Il fiore più bello

di Luce_Della_Sera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Settembre - il primo giorno di scuola ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Ottobre: Lettere ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Ottobre: pallavolo ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Novembre: Mentalità ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Novembre: striscioni e bigliettini ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Dicembre: Esasperazione ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Gennaio: Offese molto gravi ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Gennaio: Penne e bugie ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Febbraio: Messaggi minatori ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Marzo: la festa delle donne ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Marzo: il valore dell'amicizia ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Aprile: Insegnamenti ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Maggio: Segreti ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Maggio: il camposcuola ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Giugno: giochi ... dolorosi ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 - Giugno: Esami ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 - Giugno: la promessa della terza B ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Settembre - il primo giorno di scuola ***


IL FIORE PIU’ BELLO…                                

Capitolo 1 – Settembre: Il primo giorno di scuola

Varcai il cancello della scuola e mi avvicinai all’edificio in mattoni rossi, guardandomi intorno: nei giorni precedenti mi avevano detto che ero stata assegnata al corso B, quindi la prima cosa che dovevo fare era ovviamente cercare la classe. Mentre osservavo i miei coetanei che, come me, premevano per entrare, mi chiesi per l’ennesima volta che impressione avrei fatto ai miei compagni: cos’avrebbero pensato di una ragazza timida che veniva dalla città?
“Beh, non ti resta che scoprirlo!” mi dissi, piena di speranze, aspettative e anche di grandi timori.
 
 
Una volta entrata nella scuola, non vidi nessuna indicazione che poteva essermi utile per orientarmi, e non volendo perdermi proprio il primo giorno, interrogai una ragazza bruna con i capelli a caschetto, che era poco distante da me.
“Scusa, sai dove posso trovare la terza B?”
“La terza B? E’ la mia classe! Ho appena parlato con il bidello, mi ha detto che siamo a sinistra, vicino ai bagni. Lì, vedi?” mi disse, indicando il punto esatto col dito. “Ma come mai devi andare là? Sei nuova?”
“Sì”, risposi, arrossendo violentemente. “Mi sono trasferita qui a giugno … e mi hanno detto che dovevo fare la terza B”. Poi aggiunsi, sempre rossa come un peperone “Comunque io sono Eleonora, piacere!” e tesi la mano.
“Io mi chiamo Azzurra. Piacere mio! Dai, vieni, ti presento agli altri!”
E così, la seguii per il corridoio che portava alla nostra aula.
 
 
Entrata in aula, sentii un gran vociare: c’erano una ventina di persone circa.
“Ciao ragazziiiiiii!” si fece sentire la mia compagna, praticamente urlando per sovrastare il frastuono.
“Ciao, Pinguina! Sei sempre la solita casinista!” le fece un ragazzo di colore. Si erano zittiti tutti.
“Pinguina?” feci io stupita, rivolta a lei.
“E’ il mio soprannome. Dicono che cammino come un pinguino, ma non è vero! Ecco, guarda” fece tre passi poi si voltò verso di me. Effettivamente, camminava un po’ con i piedi a papera e oscillava le braccia in modo buffo! Pensando che si aspettava una risposta, aprii la bocca per parlare, ma lei, accorgendosi che tutti mi fissavano con evidente curiosità, era già passata alle presentazioni.
“Questa è Eleonora … si è trasferita quest’estate, e starà in classe con noi quest’anno. Eleonora, loro sono Elisa, Rebecca, Chiara, Elena, Roberta, Sara, Annalisa e Martina. Loro invece sono Teodoro, (questo era il ragazzo di colore che aveva parlato poco prima), Attilio, Riccardo, Gianluca, Federico, Andrea,  Daniele, Davide e Marco. Aspetta, ne manca uno!” fece poi, e si guardò intorno.
“Ma Matteo dov’è?”
 “Bella domanda” le rispose Teodoro. Dando un’occhiata all’orologio, aggiunse “Comunque sono le otto e venticinque: sarà qui a momenti, dato che la lezione inizia tra cinque minuti!”
E infatti, non appena ebbe finito di parlare, la porta si spalancò di botto, e un ragazzo alto e magro con i capelli castani e gli occhi marroni chiaro si precipitò dentro la stanza. Come me, anche lui portava gli occhiali.
“Ragazzi, non sono in ritardo, vero?!”
“No, tranquillo. Ma come mai così tardi?” gli chiese Azzurra. “Tu abiti sopra la scuola!”
“Non mi ha suonato la sveglia! Così ho fatto una corsa …”
“Ti vedo, sei praticamente quasi senza fiato! Riprenditi un attimo. Intanto, ti presento la nostra nuova compagna, Eleonora …”
“Piacere” feci io, tendendogli la mano.
“Il piacere è mio” rispose lui stringendomela, e studiandomi con curiosità.
Proprio in quel momento, la porta aprì ancora, rivelando un signore sulla cinquantina, con un grande naso aquilino, gli zigomi pronunciati e le braccia nodose.
Tutti si sedettero sulle sedie alla velocità della luce, e io mi sedetti a mia volta nell’unico posto libero, vicino alla ragazza che Azzurra mi aveva presentato come Sara; non era difficile immaginare chi fosse quell’uomo, data la celerità con cui gli altri si erano mossi.
“Buon giorno ragazzi!”
“Buon giorno professore!” facemmo tutti in coro. Io mi stavo per alzare, perché ero abituata a fare così ogni volta che un insegnante entrava, ma vedendo che nessuno si muoveva mi bloccai appena in tempo.
“Vedo che abbiamo una ragazza nuova! Come ti chiami?”
E così, ripetei di nuovo il mio nome, e di nuovo dissi che mi ero trasferita all’inizio delle vacanze estive. Aggiunsi poi che venivo da Roma, ma che conoscevo gente del paese perché i miei genitori ci erano nati e avevo anche tanti parenti che ci vivevano.
Il professore mi fece finire, poi si presentò a sua volta dicendo di essere l’insegnante di italiano, latino, storia e geografia, e mi domandò come andavo nelle sue materie.
“Nei due anni precedenti ho avuto ottimo in italiano, buono in storia e sufficiente in geografia e latino”
“Beh, vedremo come te la caverai qui. Sono certo che se ti impegni quest’anno riuscirai a tirare su quei voti! E ora, ragazzi, passiamo ai programmi …”
Parlò per un’ora e mezza degli argomenti che avremmo affrontato nelle sue materie durante l’anno scolastico, ci diede i titoli dei libri che avremmo dovuto comprare e ci lasciò l’ultima mezz’ora libera: inutile dire che appena ci diede l’autorizzazione, gli altri vennero tutti intorno a me, per saperne di più sulla mia vita.
“In che zona di Roma vivevi?”
“E adesso, in che via abiti, esattamente?”
“Per quale motivo ti sei trasferita?”
“Capisci il nostro dialetto? Lo sai parlare?”
Risposi alle prime due senza esitare, e alla terza dichiarai solo che mi ero trasferita per motivi di famiglia, senza addentrarmi nei particolari: non ero ancora pronta a rivelare qual’era stata la vera ragione. Alla domanda che riguardava il dialetto invece spiegai che lo capivo, ma non sapevo parlarlo. Le domande continuarono.
“Hai fratelli o sorelle?”
“Un fratello più piccolo, ha sei anni”
“Che musica ti piace?”
“Un po’ tutti i tipi … non ho un genere preferito!”
“Animali domestici?”
“Cinque pesci rossi”
“Hobby?”
“Leggere!” seguì un altro silenzio sbigottito, durante il quale gli altri mi osservarono come se fossi una bestia rara.
“Forse volevi dire uscire con gli amici. Vero?” mi chiese una ragazza con i capelli rossi e le lentiggini, che secondo quanto aveva detto Azzurra doveva essere Elena.
“No, ho detto leggere. E’ questo il mio hobby!”
“Non avevi amici con cui uscire?”
“Amici ne avevo, ma non uscivamo di pomeriggio. Roma è grande, i nostri genitori preferivano tenerci a casa! Se dovevamo vederci, ci vedevamo uno a casa dell’altro, o comunque in posti in cui gli adulti potevano tenerci d’occhio!”
Le ragazze aggrottarono la fronte, poi fu la volta di un ragazzo, Riccardo, che era il più basso della classe. “Tifi per qualche squadra di calcio?”
Esitai. Mia madre mi aveva detto di non dire che tifavo Roma, perché lì erano quasi tutti laziali e mi avrebbero presa in giro, quindi optai per un “Non seguo il calcio”.
“Sei mai stata fidanzata?” Questa era Elisa, che doveva essere la più ammirata della classe almeno a giudicare da come i ragazzi le fissavano il seno.
“No”.
“Innamorata?”
“No”.
A questo punto, i maschi cominciarono a perdere interesse e più o meno uno dopo l’altro si alzarono, mentre le ragazze rimasero; non sapevo bene perché, ma avevo la sensazione di non aver colpito nessuno dei presenti in modo favorevole, vista la fuga dei primi e l’aria terribilmente annoiata che le seconde avevano messo su da quando avevo confessato di non aver mai avuto un ragazzo.
“Ma cosa pretendono?” pensai, sbigottita. “Ho la loro età, non sono mica Wonderwoman! Cosa si aspettavano, che fossi fidanzata dalla nascita come si usava nei secoli passati?”
Credevo di aver finito con le domande, e quando la campanella suonò annunciando la fine dell’ora tirai un gran sospiro di sollievo e cercai di scacciare il senso di disagio che mi aveva invasa negli ultimi minuti. Ma mi sbagliavo … prima di alzarsi insieme alle altre sette compagne riunite intorno a me, Azzurra mi domandò, con l’aria di chi vuole concedere un’ultima possibilità: “Ti piace qualcuno della nostra classe?”
“No!” esclamai, sulla difensiva. Poi notai la sua faccia schifata, e mi sentii in dovere di aggiungere: “Sono appena arrivata, dammi tempo!”
“Tempo? O.o  Andiamo, ragazze …” Poi, abbassando la voce per non farmi sentire, aggiunse “Questa qui è una povera sfigata, non otterremo nessuna informazione interessante da lei”.
Purtroppo per loro, avevo sentito benissimo. “Andiamo bene!” pensai, sconsolata. “Sono qui solo da due ore, e già mi hanno etichettata in modo negativo!”
 
Girai la chiave nella toppa, ed entrai in casa con l’intenzione di dirigermi dritta sparata verso la mia camera per posare lo zaino: invece, mi fermai in corridoio a riflettere. Che giornata strana avevo avuto! Dopo il professore di italiano, era venuta l’insegnante di inglese (un armadio umano che pretendeva di essere chiamata “Mrs O’Brian” nonostante fosse italiana), poi era stata la volta della professoressa di religione (che era molto giovane e un po’ paffuta), e infine eravamo andati in palestra, e lì avevo conosciuto quella di educazione fisica, la quale nonostante insegnasse una materia che pretendeva rispetto per il proprio corpo fumava come un turco (non in palestra, ovviamente: però emanava un forte odore di sigarette, quindi non era difficile immaginarlo). Avevo anche imparato che non si dava del lei ai docenti, cosa che io invece nell’altra scuola facevo sempre.
E ogni volta che suonava la campanella,  a gruppi di due o tre le ragazze si avvicinavano per chiedermi “Sei sicura che non ti piace nessuno dei nostri compagni? Ma proprio nessuno nessuno?” Alcune sembravano essersi convinte che io avevo già fatto la mia scelta, ma che per pudore non volessi parlarne.  Più io ripetevo che non ero tipo da innamorarmi subito, più loro si convincevano che stavo mentendo … in mensa avevo provato a chiedere loro che interessi avevano, se avevano degli animali domestici, se avevano viaggiato all’estero, se avevano fratelli … avevo chiesto persino di che segno zodiacale erano, ma loro non sembravano interessate a rispondermi: tutto ciò che importava loro era saperne di più sulle mie esperienze amorose e sui miei gusti in fatto di ragazzi. Mi avevano persino chiesto se lo avevo già fatto, e questo mi aveva messa terribilmente in imbarazzo; come potevano chiedere una cosa tanto intima? Senza contare il fatto che era una domanda inutile, visto che avevo già specificato più volte che non ero mai stata innamorata e neanche fidanzata. Mia madre mi aveva avvertita che la mentalità del paese era ristretta e l’interesse principale erano l’amore e la sfera sessuale, ma non immaginavo a questi livelli! Sembrava quasi come se non esistessero altri argomenti, non si parlava d’altro.
“Forse tra qualche tempo le cose cambieranno”, pensai. “In fondo, è solo il primo giorno!”.
Infine, mi riscossi e decisi di entrare nella mia stanza: una volta lì, misi lo zaino vicino alla libreria e mi sdraiai sul letto.
 
 
“Ele? Ele?? Eleee!”
“Aprii gli occhi, frastornata, e mi ritrovai davanti il faccino preoccupato di mio fratello.
“Giorgio! Che è successo? Mamma e papà dove sono?”
“Hanno accompagnato me qui e poi sono andati a fare la spesa. Papà mi ha detto di non disturbarti perché dormivi, ma devi venire di sopra, è importante!”
Allarmata dalla sua vocina, scesi dal letto. “Cosa è successo?” ripetei.
“Galena sta male … non nuota più bene, e si gira continuamente a pancia in su! Credo stia per morire.”
“CHEEE?” Corsi in soffitta, con Giorgio alle calcagna, e puntai verso l’acquario: ma mi resi subito conto di essere arrivata troppo tardi.
“Oh no! E’ morta adesso, vero?”
“Sì, purtroppo …” Mi veniva da piangere, ma non volevo farlo davanti a lui.
“Ele, perché si muore?”
“Perché così è la vita; si nasce, si cresce, si diventa grandi, si diventa genitori e poi nonni e poi si muore. Lei è stata con noi per 4 anni, e ha fatto anche dei piccoli: è tanto per un pesce rosso!
“Ma gli animali quando muoiono dove vanno? In Paradiso insieme a noi?”
“Vanno a finire sul Ponte Arcobaleno: lì possono giocare insieme per sempre, e quando anche noi moriremo potremo passare un po’ di tempo con loro ogni volta che lo vorremo”.
“Quindi adesso lei è andata da Attila e dai loro figli? Stanno nuotando tutti insieme?”
“Sì, esatto. E un giorno la rivedremo”. Mi sforzai di sorridere. “Sai che facciamo? Adesso io scendo di sotto e la porto alla gatta incinta che gira sotto al portone da qualche giorno … le potrà servire come nutrimento per i gattini. Tu intanto vai alla Play Station e prendi il gioco di Dragon Ball: ci facciamo una partita in onore di Galena. Vedrai che lei farà il tifo per noi e riusciremo a vincere!”
“Va bene! Gliela facciamo vedere noi a Freezer oggi, giusto?”
“Giusto!” confermai, mentre prendevo il retino per togliere il pesce; i suoi simili le giravano attorno senza interessarsi a lei.
“Grazie al cielo, i bambini si distraggono facilmente” pensai mentre scendevo le scale di casa cercando di ricacciare indietro le lacrime.
 
 
A cena, i miei genitori, assai poco interessati alla dipartita di uno dei nostri animali domestici, insistettero per sapere com’era andato il mio primo giorno di lezione. Io, che non volevo dire loro che mi ero trovata in difficoltà con le altre ragazze per non farli preoccupare, mi mantenni sul vago, e sparai un “Bah… tutto bene … per ora sembrano tutti simpatici!”
“Sono felice per te!” esclamò mia madre sorridendo.
Quando andai a letto, l’ultima cosa che pensai prima di addormentarmi fu “spero tanto che domani a scuola le cose vadano meglio!”
 
 

 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Ottobre: Lettere ***


Capitolo 2 – Ottobre: Lettere

 

Aprii la porta con lentezza esasperante, con l’umiliazione che ancora mi bruciava dentro. Cosa avevo fatto di male perché gli altri mi trattassero sempre così? C’era forse qualcosa di sbagliato nel mio modo di essere, nel mio modo di pensare o di agire? Davvero non riuscivo a capire.
Andai in camera mia: avrei dovuto fare gli esercizi di matematica per il giorno dopo, che era sabato, ma non mi andava proprio, anzi, l’unica cosa che volevo era sdraiarmi sul letto e guardare la tv; proprio mentre ero sul punto di prendere il telecomando, però, sentii mio padre rientrare a casa.
“Eleonora, ci sei?”
“Sono qui!”
“Com’è andata a scuola?”
“Ehm … bene!”
“Interrogazioni?”
“No”.
“E allora perché dici che è andata bene? Bene è quando ti hanno interrogata, e hai preso un bel voto”.
“Ok”, risposi un po’ irritata. “Allora non è successo niente di interessante. Va bene così?”
“Bah, io non capisco che ci vai a fare a scuola, se poi devi avere giornate in cui non succede niente di interessante. Non esci mai di casa, quindi si sperava che almeno a scuola ogni tanto ci fossero novità!”
“Cioè, mi stai dicendo che visto che non ho una vita sociale, dovrei sforzarmi di vivere per la scuola? La mia vita non ha senso senza lo studio?”
“Beh, tu dammi un’alternativa per pensare diversamente. Sei mai uscita coi tuoi compagni di classe? Qui non siamo a Roma, puoi uscire liberamente purché tu lo faccia dopo aver fatto i compiti e purché torni prima di cena!”
“Ma a me non va di uscire! Sto bene qui, e poi lo sai che il mercoledì e il venerdì sono stanca, perché resto a scuola fino alle 17:30!” protestai. Non era il caso di dirgli la verità: mi aveva ripetuto più di una volta che se una persona non riusciva a farsi amici era una fallita perché l’amicizia era importante, e l’ultima cosa che volevo era che scoprisse che proprio sua figlia era una di quelle persone.
“Come vuoi … certo che sei strana, però. Ah, quasi dimenticavo, questa è per te”, mi disse, tendendomi una lettera.
“Per me?” Ero così abituata ad essere trattata da scarafaggio, che mi sembrava quasi assurdo che qualcuno potesse scrivermi! Lessi l’indirizzo sulla busta, e capii che era da parte di Valentina, la mia migliore amica di Roma: sentii il mio cuore riempirsi di gioia autentica, dopo un mese di gelo.
“Vado subito di là a leggerla!” esclamai, e senza attendere risposta, corsi di nuovo nella mia stanza.
 
 
Qualche minuto più tardi, ero intenta a rigirarmi la lettera tra le mani.
Volevo molto bene a Valentina, e le ero grata perché aveva cercato di tirarmi su il morale, ma mi rendevo conto che non aveva centrato il problema. Quindi, l’unica cosa che mi rimaneva da fare era risponderle in modo da dirle chiaramente una volta per tutte in quale situazione mi trovavo, e così feci.
 
11/10/2001
Cara Vale,
Ti sembra possibile che solo un mese fa sia avvenuto quel terribile attentato alle Torri Gemelle? Io ancora non riesco a crederci. Tutta quella povera gente morta … si dice che il governo americano sapesse tutto, ma io non so se dare ascolto a queste dicerie o meno: mi sembra impossibile che abbiano sacrificato alcuni loro cittadini per avere la scusa di attaccare l’Afghanistan, ma è anche vero che con tutti i satelliti che hanno è impossibile che non se ne siano accorti con largo anticipo. Tu che ne pensi?
Cambiando totalmente argomento, il tuo porcellino d’India, Ugo, come sta? Gli è passata la congiuntivite? I miei pesci rossi stanno bene, ormai me ne sono rimasti 3. Penso che non ne prenderò altri, quando questi moriranno, perché non voglio più animali: è sempre una sofferenza quando se ne vanno!
A proposito di sofferenza, questi ultimi giorni sono stati un vero incubo. Per le ragazze, probabilmente hai ragione tu:essendo state cresciute con l’idea fissa di diventare mogli e madri, forse sembra loro normale parlare costantemente di bei ragazzi e sesso. Ma anche io vorrei diventare moglie e madre, un giorno, eppure non passo il tempo a parlare di queste cose! Non mi fraintendere, non è che l’argomento non mi interessi, ma penso che la vita non si riduca solo a quello. Sarà una parte importante dell’esistenza, non lo nego, ma non è tutto, o almeno non può esserlo a tredici anni! Persino i giochi e i quiz che fanno ruotano intorno alle pratiche sessuali. Forse sarò strana io, ma non riesco ad interessarmi tanto ad attori, cantanti e calciatori, visto che tanto non mi guarderanno mai, e neanche mi importa più di tanto del fatto che una ragazza della terza C abbia da poco scoperto di essere incinta: le altre invece ne parlano come se le fosse stato svelato il terzo segreto di Fatima!
Per quel che riguarda i ragazzi, invece, ti assicuro che quelle che mi fanno non sono semplici prese in giro. Ormai mi dicono tutti i giorni che sono brutta, ogni volta che abbiamo qualche minuto libero!Fanno battute del tipo “Ehi, Scorfana, avverti quando ti giri, senno qui qualcuno prima o poi ci resta secco!” Oppure: “Halloween è finito, puoi toglierti la maschera: lo sappiamo che sotto sotto sei bella, coraggio!”. Ci sarebbe da farci quattro risate, se queste cose non accadessero quotidianamente. Non ho mai replicato perché mi hanno insegnato che se ignori tutto quello che ti viene detto poi alla fine gli altri la smettono perché perdono interesse, ma loro vanno avanti da un mese e ancora non demordono! Questi atteggiamenti mi feriscono sempre molto, perché non sono fatta di marmo: non pretendo che mi adorino come se fossi una divinità, mi basta essere trattata da persona normale quale sono. Non voglio dover temere trabocchetti ovunque, anche in domande che a prima vista sembrano innocenti!
Perché oggi è successa proprio una cosa del genere … ma prima di raccontartela, credo sia opportuno che io ti faccia una breve descrizione di ognuno di loro, così capisci meglio con che tipi di individui mi tocca stare.
Cominciamo dalle ragazze:

Elisa: è la più bella della classe, e se ne vanta spesso. E’ una di quelle che sembra dolce e gentile, ma appena ti giri te ne dice di tutti i colori! Almeno con me fa così, poi con le altre non lo so. Ha i capelli castani e un po’ mossi e li porta lunghi fino alle spalle, si mette sempre una quantità spropositata di trucco sulla faccia e porta sempre magliette che evidenziano il suo enorme seno (porta una quinta);
Rebecca: è la migliore amica di Elisa, nonché la seconda più ammirata. Lei non è falsa, ma è comunque abbastanza offensiva: pensa che qualche giorno fa si è messa a dire ad alta voce che aveva letto su una rivista che chi non è apprezzato dall’altro sesso si butta sul proprio nel giro di qualche mese, e mi lanciava occhiate come a dire “Capito, stupidina?”. Quando non è occupata ad offendere la mia intelligenza con mezzi come quello di cui sopra, mi dice che dovrei togliermi gli occhiali perché con quelli sul naso faccio pietà: letteralmente, senza giri di parole! Ma è ovvio che io non posso andare in giro brancolando solo per compiacere lei. Inoltre, è bravissima a pallavolo, per cui le altre l’hanno soprannominata Mila, come la protagonista del cartone animato che mandano il pomeriggio su Italia 1.
Chiara: ha i capelli lunghi biondi e gli occhi azzurri, e per questo pensa di essere Miss Mondo. Peccato che sia talmente bassa che più che ad una modella assomiglia in modo incredibile a Puffetta! Le manca soltanto il colorito blu alla pelle, e poi è lei sputata. Sta sempre intorno alle prime due che ti ho nominato, e le copia in tutto; inoltre, ha il vizio di chiedermi di continuo chi mi piace, perché è convinta che io non voglia dirlo: non riesco in alcun modo a farle capire che NON sono innamorata di nessuno!
Elena: è gentile con me solo se non ci sono le altre in giro, altrimenti mi ignora deliberatamente. Ha vissuto a Benevento, città dove è nata, fino a sette anni fa, quando i suoi si sono trasferiti qui; visto che abita vicino a me, quando le gira bene facciamo la strada insieme.
Azzurra: ha l’andatura dondolante che la fa assomigliare ad un pinguino, e quando parla per attirare l’attenzione altrui mette spesso su una voce acutissima e fastidiosa; quando l’ho conosciuta sembrava una tipa a posto, ma adesso mi guarda dall’alto in basso e ogni volta che parlo fa battute del tipo: “Ah, ragazzi, se lo dice Eleonora allora possiamo stare tranquilli, eh!”. Come Chiara, anche lei mi chiede spesso a quale esemplare maschile della classe vadano i miei favori, e quando le dico che non mi interessa nessuno di loro, mi guarda scuotendo la testa e dice: “Poverina. Che vita misera devi avere, stando senza amore!”
Sara: porta spesso i capelli legati a coda di cavallo anche quando sono puliti, e ha degli occhi azzurri davvero belli. E’ la mia compagna di banco, ma non riesco ancora a capire se mi vuole bene davvero o no. A volte si confida con me, altre volte invece mi respinge ed è la prima a prendermi in giro … boh, non so come classificarla! Ogni volta che entro in classe mi chiede di aprire il giacchetto per vedere come sono vestita sotto, e la sua particolarità sta nel fatto che legge come una bambina di prima elementare; inoltre va malino in tutte le materie tranne che in disegno tecnico e disegno artistico e ha un professore di sostegno che la segue.
Annalisa: di solito è innocua, ma ultimamente fa l’amicona, e sai per arrivare a cosa? Per farmi mettere una buona parola con mio cugino Andrea, che fa la terza A. Le piace molto, è proprio cotta! Peccato che lui sia interessato ad una sua compagna di classe, e io non ho certo intenzione di rompergli le scatole …
Martina: essendo la migliore amica di Elena, ha con me gli stessi atteggiamenti che ha lei. E’ piena di brufoli in faccia, ma nessuno osa dirle che sembra una che è affetta dalla peste bubbonica, come invece capita a me ogni santo giorno;
Roberta: anche lei porta una quinta abbondante, ma credo sia per via del fatto che è piuttosto cicciottella; mia nonna materna, che l’ha incontrata in giro qualche settimana fa, mi ha detto che è la nipote di un suo primo cugino, quindi siamo parenti, seppure alla lontana. Quando gliel’ho detto lei mi ha risposto stupita: “Ah sì? Non lo sapevo!” e la cosa sembrava essere finita lì, ma Azzurra ha sentito tutto ed è venuta a darle le condoglianze, seguita a ruota da tutti gli altri.
E ora, ecco i ragazzi:

Teodoro: è nero, ha un anno più di noi (è stato bocciato in prima media) e vive in uno dei paesi qui vicino. Non parla volentieri della sua famiglia, fuma, è indisponente verso i professori e non studia mai; tutti i problemi che ho vengono da lui, perché è lui che ha inventato il mio soprannome, Scorfana (in caso tu non lo sapessi, lo scorfano è un pesce molto brutto), ed è lui che mi prende sempre in giro, insieme ad Attilio. Ha fama di uno che fa spesso a botte e nonostante non sia proprio uno stinco di santo, visto che negli anni precedenti si è beccato più sospensioni lui che l’intera scuola messa insieme, tutti in classe lo ammirano e lo rispettano.
Gianluca: ha un naso enorme, per questo Azzurra l’ha soprannominato “Naso”. Non mi ha mai detto niente di male, ma se per qualche motivo mi capita di guardarlo chiude gli occhi con aria schifata;
Federico: è il più alto, per questo ha come soprannome “Gigante” (è stata sempre Azzurra a deciderlo); anche lui non mi dice mai niente di particolarmente offensivo, ma se per sbaglio mi capita di posare lo sguardo sul suo viso si mette ad urlare “Nooo, ti prego, non guardarmi! Rischi di pietrificarmi!” Neanche fossi la gorgone Medusa …
Andrea: a quanto ho potuto capire, le altre lo considerano il più bello della classe; non mi ha mai detto niente, ma solo perché Chiara mi controlla a vista e mi impedisce di avere un qualsiasi contatto con lui. Pensa che una volta gli ho chiesto la gomma e lei se l’è presa come se gli avessi chiesto di sposarmi!
Davide:quanto è stupido questo ragazzo! Si diverte a farmi domande sconce che mi mettono sempre terribilmente in imbarazzo, e vede il marcio in qualsiasi cosa dico: una volta mi ha sentita dire che ho tre pesci rossi, e s’è messo a ridere a crepapelle. Non so perché abbia riso tanto, ma visto che vivono solo di quello credo che abbia fatto un’associazione mentale tra il pesce e qualcosa legato alla sessualità ... il guaio è che non so cosa possa essere! La cosa sconcertante di lui, comunque,  è che si atteggia tanto a uomo maturo ma va in giro per la scuola con le carte dei Pokémon;
Marco: sta sempre con Davide, e anche lui si diverte a farmi domande sconce; una volta Teodoro mi ha spinta apposta per farmi finire addosso a lui, che si è messo ad urlare come se lo avessi ustionato;
Riccardo: anche lui è uno di quelli che mi dice sempre che sono brutta, e si permette anche di dire che nessun ragazzo oserà mai toccarmi con un dito e resterò vergine a vita (ripete le stesse cose che dice Teodoro, in pratica);
Daniele: fino alla seconda media era un secchione, ma il professore di italiano dice che è sceso con i voti da quando Teodoro l’ha soprannominato “Secchio”. Con me si comporta come Gianluca e Federico;
Matteo: è il migliore amico di Teodoro, insieme ad Attilio; mi prende spietatamente in giro solo quando ci sono i suoi compari nei paraggi, mentre quando non lo vedono è gentile. Pensa che giusto ieri mi ha passato la versione di latino, e se consideri che io sono la sfigata della classe, puoi capire il rischio che ha corso davanti agli altri … parla quasi sempre di calcio, (tifa per la Juve) e vorrebbe diventare un calciatore; inoltre, ha un problema di pronuncia, perché invece di dire “s” dice un suono simile al “th” inglese.
Attilio: è il secondo più ammirato della classe,ed è il peggiore dopo Teodoro.
E’ convinto che solo un cieco potrebbe mettersi con me, ed è colui che oggi mi ha fatta sentire un escremento umano.
Come ha fatto è presto detto: è cominciato tutto quando mi ha chiesto un fazzoletto … come sai, io me li porto sempre dietro perché avendo il setto nasale deviato ne ho costantemente bisogno, e sinceramente essendo abituata ad essere chiamata in causa solo per le domande sconce o per le considerazioni sulla mia bruttezza o sulla mia scarsa intelligenza, sono rimasta stupita del fatto che mi avesse chiesto una cosa tanto semplice ed innocente. Ho preso il pacchetto che avevo e gliene ho dato uno, ma non l’avessi mai fatto! Appena lo ha preso (con due dita, come se fosse sporco) ci ha scritto sopra “E’ di Eleonora”  e poi l’ha passato a Davide, che è il suo compagno di banco. Lui ha letto la scritta, ha fatto un verso strozzato e l’ha passato al suo vicino (non so se te l’avevo detto nella mia ultima lettera, ma hanno unito tutti i banchi fino a fare 2 file continue, tutte le ragazze davanti e i ragazzi dietro: l’unico banco che avanza ed è davanti a tutti gli altri in posizione isolata, ovviamente, è il mio): in pratica, se lo sono passato quasi tutti i maschi, che fingevano di vomitare, urlavano o facevano esclamazioni del tipo “Che schifo! Ho toccato un fazzoletto della Scorfana, ora mi prenderò una malattia grave e morirò!”. Sarei voluta scomparire sotto terra dall’umiliazione! La messinscena è finita quando Matteo, che era il penultimo della fila, s’è alzato ed è venuto a riportarmi il pezzo di carta.
Lo so che detta così sembra una scemenza, e forse tu mi dirai che sono esagerata a stare male per una cosa del genere, ma devi considerare quello che ti ho detto prima: queste cose succedono ogni giorno, non c’è mai una volta in cui mi lasciano in pace. Posso sopportare una volta o due, ma poi diventa una tortura! Quelli che subisco in aula più che semplici sfottò tra coetanei mi sembrano cattiverie gratuite, ma anche sforzandomi non riesco a comprendere cosa ho fatto di grave per meritarle.
Come vorrei essere ancora lì con te! Mi manchi da morire, sai? Se solo non fosse successo tutto quel casino, io sarei ancora a Cinecittà … invece sono relegata qui in mezzo a persone che mi detestano, e non ho nessuno con cui parlare.
Bene, ora devo lasciarti: ho i compiti di matematica che mi aspettano. Spero che mi venga almeno un esercizio!
Salutami Veronica, Giulia e Michela, ok? A presto, ti voglio bene!
                                                                                          Eleonora
 

Dopo aver firmato, piegai la lettera in quattro parti e decisi che l’indomani sarei andata a comprare sia la busta che il francobollo per spedirla.
“E ora, occupiamoci di quegli esercizi di matematica!” mi dissi, controvoglia.
 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Ottobre: pallavolo ***


Capitolo 3 – Ottobre: Pallavolo

 
Vidi la palla avvicinarsi sempre di più, e mi misi in posizione per riceverla con il bagher: non volevo sbagliare ancora.
“Ci risiamo: non la prenderà neanche stavolta!” sentii dire da Riccardo, che era posizionato vicino a me.
“Ehi, cosa vorresti insinu …” cominciai irritata, voltandomi verso di lui.
“Attenta alla palla invece di rompermi, stupida!” .
Troppo tardi: l’oggetto in questione si era già schiantato a terra, e l’altra squadra aveva preso a festeggiare il fin troppo facile punto.
In men che non si dica, i miei compagni mi furono attorno …
“Ecco, sei contenta adesso?” mi chiese Riccardo arrabbiato.
“Ci fai perdere ogni volta!”  gli diede man forte Chiara.
“Io mi domando: ma com’è possibile essere tanto scarsi in uno sport così semplice? C’è qualcosa che sai fare, o sei praticamente inetta su tutto?”
“Cosa?” ribattei offesa. “Attilio, ma come ti permetti? Inetto ci sarai tu!”
“Io dico quello che mi pare, hai capito? Soprattutto alle scorfane come  te!”
“BASTA! Smettetela subito, chiaro? Lasciate stare Eleonora!”
Sorpresa di sentire che qualcuno aveva preso le mie parti, cosa che non succedeva praticamente mai, feci un giro su me stessa e mi ritrovai davanti Matteo, che ci fissava uno ad uno, accigliato. Dietro di lui, i ragazzi della squadra avversaria si stavano avvicinando; della professoressa invece, nessuna traccia. Dov’era finita?
Teodoro, che come me si era accorto della momentanea assenza della docente, si rivolse all’amico con l’aria di chi cerca di riportare alla ragione un bambino capriccioso: “Matteo, ma come, la difendi? Questa … cosa, qui, non solo è brutta da morire, ma non è neanche capace di prendere una palla. Domani abbiamo la partita contro la terza C, se perdiamo quelli ci prenderanno in giro da qui fino agli esami! Io non ce la voglio in squadra, neanche come riserva: non voglio dovermi vergognare per colpa sua”.
Ferita, mi misi in mezzo e ribattei: “Tranquillo Teodoro, non giocherò. Mi rendo conto che non posso farvi fare figuracce, e non posso dire di essere brava a pallavolo, perché mentirei”. Ero davvero convinta di quel che avevo detto, ma in fondo al cuore avrei gradito che qualcuno mi dicesse che non era vero che non ero brava, e che mi incoraggiasse: invece, gli unici commenti furono “Meno male, ci mancava pure che insistesse per giocare!” da parte di due o tre ragazze, e un “Questa è l’unica cosa sensata che io ti abbia sentito dire finora,  Scorfana!” di Attilio.
Tenni lo sguardo basso, e mi morsi il labbro. Perché doveva essere tutto così difficile, con loro? Dove sbagliavo? Cosa avevo combinato di tanto grave per farli arrivare al punto da essere sollevati se mi rifiutavo di giocare? “Non piangere, peggiorerai la situazione”, mi dissi. Proprio in quel momento, per fortuna, si udì la voce della professoressa.
“Ragazzi, che succede? Perché siete tutti lì? Possibile che non vi si può lasciare soli per qualche minuto? Rimettetevi bene, su!”
Ci fu qualche istante di confusione, e mentre tutti si rimettevano ai propri posti io guardai l’orologio per verificare quanto ancora sarebbe durata quella tortura: mancava poco, ma quando il gioco riprese non me la sentii di continuare.
“Fermi un attimo!” strillai. Rebecca, che era in posizione di battuta dalla parte opposta a quella dove mi trovavo, si bloccò “Ma che è successo?” mi chiese.
Io la ignorai, e uscii dal campo diretta al banchetto dietro il quale era seduta la professoressa. “Prof, non mi sento molto bene. Posso andare nello spogliatoio?”
“D’accordo...Sara, vai con lei!”
La mia compagna di banco, che quel giorno non aveva partecipato alla lezione perché aveva le mestruazioni, si affrettò ad alzarsi dalla panca dove era stata fino a pochi attimi prima, e si avviò insieme a me.
Una volta entrate nello spogliatoio, chiusi la porta e sospirai.
“Si può sapere cos’hai? A me non sembra proprio che stai male!”.
Non avvertendo il tono pericolosamente scocciato della sua voce, mi sfogai. “Beata te che non hai giocato, oggi! Penso di essere l’unica adolescente al mondo che odia le lezioni di educazione fisica … gioco male, è vero, ma a tutto c’è un limite! Non trovi? Tu puoi capirmi: mi hai sempre detto che fino allo scorso anno prendevano in giro anche te!”
“Prima che tu ti faccia strane idee, Eleonora, te lo dico subito: ti ho sempre mentito. Non ho fatto che mentirti, su tutte le cose che ti ho raccontato. E’ così divertente vedere come ci caschi! Mi dispiace che questo ti abbia fatto credere che ti capisco, perché non è così. Io ti odio. Sei stupida, noiosa, non parli mai e quando lo fai parli solo di cose futili e insignificanti! Cosa pensi che conti nella vita, il cervello? Illusa! I ragazzi non ti guardano per il cervello che hai e per le cose che sai, ma per come ti muovi, come ti trucchi, come ti curi il corpo e i capelli! Come pensi di trovarlo un ragazzo, se continui a disinteressarti di queste cose e ti chiudi a riccio ogni volta che si parla di sesso? Con chi pensi di metterti in futuro, con tuo fratello per caso?”
“Ma che schifo!” esclamai, nauseata. “Come puoi anche solo pensare una cosa del genere?”
“Beh, e con chi altri pensi di finire, scusa? Nessun ragazzo è interessato ai tuoi argomenti: la storia, la scienza, l’attualità … tutte cose altamente pallose. E per tua informazione, anche se la tua mente puritana e limitata non lo accetta, il sesso è importante. E’ il motore del mondo! Come credi di essere nata tu, ti ha portata la cicogna?”
“Lo so benissimo che è importante!!! Ma non è tutto, Sara, non può esserlo. Non dico che non bisogna parlarne mai, ma ci sono anche altre cose! Una volta almeno, non si potrebbe parlare d’altro?”
“Ehm, pronto? Abbiamo tredici anni. TREDICI ANNI. Se non ne parliamo ora, quando potremo farlo, quando saremo sposate? E’ normalissimo parlarne sempre, così come è normale parlare sempre di ragazzi. Sei tu quella anormale, perché queste cose le eviti!” si fermò un attimo sentendo il suono della campanella che annunciava la fine dell’ora, ma poi riprese “Dobbiamo andare. Vedi di non starmi attaccata, d’accordo? Se sei strana io non posso farci nulla, sono problemi tuoi e francamente non mi interessano. Non ti azzardare ad uscire subito dopo di me, ok? Voglio che aspetti qualche secondo: così evitiamo che gli altri ci vedano insieme e pensino che sono tua amica!” Detto questo uscì a testa alta, e io mi accasciai su una delle panche, prendendomi la testa tra le mani. Aveva ragione, ero un’illusa. Avevo creduto che nonostante tutto lei mi volesse bene, e che le volte che mi aveva presa in giro lo aveva fatto solo per farsi grande agli occhi di Teodoro, di cui era palesemente cotta … e invece, non solo si era presa gioco di me sin dal primo giorno di scuola, ma mi detestava addirittura, e solo perché non la pensavo come lei e le altre ragazze sull’unica questione che loro ritenevano degna di essere affrontata quotidianamente. “Perché?” mi domandai disperata, guardando la mia immagine riflessa nello specchio. “Perché devono tormentarmi solo per via del fatto che ho idee diverse dalle loro?”. Rimasi lì per qualche altro attimo, immersa nei miei pensieri, poi tornai in me e, ricordandomi dov’ero, balzai in piedi e aprii velocemente la porta, decisa a correre per tutto il corridoio che collegava la palestra alla scuola: almeno, in quel modo mi sarei sfogata, e sarei potuta arrivare in tempo per l'inizio della lezione di inglese: l’insegnante qualche settimana prima si era convinta che io arrivassi in ritardo alle sue lezioni di proposito, solo perché mi era capitato di svegliarmi tardi per due mattine di seguito, quindi non volevo peggiorare ulteriormente le cose.
Proprio nel momento in cui stavo per prendere lo slancio nella corsa, però, sentii una voce che mi chiamava, e mi girai: era la professoressa di ginnastica.
“Eleonora, che ci fai ancora qui? Gli altri sono già usciti!”
“Ehm, veramente io …”
“Lascia stare, non voglio sapere niente. Visto che stai tornando in aula, puoi prendere questi?” mi chiese, porgendomi un paio di occhiali. “Credo che siano di uno dei tuoi compagni”.
Io li presi e li studiai, senza parlare: sapevo di chi erano. E sapevo anche cosa mi aspettava quando glieli avrei riportati: prese in giro a non finire, e battute del tipo “Oh no! Li ha toccati, quindi si romperanno di sicuro, per quanto è brutta!” … il solo pensiero mi faceva stare male.
“Eleonora? Non vai?”
Mi riscossi. “Sì professoressa, vado subito. Arrivederci!” dissi, e filai via.
 
 
Corsi a perdifiato, pregando che l’insegnante fosse in ritardo: non ero stata fuori per molto, quindi c’era una possibilità che non si fosse accorta della mia assenza. Arrivata al corridoio dove si trovava la mia classe, però, per poco non mi scontrai con Matteo …
“Oh, scusa!” dissi, ansimando.
“Figurati. Ma dov’eri finita? La Delle Fratte si è accorta che non c’eri!”
“Oh no! E’ in classe?”
“In questo momento no, è scesa pochissimo tempo fa per fare delle fotocopie: probabilmente l’hai incrociata mentre correvi ma non te ne sei accorta”.
“Non è stata colpa mia, la Prosperi mi ha trattenuta”. Non mi andava di raccontargli quello che era successo nello spogliatoio con Sara, anche perché dubitavo che ce ne fosse il tempo. “Mi ha detto di ridarti questi” dissi, tutto d’un fiato e con il cuore che mi batteva stranamente molto in fretta, porgendogli gli occhiali; mi aspettavo che mi guardasse con aria schifata solo per il fatto che li avevo tenuti in mano, che cercasse di pulirli o che mi dicesse di non prenderli mai più, come avrebbe fatto qualsiasi altro mio compagno, invece lui mi disse semplicemente “Grazie, era proprio per riprenderli che stavo uscendo!” .
Rimasi basita: possibile che finalmente qualcuno mi considerava come una persona, e non come un lombrico?
 
Per tutto il resto della giornata, fui molto distratta: a malapena sentii i rimproveri della professoressa di inglese, e non prestai la minima attenzione alle prese in giro dei miei compagni: avevo altro per la testa. Non facevo che pensare a quello che era successo con Matteo fuori dall’aula, e alla strana reazione che avevo avuto quando gli avevo ridato gli occhiali: non era la prima volta che mi capitava di sentirmi imbarazzata davanti a lui e di parlargli in modo precipitoso quasi mangiandomi le parole, così come non era la prima volta che il cuore mi battesse forte quando gli ero vicina; inoltre, negli ultimi giorni mi ero resa conto di infastidirmi parecchio appena si avvicinava a qualcuna delle nostre compagne … cosa stava succedendo? Reagivo così perché lui era l’unico che mi trattava come un essere umano, oppure c’era altro sotto?
Mentre uscivo dall’aula, decisi che avrei scritto a Valentina per chiederle consiglio: lei forse mi avrebbe aiutata a capire!
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Novembre: Mentalità ***


Capitolo 4 – Novembre: Mentalità
 

“Ehi, Scorfana, come va? Sei andata a fare la spesa, per caso?” Teodoro era appoggiato allo stipite della porta, e rideva a crepapelle mentre io arrancavo con il mio zaino simile ad un piccolo trolley.
Sbuffai: dopo due mesi di scuola, ancora non si era stufato di questa battuta idiota?
“Piantala! Te l’ho già spiegato mille volte: ho la scoliosi, perciò i miei genitori mi hanno comprato questo zaino che sembra un carrellino. E’ per la mia salute, non l’ho voluto io, quindi sei pregato di non rompere le scatole!” gli risposi irritata, fermandomi in mezzo al corridoio.
Quindi sei pregato di non rompere le scatole”, mi scimmiottò lui, rimarcando l’ultima parola. “Quando ti deciderai a dire una parolaccia? Sei già disgustosa di tuo, ma quando fai la brava bambina educata lo sei ancora di …” si interruppe bruscamente e mi squadrò. “Oddio, ma che ti sei messa addosso?”
“Una gonna. Non lo vedi?” feci io, tranquilla.
Fu un attimo: Teodoro rientrò in classe come una scheggia ed iniziò ad urlare: “AAAAAAH! La Scorfana si è messa la gonnaaaaaaaaa! Correte tutti al riparo, presto!”
Entrai in aula a testa bassa: sapevo bene che avrei dovuto fregarmene, ma non riuscii ad impedirmi di sentirmi triste. Avevo indosso una gonna, e allora? Perché gli altri dovevano farmi sentire sempre come se fossi un rifiuto umano?
Avevo intenzione di sedermi al mio posto e ripassare, ma qualcuno aveva delle rimostranze da fare riguardo al mio abbigliamento …
“Di’ la verità, ti sei vestita così perché ti piace uno della classe!” Chiara era venuta davanti al mio banco e mi guardava con fare accusatorio, come se l’avessi offesa.
“In che senso? Da quando una si mette la gonna solo per piacere ad un ragazzo? Ma che razza di mentalità antiquata è questa?” chiesi, scandalizzata. “Io l’ho fatto perché mi andava!”
“Non mentirmi: ti piace qualcuno, lo so. Primo, in questi giorni sei molto trasognata; e secondo, oggi ti sei messa la gonna. Perché mai l’avresti fatto, se non per sedurre?”
Cominciai ad innervosirmi. Che mi piaceva qualcuno, era vero: ormai dopo essermi più volte consultata via lettera con la mia migliore amica e dopo aver fatto chiarezza dentro di me, avevo capito che sì, ero innamorata. Ma non avevo certo intenzione di dirlo alla mia compagna: se l’avessi fatto, sarebbero stati guai seri! E comunque non era quello il motivo per cui avevo deciso di vestirmi diversa dal solito.
“Chiara, non seccarmi, per favore. Cos’è, sei invidiosa di me perché io a differenza tua le gonne posso permettermele?”
“Questa poi! Vorresti dire che hai gambe più belle delle mie?”
Ero incerta se ribattere con un “Almeno le mie non sono piene di cellulite!” o se mostrarmi superiore e lasciar perdere, quando entrò il professore di italiano.
“Buon giorno ragazzi! Cos’è tutto questo trambusto? Siete più rumorosi del solito, mi pare … Cos’avete?”
“Professore, la Scorf … cioè, Eleonora oggi ha la gonna!” fece Riccardo, con l’aria di chi sta denunciando un fatto grave.
“Davvero? Eleonora, alzati, dai!”
“Cosa?” chiesi io, imbarazzata. “No!”
“Sì invece. Ora ti alzi e vieni con me fuori, così facciamo vedere a tutti come stai bene.”
Mi alzai, convinta che questo gli sarebbe bastato, ma non fu così: mi scortò davvero fuori dell’aula, e mi fece praticamente marciare per il corridoio; la professoressa della classe accanto ci vide e ci chiese cosa stavamo facendo.
“Porto Eleonora a fare un giro, cosicché tutta la scuola possa vederla. Non è carina?”
“In effetti … ragazzi!” disse la professoressa voltandosi indietro. “Venite a vedere Eleonora, ha la gonna!” Inutile dire che gli studenti della terza C, felici di avere una scusa per ritardare la lezione, si precipitarono tutti fuori dalla porta.
“Ele, ma come stai bene!” esclamò Alessandra, una ragazza molto carina che mi aveva presa subito in simpatia perché i nostri padri avevano lo stesso nome, lo stesso cognome ed erano nati lo stesso giorno e lo stesso mese, anche se in anni diversi.
“Grazie!” feci, un po’ imbarazzata.
“Sei molto bella …” mi fece Edlira. Ringraziandola, non potei fare a meno di guardarle la pancia: non si vedeva niente, e mi sembrava quasi impossibile che là dentro ci fosse una piccola persona!
“Vero, stai benissimo!” confermò Federica.
Anche le altre ragazze mi fecero dei complimenti; i ragazzi invece avevano tutti uno sguardo imbambolato, e mi fissavano le gambe.
“Ma che cos’ hanno?” pensai. Certo erano più carini dei miei compagni di classe, visto che almeno loro vedendomi non si erano messi ad urlare come se stessero subendo delle torture cinesi, ma non riuscivo comunque a capire come mai mi fissavano in quel modo!
In quel momento però il professore decise che poteva bastare, e mi riportò in classe per iniziare la lezione.
“Ma davvero ti ha fatta andare in giro per la scuola?” mi bisbigliò Sara.
Fui quasi tentata di non risponderle, visto che un mese prima mi aveva confessato che mi odiava e che si sarebbe volentieri seduta vicino a qualcun’altra se avesse trovato posto, ma decisi di passarci su: anche se lei era stata cattiva con me, non vedevo il motivo di comportarmi male a mia volta.
“Mi ha fatta arrivare soltanto fino alla terza C. Però l’intera classe mi ha vista!”
“Sul serio? Anche i ragazzi? Che ti hanno detto?” mi domandò, con un tono che in realtà voleva dire “So già che non avranno avuto reazioni interessanti, ma te lo chiedo comunque per gentilezza”.
“Beh, le ragazze, compresa tua sorella gemella Federica, mi han fatto dei complimenti: i ragazzi invece mi hanno fissata e basta, vai a capire perché!”
Speravo che mi illuminasse sul loro comportamento, invece fece una risatina e passò le informazioni ad Annalisa e Roberta, che erano sedute dietro di noi.
“Ma perché diavolo gliel’ho detto?” pensai, arrabbiata con me stessa. “Adesso lo sapranno tutti, e mi prenderanno in giro tutto il giorno!”.
Essendo consapevole che di lì a poco mi avrebbero fatto seriamente pentire di non essermi messa i pantaloni, non mi stupii quando sentii qualcuno che mi batteva un dito sulla spalla.
“Cosa c’è?” chiesi, rassegnata.
“Eleonora, ti vuole Matteo!” mi fece Roberta, a bassa voce.
Il cuore smise di battermi per qualche secondo. “Ch…che?” dissi con un sussurro praticamente quasi impercettibile, mentre mia cugina e Annalisa si facevano un po’ da parte e Matteo si sporgeva per parlarmi.
“Hai visto … cioè, Alessandra c’era, per caso?”
“Sì”, gli risposi. “Ma perché me lo …” non finii la frase: vedendolo tutto rosso e imbarazzato, capii in fretta il motivo della sua richiesta. “Vuoi che te la chiami, al cambio dell’ora?” domandai, abbattuta.
“No grazie, ci faccio un salto io dopo”.
“Come vuoi”, dissi, tornando a girarmi per guardare la lavagna, dove il professore stava scrivendo delle frasi di grammatica. “Ora che ci penso, quella ragazza non è affatto carina. Anzi, è odiosa e mi sta antipatica!” pensai, arrabbiata.
 
 
Per tutto il resto della lezione, non riuscii a concentrarmi: non facevo che chiedermi cosa avesse Alessandra più di me. In cosa avrei dovuto imparare da lei, per farmi notare da Matteo? Quando la campanella suonò e lo vidi allontanarsi, ebbi un tuffo al cuore. Stava forse andando da lei per chiederle se voleva mettersi con lui?
“Eleonora! Eleonora, mi senti? Ehi!” tornai bruscamente alla realtà, e vidi che Azzurra si era piazzata davanti a me, insieme a tutte le altre.
“Scusa, non ti avevo sentita”
“Ma dai? Non me ne ero accorta!” esclamò, sarcastica. “Volevo solo chiederti: tu preferiresti stare con un ragazzo brutto ma intelligente, o con uno bello ma stupido?”
“Ehm …” presi tempo. Quanto odiavo quelle domande idiote! “Devo per forza scegliere? Cioè, non posso preferirne uno bello e intelligente insieme?”
“No, carina”, si intromise Chiara. “Devi scegliere per forza tra quei due”.
“Beh, allora scelgo quello brutto ma intelligente!”
Ci fu un attimo di sbigottimento, poi tutte le ragazze iniziarono a ridere, e ci fu un coro di “Hai sentito che ha detto?” di “Ma è proprio stupida!”, e di “Ma come si fa a preferire uno brutto ma con il cervello ad uno strafigo? Voglio dire, con l’intelligenza cosa ci si fa? Mica uno guarda quella, per mettersi con una persona!”
“Che mentalità del cavolo che hanno!” ragionai tra me e me.
“Allora Eleonora, te lo chiedo di nuovo …” tornò alla carica Chiara. “Chi ti piace?”
“Chiara, non mi piace nessuno. Sei proprio cocciuta, quante volte te lo devo ripetere? E’ tanto difficile da capire?” sbottai. “E comunque, anche se fossi innamorata di qualcuno non lo verrei certo a dire a te!”
Poi mi girai dall’altra parte per evitare altre domande e commisi l’errore di incrociare lo sguardo di Teodoro, che mi guardava come se sapesse benissimo che avevo appena raccontato una balla colossale.
Temetti il peggio, e pensai: “Oh oh! La sua faccia non promette nulla di buono: spero non mi combini qualche scherzetto dei suoi!” 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Novembre: striscioni e bigliettini ***


Capitolo 5 – Novembre: striscioni e bigliettini

 

Percorsi il corridoio, irrequieta: la settimana prima avevo avuto la febbre, e il rientro a scuola mi procurava un po’ d’ansia. Speravo che i miei compagni si fossero calmati nei miei confronti, (dopotutto, la speranza era sempre l’ultima a morire, e poteva sempre accadere un miracolo!) ma appena entrai in aula scoprii ahimè che non era affatto così: infatti, mi ritrovai davanti due striscioni che dicevano Scorfana, torna a Roma! e Vattene, non ti vogliamo!”. Feci finta di ignorarli, ma non potei impedire ai miei occhi di riempirsi di lacrime …
“Allora, Eleonora” mi disse Teodoro “Ci torni a Roma, o no? Ci liberi della tua presenza, finalmente? Non so se l’hai notato, ma ci fai schifo e non ti vogliamo nella nostra classe!”
Lottando per non piangere, risposi “Sì, torno a Roma!”. Sapevo che mi sarebbe stato impossibile tornarci davvero, ma lo dissi comunque, per vedere la reazione degli altri.
Alle mie parole seguì un boato di esultanza e un coro di “evviva!”, e io sprofondai sulla mia sedia, desiderando che la terra si aprisse sotto i miei piedi per inghiottirmi; volevo estraniarmi da quella orribile realtà, ma vidi Azzurra che veniva verso di me e dovetti quindi tornare al presente.
“Allora” mi chiese, con mal celata eccitazione “Ma davvero te ne ritorni a Roma?”
“No Azzurra, non ritorno proprio da nessuna parte!”
“E allora perché hai mentito? Non si illude la gente in questo modo, sai? Non è carino!”
Ferita, ribattei: “E che dovrei fare, scusa? Ti pare che posso andare dai miei e dire che quegli stronzi dei miei compagni di classe non mi vogliono e quindi dobbiamo tornarcene da dove siamo venuti?”
“Oh, miracolo, ha detto una parolaccia! Ragazzi, ragazzi!” chiamò.” Mi dispiace, ma Eleonora ci ha mentito, non andrà via …” (e qui tutti fecero versi delusi) “Però ho appena avuto l’onore di sentire una parolaccia uscire dalla sua bocca. Si sta svegliando finalmente, non trovate?”
“Sarà, ma io la preferivo fuori dalle palle una volta per tutte”
“E dai Teodoro, non si può pretendere tutto dalla vita … la sopporteremo fino alla fine tutti insieme, non fare così! Resteremo uniti e affronteremo questa disgrazia”. Calcò sull’ultima parola per vedere come reagivo, ma io rimasi impassibile, come se non mi importasse del fatto che mi stavano paragonando a qualcosa di estremamente negativo; e invece, inutile specificarlo, mi importava eccome!
“Ignorali. Sii superiore” mi dissi, mordendomi il labbro per non scoppiare in un pianto dirotto. “In fondo, dopo giugno non li rivedrai più, devi solo resistere qualche altro mese!”. Mi guardai intorno, sconsolata: i miei compagni parlottavano ancora tra loro, e sentii battute come “Uffa però, ma davvero resta qui?Ditemi che non è vero, non ce la faccio a sopportarla fino agli esami!” e “Che altro dobbiamo fare per convincerla ad andarsene?Non c’è un altro modo per farle capire che qui non ci deve stare?”.
“Roba da matti!” riflettei “Si comportano come se quella che ha sbagliato fossi io! Qualche errore lo avrò sicuramente fatto, ma non vedo perché debbano essere tanto perfidi. Hanno fatto addirittura degli striscioni per mandarmi via! Se lo raccontassi non mi crederebbe nessuno, per quanto è assurda tutta questa storia”.
Mi sentivo sola. Durante quei mesi, avevo più volte desiderato di avere un gemello o una gemella: se avessi avuto un fratello o una sorella della mia età avrei potuto dividere le mie angosce con qualcuno, e probabilmente ci saremmo fatti o fatte forza a vicenda … e invece, dovevo cavarmela con le mie sole forze e cercare di superare qualcosa che percepivo come estremamente difficile!
Tornai bruscamente e dolorosamente al presente, e vidi che i miei compagni avevano smesso di parlare di me, e chiacchieravano tra loro. Guardai l’orologio: com’era tardi! Ma la professoressa dove si era cacciata? Possibile che nessuno ci avesse avvertiti? La cosa mi parve molto strana, quindi mi diressi verso Elena, che mi aveva dato i compiti per tutta la settimana precedente, per avere delucidazioni.
“Elena, scusami”, le dissi cercando di mantenermi calma “Ma la Marano viene o no? Mi è venuto il dubbio perché ancora non è arrivata, e la lezione dovrebbe essere iniziata da mezz’ora!”
“No, non viene. Doveva fare una visita”.
“Cosa? Di nuovo? Ma è già la seconda volta!” esclamai, stupita. Poi mi venne un sospetto atroce …
“Ma se lo sapevi già, perché non me lo hai detto?”
“Ehm … perché altrimenti tu saresti rimasta a casa, e noi non avremmo potuto…”
Si bloccò di colpo come se si fosse improvvisamente resa conto di aver detto troppo, e io mi sentii travolgere da ondate di umiliazione. Se mi avesse detto che la professoressa di religione era assente, io sarei venuta più tardi e loro non avrebbero potuto prendersi gioco di me con l’ausilio degli striscioni: ecco cosa voleva dire! Guardando meglio, mi resi poi conto che effettivamente avrei dovuto notare che c’era qualcosa che non andava: non eravamo presenti tutti in aula, ma mancavano Sara e Matteo. Come avevo fatto a non accorgermene prima? Sara in fondo era la mia compagna di banco, doveva suonarmi strano il fatto che non ci fosse ancora visto che di solito arrivava sempre abbastanza presto! E per quanto riguardava Matteo, il fatto che non avessi visto che era assente era indice di quanto fossi rimasta sconvolta dallo scherzetto che mi avevano fatto tutti gli altri: di solito non lo perdevo mai di vista …
 
 
Il resto della giornata trascorse normalmente: i miei compagni stranamente non avevano più fatto battute su di me, ma io, abituata a stare sempre all’erta, non riuscivo a rilassarmi del tutto. Avevo scoperto che sia Sara che Matteo sapevano già in anticipo della storia degli striscioni, e il fatto che non avessero voluto partecipare mi consolava soltanto in parte, soprattutto per quel che riguardava lui; per fortuna, durante la sua ora la professoressa di musica trovò inconsapevolmente un modo per farmi stare meglio.
“Per gli esami, ragazzi, voglio che scegliate una canzone, e la cantiate davanti alla commissione. Può essere moderna così come può essere di qualche decennio fa, scegliete voi; potete anche fare dei duetti, a patto che ovviamente me lo diciate prima. Domande?”
Come succede sempre quando un insegnante chiede se è tutto chiaro, nessuno alzò la mano per chiedere ulteriori chiarimenti, e così la lezione andò avanti.
“Oggi vorrei che uno di voi cantasse una canzone che conoscete bene, soprattutto le ragazze: my heart will go on. C’è qualche volontario?”
Tutti, me compresa, cercammo di renderci invisibili il più possibile. “Ti prego, fa’ che non chiami me: ne ho avuto abbastanza di prese in giro per oggi!”. Sapevo di essere intonata, ma avevo il sospetto che gli altri mi avrebbero reso la vita impossibile anche riguardo al canto se la professoressa mi avesse fatta venire vicina a lei.
“Eleonora, vuoi venire tu?”
“E che ti pareva!” pensai, mentre mi alzavo, e mi costrinsi a sorridere mentre prendevo il foglio che la docente mi porgeva.
“Vai Scorfana, sei tutti noi! Facci vedere come stoni”, mi fece Attilio.
Decisi di ignorarlo, e mi concentrai sulla canzone. Amavo cantare, e promisi a me stessa che nessuno di loro me ne avrebbe mai fatto pentire. “Vi faccio vedere io!” pensai. La base partì, e io attaccai:
 

Every night in my dreams,
I see you, I feel you,
That is how I know you go on.
Far across the distance,
And spaces between us…
You have come to show you go on.
 

Man mano che cantavo, acquistavo sicurezza; inizialmente non riuscivo a guardare i miei compagni negli occhi e preferivo guardare il muro, ma poi pian piano iniziai a guardarli, uno alla volta, e le loro espressioni lasciarono stupefatta: erano incantati. Persino Teodoro mi guardava estasiato, il che era tutto dire, sapendo com’era fatto! Non riuscivo a crederci, ma nonostante questo riuscii a prendere forza per la strofa finale:
 

You’re here,
there’s nothing I fear,
and I know that my heart will go on.
We’ll stay,
Forever this way,
You’re safe in my heart and
My heart will go on and on!!!

 
Appena terminai l’ultima nota, ci fu un silenzio di tomba, e quando sentii Elisa sussurrare a Rebecca “Cambia persino voce quando canta! Ma come fa?” constatai che finalmente, dopo due mesi d’inferno avevo avuto una piccola vittoria: difficilmente qualcuno avrebbe osato attaccarmi sul mio modo di cantare, da allora, perché non avevano nulla a cui appigliarsi.
Sapevo che la tregua sarebbe durata poco, ma volevo godermi questa soddisfazione: rimasi in uno stato di beatitudine per tutto il resto dell’ora, durante la quale anche altre ragazze ebbero l’occasione di cantare.
Quando suonò la campanella, però, preparai lo zaino al volo e oltrepassai la porta velocemente: l’euforia per la mia piccola rivincita della giornata mi stava già abbandonando, e nella mia mente si stava di nuovo affacciando il ricordo di quello che era successo quando ero arrivata in classe. Per quale motivo i miei coetanei non mi accettavano? Il loro dirmi in continuazione che ero brutta nascondeva qualcos’altro? Li avevo irritati in qualche modo, e per questo ora loro erano così arrabbiati con me da essere determinati a rendermi la vita impossibile? O erano determinati a farlo semplicemente perché ero troppo diversa da loro? E soprattutto, davvero erano tutti concordi nel volermi isolare? O l’unico che voleva farlo era Teodoro, e gli altri gli andavano dietro per paura di essere considerati come me?
“Eleonora! Aspetta!”
Mi fermai e mi voltai indietro, sorpresa. “Lupus in fabula!” pensai, mentre fissavo Teodoro che praticamente correva per raggiungermi: immersa nei miei pensieri infatti non mi ero accorta che ero già in strada e la scuola quasi non si vedeva più. “Ma da quando in qua lui usa il mio nome? Ormai mi chiama Scorfana talmente tante di quelle volte che pensavo lo avesse dimenticato!” riflettei ancora, non sapendo se restare o darmela a gambe: in fondo se lo sarebbe meritato, visto che da quando ero arrivata il suo hobby era prendermi per il sedere e che quella mattina stessa aveva dichiarato che mi avrebbe voluta fuori dalle scatole; prima che potessi prendere una decisione definitiva, però, lui riuscì a raggiungermi.
“Volevo solo darti questo” disse, mettendomi in mano un bigliettino.
“Cos’è?”
“E’ da parte di Gianluca, mi ha chiesto lui di dartelo; mi ha confessato di essersi innamorato di te sin dalla prima volta che ti ha vista, e vuole sapere se ti va di metterti con lui”.
“Entro quando gli devo dare la risposta?” Gianluca non mi piaceva affatto, ma volevo concedere a Teodoro il beneficio del dubbio; si stava comportando in maniera sorprendentemente normale, quindi forse stava dicendo la verità.
“Domani, se ti è possibile. Ma non serve dirlo a lui, perché si vergogna. Basta che lo dici a me, e poi ci penso io!”.
Mi bastò questo per capire di aver sbagliato a dargli fiducia: era un altro dei suoi soliti scherzi! Mi infuriai con me stessa per essere stata tanto ingenua, e gli dissi in tono tagliente:
“Mi credi davvero così stupida? Guarda che l’ho capito che vuoi soltanto prendermi per i fondelli. Lo so benissimo che questo bigliettino l’hai scritto tu, solo per vedere come avrei reagito!”. Parlando, iniziai a strappare il foglietto per dare libero sfogo alla rabbia che avevo dentro.
“Eleonora, ferma, che fai??? Io … cioè, Gianluca ci ha messo un po’ a scriverlo, perché era molto emozionato. Non devi strapparlo, l’ha fatto con amore, per te!”
“Già”, dissi io sarcastica, finendo di maltrattare il pezzo di carta e gettandone i brandelli a terra “E da quando Gianluca scrive con la tua scrittura?”
Senza attendere risposta, corsi via piantandolo in asso.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Dicembre: Esasperazione ***


Capitolo 6 – Dicembre : Esasperazione
 

Ero finalmente arrivata all’ultimo giorno prima delle vacanze natalizie: non sapevo come, ma nonostante tutto ero riuscita a sopravvivere alle angherie dei miei compagni … le prese in giro sul mio aspetto fisico ormai erano una routine, eppure non riuscivo mai a mostrarmi del tutto indifferente!
Inoltre, nei precedenti ventuno giorni avevo dovuto sopportare Teodoro che insisteva con la storia dei bigliettini: ne aveva preparato uno la settimana, anche se a suo dire erano stati scritti da Marco, Federico e Riccardo (i quali, tra l’altro mi avevano subito fatto capire, tramite finti conati di vomito, che non erano per niente felici di essere stati usati come prestanome). Non capivo dove voleva arrivare: cosa sperava di ottenere scrivendomi bigliettini che contenevano sempre le stesse frasi, per di più spacciandole per opere altrui? Inizialmente avevo pensato che avesse parlato con Chiara o con Azzurra e avesse quindi deciso di scoprire se davvero non mi piaceva nessuno, ma poi avevo scartato l’idea: lui mi odiava, quindi dubitavo fortemente che potesse fregargliene qualcosa di me e dei miei gusti in fatto di uomini!
La mia cotta per Matteo, intanto, con il passare del tempo si era fatta sempre più seria, e come ogni ragazza innamorata passavo spesso dalla felicità assoluta alla disperazione più nera in pochi attimi: mi bastava un suo sguardo per toccare il cielo con un dito, ma se per qualche motivo una mattina mi negava il saluto diventavo molto triste e mi facevo mille problemi, chiedendomi se per caso non lo avessi fatto arrabbiare involontariamente; ad ogni modo, comunque, stavo bene attenta a non far trasparire mai niente di quel che provavo, perché sapevo che se gli altri se ne fossero accorti non avrebbero solo reso la vita impossibile a me, ma avrebbero preso in giro anche lui, e l’ultima cosa che volevo era che stesse male …
“Scusate, ragazzi? Di chi è questo disegno da bambino della scuola materna?”
Tornai alla realtà, e mi guardai intorno: la professoressa di educazione artistica, una donna di quarant’anni che portava sempre magliette molto scollate e gonne con spacchi vertiginosi, e che aveva una voce simile a quella di Minnie Mouse, teneva in mano il mio disegno.
“Ehm … è mio!” dissi arrossendo; inutile specificare che alle mie parole l’intera classe si sganasciò dalle risate. Sarei voluta sparire, per quanta vergogna provavo!
Una volta arrivata alla cattedra, rimasi in piedi ad osservare l’insegnante mentre cancellava tutto quel che avevo fatto. Agiva sempre così, quando il disegno di un suo studente non le piaceva: lo rifaceva da capo lei stessa, per poi mettersi praticamente il voto da sola! Quando ebbe finito, me lo restituì e io tornai al mio posto a testa bassa, cercando di ignorare Teodoro che mi diceva che ero inutile e non sapevo fare niente. Ero consapevole che se non ero portata per la materia non era colpa mia, ma mi sentivo ugualmente umiliata: già mi era difficile fronteggiare le cattiverie dei miei compagni, e ora ci si mettevano anche gli adulti! Era proprio necessario dire che il mio disegno sembrava opera di un bambino piccolo, e davanti a tutti, poi?
Dopo che anche gli altri ebbero avuto ognuno il proprio disegno, la docente decise di darci il resto dell’ora libero, dicendoci che sarebbe uscita dall’aula per venirci a controllare ogni tanto; quindi, venne tirato fuori tutto l’occorrente per giocare a Tombola.
“Partecipi anche tu, Scorfana?” mi chiese Teodoro.
“Certo che sì! C’è forse un regolamento che me lo vieta?”
“No, sfortunatamente … se dipendesse da me alle bruttone come te sarebbe vietato persino di esistere, ma purtroppo ci sei e quindi non posso impedirti niente”.
Decisi di non replicare, anche se le sue parole mi avevano ferita: ero consapevole di essere piuttosto brava a tombola, dato che ogni volta che ci giocavo con i parenti vincevo sempre, e quindi volevo farlo morire di invidia dimostrandogli coi fatti che anche io ero abile in qualcosa.
La partita iniziò: dopo aver pescato il primo numero, Attilio, che aveva deciso di prendersi il tabellone, gridò “Due!”
Lo avevo, e lo contrassegnai tirando giù la finestrella corrispondente.
“Ventidue!”
“Ambo!” strillai. Teodoro mi passò le due caramelle che costituivano il premio, e mi bisbigliò “ La tua è stata solo fortuna, Scorfana!”.
“Ah sì? Lo vedremo!” gli feci io di rimando.
“Quarantaquattro!”
“Terno!” non riuscii a contenere la mia gioia, e mi guardai attorno con gli occhi che brillavano.
“Dio mio come si esalta, è peggio dei bambini! Neanche ci fossero dei soldi in palio!” esclamò Chiara ad alta voce, tirandomi altre caramelle. Nonostante le sue parole, si vedeva benissimo che le bruciava il fatto che avessi ottenuto due piccole vittorie …
“Sessantatre”.
“Quaterna!” cercai di essere più contenuta nella mia esultanza e di prendere le ulteriori caramelle che mi spettavano senza tradire alcuna emozione, ma non potei fare a meno di lanciare uno sguardo eloquente agli altri; Attilio da parte sua mi rispose con un sorriso che non mi piacque affatto.
“Ottantuno”.
“Cinquina!” esplosi. “Come la mettiamo ora, eh?” pensai.
“Fammi controllare se è vero!”
“Ecco” dissi, porgendogli la cartella con aria soddisfatta.
“Guarda che il sessantatre non è uscito!”
“Come non è uscito? Lo hai chiamato poco fa!”
“Non è vero! Guarda, non c’è”, mi disse Attilio mostrandomi il tabellone: la casella del sessantatre non aveva il numeretto poggiato sopra.
“Ti credo che non c’è, lo hai tolto!”
“Non è affatto vero!”
“Ah no? E perché hai la mano stretta a pugno?”
“Ragazzi, a voi risulta che il sessantatre sia uscito?”
Ci fu un coro di “no”, e io sospirai, sconsolata e delusa. Possibile che non potevo neanche vincere qualche dolcetto, senza che qualcuno cercasse di fregarmi? Guardai Matteo per cercare il suo sostegno, ma lui si girò dall’altra parte fingendo di non aver notato la mia occhiata, e così mi sentii ancora più demoralizzata.
Mi sentii immediatamente sommergere da un’ondata di stanchezza, e tutte le umiliazioni subite dal primo giorno di scuola vennero a galla; erano riusciti a rovinarmi tutto il divertimento! Fu l’ultima goccia; buttai via tutte le mie cartelle, e urlai, furiosa ed esasperata: “OK, D’ACCORDO!!! MI RITIRO, CONTENTI??? Cavoli, non posso neanche giocare ad un semplice gioco senza che vi coalizziate contro di me, adesso?”
“Eleonora, non fare la bambina”, mi redarguì Elisa. “L’hai detto tu, è solo un gioco … non vale la pena di prendersela tanto!”
Avrei voluto replicare, ma alla fine lasciai stare. Ero in netto svantaggio numerico, e sapevo che altre urla sarebbero servite a ben poco! Quindi, mi ritirai in un angolo con le mie caramelle, e aspettai la fine del gioco.
 
 
Anche i professori delle ore successive ci lasciarono campo libero, e così i giochi di società continuarono. Io, però, mi tenni ostinatamente in disparte, e mi limitai solo ad osservare; ogni insegnante che arrivava cercava di capire i motivi di questo mio atteggiamento chiamandomi alla cattedra, ma io dicevo solo che non mi andava di giocare, rifiutandomi categoricamente di fornire ulteriori dettagli …
Quando tornai a casa, volevo nascondere il mio malessere alla mia famiglia, ma sfortunatamente mia madre si accorse che ero più strana del solito, e la sera dopo cena venne in camera mia per parlarmi.
“Eleonora, che hai? Stai bene?”
“Sì mamma” mentii. “E’ tutto ok!”
“Sicura? Dalla faccia che hai non si direbbe”.
La guardai negli occhi: era molto preoccupata.
“E va bene” ammisi “No, le cose non vanno affatto come dovrebbero”.
“Perché?”
“Perché i miei compagni mi odiano! Non so cosa ho fatto di sbagliato, ma non fanno che prendermi in giro ogni giorno, da mesi. Mi dicono che sono brutta, che devo tornarmene a Roma, che non troverò mai nessuno da amare … sono davvero tanto orribile, mamma?”
“Ascolta, tesoro: per i ragazzi della tua età è molto difficile trovare bella una compagna …”
“Non è vero! Ci sono delle ragazze nella mia classe che sono molto ammirate!”
“Ah sì? E quante sarebbero?”
“Tre: Elisa, Rebecca ed Elena”.
“E quante sono in tutto le femmine, esclusa te?”
“Nove”.
“Ecco, hai visto? Solo un terzo di loro riscuote successo”.
“Ma non è poco, comunque!”
“Certo che lo è! E poi quando più persone sono invaghite di un singolo individuo, è sempre perché vogliono uniformarsi e copiarsi a vicenda: ce ne sarà sì e no uno solo che è innamorato davvero di queste ragazze, e gli altri lo emulano!
Credi a me: adesso non ti apprezzano, ma un giorno si ricrederanno. Ricordatelo bene, il fiore più bello è quello che sboccia più tardi degli altri!”
Detto questo, mi abbracciò. Io mi sentii rinfrancata, ma non ero del tutto convinta: dal mio punto di vista, se le mie compagne avevano degli ammiratori era perché avevano qualità fisiche che io non possedevo e che non avrei mai posseduto, punto e basta. E se proprio i miei compagni dovevano ricredersi sul mio conto, volevo che lo facessero subito, non in un ipotetico futuro … tutto quello che desideravo era di vivere tranquilla e di poter ridere e scherzare con gli altri, senza essere criticata, schernita e umiliata anche per le cose più banali. E soprattutto, desideravo con tutta me stessa che Matteo si accorgesse di me, ma sapevo già che era impossibile: era innamorato di un’altra, e inoltre aveva dichiarato che non si sarebbe mai messo con una romanista!
 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Gennaio: Offese molto gravi ***


Capitolo 7 – Gennaio: Offese molto gravi

 

“Buon giorno ragazzi!” ci fece il professore di italiano, con aria cupa.
Noi rispondemmo tutti educatamente, ma io avvertii qualcosa di strano nell’aria.
“Come sapete”, cominciò l’insegnante, “ieri ci sono stati i colloqui con i vostri genitori: poco dopo che si sono conclusi, però, qui in classe ho trovato questo foglio. Lo riconoscete?” chiese, alzando un pezzo di carta strappato da un quaderno.
Io feci istintivamente segno di no con la testa, ma facendo una veloce panoramica dell’aula notai che tutti gli altri invece si erano irrigiditi.
“E’ un foglio … che abbiamo fatto noi. Tutti noi, tranne lei”, disse Rebecca lentamente, indicando me.
“E te la senti di spiegare cosa c’è scritto?”
“No, non posso”, fece la mia compagna, guardandomi.
“Ma ti rendi conto almeno che è una cosa grave, questa? Ragazzi, c’è poco da scherzare! Qui c’è scritto bisogna uccidere, e poi immediatamente sotto c’è una sfilza di nomi di vostri coetanei! Come vi è venuta in mente una cosa del genere? E se una delle persone coinvolte lo avesse trovato?” domandò, lanciandomi un’occhiata anche lui.
Improvvisamente capii il motivo di tutti quegli sguardi, e mi sentii mancare la terra sotto i piedi: era anche di me che parlavano, c’ero anche io su quella lista! La testa prese a girarmi, ma mi sforzai ugualmente di tenere il filo del discorso: dovevo capire, volevo sapere.
“Siamo stati attenti: nessuno lo ha visto!” stava dicendo Attilio.
“Sì, ma se fosse successo? Come pensate che si sarebbe sentita quella persona? E’ così che iniziano le dittature, Attilio: milioni di persone sono morte perché erano considerate diverse per la loro razza, per la loro religione e per le loro opinioni politiche: e voi scrivete queste cose? Se proprio avete problemi con qualcuno parlategli, cercate di capirlo: ma non condannatelo! Stilando questo elenco è come se aveste dato ragione ad Hitler, Stalin e gli altri come loro”.
“Che esagerazione” esclamò Teodoro. “A me non sembra una cosa tanto grave. Semplicemente, alcune persone non ci piacciono proprio, e lo abbiamo voluto scrivere. Ma questo mica significa che uno li vuole uccidere sul serio!”
“Ma a te piacerebbe trovare il tuo nome su una lista di persone da uccidere, anche se solo idealmente? Che faresti in quel caso? Non ti rattristeresti almeno un po’?”
“No, me ne fregherei. Ma forse qualcuno, se trovasse il suo nome in un foglio come quello, farebbe meglio a chiedersi perché e a sparire una volta per tutte, a tornare da dove è venuto!”
Avevo sentito abbastanza: temendo di svenire, chiesi al professore il permesso di uscire per andare in bagno. Una volta fuori, però, la curiosità ebbe la meglio sul mio malessere, e così, dopo aver controllato che non ci fossero i bidelli in giro, attaccai l’orecchio alla porta.
“Si può sapere cosa avete contro la vostra compagna? Che vi ha fatto? Dai discorsi che ho captato sembra che non la apprezziate fisicamente, ma mi rifiuto di credere che sia solo per questo che non la volete!”
“Parla sempre di cose noiose”, fece Sara, la quale, come aveva preannunciato prima di Natale, si era spostata vicino a Chiara e Rebecca, lasciandomi da sola al banco. “Tipo la storia, le scienze, i documentari sulla natura … non l’ho mai sentita toccare argomenti che interessano di solito a tutte le ragazze normali, ossia capelli, trucco, scarpe e vestiti. E’ strana, non mi piace!”
Le altre ragazze concordarono; Elena aggiunse poi che secondo lei ero appiccicosa, e Martina rincarò la dose dicendo che io non ero mai voluta uscire con loro, e questo le aveva fatte stancare di me molto presto.
“Ma non vi siete mai chieste perché fa così?”
“Non siamo le sue balie” protestò Elisa. “Glielo abbiamo chiesto più volte, ma lei ha sempre declinato l’invito: mica potevamo aspettare all’infinito, no? Se Eleonora non vuole venire con noi, amen! Non vedo perché dovremmo svenarci per lei, visto che non ci è mai venuta incontro”.
“Nessuno vi sta dicendo che dovete farle da balie, ma almeno potreste sforzarvi di capirla. E poi, non avete mai preso in considerazione l’idea che potreste essere voi a sbagliare, o che almeno la colpa possa essere un po’ sua e un po’ vostra? Magari c’è un motivo per cui non vuole uscire con voi, perché non glielo domandate? E’ molto timida, ma se provate a dimostrarvi amichevoli con lei vedrete che piano piano si aprirà. Almeno fate un tentativo, ok? Comunque sappiate che questa vostra bravata non resterà impunita: contatterò le vostre famiglie e lo dirò ai vostri genitori, poi informerò anche il preside!
Ora però è meglio che qualcuna di voi ragazze vada a cercare Eleonora: ci sta mettendo troppo a tornare!”
Sentii una sedia che veniva tirata indietro, e mi affrettai a tornare dentro l’aula: ero devastata, mi sembrava di avere un buco nel cuore. Sentivo solo un dolore sordo, senza fondo, e nella mia testa vorticavano di continuo le parole “bisogna uccidere”. Mi desideravano morta, tutti quanti!
“Un’ultima cosa, prima di iniziare la lezione: visto che Eleonora è rimasta sola, bisogna trovarle un compagno di banco … e lo sceglierò tra i ragazzi.
“No!” protestai io, insieme a tutti i miei compagni maschi.
“Sì invece. Visto che per le interrogazioni abbiamo fatto i foglietti con i numeri che corrispondono all’ordine in cui i vostri cognomi sono scritti sul registro, userò quelli. Ci starete tutti, a turno, per due settimane ciascuno, fino agli esami. Sono stato chiaro?”
“Professore, no, non puoi!” esclamai.
“Sì che posso. Fidati Eleonora, è per il tuo bene!”
“Ma io sto benissimo da sola!”
Non ottenni risposta. Costernata, lo guardai estrarre un fogliettino non più grande di un centimetro e mezzo, che fino a pochi istanti prima era situato insieme a tutti gli altri dentro una coppa che i miei compagni di classe avevano vinto l’anno precedente. “Uno!” annunciò.
Mi misi le mani nei capelli. Mi era capitato Attilio! Sarebbero stati quindici giorni di inferno, lo immaginavo già. Il diretto interessato, dopo aver ricevuto le condoglianze da parte di tutti gli altri, venne a sedersi vicino a me.
“Vediamo di non complicare le cose, ok?” mi disse, appena si fu accomodato. “Tu cerca di parlarmi il meno possibile, e io farò lo stesso con te: così nessuno dei due avrà problemi”.
Annuii, senza proferire verbo. Lui era uno degli ultimi individui al mondo con cui desideravo chiacchierare, quindi la sua imposizione non mi pesava affatto!
 
 
Nel pomeriggio, ci recammo nell’atrio della scuola insieme a tutte le altre terze, per fare una sorta di lezione sull’euro: di lì a poco infatti la lira sarebbe uscita totalmente di scena, e sarebbe rimasta soltanto la nuova moneta. Ci sedemmo tutti a terra per ascoltare e dopo qualche minuto sentii qualcuno che mi metteva la testa sulle gambe, che naturalmente tenevo incrociate: mi girai, un po' allarmata, e vidi che quel qualcuno era Simone, un ragazzo della terza D che era affetto da una grave forma di autismo. Imbarazzata, iniziai a pensare a qualcosa di gentile da dirgli che mi aiutasse a togliermelo di dosso, ma fui distratta dalle fragorose risate delle mie compagne.
“Hai fatto colpo!” mi dissero Elena, Martina e Sara in coro, ridendo come matte.
“Beh, fate proprio una bella coppia: avete lo stesso quoziente intellettivo!” fece Rebecca.
Mi girai con l’intenzione di dirgliene quattro, ma avevo il cervello vuoto: volevo trovare una risposta tagliente, ma non mi veniva in mente proprio nulla, a parte il banale e scontatissimo: “Vuoi dire che sono una demente? Demente ci sarai tu!” che ovviamente non pronunciai. Così, me ne restai zitta, tremando per la rabbia e per l’umiliazione … ogni volta che pensavo di aver toccato il fondo, le cose peggioravano e venivo offesa ancora più di prima! Non credevo affatto di essere un fiore destinato a sbocciare più tardi degli altri e ad essere proprio per questo il più bello di tutti, come diceva mia madre: mi vedevo più come uno stelo d’erba di prato insignificante, brutto e stupido, e sarei rimasta tale per sempre.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Gennaio: Penne e bugie ***


Capitolo 8 – Gennaio: Penne e bugie

 

“Dai, su, coraggio! Scrivi!” pensai, mentre muovevo disperatamente la penna su e giù per il quaderno, sperando che si rianimasse; dopo sette tentativi però capii che non c’era più niente da fare, e il panico si impadronì di me.
“E adesso come faccio? Ti pareva che la penna doveva finirmi proprio poco prima del tema di italiano? Ora dovrò farmela prestare dal professore, perché nessuno oserà darmene una, visto che sono la sfigata della classe!” Chiedere al mio nuovo compagno di banco, Marco, era totalmente inutile, dato che aveva diviso il tavolino in due con la sua matita qualche giorno prima e urlava come se lo stessi smembrando sia quando per sbaglio uscivo dal confine sia quando osavo rivolgergli la parola: così, decisi di fare un tentativo e di andare da ciascuna delle ragazze, anche se dubitavo che avrei ottenuto qualcosa da loro.
“Elisa? Scusami, hai una penna per caso?”
La più bella della classe, che era intenta a parlare con Rebecca, Azzurra e Chiara, mi fece cenno di no.
“E voi?” chiesi alle altre tre.
Altri cenni di diniego. Sconsolata, passai a Martina, Elena, Roberta e Annalisa, ma neanche loro la avevano: quindi non mi restava che andare da Sara, anche se una parte di me non voleva affatto visto come mi aveva trattata negli ultimi mesi.
“Sara, hai per caso una penna in più?”
“No, non ce l’ho. Prova a chiedere alle altre!”
“Già fatto, nessuna di loro ce l’ha. Non so cosa fare: tra poco arriva il professore, e mica posso scrivere con le dita!”
“Puoi chiedere a lui se ce l’ha. Oppure, vai da Matteo: lui deve avercele per forza, si porta sempre un astuccio pieno!”
Il mio cuore smise di battere per qualche secondo. Andare da Matteo era fuori discussione: primo, perché rischiavo di diventare rossa come un peperone e se gli altri se ne fossero accorti sarebbero stati guai, e secondo perché mi avrebbero presa in giro per settimane o avrebbero tirato fuori cattiverie del tipo “Tu non hai diritto di chiedere niente perché le Scorfane come te non dovrebbero nemmeno vivere”!
“Non posso!” esclamai, disperata. “E’ un ragazzo, e sai benissimo cosa potrebbe succedere con gli altri intorno!”
“Beh allora arrangiati, che ti devo dire? O lo chiedi a Matteo, o aspetti D’Arcangeli!”
Dovevo decidere in fretta, perché mancava pochissimo all’arrivo dell’insegnante: chiedere una penna a lui mi sembrava disonorevole, anche perché temevo di venire rimproverata per non averne portata una di riserva, e al rimprovero immaginavo sarebbero seguite altre battutine di scherno … feci un respiro profondo, contai fino a tre e mi alzai.
“Ehi, Frankenstein!” mi urlò Davide vedendomi arrivare, “Che si dice dalle tue parti? Mi saluti il tuo creatore?”
“Spiritoso! Tu invece salutami Biancaneve, nano!”. Un coro di risatine accolse la mia battuta, mentre Davide si faceva rosso in viso per l’imbarazzo; io però a malapena ci feci caso, e rivolsi la mia attenzione a Matteo chiedendogli, con notevole difficoltà dato il battito accelerato del mio muscolo cardiaco, il tanto agognato strumento per scrivere.
Come avevo previsto, calò un silenzio di tomba: tutti guardavano nella mia direzione, curiosi di vedere cosa sarebbe successo di lì a poco, e io mi sentii subito molto tesa. “Ti prego, fa che dica di sì e che i suoi amici non rompano le scatole!” pensai.
“Sì, ce l’ho. Come la vuoi, nera o blu?”
Sospirai di sollievo. “Come preferisci, per me è indifferente!”
Lui ne scelse una nera tra le tante che aveva, e me la porse: io lo ringraziai e gli assicurai che gliel’avrei ridata alla fine dell’ora, dopodiché corsi al mio posto talmente in fretta che rischiai di inciampare per ben tre volte durante il tragitto; appena mi sedetti, arrivò il professore e il compito in classe poté iniziare.
 
 
Centoventi minuti più tardi, ci venne annunciato dai bidelli che la professoressa di religione, che era incinta, mancava di nuovo; così io presi il libro di scienze e cominciai a ripassare per l’interrogazione che avrei avuto durante l’ora successiva, cercando di scacciare l’euforia che si era impossessata di me dopo quanto era successo con Matteo.
“Ehi, Eleonora!”
Alzai la testa con aria seccata, riconoscendo la voce. “Chiara, sto ripassando. Che c’è?” chiesi, mettendomi subito sulla difensiva: sapevo cosa voleva chiedermi, erano mesi che non faceva altro.
“Chi ti piace?”
“Oddio, ancora con questa storia!” esclamai, esasperata. “Non mi piace NESSUNO. Vuoi che ti faccia lo spelling, così capisci meglio? Leggi attentamente le mie labbra: N-E-S-S-U …”
“Smettila, cretina! Ormai siamo a gennaio, è impossibile che non ti piaccia nessuno della classe. Non c’è qualcuno che trovi carino? Solo carino, non bello!” mi rassicurò.
“Ehm …” cominciai, incerta se fidarmi o meno. Stavo giusto pensando che forse avrei potuto confessare, dato che lei stessa aveva specificato che “carino” e ”bello” erano due cose diverse, quando fortunatamente i miei occhi incontrarono i suoi e vi lessero curiosità morbosa e falsità: quindi, decisi di dirle una mezza verità. In quel modo, forse, la sua curiosità e quella delle altre ragazze si sarebbe placata, e i ragazzi avrebbero smesso di dirmi che sarei morta vergine …
“Trovo che Andrea sia carino”, dissi, fingendomi più a disagio che potevo.
“COSA??? Ho capito bene? Ti piace Andrea? Ma come osi? Lui è …” si bloccò improvvisamente, lanciandomi uno sguardo inceneritore.
“Studia, su, che è meglio!” mi disse furiosa, prima di girare i tacchi e andarsene per raccontare tutto alle sue amiche.
“Oddio, le piace, me ne ero scordata!” dissi tra me e me. “Beh, non importa: anzi è meglio, almeno così la farò ingelosire!”.
La notizia si sparse nella classe in men che non si dica, ma contrariamente a quanto avevo sperato le prese in giro aumentarono anziché diminuire: Teodoro ed Attilio infatti andarono prima al banco dov’era seduto il presunto oggetto dei miei desideri (il quale tra l’altro mi lanciava spesso occhiate afflitte come se lo avessi pugnalato in pieno petto) e gli fecero le condoglianze, poi vennero a torturare me.
“Eleonora, tesoro mio, quanto dolore mi hai dato oggi! Lo sai che ti amo, no? Te l’ho confessato proprio ieri al telefono! E ora vengo a sapere che ti piace un altro …”
“Taci, Attilio!” lo rimbeccai, mentre il ricordo del pomeriggio precedente, in cui lui mi aveva telefonato fingendo di confessarmi il suo amore con le risate degli altri che facevano da sottofondo, esplodeva nella mia testa provocandomi fitte di vergogna e umiliazione. “So benissimo che stai con Elisa. Quindi è inutile che mi prendi in giro!”
Il mio compagno guardò il suo amico, come a dire “E lei come fa a saperlo?”, e rinunciò a parlarmi; quindi, toccò a Teodoro prendere la parola.
“Dimmi, cosa ti piace di lui? Poveraccio, guarda, mi fa tanta pena: dev’essere terribile avere un’ammiratrice brutta come la fame!”
“BASTAAA!” urlai, esasperata. “Lasciatemi in pace! Tra mezz’ora la Napolitano mi interrogherà, e quindi devo ripassare. Sparite immediatamente dalla mia vista, chiaro?”
“Andiamo via, Attilio: mi sa che Eleonora oggi ha esagerato con l’hashish e quindi è un po’ fusa!”
In un’altra occasione mi sarei arrabbiata per questa sua battuta, visto che non avevo mai fumato e non avevo intenzione di iniziare, ma quella volta mi sentii sollevata: finalmente si erano tolti dai piedi!
 
 
Quel pomeriggio, Elena mi chiese se volevo fare la strada con lei: pur sospettando che volesse saperne di più sul mio presunto innamoramento, accettai di buon grado.
Mi misi ad aspettarla fuori della scuola, e quando arrivò potei notare che con lei c’erano altre tre persone: una ragazza della terza C di nome Giulia,che era venuta con noi già altre volte, poi Teodoro e … Matteo.
“Ragazzi!” feci sorpresa, guardandoli con tanto d’occhi. “Come mai venite anche voi?”
“Il motivo per cui vengo non è affar tuo, Scorfana. Perché non pensi ad Andrea, invece di impicciarti degli affari altrui?”
“Visto che facciamo la stessa strada, gradirei sapere con chi vado e perché, grazie!” ribattei irritata.
“Ragazzi, finitela di litigare, dai” si intromise Matteo.
Stavo per ribattere che non ero stata io a cominciare, quando sentii una voce familiare che diceva “Ehi, cuginetta! Come va?”.
Mi girai in direzione della voce “Lorenzo! Ciao! Come mai qui?”. Era arrivato uno dei miei innumerevoli cugini carnali, che faceva il primo superiore. Non furono necessarie presentazioni, perché gli altri lo conoscevano già: vivendo in un paese piccolo, era una cosa più che normale.
“L’autobus non mi ha fatto scendere alla mia fermata nonostante avessi suonato il campanello, così eccomi qui. Tu che mi racconti?”
“Niente di che, la solita routine …”
“Nessun amore in vista?”
“No, non ancora!”
“Non è vero,mente: giusto poche ore fa ci ha confessato che le piace un nostro compagno di classe!” spifferò Matteo.
“Ehi!” dissi, fingendomi imbarazzata. “Ma gli affari tuoi no, eh? Stai zitto!”
“Perché, scusa? Lui è tuo cugino, dovrebbe sapere che sei innamorata!”
“Sì, ma dirglielo non spetta a te!” dissi, tentando di rifilargli una gomitata. Ovviamente lui si spostò prima che potessi anche solo sfiorarlo, ma non ne fui delusa perché avevo già preventivato di bloccarmi ad un certo punto del percorso per non rischiare di fargli male.
“Oh, cosa odono le mie orecchie!” esclamò Lorenzo interessato. “La mia cuginetta è cotta di qualcuno? Dimmi, Ele, chi è il fortunato?”
Gli altri risero, e io mi scoprii ad unirmi a loro. “Non te lo posso dire”, pensai tra me e me mentre superavamo gli altri per avere un piccolo momento di privacy tra parenti.
Mi dispiaceva dover mentire anche a lui, ma dovevo farlo per evitare che ne parlasse con i miei compagni e che il mio piccolo segreto venisse scoperto: la persona che mi piaceva davvero era lì con noi, ma non sapeva niente di quel che provavo e probabilmente non lo avrebbe mai saputo.
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Febbraio: Messaggi minatori ***


Capitolo 9 – Febbraio: Messaggi minatori

 

Quando entrai in classe quel giorno, venni sommersa di risate di scherno: avrei dovuto farci l’abitudine da un pezzo, ma ancora mi faceva male essere presa in giro per ogni più piccola cosa!
“Mamma mia, Scorfana, sei più brutta del solito oggi! Magari se ti schizzassi con una bomboletta come quelle che si usano ogni anno a Carnevale saresti più carina” mi accolse Teodoro.
“Io forse sì” lo rimbeccai. “Tu invece non diventi bello neanche con quella!”
Gli voltai le spalle e poggiai il vassoio che avevo in mano sulla cattedra.
“Di’ un po’, i tuoi amichetti vengono?” mi chiese Attilio.
“Quali miei amichetti?”
“Quelli della prima B, no? Non stai spesso con loro, ultimamente? Dai, che può essere che lì un fidanzatino lo trovi!”
“Ma quanto sei cretino … sono piccoli, non mi metterei mai con uno di loro! E comunque ci avrò parlato sì e no tre volte.”
“Beh, tanto giusto a quelli puoi puntare, quindi ti conviene impegnarti se non vuoi restare sola a vita!”
“Ah ah ah, che ridere. Mi sto rotolando dalle risate, guarda! Comunque loro non so se vengono, ma la terza C viene di sicuro”.
“Cosa c’è in quel vassoio che hai portato?” mi chiese Davide.
“Ci sono dei dolcetti che ha fatto mia madre. Non ve li meritereste proprio, ma ha insistito tanto per farmeli portare!”
“Non è che ci hai messo il veleno dentro?”
“Magari ce ne fosse! Invece sono tutte cose totalmente innocue. Mi consola il fatto che però se vi ci strozzate mi libero di voi comunque!”
“Ma che cattiva! Non si dicono queste cose, lo sai? Praticamente ci hai augurato di morire tutti!” mi fece Azzurra scandalizzata.
“Ma che faccia tosta!” le risposi irritata. “VOI che venite a dire a ME una cosa del genere? Chi è stato a scrivere quel simpaticissimo foglietto in cui dicevate che dovevo morire, il mese scorso? Io no di certo! Comunque tu non puoi mangiare dolci: i pinguini come te si nutrono solo di pesci, crostacei e piccoli molluschi!”
“Ma sentila …” fece la mia compagna, basita. Anche le altre mi guardavano con tanto d’occhi: avevo osato rispondere ad una provocazione, e lo avevo fatto nel modo che loro usavano con me! La vedevano come una cosa inaudita.
“Sono brava anche io a ferire, visto? Me lo avete insegnato voi, potete esserne fieri!” pensai, mentre toglievo la carta al mio vassoio dei dolci.
In quel momento, mi sentii battere sulla spalla: era Chiara.
“Cosa c’è?” le chiesi, sforzandomi per non sembrare polemica.
“Ti volevo solo dire” mi bisbigliò mentre prendeva un dolce, “Che se oggi hai portato tutto questo per far colpo su Andrea, non ci riuscirai. Lui è mio, capito? Tu non lo devi neanche sognare.”
“Perché, ti ci sei messa? Non mi pare!”
“No, non ancora. Ma ci riuscirò”
Stavo per dirle che non me ne poteva importare di meno della sua gelosia, ma mi resi conto appena in tempo che un atteggiamento del genere l’avrebbe insospettita: l’ultima cosa che volevo era che arrivasse a capire che avevo mentito, e che in realtà Andrea non mi piaceva affatto ma lo stavo solo usando per proteggere i sentimenti che nutrivo verso un altro ragazzo.
“Beh, allora vedremo chi la spunterà, signorina Gambe-piene-di-cellulite!” esclamai, beffarda.
Chiara si allontanò con espressione ferita, e io mi sentii un verme: essere perfida non mi piaceva proprio. Come facevano i miei compagni a trattarmi da schifo e non pentirsene immediatamente dopo? “Ok, basta cattiverie per oggi”, dissi a me stessa, dirigendomi verso uno dei vassoi che avevano portato gli altri per mangiare qualcosa.
“Ciao a tutti!” i ragazzi della terza C avevano appena aperto la porta, e si stavano già riversando nell’aula.
“Ciao” li salutai io. Anche loro si erano mascherati, come me e i miei compagni.
“Ciao Eleonora! Stai benissimo, sai?” mi disse Antonio, uno di loro, un po’ rosso in viso.
“Grazie, anche tu!”
“Ehm … Ma Matteo dov’è, scusa? Non lo vedo!”
Sobbalzai sentendo quel nome, ma cercai di nascondere la cosa girandomi e fingendo di cercarlo con lo sguardo: in realtà sapevo già dov’era, perché lo tenevo d’occhio.
“Eccolo lì. Lo vedi?” gli dissi, indicando il fondo della sala.
“Ah, sì, è vero: ora lo raggiungo, a dopo!”
Appena si fu allontanato, andai ad infilarmi tra le ragazze della terza C: le trovavo di gran lunga più simpatiche di quelle della mia classe, anche se tra di loro c’era Alessandra, quella per cui Matteo nutriva una passione segreta (era così segreta infatti che lo sapevano tutti, tranne lei).
“Che bella festa di Carnevale!” mi fece Edlira.
“Non c’è male, devo dire … ma tu puoi mangiare qualcosa, vero?” le chiesi, spostando lo sguardo dalla sua pancia alle leccornie poco distanti.
“Sì, posso. Ma non devo esagerare, ovviamente …” rispose lei, accarezzandosi l’addome.
“Ma quando nascerà? Sai già il sesso?”
“Nascerà intorno al 20 giugno, ed è maschio”.
“Il 20 giugno? Ma in quel periodo ci saranno gli esami! Come farai a darli?”
“Mi arrangerò, in qualche modo …”
Avrei voluto farle altre domande, ma lasciai perdere, e rimasi con lei ad osservare gli altri che si scatenavano ballando come matti (qualcuno aveva portato lo stereo): io non ero affatto brava a ballare, quindi non volevo espormi al pubblico ludibrio, e poi non mi andava di lasciare Edlira da sola in un angolo: sapevo fin troppo bene cosa voleva dire venire isolati!
 
 
Qualche ora più tardi, buttammo via tutti i vassoi vuoti, pulimmo sommariamente in giro e ci preparammo per la lezione di educazione tecnica; il professore che avevamo era fermamente convinto che i maschi fossero più bravi nella sua materia proprio in quanto tali, e io ce la mettevo sempre tutta per dimostrargli che anche le esponenti del gentil sesso potevano cavarsela: peccato che non ero mai andata oltre al buono, quindi la cosa non mi era riuscita molto bene.
“Beh, oggi proverò di nuovo a fargli cambiare idea”, pensai, mentre prendevo il libro con l’intenzione di ripassare per l’interrogazione. “Ci riuscirò!”
Dopo aver letto tre righe del testo, però, venni colpita alla testa da una palletta di carta.
“L’ho presa in pieno! Un punto per me!” sentii dire a Teodoro, ma preferii non girarmi, pensando che se l’avessi fatto lui avrebbe continuato.
Ripresi a ripassare, ma un altro foglio appallottolato mi colpì, stavolta dietro il collo.
“Uffa, non sono riuscito a prenderla sulla testa … però l’ho colpita lo stesso!” esclamò Attilio. Anche quella volta, rimasi ferma dov’ero.
“Ok, ragazzi, a questo punto io direi di scaricare tutte le munizioni al mio via: uno, due, tre … VIA!”
A quel punto, venni bersagliata da una valanga di palline, tirate da Teodoro, Attilio, Davide, Marco e Riccardo: cercai di mantenermi calma, ma alla fine esplosi.
“PIANTATELA!!! LASCIATEMI IN PACE! DEVO STUDIARE, AVETE CAPITO?”
“Eleonora, che hai da urlare?” mi fece il professore entrando in quel momento nella sala.
“Se gli dici qualcosa, sei morta!” mi fece Teodoro muovendo solo le labbra.
Io non potei fare a meno di rabbrividire, ma la rabbia ebbe la meglio e spifferai tutto. Una parte di me odiava l’idea di dover ricorrere all’autorità di un adulto per risolvere le cose che mi riguardavano, ma dubitavo di avere scelta: era l’unico modo per farli smettere!
I cinque scocciatori si beccarono una nota di demerito ciascuno, e le ragazze mi rimproverarono perché li avevo fatti punire: sostenevano che ero permalosa e che non sapevo stare agli scherzi.
Ovviamente le ignorai, anche se mi sentivo lievemente in colpa, e mi concentrai sull’interrogazione, al termine della quale mi arrivò tramite vari passaggi di mano un foglio piegato in quattro parti, con su scritto “Per la Scorfana”: lo aprii, e vi trovai scritto:
Aspetta la fine delle lezioni. Se non vuoi morire, trovati un posto sicuro. Ti avverto, neanche l’esercito riesce a fermarci!
E sotto, era firmato “I maschi”.
A quel punto, mi spaventai davvero. Cosa potevo fare? Sapevo cosa significava quel messaggio: appena terminate le ore di scuola, mi avrebbero trascinata sul retro dell’edificio e lì mi avrebbero picchiata. In che gran casino mi ero cacciata!
“Rifletti, Ele, rifletti!” dissi a me stessa. La mia mente girò in tondo ancora per qualche minuto, terrorizzata, e poi mi venne un’idea: quindi mi alzai e chiesi al professore il permesso per uscire, fingendo di dover andare in bagno.
Passando, vidi che i ragazzi si bisbigliavano qualcosa tra loro, e sentii Matteo che diceva “Non contate su di me, io me ne torno a casa!”. Mi consolai pensando che, se il mio piano non avesse funzionato, almeno lui non sarebbe stato lì a malmenarmi con gli altri!
Appena fui fuori della classe, mi precipitai in quella di mio cugino Andrea e, dopo aver chiesto alla sua professoressa se poteva uscire, gli spiegai la situazione: come avevo sperato, lui si offrì di aspettarmi nell’atrio alla fine delle lezioni e di scortarmi fino a casa. Lo salutai e corsi in un’altra aula, quella di un mio cugino di secondo grado che era considerato il più bello dell’istituto, e feci la stessa cosa anche con lui, ricevendo la stessa risposta di Andrea. Infine, mandai un messaggio a Lorenzo, che a quell’ora doveva già essere tornato a casa, e rientrai in aula proprio mentre suonava la campanella.
“Ehi, Scorfana, ma quanto ci hai messo? Te la sei fatta sotto?” mi chiese Teodoro.
“No, per niente. Ho solo parlato con i miei cugini, Lorenzo, Andrea e Simone, e ho chiesto loro di vedere se anche altri nostri parenti possono accompagnarmi a casa, oggi. Sai, una bella passeggiatina con la famiglia ogni tanto ci vuole!”
Vidi un lampo di apprensione passare negli occhi del mio compagno, ma durò pochissimo, perché riprese immediatamente la sua baldanza e mi rispose: “Bella mossa, ma non ti salveranno comunque: lo sai che ho fatto a botte praticamente con tutta la scuola, no? E poi siamo in nove: Matteo non ci sarà, ma gli altri hanno detto tutti di sì. Davvero vuoi che i tuoi cugini si facciano male per colpa tua?”
“Ah, ma stai zitto e non rompere!” esclamai. Fingevo anche io di essere spavalda, ma in realtà le sue parole mi avevano preoccupata: stavo davvero facendo correre ai miei cugini il rischio di essere malmenati a sangue, e tutto per cercare di proteggermi e di mettere paura ai miei compagni?
 
 
Quando suonò la campanella dell’ultima ora, mi precipitai fuori, e incontrai i miei cugini nell’atrio come avevamo stabilito: questo mi fece sentire più sicura, ma non potevo negare di provare un pizzico di apprensione!
Quando arrivammo nel cortile, però, non vidi nessuno dei miei compagni, e improvvisamente capii tutto: era un bluff. E io c’ero cascata in pieno! Piena di vergogna, iniziai a scusarmi con le mie guardie del corpo improvvisate, e per verificare che davvero non ci fosse nessuno mi spostai verso il retro della scuola: lì sorpresi Sara e la sua gemella, che stavano fumando.
“Eleonora! Che ci fai qui?” mi domandò Sara, nascondendo automaticamente la sigaretta dietro la schiena.
“Ehm…” mi passai la lingua sulle labbra aride, cercando il modo meno diretto per dirle che mi ero presa un bello spavento per niente. “Beh, Teodoro mi aveva dato appuntamento qui!”
“Stupida, vattene a casa … non ti succederà niente, se ne sono andati via tutti. Lo sai che Teodoro non tocca le ragazze, te lo ha detto spesso!”
“Sì, ma …” iniziai a protestare. Poi ci ripensai: non sarebbe servito a niente parlare ancora, quindi salutai le due sorelle e me ne andai, con la coda tra le gambe.
 
 
Quando raccontai tutta la storia a mia madre, qualche minuto più tardi, l’unica cosa che mi disse fu “Guarda il lato positivo: hai avuto un grande spirito di iniziativa, per difenderti. Però la prossima volta vedi di mandare degli sms, invece di andartene in giro per la scuola, ok? E se ti fosse capitato qualcosa mentre eri fuori dall’aula?”
“Capirai, bella consolazione!” pensai. “A che mi è servito lo spirito di iniziativa? Si sono presi gioco di me una volta di più. Se poi mi fosse successo davvero qualcosa mentre ero fuori dalla classe, dubito che se ne sarebbe accorto qualcuno, e qualora fosse successo di sicuro sarebbero stati tutti sollevati del fatto che mi ero tolta dai piedi, in un modo o nell’altro!”

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Marzo: la festa delle donne ***


Capitolo 10 - Marzo: La festa delle donne

 

“Eleonora, ne vuoi una?”. Yuri, uno dei ragazzi della prima B con cui avevo fatto amicizia qualche mese prima, portava tra le braccia un mazzo di mimose più grande di lui.
“Oh, grazie, sei gentile!” dissi, prendendo un ramoscello. Poi lo salutai e mi precipitai in aula, felice: anche se era più piccolo, era comunque un ragazzo, e mi aveva dato una mimosa! Considerato il mio status di sfigata all’interno della classe, il fatto che un altro essere umano mi avesse offerto qualcosa era per me un vero miracolo.
“Oddio, Frankenstein ha ricevuto la mimosa!” mi accolse Davide.
“Davide, non fare lo stupido: non si dice Frankenstein, non è carino!” lo rimproverò Teodoro.
Io rimasi a bocca aperta: da quando in qua venivo difesa? E da Teodoro in persona, poi?
“Si dice Immondizia, te l’ho già detto!”
“Ah, ecco!” pensai. “Mi sembrava strano! Wow, mi hanno dato un altro soprannome: prima Scorfana, poi Frankenstein e adesso Immondizia!”. Mi stavo giusto chiedendo se per caso puzzassi, dato che mi avevano affibbiato proprio quel nomignolo, quando sentii Attilio che mi chiamava e quindi mio malgrado dovetti prestargli attenzione.
“Chi te lo ha dato, quel rametto, un’anima pia che ha avuto pietà della tua spaventosa bruttezza e ha voluto fare una buona azione?”
“No, uno della prima. Problemi?”
“Assolutamente no: te l’ho già detto più di una volta che solo a quelli puoi mirare, tu!”
“Quanto sei deficiente! Sai dire solo stupidaggini! E a proposito di cretinate varie, a cosa devo l’onore del mio nuovo soprannome, signorini?”
“Mi sembra ovvio” mi spiegò Teodoro. “Perché stai con Daniele, che come soprannome ha Secchio!”
“Io starei con chi??? E da quando in qua una persona si fidanza senza saperlo?”
“Beh, in questi giorni parli spesso con lui, quindi è ovvio che ti piace. Altrimenti, perché mai gli parleresti?”
“Ti ricordo che facciamo lo stesso argomento di scienze, per la tesina, insieme a Davide e Sara: dato che la Napolitano vuole che lavoriamo a gruppi al computer, ci stavamo organizzando per la presentazione su Power Point. Ti pare una cosa che si fa tra innamorati, di solito?” Cercai l’approvazione di Daniele, che me la diede tramite un timido “Sì … sì, ha ragione!” e poi mi girai di nuovo verso il mio compagno di colore, che ancora non aveva finito.
“Beh, perché, non potrebbe essere una cosa di cui si parla con la persona che si ama? Voi due non me la raccontate giusta!” (io a quel punto sbuffai, scocciata) “Comunque, Immondizia, non me li fai gli auguri?” continuò.
“Per il tuo compleanno? Sì, certo, come no: te li farò, ma alle calende greche!”
“Che? Quando?” mi chiese, lanciandomi uno sguardo sinceramente confuso.
“Mamma mia quanto si vede che hai tutte insufficienze! Le calende greche non esistono, ignorante!” esclamai, e andai verso le altre ragazze, con la mia mimosa stretta nella mano sinistra.
“Eleonora, lasciali stare, quelli” mi disse Rebecca vedendomi arrivare. “Sembra che ti odiano, ma in realtà sono tutti innamorati di te! Il problema è che si vergognano di dirtelo”.
“Sì, certo, come no, ci credo proprio!”
“Giuro!” fece lei, mettendosi una mano sul cuore. “A parte Attilio, che sta con Elisa, e Federico, che sta con me, gli altri sono tutti cotti. Tu sei la nostra Madre Natura! Hai presente quella di Ciao Darwin? Ecco, sei come lei”.
“Piantala di prendermi in giro!” sbottai.
“Ma che caratterino! Rebecca stava solo cercando di tirarti su!” mi disse Chiara con aria di rimprovero; poi lo sguardo le cadde sulla mano che stringeva la mimosa.
“Sei mancina?”
“Certo che lo sono … sto qui da settembre, e tu te ne accorgi ora?”
“Beh, non ho mai avuto la disgra … cioè, non ho mai avuto l’occasione di sederti vicina, quindi non l’ho mai saputo. Ma sei sicura di essere proprio mancina?”
“Per tua norma e regola, Chiara, se un individuo scrive con la sinistra, è mancino. Dov’è la difficoltà nel comprendere questo concetto?”
“E’ che ho visto la tua scrittura, e fa veramente schifo … quindi, secondo me, in realtà tu sei destrorsa, solo che scrivi con la sinistra per presa di posizione!”
“Non è vero!”
“Lo vedremo”, mi rispose, tirando fuori un foglietto. “Scrivi qualcosa, su!”
“No, non mi va”. Indispettita, feci per andarmene: dovevo essere messa sotto esame anche per come scrivevo, oltre che per tutto il resto?
“Dove pensi di andare?”, mi chiese Azzurra, spingendomi indietro. “Adesso tu ti siedi lì e fai come ha detto Chiara, capito? E subito, anche! In fondo ti ha solo chiesto di scrivere, mica di andare sulla Luna!”
“D’accordo”, sospirai. “Prima lo faccio, prima me le tolgo di torno”, dissi tra me e me.
Presi la penna che Elisa mi porgeva, e la tenni con la mano destra: neanche la mia presa era buona, figurarsi quindi come potevo fare il resto! Sentii lo sguardo delle mie compagne su di me, e immaginai che stavano per prendermi in giro; per prevenire quindi battute sulla mia incapacità di reggere la penna, la ripresi con la sinistra e d'impulso scrissi: Chiara è una nana rompiballe, Azzurra invece è un pinguino logorroico con i capelli sparati.
“Contente, ora?” chiesi loro e mi alzai prima che potessero replicare; andai a sedermi al mio posto e il mio compagno di banco per quella settimana, Andrea, mi salutò.
“Meno male che c’è ancora qualcuno che si ricorda di salutare, anche se un po’ in ritardo!”, riflettei amaramente mentre gli rispondevo.
Stavo pensando a dove poter mettere la mia mimosa, quando la porta si aprì ed entrò il professore di italiano, che avrebbe dovuto interrogare: per fortuna, io avevo già il voto, quindi potevo stare tranquilla!
Anche nelle due ore successive non dovetti subire interrogazioni, ma durante la quarta ora la professoressa di religione, il cui pancione era ormai ben visibile, ci disse che la settimana seguente avremmo avuto un compito in classe e questo non mi fece particolarmente piacere.
 
 
Quando la campanella suonò, ci recammo tutti alla mensa per mangiare; una volta finito, mentre gli altri giocavano o chiacchieravano in cortile, io pensai di tornare dentro la scuola, per stare sola. Nessuno mi avrebbe voluta intorno, quindi tanto valeva che me ne restassi per conto mio, per ripassare in vista della altre tre ore che mi aspettavano o per pensare e sognare ad occhi aperti un futuro migliore del presente che stavo vivendo!
Mi guardai intorno, e non scorgendo nessun professore, decisi di raggiungere di corsa la mia classe: arrivata quasi a destinazione, però, per poco non mi scontrai con Teodoro, che stava uscendo dalla stanza proprio in quel momento.
“Eleonora!” mi fece, un po’ teso. “Che ci fai qui?”
“Mi ha chiamata per nome! Tramerà di certo qualcosa!” dissi tra me e me. Ovviamente non feci trasparire i miei sospetti, e gli risposi con fare innocente: “Volevo andare in terza C per vedere se Edlira è nella sua aula, ma la forza dell’abitudine mi stava portando nella nostra. Sai com’è!” conclusi, con una risatina forzata.
“La tua amichetta musulmana è uscita prima, credo. Non hai niente da fare qui!”
“Perché scusa?” gli chiesi, ormai convinta che ci fosse sotto qualcosa. “Visto che mi dici che Edlira non c’è, andrò in bagno e poi tornerò fuori. Posso, o ti devo fare una dichiarazione scritta?” dissi, scansandolo per recarmi nella toilette.
Una volta dentro, ci rimasi per 10 minuti buoni, per essere sicura che lui se ne fosse andato: poi uscii, ed entrai in classe per risolvere il mistero.
I banchi erano in ordine: sul mio non c’era scritto niente di strano, e anche la mia sedia era a posto. Confusa, mi stavo chiedendo se per caso non stessi iniziando a soffrire di manie di persecuzione quando notai una scritta sulla lavagna, che diceva:
 

Davide , ti amo.
Ho provato un forte sentimento per te fin dalla prima volta che ti ho visto, e ti penso sempre: voglio baciarti, fare l’amore con te ogni giorno in tutte le posizioni fino a farti impazzire di piacere, e starti vicina finché vivrò.
Sono pronta a sottostare a tutto ciò che mi chiederai di fare, qualsiasi fantasia sessuale tu abbia in mente io la eseguirò: sono tua corpo e anima, e per te farei di tutto! Ti prego, mettiamoci insieme e fammi diventare la tua schiava personale.
                                                        Eleonora.

 
“Ma cosa???” sbottai ad alta voce, dopo aver letto interamente l’umiliante messaggio.
“Io non avrei mai detto quelle cose! E a quel cretino di Davide, poi! Ma per favore!” aggiunsi mentalmente. “Ora ti faccio vedere io, caro il mio cioccolatino spiritoso!”.
Presi il cancellino e rimossi il tutto meglio che potevo, tracciando qualche scarabocchio con il gesso e poi cancellando di nuovo nei punti in cui si leggeva ancora qualche parola: rimasi ad ammirare la mia opera per qualche altro istante, orgogliosa di me stessa, poi mi avviai in direzione del cortile, certa che qualcuno di lì a poco avrebbe avuto una bella sorpresa.
 
 
Al termine della pausa, ci mettemmo tutti in cammino per tornare in classe: Teodoro, con espressione soddisfatta e gongolante, apriva la fila. Appena varcò la soglia, disse eccitato: “Guardate cosa ha scritto Eleonora!”, ma la sua espressione di giubilo si trasformò immediatamente in confusione e sbigottimento quando vide che non c’era più alcuna traccia di quel che aveva combinato.
“Cos’è che avrei scritto, scusa?”
“Ehm … Eleonora aveva scritto una dichiarazione d’amore per Davide, ma poi s’è vergognata e ha cancellato ogni parola!” disse agli altri, tutto d’un fiato.
Attilio e Matteo, che gli erano vicini, si piegarono in due dalle risate. “Non è vero”, gli disse quest’ultimo. “Di’ la verità, ti ha fregato!”.
“Quindi gli altri lo sapevano!” pensai, amareggiata. Nonostante questo, però, ero fiera di me: avevo avuto una piccola rivincita sul mio nemico numero uno, e questo era un traguardo molto importante!

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Marzo: il valore dell'amicizia ***


Capitolo 11 – Marzo: il valore dell’amicizia
 

Presi la brocca con l’intenzione di versarmi un po’ d’acqua nel bicchiere, ma all’improvviso Teodoro mi diede una botta violenta al braccio e tre quarti del liquido finirono sul tavolo, bagnando alcuni degli altri commensali e le loro portate.
“Ehi Eleonora! Ma sei cretina? Ti ha dato di volta il cervello, per caso???”  mi fece Azzurra, arrabbiata, mentre cercava di asciugarsi con un tovagliolo. “Ci hai bagnati tutti!”
“Non è colpa mia, Teodoro mi ha …”
“Mamma mia, non sa tenere neanche qualcosa in mano!” mi interruppe Chiara scandalizzata, rivolta agli altri. “Ha le mani di ricotta!”
“Ma non è vero!” tentai di nuovo di difendermi.
“Infatti, ha le mani di ricotta … pensate cosa succederà quando dovrà prendere in mano qualcos’altro!” fece Attilio, sganasciandosi dalle risate. Poi, vedendo che ero arrossita, si sentì autorizzato a continuare “Ma già, dimenticavo: lei non avrà mai un ragazzo a cui fare cose del genere. E’ troppo brutta, nessuno con un po’ di cervello la scoperebbe mai!”
“Ha parlato il figo della situazione!” replicai. “E comunque, per vostra informazione, è stato Teodoro a farmi versare l’acqua, colpendomi il braccio!”
“Che c’entro io? Ma sempre con me te la devi prendere? Se tu non sei capace neanche di centrare un bicchiere di carta non è colpa mia, capito, Mostro di Lochness?”
“Non ti arrabbiare, dai” cinguettò Sara, evidentemente desiderosa di compiacerlo. “Lo sai che lei è strana, no? Lasciala dire quel che vuole, tanto noi lo sappiamo che non sei stato tu”
“Ma se lo avete visto! Me ne sono accorta, sapete? Guardavate tutti nella sua direzione quando mi ha fatto allagare il tavolo!”
“E’ pazza, ha le allucinazioni!” fece Riccardo, scuotendo la testa.
Aprii la bocca per protestare anche con lui, ma la richiusi immediatamente. Era tutto inutile! Se anche fossi andata avanti per ore a questionare, i miei compagni avrebbero sempre e comunque difeso il loro capo … così, decisi di isolarmi dagli altri rinchiudendomi nelle mie fantasticherie, e continuai a mangiare.
 
 
Una ventina di minuti più tardi uscimmo, e io ero così sovrappensiero che a malapena sentii Teodoro fare i soliti commenti sulla mia bruttezza: ormai ero abituata a sentirmi dire che dovevo camminare rasentando il muro e guardando dritto davanti a me per evitare di contaminare gli altri con le mie mani o con il mio sguardo, quindi non mi era difficile ignorarlo … quello che non riuscivo a capire era perché mai gli altri lo difendessero tanto, anche quando aveva torto marcio. D’accordo, ero la sfigata della classe e quindi era rischioso schierarsi apertamente dalla mia parte, ma non potevano almeno essere neutrali, o non potevano dare un po’ di ragione ad entrambi, per non scoprirsi troppo? Il braccio mi era diventato rosso e dolorante, ma non avevo osato farlo notare per timore che mi dicessero che me lo ero meritato: due mesi prima avevano scritto un foglietto in cui asserivano che dovevo morire, quindi dubitavo che a qualcuno sarebbe importato qualcosa di come stavo!
Arrivata davanti alla porta dell’aula, mi riscossi, e dopo aver controllato se tutti erano entrati, (dovevo entrare sempre per ultima, altrimenti si sarebbero levate grida di protesta del tipo “Ma che fai? Mi insudici se mi passi davanti!” oppure “Come osi entrare per prima? Vuoi appestare l’aria con la tua bruttezza, per caso?”) oltrepassai la porta … e mi ritrovai davanti Matteo, che era già in aula: i suoi genitori avevano scelto di farlo pranzare a casa, invece di mandarlo alla mensa.
“Oddio, sc … scusa!” esclamai pateticamente, quasi senza rendermene conto.
“Perché ti scusi? Non mi hai neanche sfiorato!” rispose lui, stupito.
“Ehm …”
“Ehi! Dove pensi di andare?” chiese Teodoro proprio in quel momento, arrivandomi vicino.
“Al mio banco!” feci stizzita girandomi dalla sua parte. “Non posso neanche andare a sedermi, adesso?”
“Non ce l’ho con te, Mostro”, ribatté lui, polemico. “Sto parlando con Matteo!”
“Cosa?” pensai, spalancando gli occhi per la sorpresa: Teodoro non si era mai rivolto al suo amico in modo così aggressivo! Mi tolsi dalla loro traiettoria ma rimasi comunque nei paraggi, per vedere cosa sarebbe successo: avevo un brutto presentimento.
“In che senso, dove penso di andare? Vorrei uscire, mi gira un po’ la testa!”
“E che sei tornato a fare a scuola allora, se ti senti male? Potevi startene a casa!”
“Lo sai benissimo che tra un paio d’ore devo essere interrogato: devo restare per forza!”
“Fai come vuoi … ma adesso non vai proprio da nessuna parte. Almeno, non finché non avrai dato una spiegazione a tutti quanti!”
“Una spiegazione riguardo a cosa?”
“Sai benissimo riguardo a cosa! Perché non ci hai invitati al tuo compleanno, sabato scorso?”
“Te l’ho già detto: mia madre non voleva che portassi tanta gente a casa …”
“E così hai pensato di invitare quelli della terza C al nostro posto, vero? Ma bravo! Cos’è, loro sono meglio di noi? Noi non siamo forse tuoi amici? Stai tradendo la classe, te ne rendi conto?”
“Ma dai, che esagerazione!”
“No, non è un’esagerazione! L’amicizia è un valore importantissimo, dovresti saperlo. L’amico è sacro, deve venire prima di tutto e tutti … e tu invece che fai? Non ci dici che festeggi, E FAI VENIRE QUEI DECEREBRATI A CASA TUA!”
Nell’angolo in cui mi trovavo, iniziai a temere il peggio: Teodoro parlando aveva chiuso la porta e si era messo al centro dell’aula, dovevo forse tentare di riaprirla per dare modo a qualche adulto di sentire le urla e di venire a dividerli prima che iniziassero a prendersi a sberle?
Incapace di prendere una decisione istantanea, però, rimasi lì ferma, e continuai a seguire l’alterco tra i due ragazzi con crescente apprensione.
“Primo, non sono dei decerebrati; secondo, ne ho invitati solo cinque, mica tutta la classe!”
“E’ LA STESSA COSA, ANCHE SE ERANO POCHI. HAI COMUNQUE PREFERITO LORO A NOI, E QUESTO E’ UN FATTO MOLTO GRAVE, OLTRE CHE ALTAMENTE OFFENSIVO NEI NOSTRI CONFRONTI! Va bene, va’, lasciamo stare” aggiunse poi, più calmo “Esci pure, tanto so già che non riuscirò a cavare un ragno dal buco, con te”.
Dopo queste parole, la discussione si smorzò e io tirai un sospiro di sollievo, anche se non potevo fare a meno di essere indignata: ma che razza di opinione avevano dell’amicizia Teodoro e gli altri? Appena Matteo si fu chiuso la porta alle spalle, decisi di andare a parlare con il mio compagno di colore: ero perfettamente consapevole di rischiare ma non potevo evitarlo, perché sapevo bene cosa voleva dire essere criticati e non volevo che la persona che amavo soffrisse!
“Teodoro, posso parlarti un attimo?” chiesi, sforzandomi di non lasciar trasparire la mia irritazione.
“Perché? Vuoi trascinarmi nel tuo lago, Mostro?”
“Che stupida sono stata, avrei dovuto prevedere che avrebbe fatto una delle sue solite battute idiote!” mi rimproverai mentalmente. “No, deficiente”, gli risposi senza perdermi d’animo, “Voglio soltanto parlarti di una cosa!”
“Va bene, arrivo. Ma vedi di non toccarmi neanche per sbaglio, d’accordo?”
“Vedi di non farlo neanche tu con me!” lo rimbeccai.
Ci mettemmo nell’angolo più remoto dell’aula, ignorando gli altri che ridacchiavano, e abbassammo la voce per non farci sentire.
“Allora? Che vuoi?”
“Voglio che la smetti una volta per tutte di comportarti come se fossi il padrone del mondo!”
“In che senso, scusa?”
“Nel senso che la gente è liberissima di non invitarti ai compleanni, se non vuole! Non sei così importante, sai?”
“Ma piantala … tu non puoi parlare, perché non sai assolutamente come funzionano queste cose: sei sola, non hai nessuno!”
Detto questo si girò, ed io, temendo che tornasse dagli altri, mi affrettai a replicare: “Intendi dire che non posso esprimere un’opinione su quello che è successo poco fa perché non ho amici? Ebbene, sappi che io di amici ne avevo, fino allo scorso anno, solo che dopo il mio trasloco ci siamo allontanati e ora sono in contatto solo con una ragazza, via lettera. E se c’è una cosa che ho capito in questi tredici anni di vita, è che l’amicizia non è avere abnegazione totale per l’altro, fino ad annullare tutto il resto. Essere uniti ed avere una forte identità come classe è una bella cosa, ma questo non significa che dovete fare sempre tutto insieme!”
“Veramente essere uniti vuol dire proprio fare tutto insieme, Eleonora carissima … o almeno, uno dovrebbe spontaneamente voler condividere i momenti importanti della sua vita con la sua compagnia!”
“E’ qui che ti volevo: una persona deve voler condividere i momenti importanti della sua esistenza, in modo spontaneo. Non deve esserci costretto, o sentirsi criticato quando prende decisioni autonome! Ricordati che siete 19 esseri pensanti, non potete ragionare tutti allo stesso modo: puoi non condividere le scelte altrui, ma se vuoi veramente bene ad una persona devi rispettarla! Questo è essere amici: quello che vuoi tu sembra più un rapporto tra superiore e sottoposti, visto che pretendi che gli altri ti rendano conto di tutte le loro azioni.” osai dire. “E poi, se tu ti lamenti di questo, cosa dovrei dire io?” aggiunsi, sentendo lo strano bisogno di sfogarmi un po’. “Né tu ne gli altri mi avete mai invitata alle vostre feste, finora, ma non mi pare di aver fatto storie!”
“Ma per te il discorso è diverso: tu non puoi partecipare alle nostre feste”.
“E’ vero, non posso, perché l’avete deciso voi. Ma sono una persona come tutti, quindi potrei risentirmi per il vostro comportamento e fare appello alla lealtà di gruppo come hai fatto tu poco fa: in fondo, fino a prova contraria faccio parte della classe anche io! E invece non lo faccio, perché anche se essere esclusa non mi fa affatto piacere, so che ognuno ha il sacrosanto diritto di scegliere chi far venire a casa propria …” conclusi, guardandolo dritto negli occhi: mi aspettavo di leggervi derisione o compatimento, invece per un attimo vi scorsi qualcosa di simile alla comprensione!
Il momento però passò, e lui tornò sprezzante come prima.
“Quante sciocchezze dici …” mi fece, tagliente, “Tu non capisci nulla, perché non ti vogliono neanche i cani! Stai simpatica solo alle mosche, che volano spesso intorno alle cacche: questo dovrebbe darti un’idea precisa di cosa sei, essere immondo che non sei altro!”
Io restai dov’ero, avvilita: tutto il mio discorsetto non era servito a niente, mi aveva soltanto procurato un insulto nuovo di zecca!
Sentii le lacrime pungermi gli occhi, e tentai di ricacciarle indietro. “Su, smettila di fare la bambina!” dissi a me stessa. “Se piangi, gli altri non faranno che prenderti in giro ancora di più di quanto fanno di solito!”. Per distrarmi, guardai l’orologio, e vidi che ormai la nostra ora di libertà tra la mensa e le lezioni pomeridiane era quasi trascorsa.
“Ehi, Frankenstein!” mi chiamò Davide. “Si può sapere perché hai voluto parlare a Teodoro?”
“No, nanerottolo, non si può sapere. E’una cosa tra me e lui, fatti i cavoli tuoi!”
“Eleonora, tu ce lo devi dire. Non puoi avere segreti con nessuno di noi, non ne hai diritto!” si intromise Chiara.
“E chi lo ha stabilito? Tu? Ma fammi il favore, Signorina Cosce Grasse, sei ridicola!”. Detto questo uscii per andare in bagno, sotto lo sguardo allibito dei presenti.
 
 
Appena ebbi oltrepassato la porta, però, non potei evitare di trasalire, sorpresa: in fondo al corridoio c’erano Teodoro e Matteo che parlavano. Da quella distanza, non potevo sentire cosa si dicevano, ma a giudicare dall’aria pacifica che avevano capii che si stavano chiarendo! Spinta dalla curiosità dimenticai il mio impellente bisogno di urinare e mi avviai verso di loro, facendo finta di andare a prendere una boccata d’aria: appena fui abbastanza vicina, sentii Teodoro che diceva “Mi rendo conto che non mi sono comportato molto bene con te, oggi. L’amicizia consiste anche nel rispettare le opinioni altrui pur non condividendole … ho sbagliato a comportarmi come se tu dovessi darmi conto e ragione delle tue azioni, sono stato un egoista!”
“Le sue parole non mi suonano nuove!” pensai sbigottita, mentre mi sforzavo di continuare a camminare come se non avessi udito assolutamente niente. “Vuoi vedere che per una volta mi ha dato retta? Da non credere! Allora forse la mia tiritera è servita a qualcosa, dopotutto!”. Estremamente soddisfatta e fiera di me stessa (riuscire a convincere il boss della mia classe a scusarsi con qualcuno e a fargli ammettere di avere torto non era roba da poco), uscii fuori dall’edificio scolastico e contai fino a tre, dopodiché mi diressi alla toilette e rientrai in classe proprio quando la campanella segnalava la fine dei sessanta minuti di pausa e sanciva l’inizio delle lezioni pomeridiane.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Aprile: Insegnamenti ***


Capitolo 12 – Aprile: Insegnamenti

 

“Eleonora? Mi dici che colore è questo?” Davide, che era il mio nuovo vicino di banco, mi porse uno dei suoi colori a cera.
“Verde chiaro!” esclamai, sorpresa. “Perché me lo domandi?”
“Niente”, rispose lui, in fretta. “Un giorno te lo spiegherò, forse, ma non adesso, non mi va”.
“Come preferisci”, dissi, facendo spallucce e continuando con il mio disegno. “Chissà come mai mi ha fatto una domanda tanto strana? E’ la prima volta che me ne fa una che non contiene riferimenti al porno!” ragionai tra me e me.
Stavo continuando a riflettere sull’insolito comportamento del mio compagno, quando sentii Elisa chiedere alla professoressa di artistica il permesso di venire a parlarmi, e mi misi in allerta: ormai avevo imparato che quando le mie compagne venivano al mio banco, non era mai per scopi innocenti!
“Vuoi la gomma, Elisa?”, le domandai a caso, quando fu davanti a me.
“No, grazie”, mi disse, bisbigliando. “Volevo solo darti l’invito per la mia festa di compleanno, è per stasera”.
Incredula, presi la busta che mi porgeva, la aprii e constatai che non era uno scherzo, come avevo temuto: l’invito c’era davvero! La ringraziai, cercando di contenere la mia gioia, e aggiunsi “Gli altri lo hanno già avuto?”
“Sì,  l’ho dato giorni fa a tutti!”.
Il modo con cui calcò sull’espressione “giorni fa” mi ferì, riportandomi coi piedi per terra: dunque, ero stata l’ultima spiaggia! Non mi aveva invitata perché si era resa finalmente conto che anche io ero una persona e come tale andavo trattata: semplicemente, le facevo pena, oppure me lo aveva detto all’ultimo minuto perché così c’era più possibilità che io non potessi venire … lei avrebbe comunque fatto la figura della persona generosa, qualsiasi cosa avessi deciso.
“Ehm …” esitai, incerta sul da farsi: da una parte, se le avessi detto che non andavo mi sarei sentita meglio, perché non avrei dovuto far fronte alla serata; dall’altra, però, temevo che quella fosse la mia unica occasione per vedere com’erano i miei compagni fuori dall’ambiente scolastico. Magari si sarebbero comportati diversamente con me!
“Credo che …” presi tempo.
“Sì?” mi fece la mia compagna, con fare incoraggiante. Sarebbe stata molto convincente, se non avesse fatto l’errore di guardarmi negli occhi: l’espressione del suo viso comunicava il messaggio “Dimmi che non vieni, ti prego!”.
“Sì, penso proprio che verrò!” le dissi, con aria di sfida.
“Oh … oh, che bello!” rispose lei, facendomi un sorriso palesemente falso “Allora … ci vediamo al terreno dei miei genitori, alle otto. Ok?”
“Sei una pessima attrice, Eli”, pensai tra me e me qualche secondo più tardi, mentre la guardavo allontanarsi per tornare al suo posto.
“Oggi chiederò ai miei il permesso di andare: se mi autorizzano, bene, altrimenti … vorrà dire che non mi presenterò. Tanto dubito che gli altri si dispiacerebbero per una mia eventuale assenza!”
 
 
Due ore dopo, durante la ricreazione, Attilio venne a chiedermi i soldi per il regalo.
“Ma non lo avete già fatto?” gli domandai, sospettosa.
“No, lo farò io oggi pomeriggio … devi darmi dieci euro: gli altri hanno già contribuito, manchi solo tu!”.
“Così tanti? Ma sei sicuro?”
“Io voglio il meglio per la mia ragazza. Sgancia, su!”
La cosa continuava a non quadrarmi: possibile che per fare il regalo ad una quattordicenne servissero 200 euro? Sospettando che Attilio volesse farmi pagare anche la sua parte, gli consegnai solo una banconota da cinque.
“Eleonora, ti ho detto che mi servono …”
“Gli altri soldi puoi metterli tu: non ho intenzione di pagare per te! E non ti azzardare mai più ad insultare la mia intelligenza, capito?”
“Non è come pensi! Eleonora, torna qui!” mi richiamò lui, poco convinto, vedendo che mi allontanavo.
“Non ci penso neanche!” borbottai, mentre mi dirigevo alla toilette.
 
 
“Per me puoi andare”, mi fece mia madre quel pomeriggio, “Basta che ci vai contenta”.
“Lo sono!” mentii. Detestavo dirle bugie, ma non potevo fare diversamente: non potevo mica raccontarle che non ero affatto convinta, ma lo facevo solo per ripicca verso la festeggiata!
“Allora va bene. Ma il regalo lo devi prendere?”
“No, lo faccio in comune con gli altri. I soldi li ha raccolti il fidanzato di Elisa, che ha cercato di farmi pagare dieci euro con la scusa che tutti avevano versato quella cifra!”
“Cosa? Ma che disonesto, questo ragazzo! Tu quanto hai dato?”
“La metà di quel che chiedeva: non sono così scema!”
“Brava, tesoro!”. Poi, con aria preoccupata, mi chiese: “Ma tu sei proprio sicura al 100% di voler andare?”.
Mia madre aveva il dono di intuire le cose prima ancora che accedessero: gli strani presentimenti che le venivano si avveravano molto spesso. Io però sperai ardentemente che si sbagliasse!
 
 
“E’ qui?” chiese mio padre, spegnendo il motore dell’auto.
Io guardai velocemente sul cartoncino. “Sì, è qui”, confermai. Il cancello era semichiuso, e la piccola casetta di campagna in cui ero diretta risuonava già di risate e schiamazzi.
“Qualcosa mi dice che non sono appena arrivati: sono le otto precise! La festa sarà iniziata di sicuro da un pezzo, magari si sono messi d’accordo per vedersi prima anche se il bigliettino diceva a quest’ora!” riflettei amaramente.
“Eleonora? Non scendi? Ci hai ripensato?”
“No, ora scendo”, risposi, sforzandomi di sorridere. “Ti faccio sapere quando è finita, ok?”
Quando la macchina divenne un puntino appena visibile, feci un bel respiro e aprii il cancello, sperando di divertirmi almeno un pochino.
 
 
“Eleonoraaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!” urlò Azzurra appena mi vide, gettandomi le braccia al collo.
Sorpresa, io tentai di allontanarla, ma fu tutto inutile: mi era rimasta attaccata. “Cosa diavolo le prende?” pensai.
“Ciao Azzurra” la salutai, tentando di nascondere il mio disagio. “Elisa dov’è? Vorrei farle gli auguri”.
“Elisa è … Elisa è …” cominciò a dire la mia compagna staccandosi da me, ma non finì la frase perché iniziò a ridere convulsamente.
A quel punto, mi irritai tantissimo: cosa c’era da ridere? Solo quando notai che Azzurra era malferma sulle gambe e che anche gli altri presenti nella sala andavano in giro barcollando e ridendo sguaiatamente, capii: avevano bevuto!
Il mio disagio aumentò, e piano piano si trasformò in disgusto: com’era possibile che fossero già tutti ubriachi? Era questo il divertimento, per loro? E i genitori di Elisa dov’erano? Come potevano permettere che la figlia di quattordici anni desse una festa con gli amici senza controllarla almeno ogni tanto?
Guardai l’orologio che portavo al polso pensando di chiamare mio padre per farmi portare di nuovo a casa, ma vidi che erano solo le 20:05. Non potevo certo telefonargli, dato che mi aveva portata lì appena cinque minuti prima!
Quindi, decisi di farmi un giro nella sala: sarei andata a salutare la festeggiata, e poi avrei cercato una persona sobria, ammesso che ci fosse … e se le cose non fossero migliorate mi sarei fatta venire a riprendere, a prescindere dall’orario.
 
 
Dopo aver individuato Elisa, anche lei piuttosto brilla, girai per la sala: ero convinta che non avrei individuato nessuno in condizioni normali, quando sentii qualcuno che mi chiamava: era Davide, che era seduto su un divano.
Sorpresa, mi girai: mi aveva chiamata per nome, cosa molto insolita! Per lui, infatti, ero sempre stata “Frankenstein”.
“Ciao Davide!” dissi, scrutandolo: non sembrava ubriaco, così mi avvicinai.
“Che fai lì impalata, scusa? Siediti!”
Io obbedii, sempre più sconcertata: da dove gli derivava tutta quella gentilezza? Di solito iniziava ad urlare appena mi avvicinavo!
“Non pensavo che venissi!!”
“Nemmeno io!”
“Cosa ti ha fatto decidere?”
“Solo la determinazione di Elisa di avermi fuori dai piedi: ho avuto l’impressione che mi avesse invitata all’ultimo minuto proprio sperando che io avessi altri impegni!”
“Ma dai, Elisa non è così cattiva!”
“Non ho detto che è cattiva: ma falsa lo è di sicuro!”
Davide scoppiò a ridere, e io, incoraggiata dal suo cambio di atteggiamento, mi spinsi a chiedergli una cosa che mi tormentava da tempo.
“Davide, perché mi odiate tanto? Dimmi tutto, senza usare diplomazia: io non posso migliorare, se voi non mi dite dove sbaglio!”
Lui mi fissò senza capire: “Che vuoi dire?”
“Esattamente quello che ho detto: che problemi avete con me?”
“Nessuno ha problemi con te!”
“Cosa? Mi prendi in giro? E tutte le volte che mi dite che sono brutta e che non dovrei vivere, allora? Gli striscioni di novembre e il foglietto con i nomi delle persone da uccidere di gennaio cosa sono, giochini innocenti secondo te?” Visto che mi fissava imbambolato e non accennava a darmi una risposta, per non innervosirmi cambiai tattica e passai a qualcosa che lo riguardasse più da vicino, senza però scostarmi dal tema principale.
“E tu, perché mi odi? Perché senti il bisogno di chiamarmi come il mostro della storia di Mary Shelley ogni giorno, e ti schifi di me come se fossi uno scarafaggio?”
“A dirti il vero … boh, non lo so!”
“Come sarebbe, non lo so? Una ragione ci deve pur essere!” esclamai, frustrata. Attesi ancora, ma visto che lui non sembrava avere intenzione di approfondire la questione e che io dal canto mio non riuscivo a trovare una scusa convincente per andarmene da lì e lasciarlo solo, pensai di fargli un’altra domanda, che speravo fosse più abbordabile.
“Ma Teodoro dov’è? Non è venuto?”
“Sì che è venuto … è in bagno! Sai, non si sente molto bene.”
“Vale a dire, è ubriaco fradicio. Giusto?”
“Sì, se vuoi metterla in questi termini”.
“Andiamo bene!” pensai. Secondo il mio punto di vista, era davvero da idioti bere, soprattutto quando si arrivava fino al punto di vomitare!
“E da quanto tempo è lì?”
“Non saprei. Saranno una decina di minuti circa!”
“Vado a dirgli di sbrigarsi, perché ci devo andare anche io!” esclamai, felice di avere un’occasione per svignarmela.
Mi alzai in piedi e mi avviai, guardandomi attorno per vedere quale fosse esattamente la porta della toilette, quando questa si spalancò sotto ai miei occhi, rivelando Matteo che sorreggeva il suo amico di colore, il quale sembrava aver rigurgitato persino la sua anima.
“Ehi, mo-stro” biascicò.
Decisi di ignorarlo deliberatamente: non mi pareva il caso di discutere con una persona incapace di intendere e di volere.
“E’ proprio partito, eh?” dissi, rivolta a colui che ormai da mesi mi faceva battere il cuore.
“Bah” mi fece lui, tentando di tenere fermo l’altro, che si agitava bisbigliando cose incomprensibili. “Ormai ci ho fatto l’abitudine”.
“COSA? Vuoi dire che fa sempre così? E anche gli altri?”
“Già”.
“Ma che schifo! E’ una cosa davvero desolante” mi dissi tra me e me. “E io che mi sentivo mortificata ogni volta che non venivo invitata alle feste! Meno male che non mi sono persa niente!”
“Ma tu non hai bevuto?” gli chiesi ancora, dopo un po’ di esitazione.
“Solo un bicchiere. Tu?”
“Io niente, sono astemia”. Non sapevo se quanto avevo affermato fosse vero, dato che non mi ero mai avvicinata a degli alcolici, ma preferii comunque dirlo per nascondere il fatto che anche soltanto la vista del vino o della birra mi provocava nausea.
“Vuoi una mano con Teodoro, per caso?” gli domandai ancora, osservandolo preoccupata: il suo compare era molto più grosso di lui!
“No, tranquilla, ce la faccio” mi rispose, cercando di indurre il nostro compagno, che ora diceva frasi senza senso ad alta voce, a sedersi su una sedia poco distante.
Fui tentata di seguirlo per cercare di aiutarlo comunque, ma rinunciai subito all’idea: non sapevo come comportarmi con gli ubriachi, quindi rischiavo di essere soltanto di peso! Senza contare il fatto che sarei di sicuro arrossita come una stupida ogni volta che Matteo avesse aperto bocca … quindi, decisi di tornare al centro della sala per vedere se nel frattempo qualcuna delle ragazze si era ripresa, ma mi bastò scorgere Elisa e Attilio che praticamente lo stavano facendo su un tavolo per capire che non era così.
“Non mi resta che tornare a casa”, pensai. Erano solo le otto e venti, ma decisi di inventare che avevo mal di testa per farmi venire a riprendere: mi sentivo un pesce fuor d’acqua, e la prospettiva restare lì senza fare niente per altre tre ore e quaranta minuti circa non mi allettava affatto.
 
 
Dopo aver rassicurato i miei del fatto che il mio mal di testa non era dovuto al vino, mi ritirai in camera mia, con l’intenzione di finire di leggere Harry Potter e il calice di fuoco: appena letto il primo paragrafo dell’ultimo capitolo, però, mi soffermai a ripensare a quanto era accaduto quella sera e mi resi conto che, nonostante i timori di mia madre e nonostante vi avessi partecipato soltanto per venti minuti, la festa non era stata un fiasco totale, perché ne avevo tratto degli insegnamenti preziosi. Grazie alle parole confuse di Davide, che sul momento mi avevano tanto indispettito, avevo potuto intravedere una realtà che pensavo possibile soltanto sui romanzetti per adolescenti che leggevo spesso: i ragazzi si sentivano forti solo in gruppo, e seguivano le regole del gruppo stesso! Se il “capo” prendeva di mira qualcuno, gli altri lo seguivano, per paura di essere screditati e/o bollati come sfigati e perdenti. Il fatto che lui non mi prendesse in giro quando eravamo da soli, e che anche altri della nostra classe agissero in quel modo, ne era la conferma … questo poteva servire come giustificazione parziale, ma io non ero ancora pronta a perdonarli!
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Maggio: Segreti ***


Capitolo 13 – Maggio: Segreti
 

“Ragazzi, chi di voi ha un libro di educazione tecnica?” Alessandra, la mia rivale in amore, si muoveva ancheggiando per la stanza.
Inutile dire che non aveva parlato al maschile a caso: io e le mie compagne eravamo state deliberatamente ignorate!
Irritata, osservai Matteo tirare fuori il suo libro e tenderglielo, emozionato: dovevo fare qualcosa.
“Ale, tesoro”, la chiamai, prendendo velocemente la mia copia del testo dallo zaino “Non ti preoccupare, te lo presto io il libro!”.
Gli altri si bloccarono, costernati e delusi.
“Ah, grazie!” mi fece lei, colta alla sprovvista; io le sorrisi amabilmente, cercando di dominare l’istinto di strozzarla.
“Te lo riporto alla fine dell’ora, va bene?”
“Ma certo!” cinguettai, mentre la osservavo aprire la porta ed uscire. Normalmente detestavo la falsità del genere femminile, pur facendone parte io stessa, ma in quell’occasione mi sentii legittimata: quell’oca se l’era meritato!
La mia soddisfazione comunque durò pochi attimi, perché qualche secondo dopo che la porta si fu chiusa l’amore della mia vita mi chiamò e io mi girai, un po’ allarmata: il suo tono non era dei più amichevoli.
“Non potevi farti gli affari tuoi? Il libro stavo per darglielo io!”
“Non capisco perché ti arrabbi” mentii, “Dov’è il problema, se ha preso il mio? Temi che sia infetto?”
“Ma dai, che scemenza! Ovvio che non è per quello!”
“E allora, come mai la cosa ti brucia tanto?”
“Non te lo posso dire”.
Stavo quasi per ribattere che era inutile che faceva tanto il misterioso, dato che la sua cotta segreta non era più segreta da mesi, ma poi rinunciai e optai per un “E’ un segreto?”
“Esatto”, confermò, con un tono che non ammetteva repliche.
Io, però, che amavo avere sempre l’ultima parola, mi sentii in dovere di ribattere: “Come vuoi. Comunque in ogni caso non avresti potuto darglielo (e qui dovetti fermarmi un attimo perché i miei compagni avevano iniziato a ridacchiare, associando l’ultima parola che avevo pronunciato ad un fallo maschile) … dicevo, non avresti potuto prestarle il libro ugualmente, dato che tra poco devi essere interrogato!”
Lui sussultò, e io lo guardai, sbalordita: possibile che si fosse dimenticato dell’interrogazione di tecnica? Era insolito da parte sua!
 
 
L’interrogazione andò male, e Matteo restò nervoso tutto il giorno: io cercai di consolarlo dicendogli che dato che era sempre andato bene il professore non avrebbe tenuto conto di quella piccola battuta d’arresto, ma lui non voleva ascoltarmi, e si dava la colpa. Il suo problema era che pretendeva sempre il massimo da se stesso, e se anche una cosa su cento non era fatta alla perfezione si arrabbiava … non serviva a niente ricordargli che essendo un essere umano poteva benissimo capitargli di sbagliare!
Quando tornai a casa ero molto triste per lui, ma non volendo farlo vedere ai miei, mi finsi serena e dopo pranzo sparii subito in camera mia a fare i compiti; verso le 16:30 però mia madre bussò alla porta, e io non potei evitare di sobbalzare.
“Eleonora, che hai? Sembri tesa”.
“No mamma, non ho niente!”, la rassicurai: non mi pareva il caso di dirle che ero dispiaciuta per un ragazzo per il quale avevo una cotta spaventosa. “Cosa vuoi dirmi?” le domandai, per distrarla.
“Volevo solo informarti che tra poco verrà qui un cugino di tuo padre, insieme al figlio. Quindi vedi di vestirti bene, ok?”
“D’accordo”, dissi, controvoglia: la prospettiva di avere parenti a casa non m allettava molto, perché voleva dire che avrei dovuto studiare anche dopo cena, ma non feci parola di questo mio disagio: i miei non avrebbero capito!
 
Così, più tardi, mentre cercavo di finire degli esercizi di matematica (come al solito, non me ne era venuto nemmeno uno!) suonarono alla porta: andai ad aprire su invito dei miei, e mi ritrovai davanti un uomo basso e tarchiato, con vicino un ragazzo che mi sembrava familiare … riconoscendolo, sussultai.
“Ciao Davide!” balbettai, sorpresa. “Ehm...”. Mi sforzai di aggiungere qualcosa, dopo aver salutato anche suo padre, ma non mi venne in mente niente; fortunatamente, i miei genitori arrivarono quasi subito, e fecero gli onori di casa.
 
 
Dopo l’aperitivo io e Davide ci ritirammo in camera mia, ovviamente lasciando la porta aperta per non far credere agli adulti che avevamo brutte intenzioni.
“E così siamo parenti … chi l’avrebbe mai detto?”, disse lui, incredulo.
“Già”, risposi io “Non ti dispiace avere una creatura simile a Frankenstein come cugina?” non potei fare a meno di aggiungere, amaramente.
“E a te non dispiace avere uno dei sette nani di Biancaneve come cugino?”
Ci guardammo per studiare uno l’espressione dell’altra, ma poi in modo del tutto inaspettato scoppiamo a ridere di cuore.
Quando ci fummo ripresi, però, Davide decise di continuare con le domande.
“Dato che tra noi c’è un legame di parentela, posso chiederti una cosa?”
“Dipende”, dissi io, non volendo sbilanciarmi: cugino o no, se mi avesse chiesto cose troppo intime non avrei risposto!
“Perché ti sei trasferita qui?”
“Non te lo posso dire, è un segreto!”. Non avevo intenzione di aprire bocca: il legame di parentela non assicurava l’onestà, l’avevo già imparato a mie spese tempo prima quando mi ero fidata di alcune cugine che poi mi avevano tradita alla prima occasione.
“Guarda che non lo dirò agli altri!”
“La cosa non cambia: ho detto no!”
“Ok … allora ti svelo io un mio segreto. Sai perché spesso ti chiedo di dirmi quale colore a cera tengo in mano? Perché sono daltonico: non vedo alcuni colori”.
“Oh, davvero? Mi dispiace!”
“Bene, adesso lo sai. Ti chiedo solo di non dirlo in classe, ok?”
“Perché, gli altri non lo sanno?”
“No: ho sempre chiesto soltanto a te di dirmi quale colore era quello che avevo in mano. Temevo mi prendessero in giro, quindi ho preferito tacere!”.
Andai indietro con la mente e ricordai che, in effetti, quasi ogni volta che avevamo lezione di educazione artistica Davide era venuto al mio banco con uno o più colori a cera e mi aveva chiesto “Mi dici che colore è?”. Evidentemente, nonostante le prese in giro si fidava più di me che degli altri: quindi, l’unica cosa che potevo fare per ricambiare era aprirmi con lui.
“Va bene, tranquillo, non ne parlerò ai nostri compagni. Se ora ti dico come mai sono venuta in paese, mi giuri che non ne farai parola con nessuno?”
“Lo giuro”.
Sembrava sincero, quindi decisi di credergli; inoltre, anche se avesse voluto non avrebbe potuto parlare comunque, perché se l’avesse fatto anche io avrei spifferato il suo segreto … entrambe queste cose mi diedero la forza di iniziare a parlare.
“Vedi, mia nonna materna è nata qui; dopo la nascita di mia madre però ha seguito mio nonno a Roma, perché lui doveva lavorare lì. Anche dopo che lui è morto, lei non ha voluto tornare in paese, perché stava bene in città e non amava la mentalità dei nostri compaesani. L’anno scorso però si è decisa a venire, e infatti avrebbe dovuto abitare nell’appartamento di fronte al mio; peccato che ci abbia ripensato all’ultimo minuto, quando io e la mia famiglia avevamo già lasciato la nostra casa precedente e avevamo acquistato questa … ecco tutto”.
“Davvero, è tutto qui? Sembrava chissà cosa!”
“Tu non capisci: mia nonna non si è mai preoccupata di me e della mia famiglia, ha sempre e solo pensato a se stessa: ci ha fatti venire qui tutti e poi all’ultimo secondo s’è tirata indietro, fregandosene del fatto che mia madre ha dovuto cambiare lavoro per causa sua, e che io e Giorgio dovevamo cambiare scuola e amici! Ecco, adesso lo sai: non l’ho mai detto perché temevo pensaste male di me o della mia famiglia! Sono certa che ora mi consideri una nipote indegna e cattiva”.
“Beh, no: le mie nonne sono sempre state affettuose ed attente, quindi non posso capirti fino in fondo …. Ma nemmeno mi sento di giudicarti”.
In quel momento, capii che avevo guadagnato un alleato, e che forse l’ultimo mese di scuola non sarebbe stato terribile come i precedenti.
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 - Maggio: il camposcuola ***


Capitolo 14 - Maggio: il camposcuola

 

“Eccoci arrivati!” fece mia madre. “Sei pronta?”
Io annuii senza parlare: in realtà, non sapevo cosa aspettarmi. I camposcuola alle elementari mi erano sempre piaciuti e anche i primi due anni delle medie erano andati bene, ma con i compagni di classe che avevo quell’anno era impossibile stilare pronostici!
Scendemmo dalla macchina e ci dirigemmo davanti al cancello della scuola: il grosso pullman turistico che avrebbe dovuto portarci in Emilia Romagna era già lì, e i miei coetanei vi erano assiepati attorno.
“Ti prego, fa che mi lascino tranquilla in questi giorni!” dissi tra me e me.
Pur dovendo ammettere con me stessa che le prese in giro erano nettamente diminuite nelle ultime settimane, non riuscivo comunque a stare del tutto serena: già era difficile tenerli a bada per sei ore a scuola, quindi non riuscivo ad immaginare come potesse essere conviverci per quattro giorni filati!
“Allora io vado, ok? Ci sentiamo più tardi. Mi raccomando, divertiti!”
“Sì … lo spero!” borbottai, mentre chiudevo lo sportello della macchina e raggiungevo gli altri.
“Bene, è arrivata anche Eleonora …. direi che ci siamo tutti, possiamo salire!” la professoressa di matematica, una dei nostri accompagnatori, ci precedette e salì sull’autobus.
Io invece salii per ultima, e mi bloccai appena riuscii ad intravedere tutti i sedili: ognuno dei miei compagni aveva un vicino! Come al solito, soltanto io non avevo nessuno: Sara, che spesso durante i viaggi che facevamo rimaneva da sola come me, pur di non dover essere costretta a starmi accanto si era seduta sulle ginocchia di Chiara e nonostante dalla sua espressione si capisse che non stava molto comoda sembrava comunque determinata a non spostarsi di un centimetro.
“Ci risiamo!” pensai, sospirando, e andai ad infilarmi in un posto vuoto. Avrei dovuto farci l’abitudine, ma il fatto che nessuno si degnasse di venirmi accanto come se avessi la peste mi feriva ancora molto.
 
 
Finalmente, dopo cinque ore di viaggio, arrivammo a Ravenna e raggiungemmo il posto in cui avremmo alloggiato: un piccolo villaggio turistico composto da molti bungalow.
Io fissai con tanto d’occhi le piccole costruzioni in legno: non ne avevo mai vista una prima di allora!
Fui costretta a tornare coi piedi per terra quasi immediatamente, però, perché le altre ragazze stavano decidendo con chi dovevo dormire: dopo un paio di animati battibecchi, si stabilì che dovevo stare con Elisa, Rebecca, Azzurra e Chiara. Mi erano capitate proprio le più false e cattive! Con una stretta al cuore vidi Annalisa, Elena, Martina, Roberta e Sara allontanarsi, visibilmente sollevate; dopodiché seguii le mie peggiori nemiche nel nostro bungalow, sperando ardentemente di avere meno problemi possibile.
“Allora” fece Azzurra dopo che ci fummo sistemate (a me era toccato il letto più esterno e non mi era stato concesso di appendere i miei vestiti nell’armadio perché a detta delle altre se l’avessi fatto avrei appestato i loro), io vorrei farmi una doccia. Voi che fate?”
“Io andrò a lavarmi dopo di te”, disse Rebecca.
“Allora io vado dopo Rebecca … ho anche portato la piastra per i capelli, quindi se volete dopo ve li sistemo. Ovviamente, l’invito non è per tutte quante!” ci tenne a precisare Elisa.
“E io allora la faccio dopo Elisa. Però non mi laverò i capelli, perché l’ho già fatto ieri!”, esclamò Chiara.
A quel punto la biondina si girò verso di me, in attesa, mentre le altre si allontanavano per tirare fuori dalle loro borse l’occorrente per lavarsi. Io ero molto lenta a fare la doccia, tutti in famiglia se ne lamentavano; non volevo che le mie compagne avessero un altro appiglio per lagnarsi di me, però, quindi non lo dissi e pensai di optare per qualcosa di più veloce. “Quando tutte avrete finito, io entrerò in bagno e mi laverò a pezzi”, spiegai alla mia unica interlocutrice.
“Eh? Ti lavi … a pezzi?” mi chiese lei, come se avessi annunciato di voler sbarcare il lunario.
“Sì, perché?” le domandai di rimando, altrettanto stupita. “La doccia la farò domani, non capisco dov’è il pro …”
“RAGAZZEEEEEEEEEEEEEEEEEEE! ELEONORA HA DETTO CHE NON SI VUOLE LAVARE!”
“Ma non è vero, ho solo detto che …”
“Non so voi, ma io non voglio che una che puzza mi stia vicina!”
“Ragazze, non datele retta, io ho solo cercato di spiegare che …”
“Basta!” mi interruppe Rebecca. “Se Chiara dice che tu rifiuti di lavarti, per noi è così. E dato che né io né loro abbiamo voglia di sentire le esalazioni di quel ramo rinsecchito che ti ritrovi come corpo, dopo che tutte abbiamo finito tu fili in bagno e fai la doccia, senza se e senza ma, altrimenti ti mettiamo a dormire fuori la porta. Sono stata abbastanza esplicita?”
“Sì, sì”, feci, andando a sedermi sul mio letto per aspettare il mio turno; dopo che le mie mani toccarono la coperta, però, incrociai lo sguardo di Chiara e mi resi conto che quella era solo la prima parte della sua vendetta.
 
 
Qualche minuto dopo entrai in bagno, portando tra le mani tutto ciò che mi serviva; dopo aver sistemato le mie cose chiusi la porta e mi tolsi la maglietta, buttandola sul coperchio del wc. Non mi sarebbe costato niente fare come mi aveva detto Rebecca, ma le loro assurde imposizioni mi avevano stancata: avevo il sacrosanto diritto di lavarmi come volevo, e non sarebbero state certo loro ad impedirmelo!
Appena aprii il rubinetto del lavandino, però, non potei fare a meno di sentirmi osservata; guardai nel buco della serratura, e vidi un occhio azzurro che mi fissava.
“CHIARA!” urlai, furiosa, e gettai la maglietta sulla maniglia per coprirle la visuale; lei, però, per nulla intimidita, urlò a sua volta: “TOGLI SUBITO QUELLA MAGLIA DA LI’, CAPITO? IO ESIGO DI VEDERE CHE TI LAVI!”
“E IO ESIGO LA MIA PRIVACY!” gridai di rimando. Poi,con voce più bassa ma tagliente, continuai: “Se non la smetti di seccarmi, dopo che ho finito prendo la lametta che hai portato per toglierti i peli dalle gambe e la uso per raparti a zero la testa, chiaro?”.
La mia minaccia, che naturalmente era ben lungi dall’essere attuabile, inspiegabilmente sortì effetto, e la mia compagna mi lasciò in pace; mentre l’acqua mi scorreva sulla pelle, pensai che se quello era il primo giorno, probabilmente i seguenti sarebbero stati ancora peggio.
 
 
La mattina dopo io e le altre ci recammo in silenzio a fare colazione nel bungalow più grande, che fungeva da ristorante; le mie coinquiline dopo una breve consultazione avevano deciso di rivolgermi la parola il meno possibile, e io invece di esserne addolorata avevo accolto la novità con enorme sollievo.
Appena arrivammo dentro, però, sentii due voci familiari che discutevano …
“Non sai proprio stare agli scherzi, vero Matteo?”
“E tu me lo chiami scherzo quello? Pretendi un po’ troppo, caro Davide!”
“Ragazzi, buoni!” tentai di calmarli. “Che è successo, si può sapere?”
“Chiedilo a tuo cugino!”
“Davide, glielo hai detto?” chiesi sbigottita al mio parente.
“Sì, certo! Mica è un segreto di stato in fondo, no? L’ho detto a tutti i maschi”.
Io lo guardai, allibita. Aveva detto a tutti i ragazzi che eravamo consanguinei … e non c’erano state prese in giro? Stavo forse sognando?
Visto che entrambi mi stavano fissando con aria strana, però, mi affrettai a chiedere di nuovo: “Ma insomma, che è successo?”
“Niente, stanotte volevo fargli uno scherzo e avevo intenzione di tirargli l’acqua addosso, solo che mi sono sbagliato e l’ho tirata sul muro …”
“Così è gocciolata sul mio cuscino e io stanotte non ho dormito!” concluse Matteo per lui. Effettivamente, date le borse che aveva sotto gli occhi era evidente che aveva avuto difficoltà a riposare!
“Davide, dai però … ma che scherzo è?” chiesi, un po’ irritata. “Non si fa!”
“Cosa, non si fa?” chiese Teodoro, che stava arrivando in quel momento insieme agli altri.
“Non sono affari che ti riguardano!”
“Suvvia Eleonora, ho fatto solo una domanda!”
Io, ostinata, restai in silenzio: anche se negli ultimi tempi aveva smesso di tormentarmi ed era persino gentile con me ancora non mi fidavo del tutto, così preferii prendere posto in un angolino defilato.
Il resto della mattinata trascorse senza incidenti, e il pomeriggio andammo a Mirabilandia: feci tutte le giostre tranne il Katun, che mi terrorizzava per la sua altezza, ma nessuno stranamente fece commenti: solo le ragazze si misero a sghignazzare dicendo che ero una gran fifona, ma io, piacevolmente sorpresa del fatto che nessuno dei maschi aveva detto cose tipo “Non salire dietro di me, altrimenti la tua bruttezza potrebbe distrarmi e farmi cadere” o ancora “Non toccare, altrimenti contamini tutto e io non so dove appoggiarmi!”, a malapena ci feci caso.
 
 
Il terzo giorno, il professore di italiano ci fece riunire nel cortile del villaggio, con aria seria; io ebbi uno strano presentimento.
“Allora ragazzi … avete presente il supermercato in cui siamo andati ieri? Ebbene, poco fa mi hanno riferito che i carrelli posti davanti all’entrata sono stati rovesciati, stanotte. Visto che siamo gli unici ospiti, qui, direi che è stato uno di voi, e anche se penso di sapere chi è stato è meglio che questa persona si faccia avanti da sola”.
Inutile specificare che nessuno si mosse; alla fine, visto che nessuno si decideva a parlare, il professore continuò “Bene. Allora, se le cose stanno così, oggi i ragazzi non giocheranno a calcio nel campetto!”
“Cosa???” sbottò Matteo, arrabbiato. “Ma non è giusto!”
“No, non lo è, ma almeno così la smetterete di fare gli immaturi!”. Detto questo se ne andò insieme alla professoressa di matematica, che era rimasta accanto a lui senza aprire bocca, e noi restammo soli.
“Non ci posso credere, ci ha proibito di giocare!!! E tutto per degli stupidi carrelli della spesa, ribaltati da chissà chi!”
“Calma, Matteo”, gli dissi, provando a riportarlo alla ragione “Ci andrete domani, non è il caso di agitarsi!” Sapevo bene che era un appassionato di calcio e quindi potevo capire il suo disappunto, ma non mi andava che si rovinasse la giornata per questo!
Restai lì vicino a lui per un po’ in attesa che dicesse qualcosa, ma visto che nemmeno mi guardava, cercai di svignarmela alla chetichella, avvilita; appena mi girai però mi ritrovai faccia a faccia con Teodoro, che mi guardava con uno strano sorrisetto dipinto sul volto.
“Che c’è?” chiesi, allarmata.
“Posso parlarti in privato?”
“Non credo proprio!”
“E dai, Eleonora …” si intromise Attilio, “Puoi andare benissimo, tanto non c’è rischio che ti stupri: sei troppo brutta!”
“Taci, cretino! Non sono cose da dire, queste!” lo rimproverai. “Ok”, dissi poi al mio compagno di colore, “Vengo con te. Ma ti avverto che se mi dici anche una sola parola sbagliata, ti pianto in asso e torno indietro!”
Così  girammo l’angolo, e dopo aver camminato un po’ finimmo proprio sulla stradina che conduceva al campo di calcio: ci sedemmo sulle gradinate, e visto che Teodoro non si decideva a parlare, decisi di iniziare io.
“Cos’è che volevi dirmi? Mica mi avrai fatta venire qui solo per ricordarmi che devo restituirti la gomma!”
“Eh?” mi chiese, guardandomi come se fossi impazzita. “Quale gomma?”
“Quella che mi hai prestato giorni fa durante la lezione di artistica!”
“Ah, sì, ora ricordo! No, te la puoi tenere, è un regalo … non è questo che volevo dirti”.
“Allora? Stai forse per dirmi che sei stato tu a buttare per terra i carrelli?”
“ Ehm, quella è un’altra storia … no, in realtà volevo solo chiederti scusa per come ti ho trattata in questi mesi”.
“Che??? Puoi ripetere mentre io mi do un pizzicotto sulla guancia, per favore? Così magari mi sveglio!”
“No, ferma, non ce n’è bisogno:  sto dicendo sul serio!”
“Ah, sì?” chiesi, non potendo evitare di far assumere alla mia voce un tono sarcastico. “E a cosa devo questo ripensamento? Adesso non sono più Scorfana, Frankenstein, Immondizia, Mostro di Lochness e chi più ne ha più ne metta?”.
“Tu non mi credi, vero?”
“Beh, puoi biasimarmi?”
“Ok, d’accordo … ma avrai pur notato che ultimamente non ti rompo più, no?”
“Ho semplicemente pensato che il giochino ti avesse stufato”
“E se ti proponessi la pace?”
“Quanto lunga? Ti conosco, lo so che tra qualche giorno saremo da capo!”
“Fino agli esami”.
Sembrava sincero, così decisi di concedergli fiducia. “Affare fatto. Ora possiamo tornare dagli altri?”
“Sì, va bene. Ma prima devo dirti un’ultima cosa!”
“E sarebbe?”
“Lascialo stare, è meglio: nemmeno ti vede … penso che tu sappia a chi mi sto riferendo”.
“Co … come lo …?”
“Mi credi cieco, forse?”
“Non è come pensi!”
“Ah no? Strano, sei diventata tutta rossa! Comunque, fai come credi, ma te lo ripeto: per il tuo bene, è meglio che rivolgi l’attenzione altrove!”
Qualche minuto più tardi, le mie compagne di bungalow si strinsero immediatamente intorno a me per sapere cosa ci eravamo detti io e il primo bulletto della classe, ma non aprii bocca e questo le indispettì ancora di più.
“Me ne frego di quel che pensano”, mi dissi. “Hanno una bella faccia tosta a parlarmi solo quando fa loro comodo! E’ proprio vero che per quanto gli uomini possano essere egoisti, falsi e calcolatori, le donne per natura lo sono cento volte di più!”
 
 
Il quarto e ultimo giorno, mentre tutti gli altri erano tristi per la partenza, io non vedevo l’ora di tornare: avrei finalmente riabbracciato il mio fratellino, che mi era mancato tanto!
Una volta saliti sul treno che da Bologna ci avrebbe riportati a Roma, mi misi in un angolo e guardai fuori dal finestrino, cercando di sognare ad occhi aperti per isolarmi dal chiacchiericcio che avevo intorno; purtroppo, qualcuno non me lo permise.
“Eleonora, io e le altre andiamo dai ragazzi, d’accordo? Torniamo tra poco!” mi informò Rebecca.
“Ok”, risposi rassegnata, ben sapendo che “Torniamo tra poco” probabilmente in realtà significava “Ci rivediamo alla fine del viaggio”; non chiesi di venire anche io perché ormai ero abituata a non vedermi inclusa in quello che facevano, e appena uscirono dallo scompartimento tirai fuori un romanzo rosa che avevo iniziato poco prima di partire: avrei avuto un bel po’ di tempo tutto per me senza subire prese in giro, e questa era davvero una fortuna insperata, da sfruttare al massimo!
 
 
Passò un’ora, poi ne passarono due, poi tre, e io iniziai a stufarmi: chi l’aveva stabilito che dovevo stare per forza da sola? Avevo diritto anche io di stare con i miei compagni, se lo desideravo! Così mi alzai e mi richiusi la porta alle spalle, guardandomi attorno: mentre cercavo di capire da che parte potessero essere gli altri però sentii qualcuno dire il mio nome, e mi precipitai in quella direzione.
“Sì, hai ragione, Enrico, Eleonora è maturata molto in questi mesi”, stava dicendo la professoressa di matematica al suo collega. “Come ho già detto a sua madre durante l’ultimo colloquio, è l’unica con un po’ di cervello, nella classe!”
Io mi bloccai prima di arrivare davanti al loro scompartimento, e mi misi in modo da poter origliare senza essere notata.
“Sì, gliel’ho detto anche io: pensa con la sua testa, e questa è un’ottima cosa … peccato che una ragazzina di tredici anni e mezzo difficilmente riesce ad apprezzare il fatto di non essere influenzabile! A quest’età vogliono sentirsi apprezzati dal gruppo, e quando questo non succede pensano che sia colpa loro e si demoralizzano, senza cercare di capire qual è il vero motivo delle prese in giro”.
Cercai di rielaborare tutto quello che stavano dicendo, ma in quel momento sentii un rumore, e non sapendo bene da dove provenisse decisi di tornare da dove ero venuta; arrivata a pochi passi dalla mia destinazione, però, mi resi conto che lo scompartimento non era vuoto come l’avevo lasciato: le altre erano tornate. E a giudicare da quel che dicevano, anche loro parlavano di me!
“Ma dov’è finita Eleonora?”  stava chiedendo infatti Azzurra.
“Boh … ma meglio che non c’è: almeno così possiamo parlare in santa pace!” le rispose Rebecca. “Non è che ha capito di essere inutile e si è buttata di sotto?”
“Magari, Becky, io non sarei così ottimista se fossi in te! Comunque, quello che è certo è che sta diventando davvero insopportabile: l’altro ieri ha osato minacciarmi, ricordate? Voleva rasarmi a zero i capelli! Ha! Scommetto che vorrebbe averli lei capelli splendidi e setosi come i miei! ”
A quel punto pensai di fare irruzione all’improvviso e dire a Chiara qualcosa tipo “Io invidiosa dei tuoi capelli? Ma se sembrano paglia!”, quando sentii Elena che iniziava a parlare e quindi mi risolsi a restare dov’ero.
“Forse, però non puoi negare che ha dei bei capelli. Io vorrei tanto avere un taglio come il suo! E vorrei anche avere gambe come le sue: le mie sono cortissime!”
“In effetti, le sue gambe sono molto lunghe: le mie a confronto sembrano ricotta, per questo mi dà tanto fastidio quando mi dice che ho la cellulite!”
Non riuscivo a crederci: le altre erano invidiose del mio fisico, ecco perché mi odiavano tanto!
“Già. E avete notato quanto mangia? Eppure non ingrassa! Io invece devo stare attenta ad ogni cosa, altrimenti mi va a finire tutto sui fianchi …” questa era Rebecca.
“Ora basta parlare di lei, però, passiamo ad argomenti più interessanti: Elisa e Attilio l’hanno già fatto, secondo voi? Rebecca, tu sei la migliore amica di Elisa, dovresti saperlo!” esclamò Azzurra, eccitata.
“Bene, è ora di togliere loro il divertimento”, mi dissi. 
“Ciao ragazze!” feci quindi qualche frazione di secondo dopo, spalancando di botto la porta e facendo un gran sorriso falso nello scorgere le loro facce deluse: “Sono tornata!”.
 
 
Qualche minuto più tardi, mentre ero in macchina con i miei, non riuscivo a togliermi dalla mente quello che avevano detto le mie compagne. I miei capelli erano scialbi, le mie gambe erano magrissime … perché mangiarsi il fegato per questo, quindi? Però se ne avevano parlato qualcosa di vero doveva pur esserci! “Mamma”, chiamai, “Ma è vero che io pur mangiando tanto non ingrasso?”.
Mi aspettavo che dicesse qualcosa come “Ma no, non essere ridicola!”, per cui mi sorpresi molto quando la sentii rispondere “Certo che sì, non dirmi che non te ne sei mai accorta!”.
“Bene” riflettei “Allora forse questo camposcuola non è andato poi così male, in fondo!”

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Giugno: giochi ... dolorosi ***


Capitolo 15 – Giugno: Giochi … dolorosi
 

A pochi giorni dagli esami, le lezioni erano ormai terminate e si andava a scuola solo per affrontare le ultime interrogazioni: visto che però tutti noi venivamo comunque anche quando non avevamo niente da fare, il professore di italiano aveva deciso di fare dei giochini che a suo dire servivano per farci svagare … purtroppo non aveva considerato che uno di questi potesse diventare facilmente un’arma a doppio taglio, e ovviamente a rimetterci fui io.
“Allora, ragazzi”, disse infatti l’insegnante quel giorno, “Oggi faremo un altro gioco: a turno, dovete dirmi il nome di una persona con cui vorreste e una con cui invece non vorreste assolutamente trovarvi su un isola deserta. Le uniche due regole che dovete rispettare sono: questa persona deve essere un vostro compagno di classe, e deve essere del sesso opposto al vostro. Tutto chiaro?”
Silenzio di tomba: io volevo protestare, ma per paura che gli altri mi si rivoltassero contro preferii desistere.
“Bene, allora. Cominciamo in ordine alfabetico … Attilio, tu? Con chi vorresti trovarti su un’isola deserta?”
“Con Elisa”.
“E con chi non vorresti trovarti, invece?”
“Con Eleonora!”
La cosa mi ferì, ma non più di tanto: potevo aspettarmi una risposta del genere da lui, e pensai che in fondo era soltanto il primo!
Fu solo quando anche Gianluca, Federico, Daniele, Marco, Riccardo, Andrea e persino Davide dissero la stessa cosa che iniziai a preoccuparmi, e quando toccò a Teodoro avevo il morale decisamente a terra: fino a qualche mese prima non avrei proprio considerato la sua opinione, ma in gita mi aveva proposto una tregua dalle cattiverie fino alla fine degli esami, quindi avevo dato ormai per scontato che si fosse stufato di prendermi di mira.
“La prossima volta impari ad adagiarti sugli allori, stupida!” mi rimproverai, “Dovresti saperlo ormai che appena ti rilassi capitano cose spiacevoli!”
Ma niente poteva prepararmi a quello che sarebbe successo di lì a poco, nel momento in cui arrivò il turno della persona a cui tenevo di più al mondo.
“Matteo, e tu cosa dici? Con chi vorresti stare su un isola deserta?”
“Ehm … con Rebecca”.
“E con chi non vorresti stare?”
“Con Eleonora!”
Mi sentii mancare la terra sotto ai piedi, e la testa prese a girarmi vorticosamente, come se al suo interno ci fosse un violento tornado. Mi sembrava di avere un buco al posto del cuore e una poltiglia al posto dello stomaco … avevo l’impressione di precipitare in un pozzo senza fondo, e l’unico pensiero coerente che riuscii ad avere fu “Devo uscire da qui, subito!”.
Così, appena il professore cedette la parola ad Azzurra, che era la quinta tra le ragazze a partecipare al gioco, alzai la mano e chiesi il permesso di allontanarmi dall’aula; arrivata in bagno, mi precipitai verso la prima porta che attraversò il mio campo visivo e me la chiusi velocemente alle spalle, scoppiando poi in un pianto dirotto.
“Ma cosa ti aspettavi?” dissi a me stessa mentre le lacrime mi scendevano copiose giù dalle guance “Mica poteva dire qualcosa di diverso, dopo che tutti i suoi amici ti avevano indicata come esempio negativo … e poi come pretendi che possa guardarti, brutta come sei?”
Mi sentivo svuotata, inutile, totalmente da buttare: cosa c’era di tanto orribile in me? Su venti persone non ero riuscita a farmi neanche un amico, e anzi, ero addirittura la sfigata della classe; in più, il ragazzo che amavo non si accorgeva nemmeno della mia esistenza, ferendo i miei sentimenti come se fossi un oggetto inanimato!
Mi stavo giusto chiedendo per l’ennesima volta dove avessi sbagliato con loro, quando cominciai a sentire un suono strano e smisi di piangere per capire da dove proveniva: era la porta!
“Occupato!” gridai, per quanto mi era possibile date le mie condizioni.
“Eleonora? Sei tu?”
Non mi andava proprio di aprire, ma mi rendevo perfettamente conto di non poter restare lì tutto il giorno e così mi decisi a farlo: mi ritrovai davanti Edlira, con il velo sulla testa e la sua pancia di nove mesi.
“Oddio, devi andare in bagno?” feci, allarmata. “Vai pure, tanto io qui ho finito!”
“No, ho già fatto, grazie … ci sono andata poco fa, ma ti ho sentita piangere e quindi ho pensato di vedere come stavi”.
“Davvero ci sei andata poco fa?” dissi, tentando di portare il discorso su di lei per evitare di dover parlare di me. “Non ti ho sentita!”
“E lo credo bene! Ma che ti è successo?”
“Niente!”
“Come no … ti va di parlarne?”
Stavo per dirle “No, non mi va!” per poi tornarmene in classe, ma mi fermai: in realtà, avevo una gran voglia di sfogarmi con qualcuno, anche se non totalmente! Quindi le raccontai tutto, soprassedendo però sulla cosa che mi aveva fatto più male di tutte e che mi aveva ridotta in quello stato.
“Sul serio hanno fatto questo? Ma … i tuoi compagni sembrano così carini!”
“Cosa??? Carini? Se ti raccontassi quante me ne hanno combinate finora, resteresti sorpresa! I tuoi compagni invece sì che sono carini, sia i maschi che le femmine!”
“Non è vero, sono antipatici: mi prendono sempre in giro, mi isolano … i ragazzi mi dicono che sono brutta e che se tocco qualcosa rischio di infettarla, le ragazze invece fanno battute sulla mia intelligenza”.
La guardai, sorpresa. “Dici sul serio? Sono le stesse identiche cose che i miei compagni di classe fanno a me! I maschi mi attaccano per il fisico, le femmine per l’intelligenza!”.
Poi improvvisamente mi ricordai di dove eravamo, e aggiunsi “Ora è meglio andare, però: se tardiamo ancora un po’ verranno a cercarci! Sono contenta di non essere la sola in questa situazione, comunque: se ti serve qualcosa puoi contare su di me, ok?”.
“Va bene: anche tu puoi fare lo stesso, ricordatelo!”.
Mi lavai velocemente la faccia e poi ci separammo; quando tornai in classe, scoprii che gli altri mi stavano aspettando, perché era arrivato il mio turno di giocare.
“Li farò rimanere di stucco!” pensai, sentendomi pervadere da una determinazione nuova.
“Eleonora! Finalmente, stavo cominciando a preoccuparmi! Va tutto bene?”
“Sì professore, tutto a posto!”
“Se lo dici tu … allora: con quale ragazzo della classe vorresti stare su un’isola deserta?”
Cercai di ignorare i bisbigli dei miei compagni, che scommettevano su chi potesse essere il fortunato, e avendo cura di scandire bene le parole dissi “ Mi dispiace, ma io non dirò niente: non voglio partecipare”.
“Come? Non vale! Abbiamo giocato tutti, devi farlo anche tu!” protestò Elisa.
“Eh, sì, infatti!” le fece eco Azzurra.
“Ma io non voglio!”
“Devi per forza: di’ un nome a caso!” si intromise Sara
“Sara, perdonami: quale parte di ‘non voglio partecipare’ non ti è chiara?”
“Perché non vuoi?” mi chiese il docente “Mica ti mangiamo!”
“Mangiarmi forse no, ma loro mi prenderebbero in giro, quindi non ho intenzione di parlare!”
“Facciamo così: se qualcuno ti prende in giro, ti assicuro che gli metto una nota di demerito!”
“Ho detto NO.”
Fui irremovibile: alla fine sia l’adulto che i miei coetanei, stanchi di sbattere contro un muro di gomma, mi lasciarono in pace. Per le mie compagne fu una rassegnazione momentanea però, perché appena l’ora finì tornarono alla carica e mi rimproverarono aspramente per non aver aperto bocca: nonostante questo, le ignorai deliberatamente e mi ritirai nel mio solito angolino, aspettando l’arrivo della professoressa di inglese.
“Non mi importa se in questo momento sembrano odiarmi ancora più di prima” mi dissi “Almeno adesso so che nella scuola c’è qualcuno che mi capisce, e forse potremmo darci una mano a vicenda e diventare davvero amiche!”
 

 
 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 - Giugno: Esami ***


Capitolo 16 – Giugno: Esami
 

“Eleonora, sei sveglia?” mi fece mia madre.
“Se sono sveglia? Ma se non ho praticamente chiuso occhio per tutta la notte!” pensai. Non mi andava di confessarlo, però, così optai per un sobrio: “Sì mamma, ora vado a lavarmi!” e puntai verso il bagno.
Una volta dentro, presi a sciacquarmi il viso cercando di non pensare alla giornata che mi attendeva: quella mattina avrei dovuto affrontare la seconda prova scritta, matematica. La prova di italiano del giorno precedente era andata bene ed ero convinta di potermela cavare anche per quella dell’indomani, ossia inglese, ma le espressioni e i problemi mi preoccupavano parecchio perché nel corso dell’anno non ero mai riuscita a risolverli!
Avevo una paura terribile: cosa sarebbe successo se avessi consegnato il foglio in bianco? Cosa avrebbero detto gli altri? E la mia famiglia?
Nonostante avessi una voglia matta di tornare a nascondermi sotto le coperte e restarci fino all’ora di cena, comunque, mi costrinsi a finire di lavarmi, a vestirmi ed infine ad uscire di casa per dirigermi verso la scuola.
 
 
Qualche tempo dopo, ero intenta a fissare il foglio protocollo che avevo davanti: nonostante avessi provato innumerevoli volte a svolgere gli esercizi, non me ne era venuto nemmeno uno. 
“E adesso? Come faccio? Dov’è che sbaglio?” pensai in preda al panico, rileggendo freneticamente ogni singola riga che avevo scritto; alle mie spalle i miei compagni si davano di gomito e bisbigliavano, consultandosi tra loro, mentre la professoressa era intenta a consultare alcuni documenti.
“Beati loro”, riflettei, sconsolata. “Almeno in qualche modo se la caveranno! Io invece verrò bocciata di sicuro …” In quanto sfigata della classe sapevo di non poter chiedere un aiuto agli altri, perché in quel caso loro mi avrebbero sicuramente riso in faccia e mi avrebbero invitata ad arrangiarmi da sola, ricordandomi che le scorfane come me non avevano diritto di domandare niente. Sentendo di non avere altra scelta, quindi, feci per alzarmi con l’intenzione di andare alla cattedra a consegnare tutto, quando mi sentii battere sulla spalla; mi girai, alquanto sorpresa, e vidi mio cugino Davide che mi fissava.
“Cosa c’è?” chiesi, muovendo solo le labbra.
“Questi te li manda Matteo”, mi rispose lui a bassa voce, mostrandomi alcuni foglietti spiegazzati.
“Oh!” esclamai, cercando di ignorare il fatto che il mio stomaco aveva preso a fare le capriole appena avevo sentito il nome della persona che amavo: nonostante quello che aveva detto qualche settimana prima durante uno dei giochi organizzati dal professore di lettere, infatti, lo avevo già perdonato, e i miei sentimenti per lui non erano cambiati di una virgola. “Cosa sono esattamente quei pezzi di carta?”, domandai ancora a bassa voce, non volendo essere troppo ottimista.
“Sono i fogli con tutti gli esercizi svolti. Ricopiali, dai!”
Mi sentii pervadere da immense ondate di gioia, miste a grande incredulità: possibile che io che ero sempre stata sbeffeggiata e derisa da tutti potevo finalmente avere le stesse opportunità dei miei coetanei lì presenti? Per assicurarmi che non fosse tutto un bluff, presi velocemente i bigliettini e cercai con lo sguardo Matteo; dopo aver attirato la sua attenzione, gli chiesi sempre tramite labiale se potevo davvero copiare.
“Ovvio che sì!” mi disse lui, usando la mia stessa tecnica di comunicazione. “Sennò che te li ho dati a fare? Dai, su!”
“Ok, grazie!” feci io, e mi affrettai a voltarmi per iniziare finalmente a scrivere.
“Allora non è tutto perduto: Matteo è bravo in matematica, forse riuscirò a passare l’esame!” pensai, sollevata.
 
 
Il resto delle ore a disposizione trascorse in modo più tranquillo, e il giorno successivo riuscii a cavarmela bene anche senza aiuti; il giorno dell’orale però il panico tornò a farsi sentire forte e chiaro, e mia madre invece di aiutarmi peggiorò le cose.
“Eleonora, sei pronta??? Perché non cominci ad andare su?”
“Mamma, te l’ho già spiegato mille volte … manca poco più di un’ora e mezza al mio esame, ci hanno dato il calendario! Cosa ci vado a fare a scuola, adesso?”
“E se per caso i tuoi compagni finiscono in anticipo?”
“Mamma, per favore, sono già ansiosa di mio non ti ci mettere pure tu!”. Ma il danno era fatto: inquieta, mi decisi a finire di prepararmi e uscii di casa.
 
 
Una volta varcato il cancello dell’edificio scolastico, scorsi Rebecca seduta su un muretto del cortile. “Eleonora!” esclamò vedendomi arrivare, “Meno male che sei qui! Sbrigati, su, tra poco tocca a te!”
“Cosa???” sbottai io, accelerando il passo. “Allora mia madre aveva ragione!” pensai agitata mentre varcavo la soglia.
Appena entrata, però, notai che Matteo passeggiava nervosamente avanti ed indietro, quindi capii che mancavano ancora due persone prima che arrivasse il mio momento; maledissi la mia ingenuità e non sapendo cos’altro fare andai ad unirmi alle altre, che tese com’erano non protestarono per la mia intrusione.
 
 
Poco dopo, Martina uscì, e le altre ragazze si strinsero attorno a lei per sapere come era andata; io invece mi staccai ed andai ad augurare buona fortuna a Matteo.
“Grazie, speriamo in bene!” mi rispose.
“Posso venire a vedere il tuo esame?” osai chiedere, sapendo che lui aveva autorizzato gli altri ad assistere, qualora avessero voluto.
“Sì, certo!” mi fece stupito, come se fosse una cosa scontata. Per me invece non lo era affatto, e mi sentii come se mi stesse facendo un grande regalo!
Entrai quindi dietro di lui, e mi sedetti in fondo all’aula insieme a Teodoro, Attilio, Riccardo, Davide e Marco, che avevano già finito ma erano rimasti comunque lì per dare supporto a chi ancora mancava.
“Ancora non ti è passata?” mi disse Teodoro con un sussurro quasi impercettibile.
“No. Non è una cosa che funziona a comando, lo sai bene!” bisbigliai di rimando.
“E’ vero. Ma per il tuo bene, è meglio che lo lasci stare …”
“Perché lui tanto non mi si filerà mai. Me lo hai già detto!” esclamai brusca; irritata e decisa a non ascoltarlo più, mi concentrai sull’esame.
 
 
Alla fine, Matteo uscì e fu la volta di Azzurra; quando anche lei ebbe concluso, toccò a me.
Entrai in aula, tremando: ero terrorizzata, avrei voluto fondermi con il pavimento e sparire!
“Eleonora, sei agitata?” mi chiese la Spagnoli, l’insegnante di musica.
“Eh … sì, un po’!”
“Ti va di cominciare con la canzone che hai preparato durante l’anno?”
Le sorrisi, grata: non era difficile capire che me l’aveva proposto per mettermi a mio agio, e perché sapeva che il canto mi avrebbe dato un po’ di coraggio per affrontare anche tutte le altre materie. Così, presi fiato, mi misi al centro della stanza e iniziai:

Ehi, adesso come stai?
Tradita da una storia finita,
e di fronte a te l’ennesima salita …
Un po’ ti senti sola,
nessuno che ti possa ascoltare e divida con te i tuoi guai!
Mai,
tu non mollare mai.
Rimani come sei, e segui il tuo destino
Perché tutto il dolore che hai dentro
Non potrà mai cancellare il tuo cammino …

 

La melodia aveva fatto il miracolo: concentrandomi sulle parole avevo quasi dimenticato dov’ero, e mi sentivo più libera e serena … fui però costretta a tornare coi piedi per terra nel giro di poco tempo, perché la professoressa mi richiamò quasi subito per farmi smettere.
“Basta Eleonora, per me va benissimo così. Come ho già detto più volte a te e ai tuoi compagni in classe, voi non ve ne rendete conto, ma le canzoni che avete scelto rispecchiano i vostri pensieri più profondi, i vostri sogni, le vostre aspirazioni e le vostre preoccupazioni: quando sarai uscita da qui, riflettici e fanne tesoro per la vita futura, d’accordo?”
Io la guardai, sbigottita: che senso aveva quel suo discorso? Quello che avevo cantato non aveva nulla a che fare con la mia vita! Ritenevo che non fosse saggio farglielo notare, però, così le risposi con un semplice: “Sì, va bene!”
Il professore di lettere attirò la mia attenzione. “Con cosa vuoi cominciare, tra le mie materie?”
“Ehm … con storia!” esclamai. “Va bene tutto, purché finisca presto!” pensai, ansiosa.
“Lo immaginavo … allora, dimmi: nel periodo della seconda guerra Mondiale, chi governava in Russia?”
“Iosif Vissarionovic Dzugasvili, altrimenti noto come Stalin!”
“Benissimo. Me ne parli?”
“Nato in Georgia nel … dicembre del 1878, in gioventù fu un acceso rivoluzionario socialista …”
Senza neanche rendermene conto, dopo qualche tentennamento dovuto all’emozione parlai del periodo storico richiesto con molta fluidità; una volta finito con storia, il professore mi fece alcune domande sul decadentismo e seppi rispondere bene anche a quelle.
Poi fu la volta di scienze e inglese: l’argomento che portavo era lo stesso per entrambe, solo che ovviamente era scritto in lingue diverse; con la Napolitano filò tutto liscio, con la Delle Fratte invece confusi il paradigma di alcuni verbi irregolari, ma mi ripresi velocemente appena mi accorsi dell’errore: la professoressa, nonostante non nutrisse una gran simpatia per me, fu indulgente.
Una volta finito con loro, con mia grande sorpresa, la commissione mi congedò senza farmi fare le altre materie: da una parte ero sollevata perché finalmente l’avventura era conclusa, dall’altra invece mi seccava perché mi ero davvero impegnata molto per cercare tutti i collegamenti per la tesina e per fare i disegni che i docenti di disegno tecnico e di disegno artistico avevano richiesto!
 
 
Dopo l’esame chiamai i miei genitori e dissi loro che sarei rimasta a scuola per vedere gli esami degli altri cinque compagni che mancavano: avrei potuto anche evitare di farlo, dato che per gli altri di solito se c’ero o no faceva lo stesso, ma dentro di me sentivo che stare lì era la cosa giusta. Quando poi l’ultima della classe, ossia Elena, uscì dall’aula, mi avviai in fretta verso casa,con le lacrime agli occhi: nonostante mi avessero offesa e umiliata per un anno intero, il fatto di non rivederli più mi causava profonda tristezza …
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 - Giugno: la promessa della terza B ***


Capitolo 17 – Giugno: la promessa della terza B

 

Il ventidue giugno era il giorno dell’uscita dei risultati: io non mi ero messa d’accodo con nessuno dei miei compagni per andare a vederli, così quella mattina mi avviai da sola, convinta che non li avrei incontrati.
Invece, li vidi quasi tutti lì, accalcati davanti alla porta della scuola; sperando che la tensione per il voto impedisse loro di fare le solite battute perfide mi avvicinai anche io, e arrivata davanti all’elenco dei nomi presi la penna ed il foglio che mi ero portata dietro e cominciai a ricopiare:

ANDREA = BUONO;
ANNALISA = BUONO;
ATTILIO = SUFFICIENTE;
AZZURRA = SUFFICIENTE;
CHIARA = SUFFICIENTE;
DANIELE = SUFFICIENTE;
DAVIDE = SUFFICIENTE;
ELENA = SUFFICIENTE;
ELISA = SUFFICIENTE;
FEDERICO = SUFFICIENTE;
GIANLUCA = BUONO;
MARCO = SUFFICIENTE;
MARTINA = BUONO;
MATTEO = DISTINTO;
REBECCA = SUFFICIENTE;
RICCADO = BUONO;
ROBERTA = BUONO;
SARA = SUFFICIENTE;
TEODORO = SUFFICIENTE;
IO = BUONO
 

“Quindi, ricapitolando, siamo a: 12 sufficienti, 7 buoni e un distinto …” pensai.
Tornai a fissare il mio voto: non mi importava affatto di come era andata, ma già sentivo nella testa le voci dei miei genitori che mi dicevano cose come “Perché un voto così basso? Possibile che non riesci mai ad essere la prima della classe, devi essere sempre una delle tante?”.
Sospirai, rimisi foglio e penna dentro allo zaino e feci per andarmene, quando mi sentii battere sulla spalla.
“Ehi, ma tu proprio adesso dovevi venire?” mi fece Sara, contrariata.
“Scusa? Perché, esiste forse un momento giusto o uno sbagliato per venire a vedere i risultati del mio esame?”
“Sì: saresti dovuta venire più tardi, così non ti vedevo. Mi dai fastidio, persino la tua presenza è irritante!”
“Sara, tu sei sicura che andrai alle superiori, il prossimo anno? Te lo chiedo perché dai ragionamenti immaturi e stupidi che fai dovresti tornare all’asilo! Comunque, se ti do fastidio sono problemi tuoi, nessuno ti costringe a restare: tanto il tuo voto schifoso l’hai già visto, no? Puoi benissimo andartene!” Detto questo mi girai, con l’intento di andare a vedere come se l’erano cavata i ragazzi della terza C.
“Federica!” chiamai, intravedendo la gemella di Sara poco più in là, insieme a tutti i suoi compagni.
“Eleonora! Ciao! Come ti è andata?” mi chiese.
“Ho preso buono! Tu?”
“Sufficiente, ma me ne frego, anche se i miei mi romperanno le scatole per una settimana!”
“Soltanto? Beata te! A me i miei renderanno la vita impossibile da qui fino a settembre!”, esclamai, andandole vicino e infilandomi tra le sue compagne di classe.
“Allora ragazze”, dissi loro “Come vi è andata?”
Ci fu un coro di “Bene!” e io guardando il loro elenco potei constatare che effettivamente era vero: c’erano una marea di buono e distinto, più un ottimo. Di sufficienti non ce ne erano!
“Ele!” disse una voce.
“Edlira!” feci io stupita, girandomi. “Ma non dovevi partorire due giorni fa?”
“Sì, ma mica è detto che i bimbi nascano esattamente nel giorno indicato!”, mi rispose sorridendo, con entrambe le mani posate sul pancione.
“Già, è vero … dai, togliamoci da qui e andiamo a sederci sul muretto del cortile”, le dissi poi, preoccupata che potesse inavvertitamente ricevere qualche botta alla pancia o qualche spintone, data la ressa che c’era. “Tanto hai già visto quanto hai preso, no?”.
“Sì, sì, ho preso buono”.
“Anche io! Ma ho notato che tra voi c’è anche una persona che ha preso ottimo: chi è?”, chiesi, mentre ci sedevamo all’ombra.
“Alessandra”.
“Cosa? Quella smorfiosa antipatica ha preso ottimo???” pensai.
Ovviamente mi guardai bene di esprimere questi concetti ad alta voce, e dissi invece “Oh, che brava! Ma c’è, adesso? Vorrei andare a farle i complimenti!”.
Edlira si guardò intorno. “Eccola!” mi disse, indicando l’altra parte del cortile.
“Dove?” feci io, presa in contropiede: non volevo davvero andare a parlare con la mia rivale in amore, l’avevo detto solo per dire!
“Lì! Sta parlando con Matteo, la vedi?”
“EH?” Scattai subito in piedi, guidata dal mostro dagli occhi verdi. “Sì, l’ho vista … vado da lei e torno, d’accordo? Tu aspettami qui, non ci metterò molto!”
“Il tempo di ucciderla e tornare!” aggiunsi tra me e me.
Mentre camminavo, mi imposi di stare calma: che figura avrei fatto se mi fossi presentata arrabbiata? Tanto valeva farle i complimenti per davvero e andarmene via il prima possibile! Quando fui abbastanza vicina, non potei evitare di sentire qualche stralcio della loro conversazione.
“Allora, hai preso ottimo? Ma che brava!”
“Dai, ma che dici … brava io? E’ stata solo fortuna!”
“Oh no invece, se l’hai preso vuol dire che te lo sei meritato!”
“Ciao ragazzi!” li interruppi io con una voce di un’ottava superiore alla norma, e finsi di non notare l’occhiataccia che mi lanciò il mio compagno di classe.
“Ciao Eleonora!” mi rispose Alessandra.
“Volevo soltanto complimentarmi con te per il tuo voto! Brava!”
“Grazie! Tu quanto hai avuto?”
“Buono”, feci, facendo una smorfia. Mi vergognavo un po’ davanti a loro, visto che avevano preso più di me!
Seguì un breve attimo di silenzio: dentro di me sapevo che la cosa giusta da fare sarebbe stata trovare una scusa e andarmene via, soprattutto perché avevo lasciato Edlira ad aspettarmi … ma restai dov’ero, e mi rivolsi a Matteo.
“E a te com’è andata?”
“Guarda, non me ne parlare”, mi rispose, seccato. “Ho preso distinto!”
“Ah, sì?” domandai, fingendomi stupita. “Grande!”
“Macché grande, ho fatto schifo!”
“Sei sempre il solito”, lo rimproverai bonariamente, scuotendo la testa. “Sei stato il più bravo della classe, non capisco di che ti lamenti!”
“E allora? Io volevo di più!”
“Che ti importa? Tanto mica devi andare a lavorare con la licenza media! Sei stato davvero bravis …” Non finii la frase, perché mi sentii tirare per un braccio.
“Ma cosa??? TEODORO, CHE FAI???” ruggii, dopo aver individuato la fonte del disturbo.
“Credo che tu debba venire con me!” affermò lui senza mollare la presa.
“E perché?”
“Perché sì. Andiamo, su!” mi disse, tirandomi via senza riguardi.
 
 
“Ma sei diventato matto?”  gli chiesi pochi secondi più tardi, “Mi hai fatto male!”
“E capirai, quante storie per una strattonata!”
Avrei voluto puntualizzare che quella non era stata una semplice strattonata, dato che mi aveva letteralmente trascinata di peso, ma rinunciai. “Perché l’hai fatto, comunque?”, gli chiesi invece.
“A te piacerebbe che qualcuno si mettesse in mezzo quando stai parlando con la persona che ti piace?”
“Io non mi sono messa in mezzo!”
“Ah no?”
“Non fare quella faccia scettica … stavo solo chiedendo a Matteo come era andato, niente di più! Pensa che mi stava giusto dicendo che è rimasto deluso dal voto”.
“Ovvio che te lo ha detto, lo sai bene che per carattere è uno che punta sempre in alto e poi si arrabbia con se stesso se le cose non gli riescono perfette …”
“Già …” mio malgrado, non potei evitare di sorridere come un’ebete. “Ma questo non vuol dire nulla”, continuai poi, tornando seria. “Mica stanno insieme, no? O mi sono persa qualche passaggio?”
“Non ti sei persa niente … ma so riconoscere una donna gelosa quando la vedo, quindi ho pensato che fosse meglio farti allontanare!”
“Bene, bravo, hai fatto la tua buona azione. Posso andare da Edlira, adesso?”
“Vai, vai … sei proprio una causa persa!”
Invece di rispondergli a parole gli feci un gesto spazientito, dopodiché gli voltai le spalle e raggiunsi la mia amica.
“Scusami!” le dissi, “Teodoro mi ha trattenuta …”
“Ho notato! Ma che ti ha detto?”
“Niente di importante, le solite cretinate. Mi dispiace soltanto di averti lasciata qui da sola per tutto questo tempo!”
“Non ti preoccupare, sto bene!” mi rassicurò, sorridendo. Poi cambiò espressione. “Guarda lì! Ma che combinano le tue compagne?”
Seguii il suo sguardo, e vidi tutte le ragazze della mia classe, esclusa Sara che evidentemente se ne era già tornata a casa, che si stringevano commosse in grossi abbracci: nonostante mi avessero sempre maltrattata, a quella vista non potei fare a meno di provare un qualcosa di molto simile all’affetto!
Incuriosite, io ed Edlira ci alzammo e andammo verso di loro, e una volta arrivate, sentii Rebecca dire alle altre: “Oh, ragazze … ci pensate? Dopo oggi non ci rivedremo più!”
“Già!” le fece eco Azzurra, “Da una parte è un bene, perché non vedremo più alcune persone …” continuò, guardando me, “Ma dall’altra è molto triste, perché la nostra classe non potrà più essere unita come prima!”.
“Facciamoci una promessa”, intervenne Elisa, dopo aver chiamato a raccolta anche i ragazzi e dopo avermi invitata  con un occhiata minacciosa a non avvicinarmi troppo, perché non ero gradita. “La terza B resterà sempre unita, ci vorremo sempre bene e cercheremo di incontrarci  il più possibile! Che ne dite?”
Ci fu un commosso coro di “Sì!” a cui io non mi unii, come mi era stato imposto: comprendendo che ormai non avevo più nulla da fare in quel cortile, dissi ad Edlira che per me era arrivato il momento di tornare a casa.
“Non ti dispiace il fatto che non ti abbiano voluta in mezzo a loro neanche oggi?” mi domandò, mentre ci lasciavamo il cancello della scuola alle spalle per l’ultima volta.
“Beh, non mi ha fatto molto piacere”, ammisi. “Però, stranamente, voglio  bene a tutti loro, soprattutto ai maschi: ormai ho capito che loro non mi odiano davvero, lo dicono solo per far piacere a Teodoro, il quale preso da solo riesce anche ad essere simpatico, quando vuole. Le ragazze sono diverse, non riesco a capire il loro comportamento, ma non ho rancore verso di loro: tanto dopo oggi non le rivedrò più! Ma io e te ci rivedremo, vero? Magari quando il bambino sarà nato e tu avrai tempo!”
“Ma certo! Perché no?”
Sorrisi, felice: possibile che io, che per un intero anno scolastico ero stata chiamata “Scorfana”, “Frankenstein”, “Immondizia” e “Mostro di Lochness”, fossi finalmente riuscita a trovare un’amica?
 

 
 
 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 - Epilogo ***


Capitolo 18 – Epilogo
 

Due anni dopo

 

Seduta su una panchina del parco, guardo i bambini che in un punto poco distante occupano scivoli e altalene, e ripenso al giorno in cui Edlira, con suo figlio in braccio, venne a salutarmi prima di partire alla volta dell’Albania, suo paese d’origine. “Chissà, magari se fossero rimasti qui adesso anche lui starebbe giocando insieme agli altri!” penso. Ma le cose cambiano, o almeno, per me ne sono cambiate diverse. Soltanto una è rimasta uguale …
Dopo la partenza della mia unica amica, sono entrata a far parte del gruppo dell’oratorio come animatrice parrocchiale, e lì oltre a ritrovare vecchie conoscenze ne ho fatte anche di nuove: così ora ho un gruppo di persone che credo di poter definire amici, cosa impensabile per me ai tempi delle medie.
Anche sul fronte scolastico le cose sono migliorate; i miei nuovi compagni di classe non mi prendono in giro per il mio aspetto fisico e le ragazze mi rispettano, anche se non riescono a capire come mai io sia tanto ostile alla cannabis che loro invece consumano in gran quantità!
Riguardo i miei ex compagni, invece, è inutile specificare che il loro sogno di restare sempre uniti si è sgretolato già dai primi mesi di scuola superiore: da diciannove che erano sono diventati presto in sedici, perché Teodoro, Sara e Matteo hanno deciso di farsi altri amici; poi col passare dei mesi si sono ulteriormente divisi in tanti piccoli gruppetti a sé stanti.
In questi due anni mi è capitato di incrociarli spesso, ma quando succede solo i ragazzi si degnano di fermarsi per scambiare due parole; le altre fanno sempre finta di non vedermi, oppure mi salutano come se mi stessero facendo un favore. Quindi, non posso fare a meno di stupirmi vedendo una figura familiare dirigersi verso di me …
“Rebecca! Ciao, come stai?” chiedo, facendo un enorme sorriso falso.
“Eleonora, tesoro! Ma quanto sei abbronzata! Sei stata al mare?”
“Sì, in Abruzzo. E tu, ci sei già andata in vacanza?” domando ancora, anche se  in realtà vorrei dirle “Dimmi cosa vuoi e sparisci, per favore!” La conosco bene, so che non è qui per caso.
“No, non ancora, ci andrò tra due settimane … intanto, mi tengo informata sui pettegolezzi del paese”.
“Wow, sembra interessante”, dico meccanicamente, anche se non me ne può importare di meno. Sto cercando il modo più educato possibile per dirglielo, quando lei continua.
“A proposito di pettegolezzi … ma è vero che esci con i ragazzi dell’oratorio?”
“Sì che è vero: non è un mistero, dato che li vedo tutti i pomeriggi. Anzi, a dire il vero dovrebbero arrivare a breve!” aggiungo sperando che Rebecca mi lasci sola, ma lei non molla.
“E vuoi loro bene? Sono tuoi amici?”
“Sì! Ma non vedo come questo possa interessarti, sinceramente”.
“Sono più simpatici di noi?”
“Noi chi?”
“Non fare l’ingenua, sai cosa intendo … noi, la ex terza B. La nostra classe. La tua classe!”
“La mia classe?” sbotto, sentendo improvvisamente riaffiorare tutti i ricordi dolorosi di quell’anno. “Quando mai la terza B è stata la mia classe? Mi avete sempre trattata come un escremento umano, mi avete sempre esclusa dai vostri giochi, dalle vostre feste, dalle vostre chiacchiere; e ora tu osi venirmi a chiedere se ho trovato gente migliore di voi, con il tono di chi sta subendo un grave oltraggio? Ebbene la risposta è sì: i ragazzi e le ragazze che frequento ora sono molto, ma molto meglio di voi!”.
Dopo questa sfuriata mi aspetto che la mia ex compagna se ne vada, e invece, con mio grande disappunto, non solo resta dov’è, ma sfodera anche un sorrisetto compiaciuto che non mi piace affatto.
“Vedrai, se sono davvero meglio di noi … io non credo, perché siamo il meglio che c’è in paese. Comunque, mi pare che uno della classe sia nel tuo gruppo di amici, adesso, o mi sbaglio?”
Il mio cuore inizia a battere furiosamente a quelle parole, ma con grande sforzo riesco a mantenermi calma e a dire: “Sì, è Matteo. Perché me lo chiedi?”
“Perché mi pare che lui ti sia simpatico, anche se era in una classe di cui tu dici tanto apertamente di non aver mai fatto parte! Gli vuoi bene?”
Il sorrisetto di Rebecca non accenna a svanire, e io comincio a preoccuparmi. “Possibile che Teodoro abbia detto loro qualcosa?” penso, agitata. “No, non lo è”, rifletto poi “Se avesse parlato l’avrebbe saputo già tutto il paese, e sarei stata presa in giro a tutto spiano!”
Sollevata,  rispondo quindi con un sincero: “Sì, gli voglio bene. Ma non fraintendermi, io voglio bene a lui per come è, non perché ha fatto parte della tua classe!”
“Quindi vi confidate?”
“Non sono cose che ti riguardano!” Sto iniziando a stufarmi, vorrei solo che se ne andasse per non vedere più quel suo ghigno furbetto.
“Allora non sai proprio tutto di lui … e se ti dicessi che si è fidanzato?”
“Ecco dove voleva arrivare!” mi dico. “Vuole farmi capire che anche se ho cambiato compagnia, sono sempre una sfigata indegna di confidenze. Ma ho una sorpresa per lei: per me questa notizia non è affatto una novità!”
“Ma è successo un mese fa! Non dirmi che l’hai saputo soltanto ora!” esclamo.
“Che? Lo … lo sapevi già?”
“Certo, me lo ha detto lui stesso!” rivelo, cercando di non gongolare troppo vedendo l’espressione sconvolta della mia coetanea. In realtà quando Matteo mi ha detto di essersi messo con una ragazza di un anno più piccola di noi ci sono rimasta malissimo, e ancora ci soffro … ma questo lei non può saperlo!
“Ma guarda … chi l’avrebbe mai detto …”
“Mi dispiace di averti scombinato i piani, Becky”, dico, per nulla impietosita. “Ma vedo che sta arrivando uno dei miei amici, quindi devo andare: tu perché non torni dal tuo nuovo fidanzato, che è Riccardo, e dalla tua best friend Elisa che invece a quanto ne so si è messa con il tuo ex?”
Sorrido soddisfatta vedendo l’espressione sempre più stupefatta della mia interlocutrice, e mi allontano da lei per andare incontro a quello che a detta delle mie nuove amiche è il più figo del gruppo: peccato che, avendo solo tredici anni, a me fa venire un altro tipo di istinto.
“Ciao Eleonora! Da quanto sei qui?” mi domanda, spalancando i suoi occhi color del mare.
“Ciao Federico … sono qui da circa un quarto d’ora. Ho fatto una breve chiacchierata con una mia ex compagna di scuola, che con la scusa di ricordare i vecchi tempi ha cercato praticamente di dirmi che sono stupida ed insignificante e non capisco nulla. Peccato che io non glielo abbia permesso, dimostrandole il contrario: le ho detto quel che dovevo per poi piantarla in asso proprio qualche secondo fa!”
“Cosa? Ha provato a dirti che sei stupida e che non capisci niente? Dimmi dov’è, che la gonfio di botte!”
“Tu non gonfi di botte nessuno: primo perché non sta bene dato che usare la violenza è sempre sbagliato, e secondo perché la signorina in questione non è sola: con lei ci sono il suo fidanzato, la sua migliore amica e il fidanzato della migliore amica. Non voglio che ti impegni in uno scontro due contro uno, ti farai male!”
“Ok, va bene, come vuoi tu, mamma …. o dovrei chiamarti Mahatma Gandhi?
Resto interdetta per un attimo, non capendo la battuta. Poi improvvisamente realizzo, e scoppio a ridere: mi fermo solo quando, poco più tardi, cominciano a sopraggiungere gli altri membri della comitiva.
“Sì”, dico a me stessa dopo che anche l’ultimo di noi è arrivato a destinazione, “Alla fine forse mamma aveva ragione: il fiore più bello è quello che sboccia più tardi degli altri. Io non so se lo sono davvero, ma forse ho le credenziali per esserlo. E mi impegnerò per diventarlo!”
 
 
 

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