Storia di Amir, il bambino dell'ombra

di Carlo Bisecco
(/viewuser.php?uid=502935)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Senegal ***
Capitolo 2: *** Famiglia ***
Capitolo 3: *** Guerra ***
Capitolo 4: *** Mare ***



Capitolo 1
*** Senegal ***


Amir è un bambino come tanti altri. Amir è un bambino di otto anni. Amir frequenta la terza elementare. No, Amir non è come gli altri bambini, lui vive come un'ombra. Amir è un bambino con la pelle scura.
Amir è nato in Senegal un anno e tre mesi prima che scoppiasse un piccolo scontro nel suo villaggio. Con il peggiorare del conflitto i genitori hanno deciso di imbarcarlo su un gommone che l'avrebbe portato alla salvezza non appena avessero avuto i soldi necessari.
Il padre iniziò a svolgere tre lavori per un totale di ventuno ore di impiego giornaliero; la madre tesseva anche di notte e guadagnava straordinari con atti di cui lei stessa si vergognava ma che davano un buon profitto, così Amir sarebbe partito più presto.
A malincuore avevano deciso che sarebbe partito da solo, il costo per la "Nave della Salvezza" era troppo alto e a stento sarebbero riusciti a pagare per il piccolo Amir.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Famiglia ***


Amir era nato in una giornata di pioggia torrenziale che più che rinfrescare, portava con sé un’insopportabile ondata di calore.
I genitori decisero di dargli quel nome perché anni prima era stato quello di uno dei più importanti e umili capi del loro villaggio.
Poco dopo la sua nascita, la madre di Amir rimase nuovamente incinta, ma purtroppo abortì e perse la possibilità di generare altri bambini.
Amir non capiva, era troppo piccolo, iniziava appena a muovere i primi passi, ma vedeva sempre la madre piangere ed era una cosa strana, perché gli adulti del villaggio non piangevano mai. Lui nutriva profonda ammirazione per lei, il suo amore andava ben oltre quello che lega un figlio alla propria madre, lui vedeva quella giovane donna già segnata dalle fatiche come un oggetto di inestimabile valore da proteggere.
Lui sarebbe sempre stato accanto alla madre, avrebbe ripagato il suo amore con altrettanto amore e l’avrebbe aiutata nel momento del bisogno mentre il padre era assente per il lavoro con cui tentava di nutrire la famiglia, restando a volte per intere giornate a digiuno per dare un frutto in più al bambino.
Amir era davvero piccolissimo, ma il suo destino era già scritto, la sua vita non sarebbe mai stata facile, a partire da un violento e improvviso distacco dalla sua famiglia.
La madre appena un mese dopo averlo dato alla luce, tornò al suo lavoro di tessitrice sottopagata lasciando il suo piccolo gioiello ad una vecchia del villaggio che faceva da bambinaia .
Il padre scomparve per circa quattro mesi per iniziare a lavorare in una nuova fabbrica appena costruita a qualche chilometro di distanza; si occupava di controllare il funzionamento dei macchinari che raffinavano lo zucchero di canna e se si inceppavano doveva capire cosa non andasse e riparare il danno.
Non era un ingegnere o quant’altro, non aveva studiato e non sapeva come funzionassero quei mostri robotici, ma aveva uno spiccato senso pratico e fu grazie alla sua velocità di apprendimento che fu assunto.
Appunto per il primo periodo, quei quattro mesi, dovette dimostrare la sua serietà e la volontà di lavorare davvero, in ogni condizione, anche ventiquattro ore al giorno con pasti che a malapena sarebbero bastati a sfamare un bambino di cinque anni.
Dopo il primo periodo il suo turno si ridusse sempre più fino a durare solo dieci ore. In tal modo riuscì a tornare a casa quasi tutti i giorni e riuscì anche a guadagnarsi qualche soldo in più tra la pesca di notte e spaccando la legna nelle ore serali.
Non sapeva quanto ci sarebbe voluto, ma suo figlio, Amir, non sarebbe mai rimasto lì, non avrebbe mai dovuto lavorare così tanto e assistere a scene di maltrattamenti così violenti sulle persone.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Guerra ***


Tra continue fatiche e risparmi, passò un anno.
Da un mese era già scoppiata una rivolta tra i capi del governo e una grande multinazionale, così era stato riferito al padre di Amir, che voleva impossessarsi di tutte le risorse del sottosuolo.
Loro non lo avrebbero mai permesso. Nel proprio idealismo la loro terra era sacra, come un tesoro da preservare o una reliquia a cui chiedere la grazia in un momento di sconforto.
Gli americani, pur senza avere i permessi necessari, iniziarono a scavare una grande cava nelle colline che preannunciano la presenza del Fouta Djalon non molto lontano, anche se in un altro Stato.
Inutile dire che oltre all’esercito mandato dal governo, a lottare affinché venissero bloccati i lavori, c’era anche gran parte della popolazione.
Gli americani, non accennando ad una ritirata, iniziarono ad essere avvertiti di un possibile attacco, ma arroganti come sempre, ignorarono con naturale leggerezza le minacce.
Due settimane dopo ci fu la prima strage: l’esercito senegalese attaccò gli uomini che stavano lavorando su enormi mostri della tecnologia capaci di frantumare la roccia con due bombe quasi artigianali, di poco valore, ma di grande effetto.
Si generò un incendio e oltre ai numerosi macchinari, gli americani persero ventiquattro uomini, alcuni dei quali erano stati uccisi dalle esplosioni, altri morti carbonizzati nel tentativo di salvare i colleghi.
Passarono appena due giorni prima che partisse la controffensiva americana.
Con armi più avanzate e potenti procurarono al Paese la morte di ben duecentoquattordici persone, con donne e bambini innocenti compresi, tutti investiti da varie esplosioni di bombe lanciate con aerei da guerra di ultima generazione.
Fortunatamente lo scontro stava avvenendo a molti chilometri di distanza dal villaggio dove era nato Amir, ma i genitori ne erano certi, non ci sarebbe voluto molto perché i bombardamenti distruggessero anche quel lembo di terra vicino al fiume Senegal che scorre placido fino all’ Oceano Atlantico.
Stava arrivando il momento di far partire Amir, di abbandonarlo su un gommone con chissà quanti altri uomini in cerca di salvezza, verso una meta sconosciuta, una terra ospitava tutti, al centro del Mediterraneo.
Una terra chiamata Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Mare ***


Ventitre giorni dopo Amir si trovava su una barca che non sarebbe bastata a portare quindici persone ma che in quel momento ne ospitava almeno una novantina, la maggior parte di cui erano uomini ma si potevano riconoscere anche alcune donne e qualche bambino.
Erano stipati come degli animali quando vengono trasportati in quelle celle ambulanti quasi senza luce e senza ossigeno che si possono vedere ogni giorno sulle autostrade italiane.
La differenza tra quelle persone imbarcate con Amir e quelle bestie destinate al macello era solo che loro si trovavano in abbondanza di ossigeno, ma soprattutto di luce, con un sole rovente che batteva senza mai oscurarsi per almeno quattordici ore al giorno, se non addirittura di più.
Amir era impaurito, il padre l’aveva strappato dalle braccia della madre per gettarlo su un barcone insieme a tantissimi sconosciuti.
La mamma l’aveva affidato ad una donna, Afya, che viveva poche capanne più avanti alla loro e che partiva con i suoi tre figlioletti.
Amir si sarebbe potuto mettere a giocare con quei bambini, loro lo avevano anche invitato a partecipare a qualche gioco, ma lui non aveva risposto, era solo rimasto in disparte, accucciato in un angolino abbracciando le ginocchia mentre immaginava di abbracciare ancora il collo della madre.
Afya aveva provato a parlargli e ad abbracciarlo, ma lui l’aveva scansata ed aveva rifiutato di pronunciare qualsiasi parola, si era abbandonato ad una situazione di mutismo ed emarginazione sociale volontaria.
Silenzioso ancora si chiedeva perché il padre avesse potuto fargli tutto quel male, perché lo avesse abbandonato; lui era un bravo bambino e lui invece era diventato un padre cattivo.
Su quella piccola imbarcazione di fortuna Amir promise a se stesso di non perdonare mai il padre per ciò che gli aveva fatto è giurò di tornare nella sua terra, il Senegal, per poter rivedere la madre e riacquistare il rapporto perso.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2108470