All we need is love

di xharrysdimples__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** New Life ***
Capitolo 2: *** Home ***



Capitolo 1
*** New Life ***


-Fate come vi pare. Andatevene. Tanto voi due siete stati solo una palla al piede. Mi avete fatto spendere soldi inutili, siete solo degli stupidi ragazzini cresciuti troppo in fretta per i miei gusti!-. Disse bevendo l'ultimo goccio di vino presente nella bottiglia. 


In effetti aveva ragione. Lei che ci aveva concepito, ci sputò in faccia tutto quell'odio che possedeva. Ci aveva sempre odiato. Eppure non eravamo troppo esigenti, non volevamo troppo da lei. Solamente un bacio, un abbraccio, affetto. L'affetto ci era stato sempre negato. Aveva ragione, eravamo cresciuti troppo in fretta. Io e mio fratello gemello avevamo affrontato la vita duramente, senza un'infanzia. Quella donna davanti a noi, si ci aveva partorito e lasciato in ospedale. Per sfortuna, ci riportarono da lei. Avevamo sempre sognato di andare da nostro padre, in America, ma lei ce lo aveva proibito. E quel giorno dopo tante prediche potevamo andarcene. Eravamo  maggiorenni all'incirca da un anno. Avevamo quasi 19 anni e potevamo andare via da quella baracca già da meno di un anno. Ma i viveri scarseggiavano e quindi io e Harry ci rimboccammo le maniche, e lavorammo duramente. L'Italia era un paese di merda, non offriva lavoro, per questo mio padre se ne andò in America, la sua patria di origine, in cerca di più fortuna. Mio padre ci amava, più volte ci aveva portato li da lui, a New York, ma mia madre ci aveva costretto a tornare. I miei ci avevano concepito in una discoteca squallida di provincia, mentre mio padre era venuto in Italia per una vacanza studio. Poi, dopo una settimana se ne andò. Dopo un anno mia madre si presentò a casa sua con noi in braccio. Litigarono, mio padre sapeva com'era mia madre e ci voleva tenere lui, almeno avremo avuto una vita migliore, degli amici, una famiglia normale. Invece quel fottuto avvocato di merda, che poi diventò il marito di mia madre, ci fece rimanere con lei. Nostra "madre" Sonia, italiana di Firenze, si sposò con Lorenzo Morisi, l'avvocato più ricco di tutta Firenze. Io ed Harry avevamo il cognome del nostro vero padre, Robert Styles. Comunque, nell'arco di tempo tra i 18 e 19 anni, lavorammo duramente. Non trovammo dei veri lavori, in Italia regna la crisi. Harry fece come lavoro il tecnico di computer, cellulari e tablet, visto che era bravo un questo campo. Io, all'insaputa sua, feci la spogliarellista in un locale lesbo, anche se io non lo ero. Ci servivano soldi, io guadagnavo 170 euro a serata e mi andava più che bene. Invece Harry pensava che io lavorassi in un bar, ma visto che non era stupido, pensava che 170 euro in un bar era troppo. Mi fece molte domande alle quali io non risposi. 

-Non aspettavamo altro, vaffanculo... -. Dichiarò mio fratello guardandola dritta negli occhi, senza affetto, pieno di odio e rebrezzo. 
Si girò nella mia direzione. 
-Spencer, i soldi li hai tu?-. Disse mettendo un braccio attorno al mio bacino. Annuii.  

Le valige erano pronte. Erano nella nostra camera, troppo piccola per due quasi diciannovenni, con un solo letto, un matromoniale dove dormivamo insieme, abbracciati ogni notte, fin da quando eravamo nati. Io mi prendevo cura di lui, lui di me. Io cucinavo per me e lui, lui lavava i piatti. Io pulivo la casa, lui faceva la lavatrice. Mentre mia madre e suo marito passavano il giorno a scopare come conigli, oppure ad ubbriacarsi, o invece, Lorenzo andava a lavoro. Anche lui ci odiava, ci voleva morti come lo voleva Sonia. Nella stanza c'era solo un comodino e un solo armadio per due persone, una sola scrivania e una sola sedia.  La nostra, un'infanzia distrutta, tra il dolore, i pianti, la tristezza. Andavamo a scuola, ma li le cose non cambiavano. Io e lui stavamo sempre insieme, perché nessuno ci voleva, ci chiamavano 'sfigati' perché non avevamo mai una merenda, oppure nessuno che veniva a prendere all'uscita a scuola. Le cose però, alle superiori cambiarono. Non furono le cose a cambiare ma noi. Iniziammo a reagire a nostra madre. Quando ci picchiava noi rispondevamo con la stessa moneta. Non bisogna picchiare un genitore, ma era per autodifesa. Questo succedeva molto frequentemente, ogni volta che si ubriacava. Alle superiori continuò a picchiare solamente me, perché ero più debole, ma Harry mi difendeva. Lui mi proteggeva. Infatti, dietro quell'aria da duro, da ragazzo alto, muscoloso, tatuato al quale non importava nulla dalla gente, si nascondeva ancora un bambino, quel bambino mai nato in noi, non avevamo mai vissuto l'esperienza di essere piccoli, perché diventammo grandi subito, eravamo piccoli solo di età, perché dentro eravamo dei venticinquenni  già ben sviluppati. Dalle superiori avevamo iniziato a ragionare. Sempre a 14 anni, Harry mi confessò di essere attratto dai maschi, cosa che a me non importava, cioè, se gli piacevano le femmine mi andava bene, invece se gli piaceva il cazzo, idem. Mio fratello era mio fratello, etero o gay che fosse a me non interessava. La cosa però mia madre non l'accettò, prendendolo in giro tutto il giorno insieme a Lorenzo, chiamandolo finocchio, checca, frocio, gay. Però non era una presa in giro alla fine, perché lui veramente era gay, infatti non se ne importava più di tanto. A prensersela ero io, perché non mi piaceva quando torturavano mio fratello. Sempre dalle superiore lui ebbe il suo primo ragazzo, un ragazzo, più grande di lui, che lo fece ragionare sulla sua vita, promettendogli amore, per poi lasciarlo, senza pudore. Da allora, non si affezionò più a nessuno, si dedicò di più all'amore verso di me, sua sorella. Anche alle superiore ebbi il mio fidanzato, solo una cotta, che non ne valse la pena continuare. 


Eravamo sulla soglia della porta e le davano le spalle. La valige al nostro fianco, mezze rotte, contenevano pochi vestiti, bucati oppure troppo usati. Guardavamo la casa, anche se non si poteva chiamare così. Era piccola, stretta, aveva due camera da letto, un salone, un bagno e una cucina. Guardavamo il salone piccolo, con il muro pieno di buchi, rattoppati da chili di stucco. La vernice giallognola era quasi tutta tolta, il pavimento una volta di parquet, era sporco. Non lo lavavo da settimane. Il divano di stoffa imbottita rossa da due posti, era rigorosamente tarlato e bucato. Il tappeto polveroso era tra il divano e il tavolino sgangherato. Quel tavolino intonato con l'ex parquet, a cui mancava una gamba e Harry ci dovette mettere un pezzo di un ombrello, era posizionato in modo orizzontale, aveva sopra delle bottiglie di birra vuote e una miriade di sigarette spente nel posacenere. Erano di mia madre, di Lorenzo, di Harry e mie. Fumavamo tutti, io ed Harry fumavamo più che altro per stress. Davanti il tavolo, una vecchia tv, trasmetteva perennemente lo stesso canale. Al muro, neanche una foto nostra, solo di mia madre e Lorenzo, come se io e mio fratello non c'eravamo mai stati in quello schifo di casa. Era strano che, Lorenzo imballato di soldi, non comprasse una casa nuova, migliore. Harry affermava che 'Stanno aspettando che ce ne andiamo, almeno hanno una casa tutta loro'. Aveva ragione.

-Vedi questa merda di casa?-. Mi disse all'orecchio. 
-Si, è un orrore..-. 
-Spencer, noi non ci metteremo più piede, andremo lontano, dall'altra parte del mondo, da lui che ci vuole bene, da papà. Ti prometto che non verremo mai più qui, mai-. Mi giurò, dandomi un bacio sulla tempia. 
-Grazie di tutto Harry, grazie per esserci stato sempre-. 
-Grazie a te, grazie per avermi fatto da madre...-. 
-Grazie per avermi fatto da padre-. Dicemmo per poi abbracciarci. 

Un applauso finto, ci distrasse. 
-Ma bene, guarda Sonia, questi due stupidi si stanno abbracciando come dei bambinetti! La puttana e il finocchio!-. Sonia e Lorenzo risero di gusto. 

Harry strinse i pugni, facendo venire le nocche bianche. 
-Non chiamare mia sorella, puttana!-. Avanzò verso di lui, mentre Lorenzo lo guardava con aria di sfida. Erano a conoscenza entrambi della forza di tutti e due. 

-Altrimenti che mi fai? Checca!-. Harry lanciò fuoco dagli occhi, tirando un destro in bocca a Lorenzo, sotto gli occhi allibiti di nostra madre. 

-Andiamo Spè-. Disse Harry prendendo entrambi le valige. 
 
Uscimmo fuori, il taxi con dentro l'uomo sulla sessantina ci aspettava. Guardai per l'ultima volta quel giardino incolto, senza fiori e con buchi nel terreno. Le finestre di casa erano oscurate dalle tende gialle. Harry spinse la porta e la chiuse in modo brusco, facendolo tremare. Aveva troppa forza, non riusciva a domarla avvolte. Attraversammo il piccolo vialetto di ciottoli grigi. Entrammo nell'auto, mentre il taxista riponeva le valige nel portabagagli. I comodi sedili posteriori di pelle nera, erano freddi, essendo inverno inoltrato. Precisamente, giovedì 17 gennaio. 

Entrò anche l'uomo. 
-Dove vi porto?-. Disse con il suo insopportabile accento fiorentino.
-All'aeroporto 'Galileo Galilei' di Pisa, grazie-. Disse Harry imitando l'accento di quell'uomo e che non ci riuscì molto. Riuscivamo a  parlare meglio in americano, perché sia mamma che Lorenzo, erano due grandi ignoranti, e non ci capivano quindi avevamo preso l'abitudine di parlare così.

La macchina partì. Avevamo un'opportunità per cambiare vita, almeno ci illudemmo di averla.

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Capitolo 2
*** Home ***


Harry's pov.
Eravamo quasi arrivati. La lunga strada asfaltata era sotto la macchina in cui stavamo. Il taxi sfrecciava. Una radiolina vecchia e quasi rotta, trasmetteva una canzone in italiano. Non la conoscevo. A quanto pareva Specer, che stava accanto a me, la conosceva. Teneva stretta la mia mano. La sua gelida, come la mia, erano diventate solamente una. Intrecciò le sue dita sottili con le mie, la nostra carnagione chiara, perlacea, era uguale. Eravamo uguali. Lo so, eravamo uguali perché siamo gemelli, ma non era solo per l'aspetto esteriore, avevamo gli stessi capelli marroni, ricci, non curati, gli stessi occhi verde smeraldo, penetranti, che non avevano MAI trasmesso emozioni, avevamo paura di esternarli questi sentimenti, avevamo timore di deluderci, o di deludere gli altri. Eravamo cresciuti senza affetto, quindi ci era difficile dimostrarlo agli altri, non sapevamo come fare. Eppure io amavo mia sorella, lei lo sapeva, non le serviva che le dimostrassi nulla, ma avvolte ci serviva, ci serviva per continuare, per sapere che ancora qualcuno ci voleva bene. Anche se era solamente UNA sola persona. Eravamo uguali, dentro eravamo le fotocopie. Stesso carattere, eravamo stronzi al punto giusto. Avevamo imparato ad odiare tutti, tranne nostro padre. Lui c'era sempre, anche se lontano. Eravamo diversi dagli altri, alcuni ci definivano senza cuore o anormali. Perché ci dovevano definire così? Eravamo solo dei bambini, i bambini giocano e scherzano, si sa che tra bambini ci si prende in giro, ma a noi rimase un vuoto, un senso di solitudine, dal gioco si passò allo scherzo, dallo scherzo alla presa in giro, fino a poco tempo prima. Per 18 anni avevamo passato la vita a piangerci addosso. 
 
-Siamo arrivati, ragazzi-.
La testa calva del taxista si girò verso di noi. Ci sorrise, mostrandoci le rughe intorno alla bocca e sulla fronte. 
-Quanto le dobbiamo?-.
Dissi prendendo i soldi dalla borsa di Spencer. 
-Sono 40 l'ora, è passata un ora e mezza, quindi sono 60 euro!-.
Disse tutto d'un fiato. 
Era troppo. Come potevamo pagare i biglietti se ci faceva spendere già 60 euro! 
-Ma... Sono troppi!-.
Spencer parlò al posto mio. 
-O mi date quei soldi oppure chiamo la polizia, ragazzi. Potevate scegliere qualcun altro...-.
Mentre parlava, il vecchio mi fissava negli occhi.
 
 
Presi una banconota da 50, e glieli misi in mano. 
 
-Questi sono anche troppi!-.
Scendemmo indifferenti, mentre lui parlocchiava e bofonchiava qualcosa nel dialetto fiorentino, a me in percepibili. Aprii lo sportello del portabagagli prendendo le valige e risbattendola poco dopo. 
 
L'aria fredda di metà gennaio, mi attraversava il corpo, come una scarica d'adrenalina. Mi accesi una sigaretta in fretta e furia. La portai alla bocca. Il sapore amaro del fumo mi invase prima la gola poi i polmoni. Poi lo espulsi all'esterno. Mi piaceva avere nicotina nel corpo. Spensi poco dopo il mozzicone a terra. Facemmo un passo e la porta si aprì automaticamente. Una sfilza di persone campeggiava davanti a noi. Si muovevano freneticamente aventi e indietro seguiti dalle loro valige. C'erano mamme con i loro mocciosi con le valige colorate, c'erano anziani, avvocati, turisti e noi. Noi che cambiavano vita. 
 
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-Potete slacciare le cinture di sicurezza. L’aereo è arrivato a destinazione. Grazie per aver scelto noi. Buon proseguimento-.
 
La voce di un’hostess rimbombò nelle mie orecchie. Sia io che Spender avevamo dormito per metà tragitto. 11 infernali ore di aereo. A Spencer faceva male lo stomaco, appena arrivati aveva una faccia verde e pallida, con due occhiaie viola a contornarle gli occhi. In quel momento, in Italia, stavamo dormendo, perché li era l’una di notte. Mentre a New York c’era il fuso orario ed erano circa le 19. Ci sgranchimmo le gambe doloranti e indolenzite e le ginocchia fecero uno sonoro “crak”. Neanche un sorriso ci fu sul volto di Spencer appena arrivati, neanche a io ne feci uno. Non perché non eravamo felici, ma perche non ne eravamo abituati. Avevamo sorriso pochissime volte nella nostra vita, si potevano contare sulle dita delle mani. Non avevamo motivo di sorridere o ridere perché avevamo avuto un’infanzia triste e desolata. Ricordavo ancora la rabbia di mia madre mentre mi diede l’ultimo schiaffo verso di me. Il più doloroso, ma doloroso non esteriormente ma nel cuore. Per colpa di quel gesto, si formo un altro strato di ghiaccio sul mio cuore, un altro grado di tristezza, un altro passo verso la fine. La fine di tutto, quella tanto attesa sia da me che da mia sorella, quella fine dall’altra parte del mondo. Arrivai ad avere un blocco di ghiaccio nel cuore e un altro velo di tristezza, quando vidi mia madre spaccare il setto nasale a Spencer davanti i miei occhi.
 
 
-E voi stupidi che mi avete regalato?-
 
Disse incastrandoci con gli occhi. Era il compleanno di Lorenzo. L’ennesima festa a cui non eravamo stati invitati ma lui pretendeva un regalo da parte mia e di mia sorella. Avanzai piano verso di lui, buttandogli davanti alla faccia un pacchettino rosso incartato male. Lui strappò la carta trovando dentro 3 pacchetti di sigarette.
-E brava la nostra checca. Hai fatto una cosa buona nella vita-.
Sentii ribollire il sangue dentro il mio corpo. Ero pronto a scattare e tirargli un pugno in pieno viso ma mi bloccai perché all’ora non ero molto forte, ero deboluccio, avevo appena 14 anni.
-E tu, che mi regali?-.
Disse verso Spencer. Gli occhi di mia sorella guizzarono da me a lui. Da lui a me. Si aggrappò al mio braccio. I suoi capelli a solleticarlo. Non aveva un regalo.
- Io non… scusa, Lorenzo, non ho nulla…-.
Disse Spencer sull’orlo delle lacrime, consapevole di quello che le sarebbe capitato.
- Piccola stronzetta, sai che ti capiterà ora?-.
Disse mia madre prendendola per i capelli e lei si staccò da me.
- Lasciala stare!-.
Urlai e cercai di correre incontro a loro ma Lorenzo mi bloccò da dietro.
- Ma che bel faccino che hai Spencer, perfetto direi. Che ne dici di una sistematica?-.
Vedevo la paura sulla faccia di mia sorella. Gli occhi terrorizzati, le lacrime iniziarono a sgorgare copiose sulle guance. Mia madre la teneva per i capelli.
- Ma non ti vergogni a trattarci come bestie?!-.
Dissi in preda al panico totale. Si avvicinò al muro. Diede degli schiaffetti sulla guancia di mia sorella per poi sbatterle la testa contro le fredde pareti. Sentii un urlo da parte di Spencer mentre io,piano piano scivolai a terra, immedesimandomi in mia sorella e nel dolore subito. Spencer girò la testa verso me. Del sangue rosso porpora, cadeva dal naso e copriva tutte le labbra e il mento. Era mischiato da lacrime salate. Un livido già evidente,era sulla pelle candida del suo naso. Mia madre aveva un ghigno malefico sulla bocca. Liberò finalmente i suoi capelli e lei cadde giù con un tonfo.
 
 
 
 
La mano di Spencer che si fece più stretta nella mia, mi fece svegliare dello stato di trans che mi avevano procurato i ricordi. Senza neanche accorgermene eravamo arrivati davanti i carrelli automatici per prendere le valige.
 
Ci trovavamo davanti la porta d’uscita, dove c’erano una decina di persone ad aspettare che in propri parenti, amici o conoscenti arrivavano. I miei occhi andavano avanti e indietro in cerca di qualcuno di familiare.
 
Gli occhi grigi di mio padre mi bloccarono in seduta stante. Spencer con un balzo lasciò la valigia a terra e corse verso mio padre. Lui l’accolse tra le sue braccia, urlando qualche “sei cresciuta” oppure “sono felicissimo che siete qui”. Sul viso di Spencer non spuntò un sorriso ma la solita faccia triste e cupa.
-Harry vieni! Fammi vedere come sei diventato grande!-.
I miei piedi erano come bloccati, ricoperti da due mattoni. Non si muovevano, non andavano avanti. La mia ‘felicità’ era arrivata ma non riuscivo a fare nulla. Lo shock emotivo era troppo forte, irreale. Mio padre venne verso di me.
 
-Harold? Stai bene?-.
Annuii poco deciso mentre mi abbandonavo all’abbraccio di mio padre. Il suo profumo di dopobarba mi inebriò le narici.
-Vogliamo andare? Vi faccio conoscere delle persone-.
 
 
 
La chiave scattò nella serratura. Un odore di cibo fatto in casa era nell’aria. Il lungo corridoio illuminato aveva le pareti color panna, con delle foto e quadretti attaccati qua e là.
- Karen, Liam, siamo arrivati!.
Sentii dei passi veloci e da un angolo svoltò una donna bassina, con dei capelli biondo grano e un sorriso enorme. Aveva un grembiule tra le mani, appena tolto. Si avvicinava velocemente a noi.
- Oh ma come siete belli e… uguali!-.
Disse abbracciandoci entrambi. Quel gesto fece rimanere di sasso sia me che Spencer, perché ci parve strano tutto quell’affetto in un solo giorno. La donna continuò a parlare mentre continuavamo ad annuire.
 
-Questa è mia moglie, Karen…-.
Disse mio padre guardandoci. Quelle parole mi frullavano in testa, senza riordinarsi. Troppe cose in un giorno, troppe emozioni tutte insieme.
- Liam! Vieni!-.
Urlò la donna. Un ragazzo alto quanto me, arrivò con testa bassa. Mani giunte in grembo, passi piccoli e un sorrisetto.
- Questo è il figlio di Karen, avuto con una sua precedente relazione…-.
 
Papà guardò prima me poi posò gli occhi su Spencer. Liam alzò gli occhi e due orbite cioccolato ci fissarono. I capelli corti gli davano un’aria da duro, ma era solo timido e molto riservato e lo si capiva già a prima vista. Lui avanzò la mano. La strinsi piano mentre la sua stretta aumentava. Fece la stessa cosa con la ragazza al mio fianco.
 
 
- Sono Liam, Liam Payne…-.
Disse alla fine con un accenno di rosso sulle guance.
- Liam, portali nelle loro camere…-.
Lui annuì flebile mentre si girava di schiena camminando impacciato.
 
Era un bel ragazzo, non da buttare almeno. La felpa verde gli fasciava l’ampio torace. Dei jeans neri gli ricadevano perfetti sulle gambe muscolose, non mettendo in mostra il sedere. Qualche gioco erotico mi passo per la testa, ma si bloccarono non appena lui aprì la porta della camera.
 
Aveva un allestimento infantile, molto direi. Le pareti celesti avevano un battiscopa ricoperto da carta da pararati con le macchinine. Scoppiai in una risata contagiosa. Sia io che Spencer gli ridemmo in faccia, mentre lui sprofondava dalla vergogna, abbassando il capo.
 
-Oh andiamo! Non dirmi che non ti viene da ridere vedendo la tua camera!-.
Dissi tra una risata e l’altra, poggiando una mano sulla sua spalla forte.
-In realtà si, però fa parte della mia infanzia…-.
 
A quella parola smisi di ridere. Già, infanzia… maledetto chi ha inventato questa parola.
Spencer vedendo un mio cambiamento d’umore, intervenne.
-Ehm, allora, da quanto ho capito voi due dormirete qui…-.
Diede un calcio alla mia valigia facendola arrivare vicino ad uno dei due letti, poi continuò:
-Io dove dormirò?-.
-Nella stanza affianco. È piccolina, ma ci sono tutti i confort-.
Confabulò Liam, sfoggiando una fila di denti bianchissimi.
 
 
Avevamo terminato appena la cena. Erano circa le 21 meno 15. Ero pieno. Karen era stata bravissima a cucinare tutti quei deliziosi manicaretti solo per il nostro arrivo. Ci avevano festeggiato, c’era una torta anche. A differenza mia, Spencer aveva sonno, così la accompagnai a letto. Karen ci aveva dato dei pigiami per entrambi. Erano bianchi e di laniccia. A mia sorella era enorme, mentre io non volevo andare ancora a dormire.
 
-Buonanotte…-.
Dissi scoccando un bacio sulla sua fronte. C’era un odore di lavanda che proveniva dal pigiama pulito.
 
-Sai Harry… È la prima volta che dormiamo separati-.
Constatò lei. Era vero. Mai ci eravamo separati.
-Ti troverai benissimo da sola, non preoccuparti. Penso che uscirò a fare due passi, giusto per orientarmi un po’. Quando torno ti prometto che verrò subito da te…-.
 
 
Detto questo uscii chiudendo la porta, andando ad avvisare mio padre che sarei uscito.
 
Attraversando nuovamente il corridoio lungo, notai due foto tra sfilza di cornici appese al muro. Erano assai vecchie. Ero io e mia sorella. In una eravamo in braccio a mio padre, giovanissimo. In un’altra eravamo al parco. Erano state scattate nel periodo quando eravamo stati con nostro padre.
 
-Harry cosa fai?-.
La voce di mio papà mi fece trasalire e di scatto posai la foto.
-Niente… Esco a fare due passi qua intorno, tra poco rientro. Non aspettatemi svegli..-.
Dissi sorridendo.
-Tieni, sai guidare vero?-.
Disse porgendomi la chiave di una macchina. Sapevo guidare ma non avevo la patente.
-Si, ma la patente non- -.
-Lascia stare la patente, Harry, stai a New York! Esci, trova qualche bella ragazza e divertiti!-.
 
Scoppiai a ridere, di nuovo in una sola giornata. Io e le ragazze? Avevamo in comune solo una cosa, i gusti sessuali. Tranne per le lesbiche, ovvio. Le ragazze non mi erano mai piaciute e quello che disse mio padre era più una presa per il culo.
 
-Ci vediamo, pà…-.
Dissi uscendo, continuando a ridere.
 
 Scesi velocemente le scale. Mi strinsi nel cappotto di lana di Liam quando uscii dal portone principale del palazzo. La neve si era posata sul marciapiede. Mentre entravo nella macchina, il vento mi scompigliò i ricci ribelli.
 
Accesi il motore. Percorsi i primi 100 metri. Fuori la macchina era tutto illuminato, un va e vieni di macchine e taxi. Troppi rumori tutti insieme. New york era troppo confusionaria per i miei gusti.
Al primo semaforo mi fermai, ma una macchina da dietro mi tamponò.
 
-Porca puttana!-.
Urlai nel pieno dell’isteria.
 
Uscii dall’auto in preda al panico. Mille domandi vagavano nella mente. Ero senza patente, che avrei detto alla polizia? Che avrebbe fatto mio padre?
 
Arrivai vicino al posto del guidatore. Qualcuno dall’interno abbassò il finetrino. Fu allora che lo vidi per la prima volta…
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Premetto che è la prima fan fiction. Scusate per come ho impostato il primo capitolo ma l’ho scritto dal cellulare. Scusatemi ancora per la luuuuuunga attesa durata quasi un mese e mezzo *si nasconde* lol
Per scrivere questo capitolo sono ingrassata 10 kili perche ho mangiato di tutto.
Che ne pensate della storia? Vi piace? Vorreste apportare qualche modifica? Se la risposta è si, contattatemi su twitter
https://twitter.com/needpayneshug_ o inviatemi dei messaggi sulla posta privata di efp J
 
A prestoooooooo
Giulia.

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