Quando i fili si intrecciano

di F_rancesco
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo Capitolo ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto Capitolo ***
Capitolo 5: *** Quinto capitolo ***
Capitolo 6: *** Sesto Capitolo ***
Capitolo 7: *** Settimo Capitolo ***
Capitolo 8: *** Ottavo Capitolo ***



Capitolo 1
*** Primo Capitolo ***


 
Una noiosa e comune vita, una tra le tante, un vissuto che si vuole rendere speciale ma in fondo rimane sempre normale. Tutti i giorni le stesse cose, tutti gli anni gli stessi propositi, viviamo perché ci hanno generato, viviamo perché abbiamo paura della morte, viviamo solo perché qualcuno ha voluto la nostra presenza sulla Terra, nient’altro, niente scopi, nessuna idea, nessun sogno, niente di niente.  Un momento di felicità ci fa cambiare strada ma subito si ritorna su un segmento di cui non si vede la fine. Un idea ! Ma subito pff! Arriva la gomma a cancellarla, può essere una persona, può essere un gruppo o solamente la voglia di seguire la “moda”. Tutti in fila, tutti uguali, una coda tanto lunga da non poterne vedere la fine. Non puoi opporti, è così e tu non puoi fare niente. Il tempo passa, la vita trascorre lenta e monotona.  Tutti si chiedono perché viviamo ? Solo un passaggio o dopo la morte c’è il nulla eterno? Nessuno sa rispondere, eppure siamo arrivati sulla Luna. Nessuno , per paura della risposta, non si è mai posto veramente la domanda.  Un paese come tanti, una vita che non ha nulla di diverso dalle altre, eppure una persona può fare la differenza, ha il potere di cambiarla? Possiamo cambiare la vita degli altri?
Dopo tanti giorni il cielo era sereno, non c’erano nuvole a coprire l’unico spiraglio aperto all’universo. Era una mattina di metà novembre, in quei giorni in cui il cielo ha un colore tutto suo. Leo, come lo chiamavano tutti, guardava dal finestrino opaco, il paesaggio che ormai era impresso nella sua mente. Aveva gli occhi ancora un po’ nel mondo dei sogni. Era in quell’ora del mattino che al Leo nascevano nella testa le idee più strane, i progetti più strambi e le associazioni più a0ssurde. Quel cielo che non aveva un colore conosciuto sulla Terra, che era tra il blu scambiato e il grigio deciso somigliava tanto alla sua vita. Il paesaggio correva sotto le ruote della macchina. Leo era appoggiato al finestrino quasi a voler dormire. Le mani si incontravano nella tasca della sua felpa grigia. Il suo cuscino era il cappuccio morbido di lana calda. Quando fu  a pochi metri dalla scuola si svegliò. Il padre fermò l’auto, come tutte le solite mattine, e Leo continuava a piedi. Rimase ovattato nel caldo dei suoi vestiti e nel silenzio dei suoi pensieri, finché non sentì l’assordante suono delle parole dei suoi compagni di classe. La routine era sempre quella. Arrivato lì si sarebbe posizionato in un angolino aspettando il suono della campanella, qualche volta leggeva, altre ascoltava musica, oppure si  metteva ad osservare il suo mondo. Lo criticava, lo giudicava, lo odiava; ma era l’attività del mattino che più gli piaceva fare. Aveva imparato a leggere i pensieri di alcuni, le ansie di altri e il sonno negli occhi di tutti. Il suono della prima silenziosa campanella non scosse nessuno, solo il secondo irritante suono smosse quella massa di essere pigri. Si entrava a gruppi, secondo come erano disposti fuori. Quando il primo gruppo, composto da sole quattro persone entrò, Leo era già seduto ad osservare il suo diario, per non guardare i loro occhi spenti. Era sempre solo, l’unico gancio che lo teneva saldo alla vita era la scuola. Lo studio che volentieri avrebbe continuato da solo, da privatista. Odiava i suoi compagni che fingevano di ascoltare la lezione, non apprezzavano quello che veniva loro offerto. Non erano degni di stare lì. La professoressa Novaresi, la strega di italiano entrò. Ogni secondo che passava Leo sentiva evaporare la preoccupazione che arrivasse il suo compagno di banco, Baccari. Il vapore fuori usciva dai pori sulla sua pelle. Il silenzio dei nomi dell’appello fu interrotto dal suono di qualcuno che busso la porta. Leo trattenne il fiato. Pregò tutti santi che non fosse lui. Si guardò intorno per cercare altri ritardatari, tutti puntuali mai come quella mattina. Quando entrò, con il fiatone creatosi nei suoi polmoni a dieci metri dalla porta, la Novaresi lo fulminò con i suoi occhi, uno sguardo che non potevi descrivere se non li avevi assaporati, almeno una volta. E tutti rabbrividirono, al pensiero che il compagno potesse essere sottoposto a quella tempesta. – Ogni mattina sei sempre tu, ti dobbiamo chiamare il “il ritardatario perpetuo”, vai a posto e se ricapita chiamo i tuoi genitori – con queste parole concluse la sua minaccia. 
Si odiavano, ma si erano ritrovati lì, vicini, per puro caso.  Non erano nemmeno due settimane ma sembravano, per entrambi, un’eternità. Non si salutarono nemmeno – Resta nel tuo lato – In tono aggressivo sentenziò Leo che odiava ogni contatto fisico, con quel compagno che riteneva ripugnante. Al suono della campanella, Leo si alzò e chiese la parola. – Professoressa… - Fammi indovinare vuoi cambiare posto- lo interruppe - Ora devo andare quando torno ne parliamo- Concluse fuori la porta e aggiunse uno scarno arrivederci. Doveva aspettare quattro ore, quattro lunghissime orribili ore. Le prime tre passarono, ma della quarta Ricci percepì ogni interminabile secondo. Gli occhi erano puntati sulle lancette dell’orologio da polso che i suoi gli avevano regalato al compleanno. Ormai quei cerchi castani seguivano il movimento delle lancette. Non distolse mai gli occhi. L’unico suono che le sue orecchie percepivano era il tic-tac-tic-tac. Si alzò di scatto e il professore di educazione fisica interruppe il suo discorso che non aveva ascoltatori. – Cosa vuole, Ricci? – Esitò un poco poi balbetto – P-p-professore p-p-posso a-a-andare – non concluse la frase che il professore spinse la sua mano e la testa verso la porta, dandogli il permesso. Corse subito, senza farselo ripetere due volte, prese la maniglia e lentamente spinse verso il basso. Prima di chiudere osservò i suoi compagni per pochi secondi, ma nessuno ricambiava. Con un po’ di delusione ed a testa basta si avviò verso il bagno. Si lavò la faccia e con gli occhi chiusi cercò gli asciugamani, ma la mano cadde nel vuoto e lui si ricordò di essere a scuola. Rientrò in classe al suono della campanella. Il professore era fuori la porta, lo guardò con uno sguardo minaccioso, ci aveva messo troppo temo, ma non disse nulla. Leo sapeva di aver torno, ma non gli interessava.
Quando entrò in classe, la Novaresi, cercò Leo che la aspettava in piedi. Mosse le cinque dita per dirgli di avvicinarsi alla cattedra. Piegò le dita per aggrapparsi alla scrivania e distese le gambe tenendole incrociate. – Già la quinta volta che chiedi di cambiare banco, con chi ti trovi? – Scrollò le spalle. – Bene- continuò - siccome tu non hai simpatia per nessuno saranno gli altri a sceglierti come compagno- Incitò i ragazzi a proporsi, ma nessuno rispose. - Va bene, Rado – con tono deciso continuò – Scrivi il nome dei tuoi compagni tranne Ricci e tutti quelli che già si sono seduti vicino a lui. Faremo una pesca, sarà il destino a decidere e speriamo decida bene. Calò il silenzio e Leonardo iniziò a osservare la classe da una prospettiva diversa. Guardò gli occhi spaventati dei suoi compagni. Avevano paura di lui. – Il prescelto o la prescelta è … - una pausa per aumentare la tensione  di tutti – Villa sei tu. Leo non smise di guardare il volto dei compagni che ormai erano sereni, che non lo capivano, non lo apprezzavano Villa prese tutte le sue cose e si spostò vicino a Ricci. – Professoressa! – squittì, la vanitosa Bernardi – Io. Vicino. A. Quello. Non. Mi. Siedo. – il suo viso era disgustato da quel ragazzo. – Quello ha un nome, e per punizione alla tua reazione vi siederete vicino tutto l’anno. – Mah-mah siamo solo a novembre- il suo tono di voce era tremolante. Rassegnata, cadde sulla sedia. 

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


div>  - A Cosa pensi, Leo? – Gaia conosceva troppo bene l’amico, riusciva subito a capirlo e a tiragli i pensieri dalla bocca. – No niente pensavo..! – prese una pausa ma sapeva che se non avesse continuato Giagi, come la chiamava  solo Leo, non avrebbe smesso di chiedergli di cosa si trattasse. Prese fiato – Pensavo a noi, a gli anni sprecati a causa dei pregiudizi! Pensavo a quando ci odiavamo, ti ricordi? – Come potrebbe non ricordarselo, in quegli anni cambiò tantissimo, capì che i pregiudizi non sono buoni. – Ma tu eri più secchione, più antipatico e troppo presuntuoso – sorrise.  – Io? E tu che eri vanitosa, lo sei tutt’ora, avevi la puzza sotto il naso! Iniziarono a prendersi in giro.  – Dai non scherzare come il tuo solito – Ritornerò serio. – Non credo lo ricorderai ma io l’ho impresso nel cuore. – Il suo sguardo si perse nel vuoto e iniziò a raccontare. . Era aprile, il 25, non pioveva ma il cielo era grigio. Ma il grigio più cupo era nel suo cuore. L’attese fino al suono dell’ultima campanella, sperò che fosse fuori scuola ma lei mancava, mancava ormai da una settimana. Aveva la febbre. Leo sentiva la sua mancanza. Verso la strada del ritorno iniziò un acquazzone molto forte. Leo si bagnò tutto ma non sentiva l’acqua cadergli a dosso. Pioveva anche nei suoi occhi, ma soprattutto nel suo cuore. Si sentiva abbandonato, sentiva sulla sua pelle la cicatrice della solitudine riaprirsi. Quel pomeriggio, sotto l’ombrello, attraversò tutta la città.  I suoi pensieri ovattavano i rumori della vita. Doveva vederla, doveva vedere i suoi occhi, la luce che fuori usciva da tutti i pori della sua pelle. Quando arrivò fuori al cancello della casa, passarono dieci minuti, poi prese coraggio e bussò. – Salve, buonasera, sono Leonardo Ricci un amico di Gaia è in casa? – Si ripeteva nella mente. Sentì chiedere chi fosse un paio di volte prima di rispondere. Ricordava tutto di quel giorno. Le immagini erano impresse nel suo cuore. La signora Ricci indossava un maglione arancione a collo alto, il pantalone nero. In quel ricordo non c’erano cose ma solo persone. Non vedeva mobili ma solo buio eppure sapeva cosa c’era in quella stanza. Dopo la morte del signor Ricci la casa non aveva mai cambiato aspetto. – Vieni ti accompagno nella stanza di Gaia- sorrise e si accompagnò con un gesto semicircolare del braccio. Arrivati in camera Leo la salutò, sicuramente le chiese come stava e quando sarebbe tornata a scuola  ma nella sua mente c’era un vuoto, ricordava di aver parlato per ore ma non sapeva cosa si fossero detti. Quando finì di raccontare Gaia era in lacrime, si era commossa e Leo l’abbraccio – Giagi perché piangi? – Mi sono commossa, sai colpire i tasti giusti del mio cuore con le parole, ti devo dire grazie di tutto quello che hai fatto per me in questi anni. Non dimenticherò quegli orribili giorno, tu eri l’unico ad essermi vicina. Qualche lacrima uscì anche a Leo che le asciugò subito. Guardò l’orologio e si accorse che era tardi ma aspettò molto prima di dirlo a Gy., come la chiamavano tutti. – Devo andare, sono a piedi. – Ebbe il coraggio di dirle solo dopo che si era ripresa. Gli chiese di restare a cena ma Leo rifiutò l’invito  - Sarà per la prossima volta, ho promesso a mamma di cenare tutti insieme. A queste parole Gaia non insistette. 
 
Da quando era morto il signor. Villa le cene in casa era vuote, colme solo di silenzio. La ferita era ancora aperta ancora come la mattina di tre anni fa. Era molto presto quando la mamma svegliò Gaia. – Papà sta male, lo hanno portato in ospedale, vado anch’io. Se non te la senti non andare a scuola -. Il tono era calmo ma Gaia capì che la mamma fingeva solo per tranquillizzarla. Era troppo spaventata per andare a scuola, non riusciva a fare niente, eppure ebbe la forza di chiamarlo. Voleva solo lui, nessun’altro. Leo si precipitò a casa Villa per consolare l’amica. Nessuno dei due andò a scuola quel giorno e per molti altri di seguito. Il signor. Villa morì per un infarto. Il colpo fu forte. Il rapporto che aveva con il padre non lo aveva neanche con Leo. Era arrabbiata con il mondo. Si chiuse in casa per mesi. Rischiava di non superare l’anno, ma al dolore non interessava. Da quel giorno divenne fredda con tutti, persino con sua madre e con Leo. Il caro amico non la lasciò, le rimase a canto, la comprendeva e non la lasciò mai. – è solo un periodo poi le passa – pensò nella sua testa, ma quel periodo non passò mai. 
Il sole era tra le montagne, l’arancione dei suoi raggi rendeva l’atmosfera più magica. Leo ad ogni passo calciava un sassolino. Pensava ancora. Ricordava quegli anni, quel giorno in cui si sedette accanto a lei. E il giorno in cui lei era assente e Leo capì che era diventata un pezzo della sua vita. Quel periodo che cambiò tutto. La morte del padre di Giagi. Era immerso nei ricordi del suo passato. Quando ritornò al presente era vicino casa sua. Sentì dietro la schiena percorrergli il serpentello della paura. Aveva paura di dimenticare quello che avevano fatto insieme e prese una decisione: scrivere i suoi ricordi e annotare le loro chiacchierate, per non dimenticare. Iniziò dal primo giorno, quando il fato li unì. In una sera non smise di scrive fino a quando non arrivo al presente. Non mangiò niente e non uscì dalla sua stanza fino alla mattina seguente. In quella piccola scatola di mattoni non esisteva più il tempo. Passato, presente e futuro erano un'unica cosa. L’orologio della vita era una penna che scriveva nell’universo.

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Capitolo 3
*** Terzo Capitolo ***


Era cominciata l’estate. A Leo non piacevo quel periodo dell’anno, quei tre mesi gettati nel pentolone dell’ozio, inermi contro il tempo. Vinti dai 30° gradi all’ombra. Leo non era come tutti. Leo passava le giornate aspettando settembre. Leo era felice delle occasionali tempeste estive. Leo era strano. Leo non sapeva perché avesse questa passione, in verità non se l’era mai chiesto. Quel giorno non pioveva, il cielo era grigio, come quello azzurro di Londra. Leonardo era immerso nel suo mondo, libero dalle catene della normalità collettiva. Era steso sul letto, a fissare il punto di unione tra pavimento e parete, il punto d’unione tra follia e ragione. La pensava ogni istante della giornata. Viveva della sua essenza, si cibava del suo ricordo. Non faceva altro. Il ritorno di lei prese il posto del tempo, per lui. Era da giorni che non pensava ad altro. Quel martedì pomeriggio, quel maledetto pomeriggio. Era diverso perché per la prima volta, da molto tempo si incontrarono in un bar. – Ciao. – Il silenzio era interrotto da questa parola, entrambi salutavano dei conoscenti. Si fissarono per molto senza parlare. – Ti devo dire una cosa – Questa frase saltò fuori per qualche secondo e poi tutto ricadde in un silenzio di tomba. – Parto domani! – Queste parole ghiacciate risuonavano nella mente di Leo, ancora e ancora. La guardò con stupore e tristezza uniti in un connubio perfetto. – Non torno prima di metà settembre. – Non uscirono parole dalla sua bocca. Ogni volta che ricordava gli venivano alla mente, quasi per caso, dei particolari, dei tratti del suo viso. Si accorse che per la prima volta provava attrazione verso la sua amica. Le sue labbra rosse, carnose, dovevano essere morbide, le voleva toccare, baciare. Non aveva nessun immagine solo parole. Un flash. Le sue labbra che si muovevano, si toccavano, e si respingevano, con veloce dolcezza. Ogni giorno che passava aumentava l’enfasi di quel ricordo, l’eccitazione scorreva nelle sue vene. Provava questi sentimenti ma allo stesso tempo non li accettava, non poteva, perché l’avrebbe persa. Lei era L’AMICA, la compagna perfetta, l’amico perfetto: La perfezione. Più il tempo si allontanava da quel martedì, più Gaia diventava una dea a gli occhi di Leo. Dovevano passare secoli prima che Leo ammettesse di provare qualcosa per lei (?) Fu un mese di inferno. Le notti erano scandite da lacrime vere, le giornate da sorrisi falsi. Molte volte quando il sole era alto nel cielo Leo voleva piangere, non sapeva neanche lui per cosa. Non lo avrebbe mai fatto davanti a qualcuno. Fu il mese più caldo della stagione, in cielo non apparve una nuvola. Sembrava che Leo l’avesse assorbita tutte. Erano tutte compresse nel suo cuore, nel suo animo, nella sua solitudine. Pensò molto a cosa fare, cosa dirle. Infine capì che le parole sarebbero uscite da sole. Si preparava ogni giorno aspettando il suo ritorno, le avrebbe detto tutto. L’amava, ne era consapevole, anche se non lo accettava, ancora. – “Ti amo!” No, non devo essere troppo diretto. Esordisco con un “ti devo parlare” no no inventerei una scusa e non le direi niente. Le chiedo come è andata la vacanza e parlando del più e del meno glielo dico- Non si dava una risposta e decise di porsi la domanda quando l’avrebbe avuta di fronte. Da giorni dormiva stringendo forte il cuscino, la notte, dalla piccola finestra in camera sua, guardava fuori. Le stelle. La luna. Chiudeva gli occhi e quella sfera quasi perfetta diventava il suo volto. Una notte uscì fuori al balcone e vide che quei punti luccicanti formarono il suo volto. Cercò di raggiungerla ma si fece troppo in avanti e cadde. Si trovò in quel bar ad osservare la scena del loro, momentaneo addio. Ricordava tutto, ogni singolo particolare, le dieci persone che incontrarono, il volto del cameriere che li servirono. Si aprì una voragine sotto i suoi piedi. Si svegliò di soprassalto. Erano le sei e cinquanta. Era tutto sudato, sapeva che se avesse voluto si sarebbe potuto addormentare, ma decise di scendere dal letto, doveva schiarirsi le idee. Era sotto la doccia da più di mezz’ora, era pronto per uscire ma esitava. Le gocce d’acqua gli cadevano sulle spalle e scivolavano sulla schiena, era una sensazione piacevole. Quella cabina doccia era fuori dal universo e nello stesso tempo nel suo mondo. Si sedette sul divano ancora un po’ bagnato, con indosso l’accappatoio, sentì il suo stomaco dire qualcosa: aveva fame. Chiuse la porta senza far rumore, accese il motorino e uscì di corsa. Non sapeva dove andava, ma non era incerto nel cambiare strada. Arrivò al bar e capì perché era uscito. Si sedette allo stesso tavolino. Volveva rivivere quelle sensazioni, ma non poteva, lei, non c’era. Tutto era identico. Tutto tranne la sedia di fronte a lui. La sedia era fredda come lo era il suo cuore solo. Tutte le notti lo stesso incubo, tutti le mattine stesso posto, tutti i pomeriggi stesso letto. Le lacrime scandivano i secondi delle sue giornate, perché le lacrime non sempre si vedono. Domani era il giorno. Il giorno in cui le avrebbe confessato il suo amore, le avrebbe detto tutto, di come ha sofferto, di quanto a pianto. Non era pronto, ma il tempo ti coglie impreparato. L’ultimo giorno non versò acqua. Era troppo impegnato a prepararsi, come una sposa il giorno prima del proprio matrimonio. Verso le quattro del pomeriggio decise di inviarle un messaggio: “Finalmente domani torni, ci vediamo?” non aggiunse altro, non le disse che le doveva parlare. Gaia non si fece attendere: “Certo, devo dirti una cosa!” “Bella o brutta?” “Top secret!” “-.-” In Leo si accese una speranza ed era entusiasta.

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Capitolo 4
*** Quarto Capitolo ***


“A che ora arrivi?” “Per pranzo, ci vediamo il pomeriggio!” “Ti passo a prendere io” “Ok, per te va bene verso le quattro?” La sua risposta è un semplice smile. Guarda l’orologio da un’ora. È seduto sul letto, una gamba piegata l’altra tocca il freddo pavimento. Quella destra non sta ferma per l’agitazione, e muove tutto il resto, compreso il letto che fa un rumore impercettibile. Quando va per alzarsi le gambe cedono e lui si lascia cadere con veloce dolcezza sul letto. Tocca il cuscino con i piedi, rimbalza sul materasso due volte e poi è fermo, non riesce a muoversi, non ne ha la forza. Guarda il soffitto e pensa. Pensa a lei. Pensa al suo sorriso. Chiudi gli occhi e lo sente vicino, alza un braccio. Alza l’altro. Vuole toccarla. Ma i sogni non si toccano. Le braccia cadono vuote, deluse. Vibra tutto. Tutto fermo. Un messaggio. “Cambio di programma! Passo a prenderti con la mia sorpresa.” “Ok! 30 minuti. Non vedo l’ora di vederti! <3” “Non vedo l’ora di parlarti!” Il rumore dei secondi era irritante. Dalla sua stanza sentiva quell’assordante suono. Era pronto. Si mise sulla sedia ad aspettare, con la gamba che tremava a ritmo di una musica che si chiamava tempo. “Scendi!” Tutta la forza compressa nel suo corpo fuori uscì. In pochi secondi era già fuori la porta, con il poco fiato in gola – Io esco! – urlò lasciandosi chiudere la porta alle spalle. Chiamò l’ascensore, ma, per lui, era troppo lenta. Iniziò una corsa impazzata, senza freni, per le scale. – Scusa! – Urlò ad un bambino che poco prima stava travolgendo con il suo corpo. A grande velocità fece slalom tra alcuni signori che stavano salendo le scale. Volò sopra gli ultimi tre scalini, atterrò con un piccolo inchino e aprì le braccia per ringraziare il pubblico per gli schiamazzi. Era fermo vicino il portone d’ingresso, teneva in mano la maniglia del portone. Sapeva che al di là c’era la sua amica che l’attendeva. Attese qualche secondo per riprendere fiato. Attese per trovare il coraggio, per cosa? Tutto. Piegò la maniglia e tirò verso di sé la porta. Quando aprì vide due ragazzi, Gaia e uno strano tipo, indossava un pantalone giallo e una maglia arancione, gli occhi erano coperti da un paio di occhiali tutti colorati ed di una forma strana, “buffi” pensò Leo. In bocca teneva una sigaretta non ancora accesa, questa cosa lo irritò molto. – Su pigrone muoviti! Prendi il motorino. Rimase a bocca aperta per qualche secondo e poi ebbe la forza di chiedere chi fosse. – Ti spiego tutto più tardi! Il vento sulla faccia, la pelle tirata verso le orecchie. Sentiva quasi freddo, ma non come l’inverno. Un freddo piacevole. Sapeva già tutto: quello era il suo ragazzo. Nessuno glielo aveva detto ma Leo ne era convinto. Il modo in cui la guardava. Quello sguardo non lo avrebbe mai dimenticato, quello sguardo era una lama che si conficcò nel suo cuore. Una spina che non sarebbe uscita presto. Dopo tanto tempo vide il sorriso sulla bocca di Giagi, doveva esserne felice ma qualcosa non glielo permetteva. Solito bar. Arrivò prima di loro, si sedette, in un altro posto perché il solito, era il tavolino delle belle notizie. Si avvicinò un cameriere ma lui gli disse che aspettava due persone. Arrivarono poco dopo. – Ora ci presenti? – Chiese Leo in attesa di una amara conferma. – Lui è Andrea, diciott’anni, il mio ..- abbassò il tono della voce, prese fiato e sussurrò la parola ragazzo. Leo sentì un brivido dentro di sé, qualcosa rompersi in mille pezzi. Finse di essere contento per loro, gli chiese di raccontargli come si fossero conosciuti, lei, con gli occhi persi nel vuoto ma pieni di amore, raccontò il loro primo incontro romantico – Ero sola sulla spiaggia, stavo per andarmene quando si alzò un po’ di vento, il capello volò via ed un bellissimo ragazzo saltò e lo prese a volo, quando me lo riportò incontrai per la prima volta i suoi occhi neri. Quegli occhi mi hanno fatta innamorare. Ci sedemmo sulle sdraio e parlammo per ore. Quante cose avevamo in comune. Ogni sua parola mi faceva innamorare sempre di più di lui. Galeotto fu il tramonto e il mare. – A che scuola sta? Chiese Leo per non paralizzare il discorso, non poteva lasciarli osservare il suo viso, lo avrebbero capito. Leo non sapeva mentire. Dopo un po’ Andrea dovette scappare per un impegno ma Gaia rimase ancora con Leo. – Non preoccuparti l’accompagno io a casa, non essere geloso se l’avessi voluta me la sarei già presa – Con un tono molto malinconico e gli occhi lucidi scherzò. Rimasero a parlare per un’oretta ma poi Gaia doveva prepararsi per uscire con il suo boyfriend. Leo l’accompagnò e la lasciò con malinconia, per la prima volta sentiva che stava perdendo qualcosa. Qualcosa di importante. Il cuore di Leo non era più facilmente componibile, alcuni pezzi si erano sbriciolati. Era solo e se ne stava rendendo conto. Non mangiò per due giorni, ebbe la febbre.  

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Capitolo 5
*** Quinto capitolo ***


“Oggi non posso venire, sono impegnato! ” “L’ultima volta io, ora tu è da tanto che non ci vediamo” “Ma Giagi! Mi manchi anche tu, lo so che non ci vediamo da tanto” “Da troppo!” Leo evitava Gaia e Andrea da tempo. Da diciassette giorni per l’esattezza, Leo li contava. Domani sarebbe iniziata la scuola. Per Leo era sempre stato brutto non averla vicino, ma questa volta ne era sollevato. Non incontrava i suoi occhi da giorni, diciassette. L’indomani sarebbe iniziato il suo primo ultimo giorno di scuola, il suo quinto anno. Erano ormai tre anni che era in quella scuola, da quando, a fine del secondo liceo scientifico decise di voler terminare gli studi in un liceo classico, eppure non aveva legato con nessuno. Erano ventitré in classe. Leo era quello che sedeva da solo, tutti gli anni era così. Ognuno aveva un compagno di banco, il prescelto. Leo lo sapeva che i suoi “amici” si sentivano durante l’estate, uscivano, si divertivano, si organizzavano per chi doveva sedere vicino chi, ma a Leo tutto questo non scalfiva neanche un po’, lui era felice di essere il prescelto di sé stesso. Non aveva perso le vecchi abitudini. La mattina, fuori scuola, osservava i suoi compagni, era diventato bravo a leggere i messaggi impliciti del corpo. Quella mattina notò una ragazza, non conosceva il suo nome, non l’aveva mai vista prima di allora. Quando la vide sentì qualcosa nel suo stomaco, lui non era niente tranne il vuoto. Lo stomaco brontolò qualcosa, o forse era la voce del cuore. I capelli lunghi, neri, li muoveva elegantemente. Incrociò il suo sguardo e si sciolse alla vista di quegli occhi chiari. Era la prima volta che vedeva una persona che aveva il colore degli occhi così contrapposto a quello dei capelli. Dentro di sé sperava fosse della sua classe, ma non ci credeva molto. Entrato in classe vide che quella ragazza, quasi lo seguiva. Era spaventato e felice nello stesso tempo. Non riusciva a capire cosa succedesse. Il primo giorno entravano tutti puntuali, nessuno poteva perdersi gli ultimi banchi. Leo entrava per ultimo, per aspettare che tutti fossero seduti ed avessero occupato i loro posti. Entrava per ultimo per spezzare l’imbarazzo, per far credere, a sé stesso e a gli altri, che anche quest’anno aveva fatto tardi. Quest’anno non era il solo, quella ragazza era fuori con lui. Entrarono da due porte diverse in una sincronia quasi perfetta. Leo continuò senza fermarsi lei si fermò a chiedere qualcosa ai bidelli, ma non riuscì a sentire cosa. Tutti i posti assegnati: anche quest’anno da solo. L’insegnante entrò accompagnata. Con la Catani c’era anche quella ragazza. Indossava dei leggings viola, una maglia molto larga, grigia. La sua borsa era tutta nera con qualcosa di colorato, ma Leo non riusciva a vederlo. La professoressa di Italiano, la Catani prese la parola e presentò la nuova arrivata. – Sono Emma Marchetti, ho diciassette anni. – La professoressa la guardò cercando di farla continuare ma lei non aprì bocca. – Da dove vieni? Come mai hai cambiato scuola? - La ragazza prese fiato, gonfiò la bocca, voleva sbuffare ma si trattenne. – Cambio casa ogni anno, a causa del lavoro di mio padre. – Che lavoro fa tuo padre?- Chiese l’insegnate con il tono per dirle “su parla”. – Il giornalista – Rispose decisa la ragazza. – Il giornalista? – Ripeté sorpresa l’insegnante – Si. I suoi servizi sono lunghi, io sono la sua unica famiglia e quindi quando si sposta lo seguo. Quando termina un servizio aspetta che finisca l’anno per darmi, il più possibile una continuità negli studi. – Tua madre? – chiese l’insegnante. La ragazza abbassò lo sguardo. – Che città hai visitato? – Chiese l’insegnante per cambiare argomento. – Per lo più grandi città: Roma, Milano, Bergamo, Ancona, sono stata all’estero nel periodo estivo, due anni fa, a Parigi. Quest’anno dopo gli esami andrò con mio padre a Londra per qualche mese poi partirò per l’università, dove ci separeremo. E per mia madre non l’ho mai conosciuta, mio padre mi disse che era morta, ma io non ci credo, glielo ho chiesto una sola volta e da allora mi sono accontentato della sua bugia, sta bene ad entrambi. Concluse la ragazza un po’ stufata delle troppe domande. La professoressa si pietrificò. – Non lo sapevo– cercò di scusarsi. – Si figuri non è la prima volta che qualcuno non lo sa. - Ora andiamo avanti con la lezione. Sarà interessante conoscerti. C’è un solo posto libero, vicino a Ricci. – concluse la Catani, togliendosi dall’imbarazzo, spezzando quell’aria densa che si era creata. -Piacere Leo- cercò un approccio. – Ciao, sono Emma. - - Ho sempre sognato la vita che fai, ma non è brutto dire addio, come fai? Non soffri? – Chiese il ragazzo incuriosito dalla sua vita. – I primi anni era dura, ma ora mi sono abituata. Cerco di non affezionarmi a nessuno. – rispose malinconica la ragazza. – Ma quest’anno è diverso, se ti devi separare da tuo padre puoi restare qui, ci sono buone università nei dintorni.! – disse Leo – Si vedrà! - Bella Parigi?- chiese Barbieri, il ragazzo strambo seduto dietro di loro. - Sicuramente più bella Londra, fattelo dire da uno che le ha viste entrambe- intervenne Amato, il suo compagno di banco. – Non saprei quale delle due sia la più bella, dammi tempo e te lo dirò. – Decisa zittì tutte e due. - Cosa ti piace fare di bello?- chiese Leo durante la merenda, che nessuno consumava. – Veramente mi piace la letteratura…- Arrossì un po’ vergognata. – Perché lo dici così spaventata, anche a me piace. Iniziarono a parlare dei loro scrittori preferiti, criticavano i grandi classici e cose così, ma non credo vi interessi.

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Capitolo 6
*** Sesto Capitolo ***


Studiavano insieme da settimane. Ormai erano inseparabili. Quella sera Leo avrebbe dormito a casa di Emma, era la prima volta che non sarebbe tornato a casa; la mamma sapeva che sarebbe andato da Luigi, l’amico di classe. Non era una donna che faceva troppe domande, era felice che il figlio avesse un amico. – Perché le hai detto che dormivi da un amico? - è all’antica.! – mentì. Non si sarebbe fatta problemi, purché ci fosse stato qualche genitore. Leo aveva paura, di cosa? non lo sapeva bene, forse che potesse pensare che stessero insieme. Era un’idea folle che non voleva passasse in mente alla madre, prima che a lui. – Ragazzi, venite è pronto a cena..! – Urlò dalla cucina il signor Marchetti – Arriviamo papà (abbassando il tono di voce) tu non me la conti giusta. – La cena era ottima, grazie! – Concluse Leo con il piatto davanti vuoto. – Sono contento ti sia piaciuta, Leo, posso? – chiese Luca. Era scombussolato, non capiva per cosa gli avesse chiesto il permesso. Emma, che osservava la scena, guardò il padre e scoppiò a ridere, subito la seguì il padre mentre Leo cadeva sempre di più nel baratro della disperazione. Riprese fiato e gli spiegò l’accaduto, quando capì tutto cercò di ridere ma la risata finta non era il suo forte. –Certo che mi potete chiamare Leo, signor Marchetti – rispose, in ritardo e in imbarazzo. – Emma mi ha detto che avete visitato molte grandi città, è dura per lei spostarsi? – chiese Leo per togliersi dall’imbarazzo. –Se dicessi di si, mentirei. Porto con me tutto quello di cui ho bisogno (si girò verso la figlia, senza fare il suo nome). Ho scelto questo lavoro perché mi piaceva viaggiare, alcuni anni sono stato fermo, per Emma ma poi mi hanno fatto una buona offerta che non potevo rifiutare, sono stato fuori due anni, Emma ne aveva 6 quando dovevamo tornare a casa, siamo rientrati per pochi mesi ma la piccolina non voleva starci più a casa sua. Dopo due mesi mi è arrivata un’offerta di lavoro e da lì è cominciato tutto. Sono stato egoista, non ho mai chiesto a mia figlia se volesse partire. -Io ho sempre sognato questa vita, ma mio padre non è un giornalista! – disse Leo un po’ malinconico. – Dove viveva - continuò Leo – dove aveva una casa fissa? - Ad Ischia, i miei genitori sono nati e cresciuti a Napoli, quando avevo diciott’anni ci siamo trasferiti sull’isola, ormai non posso dire sono di Napoli, perché ho perso tutto, con il tempo anche l’accento. – Ma siamo in Campania, perché non ci ritorna qualche volta? In inverno gli alberghi si pagano poco, faccia un tuffo nel passato, nei suoi occhi c’è un po’ di nostalgia. – Propose Leo, che percepiva nel padre dell’amica una voglia matta di tornare giovane. – Su Leo non fare più domande, se no inizia a parlare di quando era giovane, chi lo ferma più, su dai andiamo a vedere un po’ di televisione – disse Emma afferrandolo per il collo della camicia – Mah.. – cercò di dire Leo. – Niente ma, niente se!. – Mi scusi, mi interessava la sua vita – disse Leo mentre la compagna lo trascinava in camera. Seduti sul letto Emma gli chiese scusa ma non voleva ascoltare la storia della vita del padre. – Visto che sei così interessato alla vita di mio padre, quindi in parte alla mia vita, perché non mi parli un po’ della tua? – chiese Emma con un po’ di malizia e curiosità. –Prima di incontrarti? Beh, la mia vita era sempre la solita, non ero legato a nessuno tranne un’amica che conoscevo dalle medie. Eravamo molto affiatati, ci sentivamo tutti i giorni, ci vedevamo almeno una volta alla settimana, di solito il sabato pomeriggio… ecco tutto! – Concluse sbrigativo Leo, ma l’amica iniziò a fare domande e lui dovette continuare. – Il nostro rapporto si è concluso poco prima che iniziasse la scuola, dopo che lei è tornata dalle vacanze, non mi ha fatto niente ma io ero cambiato, ero innamorato, lo sono tutt’ora, ma lei non lo sa, il giorno in cui tornò ci vedemmo ma aveva una sorpresa per me, Andrea (con il verso!), lei si chiama Gaia, da quel giorno ci siamo sentiti sempre meno, delle volte lei era impegnata con il suo fidanzato altre io ero impegnato a fissare il soffitto. Ci sto male ancora adesso che è dicembre, ci sto male tutti i giorni, non perché non può essere quello che voglio che lei sia, ma perché non è più la mia migliore amica. Vorrei non essermi innamorata di lei. Vorrei dimenticarla, ma non ci riesco.- Leo era triste forse gli uscì una lacrima, ma era veloce a eliminarle, tanto che Emma non se ne accorse. Emma non parlò, non disse nulla, guardo solo il cellulare, appoggiato sul comodino sotto carica: domani è sabato, pensò. – Come hai detto che si chiama?- chiese incuriosita. – Giaggi!- disse distrattamente Leo – Ehm scusa, Gaia Villa, perché ? – No così volevo sapere se la conoscevo. “è bello quando dorme” pensò guardandolo dormire “pure quando è sereno si vedono le cicatrici del suo cuore”. Erano le sei del mattino, fissandolo le venne un’idea. Prese il suo cellulare, aprì la rubrica e segnò un numero, poi senza far rumore lo riposò dov’era. Tenne il fogliettino in mano fino a quando Leo di scattò si svegliò e lei con altrettanta velocità lo nascose sotto il cuscino. Il suo volto ancora mezzo addormentato fu la conferma: avrebbe messo in atto il suo piano. Il padre di Emma bussò alla porta aperta, era già svegli da un po’ quando disse loro di alzarsi, la colazione era pronta. Emma si alzò subito ed uscì dalla stanza, trascinandosi Leo che voleva cambiarsi. – Non devi andare a fare una sfilata di moda, dobbiamo andare solo in cucina, ti vesti dopo. Luigi portò a tavola un plum cake fatto in casa. Sul tavolo erano pronte tre tovagliette ed al centro un barattolo di Nutella da 5 kg, uno piccolo di marmellata alle ciliegie ed un altro grande sempre di marmellata, ma di pesche. – Sedetevi e iniziate a mangiare io finisco di cuocere gli altri. - Dopo aver mangiato Emma si alzò dal tavolo e andò in cameretta, mentre Leo e suo padre parlavano. Quando tornò, era pronta per uscire. Leo la vide e si alzò di scatto, chiedendole se dovessero uscire, ma lei con molta tranquillità gli disse che doveva fare una cosa importante, sarebbe tornata presto, e non se ne doveva andare, avrebbe anche pranzato con loro, perché nel pomeriggio erano impegnati. Né Leo né il padre sapevano dove dovesse andare, ma non fecero domande. Trascorsero un paio di ore a parlare Leo ricevette una telefonata: la mamma. – Buongiorno, mamma. Tutto bene, ti volevo dire che non torno a mangiare. Non ti preoccupare.- La mamma dalla cornetta gli chiese di passarle uno dei genitori, ma lui inventò una scusa, “non sono a casa, non preoccuparti”. Le chiamate con la mamma erano brevi. -Mi farai conoscere i tuoi genitori? – Chiese il padre dell’amica, ma Leo non rispose alla domanda, era impegnato ad usare il cellulare, o forse non voleva rispondere. Era verso mezzo giorno quando Emma rientrò in casa. –Sono rientrata- esordì –cosa dobbiamo mangiare?- Il padre dalla cucina e Leo dalla cameretta la risposero in coro: pasta con il pesto, cotolette e patatine. -Noi dopo pranzo siamo impegnati! – Esclamò rivolgendosi a Leo, dall’uscio della porta della sua camera, come se l’estranea fosse lei.

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Capitolo 7
*** Settimo Capitolo ***


-Senti aspetta qua, deve venire una persona, io devo fare una cosa- disse Emma facendo accomodare l’amico su una panchina del parco– Ma chi è questa persona, come la riconosco? – Chiese Leo perplesso. – Il tuo cuore la sta aspettando, saprai chi è! – Urlò in lontananza. Leo era solo, aspettava una persona che, forse, non conosceva. Non c’era nessuno nel parco, oltre al barista del chiostro, un signore sulla cinquantina con una barba da fare. Faceva molto freddo ma il più grande freddo era nel suo cuore. In quel parco una volta si incontrò con Gaia. Leo trema. All’improvviso gli squilla il cellulare: un messaggio di Emma. “Non ti arrabbiare con me scusa ma lo dovevo fare. La persona che aspettavi da mesi è arrivata. Non voltarti ancora, devo dirti altro. Prima di girarti promettimi che questa volta le dirai tutto. Non hai niente più da perdere, potresti solo guadagnarci..! Ti voglio bene :D” Leo non si era ancora girato, ma già immaginava chi ci fosse dietro di lui. Aspetto un po’ prese coraggio e si voltò. Gaia era davanti a lui. Del volto si vedevano solo gli occhi che non erano coperti né dal cappello né dalla sciarpa, entrambi rosa. Una felpa grigia con sopra stampato Topolino e Minnie incorniciati da un cuore rosa. Un pantalone di una tuta nero. Appena i loro sguardi si incrociarono Gaia iniziò a parlare: -Una tua amica mi ha detto di venire qui, perché tu mi dovevi dire una cosa. – prese fiato aspettando che le parlasse ma Leo esitò. – Su sbrigati che ho da fare, cosa mi devi dire.- Ma lui non apriva bocca. Si alzò, fece per voltarsi.- Su sbrigati, cosa hai da dirmi? Mi hai abbandonata qualche mese fa, non ti sei fatto più sentire e quando ci provavo io mi evitavi e inventavi scuse su scuse – Continuò – Cosa vuoiii?- Urlò forte da far alzare gli occhi dal giornale al barrista. Leo respirò profondamente. – Ti ricordi da quanto tempo non ci vedevamo? – chiese all’amica che non rispose – Sai perché il sabato ero sempre impegnato? Te lo sei mai chiesto? Ti sei mai domandata perché ti evitavo? Perché io ti evitavo! Non credo, perché se lo sai ed oggi sei qui o è perché mi vuoi far soffrire o mi vuoi far gioire. Ma non credo ti sei mai chiesta perché non siamo più amici. Il nostro rapporto è continuato perché io lo volevo, appena ho smesso, è finito tutto. Sei cambiata da quando è morto tuo padre, ce l’hai con il mondo, ma io non lo potevo salvare, perché sei diventata fredda anche con me? Mi sono sempre detto che era un momento poi passava ma che… non so se eri così da sempre o lo sei diventata con il tempo. Comunque non ti ho cercata più perché non riesco ad essere un tuo amico, non riuscivo a vederti accanto ad un altro, mi dispiace per me ma io ti amo, ecco l’ho detto. – Prese fiato ed iniziò a correre. Era lontano da quella panchina, lontano da quel parco. Emma che guardava da lontano la scena lo raggiunse, un po’ sollevata. Mentre parlava, Gaia si era seduta le erano uscite delle lacrime. Molte volte aveva chiesto all’amico di fermarsi. Gaia se lo era chiesto più volte perché la loro amicizia era finita, ma non accettava la risposta che si era data, non ci credeva, non ci voleva credere. Oggi era venuta qui per sapere la verità, per sapere che la sua idea era sbagliata, ma quando aveva visto gli occhi dell’ex amico, aveva capito. Se ne voleva andare, per non farlo soffrire, ma lui ha iniziato a parlare. A due persone come loro, non servono le parole, loro si parlano con gli occhi. Rimase sola ad aspettare il tempo che passò, ma il tempo passa solo una volta. Quando capì che non sarebbe ritornato, si alzò. Si voltò. Guardò i giardinetti vuoti, l’orizzonte che si era preso il suo amicone. Fece un passo avanti e iniziò a correre nella stessa direzione di Leo. Quando lo vide era seduto sul ciglio della strada, le dava le spalle e non si era accorta di lei. Gaia rallentò per non farsi sentire. Si voleva avvicinare, ma all’improvviso da una siepe sbucò Emma che correva così veloce che non si girò neanche un po’ in dietro per vedere Gaia, la quale si bloccò. Iniziò ad osservare la scena. Non sentiva cosa si dicevano, ma rimase lì per molto. Dal momento in cui Emma riprese fiato all’attimo dopo in cui le sue labbra si posarono su quelle di Leo. Vista la scena Gaia girò le spalle e se ne andò. Si voltò di nuovo indietro, questa volta si stavano fissando, incorniciati da un sole al tramonto quasi nascosto dai palazzi. Si baciarono ancora e ancora, questa volta era Leo a fare la prima mossa. Quel ragazzo che pochi minuti prima stava dichiarando il suo amore, ora baciava un’altra. Gaia con amarezza si voltò. Camminò un po’ veloce, poi iniziò a correre. Tutto in torno era fermo. Erano tutte immagini che si susseguivano nella mente della ragazza, poi sparivano come delle foto bruciate dal fuoco, come quei ricordi eterni da distruggere. Aveva il fiatone, era ritornata al punto di partenza. Era stanco, il peso del dolore era troppo. Aveva quella scena impressa nella retina, e come una pietra pesante, nel cuore. Quando si riprese aveva le mani piene di lacrime, il volto umido e gli occhi rossi. Le sembrava di aver passato tutta la sua vita lì. Si accorse che molti anni prima, su quella panchina, per la prima volta, lei gli aveva urlato il suo affetto davanti a tutti. Da quella panchina si vedeva il campetto da calcio. Quel pomeriggio, per una strana ragione, Leo stava giocando come attaccante. Giocava con i suoi amici, aveva sempre rifiutato ogni invito tranne quella volta. Quando segnò un goal, tra le facce stupite di tutti, guardò lei e con il cuore le dedicò quel tiro a porta andato a segno. Lei usava il telefono, quando sentì tutti urlare e capì quello che era successo si alzò in piedi ed urlò a squarciagola il suo nome. Per chi li circondava non era successo niente di particolare, ma per loro era stato importante. Nel loro linguaggio, si erano detti che si volevano bene. La loro lingua era sempre stata quella, da quando si conoscevano. Gli bastava una semplice parola, uno sguardo, un cenno. L’incontro dei loro occhi traduceva lunghi ed interminabili discorsi. Non capiva se lo amava. Dopo alcuni giorni si rimise insieme ad Andrea, il ragazzo che aveva lasciato qualche settimana prima.

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Capitolo 8
*** Ottavo Capitolo ***


-Amore dove sono le chiavi della porta? - Urla Leo dall’ingresso. – Sono in cucina, sono quasi pronta.- Rispose Emma. Da quando hanno finito il liceo si sono trasferiti a Roma, dove vivono insieme da un anno. – Leo dove sei? - - Inizia a scendere, arrivo subito le valigie già sono in macchina. – Ogni volta che dovevano tornare a casa Leo prima di scendere rimaneva un po’ solo con la casa vuota, si chiudeva nel suo piccolo studio, dove leggeva. Leggeva le lettere che aveva scritto e mai spedito. Tutte con un unico destinatario: Gaia. Lo studio era modesto. Quando affittarono la casa era già arredato, ma si sentiva la presenza di Leo in quella stanza. Sulle mensole c’erano dei libri molto strani, parlavano dei misteri, dei grandi interrogativi dell’uomo e tutti con una copertina lucubra. Le lettere erano nascoste dietro i cassetti della scrivania. Leo non voleva che qualcuno le trovasse, perché erano sue e di nessun’altro. Per prenderle doveva togliere i primi due cassetti dai propri binari. Si sedeva a terra, con le gambe incrociate. Quella volta aspettò più del solito prima di decidersi ad aprire i cassetti. Tirò fuori, lentamente, prima l’uno e poi l’altro. Li toccava con molta delicatezza, quasi fossero dei reperti antichissimi. Prendeva tempo, prendeva coraggio. Tolse il primo, tolse il secondo. Non c’era niente. La scatola era sparita. Era una scatola non molto grande, un prisma rettangolare non molto alto, di colore verde con dei fiori bianchi. Una scatola che aveva comprato molto prima della nascita delle lettere. Una scatola che aveva acquistato per capriccio e non per utilità. Era rimasta nel cassetto vuoto della scrivania di casa sua. Un pomeriggio, per uno strano motivo iniziò a scriverle una lettera. Quell’inchiostro nero bruciava, e per non farla leggere ad Emma che entrò poco dopo la sua stesura, Leo la nascose con uno scatto veloce nel cassetto. Da una ne divennero due, poi tre, poi quattro. Non riusciva a strapparle. Quando doveva partire, per Roma, voleva lasciarle in quel cassetto, ma qualcosa dentro di lui gli disse di no. Si inventò la scusa che qualcuno le potesse leggere, per mascherare il suo bisogno di averle accanto. Averle era il modo per sentirla vicino. Quelle lettere non dovevano essere lette da nessuno. In quelle lettere, c’era il vero Leo. In quelle lettere le confessava il suo amore. Leo, in fondo, non aveva mai dimenticato Giagi. Non sapeva di preciso da quanto tempo mancavano dai cassetti. Era preoccupato, perché non sapeva chi le aveva prese. Rimase a guardare il vuoto per poco tempo, rimise tutto al proprio posto e scese molto velocemente. Durante il viaggio parlarono poco. Leo era pensieroso. Non sapeva che fine avessero fatto quelle lettere. Forse le aveva prese la mamma, “impicciona come era le avrà trovate qualche giorno che venne a casa” pensava Leo. Era venuta qualche settimana prima, ma aveva visto poco Leonardo, il quale era stato impegnato per lavoro. Non aveva il coraggio di chiederle se la mamma fosse entrata nel suo studio. – Mah…mia madre quando è venuta è entrata nel mio studio? – si fese coraggio. – Si, perché? Voleva mettere in ordine.- Rispose Emma. – Così, per sapere perché oggi cercavo dei fogli sulla scrivania, ma non c’erano. – Inventò una scusa. Emma preoccupata chiese se erano importanti, ma lui rispose di no. Il viaggio durò poco, almeno sembrò così. Arrivati in città, scesero le valige a casa del padre di Emma che era ancora a Londra. Mentre la ragazza rimase lì per aprire la casa, Leo tornò nella sua vecchia abitazione, per salutare la madre. Quando arrivò, però, lei stava uscendo. Dopo essersi salutati gli disse che c’era una cosa per lui nel mobile in cucina era di una sua vecchia amica. Leo si precipitò subito in cucina, aprì il mobile e iniziò a cercare. Trovò una busta bianca con scritto sopra per: “ Per il mio caro Leo”. Non c’era altro, né francobollo, né indirizzo. La lettera era stata consegnata a mano. Riconobbe la scrittura. Non la aprì subito. Andò nella sua vecchia camera, uguale come molti anni prima. Si sedette sul letto. Si guardò intorno. Ricordò qualche episodio della loro amicizia. I loro sabati pomeriggio. Le loro risate. I loro discorsi. I loro litigi. I loro segni d’affetto. I loro sogni. I loro capricci. “Caro amore mio, qualche giorno fa ho ricevuto le tue lettere. Non chiedermi chi è stato a mandarle. Non fare domande ad altri, ti prego. Non conoscere chi ti ama più di me. Eh bene si, ti amo. In questo momento sarai pieno di rabbia, di dolore, e per egoismo forse mi dirai che non mi ami più. Ma quelle parole, piene di rabbia era piene anche d’amore. Sono stata una stupida. Non ti ho voluto quando ti avevo, ma ti ho sognato quando non c’eri. Sono ritornata molte volte in quel parco. Quello in cui, quel pomeriggio, ormai lontano, ma vivo nei miei ricordi, giocasti a pallone, nel campetto. Fu la prima volta che gridai il tuo nome a gran voce. Ricordi? Da quel pomeriggio, in cui mi dicesti di amarmi, ritorno lì, per vederti. Ritorno, e da sola urlo il tuo nome; in estate, in inverso, in primavera, in autunno. Sei divento per me, troppo importante. Ti ho avuto sempre, ma non mi rendevo conto del bene che ti volevo, che mi volevi. Quando ti ho perso, per colpa mia, credevo fosse tua. Non capivo che mi amavi, non volevo capire. Andrea allora, credevo fosse il mio tutto, la mia vita. Ma lui non mi capiva come te. Lui non mi conosceva. Lui non era stato accanto a me, nei giorni brutti della mia vita. Tu invece si. Ci è voluto molto tempo, ma alla fine l’ho capito, l’ho accettato: io ti amo. Non chiedo nulla, perché ti ho fatto soffrire. Hai sofferto lo so. Quando mi sono fidanzata. Quando ti ho trascurato. Quando mi dicesti di amarmi, ma il giorno dopo ritornai da lui. Ora sono single da molto, aspettavo te. Ti ho visto, l’altra volta con Emma. Ormai sei felice, ma il dolore che ti ho causato, in qualche modo, forse per caso, forse per giustizia, è tornato a me. Non chiedo nulla, solo il tuo perdono, se puoi darmelo. Lo so chiedo molto, ma anch’io come te ho pianto. Come ora, che ti scrivo. Amarti è bello, sognarti anche, ma averti è un privilegio. Una parte di te sarà sempre mia, come dici tu, ma ora vai avanti. Posso esiste senza te. Non chiedermi di vivere. Anch’io ho pianto quel giorno. Ho pianto dopo che te ne sei andato. Ho pianto quando ti ho visto baciarla, ma non ci potevo far niente. O meglio, non ci volevo far niente. Allora potevo, ma non accettavo il fatto che per me non era un semplice, migliore amico. Sei troppo importante per me, da dirti lascia tutto. Io ti aspetto, ma non chiedo di raggiungermi. Sei troppo speciale. Non devi farla soffrire. So cosa si prova. Ora lo so. Ora posso immaginare cosa ti sia costato restarmi amico. Amarti è stato bello, conoscerti un privilegio. Ogni notte mi addormento sorridendo, perché l’ultimo mio pensiero sei tu. Quando vedo una stella cadere non chiedo di averti, ma solo la tua felicità. Perché non so chi lo abbia detto, ma se ami devi lasciare andare. Ed io prima non volevo lasciarti andare. Ma il dolore fa crescere. Ed io sono maturata. Ho capito di amarti, il giorno stesso in cui ti dichiarasti, ma mi ci è voluto tempo prima di accettarlo. Quanti pomeriggi, ho passato nella tua stanza, da sola. Si tua madre mi ha fatto entrare, e sa cosa provo per te, quante chiacchierate abbiamo fatto, ma non chiederle nulla, non sa della nostra corrispondenza.  Ti prego io ti amerò in silenzio, tu nel silenzio nascondi queste parole. Ti amo piccolo mio. Per sempre tua Giagi” Leo asciugò le lacrime di commozione. Andò in bagno si sciacquò la faccia e riprese la lettera. Gli diede l’ultimo sguardo, poi la ripose nella busta. La mantenne in mano fino a quando non sentì aprire la porta. In tutta fretta aprì il cassetto della scrivania e la gettò lì. Non la lesse più. Molti anni dopo, in uno dei più importanti giorni della sua vita, cercò un conforto nel momento di maggiore fragilità, si ritrovò da solo in quella stanza, ma della lettera non c’era più traccia.

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