Il sogno di una ragazza.

di AstronautOnTheMoon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. vi racconto il mio sogno. ***
Capitolo 3: *** 2. Le origini. ***
Capitolo 4: *** 3. Il mio primo allenamento. ***
Capitolo 5: *** 4. Under12: un sogno più vicino... ***
Capitolo 6: *** 5.Inizia una nuova storia ***
Capitolo 7: *** 6. Dagli allori agli spini. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Il sogno di una ragazza.
 

Prologo.

Ho sempre creduto nei sogni, ho sempre creduto che si potessero realizzare, che se mi fossi impegnata un giorno si sarebbero realizzati e solo oggi realizzo che questa è la dura vita reale e non un film americano scadente.

Ci sono momenti in cui mi pento di aver deciso di seguire un sogno irraggiungibile, di aver sacrificato tutto, compresi gli amici.

Ma dentro di me so che sarebbe stato peggio se non avessi nemmeno provato perché avrei vissuto tutta la vita con un dubbio.

Io ce la posso fare ma non ho il coraggio. Questo sarebbe stato l'urlo che mi avrebbe tenuto sveglia tutte le notti.

Forse è stato tutto perfetto come è stato, poiché sono ferita nell'orgoglio, ma le ferite si cicatrizzano mentre i rimpianti non si sanano.

Penso che nella vita dell'uomo ciò che lo distrugge veramente siano proprio i rimpianti e le domande che non può fare altro se non continuarsi a porre per tentare di darsi una risposta che non arriva semplicemente perché nella nostra vita manca un tassello. Vivere la vita è come fare un grande puzzle nel deserto: arrivano sempre delle trombe d'aria che spazzano via i pezzi.

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Capitolo 2
*** 1. vi racconto il mio sogno. ***


1. Vi racconto il mio sogno.

Potete pensare che il mio sogno fosse banale, che è quello che hanno tutti gli sportivi, che non ho fantasia che sono una persona monotona, potete pensare ciò che volete ma io posso dire con chiarezza che non mi vergogno del mio sogno.

Il mio sogno era diventare una famosa pallavolista.

Nella mia vita ho sacrificato tanto per la pallavolo: gli amici, la scuola, le vacanze, varie parti del mio corpo, anche i sabato sera.

Sai cosa vuol dire amare un ragazzo o una ragazza? Bene, io ero -e sono- innamorata della pallavolo.

Adori sentire il rumore della sua voce? Io amo sentire il rumore del pallone che sbatte sulla mia mano e poi si infrange sul pavimento.

Ti piace accarezzare la sua pelle? A me piace sentire la palestra liscia sotto il mio corpo quando mi tuffo o quando rullo.

Ti piace semplicemente stare con lui -o lei- ? A me piace respirare l'armonia e la grinta del gruppo prima della partita.

Non so se puoi capire ciò voglio dire, perché spiegare un sentimento molto simile alla dipendenza non è facile, non è facile per niente.

La palestra è il mio luogo preferito: è come una casa, le grandi porte mi fanno sentire importante, il parquet sul pavimento mi da una sensazione di protezione, la rete lì nel mezzo è la mia sfida e le luci sul tetto mi illuminano e mi donano la felicità.

E poi c'è la squadra, quel gruppo di persone che si incontrano per caso e che spesso hanno più cose in comune di quante potessero mai immaginare. Ci si incontra nello spogliatoio, un saluto una chiacchierata e una volta in palestra è già tutto diverso: il ghiaccio che c'era all'inizio si è già sciolto.

È con loro che condividi le gioie e le delusioni, sono loro che ti vedono sorridere, gridare e piangere, sono loro che ti dicono che puoi fare tutto, sono loro le prime a credere in te e te sei la prima a credere in loro.

Poi c'è l'allenatore.

La descrizione dell'allenatore meriterebbe solo quella un libro intero e forse non basterebbe.

È come un secondo genitore, ma anche un amico e un maestro. È l'unico da cui accetti le sgridate senza arrabbiarti, perché sai che ha ragione e poi le sua urla non sono mai solo rimproveri ma anche dei motivi per impegnarti di più e riprovarci di nuovo e di nuovo fino a quando le gambe non ti reggeranno più, fino a quando sarai senza voce, fino a quando il cuore non batterà più, fino a quando non morirai.

Quando si parla di pallavolo non si può dimenticare il custode della palestra. Il custode è sempre un po' chiuso ma se dici una parola ti racconta tutta la sua vita e devo dire che è di grandissimo conforto quando arrivi ancora una volta un'ora prima all'allenamento e ti annoi.

Infine c'è la piccola porticina un po' nascosta dove ci sono i dirigenti: persone ambiziose e attenti osservatori.

Adesso capisci? Adesso sai cosa voglio dire? Adesso capisci perché la amo? Adesso capisci cosa provo ogni volta che sono in palestra?

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Capitolo 3
*** 2. Le origini. ***


2. Le origini

Ho iniziato a tirare in aria il pallone che ancora non sapevo gattonare, ho iniziato a buttarmi per prendere al volo le palle quando sapevo appena camminare e ho incominciato a vivere nel mondo della pallavolo ancora prima di nascere.

Mio padre era pallavolista, mia madre anche.

Entrambi giocavano in serie B1 e soprattutto per mio babbo avevano grandi aspettative per il futuro, poi è nato quell'amore incredibile, irrefrenabile e in modo inaspettato anche il frutto di quell'amore: sono nata io.

Erano entrambi molto giovani, ma abbastanza maturi per avere la forza di sacrificare un sogno per trovare un lavoro stabile per darmi un futuro e inoltre hanno sempre fatto in modo di non farmi sentire come un'indesiderata. Forse l'unico problema sono le grandi aspettative su di me che mi hanno sempre messo in difficoltà, odio farmi accompagnare in macchina dai miei genitori alle partite perché il ritorno è un inferno: “quel primo tempo al secondo set dovevi farlo verso il posto uno perché dall'altro lato si vedeva che c'era già il libero pronto”, oppure “devi provare a battere salto teso, non potrai continuare per sempre con la salto flot!”

Insomma, notano quelle piccolezze che nemmeno l'allenatore si sente di rimproverarmi e dopo aver ascoltato anche le grida del coach non è facile sottomettersi anche a quelle dei genitori.

Però, nonostante questo piccolo dettaglio è bello avere due genitori ex-giocatori perché ti insegnano molto, spesso i loro consigli sono utili – se ascoltati – e hai sempre qualcuno con cui giocare a pallavolo anche se leggermente fuori forma.

Io sono figlia unica, quindi tutte le loro attenzioni sono sempre state riversate su di me e sul mio sogno.

Loro hanno sempre conosciuto il mio sogno e l'hanno sempre appoggiato, semplicemente perché era anche il loro alla mia età, ma a differenza loro io non sono riuscita a realizzarlo perché non sono abbastanza.

A volte mi viene da chiedermi dove sarebbero arrivati se io non fossi nata, mia mamma probabilmente non sarebbe salita più della B1, ma mio babbo, palleggiatore ventenne alto 1 metro e 98 centimetri, con le mani d'oro sarebbe potuto arrivare molto in alto, o perlomeno così dicevano il suo allenatore e il suo manager.

Mi sono sempre sentita molto in colpa perché ho distrutto il loro futuro, ma loro hanno sottolineato che non era vero, perché avevano deciso di smettere di giocare per loro iniziativa, avrebbero potuto continuare, ma hanno attaccato le ginocchiere al chiodo perché avevano semplicemente bisogno di staccare e di cambiare, di trovare delle certezze.

Il mondo dello sport non è un mondo facile in cui vivere, è un po' come il mondo della moda: un giorno vieni considerato da tutti un fenomeno, ma il giorno seguente vieni dimenticato dal mondo intero, proprio per questo mio padre ha deciso di chiudere la parentesi dello sport, perché ne aveva assaggiato questo aspetto, anche se in quel periodo era nel momento positivo.

Ora mio babbo ha trentasette anni e lavora come impiegato e mia mamma lavora come maestra da quattordici anni.

Appena io ho iniziato ad andare all'asilo, mia mamma ha iniziato a fare il lavoro per cui aveva studiato.

Io oggi ho diciassette anni e nonostante le tante selezioni che ho fatto non sono mai arrivata da nessuna parte.

Ci sono molte persone che non hanno l'opportunità di fare nemmeno una selezione nella loro vita, ed io ne ho fatte almeno una decina e ho saputo cogliere solo una occasione.

Ho fatto diversi salti di qualità per quanto riguarda le squadre, ma tutti grazie ad osservatori camuffati in spettatori giunti per vedere colei che portava il cognome del palleggiatore sparito troppo presto dalla circolazione.

Non è bello e nemmeno confortante sapere che ci sono persone che vengono a vedere come giochi solo per il cognome che porti, solo perché sei figlia di tuo padre, solo perché se lui era forte devi esserlo anche te, semplicemente perché dovete avere gli stessi geni. Ho sempre odiato tutto questo, ma allo stesso tempo non ho potuto fare altro che ne essere grata per le opportunità ricevute.

Purtroppo il mondo della pallavolo è anche questo, un luogo dove ci sono i raccomandati, dove il cognome significa tanto e dove è facile, se hai uno di quei cognomi, deludere.

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Capitolo 4
*** 3. Il mio primo allenamento. ***


3. ll mio primo allenamento.

Mi ricorderò sempre la prima volta che sono entrata in palestra, avevo sei anni.

Subito mi sembrò immensa: le pareti sembravano non finire mai, il tetto era lontano.

Entrai dalla porta e davanti a me vidi un palo rivestito di un cuscinetto rosso e una rete nera incorniciata da due nastri bianchi sopra e uno sotto e due asticelle sottili bianche e rosse che si alzavano sopra il nastro superiore.

Poi guardai alla mia destra e subito dopo alla mia sinistra: due grandi scalinate in legno marrone.

Solo dopo mi accorsi dei tanti bambini e delle tanti bambine, che avevano più o meno la mia età, che correvano per la palestra con delle palle gialle, bianche e blu in mano.

Infine, vicino al palo della rete più lontano da me c'era una signora non molto alta, con gli occhi chiari e i capelli ricci e biondi, che indossava una tuta. Lei mi scuserà per ciò che sto per dire, però inizialmente mi sembrava una donna piuttosto anonima, ma mi sbagliavo completamente.

Lei era l'allenatrice.

Appena fece un urletto tutti i bambini si fermarono e si misero in riga davanti a lei.

Insieme a me c'era mio padre, perché mia mamma aveva il rientro a scuola, appena la donna lo vide gli venne incontro lo salutò prima con grandi sbracciate e poi con abbracci e baci.

I bambini si voltarono verso di noi tutti insieme mantenendo la riga e ci guardarono in modo strano, probabilmente non erano soliti vedere la loro allenatrice comportarsi così.

Dopo aver saluto mio babbo mi scompigliò i capelli con la mano dalle lunghe unghie e disse ad alta voce: “Bambini, questo è stato uno dei miei allievi quando aveva la vostra età e spero che un giorno possiate diventare tutti come lui!”poi aggiunse indicandomi “E lei è la figlia, che sicuramente, farà strada, molta strada!”

Mi sentii scottare le guance e per un secondo mi chiesi se mi fosse venuta la febbre all'improvviso, ma poi capii che era solo vergogna.

Mio babbo si accorse della mia improvvisa voglia di svanire e mi abbracciò dicendo delle dolci parole a me e contemporaneamente rimproverando la donna per la presunzione e per il grande peso che per prima mi aveva calato sulle spalle.
Non mi era mai capitato che qualcuno si aspettasse tanto da me, o meglio, non mi era mai capitato che qualcuno rendesse pubbliche le sue aspettative per il mio futuro. Con il tempo ci ho fatto l'abitudine, ho imparato a sopravvivere con la paura di non essere mai all'altezza, però ero solo una piccola bimba quella prima volta e sono rimasta molto male e spaventata in quel momento.

Avendo solo sei anni mio babbo mi accompagnò nello spogliatoio e mi aiutò a cambiarmi, eravamo soli nello spogliatoio e prima di uscire mi disse: “Non dar peso alle parole di Viola, è solo una signora un po' pazza. Mi conosce perché lei è stata anche la mia prima allenatrice ed è molto fiera dei traguardi che ho raggiunto e spesso lo dimostra anche troppo apertamente-si vedeva che era in difficoltà con le parole, infondo era un pallavolista, non doveva parlare poi troppo-comunque, non preoccuparti delle parole che ti dice, se fa i confronti con me dimmelo e dopo ne parlerò con lei. Divertiti!”

Entrai nella palestra e tutti si fermarono e mi guardarono come se fossi un alieno.

Mi feci più piccola che potei e desiderai di sparire.

Presto mi circondarono e iniziarono a farmi domande di tutti i generi, mi sentii oppressa e l'aria mi mancò. Per fortuna arrivò l'allenatrice che diede inizio all'allenamento e magicamente tutti si dimenticarono tutti di me.

Mi era stato tolto un grandissimo perso dallo stomaco, ora stavo bene, ma non durò troppo perché incominciarono i paragoni.

Alla fine dell'allenamento tutti corsero dai propri genitori e io corsi da mio babbo, non ero mai stata tanto felice di vederlo e di abbracciarlo.

Per tutta l'ora e mezza l' allenatrice aveva continuato a fare allusioni a mio padre, al mio palleggio che le piaceva come le piaceva quello di mio babbo e cose del genere.

Era stato opprimente e doloroso, anzi anche spaventoso a tratti.
In quel momento avevo deciso di chiudere con quello sport, era stata solo una piccola brutta parentesi.

Sulla macchina mentre tornavamo a casa ho raccontato tutto al mio genitore presente, e ho anche aggiunto che volevo smettere quello sport lui mi rispose con un domanda: “Ti piace quando giochiamo a pallavolo io e te?” io risposi di sì e lui mi disse: “E' quella la pallavolo. Provo a parlare con Viola e dopo un altro allenamento o due decidi se continuare o smettere, o solo cambiare squadra”.

Ho sempre adorato la sua comprensione, a differenza della durezza di mia madre che ha sempre tentato di imporsi su di me, ma non c'è mai riuscita.

Due giorni dopo mi ha accompagnato ancora lui all'allenamento e prima dell'inizio si è fermato a parlare in privato con la donna.

Durante la lezione non c'è più stata nessuna allusione a lui e velocemente sono diventata una bambina comune agli occhi di tutti.
Ero felicissima di tutto questo.

 

Ecco, così sono entrata nel mondo della pallavolo.

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Capitolo 5
*** 4. Under12: un sogno più vicino... ***


4. Under12, un sogno più vicino...

Durante gli allenamenti mi distinguevo spesso dalla massa, soprattutto perché erano tutti esercizi che avevo già fatto a casa, quindi quasi subito fui aggiunta al gruppo delle ragazze più grandi.

Avevo nove anni quando fui aggiunta nell'under 12, ovviamente ero spaventatissima e felicissima.

All'improvviso mi ero ritrovata con delle ragazze che avevano tutte due anni in più di me!

Pensavo che non sarei mai riuscita ad integrarmi, pensavo che mi sarei sentita sempre di troppo, pensavo “chissà quanto saranno forti!Io cosa c'entro?”

Invece le ragazze furono molto simpatiche e comprensive con me ed è proprio in questo gruppo che conobbi una delle mie più vere e sincere amiche. Si chiama Silvia è l'opposto di me: non è molto alta, ha gli occhi chiari e i capelli scuri, inoltre è sempre stata circondata da amici, mentre io sono sempre stata piuttosto sola. La scuola e il mio sogno hanno sempre occupato buona parte del mio tempo, quindi non sono mai riuscita a coltivare delle amicizie lunghe e durature all'infuori di quelle nate in palestre.

Gli allenamenti non erano facili e il divario di età impressionante, ma nonostante tutto riuscii a mettermi in mostra e quell'anno migliorai veramente tanto: alla fine dell'anno schiacciavo molto bene per un'under12 e già iniziavo a battere dall'alto.

Sono sempre stata molto alta come ragazza e per mia fortuna anche abbastanza coordinata.

A Silvia non è mai interessato veramente della pallavolo, per lei era solo un modo per uscire di casa e divertirsi. Ha smesso di giocare tre anni fa, ma le nostre strade si sono divise molto prima.

Comunque nonostante tutto, grazie al mio impegno, riuscii a riservarmi un posto come prima riserva ed entrai spesso in campo, o almeno più di quanto avevo previsto.

Quell'anno arrivammo secondi, perdemmo la finale, che per ironia è l'unica partita che ho giocato per intero.

Era una domenica mattina con il sole che era alto e caldo nel cielo, ma nella palestra c'era un clima piuttosto teso e l'agitazione era ovunque.

Quella mattina mi accompagnarono in macchina entrambi i miei genitori, che tentarono di distrarmi parlando di tutt'altro, erano consapevoli della paura che avevo dentro di me e conoscevano anche la mia voglia di vincere, perché era la stessa che tante volte ha illuminato i loro occhi.

Prima di andare negli spogliatoi vidi mio babbo che si era fermato a parlare in privato con il mio allenatore, ero curiosa di sapere cosa si stessero dicendo, ma allo stesso tempo tentavo di convincermi che non era niente di poi tanto importante, altrimenti ne avrebbero parlato con me.

Ero un po' stordita e senza dire una parola appoggiai la mia borsa di fianco a quella di Silvia, mi tolsi le scarpe, i pantaloni della tuta ed indossai i pantaloncini, le ginocchiere rosse e le scarpe da ginnastica. Alzai la testa verso l'alto e vidi Silvia che mi sorrideva, ricambiai incerta il sorriso e mi slacciai la maglia, lasciando intravedere la divisa blu e rossa da partita.

Quelle divise erano una cosa oscena, erano vecchie e consumate con lo stemma della squadra sbiadito e il tessuto consumato.

Così in una sorta di fila scomposta entrammo in palestra e iniziammo il riscaldamento.

Dopo aver finito le andature l'allenatore mi chiamò ed io ebbi un salto al cuore “cosa vuole questo?” mi chiesi, lui mi guardò serio e mi disse : “Sono molto felice dei tuoi miglioramenti, dei tuoi passi da gigante e sono molto felice di averti in squadra – mi chiesi dove volesse arrivare... - so che vuoi tornare a riscaldarti quindi voglio essere diretto con te, ti va di essere capitano visto che oggi non c'è Anna?” Subito mi guardai intorno e mi accorsi che non mi ero nemmeno accorta della mancanza del capitano, poi lo guardai con la faccia di uno che sta guardando un alieno e dopo essermi ripresa dissi: “Perché io?” lui mi rispose dicendo che l'avrei capito a fine partita.

Quella era la prima partita che giocavo come capitano ed ero emozionatissima.

Lo scotch sotto il numero, la mano fredda dell'arbitro, la scelta di testa o croce, il saluto con gli avversari, l'urlare “per noi”, tutto ottenne un significato magico e fantastico.

Non perdemmo perché inferiori dal punto di vista di grinta ma semplicemente perché erano molto più forti di noi e si meritarono quella vittoria.

Tra la fine della partita e la premiazione vidi un signore parlare con il mio allenatore.

Era alto, pelato con il pancione e le gambe sottili, ma ciò che mi sorprese di più fu il suo occhio attento e osservatore e le sue scarpe di cuoio marroni, inadatte per una palestra.

Parlarono a lungo fino a quando, poco prima della premiazione gli indicò mio padre e il signore iniziò a parlare con lui, mentre facevamo le foto con la coppa pensai che si dovevano conoscere per il suo passato di pallavolista, quindi non diedi molto peso a tutto.

Dopo le foto di rito, feci la doccia, mi cambiai e uscii, il signore era ancora lì seduto sugli scalini parlando con i miei genitori. Mi avvicinai sorridendo e salutai calorosamente.

Il signore si alzò e dopo avermi dato una pacca sulla spalla allontanandosi urlò “Parlagliene!”.

Dopo essere saliti in macchina chiesi: “Chi era?”

Mi spiegarono che era un osservatore e che mi aveva proposto un posto nel settore giovanile di una squadra che giocava in A2, aggiunsero che aveva detto di avere tanti progetti per il mio futuro, che era un occasione unica, da non perdere. Dissero che era stato chiamato dal mio allenatore.

Io non sapevo cosa pensare, ancora una volta ero confusa, ero eccitata per la proposta, ma allo stesso tempo ero ancora spaventata.

Mi dissero che c'era un problema: la palestra dove si allena la squadra distava quasi un'ora dal posto in cui vivevo. Trassi un respiro di sollievo e di rabbia. Di sollievo perché la paura si era alleviata di rabbia perché mi ero allontanata dal mio sogno.

Dissi “Allora, in conclusione?”

Risposero dicendo che ne avrebbero parlato e avrebbero deciso.

Rimasi giorni in ansia aspettando una risposta che non arrivava, quando facevo gli allenamenti avevo la testa altrove, a scuola non ascoltavo mai, la voglia di andare a giocare in quella squadra si stava mangiando la mia anima.

Un giorno, era quasi Giugno mio padre mi disse: “Non so se riusciamo a portarti agli allenamenti, non so se ti troverai bene con le nuove compagne, ma so che non sarà facile, ne sei consapevole?” Annuii speranzosa, continuò dicendo “ Ma ne vale la pena di provare!”

Lo abbracciai gioiosa e iniziai a correre per la casa come se fossi isterica.

Ero troppo felice, troppo esaltata, troppo contenta: finalmente sarebbe iniziato il mio sogno!

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Capitolo 6
*** 5.Inizia una nuova storia ***


5. Inizia una nuova storia.

Così a settembre tutto ricominciò: nuovo tragitto, nuova palestra, nuovo allenamento, nuovo allenatore, nuove compagne.

Tutte novità che non mi facevano sentire bene.

Il tragitto era molto lungo, la palestra grande e quell'immensità mi spaventava, gli allenamenti erano molto faticosi e difficili, l'allenatore diverso da quelli precedenti e le compagne unite.

Per la prima volta avevo paura dell'allenatore: un uomo molto alto con i capelli a spazzola e gli occhi neri, sembrava un sergente americano con i suoi pantaloni mimetici, appena apriva bocca il vento stesso si fermava e le macchine per la strada rallentavano per paura di un suo urlo.

Ma il coach non era ciò che più mi spaventava, infatti all'improvviso mi sono ritrovata in un gruppo di ragazze molto unite. Il primo periodo è stato bruttissimo.

Entravo in palestra a testa bassa, andavo dritta negli spogliatoi e nessuno sembrava accorgersi della mia presenza. Una volta passata la porta azzurra tiravo fuori la voce e salutavo e a rispondermi erano solo delle voci confuse perse nella confusione delle chiacchierate giornaliere.

Volevo tornare indietro, ma non potevo perché i miei genitori avevano già pagato e conoscevo i sacrifici che facevano per mantenermi in quella squadra, ma la vera ragione per cui non ho ceduto è che non volevo mollare: io volevo realizzare il mio sogno ed ero disposta a tutto per farlo.

Come avrete capito sono sempre stata una persona estremamente determinata e anche orgogliosa.

Comunque se avessi mollato me lo sarei rinfacciata per tutta la vita e resistere è stata senza dubbio una delle scelte migliori che abbia mai fatto.

Dopo un mese, dopo aver capito le mie potenzialità mi hanno accettato come se avessi giocato sempre con loro.

Mi sento stupida a scrivere certe cose, perché è assurdo pensare che le persone vengano divise in categorie a seconda di ciò che sembrano valere, ma purtroppo spesso è ciò che accade.

Dopo aver iniziato a giocare seriamente mi sono ritrovata mille amiche che non avrei mai pensato di avere, ma ero troppo stupide da interpretare la falsità nei loro gesti e la gelosia nei loro occhi.

Giocammo, vincemmo e festeggiammo.

Tutto mi sembrò andare bene, ma in realtà la perfezione era solo frutto della mia mente, era solo una barriera che avevo creato dentro la mia testa per difendermi dal mondo reale.

Rimasi due anni in quella squadra e i problemi uscirono alla fine del secondo anno, quando iniziai ad aprire gli occhi.

Mi accorsi che le ragazze parlano e quando arrivavo zittivano, mi resi conto che mi giudicavano, mi prendevano in giro, erano invidiose di me.

Giocavo con le ragazze più grandi come sempre, io ero abituata, ma probabilmente loro non erano abituate ad avere delle ragazze più piccole in squadra.

Mi arrabbiai e mi sentii delusa, presa in giro.

Dopo quella scoperta non riuscii a concentrarmi, una settimana prima della finale il coach mi prese da parte per parlare.

Eravamo in piedi, lui ritto con la testa alta io curva come se stessi tenendo sulle mie spalle un peso più grande di me.

Lo sentii parlare con una voce diversa del solito, sentivo della comprensione e della preoccupazione nelle sue parole mi chiese perché non riuscivo più a concentrarmi e io gli risposi in un modo di cui nemmeno oggi vado fiera.

Gli urlai letteralmente in faccia e dissi: “Sai qual è il problema? Che questa è una squadra falsa! Fatta di gente voltafaccia! Mi fa schifo!”

Erano due settimane che avevo scoperto la cattiveria umana e ancora non ne avevo parlato con nessuno.

Mi trattenne per un braccio mentre tentavo di allontanarmi e mi chiese il motivo delle mie parole.

Con le lacrime agli occhi gli spiegai tutta la situazione e alla fine ciò che mi disse fu che dovevo imparare a non dar peso alle parole degli altri e mi disse anche che se l'anno prossimo avrei voluto cambiare mi avrebbe capito, ma che in quel momento dovevo pensare solo alla finale.

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Capitolo 7
*** 6. Dagli allori agli spini. ***


6. Dagli allori agli spini.

Per lui era facile parlare, infondo lui cosa ne sapeva del peso che mi opprimeva? Tutti che mi urlavano che potevo fare meglio, tutti a gridarmi che sbagliavo, nessuno a dirmi brava.

Ripetevano sempre “I complimenti rendono fragile l'uomo”.

Ma io non volevo un complimento, mi sarei accontentata di uno che mi dicesse: “ Tranquilla, te devi fare semplicemente ciò che sai fare”, no le loro frasi erano taglienti anche più di quelle delle ragazze.

Non sono la ragazza di ferro e di acciaio che credevano, sono solo un essere umano.

Comunque quella finale giocai, ma feci un disastro, la testa era altrove, la spalla non mi rispondeva, il polso non si chiudeva e invece di essere tolta, di prendermi una pausa in panchina l'allenatore mi urlava che dovevo impegnarmi e mi lasciava in campo.

Non misi atterra un punto, ma sinceramente non mi interessava, quello non era ciò che intendevo per pallavolo.

La finale la perdemmo e tutta la colpa su chi ricadde? Devo proprio rispondere alla domanda o lo sapete già? Penso lo sappiate.

Le persone sono così cattive con chi considerano sbagliati.

Dopo la partita fu la personificazione dell'inferno per me.

Entrammo negli spogliatoi e mentre rimettevo le scarpe per l'ultima volta in quella borsa nera maledetta, il capitano mi disse: “Ci hai fatto perdere! È tutta e solo colpa tua!”, rimasi con la testa bassa facendo finta di niente, continuò una ragazza bassa e magra con i capelli rossi: “Non ti meriti di giocare in questa squadra!”, poi fu il turno di una ragazza alta e magra: “Sei uno scandalo!” e tutte le altre continuarono su questo tono.

Perché le persone portano tanto odio? Perché si sono comportate così? Perché tutti sono così falsi?

Quando tutte ebbero parlate dissi, tenendo sempre la testa bassa e a voce bassa: “Tranquille, tanto me ne vado!” tutte applaudirono, tutte festeggiarono, tutte mi dissero che era la scelta migliore che avessi mai scelto.

Che stronze! Scusate il termine, ma non mi vengono in mente parole più fini per esprimere il mio commento personale.

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