stavo rendendo partecipe della piccola fitta che avvertivo al ginocchio, che allarmava me, mentre sembrava poco rilevante per il dottor Airoldi, un uomo sui cinquant’ anni e dai capelli grigi.
La quiete spettrale dell’ ospedale venne spezzata dall’ arrivo di Matteo. Mio figlio non sapeva proprio cosa significasse passare inosservato. La sua voce cristallina si sentiva dal corridoio: “Lo porto io il vassoio di pasticcini… Sono grande, ormai…”.
Ripeteva le parole ‘sono grande, ormai’ almeno una decina di volte al giorno. I suoi non erano capricci, ma il tentativo di mostrare al mondo che sapeva cavarsela da solo. Il mio campione, anche se aveva solo quattro anni, aveva già una personalità molto forte.
Varcò la soglia della porta, tenendo in mano un pacchetto avvolto con carta rossa e tenuto fermo da un nastro dorato. Corse verso il letto e ci montò sopra, sorridendo allegro: “Ciao papà… Ti ho portato una sorpresa…”.
Posò il pacchetto sul letto, carico di orgoglio. Gli scompigliai i capelli: “Grazie campione! Lo apriamo insieme?”.
In quel momento, fece il suo ingresso Livia, con la sua solita aria tesa. Abbozzò un finto sorriso rivolto a me, per poi avvicinarsi a mia madre. Livia le chiese a bassa voce: “Allora? Come va?”.
Mia madre, in un tono di voce ancora più basso, replicò: “Sembra che non ci siano complicazioni… Abbiamo parlato per un bel po’ e non dimostra di avere vuoti di memoria…”.
Feci finta di nulla, anche se ero seccato del fatto che parlassero di me come se non fossi presente. Non volevo litigare davanti a Matteo, che si stava impegnando al massimo per scartare il vassoio. Quando ci riuscì, sul suo volto comparve un sorriso elettrizzato. Matteo era identico a Livia, in tutto e per tutto: stesso sorriso, stessi lineamenti, stessi occhi, colore dei capelli, perfino la stessa parlantina. Nonostante con Livia le cose non andassero più bene da tanto tempo, ero felice che le assomigliasse così tanto. In Matteo ritrovavo la stessa voglia di vivere e la stessa spensieratezza della Livia di qualche anno prima, quando le bastava poco per essere felice.
I pasticcini erano invitanti, così mi concessi il lusso di mangiarne tre e lasciare il resto a Matteo, che si stava imbrattando di cioccolata, mentre mi raccontava ciò che aveva fatto all’ asilo.
Dopo qualche minuto, mia madre uscì dalla stanza per prendersi un caffè. Livia, che era rimasta tutto il tempo in disparte sulla sedia grigia, prese un pacchetto di fazzoletti e si avvicinò a noi. Ne estrasse uno e iniziò a pulire il viso di Matteo, divertita: “Dovresti guardarti alla specchio… Sei buffissimo!”.
Matteo le sorrise e la lasciò fare. Io rimasi imbambolato a guardarli, come se li vedessi per la prima volta. Livia con me sapeva essere fredda e crudele, ma con Matteo era fantastica, affettuosa e il suo sguardo era sempre carico d’ amore. Mi azzardai a guardarla meglio, visto che era troppo presa da suo figlio per accorgersi di me. Aveva lasciato sciolti dietro le spalle i suoi capelli castani chiari e lisci, i suoi occhi castani con delle pagliuzze verdi studiavano attentamente il viso di Matteo, mentre il suo sorriso divertito aveva generato le solite fossette ai lati della bocca rosa e perfetta. Doveva aver staccato da poco da lavoro, visto che indossava un vestito grigio e abbastanza elegante. Dopo aver rimosso tutta la cioccolata dal viso di Matteo, gli stampò un bacio sulla guancia e gli accarezzò i capelli. Non potei fare a meno di pensare che, fino a pochi anni prima, le attenzioni amorevoli di Livia erano rivolte anche a me.
Quando il momento madre-figlio terminò, mi sentii in dovere di ringraziare Livia per i pasticcini: “Grazie per aver pensato di portare dei dolci.”.
Mi rivolse il solito sguardo freddo: “Non è stato nulla.”.
Annuii e passai nervosamente una mano tra i capelli. Credevo che la conversazione si sarebbe conclusa lì, ma Livia continuò: “Tua madre è stata molto in pensiero per te, in questi giorni… Te ne ha parlato? ”.
La guardai allarmato: “Non mi ha detto nulla. Perché non smetti di fare la misteriosa e non mi spieghi bene tutto quanto?”.
Livia, prima di continuare, prese il suo cellulare dalla borsa e compose un numero. Poi, passò il cellulare a Matteo: “Puoi dire a nonna Ines che più tardi la passiamo a trovare? E, visto che ci sei, raccontale le novità della recita.”.
Aveva distratto Matteo, poteva parlare liberamente. Mi guardò seria e disse: “I medici, quando sei arrivato in ospedale, ti hanno fatto una tac, come da prassi. Hanno riscontrato un ematoma… per questo motivo sei stato in coma farmacologico. In questi giorni, ci hanno parlato di persone che, al loro risveglio, riscontrano gravi perdite di memoria. Tua madre ha temuto il peggio…”. Mi studiò attentamente, poi riprese: “Sicuro di stare bene?”.
“Si, si… Perché si è allarmata così tanto?”.
Abbassò il tono di voce: “Nella stanza accanto, c’ è una donna che si è risvegliata dopo un mese di coma… Non ricorda gli ultimi dieci anni della sua vita… Non ricorda di essersi sposata e di aver avuto dei figli… Credimi, la possibilità che questo potesse succedere anche a te, l’ ha fatta diventare matta.”.
Stranamente, la sua non era la solita critica acida, ma un discorso da persona civile. Erano mesi che non avevamo una conversazione normale. Dovevo proprio finire all’ ospedale per sperare di allacciare un rapporto decente con la mia quasi ex moglie?
Stavo pensando proprio a tutto questo, quando mia madre rientrò in stanza. Aveva l’ aria stanca, tipica di chi aveva passato diverse notti insonni. Mi sentivo uno schifo per averla fatta spaventare e per averle fatto passare delle ore infernali. Le avrei parlato quando saremmo rimasti da soli, le avrei detto che mi dispiaceva. Mia madre, a differenza di Livia, sapeva ascoltarmi, sapeva perdonarmi, era in grado di voltare pagina. Era indubbiamente l’ unica donna che sapeva comprendermi e in quell’ istante mi resi conto che non avevo mai fatto nulla per ricambiare la sua devozione. Mi promisi che, una volta uscito dall’ ospedale, avrei rimediato, le avrei fatto capire che apprezzavo tutto quello che faceva per me.
Livia e Matteo rimasero fino alle sei di sera, poi Livia dichiarò che era tardi e che Matteo aveva bisogno di riposare. Non obbiettai, non avevo né la voglia, né la forza per mettermi a discutere con lei. Tanto, sapevo che una volta dimesso dall’ ospedale, avremmo ripreso la nostra solita battaglia.

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Capitolo 3
*** E' finita ***


E' finita - POV Livia

Ero stanchissima, avevo solo voglia di sdraiarmi sul letto e addormentarmi. Era stata una giornata molto frenetica: la mattinata era stata particolarmente stressante perché in ufficio avevo dovuto terminare un lavoro che avevo trascurato nei giorni precedenti, nel pomeriggio avevo fatto un po’ di spesa, avevo portato Matteo in ospedale ed infine ero passata a casa di Anna, per vedere se aveva bisogno di qualcosa o se aveva voglia di parlare e sfogarsi con qualcuno. In quel momento, me ne stavo seduta sul divano , a casa mia, accanto a mia madre, che era venuta a trovare suo nipote.
Mia madre, Ines, era una donna difficilissima, che perfino io non riuscivo a comprendere. Da giovane aveva grandi aspettative, che si erano tramutate in cenere nel corso degli anni. La mamma era spagnola, era nata in uno dei quartieri più lussuosi di Madrid. Da ragazza era molto bella, vinse perfino un noto concorso di bellezza del suo paese. Quel concorso fu la sua rovina: si montò la testa, abbandonò gli studi universitari e si trasferì a Milano, in cerca di successo. Lì conobbe mio padre, Leonardo, un cameriere con la passione per la fotografia. Tra loro fu un colpo di fulmine e in breve tempo divennero inseparabili. Dopo pochi mesi, mia madre rimase incinta e decisero di trasferirsi a Roma. Per essere corretti, fu mio padre a prendere quella decisione e a trascinare con sé mia madre: lui voleva metter su famiglia, trovare un lavoro migliore, condurre una vita tranquilla. Mia madre non era entusiasta di tutto ciò: lei credeva ancora che potesse farsi un nome del campo della moda e la maternità era solo un ostacolo che rallentava i suoi sogni. Poi, nacqui io, e la situazione si fece ancora più complicata: mia madre iniziò a bere, mentre mio padre iniziò a non sopportare più i suoi capricci. Così, quando avevo solo cinque anni, ci abbandonò e sparì per sempre dalla nostra vita. Da quel giorno, mia madre mise la testa a posto, lasciò perdere l’ alcool e il mondo della moda, trovò lavoro presso un negozio di abbigliamento del centro. Era una brava madre, ma spesso mi soffocava con la sua invadenza.
Mi studiò attentamente, poi disse: “Adesso che Matteo si è addormentato, possiamo parlare tranquillamente.”.
Spensi la televisione e la guardai, accigliata: “Cosa devi dirmi, mamma?”.
Prese un bel respiro. Era pronta per le sue ‘perle di saggezza’: “Sembri distrutta… Non dovresti passare così tanto tempo in ospedale… Ti stressi solamente e non ne vale la pena per quello lì…”.
Alzai gli occhi al cielo: “Quello lì è il padre di Matteo e, che ti piaccia o no, ha tutto il diritto di vedere suo figlio.”.
Distolsi lo sguardo da mia madre, per osservare il salotto. Io e Gianluca avevamo comprato quella casa quando ero al quarto mese di gravidanza. Avevamo amato subito quel piccolo appartamento, luminoso e pieno d’ aria. All’ epoca non potevamo permetterci di meglio, perché Gianluca lavorava ancora al negozio di suo padre, mentre io frequentavo ancora l’ università, che lasciai l’ anno successivo, per occuparmi di Matteo. Da quando Gianluca se ne era andato via di casa, il salotto sembrava diverso: non c’era più la sua collezione di dischi e dvd, quell’ orrendo quadro che aveva comprato in Sicilia e le foto che lo ritraevano erano finite in uno scatolone sotto il letto. Era rimasto solo ciò che piaceva a me: le foto di Matteo appese alla parete chiara, il tavolo di legno scuro, la tenda color crema che si muoveva con il vento, il televisore che era diventato proprietà privata di mio figlio, la piccola vetrina con tutte le chincaglierie che avevo raccolto nel corso degli anni.
Mia madre, continuò: “Gianluca ti ha rovinato la vita… Se non lo avessi mai conosciuto, la tua vita sarebbe di certo migliore. Potevi avere di tutto: potevi terminare l’ università, trovare un lavoro ottimo, viaggiare, magari incontrare un uomo facoltoso…”.
La interruppi: “Mamma, questo è quello che desideravi tu per me. Non ho mai cercato tutto questo. Se potessi tornare indietro, rifarei tutto, anche se ormai non provo nulla per Gianluca.”.
“Dico solo che sei incappata nei miei stessi errori. Tra dieci o venti anni, vedrai le cose in modo diverso… E ti chiederai come diamine hai fatto a perdere la testa per un uomo del genere… Negli ultimi anni ti ha fatta solo soffrire: ti ha trascurata e probabilmente ti ha anche tradita svariate volte.”.
Le sue parole mi fecero tornare in mente il giorno in cui capii che non potevo più continuare a vivere con Gianluca.

Era una calda serata di giugno ed eravamo appena rientrati dal compleanno di un nostro caro amico. Alla festa c’era anche Eleonora, una nostra nuova conoscenza, che non faceva altro che girare intorno a mio marito e a provocarlo. Mi tolsi in fretta le scarpe che mi stavano stringendo i piedi in una morsa dolorosissima e mi avviai in camera. Volevo piangere, disperarmi, ma mi sentivo così vuota che perfino le emozioni mi scivolavano via. Fortunatamente Matteo non era con noi, era rimasto a dormire da mia madre. Gianluca mi seguì come un ombra: “Livia, quante volte te lo devo dire che mi dispiace? Ma fidati, hai frainteso: tra me e lei non c’è assolutamente nulla…”.
Mi voltai verso di lui. Era logico che Eleonora gli avesse messo gli occhi addosso già da diversi mesi: Gianluca era misterioso ed affascinate, con i suoi occhi color nocciola e profondi, i lineamenti virili, i capelli castani e mossi, una corporatura perfetta. Sorrisi, sarcastica: “Si, forse adesso è così, ma sappiamo entrambi come è fatta: non si arrende finchè non ottiene ciò che vuole. Prima o poi cadrai tra le sue braccia.”.
Distolsi lo sguardo dalla sua figura, mi sciolsi i capelli, mi avvicinai al mobile con lo specchio, tolsi gli orecchini e li posai nel portagioie . Gianluca alzò la voce: “Io e te non abbiamo ancora finito… Ma per te è un classico evitare i confronti. E lo sai perché? Perché ti piace pensare che sia sempre colpa mia… Perché io lavoro dieci ore al giorno, perché rientro la sera tardi, stanco e stressato, perché quando esco con gli amici bevo qualche bicchiere di troppo. Ma se le cose tra noi non vanno, è anche per colpa tua, che non mi consideri più alla tua altezza.”.
Scoppiai anche io, e girandomi verso di liu, replicai: “Hai forse il coraggio di affermare che tu sei perfetto? Ho almeno un paio di esempi che ti possono dimostrare il contrario: la discussione che hai avuto con mia madre questo Natale, oppure la terribile scenata che hai fatto due mesi fa al matrimonio di mia cugina in Spagna. Potrei continuare all’ infinito… ”.
Mi sedetti sul letto, mentre una lacrima scese solitaria sul mio volto. Presi un bel respiro: “Sai, penso proprio che dovremmo lasciarci… E’ inutile andare avanti in questo modo…”.
Una parte di me sperava che Gianluca si opponesse, che tentasse il tutto e per tutto per difendere quel briciolo di amore che era rimasto nel nostro rapporto. La sua reazione mi spiazzò e mi ferì profondamente: “Bene, sai cosa ti dico? Meglio così…”. Si avviò verso l’ armadio e lo aprì. Prese un borsone blu che iniziò a riempire con i suoi indumenti. “Sono sicuro che senza di te starò veramente bene.”. Dopo aver riempito al massimo la borsa, se ne andò via, promettendomi che sarebbe passato a prendere il resto delle sue cose quando non ero in casa.

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Capitolo 4
*** Al The Paradise ***


Al "The Paradise" - POV Gianluca

Dopo i dovuti controlli, lasciai finalmente l’ ospedale e la mia vita riprese in tutta la sua normalità. Ritornai al mio modesto appartamento di appena 40 metri quadri, feci demolire il poco che era rimasto della mia moto e ripresi il lavoro, anche se avevo optato di cominciare con qualche settimana di part-time, sotto consiglio dei medici. Il loro motto era ‘poco stress’. A loro sembrava facile, ma per me era impossibile. Io e lo stress andavamo a braccetto: dei colleghi e un datore di lavoro esigenti, un divorzio alle porte, dei ritmi frenetici.
L’ 11 giugno, come era stato stabilito in precedenza, si sarebbe tenuta la festa di compleanno di Andrea, un mio caro amico. Lui e la sua ragazza, Valeria, amavano le feste in grande e, come al solito, decisero di affittare una delle sale della villa “The Paradise”, un locale prestigioso del centro di Roma. Ero dell’ idea che Andrea si fosse bevuto il cervello: proprio non riuscivo a capire cosa ci trovasse di bello nello spendere metà del suo stipendio per una festa di compleanno come tante.
Indossai un paio di jeans e una camicia nera, presi la macchina e mi avviai verso la villa. Quella sera ero particolarmente teso, perché sapevo che avrei rivisto anche Livia. Andrea e Valeria erano stati categorici: non volevano rinunciare a nessun dei due, volevano mantenere l’ amicizia con entrambi. Non potevo biasimarli, ma non potevo neanche nascondere che per me la situazione non era facile: tra me e Livia bastava un niente per litigare e non volevo rischiare di rovinare la serata ai miei amici.
Dopo mezz’ora di viaggio e di traffico, arrivai a destinazione. Parcheggiai la macchina nel cortile interno e mi avviai per il vialetto curato e circondato dal verde. Solo in quell’ istante mi tornò in mente che esattamente un anno prima, io e Livia ci eravamo lasciati. Era stato proprio dopo la festa di Andrea. Forse quella data e quel luogo portavano sfortuna.
Cercando di non pensarci troppo, entrai nella villa e chiesi ad uno dei camerieri quale fosse la sala riservata per il compleanno di Andrea Dominici. Era la 3, quella in fondo al corridoio. Mi avviai e trovai già la sala piena di amici e gente che non avevo mai visto. Andrea e Valeria mi vennero incontro: lui già abbastanza brillo, mentre lei perfetta come sempre e padrona della situazione. Andrea mi poggiò una mano sulla spalla e disse: “Divertiti, vecchio mio.”.  
Cercai di seguire il suo consiglio e raggiunsi Simone, Alessandro e Nicolas. Dopo le solite domande sul mio stato di salute, presero a parlare di calcio, del campionato che era finito e di quello che sarebbe iniziato tre mesi dopo. Ascoltai solo parte del discorso, perché la mia attenzione si focalizzò solo su Livia, che fece il suo ingresso con mezz’ora di ritardo, proprio lei che amava la puntualità. Aveva indossato dei jeans neri e una maglietta grigia senza maniche. Era un abbigliamento semplice, ma che non sminuiva la sua bellezza e la sua eleganza. Si avvicinò ad Andrea e a Valeria, li salutò e si fermò a parlare con loro per qualche istante. Sorrideva e ascoltava attentamente le parole dei nostri amici, ma era evidente che c’era qualcosa che la turbava. Si guardò intorno, distrattamente e, quando incrociò il mio sguardo, si congedò da Andrea e Valeria. Si avvicinò al tavolo del buffet, da sola. Mi feci coraggio e la raggiunsi: “Ciao, Livia. Come va?”.
Si voltò verso di me, mi studiò con il suo sguardo freddo e rispose: “Bene, e tu?”.
Chiese ad un cameriere un bicchiere di champagne e la cosa mi stupì, visto che solitamente cercava di evitare gli alcolici. Feci finta di nulla: “Tutto bene. Matteo come sta?”.
Bevve il suo champagne e replicò: “Splendidamente. E’ a casa di mia madre.”.
Dopo aver richiesto al cameriere un altro bicchiere, si allontanò dal tavolo e la seguii, imperterrito. Prese posto su uno dei divanetti situati all’ angolo della sala e io feci altrettanto. Indicai il suo drink: “Non ti farà male bere a stomaco vuoto?”.
Mi guardò con aria di sfida: “La cosa non ti riguarda.”.
Alzai gli occhi al cielo, poi presi un bel respiro e replicai: “Possibile che ogni volta dobbiamo litigare come dei bambini? Abbiamo venticinque anni e proprio non riusciamo a comportarci da persone adulte.”.
Non rispose. Terminò tutto d’un fiato il suo champagne e posò il bicchiere vuoto sul tavolino di fronte a lei. La osservai stupito e preoccupato nello stesso tempo. Non era la Livia che conoscevo.
La bloccai per un polso e la costrinsi a guardarmi negli occhi: “Dannazione, ma cos’ hai questa sera?”.
Cercò di allentare la presa: “Lasciami, mi fai male.”.
Mentiva. Non le stavo facendo assolutamente nulla. Nonostante ciò, mollai la presa, non volevo farla arrabbiare o innervosire ancora di più. Si alzò di scatto e si allontanò in fretta, lontano dal mio sguardo indagatore. Uscì dalla sala e, solo in quell’ istante, mi decisi a seguirla. La vidi svoltare per un corridoio e entrare nel bagno delle donne. Dannazione, non potevo seguirla fin lì. Mi guardai intorno, in cerca di un’ ispirazione. Poi, mi decisi ad entrare, poco mi importava se mi avessero scoperto e se mi avessero preso per un pervertito.
Entrai e trovai una porta chiusa e due aperte. Bussai a quella chiusa: “Livia, tutto ok?”.
Non rispose, ma la sentivo piangere. Cercai di sfondare la porta, preoccupato come non mai: “Ti prego, esci da lì. Guarda che butto giù tutto”.
Con voce strozzata, replicò: “Voglio stare da sola.”.
Cercai di trovare un tono più calmo: “Non in queste condizioni. Livia, per una volta ascoltami. Esci da lì... Ti riporto a casa.”.
Dopo pochi secondi, la serratura del bagnò scattò e Livia uscì fuori come se fosse un fantasma. Aveva gli occhi lucidi dal pianto e il trucco un po’ sfatto. Aveva un espressione distrutta. Guardando il pavimento, disse: “Potresti portarmi via senza dire una parola?”.
Cercai di non ridere della sua strana richiesta: “Lo sai che è impossibile. Dai, coraggio, andiamocene.”.
Annuì, e, lentamente, si avviò verso l’ uscita. Era in difficoltà, ma non voleva farsi aiutare. Lei e il suo maledetto  orgoglio… Uscimmo dalla villa e proseguimmo verso la macchina. Mi guardò colpevole e disse: “Mi sento uno schifo… Non avrei dovuto bere così tanto.”.
Le sorrisi, colto da una strana voglia di tranquillizzarla: “Non hai bevuto molto… Erano solo due bicchieri di champagne…”.
“In realtà, ho bevuto anche prima di arrivare qui… Credo di aver mandato giù almeno due o tre bicchieri di vino.”.
Mi arrestai: “E hai guidato fin qui?”.
“No, ha guidato Michela. Sono venuta con lei.”.



Ciao... Anche il quarto capitolo è concluso... Ma la serata, per Livia e Gianluca, non finisce di certo qui..
Vorrei ringraziare tutte le persone che seguono questa storia nata un po' per caso, e, in particolar modo, Sun_Rise93.
A presto!!!

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Capitolo 5
*** La verità fa male ***


La verità fa male - POV Livia

Gianluca mi osservava come se fossi atterrata da uno strano pianeta. Non volevo preoccuparmene, dovevo concentrarmi sul non perdere l’ equilibrio. Fino a poche ore fa, l’ idea di bere per dimenticare i miei problemi sembrava fantastica, ma solo in quel momento mi resi conto di aver fatto una sciocchezza. Controllare il mio corpo, le mie emozioni era difficilissimo. La mia vista era un po’ appannata, lo stomaco mi si rivoltava contro e, per terminare in bellezza, tutta la mia tristezza stava riaffiorando più forte di prima. Avevo deciso di bere per staccare la spina per almeno qualche ora, perché quello che avevo scoperto mi aveva turbata: Michela mi aveva confessato che Gianluca ed Eleonora si erano frequentati, lo scorso inverno, e che la relazione era durata qualche settimana. Lo avevo sempre sospettato, ma averne conferma mi faceva male, mi faceva sentire tradita e lasciata alle spalle. Forse ero addirittura gelosa, ma non ne ero del tutto certa. Forse ero una grande egoista, forse ero gelosa, o forse non ero ancora pronta a perdere Gianluca in maniera definitiva. La verità era che quel maledetto incidente mi aveva fatto vedere le cose in modo diverso: ero certa che la mia vita senza lui sarebbe stata quasi impossibile, ma non riuscivo nemmeno a dimenticare tutti i litigi, tutte le incomprensioni, le notti passate a piangere, in silenzio. Ero in un limbo, indecisa sul da farsi.
Gianluca mi scortò fino alla sua macchina, mi aprì lo sportello e disse: “Devo avvertire Andrea che ce ne stiamo andando via. Mi prometti che aspetterai qui?”.
Annuii e presi posto in macchina. Mi abbandonai al sedile e chiusi gli occhi, sperando di dare un po’ di sollievo alla mia testa. Dopo un arco di tempo che mi sembrò interminabile, Gianluca salì in macchina e mise in moto, diretto verso casa mia. Il viaggio fu particolarmente silenzioso, lui era perso nei suoi pensieri, io tentavo di fuggire inutilmente dai miei, mentre calde lacrime mi rigavano il volto.
Arrivammo a casa mia. Gianluca parcheggiò, uscii dalla macchina e aprì lo sportello del passeggero. Mi porse la mano: “Ce la fai a camminare per qualche metro?”.
Mi poggiai a lui e uscii dalla macchina. Mi guardò apprensivo, studiò il mio volto bagnato dalle lacrime, ma non disse nulla. Aveva perso la parola? Il suo comportamento iniziava ad infastidirmi. Mi scortò fino al portone, dove cercai di estrarre le chiavi dalla borsa. Un’ azione facile, che ripetevo almeno tre volte al giorno, ma che in quel momento era complicatissima. Gianluca, un po’ spazientito, mi tolse la borsa dalle mani e, dopo aver rovistato un po’, estrasse le chiavi. Aprì e salimmo lentamente le tre rampe di scale. Arrivati al mio pianerottolo, dovetti sedermi su uno scalino, mi girava la testa e con lei le ombre, la luce al neon, la porta blindata, l’ immagine di Gianluca. Aprì la porta e mi sollevò di peso: “Meno male che sei abbastanza leggera, altrimenti ti avrei lasciata tutta la notte sul pianerottolo.”.
Mi fece sdraiare sul letto, mi sfilò le scarpe e infine gli orecchini neri. Dopo si mise seduto, accanto a me e disse: “Ti è presa la sbornia triste… Mi vuoi dire cosa è successo?”.
Cercai di sollevarmi, molto lentamente. Lo guardai dritto negli occhi e replicai: “C’è che adesso conosco la verità. So di te ed Eleonora. Sei stato con lei anche prima che ci lasciassimo?.”.
Mi sorrise, ma il suo era un sorriso preoccupato: “No… solo dopo la nostra rottura, ma sono stato con lei solo per ripicca nei tuoi confronti e per dimostrare a me stesso che potevo andare avanti anche senza di te.”.
Mi avvicinai a lui: “Ti prego, resta qui stanotte. Non voglio rimanere da sola.”.
Eravamo vicinissimi, i nostri corpi quasi si sfioravano. Nonostante la vista un po’ sfocata e la testa che mi scoppiava, non riuscivo a non pensare a quanto fosse bello, a quanto lo avessi amato in passato. Ricordavo che il mio cuore batteva all’ impazzata ogni volta che mi baciava o mi accarezzava. Era una bella sensazione e, quella sera, avevo bisogno di riprovarla, per sentirmi meglio.
Accostai le mie labbra alle sue e lo baciai, prima lentamente, poi in modo più passionale. Lui rimase sorpreso e immobile per qualche istante, poi ricambiò il bacio. Le sue braccia mi avvolsero e mi sentii leggera, libera. Non sapevo cosa provavo per lui, ma qualcosa in me riconobbe le sue mani, le sue labbra, la sua dolcezza mischiata alla passionalità. E mi illusi di essere tornata la diciassettenne che lo aspettava all’ uscita da scuola, che sapeva ridere, che non aveva paura del futuro.
Mi sentii audace, sicura di me, come non capitava da troppo tempo. Mi feci coraggio ed iniziai a sbottonargli la camicia. Primo bottone, secondo, terzo…
Poi, Gianluca interruppe il bacio. Si allontanò lentamente da me, sciogliendo l’ abbraccio. Lo guardai sorpresa e un po’ delusa. Con un filo di voce, chiesi: “Cosa c’è? Non vuoi…”.
Mi sorrise e mi accarezzò il volto: “No, al contrario, ma non posso permettermi di lasciarmi andare con te, questa sera. Fidati, adesso ti sembra la cosa giusta, ma domani vedrai tutto in modo diverso … Ed io non voglio fare nulla che ti costringa ad odiarmi ancora di più.”.
Odiare. Che parola grossa. Ma cosa odiavo veramente? Forse un futuro che mi era stato rubato. Perché io, negli ultimi anni, mi ero convinta che il suo lavoro, la sua carriera, mi avessero portato via il suo amore. Ed anche Eleonora, nel suo piccolo, aveva rubato qualcosa: l’ illusione che lui appartenesse solo a me, che non si curasse delle altre donne che lo circondavano. Mi sentivo derubata di ciò che avevo sognato quando ero incinta di Matteo. Avevo sognato di passare la mia vita accanto a lui, di avere la certezza che ci sarebbe sempre stato, di poter sentire la sua voce, di poter contare sulla sua forza d’ animo nei momenti difficili, di poterlo rendere felice con i semplici gesti della vita quotidiana. Mi morsi un labbro e replicai: “Io non ti odio.”.
Nei suoi occhi lessi un barlume di speranza: “Adesso basta parlare, dovresti riposare.”.
Annuii, poco convinta: “Mi prometti che resterai fino a domani mattina? Non mi sento molto bene.”.
Scoppiò a ridere: “La prossima volta ci penserai due volte prima di darti all’ alcool. Ma come ti è venuto in mente? Hai sempre bevuto pochissimo… Dovevi immaginare che ti saresti ridotta uno straccio…”.
Mi sdraiai e affondai il viso sul cuscino: “Oh, ti prego, stai zitto!”.
Sentivo le palpebre pesanti. Ero così stanca che quasi non mi importava di essere stata rifiutata da Gianluca. Non mi importava neanche cosa pensasse di me in quel momento. Chiusi gli occhi, sperando che il mal di testa sparisse in pochi minuti.
Mi addormentai in poco tempo, ma non riposai bene, la notte venne popolata da strani incubi. Mi girai e rigirai nel letto, maledicendo me stessa e tutto l’ alcool che avevo assunto.
Venni svegliata dal suono del citofono. Credendo di essere sola, tentai di alzarmi dal letto. Dei passi per il  corridoio mi fecero ricordare di avere Gianluca in giro per casa, così mi sdraiai di nuovo. Matteo entrò in casa, e con voce allegra, disse: “Papà, cosa ci fai qui? Mi hai fatto una sorpresa?”.
 

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Capitolo 6
*** Primi chiarimenti ***


Primi chiarimenti - POV Gianluca

Avevo dormito pochissimo, scosso dagli eventi della serata. Ero stato quasi tutta la notte a vegliare il sonno agitato di Livia, preoccupato che potesse sentirsi male da un momento all’ altro. Fortunatamente, Matteo era al massimo delle sue energie già di prima mattina e mi costringeva ad essere sveglio e attento. Ines lo aveva riaccompagnato a casa e, dopo avermi fulminato con lo sguardo ed avermi fatto in quarto grado, ci aveva lasciati da soli.
Preparai una colazione semplice per Matteo e Livia, che si svegliò con un bel mal di testa. Aveva gli occhi un po’ arrossati, cerchiati da leggere occhiaie violacee e il viso pallido. Era ridotta uno straccio, così decise di disertare il lavoro, per una sola giornata. Dopo aver messo qualcosa nello stomaco, andò a farsi una doccia, senza dire una parola. Matteo si ritirò in camera sua ad oziare, visto che Livia non lo avrebbe portato all’ asilo, ed io ne approfittai per telefonare in ufficio per farmi dare il giorno libero e per seguire il telegiornale. Non volevo andare via, non prima di aver chiarito la situazione con Livia. Dovevo sapere quello che le passava per la testa, perché, onestamente, non capivo più niente. Dopo un’ ora, uscì dal bagno, sfoggiando un aspetto migliore: aveva sistemato i capelli, aveva coperto le occhiaie con un po’ di trucco e aveva indossato un vestito monospalla, di stoffa verde e leggera, che le lasciava scoperte le gambe. Si parò di fronte a me, che me ne stavo seduto sul divano del salotto e, con aria mortificata, disse: “Noi due dobbiamo parlare…”.
Prese posto accanto a me, a distanza di sicurezza. La guardai incuriosito, ma anche preoccupato. Prese un bel respiro ed iniziò: “Non so come ho fatto a perdere il controllo, ieri sera. Mi vergogno così tanto di quello che ho fatto…”.
Proprio non riuscivo a capirla. Fino a poche ore prima ero certo che mi odiasse, ma, in quell’ istante, cominciava a balenarmi l’ idea che neanche lei sapeva cosa provasse per me. Le chiesi: “Ti vergogni di esserti ubriacata o di essere stata particolarmente affettuosa?”.
La mia voleva essere una battuta per sdrammatizzare, ma probabilmente pensò che la stessi criticando, perché proseguì, imbarazzata: “Di entrambe le cose… Sicuramente penserai che sono una pazza, ma non è così. Io…”. Abbassò lo sguardo: “Sto passando un momento difficile. Sai, quando sei stato portato in ospedale subito dopo l’ incidente, mi sono messa seduta su una sedia di quel maledetto corridoio grigio e ho riflettuto. In momenti drammatici come quelli la testa segue dei percorsi stranissimi. Ho pensato a come sarebbe stata la mia vita senza di te, crescere Matteo da sola, non confrontarmi con te per le decisioni importanti. Anche se ho provato a negarlo a me stessa, tu sei un tassello importante della mia vita. Mi piacerebbe tornare ad amarti incondizionatamente, ma ho una paura tremenda di illudermi e soffrire nuovamente.”.
L’ avevo ascoltata in silenzio, incapace di assimilare quello che aveva appena detto. Aveva abbassato le difese e sembrava così fragile e vulnerabile come un oggetto di cristallo che poteva rompersi da un momento all’ altro. La Livia fredda e sempre pronta a litigare sembrava essersi eclissata per qualche secondo.
Mi feci coraggio e replicai: “Mi stai dicendo che non sai cosa fare?”.
Tornò a guardarmi in volto: “Esatto.”.
Mi passai nervosamente una mano tra i capelli: “Neanche io, ma devo essere sincero con te: io amo la persona che eri una volta, la ragazza dolce, sempre ottimista, che sapeva farmi dimenticare i problemi. Non so se amo la donna che sei diventata. Non fraintendermi, non sto dicendo che sei una persona orribile, anzi… sei intelligente, carismatica, determinata, ma sembra che la nuova te non riesca più ad amarmi come un tempo. La cosa più triste è che non posso darti tutti i torti: in parte è anche colpa mia, negli ultimi anni ho fatto un sacco di cavolate.”.
Mi sorrise, malinconica: “La verità è che siamo cambiati moltissimo, forse perché siamo cresciuti troppo in fretta, forse perché avevamo troppe aspettative. Probabilmente non torneremo più insieme, ma io, in questo momento, non mi sento ancora pronta a firmare le carte per il divorzio. Ho bisogno di un po’ di tempo per riflettere.”.
Mi avrebbe fatto diventare matto, ne ero certo. Ma era così convinta delle sue parole che non avrei potuto ribattere. Se fosse stata un’ avvocatessa, avrebbe vinto tutte le cause, anche le più difficili: “Ok, prendiamoci del tempo e riparliamone con più calma.”.
Lei annuì e tornò a fissare un punto indecifrabile del pavimento. Dopo qualche secondo, riprese: “Non dovresti tornare a casa?”.
La guardai, stupito della sua domanda che sembrava quasi fuori luogo, in quell’ istante. Sorrisi, tentando di sdrammatizzare la situazione: “Che c’è? Mi stai cacciando via?”.
Sorrise divertita e rispose: “No, è che probabilmente sarai stanco e vorrai farti una doccia… Indossi ancora gli abiti di ieri sera.”.
In effetti, avevo proprio una gran voglia di darmi una rinfrescata e di stendermi un po’ sul letto. Mi alzai dal divano e replicai: “Ora che mi ci fai pensare, è proprio quello di cui ho bisogno.”.
Dopo aver salutato Matteo, presi le chiavi della macchina, che avevo lasciato sul mobile dell’ ingresso e aprii la porta. Livia era accanto a me, da brava padrona di casa. Mi fissò e mi salutò: “Allora ci vediamo.”.
Senza rifletterci troppo, dissi: “Senti, per la prossima settimana mio padre ha intenzione di organizzare una cena alla casa al mare. Non è nulla di che, solo una piccola rimpatriata di amici. Perché non venite anche tu e Matteo?”.
Mi guardò dubbiosa: “E’ un appuntamento?”.
Un appuntamento? La cosa stranamente mi piaceva. Quando eravamo ancora due studenti, passavamo giornate intere alla casa ad Anzio. In quel piccolo villino avevamo passato tanti momenti piacevoli e divertenti: “Solo se lo vuoi tu. Io credo che sia più un’ occasione per fermarci un istante e per capire cosa proviamo l’ uno per l’ altra. In fondo, è quello di cui abbiamo bisogno.”.
Le mie parole la convinsero: “Ok, ci sto. Fammi sapere a che ora sarà la cena.”.
Me ne andai sereno e carico di ottimismo. Ero in pace con il mondo anche se non sapevo come comportarmi con Livia. Era pur sempre la donna che avevo sposato, con la quale avevo affrontato alti bassi,ed ero ancora attratto da lei, fisicamente. Ancora non riuscivo a capacitarmi del mio autocontrollo. Mi chiedevo dove avevo trovato la forza di bloccarla, poche ore prima, quando era evidente che mi desiderava almeno quanto la desiderassi io. O ero un vero gentiluomo, oppure ero l’ essere umano più stupido della terra.

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Capitolo 7
*** Un caffè con Fabrizio ***


Un caffè con Fabrizio - POV Livia

Mi sentivo una pazza incosciente. Quando ero bambina, mia madre diceva sempre ‘mai voltarsi per guardare ciò che hai lasciato alle spalle. Devi sempre mantenere lo sguardo di fronte a te’. Non solo mi ero voltata, ma ero quasi tentata di fare una bella retromarcia. Forse stavo commettendo un errore, ma dovevo capire a fondo i miei sentimenti.
Dopo il giorno di pausa dal lavoro, tornai al mio ufficio. Lavoravo per un grande impresa di costruzioni, che negli ultimi anni aveva fatto la sua fortuna in tutto il mondo. Ero una delle assistenti del vice direttore, insieme alle mie colleghe Alessandra e Valentina, che ormai consideravo due grandi amiche. Il mio lavoro mi piaceva molto, ma a volte rubava tutte le mie energie. Passavo ore intere al telefono per gestire gli accordi finanziari, mi occupavo degli impegni del mio capo, della corrispondenza e dovevo sempre tenermi aggiornata sulle novità del mercato. A volte mi sembrava di non fermarmi un secondo.
Quella mattina ero intenta a controllare delle fatture, in attesa dell’ arrivo delle mie due colleghe, quando Fabrizio fece capolino nel mio ufficio. Era uno degli architetti più bravi della società ed era colui che gestiva più lavori. Poggiò delle cartelline sulla mia scrivania e disse: “Ciao Livia… Vitali mi chiesto di lasciarti queste. Devi inviarle alla società Mentis entro questa sera.”.
Sorrisi cordiale e replicai: “Ok, non c’è problema. Come se fosse già fatto.”.
Mi sorrise e prese posto sulla sedia all’ altro capo della scrivania: “Ho saputo che ieri ti sei assentata per malattia. Oggi stai meglio?”.
Fabrizio era un trentaquattrenne affascinante, sicuro di sé, che aveva sempre una risposta a tutto. Aveva i capelli ricci e indomabili, gli occhi profondi e indagatori, le labbra sottili ma perfette, l’ aria da intellettuale, una voce coinvolgente. Molte colleghe erano attratte da lui, ma sembrava non curarsene, preferiva dedicarsi totalmente al suo lavoro. Si vociferava che con le donne avesse chiuso, dopo la sua ultima relazione. Negli ultimi mesi avevamo stretto amicizia, anche se non ci frequentavamo al di fuori dell’ ufficio.
Risposi: “Si, non era nulla di grave.”. Non aggiunsi altro, non volevo parlare con lui di Gianluca. In realtà, volevo tenere la cosa per me, come se fosse un piccolo segreto.
La mia risposta sembrò non bastargli, ma non insistette. Cambiò discorso: “Bene. Ti va di staccare un po’ e di prendere un caffè? Offro io.”.
Avevo bisogno di una pausa. Le fatture e i documenti potevano aspettare qualche minuto. Mi alzai dalla scrivania e risposi: “Volentieri.”.
Uscimmo dall’ ufficio e percorremmo il corridoio illuminato dalle luci al neon, poi ci recammo alla sala ristoro, con le macchine del caffè e i divani beige. Con in mano un bicchiere fumante di caffè, presi posto su uno dei divani in pelle e Fabrizio fece lo stesso, a pochi centimetri da me. Mi chiese: “Allora, cosa farai quest’ estate? Hai già programmato qualche viaggio?”.
Bevvi un sorso di quel liquido scuro e bollente, che tra l’ altro non era nulla di speciale e replicai: “Credo che andrò in Spagna… Sai, mia zia abita in una cittadina vicino Madrid ed ogni anno è sempre disposta ad ospitarmi.”.
Mi guardò incuriosito: “Come mai tua zia si è trasferita in Spagna, se posso chiedertelo?”.
Sorrisi: “Veramente ha sempre vissuto in Spagna. Mia madre è spagnola e si è trasferita qui in Italia da giovane.”.
Fabrizio finì il suo caffè: “Non lo sapevo… Quindi sei metà italiana e metà spagnola…”.
“Esattamente. Tutti i miei parenti vivono in Spagna… Lì ho zii e cugini… Siamo una famiglia numerosa.”.
“Deve essere bello… Un paio di anni fa ci sono stato con Giada, la mia ex.”.
Calò il silenzio, un silenzio imbarazzante. Non aveva mai accennato nulla riguardo alla sua vita sentimentale, ma la sua voce, il suo sguardo, facevano intuire che aveva sofferto molto.
Sentii lo strana necessità di dargli supporto morale: “Sei ancora innamorato di lei?”.
Non volevo sembrare invadente, ma non volevo neanche dare l’ impressione di essere una menefreghista. Mi sorrise e replicò: “No, mi chiedo solo come ho fatto a non capire che volevamo cose diverse.”.
Improvvisamente, mi sentii vicina a lui. Probabilmente anche lui stava soffrendo come avevo sofferto io, solo un anno prima. Ed anche Fabrizio, un giorno, avrebbe iniziato a provare odio per tutti i momenti, per tutte le parole, per tutti i progetti che riguardavano Giada. Davanti a me avevo un uomo che conoscevo appena, ma sembrava di rivedere la mia essenza. E mi sentii in colpa. In colpa perché non dovevo provare quella strana voglia di trovare le parole per confortarlo. Mi sentivo in colpa perché volevo dirgli che Giada non meritava una persona come lui, anche se non conoscevo la loro storia.
Fabrizio mi fissò attentamente e mi chiese: “Cos’hai?”.
Mi morsi un labbro, indecisa su cosa dire. Poi, mi feci coraggio: “Niente, è che mi dispiace vederti giù”.
Mi sorrise, malinconico, e poggiò una mano sulla mia: “Sei molto gentile con me… In realtà sei sempre gentile con tutti, anche con chi non se lo merita. E questa cosa mi piace. Ai miei occhi ti rende una donna che vale la pena di conoscere a fondo.”.
Il suo sguardo mi spaventò, sembrava volesse leggermi dentro l’ anima. Non mi aveva mai guardata in quel modo, o forse io ero troppo presa da me stessa per accorgermene.
Allontanai la mia mano dalla sua, scossa da quel contatto inaspettato. Mi alzai dal divano e, tenendo lo sguardo basso, dissi: “Adesso dovrei andare, il dovere mi chiama.”.
Fabrizio si alzò a sua volta e incatenò nuovamente il suo sguardo nel mio. Cosa voleva da me? Ed io cosa volevo da lui? Io volevo solo la sua amicizia. Niente di più. Avevo già molti problemi da risolvere. Ma lui cosa voleva da me, in quel preciso istante? Mi guardò allarmato: “Ho fatto qualcosa di sbagliato? Io non voglio sembrare troppo precipitoso…”.
Non gli detti il tempo di terminare le sue spiegazioni. Mi allontanai a passo spedito dalla sala ristoro, percorsi il corridoio a testa bassa e mi rifugiai in ufficio, chiudendomi la porta alle spalle. Quella stanza luminosa e dall’ arredamento semplice mi sembrava quasi un porto sicuro. Ignorai gli sguardi curiosi di Alessandra e Valentina e tornai alle mie scartoffie, nonostante sentissi il viso in fiamme e il cuore che batteva all’ impazzata. Sapevo che non potevo evitare Fabrizio per molto. Il suo ufficio era a pochi metri dal mio e, per motivi lavorativi, dovevo tenermi in contatto con lui. Dovevo risolvere la situazione al più presto.

Ciao!! Ecco un nuovo capitolo e un nuovo personaggio che rivedremo presto...
Approfitto di questo piccolo spazio per ringraziare chi segue questa storia... Alla prossima!!!

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Capitolo 8
*** Una tranquilla serata ad Anzio ***


Una tranquilla serata ad Anzio - POV Gianluca

“Gianluca, potresti portare in giardino le bottiglie di succo d’arancia?”. Marta, la compagna di mio padre, fece capolino in cucina e mi regalò il solito sorriso materno.
“Ci penso io, non preoccuparti.”. Tirai fuori dal frigo altre due bottiglie di succo e uscii in giardino, dove Marta aveva sistemato il tavolo in legno bianco e le sedie. I nostri vicini erano già arrivati, puntuali come sempre e stavano parlando con mio padre, che era intento a preparare il barbecue.
Posai le bottiglie sul tavolo, accanto ai bicchieri di plastica e salutai i nostri amici: Michele, sua moglie Carla, il figlio Alessio, che aveva la mia stessa età e la piccola di casa, Noemi, che aveva compiuto da poche settimane diciotto anni. L’ aria era fresca, sarebbe stata una cena fantastica.
Amavo la casa di Anzio. L’ aveva costruita mio nonno, poco prima di sposarsi. Era una villetta su due piani, circondata da un ampio giardino pieno di alberi. Il primo dettaglio che si notava svoltando per il viale polveroso, era il cancello in ferro battuto e il muretto di mattoni rossi. Oltre il cancello c’ era un piccolo piazzale per le macchine e il vialetto bianco che proseguiva fino alla porta di ingresso. Al piano terra c’erano il salotto, la cucina e il ripostiglio, mentre al piano superiore c’erano tre camere da letto, due bagni e una bella terrazza piena di fiori. La casa era sempre stata accogliente, ma da quando c’era Marta, aveva qualcosa di magico. Forse perché aveva una laurea in design di interni, o forse perché aveva imparato ad amare anche lei quel posto.
Mio padre, borbottò come sempre: “Dannato barbecue… Mi sono bruciato per l’ ennesima volta.”.
Mio padre era una brava persona, ma bastava veramente poco per fargli perdere la pazienza. Mi chiedevo come facesse Marta a sopportarlo, visto che erano due persone opposte. Marta aveva dieci anni in meno di mio padre. Era una donna solare, ottimista, gentile anche con chi conosceva appena. Non aveva figli e, anche se non lo avrebbe mai ammesso, la cosa le dispiaceva molto. Aveva un forte istinto materno che riversava su Matteo, tanto da viziarlo e accontentarlo sempre e incondizionatamente. Mio padre, invece, era un testardo che pretendeva di aver sempre ragione, in più era allergico alle dimostrazioni di affetto.
Presi posto su una delle sedie, mentre Alessio mi aggiornava sul suo nuovo lavoro. Io e Alessio eravamo cresciuti insieme e la nostra amicizia si era consolidata nel corso degli anni. Da bambini eravamo scalmanati, ma pieni di curiosità e di entusiasmo. Passavamo i pomeriggi estivi a correre in bicicletta, a giocare a calcio in giardino e a raccogliere le figurine dei calciatori. Durante l’ adolescenza, la nostra amicizia si era trasformata in complicità fraterna, perché eravamo molto simili: entrambi troppo sicuri e spavaldi, con la passione per lo sport e le moto. Con l’ arrivo di un’ età più matura, i nostri spiriti ribelli si erano placati, ma sapevamo che potevamo contare l’ uno sull’ altro.
Noemi prese posto accanto a noi e iniziò a trafficare con il suo cellulare. Ero stupito dalla rapidità con cui scriveva messaggi: ero sicuro che prima o poi le sue dita avrebbero preso a fumare. Le chiesi, per scherzare: “Chi è, un fidanzato geloso?”.
Noemi sbiancò e mi guardò con gli occhi sgranati. Io e Alessio scoppiammo a ridere e il fratello iniziò a prenderla in giro: “Lo conosco? Non dirmi che è quell’ idiota di Stefano…”.
L’ espressione di Noemi valeva più di mille parole. Ecco, era iniziato il divertimento, l’ avremmo tormentata per tutta la serata.
L’ arrivo di altri ospiti interruppe il mio nuovo passatempo. Salutai Marcello e Daniela, degli amici di Marta che conoscevo appena. Guardai l’orologio: erano già le sei e mezza e Livia non era ancora arrivata. Che avesse cambiato idea? Impossibile, quando le avevo telefonato per comunicarle l’ orario della cena sembrava entusiasta per l’ appuntamento. Ok, forse non entusiasta, ma sembrava realmente motivata a trascorrere la serata qui ad Anzio. Mi chiesi se fosse il caso di chiamarla, per sapere dove fosse, ma poi cambiai idea, non volevo soffocarla troppo.
Avevo bisogno di distrarmi. Ma come? Dovevo inventarmi qualcosa. Guardai Alessio e dissi: “Ti va di fare una partita alla Play?”.
“Volentieri, amico…”.
Ci dirigemmo in salotto, ci buttammo sul divano e iniziammo a giocare come ai vecchi tempi.


Estate 2005
Era stata una giornata fantastica. Io, Livia, Alessio e Martina eravamo stati al mare fino alle sei del pomeriggio e eravamo rientrati a casa da appena un’ ora. Livia e Martina si erano già fatte una doccia e si erano rintanate in cucina per preparare la cena, mentre io e Alessio avevamo deciso di giocare un po’ alla Play. Alessio mi chiese: “Allora, tu e Livia fate sul serio?”.
Annuii: “Sembrerebbe così, lei non si è ancora stufata di me. Tu e Martina, invece?”.
“No, niente complicazioni. Abbiamo solo diciassette anni, fratello!”.
Lo corressi: “Quasi diciotto.”.
Livia entrò in soggiorno, con i capelli ancora umidi, legati alla meglio da un mollettone. Mi piaceva anche così, senza un filo di trucco, con una maglietta semplice e un paio di leggins grigi. Mi lasciai distrarre da lei, che ci guardò divertita: “Ragazzi, non dovreste farvi una doccia?”.
Alessio rispose: “Dai, Livia, non rompere… Facci finire questa partita!”.
Livia si avvicinò pericolosamente alla Play e, prima che potessi comprendere le sue intenzioni, la spense. Incrociò le braccia e sorrise trionfante: “Per oggi i giochi sono finiti.”.
Io e Alessio la guardammo interdetti, con le dita ancora appoggiate ai tasti del joystick. Alessio la prese male e si lamentò: “No, stavo vincendo. Livia, sei una guastafeste.”.
Avrei dovuto essere almeno irritato per quel gesto, ma non ci riuscivo. Ero solo in grado di ammirare la sua aria sprezzante, le sue labbra piegate in un sorriso furbo. Non mi importava della partita, o di quanto potesse essere fastidiosa la mia ragazza. Mi limitai a lanciarle un cuscino in faccia e a dirle: “Sei incredibile! Questa ce la paghi, te lo prometto!”.
Ci guardò seria e poi replicò: “Dai, andate a fare questa benedetta doccia, che io e Martina stiamo morendo di fame!”.
Mi alzai, mi avvicinai a lei per regalarle un bacio sulla guancia e risposi: “Agli ordini!”.
In quell’ istante ero certo che la nostra complicità sarebbe durata per sempre, che niente e nessuno avrebbe rovinato il nostro rapporto.


Ciao, ecco terminato il nuovo capitolo. Questa volta ho deciso di inserire un flash back di una tranquilla estate ad Anzio, tanto per dare un' idea di come fossero Livia e Gianluca da ragazzi.
Che altro dire? Vorrei ringraziare nuovamente chi segue questa storia, in particolare Sun_Rise93, che riesce sempre a trovare qualche minuto per lasciarmi un commento. Grazie, grazie, grazie!!!
Alla prossima!!

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Capitolo 9
*** Messaggi inaspettati ***


Messaggi inaspettati - POV Livia

Finalmente, dopo più di un’ ora di traffico, eravamo arrivati alla casa ad Anzio. Suonai il citofono e, dopo pochi istanti, il cancello si aprì. Risalii in macchina e feci manovra per parcheggiare nel piccolo piazzale che riusciva ad ospitare a malapena la mia macchina, quella di Gianluca e quella di Giorgio. Spensi il motore e scesi dalla macchina insieme a Matteo. Mio figlio si guardò intorno, felice di essere lì. Anche lui adorava quel posto: amava starsene pomeriggi interi in giardino, fare una bella merenda sulla terrazza, scorrazzare in giro per la casa, molto più grande dell’ appartamento in città. Matteo lasciò la presa della mia mano quando vide Gianluca avvicinarsi a noi, con stampato un sorriso indecifrabile sul volto. Il bambino si fiondò su di lui e si lasciò prendere in braccio: “Papà, hai detto al nonno di cucinare anche gli Hot Dog?”
“Certo, non potevamo di certo farceli mancare. Perché non vai a vedere cosa sta combinando? Secondo me, se non lo controlli, brucerà tutta la carne e non mangeremo niente.”.
Matteo scoppiò a ridere, con quella risata cristallina e spensierata che potevano avere solo i bambini. Si lasciò poggiare a terra e corse dal nonno, lasciandoci soli. Ed io mi trovai in imbarazzo, ripensando a quello che era successo l’ ultima volta che ci eravamo visti. Gianluca si avvicinò e mi regalò un bacio insicuro sulla guancia: “Hey, credevo che avessi cambiato idea.”.
Gli sorrisi, stranamente felice per quel contatto semplice e che in realtà era durato solo pochi istanti. Sorrisi, nervosa come una ragazzina al primo appuntamento e replicai: “Sarei arrivata prima, se non fosse stato per il traffico. Allora, andiamo dagli altri?”.
Gianluca mi fece strada e salutai gli altri ospiti: il solito sorriso cordiale a Giorgio, il padre di Gianluca, un saluto caloroso ad Andrea e alla sua famiglia, una rapida presentazione a delle persone che vedevo per la prima volta e, per ultimo, un abbraccio affettuoso a Marta. Gianluca e Giorgio terminarono di cucinare la carne sul barbecue e, verso le otto, prendemmo tutti posto a tavola. Matteo si posizionò tra me e Gianluca, mentre alla mia destra avevo Noemi, che stava crescendo a vista d’occhio. Aveva tolto l’ apparecchio, si era schiarita i capelli e il suo viso aveva un’ aria più matura. Mi sentivo bene, nonostante gli sguardi curiosi di tutti quanti, che sicuramente si stavano chiedendo cosa ci fosse tra me e il mio quasi ex marito.
Ogni tanto, mi ritrovavo ad osservare Gianluca, mentre parlava con Alessio, mentre giocherellava con Matteo, oppure mentre beveva un bicchiere d’ acqua. Era cambiato molto nel corso degli anni. Aveva accorciato notevolmente i capelli, che erano sempre stati ribelli, sembravano rispecchiare parte del suo carattere. Il suo sguardo era meno duro ma rivelava tutte le sue emozioni, era un libro aperto. Il suo corpo era più robusto e forte, come se fosse pronto a sorreggere il peso del mondo. Ma avevo notato che sorrideva meno: il ragazzo spensierato, ottimista, che non aveva paura di nulla era scomparso e forse non sarebbe più tornato. Che fosse colpa mia?
Al momento del dolce, il mio cellulare prese a squillare. Lo tirai fuori dalla borsa, che avevo poggiato allo schienale della sedia e lessi sul display il nome di Fabrizio. Rifiutai la chiamata e la magia della serata sparì all’ improvviso. Ritornò tutto a galla. Fabrizio che era strano. Fabrizio che aveva uno sguardo diverso. Fabrizio che evitavo da qualche giorno. Fabrizio che mi faceva sentire in colpa. Fabrizio che deve essere solo un amico.
Gianluca notò il mio turbamento. Mi studiò e disse: “Tutto ok?”.
Poggiai il cellulare sul tavolo, abbozzai un sorriso finto e traballante e risposi: “Si, è solo una collega. In questi mesi stiamo lavorando molto.”.
Non ero certa di essere stata molto convincente, ma non fece nessun’ altra domanda. Non potevo dirgli tutta la verità: non avevo tempo, in quel momento, ed ero certa che lui non avrebbe capito, perchè tutto ciò era poco chiaro perfino a me.
Quando stavo cominciando a rilassarmi nuovamente, mi arrivò un messaggio, sempre di Fabrizio.
Livia, ho bisogno di parlarti. Ti prego, richiamami.
I successivi messaggi erano molto simili: Lo so che mi stai evitando, ma io devo spiegarti.
Livia, tu mi piaci molto e non mi basta più averti come amica. Io voglio qualcosa di più, ma devo dedurre che non sei del mio stesso parere.
L’ ultimo messaggio mi spaventò. Capii solo in quell’ istante che se lui si fosse rivelato solo qualche settimana prima, gli avrei dato una possibilità. Se fosse successo tutto prima dell’ incidente di Gianluca, avrei probabilmente iniziato a frequentarlo per capire se tra di noi potesse esserci qualcosa di più della semplice amicizia e della stima professionale. Ma adesso c’era di nuovo Gianluca. O meglio, c’era sempre stato, ma io facevo finta di non accorgermene. Perché era più semplice, perché mi ero illusa di poter gettare nel dimenticatoio gli anni passati insieme, l’ amore, la passione, la gioia che avevo visto nei suoi occhi quando prese per la prima volta in braccio Matteo. Ma come si può cercare di dimenticare qualcosa di così bello, speciale, unico?
Con una scusa, presi il cellulare e mi alzai da tavola. Avevo bisogno di starmene un po’ da sola. Salii al piano superiore e mi recai in terrazza, certa che nessuno mi seguisse. Composi il messaggio: Adesso non posso richiamarti, ma sono d’accordo con te, dobbiamo chiarirci.
Subito dopo aver inviato il messaggio, una voce alle mie spalle mi fece trasalire: “Cosa ci fai qui da sola?”.
Mi voltai, colpevole. Era Giorgio, che mi guardava con aria indagatrice. Mi sorrise e continuò: “Hai contattato la tua collega stacanovista?”.
Annuii, poco convinta. Giorgio proseguì: “Non sono tanto certo che si tratti di una collega. Io credo che si tratti di un uomo, invece.”.
Sbiancai. Non doveva sapere. Non poteva. E non poteva dirlo a Gianluca, non adesso. Provai a tirar fuori un discorso logico: “Giorgio, non è come pensi. Io non ho nessuna relazione… E’ che questo collega è interessato a me ed io non so come uscire da questa situazione…”.
Mi guardò divertito: “Non devi aggiungere altro. Ti credo. Quello che mi domando è: perché tutti questi misteri con Gianluca?”.
Sospirai: “Perché devo vedermela da sola. Gianluca non lo deve sapere, si preoccuperebbe inutilmente.”.
Posò una mano sulla mia spalla: “Ti fai carico di troppi pesi, per la tua età. Lo sai che se hai bisogno di parlare con qualcuno, puoi sempre contare su di me? Sai, sono burbero e un po’ rompiscatole, ma sono abbastanza saggio.”.
Riuscì a strapparmi un sorriso: “Grazie Giorgio… Posso chiederti di non dire nulla a Gianluca, per il momento?”.
“Tranquilla, sarà il nostro piccolo segreto, ma tu non deludermi.”.

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Capitolo 10
*** Verità nascoste ***


Verità nascoste - POV Gianluca

Avevo seguito Livia al piano superiore, con la speranza di capire cosa la turbasse. Perché era evidente che qualcosa non andava e che tutti quei messaggi le avevano tolto il sorriso. Purtroppo mio padre mi aveva preceduto e le stava ponendo le stesse domande che mi balenavano nella testa. Mi accostai dietro la porta - finestra, un po’ coperto dalla tenda bianca che profumava di lavanda. Loro non mi avrebbero visto, ma io avrei sentito tutto. Non era un comportamento maturo, anzi, era piuttosto infantile, ma dovevo sapere la verità, o sarei impazzito. E la verità non tardò ad arrivare, da una Livia determinata come sempre. Il suo tono di voce sembrava sincero, ma quella rivelazione inaspettata mi preoccupava molto. Chi era questo collega? Quante possibilità aveva di conquistare Livia? Probabilmente era un ragazzo intelligente, sicuro di sé, responsabile… Forse, con il tempo, Livia poteva lasciarsi incantare da questo tizio e potevo dire addio alla possibilità di salvare il nostro matrimonio. Quando terminarono la conversazione, mi affrettai ad allontanarmi, non dovevano vedermi.
Tornai in giardino e presi nuovamente posto a tavola, ma ormai la serata era rovinata. Nella mia testa balenavano immagini di un ipotetico futuro simile all’ apocalisse: Livia che iniziava a frequentare quest’ altro uomo, che mi chiedeva di firmare le carte del divorzio e che mi portava via Matteo. Forse viaggiavo troppo con la fantasia o forse stavo diventando matto. Dovevo parlarle al più presto, dovevo conoscere le sue intenzioni.
Verso l’ una di notte, i nostri ospiti andarono via e Marta propose a Livia di restare per la notte. Livia, dopo le insistenze di Marta e di un Matteo assonnato, accettò. Le avrei ceduto la mia stanza, che una volta condividevamo insieme. Quella era l’ occasione giusta per parlarle. La attesi in camera, seduto sul letto a due piazze, teso come una corda di violino. Dopo dieci minuti, i più lunghi di tutta la mia vita, entrò in camera. Mi studiò, sorpresa di trovarmi lì. Mi sorrise e disse: “Matteo è praticamente crollato dal sonno…”.
Aprì l’ armadio, in cerca dei suoi effetti personali, che aveva lasciato lì dall’ estate precedente. La osservai attentamente, cercando le parole giuste per iniziare il discorso. Presi un bel respiro e cominciai: “Ti ho sentita prima, quando parlavi con mio padre.”.
Lasciò perdere i vestiti nell’ armadio e si voltò verso di me, allarmata. Sospirò e sistemò una ciocca di capelli sfuggita dalla pettinatura semplice che le lasciava scoperto il collo. Prese posto accanto a me e chiese: “Cosa hai sentito, precisamente?”.
Alzai gli occhi al cielo: “Livia, non fare la finta tonta, so tutto del tuo collega seduttore. State insieme?”.
Rispose, decisa: “No. Sono pronta a giurartelo su tutto ciò che mi è caro.”.
Un peso in meno sul cuore. Proseguii: “Allora cosa c’è tra voi due? Devo preoccuparmi?”.
Si morse un labbro: “Non volevo parlartene proprio per non farti allarmare inutilmente. Io non provo nulla per Fabrizio…”. Fabrizio. Era così che si chiamava? Dopo qualche secondo di pausa, continuò: “Lui mi ha appena confessato quello che prova per me e ha già intuito che i suoi sentimenti non sono corrisposti. Gli parlerò e gli farò capire che non deve illudersi con me.”.
Annuii, ancora non del tutto rassicurato: “Come faccio a non preoccuparmi, sapendo che lavorate nella stessa società e che passate molte ore insieme? Lo sai cosa dicono? Che molte relazioni nascono sui posti di lavoro.”.
Scosse la testa, divertita. Poi prese il mio volto tra le sue mani e mi fissò seria: “Gianluca, smettila di fare il paranoico. Ti prego, fidati di me, almeno per una volta.”.
I suoi occhi, le sue mani morbide sulla mia pelle, mi stavano confondendo. Mi ero innamorato di lei perché i suoi gesti, i suoi sguardi trasmettevano la dolcezza del suo animo. In quel preciso istante, sembrava volesse farmi travolgere da una dolcezza che aveva nascosto per troppo tempo.
Le sorrisi, insicuro, poi poggiai le mie mani sulle sue, che bloccavano ancora il mio volto. Mi lasciò fare, senza staccare lo sguardo dal mio. Avrei voluto assaporare le sue labbra, lasciarmi trasportare dalla passione, ma avevo paura di azzardare troppo e di commettere qualche passo falso. Mi limitai a dire: “Dannazione, quanto sei bella.”.
Arrossì e abbassò lo sguardo. Si liberò dalla presa delle mie mani e prese a giocherellare con la stoffa del copriletto. Sembrava una bambina intimidita e la cosa mi fece sorridere. Livia era la donna più complessa che avessi mai conosciuto: sapeva essere forte, decisa, e, se necessario fredda e carica di rabbia, ma, dietro la sua corazza, si nascondeva una ragazza romantica e sognatrice, con le sue piccole insicurezze. Potevo perdermi nelle sfaccettature del suo carattere, senza mai stancarmi di lei. Dopo qualche istante di silenzio, mi guardò intimidita e disse: “Adesso potresti abbracciarmi anche solo per pochi secondi?”.
Non me lo feci ripetere due volte, anche se la sua insolita richiesta mi stupì. Allargai le braccia e si abbandonò su di me, affondando il viso sul mio petto. La strinsi forte a me e respirai il suo profumo, così buono e delicato. Le baciai i capelli e le chiesi: “Perché stai elemosinando abbracci?”.
Senza guardarmi, disse, con un filo di voce: “Perché ho bisogno di sentirti vicino. Sono stanca di sentirmi sola.”.
Mi aveva lasciato senza parole, come sempre. Cercai di sdrammatizzare la situazione: “Se devo essere sincero, eri più divertente da ubriaca. Le tue intenzioni, quella sera, erano decisamente più piccanti.”.
Si allontanò da me e mi dette uno spintone. Scoppiai a ridere e lei mi imitò, ancora più rossa in viso. Riprese fiato e mi puntò un dito contro: “Non azzardarti mai più a tirare fuori questo discorso…”.
Iniziai a farle il solletico, solo per il gusto di infastidirla: “Osi minacciarmi?”.
Livia non aveva mai sopportato il solletico. Si divincolo e tentò di allontanarsi da me, ma non glielo permisi. Volevo godermi quel momento di spensieratezza, ce lo meritavamo entrambi. Mi fiondai su di lei e la costrinsi a sdraiarsi sul materasso. Ci ritrovammo uno sopra l’ altra, stretti in un abbraccio inaspettato. Avrei potuto baciarla, toglierle la maglietta e lasciarmi andare, ma sapevo che lei non era ancora pronta. Aveva bisogno di più tempo e io ero disposto ad aspettare. Non avrei potuto attendere all’ infinito, ma qualcosa nel suo sguardo mi diceva che in breve tutto sarebbe tornato come una volta. Lei era ancora mia ed ero disposto a combattere contro il tempo, contro Fabrizio, contro qualsiasi cosa che potesse separarci.
Dopo aver scherzato per qualche minuto, decisi di lasciare la stanza, avevamo bisogno di riposare. Passai la notte sul divano, che era di una scomodità unica. Non riuscii a dormire e, mentre fissavo il soffitto bianco, iniziai a riordinare le idee. Le parole di Livia mi avevano in parte tranquillizzato, ma mi promisi di tenere gli occhi aperti. Avevo un nuovo rivale che non conoscevo e che non dovevo sottovalutare. Se Fabrizio voleva la guerra, avrebbe ottenuto pane per i suoi denti.

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Capitolo 11
*** Non si arrenderà mai ***


Non si arrenderà mai - POV Livia

Quella mattinata, arrivai in ufficio agitata e nervosa. Avevo studiato il discorso più e più volte, mentre guidavo per le strade di Roma. Dovevo essere convincente con Fabrizio, perché avevo promesso a Gianluca che avrei risolto tutto al più presto. Timbrai il mio badge all’ entrata dell’ edificio e posai la borsa nel mio piccolo ufficio. Guardai l’ orologio: erano le otto e mezza. Avevo esattamente mezz’ora di tempo.
Mi avviai all’ ufficio di Fabrizio, certa di trovarlo già lì. Bussai e la sua voce mi invitò ad entrare. Presi un bel respiro profondo ed entrai, chiedendomi che fine avesse fatto tutta la sicurezza che credevo di possedere fino a pochi secondi prima. Entrai e richiusi la porta alle mie spalle. Con una voce abbastanza decisa, dissi: “Buongiorno, Fabrizio.”.
Lui alzò lo sguardo da alcuni documenti e lo posò su di me. Portava i suoi immancabili occhiali con la montatura scura, che lo facevano sembrare un meticoloso studente universitario. Mi sorrise, sicuro di sé, e mi disse: “Buongiorno Livia, sono contento di vederti. Ti prego, siediti.”.
Seguii il suo invito, studiandolo per pochi secondi. Era un ragazzo d’oro e non volevo farlo soffrire. Poteva avere qualsiasi donna, perché aveva scelto proprio me, che ero così problematica?
Iniziai a giocherellare con il braccialetto che avevo indossato: “Hai qualche minuto per me? Ho bisogno di parlarti…”.
Poggiò i gomiti sulla scrivania e si sporse più avanti, come per accorciare la distanza che ci separava: “Lo so e prevedo che quello che hai da dirmi non sia positivo.”.
Lessi il dispiacere nei suoi occhi. Perchè era tutto così difficile? Perché, nella mia vita, non riuscivo a trascorrere una giornata senza problemi o sensi di colpa? Mi morsi un labbro: “Purtroppo è così. Sai, sto vivendo una situazione un po’ delicata. Ho appena deciso di riallacciare i rapporti con mio marito e sembra che le cose stiano procedendo bene.”.
Il suo solito sorriso cordiale sparì e i suoi occhi penetranti iniziarono a studiare ogni dettaglio del mio viso. E nuovamente, mi mise a disagio. Era un attento osservatore, nulla sfuggiva al suo sguardo, sembrava essere sempre in simbiosi con la gente che lo circondava. Forse, se si fosse dato alla psicologia, avrebbe potuto fare grandi cose. Avevo paura che dal mio volto potesse leggere qualcosa che perfino io ignoravo. Era un’ idea stupida, ma mi martellava in testa e annebbiava quel poco di buon senso che mi era rimasto. Si passò una mano sul mento, come per riflettere, poi disse: “Siete tornati insieme?”.
“Non ancora, ma probabilmente succederà. E’ giusto così, vogliamo darci una seconda possibilità.”.
Cambiò posizione, buttandosi all’ indietro sulla sedia. Con aria terribilmente seria, replicò: “Tutta questa storia sembra una minestra riscaldata. E tu meriti più di questo.”.
Mi sentii offesa da quelle parole, lui non conosceva né il mio passato, né Gianluca, e, soprattutto, non mi conosceva a fondo. Lui conosceva la Livia professionale, quella che arrivava puntuale in ufficio, che controllava meticolosamente ogni documento, che rispettava ogni scadenza, che sapeva essere diplomatica con tutti. Ma io non ero solo questo: ero una figlia incompresa, una madre che adorava il suo bambino, una donna che era cresciuta troppo in fretta e che aveva affrontato tante avversità da sola, una ragazza che credeva ancora nell’ amore e che voleva tornare a sorridere. Fabrizio non poteva conoscere tutto questo di me. Aveva potuto vedere solo una piccola parte della mia personalità, un pezzo di puzzle della donna che si era formata nel corso di venticinque anni. Ma non aveva una mia visione completa.
Con tono più freddo di quanto avessi voluto, replicai, decisa: “Non sono venuta qui per sentire la tua opinione. In realtà volevo solo mettere in chiaro che tra noi non potrà mai esserci niente.”.
Credevo di essere stata chiara, che non potesse porre obiezioni, perciò mi stupii quando mi chiese: “Perché?”.
Come perché? Era evidente. Sospirai: “Fabrizio, dico sul serio. Io riesco a vederti solo come un amico e mi dispiace se, involontariamente, ho alimentato in te false speranze.”.
Mi alzai dalla sedia, non avevo altro da aggiungere. Mi voltai, pronta a lasciare la stanza, quando Fabrizio mi raggiunse e mi bloccò per un braccio. Mi voltai, per studiare la sua espressione seria. Fu lui a parlare per primo: “Tu lo ami ancora?”.
Dovevo essere sincera con lui: “Si, ma ho tanta paura. Non sono una stupida, so che c’è una buona probabilità che le cose non funzionino. Ma so anche che se non colgo questa seconda opportunità, me ne pentirò per il resto della mia vita.”.
Fabrizio si allontanò di qualche centimetro: “Lo sai che io non ti farei mai soffrire?”.
Scossi la testa: “Dite tutti così, all’ inizio…”. Mi morsi un labbro: “Ti prego, non rendere ancora tutto più difficile…”.
Si mise le mani in tasca e mi guardò con aria di sfida: “Va bene, mi arrendo, per il momento. Ma quando tuo marito ti deluderà nuovamente, ricordati che io sarò ancora qui ad attenderti.”.
La sua aria strafottente mi irritò in maniera indescrivibile. Avrei tanto voluto urlargli in faccia che era un pallone gonfiato, ma mi imposi di controllarmi. Replicai, indifferente: “Non abbiamo più niente da dirci.”.
Uscii da quel maledetto ufficio, sperando di non doverci rientrare per almeno un paio d’ore. Fabrizio si era bevuto il cervello. Non c’era altra spiegazione plausibile. Speravo solo che si dimenticasse al più presto di me e che mi facesse lavorare in tranquillità. Non potevo avere distrazioni in quella società.
Entrai nel mio ufficio, contenta di trovarvi già Alessandra. Aveva un anno in più di me e sembrava non conoscere preoccupazioni. Lei viveva in un mondo fatto di serate con gli amici, di messaggi sui social network, di litigate con il suo ragazzo che venivano dimenticate nel giro di poche ore. Sembrava che il mondo le andasse bene anche se non era perfetto. Un po’ la invidiavo, perché non ero mai stata così spensierata, nemmeno da adolescente. Cercai di sembrare tranquilla. Le sorrisi cordiale e dissi: “Ciao Ale, tutto ok?”.
Indossò gli occhiali e prese posto sulla sua scrivania: “Si, tutto bene, sono solo un po’ assonnata. Sai, ieri era il compleanno di una mia amica e ho fatto le tre di notte. A te invece come è andato il finesettimana?”.
Da dove cominciare? Avevo ricevuto quei messaggi di Fabrizio, ho notato che Matteo sembra più sereno da quando io e Gianluca andiamo di nuovo d’ accordo, ho rischiato di perdere la fiducia di mio marito per colpa di un collega troppo invadente. Potevo parlarne con lei? Forse si, ma non avrebbe capito. E poi, perché assillare con le mie preoccupazioni proprio lei che non era stata ancora a contatto con le avversità del mondo? Sfoderai il mio sorriso migliore, quello che ci si stampa sul volto durante i matrimoni, nonostante i piedi siano stretti nella morsa infernale delle scarpe nuove, comprate quasi per errore. Mi limitai a rispondere: “Tutto bene. Sono stata ad Anzio insieme a mio figlio, per un week end in famiglia.”. Si, così suonava meglio.

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Capitolo 12
*** I ricordi non si possono archiviare ***


I ricordi non si possono archiviare - POV Gianluca

Quel giorno non andai al lavoro, avevo una visita medica per verificare che fosse tutto a posto. Il medico mi visitò attentamente e il suo esito fu positivo: ero sano come un pesce. Mi consigliò solamente di far controllare il ginocchio, che ogni tanto mi procurava qualche fitta di dolore.
Quando rientrai a casa, decisi di sistemare il mio pc. Avrei dovuto formattarlo ed era necessario fare un bel salvataggio di tutti i file. Presi l’ hard-disk esterno e iniziai a trasferire documenti, filmati e foto. Al termine, notai una cartella che avrei voluto cancellare, qualche mese prima, ma non ne avevo trovato il coraggio. Erano le foto con Livia, da quando ci eravamo conosciuti fino alla primavera dell’ anno precedente. La aprii, dopo tanto tempo e iniziai a guardarle, sorridendo a quelle più buffe o a quelle legate a momenti divertenti. E i ricordi iniziarono a riaffiorare prepotentemente.
La prima volta che la vidi, avevo da poco compiuti diciassette anni. Era seduta su una panchina del cortile di scuola, insieme ad alcune sue amiche. La conobbi solo perché Christian, il mio compagno di banco, aveva un debole per Serena, una sua compagna di classe. Livia era diversa da tutte le ragazze che avevo conosciuto: era semplice, solare, i suoi occhi grandi sembravano non voler perdere neanche un dettaglio del mondo. All’ inizio non era interessata a me, probabilmente sognava il ragazzo perfetto ed io non lo ero. Passavo da una ragazza all’ altra, non rispettavo il coprifuoco di mia madre, non volevo sentir parlare di regole. Ero un perfetto idiota, ma volevo cambiare. E così, abbandonai l’ aria da bullo solo per conquistarla. E stranamente ci riuscii. Livia era la prima cosa bella che mi capitò in quei diciassette anni: era intelligente, ironica, sensibile e sembrava capirmi, anche quando commettevo qualche errore. Il tempo volò in fretta e arrivarono le vacanze estive, passate per la maggior parte del tempo ad Anzio.
Dopo l’ estate, iniziammo a crescere veramente: arrivammo ai nostri diciotto anni, alla preoccupazione per gli esami di maturità, al chiederci cosa avremmo fatto delle nostre vite. Quell’ anno mi ritrovai a studiare come un matto, solo per farla contenta e uscii con un bel 91, che in confronto al 100 di Livia perdeva il suo valore. Dopo gli esami, decidemmo di trascorrere qualche settimana in Spagna, dai suoi parenti. In quelle tre settimane, capii di non essere ben visto dalla sua famiglia. Sua madre mi detestava senza alcun motivo reale, era evidente a tutti che sperasse che io e Livia ci lasciassimo. Con gli altri suoi parenti la situazione non era di certo diversa: i suoi zii quasi mi ignoravano, utilizzando la scusa che non parlassi lo spagnolo. Le sue cugine Celia e Laura erano troppo prese dai vestiti firmati e dai loro ragazzi per socializzare con me, il cugino Angel era un tipo di poche parole e ci degnava della sua presenza solo per pochi istanti. L’ unico cugino con riuscii a stringere amicizia era Marc, che parlava un italiano un po’ traballante.
Al ritorno dalla Spagna, Livia iniziò l’ università, aveva scelto di studiare architettura, incoraggiata da Marta. Io mi dedicai alla ricerca di un lavoro e grazie al voto conseguito alla maturità, venni assunto da una piccola società di ingegneria. Il lavoro era stressante e sottopagato, ma mi piaceva veramente. Io mi destreggiavo tra impegni lavorati, tante ore di straordinario, documenti da revisionare a casa, mentre Livia si divideva tra lo studio e il lavoro part-time come cameriera nella pizzeria sotto casa sua, ma riuscivamo sempre a ritagliare del tempo per noi. Livia non era solo la mia ragazza, era la mia migliore amica: sapeva ridere, ma anche essere seria, sapeva prendermi in giro, ma anche affidarsi a me. Aveva lo strano dono di adattarsi ad ogni esigenza del mio caratteraccio e se lei era al mio fianco non sentivo più le preoccupazioni, lo stress, la stanchezza. Rimaneva solo la luce dei suoi occhi, il suo sorriso da bambina, la sua risata piena di vita. Era come vivere in una bolla che isolava il resto del mondo.
Ma la storia della bolla era solo una favola per bambini, e me ne accorsi nel gennaio 2008. Livia, il giorno successivo all’ epifania, si presentò a casa mia bianca come un lenzuolo. Da perfetto imbecille, credevo si trattasse di una semplice influenza, ma mi sbagliavo: era incinta. Era uno shock, potevo aspettarmi tutto tranne quello: eravamo sempre stati attenti. Anche lei non sapeva spiegarselo, ma di una cosa era certa: non avrebbe mai avuto il coraggio di abortire. Capii all’ istante che entrambi volevamo tenere quel bambino che stava per stravolgere le nostre vite. La fortuna fu dalla nostra parte, come se tutto fosse sotto uno strano disegno divino: ottenni una promozione al lavoro, la banca ci concesse un mutuo e acquistammo un appartamento nel quartiere dove eravamo cresciuti ed infine ci sposammo nella parrocchia vicino casa di Livia, proprio come desiderava Ines, che sosteneva di non poter tollerare che sua figlia non si sposasse con rito religioso.
Il 5 settembre 2008, a dieci giorni dal mio ventunesimo compleanno, nacque Matteo. Ed iniziammo una vita a tre: le alzatacce nel cuore della notte, i pianti del bambino, le visite dalla pediatra, i primi sorrisi e le parole senza senso, il battesimo. Eravamo felici, le difficoltà non ci spaventavano e tantomeno riuscivano a toglierci il nostro entusiasmo. Livia rinunciò all’ università e, dopo alcuni colloqui disastrosi, venne assunta alla Realizzazione Metis e la nostra situazione economica divenne più rosea. Intanto Matteo cresceva e si iniziò a notare la somiglianza con sua madre: gli stessi occhi castani con pagliuzze verdi, la stessa carnagione e stesso colore di capelli, lo stesso sorriso. In un batter d’ occhio arrivò una nuova estate, passata ad Anzio. Fu un estate diversa, alle prese con Matteo che iniziava a muovere i primi passi e che aveva conquistato l’ intera spiaggia: mamme, nonne, ragazze e bambine. Il mio campione non aveva ancora un anno e già faceva strage di cuori. Proprio come suo padre.
Dopo il primo compleanno di Matteo, il matrimonio con Livia non fu più rose e fiori. Io avevo ricevuto una nuova promozione, che mi costringeva ad ulteriori straordinari e a qualche trasferta nel Lazio. Livia sembrava non voler capire che dovevo dedicare più tempo al mio lavoro, che non potevo tralasciare le mie responsabilità. Non capiva il perché non rientravo a casa per cena, perché lavoravo nel fine settimana e perché non potevo partecipare alle riunioni all’ asilo nido di Matteo. Smise di comprendermi e di starmi accanto: era sempre di pessimo umore, era silenziosa e litigavamo quasi ogni giorno. Discutevamo su tutto, anche sulle questioni più futili. La mia vita iniziò a starmi stretta: troppo lavoro, troppe incomprensioni, troppi litigi. Il mio rapporto con Livia si era incrinato e dentro di me stava affiorando la sensazione che non l’ amassi più, perché la ragazza fantastica che mi aveva reso una persona migliore era stranamente scomparsa ed ero certo che non sarebbe più tornata.
Livia, infatti, stava diventando come sua madre: certa che lei fosse perfetta e che nessuno fosse al suo livello. Era un’ idea stupida, ma in quel periodo mi sembrò una constatazione intelligente. Così, decisi di fare a modo mio, di fregarmene delle aspettative di mia moglie: comprai la moto dei miei sogni, ripresi ad uscire con gli amici di vecchia data e a rientrare a casa sempre più tardi. Ignoravo gli impegni, le ricorrenze, le cene con i parenti. La nostra convivenza era fatta di silenzi, di sguardi assenti, di frasi mai dette. Osservavo spesso Livia, così perfetta in tutto, così capace di gestire alla perfezione la sua vita: il lavoro, Matteo, le sue amiche, la cura per il suo aspetto. Trovava sempre il tempo per fare tutto senza commettere errori ed io mi sentivo sempre più inadatto a lei. Non era come in passato, quando mi bastava passare qualche ora sui libri per convincere me stesso e gli altri che fossi l’ uomo giusto per lei. Io non riuscivo a stare al suo passo e stavo rimanendo indietro.
Livia mi lasciò in una calda serata di giugno, dopo una discussione come tante. All’ inizio ero certo che fosse la soluzione migliore, l’ inizio della mia nuova vita. Ma mi sbagliavo, io senza Livia e Matteo non ero nessuno.

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Capitolo 13
*** Disegni e riviste ***


Disegni e riviste - POV Livia

Dopo la giornata lavorativa, passai a prendere Matteo da mia madre e tornammo a casa. Erano passate diverse ore, ma le parole di Fabrizio mi martellavano ancora in testa:
Ma quando tuo marito ti deluderà nuovamente, ricordati che io sarò ancora qui ad attenderti.
Sistemai casa e iniziai a preparare la cena, colta da uno strano senso di inquietudine. E se Fabrizio avesse ragione? E se ero destinata a ricevere una nuova delusione? Cercai di pensare in positivo: Gianluca, negli ultimi giorni, aveva dimostrato di essere cambiato in meglio. Sembrava volesse rimediare ai suoi errori, come io volevo rimediare ai miei. Dovevo fidarmi, come facevo in passato. Dovevo fidarmi dei suoi abbracci, così sinceri e protettivi. Le parole potevano nascondere la falsità, ma i gesti non potevano mentire.
La serata procedette tranquillamente e, dopo cena, concessi a Matteo di vedere un po’ di televisione in salotto. Presi posto accanto a lui, in silenzio. Lo osservai attentamente, stupendomi di quanto fosse cresciuto nell’ ultimo anno. A settembre avrebbe compiuto cinque anni e a me sembrava solo ieri quando gattonava lentamente per casa. Come era possibile che il tempo fosse volato via senza che me ne rendessi conto?
Matteo si voltò verso di me e disse: “Mi stavo dimenticando di darti il disegno…”.
Senza capire cosa volesse dire, scese dal divano e lasciò di corsa il salotto. Dopo qualche istante, tornò tutto sorridente e mi porse un foglio: “L’ ho fatto per te.”.
Osservai curiosamente il disegno, cercando di interpretarlo. Le sue rappresentazioni non erano molto chiare, ma ero diventata abbastanza brava nel decifrarle. Notai in alto un cerchio giallo: facile, quello era il sole. Poi, più in basso, sulla sinistra, un rettangolo arancione. Ci riflettei su, doveva essere una casa. Sulla destra, c’erano tre sagome, simili alle stecche dei gelati Magnum. Sorrisi, quella era la rappresentazione di tre persone. Matteo iniziò a spiegarmi: “Siamo io, te e papà alla casa al mare.”.
Tornai ad osservare il mio ometto, che era letteralmente orgoglioso della sua opera d’ arte. Gli accarezzai i capelli e dissi: “E’ veramente molto bello. Grazie.”.
Prese posto accanto a me e lo strinsi in un abbraccio. Improvvisamente, disse: “Alla nonna non è piaciuto.”.
Sciolsi l’ abbraccio e lo guardai preoccupata: “Hai fatto vedere il disegno alla nonna?”. Mia madre non sapeva ancora nulla del mio ravvicinamento a Gianluca. Avevo deciso di tenerla all’ oscuro ancora per un po’, perché non avrebbe capito e perché avrebbe fatto mille domande.
Rispose, pronto: “Si, le ho raccontato anche che siamo stati alla casa al mare e che abbiamo dormito lì.”.
Matteo, tesoro mio, cosa avevi combinato? Ecco perché mia madre mi era sembrata strana, poche ore prima. Dovevo assolutamente chiamarla per spiegarle la situazione. Addio segreto e riservatezza. Ero stata tradita dal mio stesso sangue.
Ero preoccupata, ma non riuscivo ad essere arrabbiata con Matteo. Gli sorrisi dolcemente e replicai: “Ti svelerò un segreto: la nonna non capisce nulla di disegni!”.
Riuscii a farlo ridere spensieratamente e il suo buonumore mi fece sentire subito meglio. Al diavolo le parole di Fabrizio, la disapprovazione di mia madre. Decisi di godermi quella serata con Matteo, stupendomi di quanto riuscisse a riempire le mie giornate.
Dopo aver visto un po’ di cartoni, decretai che era ora di andare a dormire. Matteo si lavò i denti, si infilò il pigiama celeste e si sdraiò sul suo letto. Come sempre, gli augurai la buonanotte e gli chiesi se aveva bisogno della luce accesa. La sua risposta fu: “No, sono grande ormai.”.
Spensi la luce e chiusi la porta, chiedendomi come avrei fatto quando sarebbe stato veramente grande e non mi avrebbe più cercato per ricevere baci e abbracci.
Guardai l’ orologio: erano le dieci di sera. Era un po’ tardi, ma dovevo assolutamente chiamare mia madre. Presi il telefono portatile e mi rifugiai in camera. Mi buttai sul letto e composi il numero. Uno, due, tre squilli. “Pronto?”.
Mi schiarii la voce: “Mamma, sono io.”.
“Ah, come mai chiami a quest’ ora? Problemi con Matteo?”. Notai il suo tono di voce. Indifferente. Irritato.
“No, Matteo sta benissimo, è appena andato a dormire…”. Presi una pausa: “Ti volevo parlare di una cosa importante…”.
Provai a spiegarle le ragioni che mi avevano spinto a riavvicinarmi a mio marito, ma sembrava non volesse ascoltarmi. Disse più volte che non avevo ancora capito che Gianluca non era l’ uomo giusto per me perché era insensibile, capace di pensare solo a sé e ai suoi desideri. Insomma, quella conversazione di trenta minuti fu un vero disastro e una perdita di tempo.
Quando terminai la telefonata, mi sdraiai a pancia all’ aria, arrabbiata con il mondo che mi aveva destinato ad una madre così testarda. Persa nei miei pensieri, osservai i dettagli della mia stanza, perfettamente ordinata. Notai una sola nota fuori posto: una rivista che era buttata in un angolo della mia piccola libreria. Mi alzai per verificare di cosa si trattasse: era un settimanale di poco conto, datato maggio 2013, che si occupava di gossip. In copertina c’era una famosa modella, forse la più apprezzata del momento e in basso, in caratteri rossi, c’era scritto:

Io e mio marito ci siamo ritrovati a Capo D’ Orlando.

Capo d’ Orlando. Avevo già sentito quella località siciliana. Provai a fare mente locale, poi ricordai le parole di una mia collega, che aveva trascorso qualche giorno in quella piccola cittadina, l’ anno scorso. L’ aveva definito un paradiso. Aprii la rivista e lessi l’ intervista rilasciata dalla modella, spinta dalla noia e dalla necessità di distrarmi un po’. La modella parlò della crisi con suo marito, della vacanza quasi casuale che avevano trascorso in Sicilia e di come avevano ricostruito il loro rapporto.
Un’ idea malsana mi balenò in testa: un viaggio. Io, Gianluca e Matteo. Non avevamo mai fatto una vera vacanza, avevamo sempre trascorso le nostre estati ad Anzio e solo un paio di volte eravamo stati in Spagna, insieme ai miei parenti. Una vacanza per tentare di salvare il mio matrimonio, proprio come quella modella. Chiusi la rivista, ridendo di me stessa e della mia stupidità. Non poteva di certo bastare una semplice settimana al mare per fare dei miracoli.
Andai a dormire, ma quell’ idea continuava a ronzarmi in testa. Un viaggio…

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Capitolo 14
*** Il progetto misterioso ***


Il progetto misterioso - POV Gianluca

Erano passati quattro giorni dal finesettimana ad Anzio e Livia si era rintanata in casa per dedicarsi ad un progetto misterioso. Sapevo che non c’era ragione di preoccuparsi, ma quel giovedi sera decisi di farle una visita a sorpresa, tanto per controllare che fosse tutto a posto.
Trovai Matteo a giocare con quegli orribili pupazzetti blu che lo facevano impazzire, mentre Livia era impegnata con il suo portatile. Matteo, come sempre, aveva mille cose da raccontarmi: i pomeriggi passati al parco giochi insieme alla nonna, il nuovo cartone animato trasmesso su Italia 1 e altri dettagli della sua vita che considerava veramente importanti.
Quando Matteo si ritirò in camera sua per sistemare i suoi giochi, Livia mi dedicò la sua attenzione. Mi sorrise titubante e mi indicò la sedia accanto alla sua: “Siediti… Devo dirti una cosa.”.
Seguii il suo ordine, chiedendo: “Devo preoccuparmi?”.
“Assolutamente no… Sai, in questi giorni ho riflettuto su noi due… O meglio, noi tre, considerando Matteo… perché riguarda la serenità nella nostra famiglia. E cosa è più importante della serenità in famiglia?”.
Non stavo capendo assolutamente niente. La guardai divertito e replicai: “Non ti seguo…”.
Sospirò e mi passò dei fogli stampati da computer. Mi disse: “Casualmente, ho letto che i viaggi riescono a rinforzare i rapporti di coppia. E’ proprio quello di cui abbiamo bisogno.”.
Detti un’ occhiata a quei fogli: erano riportate delle tariffe aeree. La guardai confuso: “Frena un secondo: vuoi fare un viaggio? Stiamo parlando di questo?”.
Annuì, poco convinta: “Lo so che ti sembra una richiesta assurda, nata così all’ improvviso. Ma pensaci: io ho molte ferie arretrate, e sicuramente lo stesso discorso vale anche per te. Sempre casualmente, ho dato un’ occhiata al sito Alitalia, e ho scoperto che i ragazzi al di sotto dei ventisei anni hanno delle tariffe agevolate per i voli nazionali. E poi, per Matteo, c’è una tariffa bambini veramente conveniente.”.
Sembrava una promoter che stava tentando di vendere un prodotto assolutamente inutile. Tentando di non ridere, le dissi: “Quante cose che riesci a scoprire casualmente!”.
Ignorò la mia constatazione: “Inoltre, il mese di luglio è convenientissimo per gli affitti delle case. I costi sono molto più bassi rispetto ad agosto.”.
Il mio sguardo passava dai fogli al volto di Livia: “E dove vorresti andare? Perché immagino che tu, sempre casualmente, abbia già scelto una località e contattato una persona del luogo per informarti sulle case in affitto.”.
Il suo sguardo colpevole diceva molto. Abbassò lo sguardo e con un filo di voce, replicò: “Capo d’ Orlando.”.
Mai sentita in tutta la mia vita: “Dove si troverebbe?”.
“In provincia di Messina.”.
Aveva già deciso tutto. Ecco svelato il grande progetto a cui aveva lavorato in questi giorni. Non volevo prendermi delle ferie per quell’ estate perché in ufficio avevamo appena acquisito un lavoro che desideravo seguire passo per passo. Come potevo spiegarlo a Livia? L’ avrei delusa, nuovamente. Provai a temporeggiare: “Perché spendere dei soldi per una vacanza in Sicilia, quando possiamo andare ad Anzio ogni volta che vogliamo?”.
Tornò a guardarmi: “Non è la stessa cosa…”.
Sospirai: “Hai già fatto un preventivo delle spese?”.
Mi passò un foglio scritto a penna. Aveva veramente pensato a tutto. Non potei far a meno di sorridere, immaginandomela sveglia fino a tardi alla ricerca delle offerte migliori. Il preventivo era più basso di quanto pensassi e comprendeva un volo di andata e ritorno per tre persone, l’ affitto di una casa per otto giorni e il noleggio di una Fiat Panda.
Avrei voluto dirle che non avevamo bisogno di quella vacanza, che potevamo riallacciare tranquillamente il nostro rapporto in mille altri modi, ma il suo sguardo speranzoso bloccò le mie parole. Era sicura che avrei accettato, probabilmente con la mente era già in Sicilia. Come potevo dirle che non volevo partire per un semplice impegno lavorativo?
Poggiai i fogli sul tavolo e dissi: “Dimmi solo che non sarà un viaggio culturale con delle visite ai musei e a delle vecchie rovine piene di polvere.”.
Il suo volto si illuminò in un sorriso: “No, solo mare, mare e ancora mare.”.
Scossi la testa: “Allora è tutto deciso… Si va a Capo d’ Orlando.”.
Si slanciò verso di me e mi strinse in un abbraccio caloroso: “Grazie, sapevo che avresti capito. Non vedo l’ ora di partire…”.
In realtà non capivo tante cose. Non comprendevo per quale ragione si fosse messa in testa l’ idea che il viaggio era la soluzione ai nostri problemi. O perché avesse deciso così, da un giorno all’ altro. Un altro discorso che non era chiaro era perché proprio Capo d’ Orlando. Insomma, i viaggi romantici si svolgevano a Venezia, oppure a Parigi… Mi sfuggiva sicuramente qualcosa, uno strano schema che le aveva letteralmente annebbiato il cervello. Decisi di non farle nessuna domanda. Era meglio non sapere nulla.
Quando sciolse l’ abbraccio, mi guardò trionfante e disse: “Allora, che ne pensi del 2 luglio per iniziare la vacanza?”.
“Per me non ci sono problemi, ma sai che devo prima parlarne con il mio capo.”.
Quella risposta, stranamente, sembrò bastarle: “Sono certa che ti concederà un po’ di riposo… Mi prometti che gliene parlerai già domani mattina?”.
Come potevo dire di no di fronte a quel sorriso? “Va bene… Come mai tutta questa fretta?”.
Alzò gli occhi al cielo: “Che domande! Ho tanto da organizzare: devo chiamare la biglietteria Alitalia per acquistare i biglietti, devo prendere accordi per l’ affitto e devo iniziare a fare le valigie.”.
Avevo intuito bene: con la testa era già in Sicilia. Il suo entusiasmo era a mille e il suo viso era illuminato da una luce nuova mentre mi mostrava le foto della cittadina e della casa che aveva intenzione di prenotare. Forse staccare la spina per qualche giorno ci avrebbe fatto bene.

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Capitolo 15
*** Finalmente vacanza ***


Finalmente vacanza - POV Livia

Arrivammo a Capo d’ Orlando alle due del pomeriggio. La casa che avevo affittato si trovava a due passi dal mare e non fu difficile da trovare. Gianluca parcheggiò la macchina nel piccolo cortile in pietra dell’ abitazione e scendemmo dalla macchina, incuriositi dall’ abitazione. Eravamo un po’ stanchi per il viaggio e avevamo una fame da lupi. Matteo si guardò intorno, incuriosito e dalla sua espressione capii subito che quel posto gli piaceva. Puntai il mio sguardo su Gianluca: “Prima di scaricare la macchina, che ne dici di parlare con la proprietaria? Ha detto che ci avrebbe aspettato in casa.”.
Mi avviai alla porta, tenendo Matteo per mano. Gianluca mi seguì, anche lui intento a guardarsi intorno. Suonai il campanello e ci aprì una donna dai capelli neri e cortissimi. Doveva avere all’ incirca l’ età di mia madre. La donna mi rivolse un sorriso, che ricambiai. Le chiesi: “Lei è la signora Donato?”.
La donna mi strinse calorosamente la mano: “Si, e tu devi essere Livia. Prego, entrate pure. Come è andato il viaggio?”.
Entrammo e la donna ci studiò attentamente: prima analizzò me, poi Gianluca e infine Matteo, che la guardava timidamente. Le risposi: “E’ stato un po’ stancante, ma eccoci qui.”.
Mi guardai rapidamente attorno. Ci trovavamo nel salotto, arredato in maniera semplice ma elegante. Al centro c’erano un divano e due poltrone che sembravano appena acquistate e un tavolino in legno pieno di oggettini in vetro. Alla parete c’era una bella tv al plasma, di circa trentadue pollici, addossato alla parete color pesca. Alla mia destra c’era una sorta di zona pranzo e angolo cottura, separata dal soggiorno da un muretto alto all’ incirca un metro e trenta.
La signora Donato mi distolse dalla mia rapida analisi della casa: “E questo giovanotto deve essere tuo marito. Siete una coppia giovanissima…”.
Gianluca si presentò e lo stesso fece Matteo, che le rivolse un saluto timidissimo. La signora Donato ci mostrò rapidamente la casa, disposta su due piani. Al piano superiore si trovavano tre camere da letto non molto grandi e un bagno color crema. Ci consegnò le chiavi di casa e ci consigliò di chiamarla se avessimo avuto bisogno di qualcosa.
Quando ci lasciò soli, mi rivolsi a Matteo: “Allora, cosa ne pensi?”.
Matteo si tuffò sul divano e rispose: “Questa casa è molto bella. Però, mamma, io ho fame!”.
Gli sorrisi, dolcemente. Aveva ragione, avevamo mangiato solo un po’ di cracker, pensando di arrivare prima a destinazione. Gianluca propose: “Livia, ho visto che a pochi metri da qui c’è una pizzeria a taglio. Che ne pensi di farci un salto insieme a Matteo mentre io scarico le valigie? In questo modo ottimizziamo i tempi.”.
“Si, potremmo fare così. Sei sicuro di potertela cavare da solo, con i bagagli?”.
Mi rivolse un sorriso di sfida: “Mi hai preso per un rammollito? Certo che ce la faccio!”.
Alzai gli occhi al cielo. Perché gli uomini erano così fanatici? “D’ accordo. Dai, Matteo, andiamo a prendere un po’ di pizza.”.
Uscimmo dall’ abitazione e l’ aria calda ci investì nuovamente. Ci avviammo per la strada isolata a quell’ ora della giornata e raggiungemmo in pochi istanti la pizzeria. Entrammo nel piccolo locale, attirando l’ attenzione del proprietario e dei due signori seduti al tavolino. Dovevano aver capito immediatamente che eravamo turisti. Gli chiesi dei tranci misti di pizza, da portar via. Il proprietario li pesò, mi comunicò il prezzo, pagai e mi consegnò il tutto racchiuso nel cartone con una scritta verde. Uscimmo e ci avviammo rapidamente a casa, volevo far pranzare Matteo al più presto.
Sentivo i muscoli indolenziti per il troppo tempo passato seduta, tra l’ aereo e la macchina, ma ero contenta di essere lì, di sentire il profumo della salsedine che sembrava impossessarsi anche della mia pelle. Arrivati al cortiletto, Matteo si mise a correre, superandomi notevolmente. Trovò la porta aperta e disse a Gianluca: “Papà, è ora di pranzo.”.
Entrai anche io e chiusi la porta alle mie spalle: “Ragazzi, a tavola.”.
Matteo e Gianluca si sedettero vicini, ed io di fronte a loro. Prendemmo due tranci a testa ed iniziammo a parlare del luogo e di quello che avremmo potuto fare in quei giorni. In quell’ istante mi sentii bene, accanto alle persone che avevano completato la mia vita. Osservavo Gianluca e Matteo, stupendomi di quanto fosse semplice quel momento, ma anche di quanto significasse per me. Sembravamo il ritratto di una famiglia unita e serena, cosa che non si verificava da diversi mesi. Mi stavo convincendo sempre di più che avrei risolto i miei problemi con Gianluca, che quella vacanza ci avrebbe finalmente dato l’ opportunità di mettere da parte il passato e i rancori, per poter ricominciare tutto da capo.
Matteo, tra un boccone e l’ altro, disse: “Dopo possiamo andare in spiaggia?”. Guardava me e Gianluca speranzoso.
Gli sorrisi e replicai: “Tesoro, ma non sei stanco del viaggio? Non vorresti riposare un po’? Questa mattina ti sei svegliato presto…”.
Scosse la testa: “No, non sono stanco. I veri guerrieri non dormono mai.”.
Io e Gianluca scoppiammo a ridere. Ma dove aveva sentito quella frase? Gianluca a quel punto, si rassegnò: “Va bene, più tardi andremo in spiaggia…”.
Matteo sorrise trionfante, aveva vinto lui, come sempre. Terminammo il nostro semplice pranzo e mi dedicai a sistemare la mia valigia e quella di Matteo nelle camere. Scelsi per Matteo la stanza più piccola e per me quella accanto. Io e Gianluca avremmo dormito separati, era la soluzione migliore, per il momento. Dopo aver messo i vestiti negli armadi, mi affacciai al balcone della stanza. Dal piano superiore, la vista era fantastica, si poteva vedere la spiaggia e il mare. Mi persi in quello spettacolo e non sentii Gianluca avvicinarsi a me. Mi accorsi della sua presenza solo quando mi avvolse in un abbraccio e mi regalò un bacio sulla guancia. Mi sussurrò all’ orecchio: “E’ veramente molto bello, qui.”.
Mi voltai verso di lui, per nulla infastidita dalla vicinanza dei nostri volti. Mi persi nei suoi occhi color nocciola e gli sorrisi dolcemente: “Sono contenta che ti piaccia. Volevo che sembrasse un piccolo paradiso.”.
 “Ci sei riuscita… Sei meglio degli impiegati delle agenzie di viaggio. Tienilo a mente, se la società dove lavori adesso dovesse fallire.”.
Mi allontanai leggermente e risposi sarcastica: “Certo, come no!”. Guardai l’ orologio che portavo sempre al polso e constatai: “Credo che sia ora di scendere in spiaggia. Mai infrangere le promesse con Matteo, sarebbe capace di rinfacciartelo per giorni!”.

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Capitolo 16
*** Un incontro inaspettato ***


Un incontro inaspettato - POV Gianluca

Dopo aver fatto una spesa rapida, scendemmo in spiaggia, con l’ intenzione di starcene solo un po’ seduti sulla sabbia senza fare un bagno. Livia aveva indossato un vestito da spiaggia color rosso, di quelli che si trovano in ogni mercatino vicino alle spiagge e lasciò i capelli sciolti. La spiaggia si trovava oltre il palazzo celestino di fronte alla casa che avevamo affittato e ci si arrivava in due minuti.
La spiaggia era affollata e la gente schiamazzava allegra. La sabbia non era fina come quella di Anzio, ma in compenso il mare era un vero e proprio spettacolo, di un azzurro intenso. Ci fermammo in un punto più riparato e Livia stese dei teli. Matteo si guardò intorno e si tolse subito le scarpe. Si avvicinò al bagnasciuga e immerse i piedi nell’ acqua bassa, attento a non bagnarsi i pantaloncini. Tornò indietro e mi disse: “Papà, laggiù c’è un signore che vende i palloni. Ne possiamo comprare uno, così giochiamo a calcio?”.
Puntai il mio sguardo dove mi indicava Matteo e vidi un tizio che si trascinava dietro palloni, ciambelle, braccioli, due coccodrilli gonfiabili e qualche aquilone. Ma come diamine riusciva a portarsi dietro tutta quella roba in modo quasi disinvolto?
Livia, nel frattempo, si era seduta su uno dei teli e si stava spalmando un po’ di crema sulle braccia e sul viso. Era il ritratto della serenità, sembrava uscita da una di quelle riviste che parlavano delle mete turistiche più gettonate. Presi un po’ di soldi ed insieme a Matteo mi avvicinai al venditore, una persona simpatica, che parlava un siciliano stretto difficile da capire. Dopo aver dato un’ occhiata alla merce, Matteo scelse un Super Santos, mentre spiegava al venditore che da grande avrebbe fatto il calciatore. Pagai, ridendo tra me e me. Matteo, quando parlava del suo futuro, era molto fantasioso e cambiava spesso idea. Tempo fa dichiarò che avrebbe fatto il medico, poi il batterista, l’ astronauta, il pilota di Formula Uno. Questa mattina, invece, era certo che sarebbe diventato un pilota di aerei. Adesso un calciatore. Il mondo dei bambini era fantastico, perché, per loro, non c’erano ostacoli, difficoltà. Per loro, i sogni si possono realizzare con poco, come se la vita fosse costretta a non deludere le tue aspettative. Peccato che, crescendo, si perda quell’ ottimismo.
Tornammo verso Livia, che costrinse Matteo a spalmarsi un po’ di crema. Dopo averlo impiastricciato per bene e aver fatto un lungo e noiosissimo monologo sull’ importanza della protezione solare per la salute della pelle, lo lasciò libero di giocare a calcio con il sottoscritto. Mi tolsi la maglietta ed iniziammo a fare due tiri, cogliendo l’ occasione per dargli dei consigli per migliorare la tecnica. Non ne avevo mai parlato con Livia, ma avrei voluto segnarlo a scuola calcio quando sarebbe stato un po’ più grande.
Livia ci osservava sorridente dalla sua comoda postazione, lasciandosi sfuggire qualche incitamento per Matteo. Improvvisamente la vidi alzarsi e coprirsi gli occhi con la mano, per ripararli dal sole. Osservava un punto lontano, verso il piccolo bar. Mi voltai, cercando di capire cosa avesse attirato la sua attenzione. Vidi una donna con i capelli nerissimi che avanzava a passo svelto verso di noi, seguita da un uomo alto e vestito come se dovesse sfilare alla settimana della moda. La donna posò una mano sul suo cappello di paglia, per impedire che quest’ ultimo volasse a causa del vento. Del suo volto potevo vedere solamente il suo sorriso a trentadue denti, perché indossava degli ingombranti occhiali dalle lenti scure. Agitò vistosamente un braccio, in segno di saluto. Quando fu abbastanza vicina a noi, li riconobbi: erano Celia, la cugina di Livia, insieme a suo marito Ruben. Che diamine ci facevano qui? Celia abbracciò Livia, che sembrava sorpresa almeno quanto me, e, in un italiano incerto, disse: “Oh, Livia, che bello vederti! Sapevo del tuo viaggio in Sicilia, ma proprio non speravo di incontrarti! Invece eccoti qui! Che sorpresa!”.
Livia rispose: “Già, è proprio una sorpresa.”. Sciolse l’ abbraccio e la osservò bene: “Ti trovo in splendida forma! Qual’ è il segreto?”.
Celia, vanitosa come sempre, incassò volentieri il complimento: “Una dieta rigidissima e tanto pilates.”. Rivolse uno sguardo irritato verso di me, infine si avvicinò a mio figlio e gli accarezzò i capelli: “Ecco il piccolo Matteo. Tesoro, come stai crescendo! E guarda che visetto simpatico. Non trovi Ruben?”.
Suo marito sorrise e disse: “Si, un bambino molto grazioso. Complimenti, Livia.”. Ruben la salutò calorosamente, come se fossero amici da sempre. Poi, mi strinse la mano: “E’ una sorpresa rivedere anche te.”
Cercai di stamparmi un sorriso cordiale, ma forse era solo un sorriso tirato. Celia e suo marito non mi piacevano per niente. Lei era una egocentrica in attesa di attenzioni, lui invece voleva dimostrare al mondo che era perfetto, perché era ricco, perché aveva due lauree e perché somigliava molto al Ricky Martin di dieci anni fa. Si, gli somigliava veramente tanto, come se fossero stati gemelli separati alla nascita.
Livia porse la domanda che mi stava frullando per la testa da diversi minuti: “Cosa ci fate qui?”.
Celia si tolse gli occhiali da sole, mostrandoci i suoi occhi scuri e dal taglio particolare: “Ruben ha appena concluso un affare a Messina e abbiamo deciso di fermarci qualche giorno per goderci questi posti fantastici e per testare il nostro italiano. Sai, abbiamo frequentato un corso a Madrid per imparare la tua lingua alla perfezione.”.
La conversazione prese a farsi ancora più noiosa: Livia chiese notizie dei suoi parenti e Celia iniziò un resoconto molto dettagliato, mentre speravo vivamente che si volatilizzassero alla stessa velocità con cui si erano materializzati. Ma, ovviamente, le mie preghiere non vennero ascoltate. Celia, improvvisamente, se ne uscì: “Dove alloggiate? E’ qui vicino?”.
Livia le rispose, pronta: “Si, abbiamo affittato una casa a pochi metri dalla spiaggia.”.
Celia la guardò elettrizzata: “Perché non ce la mostri? Sono molto curiosa…”.
Livia mi rivolse uno sguardo mortificato. Intuii che era combattuta: non voleva essere scontrosa con sua cugina, ma non voleva nemmeno interrompere quell’ atmosfera magica che stavamo cercando di creare prima dell’ intrusione dei suoi parenti.
Decisi di prendere in mano la situazione e di mostrarmi più cortese di quanto avessi voluto: “Certo… Dacci solo il tempo di sistemare i teli nella borsa di Livia.” Celia annuii e aiutò Livia a piegarli accuratamente e metterli ordinatamente nella sacca da mare. Dopo pochi minuti, ci avviammo verso casa. Matteo era silenzioso, non aveva molta confidenza con Celia e Ruben.
Livia ci fece strada, mentre spiegava a sua cugina di come avesse scoperto quasi per caso Capo d’ Orlando. Quando arrivammo al cortile, Ruben si guardò intorno, colpito: “Questa località è molto pittoresca… E’ un peccato non aver portato con me la mia macchina fotografica.”.
Livia aprì la porta e fece accomodare Celia e Ruben: “Prego, entrate, ma non fate caso al disordine. Siamo arrivati solo da poche ore…”.
Celia si guardò intorno con aria indagatrice, la stessa della mia impossibile suocera.

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