City Of Angels di sleepingwithghosts (/viewuser.php?uid=163505)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque. ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette. ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto. ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove. ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci. ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici. ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici. ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici. ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno. ***
«I
miei genitori mi butteranno fuori di casa»,
mi lagno, sentendo la faccia
contrarsi in una smorfia.
«Devo
ricordarti che fra due mesi andrai all’università
e che di conseguenza avrai
comunque già cambiato casa?»,
mi dice Frances.
«E
Paese, non scordiamoci che cambierà – cambieremo
– anche Paese», aggiunge Rain.
Sbuffò.
«Ho appena speso tutti i soldi che avevo risparmiato in un
anno per questo
stupido volo. A Londra mi ciberò di erba rubata da Hyde Park
e acqua del Tamigi»
«Tutti
prodotti di ottima qualità inglese, mi sembra, o
sbaglio?», ridacchia Rain.
Sorrido,
non riuscendo a trattenermi. «Sono una persona
morta».
«Ma
tu», comincia Frances puntandomi addosso i suoi occhi azzurri
«dove diavolo eri
quando Dio distribuiva lo spirito d’avventura?»
«A
lavarsi i denti, probabilmente», risponde Rain.
Alzo
gli occhi al cielo. «Vi odio. E ho paura che questo
stupidissimo aereo
precipiti da un momento all’altro».
Paranoica?
Sì. Petulante? Anche. L’ansia fa parte di Deborah,
ne è la padrona, la domina. Le
ansie di Deborah hanno l’ansia.
Deborah
sono io e in questo momento sento che sto per avere un attacco di
panico, uno
di quelli che mi succhiano via tutto il respiro, e che
morirò presto. Nessuno mi
potrà salvare da qui su. Morirò su questo scomodo
sedile di seconda classe,
guardando i tuoni fuori dal finestrino e pensando che almeno non mi
sono
sfracellata al suolo. Potranno ancora portarmi i fiori al cimitero e
tutto il
resto.
«Non
hai sentito una parola di quello che ho detto», constata Rain
dopo un po’.
«Mh».
Ops.
«Lo
sapevo. Chi è che odia chi?», dice incrociando le
braccia al petto.
«Sembri
una bambina di due anni».
«Sembri
una vecchia di cento anni», ribatte lei.
«Quest’aereo
non si schianterà e hai solo un attacco di panico, non stai
morendo d’infarto. Stai
calma, Deb. E tu Rain, per favore, ti supplico, smettila di
infierire», dice
Frances prima con un tono dolce e poi con uno implorante.
«Okay»,
diciamo in coro io e Rain. Mi volto verso di lei che mi fa una
linguaccia, e io
le sorrido. I battibecchi come questo sono all’ordine del
giorno, tra me e lei.
Dopotutto siamo migliori amiche.
«Quindi»,
ricomincio, e le vedo irrigidirsi, preparandosi ad un’altra
raffica di frasi
fatte per alleviare il mio panico «dato che siete sicure che
non precipiteremo
e che non avrò un infarto fulminante, dato che siete
così sicure che a Los
Angeles ci
arriveremo vive, intatte,
soprattutto (l’idea del veicolo che
si
schianta al suolo e me stessa divisa in mille pezzettini come Voldemort
nell’ultima
scena di Harry Potter e i doni della morte parte II non riesce ad
abbandonarmi
la mente) mi ripetete come, di preciso, riusciremo a scovare
Jared, Shannon
e Tomo?»
In
un secondo si sciolgono e cominciano a sorridermi. Due sorrisi
così malvagi da
farmi accapponare la pelle. Quei sorrisi urlano “ma per chi
ci hai preso, due
deficienti?”. Gli stessi sorrisi di quando, per la prima
volta, mi avevano esposto
il loro piano. Non è che avessi avuto molta scelta, il
giorno in cui si erano
presentate a casa mia sostenendo che loro sapevano che avrei
sicuramente detto
di sì e che quindi i soldi del biglietto li avevano
anticipati loro; ricordo di
averle guardate confusa chiedendo di che biglietto stessero parlando,
immaginandomi l’adrenalina prodotta da un nuovo concerto o la
meraviglia
davanti a un quadro che non avevo ancora visto, ma no, ovviamente non
era così.
Lo compresi quando Frances mi sventolò sotto il naso un
cartoncino lungo e
spesso: biglietto aereo last minute per la città degli
angeli. Devo
proprio specificare il fatto che ci
mancava poco ad un rovinoso svenimento?
Ora,
con la tempesta che infuria fuori dal finestrino alle mie spalle,
l’ansia
annidata nello stomaco e le unghie ormai divorate, guardo Rain
gonfiarsi
soddisfatta. «Google sa tutto», dice
«anche l’indirizzo esatto del The Hive»
È
solo una malsana idea che mi è spuntata in testa dopo aver
visto Artifact
insieme a due amiche. Non so ancora bene che cosa ne uscirà,
ma sono sicura che
non sarà nulla di intelligente. Io vi avvertiti. Deb.
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Capitolo 2 *** Capitolo due. ***
Frances
si
chiama così perché sua mamma ama Dirty Dancing.
Tutte le mamma amano Dirty
Dancing (io lo amo, perdio) ma la sua lo amava così tanto da
dare a sua figlia
lo stesso nome della protagonista. Potrà sembrare una cosa
folle, ma la madre
della mia amica un po’ folle lo è sempre stata.
Ascoltando i suoi racconti,
seduta sul divano bianco di casa sua, mi ritrovo spesso a bramare fiori
fra i
capelli e vestiti hippie, e dieci secondi dopo a essere catapultata
nell’era
punk di Londra. E poi ti fa adorare Parigi, che conosce come le sue
tasche, e i
libri, e i film. Stai certo che quel libro a cui stai pensando lei
l’ha letto,
che quel film sconosciuto e meraviglioso che hai per caso trovato
durante un
attacco acuto di insonnia in un canale che non sapevi nemmeno esistesse
nella
tua televisione, lei l’ha visto.
Tutto
questo
per dire che Frances è come lei: una raffinata,
intelligente, super-acculturata
ragazza bionda. Ebbene sì, non tutte le bionde sono stupide
ed insulse. E ve lo
dico perché ero io quella che durante i compiti di filosofia
dimenticava la
parola chiave di tutto il discorso e la chiedeva lei, china sul foglio
e
nascosta dai lunghi capelli. Frances è una di quelle ragazze
che vedi e
dichiari da subito perfette. Per me, almeno, è stata
perfetta fin dal primo
giorno.
«Che c’è?», mi
chiede notando che la fisso da minuti.
«Stai
rileggendo Il Grande Gatsby. Non
era
il mio di libro preferito, quello?»
«Te l’ho
fatto scoprire io, se non sbaglio»
«Giusto. Continua
a parlare di proibizionismo?», la punzecchio.
«Oh,
smettila!», risponde irritata, tradendo però un
sorriso. «Ancora questa storia?»
«Non ti
lascerà mai in pace per quella storia»,
s’intromette Rain.
Il succo di
quella storia è che,
quando quel libro
l’avevamo studiato a scuola, Frances se ne era saltata fuori
con il
proibizionismo, dicendo che era sicuramente quello il punto centrale
della
narrazione, ricevendo, come di consueto, elogi dalla professoressa. Il
fatto è
che la storia d’amore fra Gatsby e Daisy è
l’argomento centrale del libro,
punto e basta. Poi tutto il resto è un bla bla bla di
sfondo.
«Mai»,
confermo dandole una pacchetta sulla gamba. «I tuoi capelli
sembrano più biondi
del solito»
«Dici?»
«Dico. Sembri
un angioletto». Sbatte le ciglia e assume
un’espressione angelica. Scoppio
a ridere. «Come mai, comunque, non
stai studiando cadaveri morti o cose del genere?». Non vi
suonava ovvio il
fatto che volesse diventare medico?
«Io non
studio cadaveri morti!», mi dice indignata.
«Quello che
è». Ho sempre odiato le scienze, non ci ho mai
capito un’acca. In più sono ipocondriaca.
Stadio terminale di ipocondria. Io salvare vite? Direi che sono
già troppo
impegnata a salvare me stessa dalla paranoia, l’ansia, la
mancanza d’equilibrio…
no, non fa per me.
«Siamo in
vacanza», risponde alzando le spalle.
Sono sconvolta.
«Mi stai dicendo che in valigia non hai nessun
tomo?»
«In realtà
conto di avercelo in valigia al ritorno, Tomo», ammicca.
Alzo gli
occhi al cielo. Che, tecnicamente, è sotto di me. Affianco a
me? Io sono dentro
al cielo, in quest’istante. O no? Sempre detto che gli aerei
sono macchine
infernali. Mi mandano in confusione. «La valigia di Frances,
a Natale nel
cinema della tua città»
«Natale
ovvero tre Settembre»
«Amen»
Rain ci
guarda. «Che cazzo state dicendo?»
«L’altezza
mi da la testa», dico mettendomi sugli occhi la mascherina
che mi hanno dato
nel kit di sopravvivenza alle infernali nove ore di volo che mi
aspettano. «Forse
dovrei dormire»
«Sia
ringraziato il cielo. Dormi», esclama Rain. Alzo un angolo
della mascherina e
le lancio un’occhiata che potrebbe uccidere. «Sei
insopportabile oggi, scusa»
«Sono in
ansia, in-ansia»
«Tu sei
sempre in-ansia»
«Capita»
«No, alle
persone normali non capita»
«A quelle
paranoiche sì»
«Okay»
«Okay»
«Fanno The
amazing spiderman», dice Fances, il
ritratto della calma, per nulla scalfita dai nostri battibecchi,
infilandosi le
cuffie nelle orecchie. «Dormite o tacete». Concisa
e autoritaria.
Mi muovo
sul sedile, in preda ad una strana eccitazione. Amo i supereroi quanto
la
pizza. E posso giurarvi che la amo alla follia. «La scena
della biblioteca è
fenomenale»
«Niente
spoiler», dice Rain.
«Tu hai il
mio dvd da tre mesi. Non l’hai ancora visto, in tre
mesi?»
«No, non l’ho
ancora visto. Ma lo sto per vedere, no?»
Mi manca l’aria.
«Hai tenuto in ostaggio il mio dvd per tre mesi!»
«Sta bene,
se ti può consolare»
«No, non mi
consola per niente. Rivoglio il mio dvd»
«Quando
torniamo a casa»
«Grazie»,
borbotto. Lei fa un gesto con la mano e mi zittisce.
Un paio d’ore
dopo, a film terminato, una hostess minuta ci porta il pranzo. Ha un
sorriso
gentile e mi rilasso un po’, anche grazie al cibo, nettare
degli dei, mio
grande amore, mia fonte di gioia. Il cibo rende le mie giornate
più felici, e
non c’è nient’altro da aggiungere.
Mangio il budino come se non avessi la
possibilità di mangiarlo mai più, sebbene non sia
per niente gustoso. Finito il
pranzo, appoggio la testa al sedile, inforco la mia mascherina e mi
addormento,
anche grazie alla pancia piena.
Sarà un
lungo, lunghissimo, terrificante, noioso viaggio. Ma dicono che ne
valga la
pena. Chi? I miei pensieri, che quando abbasso le palpebre mi mostrano
due
grossi occhi azzurri. E noi, quegli occhi, vogliamo trovarli, guardarli
e
perché no, farli sorridere. Siamo un trio simpatico, dopo
tutto.
Non mi
convince per niente, ma non mi convinceva neppure la versione che avevo
scritto
prima di questa, quindi mi arrendo alle mie non doti. Spero, comunque,
di
avervi strappato un sorriso anche questa volta.
Deb.
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Capitolo 3 *** Capitolo tre. ***
La
voce leggermente stridula di una hostess mi sveglia dal sonno
tormentato in cui
sono caduta, letteralmente, dato
che
ho sognato di precipitare dentro un buco, come Alice, ma senza coniglio
bianco
o porte minuscole; nel sogno mi limitavo a vegetare dentro quello che
sembrava
un pozzo molto fondo per il resto della mia vita, e non morivo
cibandomi di
strane rape blu che crescevano lì dentro. Non sono mai stata
del tutto normale,
in fatto di sogni. E no, non sono una consumatrice di LSD, se ve lo
state
chiedendo. Faccio solo sogni strani. Capita, è
così che va la vita, alcune
persone fanno sogni strani, altre li fanno nella norma, altre ancora
non li
fanno. Capita.
«Signorine,
stiamo per atterrare, dovete allacciare le cinture», dice la
hostess con la
voce non poco irritante. Ancora intontita dal sonno, annuisco. devono
farlo
anche le mie amiche, perché lei ci avvolge con un sorriso
rugoso – non sapevo
che le hostess potessero avere più di trentacinque anni,
sono contenta che la
discriminazione non sia arrivata ancora a questi livelli – e
se ne va ad
avvertire qualche altro passeggero che come noi, durante il volo, si
è
addormentato.
«Quanto
tempo abbiamo dormito?», chiedo alle altre.
«Tu
sei crollata come un sasso finito il pranzo, con la pancia
piena», risponde con
un sorrisino Rain.
Non
mi convince quel sorriso. «Perché
sorridi?»
Tossichia.
«Sei carina quando dormi»
«Non
prendermi in giro», le dico puntandole un dito contro il
petto. «Perché diavolo
stai sorridendo in quel modo inquietante? Rispondi»
«Che
maniere!», sbuffa. «Diciamo che, emh… ti
ho aiutato a fare sogni tranquilli»
«Sono
caduta dentro un fottuto buco buio a cibarmi di rape blu, nel mio sogno
tranquillo». E in quel momento collego. È vero che
faccio sogni strani, ma rape
blu? «mi hai drogata?», boccheggio.
«Ti
ho messo un tranquillante nell’acqua, giusto per farti
addormentare. Frances,
l’ha messo, per la precisione»
Guardo
Frances che si stringe nelle spalle. «Mi spiace, ma noi
abbiamo detto no agli
attacchi di panico»
«Traditrice»,
sibilo guardandola in cagnesco.
Sento
qualcuno che mi appoggia una mano sulla spalla e alzando gli occhi noto
che è
l’hostess di prima, un qualche sentimento negativo nei miei
confronti
mascherato da un sorriso in volto. «Sì,
scusi», dico imbarazzata trafficando
con la cintura e riuscendo, dopo svariati tentativi, ad allacciarla.
Alzo la
testa e le sorrido.
Sono
quasi sicura di essermi meritata una maledizione da parte sua, quindi,
sconsolata, mi accascio sul sedile, ancora con il torpore tipico del
sonno in
testa. Mi volto a guardare le mie amiche e le vedo molto prese a
osservare
qualcosa fuori dal finestrino. Da dove sono io, il sedile vicino al
corridoio –
condizione tassativamente imposta da me stessa in quanto 1) in caso di
nausea
posso correre in bagno, 2) meno vedo fuori dal finestrino meglio
è, 3) alla mia
sinistra non c’è nessuno, il che significa che
rimane più ossigeno per la
sottoscritta, 4) voglio essere la prima ad essere avvertita della
propria imminente
morte, in caso sia necessario – non riesco a vedere bene che
cosa stiano
indicando, ma non me ne curo (vedi punto 2 della soprastante lista) e
invece
chiudo gli occhi, sperando di sentire di meno tutti gli strani
movimenti che
l’aeroplano compie in fase di atterraggio, auto convincendomi
che se non vedo
allora andrà tutto bene.
E
va tutto bene, effettivamente. Il problema è che qui, a New
York, ci stiamo tre
ore. Ci concediamo un caffè, una capatina al bagno a
rinfrescarci la faccia che
ha l’aspetto di un’esperienza post morte (la mia,
almeno, Frances è perfetta
come sempre) e poi un altro caffè, stavolta con la panna
sopra, giusto perché
tanto grazie all’ansia sono dimagrita di qualche chilo. E poi
facciamo un altro
check-in e ci imbarchiamo. Di nuovo.
Un’ora
dopo mi ritrovo inevitabilmente a lamentarmi. È nella mia
natura, non posso
farci nulla. «Tutti questi aerei mi faranno venire i capelli
bianchi», sbuffo.
«Mi
spiace deluderti ma sono ancora deliziosamente fucsia»,
ribatte Frances.
«Non
serve rimarcare il fatto che l’unica bionda, e quindi con
qualche misera
possibilità di far colpo su Jared, fra le tre, sei
tu»
Sorride.
«C’est la vie»
«Voi
e il vostro francese del cavolo»
«Dovevi
metterci più panna in quel caffè. Sai, magari ti
addolciva», interviene Rain.
Bene,
sono pure acida adesso. Sbuffo di nuovo, abbassandomi ad allacciare una
scarpa.
Casualmente, e i peli mi si rizzano sulle braccia, noto il tempo
davvero poco
carino fuori dal finestrino. «Di nuovo una tempesta? Io non
ce la faccio!». Voglio
morire prima che un lampo entri dentro questa macchina infernale e mi
faccia
diventare un mucchietto di cenere, è tanto da chiedere?
Rain
alza gli occhi al cielo. «Non morirai»
«Tutti
muoiono»
«Non
morirai adesso»
Borbotto
un «questo lo dici tu» che credo non senta, dato
che non pervengo nessuna
risposta scocciata. Con lo stomaco chiuso, comincio a grattarmi via lo
smalto
dalle unghie, tanto per passare il tempo. Infine sto andando a Los
Angeles, non
a farmi decapitare da un boia, un po’ di entusiasmo potrei
ostentarlo, ogni
tanto, no? Prendo un grosso respiro e decido che sì, la mia
faccia potrebbe
rilassarsi un pochino e che le probabilità che io muoia, in
fine, non sono poi
alte. Posso davvero calmare i nervi.
Posso
eccome, ma l’aereo comincia a traballare, e lo stomaco mi
finisce in gola.
Vorrei urlare ma non ci riesco. «Che cazzo
succede?», annaspo, chiedendolo a
nessuno in particolare.
La
voce di un’hostess esce dagli altoparlanti «Si
avvisano i gentili passeggeri di
mantenere la calma. Le turbolenze termineranno appena avremmo
sorpassato la
tempesta»
La
voce di Hagrid che afferma “Arriva
una
tempesta Harry, proprio come l’ultima volta”
mi rimbomba in testa. Moriremo
tutti, e non per mano di Voldemort. Oh, quella sì, che
sarebbe stata una morte
degna. Moriremo tutti perché questo aereo perderà
un ala, prenderà fuoco, e si
schianterà al suolo. «Non ce la faccio»
Frances,
al mio fianco, mi appoggia una mano sulla gamba. «Calmati.
Sorpasseremo il
temporale in fretta, vedrai»
Faccio
dei grossi respiri, ma l’aria non vuole saperne di arrivare
al polmoni. Ripeto
l’operazione un paio di volte, prima di riuscire a sentire
l’ossigeno arrivare
al cervello di nuovo. E in quel momento, l’aereo si muove
violentemente di
nuovo. D’istinto, mi aggrappo a Frances. «Oh
Dio»
«Calma»
«Vaffanculo.
Come faccio a stare calma? Questo coso si muove!»
«Shh,
abbassa la voce, stai urlando», mi intima Rain. Lei mi guarda
e mi sorride. «Tesoro,
calmati, ti prego. Va tutto bene»
Vorrei
dire che me la sto facendo sotto dalla paura, non che non si capisca,
ma il
briciolo di dignità che mi rimane, mi sprona ad annuire.
«Okay», è l’unica
parola che riesco a sillabare.
Ritorno
alla mia posizione originale, sebbene io sembri di più uno
stoccafisso che un
essere umano, e cerco di stabilizzare il mio respiro, focalizzando
tutta
l’attenzione sul battito del mio cuore e
sull’alzarsi e l’abbassarsi del mio
petto. Ce la puoi fare, mi ripeto. Va tutto bene, benissimo.
«Vedi?
Le turbolenze sono finite», dice Frances con sorriso tenero
in volto. Mi limito
ad annuire.
Le turbolenze sono
finite, ultime
parole famose. Non so di preciso che cosa succeda, dato che accade
tutto troppo
velocemente, ma qualcosa, qualcuno,
a
causa dell’ennesimo assestamento del veicolo, ci piomba
addosso. Finisce dritto
disteso sulle nostre gambe e ci paralizza. L’uomo
– deduco sia di sesso maschile per
l’altezza e per il modello di scarpe – rimane per
qualche secondo in quella
posizione imbarazzante, poi, agilmente si alza, borbotta qualche scusa,
e se ne
va.
Mi
volto verso Frances e Rain con espressione
confusa. «Che cos’è appena
successo?»
«Un
tipo ci è caduto addosso», risponde Frances,
corrucciata.
«Sbaglio
o aveva una felpa, una giaccia e un’altra giacca legata alla
vita?», dico.
«Sbaglio
o era super muscoloso?», rincara Rain.
«Sbaglio
o non l’ho visto in faccia perché aveva il
cappuccio e degli occhiali da sole?»,
aggiunge Frances.
Tre
giacche, quando la temperatura è decisamente gradevole.
Occhiali da sole quando
di sole non c’è neanche l’ombra.
Cappuccio, quando non piove (per lo meno non dentro
all’aereo). Muscoli. Il mio cervellino da criceto sta
lavorando, e anche molto
in fretta. «Voi non pensate sia…?»
Ci
scambiamo uno sguardo d’intesa che dura un tempo infinito.
«Nah, quello non può
essere Jared», sentenzio alla fine, scuotendo la testa.
«No,
non può essere», concorda Frances.
«Questa cosa ci sta decisamente dando alla
testa»
«Pazze per Jared
Leto, chiamerò così la
mia prima serie tv», affermo. L’ansia comincia a
passarmi, anche grazie
all’annuncio promulgato dagli altoparlanti il quale dice che
la tempesta sembra
essere passata.
Controllo
l’ora sul telefono, calcolando circa mezz’ora
all’atterraggio e mi collego
prima a Twitter, ma non noto nessuna informazione interessante. Dunque
passo a
Tumblr, patria di noi lupi solitari e asociali. Delle foto mi saltano
subito
all’occhio. Delle foto di Terry Richardson. Delle foto di
Jared Leto scattate
da Terry.
«Si
avvisano i gentili passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza per
l’atterraggio e di spegnere ogni apparecchio che potrebbe
disturbare le linee».
Allaccio
quell'imbracatura e butto il telefono nel bagagli a mano, con
un gesto meccanico, poi
mi volto verso le mie amiche. «Terry
ha
recentemente scattato delle foto di Jared».
Mi
guardano perplesse. «Quindi?», chiede Frances.
«Quindi
lo studio di Terry è a New York»
«…quindi?»,
ribadisce Rain.
«Quindi Jared era a
New York. Recentemente.
Quindi quell’uomo che prima ci è caduto addosso
potrebbe…»
«Oh
mio Dio», dice Rain.
«Ohh»,
dice Frances.
L’atterraggio
inizia e io rimango incollata al sedile. La saliva, inoltre, mi si
è seccata in
bocca e non riesco a deglutire bene. Barcollando scendo
dall’aereo, guardandomi
invano intorno cercando il ragazzo con la felpa nera e gli occhiali da
sole e
le due giacche, il presunto Jared Leto, ma di lui nessuna traccia. Noto
come
Rain e Frances stiano facendo la stessa cosa; noto dalle loro facce
deluse che
nemmeno loro l’abbiano individuato.
Aspettiamo
davanti al nastro trasportatore le nostre valige, che tardano ad
arrivare. Per
un momento dimentico Jared, le foto di Terry e tutto il resto
perché Frances
sta avendo un vero e proprio attacco isterico. A quanto pare la sua
valigia, a
contrario di quella mia e di Rain, non è arrivata a
destinazione.
«Io
li denuncio. Dove cazzo è la mia valigia? Cosa devo fare,
adesso?», dice, le
mani fra i capelli.
«Andiamo
a chiedere a qualcuno, okay?». Ora che i miei piedi sono ben
piantati a terra,
personifico la calma. Ci incamminiamo verso quello che ci sembra il
posto più
indicato, ascoltando i borbottii irritati e arrabbiati di Frances.
Chiede
all’uomo burbero dietro il bancone che cosa deve fare per
ritrovare la sua
valigia, e lui, di rimando, le dice di aspettare.
Sto
per alzare gli occhi al cielo indispettita in quanto dovremmo
sicuramente
aspettare un’eternità, quando vedo di nuovo quel
cappuccio, quelle scarpe, quei
pantaloni.
«Ragazze»
«Cosa?»,
chiedono in coro.
«Eccolo»,
esclamo. «Eccolo, è lui»
Ricominciamo
a camminare, dimenticando la questione valigia, e seguendolo a distanza
per poi
fermarci all’improvviso quando lui si
alza una manica della felpa. Un tatuaggio che conosco molto bene mi si
para
davanti agli occhi. Il respiro mi si mozza in gola. «Porca
puttana»
«Oh
cazzo», esclama Rain.
«Merda»,
dice invece Frances.
Le
guardo. «Quello è Jared. Jared Leto è
caduto sulle nostre gambe. Jared
Sesso Leto è davanti a noi. Che cosa facciamo?»
«Porca
miseria», dice di nuovo Rain.
«Ragazze,
concentrazione. Che-cosa-cazzo-facciamo?»
«Corriamo»,
«Corriamo?», «Corriamo»
Quando
però, a voto unanime, decidiamo che l’unica cosa
da fare è correre e
raggiungerlo, lui è già sparito dalla nostra
visuale. «Era così
vicino», piagnucolo sedendomi su una sedia.
«Lo
sarà di nuovo», dice determinata Frances.
«Promesso?»,
chiediamo contemporaneamente io e Rain.
«Promesso.
Ritroveremo Jared Sesso Leto, prima o poi. Ci riusciremo»
Sfortunate? un pochino, in effetti. Ma
abbiate fede, sono determinatissime a trovarli, in qualsiasi modo. Deb.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro. ***
«Rainie,
cara, ti sei ricordata
dell’ombrello?»
«Cosa cazzo
ti eri fumata, mi chiedo io,
quella volta»
«Come hai
detto?»
«Ti sembra un
nome da dare, Rain? Io
odio la pioggia»
«Ti sembra il
caso di dire parolacce?»
«Ho tredici
anni, mamma. Io le parolacce
le dico da un bel po’»
«Beh…
non in questa casa!»
«Rimane il
fatto che mi hai dato un nome
di merda. Oh, ops»
A
quel punto l’avevo trascinata via per un braccio
perché mi sembrava scorgere
del fumo uscire dalle narici di sua madre. In ogni caso quella era
stata la
prima delle tante – tantissime – volte in cui la
mia amica aveva espresso il
suo odio verso il suo nome di battesimo. Non che non fosse strano che
una
bambina avesse un nome inglese e per di più che significava
pioggia, nel nostro
paesino, bisogna ammetterlo. Epica, comunque, è la storia
della sua nascita:
sua madre, appena uscita dallo stadio, festeggiava tranquillamente la
vittoria
della sua squadra di calcio preferita, bagnata fradicia per la pioggia
che non
voleva smettere di scendere quella sera e per il sudore, stringendo la
mano del
marito felice. E in quel momento boom, le si erano rotte le acque. Vane
erano
state le corse all’ospedale, e la piccolina era nata in
macchina, la pioggia
che batteva fortissima sui finestrini. Da qui la decisione di chiamarla
Rain.
Strano, lo ammetto, ma del tutto azzeccato.
Mi
ritrovo a ricordare questo quando, appena scese dal taxi che ci ha
portate al
nostro motel, Rain si sta lamentando. «A Los Angeles non
piove mai, giusto?
Perché scende acqua dal cielo, allora? Perché sta
piovendo? È la mia sfiga che
ci segue, ve lo dico io. Ci sarà una tempesta di pioggia
solo perché io sono
qui, io lo so». Effettivamente piove, e neppure poco, e noi
non abbiamo nulla
con cui ripararci.
Bagnate
come pulcini entriamo nella hall con
le
borse sopra la testa, usate per ripararci gli occhi e i capelli. Rain
continua
il suo monologo d’odio, allora le poggio una mano sulla
schiena e le do una
pacchetta rassicurante. «È solo
pioggia».
«Vaffanculo».
Alzo gli occhi al cielo. Anche perché io amo la pioggia.
Sorrido: gli opposti
si attraggono? Forse sì. Ci incamminiamo verso la reception
e facciamo il
check-in. Dormiremo in tre in una stanza per un tempo non ben definito,
ergo non
oso pensare a come sarà alla fine della nostra avventura.
Non si prospetta
nulla di buono. Saliamo le scale – spendiamo troppi pochi
soldi a notte perché
questo coso possa avere un ascensore – trascinandoci dietro i
bagagli super
pesanti. Arrivo in cima per prima, e apro la porta con la chiave non
elettronica che ci hanno consegnato. Appoggiato ad una parete
c’è un letto
matrimoniale, le lenzuola rosa pallido che per qualche strana ragione
sembrano
gialline. Al suo fianco un divano, su cui immagino una di noi
dovrà dormire e
dall’altra parte un piccolo comodino rettangolare con sopra
una lampada tonda
color puffo. Una moquette marrone è stata applicata sul
pavimento, e l’adorerei
se non pensassi a tutti i germi che può contenere.
C’è anche un armadio, una
piccola scrivania con una sedia e una televisione di qualche era
passata. Una
porta che affianca l’armadio porta ad un piccolissimo, ma a
quanto pare pulito,
bagno.
«Fa
abbastanza schifo, ma neanche troppo», mi pronuncio
contraddicendomi e
formulando una frase senza senso. Le lascio entrare e metto la valigia
affianco
all’armadio, con nessuna intenzione di svuotarla. Siamo a Los
Angeles, piove, e
abbiamo tempo. Penso. Spero. Mi contorco le mani in grembo.
«Penso di aver
bisogno di una doccia. Sapete, tutta quell’ansia mi ha
sfinita».
Rain
e Frances, sedute sul letto annuiscono, un sorriso sul volto. Capisco
all’istante
che sono stata declassata al divano e alzo gli occhi al cielo.
«Il mio futuro
mal di schiena vi ringrazia, bastarde che non siete altro».
Qualche
era geologica dopo, che in realtà sono solo un paio di ore,
abbiamo fatto la
doccia tutte e tre, abbiamo svuotato le valige, preso confidenza con la
stanza,
ci siamo rivestite e infine, ci siamo risedute sul letto.
«Ora
che siamo in questa città sconosciuta, che dormiremo per un
tempo non definito
dentro lenzuola nelle quali hanno dormito altre persone e che mangeremo
pizze
davvero cattive, volete, gentilmente, spiegarmi qual è il
vostro piano per
incontrarli?», chiedo.
Frances
si dimena. «Allora».
«Sì,
allora», concorda Rain. L’ho già detto
che a volte mi spaventano?
«Allora,
il piano è un piano davvero semplice: accamparsi fuori dal
The Hive, in Melrose
Avenue, e aspettarli fino a che non escono o non entrano, dato che solo
Jared
ci vive dentro».
Sbatto
le ciglia. «State scherzando, vero?». Si guardano e
scuotono la testa. Sono
serie, serissime. «Come delle dannate stalker! Saremo delle
stalker! Possono
denunciarci!», sbotto, l’ansia che mi trabocca
perfino dalle orecchie.
«Ma
lo faremo in modo cauto, senza farci scoprire da nessuno»,
ribatte stizzita
Rain. «Ho studiato la zona in google maps per bene, e nei
pressi della casa c’è
un bar. Possiamo piazzarci lì con un libro ed è
fatta».
«Bene,
diventerò pure caffeinomane», dico lasciandomi
cadere all’indietro sul letto. Sento
un silenzio di tomba attorno a me, nei secondi seguenti, quindi mi alzo
sui
gomiti e guardo le mie amiche: tengono le labbra strette e si guardano,
lanciandomi
occasionali occhiatine. «Cosa?», domando.
«Era
un sì, quello?», mi chiede Frances.
«Quello
cosa?»
«Diventerò
pure caffeinomane», mi cita Rain. E allora
capisco quello che intendono. Era un
sì, il mio?
«Credo
fosse un fottuto sì», dice con un sorriso sulle
labbra. Un secondo dopo mi ritrovo
stretta fra un abbraccio e mi sento bene.
Appena
riesco a liberarmi delle loro braccia intorno al corpo propongo loro di
uscire.
«Siamo a Los Angeles, non possiamo stare qui dentro a
guardare serie tv o a
studiare, dobbiamo divertirci».
«Chi
sei tu e che ne hai fatto di Deborah-la-rovina-feste?»,
ridacchia Rain.
Sbuffo.
«Vogliamo andare oppure no?»
Ed
è così che nelle successive ore ci ritroviamo a
mangiare cibo cinese in un
locale molto accogliente, a camminare per il centro della
città, o quello che
almeno pensiamo lo sia, dato che LA è davvero enorme; ci
ritroviamo ad ammirare il
tramonto, che è bellissimo, il tramonto più
grande e bello che abbiamo mai
visto in vita nostra; ci ritroviamo sulla spiaggia, il mare nero e le
stelle in
cielo e cantiamo, cantiamo, cantiamo.
«Lost in the
city of angels, down in the
comfort of strangers I found myself in the fire burnt hills, in the
land of a
billion lights»
e le vediamo davvero le luci, vediamo le
colline alle nostre spalle, vediamo la bellezza della città
che ci sta
ospitando e ci sentiamo a casa, finalmente.
Scusate
il ritardo, la scuola mi sta massacrando. Ho già in mente i
prossimi capitoli,
non temete. Preparatevi a qualche vicenda veramente divertente. Come
sempre
spero vi sia piaciuto quello che ho scritto, fatevi sentire, che fa
sempre
piacere e niente, un bacino sul naso. Deb.
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque. ***
«Ho
il culo quadrato», mi lamento. Cinque ore fa mi sono seduta
su questa poltrona
e non avuto ancora l’occasione di alzarmi per sgranchirmi le
gambe. Ho davanti
a me la quarta tazza di caffè americano, un giornale con le
notizie internazionali
e il libro di letteratura inglese sottolineato in modo disordinato.
Sfrutto il
tempo tra un’occhiata e l’altra fuori dalle vetrine
del locale per prepararmi
all’università che incombe su di me. Corso di
scrittura creativa e video
montaggio, a Londra, fra due mesi scarsi.
«Novità?»,
mi chiede Rain dall’altro capo del telefono.
«Nessuna,
come ieri e come l’altro ieri», sbuffo. Ci siamo
date dei turni per goderci la
città e contemporaneamente tenere d’occhio la
casa. Oggi il Grande Compito
tocca a me, sola soletta. Credo che tra un po’
attaccherò bottone con qualcuno,
un qualcuno a caso, perché l’unica parola che ho
pronunciato da questa mattina
è stata “thanks”, quattro volte, al
cameriere. «Voi dove siete?»
«Stiamo
arrivando», riaggancia.
Svuoto
la tazza di caffè sotto lo sguardo divertito del cameriere
che, velocemente,
rispettando un tacito accordo che sembriamo aver stretto, cammina verso
di me,
e la riempie di nuovo. Gli sorriso grata, mi alzo, e mi dirigo verso il
bagno. L’immagine
che lo specchio sopra il lavandino mi rimanda è davvero, davvero, terribile. Il poco sonno,
l’eccesso di caffeina in corpo e
l’essermi dimenticata in camera gli occhiali, hanno fatto
spuntare delle
occhiaie mostruose sotto gli occhi. Per non parlare dei capelli, che
non
sembrano capelli ma un nido di vespe, e dei vestiti, stropicciati
perché a
quanto pare, nel motel, il ferro da stiro non è in dotazione
della camera. Mi sciacquo
il viso con dell’acqua fredda, sistemo il trucco sbavato e mi
pizzico le guance
per ridarci un colore sano e naturale. Torno in sala e un particolare
mi salta
all’occhio, quando, d’abitudine, guardo fuori dalle
vetrate: il cancello
elettrico del The Hive che si chiude con un tonfo.
Sbianco,
e addio a tutta la fatica che ho fatto per ridarmi un po’di
contegno. Sento proprio
la vita che mi scivola via. È possibile che, negli unici
cinque minuti che mi
assento da quella poltrona blu che ormai è diventata la mia
migliore amica,
succeda qualcosa di così importante?
Mi
avvio verso il bancone e con la voce alterata e l’inglese che
diventa
difficilissimo da parlare chiedo «Scusami», lancio
un’occhiata al cartellino con
il nome che il cameriere ha appuntato sulla camicia nera
«scusa Joe, per caso è
appena entrato o uscito qualcuno da quella casa?». Indico il
The Hive con un
dito e torno a guardarlo.
Non
risponde subito, immagino si stia chiedendo perché io voglia
saperlo, ma poi si
stringe nelle spalle. «Sì, mi sembra di aver visto
entrare una grossa moto».
«Merda!»,
esclamo in italiano. «Merda, Shannon! Quelle mi ammazzano, mi
fanno a pezzetti minuscoli
e mi spediscono con un pacco ad Hannibal. Il pranzo è
servito dottore! Merda».
Dopo
qualche secondo noto che Joe-il-cameriere mi sta guardando confuso,
forse per l’italiano
o forse per i movimenti convulsi e insensati che sto facendo, non lo so
di
preciso, e provo un po’di pena per lui. Si starà
chiedendo che cosa ha fatto di
male per avere una pazza nel suo locale. L’unica cosa che mi
sento di dirgli è
di lasciarmi perdere, poi mi scuso, sotto il suo sguardo incredulo, e
chiamo
Frances. Lei e non Rain perché spero in una morte meno
dolorosa. Ma è quando
sto cercando il nome in rubrica che le vedo varcare la soglia del bar.
Sono morta
e sepolta.
«Hi Darling, how are
you?», chiede allegra
Rain.
Deglutisco.
Male male male. «Benissimo!», esclamo, la voce che
sale di un numero indefinito
di ottave, un sorriso fintissimo stampato in faccia. Mi guardano in
modo
sospettoso e il lascio che il sorriso-smorfia si allarghi ancora.
«Caffè?»,
chiedo. Rain mi scruta un altro po’ e poi annuisce, Frances
preferisce del thé.
Faccio l’ordinazione a Joe, ancora convinto io sia pazza, che
dopo poco ci
porta tutto al tavolo, sorridendo fra sé. Sono diventata un
fenomeno da
baraccone.
«Vi
siete date allo shopping, vedo», dico, cercando di portare la
conversazione su
altri lidi. Devo resistere e non dire nulla di Shannon, della sua
grossa moto,
del cancello che piano piano si chiude davanti ai miei
occhi… questa notte farò
gli incubi.
«Sono
molto fiera dei miei acquisti», esclama soddisfatta Frances.
Ama la moda. Come
potrebbe non farlo, con una mamma che per un periodo di tempo ha fatto
la
stilista? «Ti abbiamo preso un regalo!».
Mi
strozzo con il caffè e in testa mi si stampa la frase
“sensi di colpa”, a
caratteri cubitali. «Davvero?»
Rain
prende qualcosa dalla borsa e me lo lancia contro. Riesco a srotolare
la palla
di stoffa che mi ha appena quasi colpito in piena faccia, e osservo il
vestito
blu notte che tengo fra le mani. «Ma è bellissimo!
Lo metterò questa sera,
quando staremo dentro quella stanza puzzolente a guardare la
televisione». Ebbene
sì, per qualche strana ragione le ultime due sere siamo
finite, esauste, a
rimanere distese tutte e tre nel letto matrimoniale a mangiare cereali
e a fare
maratone di telefilm. Le vite segrete di tre diciannovenni italiane a
Los
Angeles, prossimamente nel cinema della tua città.
«Usciremo
prima o poi», dice imbarazzata Frances. Per qualche strana
ragione è sempre la
prima ad addormentarsi.
«Concordo»,
annuisce Rain.
Ridacchio.
«Okay, grazie ragazze per avermi pensata».
«E
tu, ci hai pensate o hai avuto tempo solo per Jane Austen o chiunque tu
stia
studiando?», domanda la mia migliore amica ilare. Sorridere e
faccio per
rispondere ma lei continua a parlare. «Pensavamo che
è molto strano che non ci
sia movimento nella casa, ma dal twitter di Jared sembra proprio sia in
città. È
possibile che ci sia sfuggito qualcosa?».
Penso
che sì, ci è decisamente sfuggito qualcosa, qualcuno.
Sospiro e so che la mia espressione si fa sofferente. «Devo
dirvi una cosa». Entrambe
alzano lo sguardo dalle loro bibite e mi guardano. «Shannon
è passato qui
davanti questa mattina».
«Cosa?!»,
esclamano all’unisono. Morta e sepolta dicevo.
«Ma
io ero in bagno». Via il dente via il dolore.
«COSA?!»,
ripetono urlando. Mi volto verso Joe e lo vedo guardare verso di noi
con fare
divertito.
«Mi
scappava la pipì» è tutto quello che
riesco a dire. Mi guardano allibite e io
mi sento di nuovo una bambina di quattro anni che viene sgridata dalla
mamma. Di
merda, in pratica. «Mi scappava tantissimo, sono andata in
bagno e quando sono
tornata il cancello si stava chiudendo e allora ho chiesto a Joe e lui
mi ha
detto che era arrivata una grossa moto e una grossa moto ce
l’ha solo Shannon e
poi siete arrivate voi e io non volevo dirvelo ma poi mi avete regalato
il
vestito e fatto tutto quel discorso e mi sono sentita in colpa e
…» sono in
assenza di ossigeno per aver detto un periodo di tale portare senza
nessuna
interruzione. Loro si limitano a continuare a guardarmi. La situazione
è
insostenibile. Ho bisogno di aria, di un salvagente, devo dire qualcosa
che non
sia “mi scappava la pipì”.
«I knew it, I knew
it». Volto la
testa verso destra dopo aver sentito una voce veramente vicina al mio
orecchio
e noto una signora molto bella sulla sessantina stare impettita vicino
al
nostro tavolo, un sorriso sulle labbra. Il mio salvagente, solo che ha
i
capelli bianchi e non galleggia.
«Scusi?»,
chiede Rain in inglese.
«Ammiro
il vostro lavoro, era il mio sogno da piccola. In più sapete
un’altra lingua e
parlate con quella per non farvi scoprire! Italiano? Geniali,
davvero!». Guardo
le mie amiche. Non sto capendo. Non stanno capendo neanche loro.
«…
cosa?», sussurro.
«Oh,
lo so che non potete dire apertamente in giro che siete delle
investigatrici
private, è una specie di prima regola del Fight Club, lo so,
ma io l’ho
scoperto, non me lo avete detto voi, potete anche ammetterlo
ora», ribatte lei,
ammiccandoci.
Investigatrici
private, noi? Strabuzzo gli occhi. «Mi dispiace deluderla
ma…», comincio, ma
vengo interrotta dalla voce di Rain. «Ci scusi, non volevamo
essere maleducate,
ma sa, è il protocollo, non possiamo proprio parlarne.
Contiamo nella sua
discrezione».
«Oh,
ma certo, oh! Ma ditemi un po’, non è che potreste
dirmi di che caso di tratta?
Tradimento? Droga? Cosa?», domanda.
«Sa,
non potremmo…», dice Rain.
«Tradimento»,
conclude per lei Frances.
«Decisamente
tradimento», confermo.
Gli
occhi dell’anziana si illuminano. «Quindi avete le
prove! Che lavoro emozionante
che fate, che ragazze fortunate!», esclama «ma oh,
vi sto rubando tempo utile. Buona
giornata ragazze, buon lavoro» e, detto questo, se ne va
camminando fuori dal
locale, accompagnata dal rumore dei tacchi sul pavimento. Ci scambiamo
uno
sguardo e poi scoppiamo a ridere.
«Da
stalker a investigatrici privare in zero-due, mica male
direi».
Punto
uno: non pensavo fosse così difficile ambientare una storia
in un paese
linguisticamente diverso. Spero di essere chiara nei passaggi
italiano/inglese
eccetera, perché davvero non è semplice come
sembra.
Punto
due: lo so, sto sfiorando la demenza, perdonatemi.
Punto
tre: grazie ai lettori silenziosi e alle ragazze che hanno recensito.
Solito
bacino sul naso, Deb.
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Capitolo 6 *** Capitolo sei. ***
«Prima
o poi dovranno uscire da quella casa. Ne sono sicura», dice
Rain, le braccia
incrociate al petto.
«Lo
hai detto anche ieri. E il giorno prima», ribatto,
sbadigliando e coprendomi la
bocca con una mano. La noia da studio si sta impossessando di me.
Questa
mattina, quando ci siamo svegliate, abbiamo avuto la sensazione che
oggi
sarebbe stato un giorno fortunato, che sarebbe successo qualcosa, e
quindi
abbiamo deciso di abolire il sistema dei turni e di piazzarci tutte e
tre fuori
della casa. A quanto pare però il nostro sesto senso fa
proprio schifo, perché
non è accaduto niente. Nada, rien.
«Io
propongo di tornare in motel», borbotta Frances. Annuisco,
dandole corda. Sento
che potrei addormentarmi in posizione eretta.
«E
ci arrendiamo così?», domanda Rain.
«Non
ci stiamo arrendendo, ci stiamo prendendo una meritata pausa da una
missione
impossibile», affermo. «Controlliamo Twitter per
l’ultima volta, se continua a
non esserci nessun segno di vita, ce ne andiamo, okay?»
Rain
prende il telefono dalla borsa e io e Frances ce ne stiamo in religioso
silenzio mentre lei fa scorrere gli occhi sullo schermo del Blackberry.
«Niente».
Sospiro.
«Maledetti».
«Andiamo
a dormire», mi da spalla Frances.
Dormo
malissimo. Il caldo umido di Los Angeles mi è ormai entrato
sotto pelle, e
quando tento invano di chiudere gli occhi e rilassarmi, sento le
goccioline di
sudore scendermi sulla schiena. Non faccio che rivoltarmi nel letto
– divano,
per la precisione, e pure duro come il cemento – e sbattere
la testa sul
cuscino. Impreco a bassa voce, dato che le altre, a contrario mio,
dormono di
gusto, e mi caccio sotto la doccia. L’acqua bollente mi
scioglie i nervi e mi
rilassa, come sempre. Mi asciugo i capelli e mi vesto, poi torno a
sedermi su
quel maledetto divano. Tamburello
le
dita sul bordo rigido, guardando le mie amiche abbracciate ai
rispettivi
cuscini. Sbuffo e prendo in mano il libro di Virginia Woolf che ho sul
comodino, e ricomincio a leggerlo da dove mi sono fermata. Una decina
di pagine
dopo sento la gamba destra intorpidirsi, e mi accorgo di averla tenuta
piegata sotto il peso del corpo per tutto il tempo. Mi maledico
mentalmente
e comincio a zampettare per la stanza, sperando passi in fretta. Quando
sembro
aver riacquistato le mie facoltà motorie, prendo il telefono
dalla borsa e con
esso mi lancio di peso sull'odiato divano. Twitter e Tumblr, miei unici
salvatori.
È
in quel momento, nel momento in cui un tweet dall’account dei
Mars mi appare
nella bacheca, che urlo. E non lo faccio in modo volontario,
è un urlo che mi
scappa dalla gola e che non riesco a controllare.
«AAH».
Dei
rumori gutturali provengono dal letto, e dopo poco riesco a vedere il
busto e
la testa di Frances alzarsi. «Perché non stai
dormendo? Perché urli?»
«Sono
vivi», dico.
«Ma
chi?»
«Tomo,
Shannon e Jared, hai presente? Loro, chi se no! Sono vivi, hanno
scritto in
twitter! Alzate quel culo!». I miei modo poco raffinati le
fanno alzare e
raggiungermi di corsa. Saranno poco raffinati, lo ammetto, ma sono
efficienti e
nessuno può negarlo.
«Che
cosa dice?», ansima Rain.
«C’è
allegato un link, sto cercando di aprirlo ma la connessione
è terribile».
Dopo
qualche secondo comincio ad innervosirmi, e il telefono deve
percepirlo, perché
il video parte. Ci sono tutti e tre, seduti sul divano del The Hive che
ormai
conosciamo. Jared ha in testa il suo amato cappello di paglia e sta
mangiando dell'anguria, Shannon gli
occhiali da sole addosso e Tomo la barba più lunga
dell’ultima volta che si è visto in
giro. Il mio cuoricino batte più forte e mi sento
più felice anche solo a
vederli.
Se
solo se ne stessero zitti e muti. E invece parlano, e dicono una cosa
che mi
paralizza. Ci paralizza, perché non si sente un fiato
neanche a video
terminato.
«Ditemi
che ho capito male l’inglese», annaspo.
«Ditemi
che l’ho capito male anche io», aggiunge Rain.
«Non
possiamo averlo capito male in tre», afferma Frances
sedendosi sul letto.
«Quindi
abbiamo capito tutte e tre che sono in ritiro mistico per incidere il
nuovo
album e che non usciranno più da quella casa per un tempo
indefinito?», dico.
Annuiscono. «Bene. Ma quanto sfigate siamo? Non è
possibile. Deve esserci una
congiura. Ci hanno fatto il malocchio. Sfiga sfiga sfiga per il resto
della
vita».
«Che
vita di merda», esclama Rain.
«La
speranza è l’ultima a morire un cazzo»,
borbotta fra sé Frances.
«Fanculo».
Rimaniamo in silenzio per un tempo che sembra eterno, in simbolo del
nostro
lutto. Sono io a parlare per prima. «Un lato positivo
c’è».
«Ovvero?»,
chiede Rain.
«Ovvero
il nuovo album. The
story goes on,
girls».
Mi
sorridono. «Hai ragione».
«Lo
so. E so anche che c’è un altro lato
positivo».
«E
quale sarebbe?», chiede stavolta Frances.
«Possiamo
ubriacarci come non abbiamo mai fatto perché tanto siamo
depresse e tristi e
abbiamo una giustificazione che ci autorizza a bere quanto
vogliamo».
«In
pratica vuoi annegare la sfiga nell’alcool»,
afferma Rain annuendo.
«Esattamente».
«Serata
alcolica sia, allora», dice Frances prendendo dei vestiti
dall’armadio e
lanciandoceli.
«Possiamo
andarcene? Mi manca l’aria qua dentro», dico alle
mie amiche sporgendomi verso
di loro e urlando per sovrastare il suono della musica che martella.
Siamo
finite in un locale pieno di gente, abbiamo bevuto, abbiamo ballato con
sconosciuti e ci siamo divertite, ma adesso il posto comincia a starmi
stretto
ed ho bisogno di un po’ d’aria fresca per ritrovare
un minimo di cervello.
Cervello che ormai galleggia nella vodka, per intenderci. Rain e
Frances
sembrano essere d’accordo con me, perché mi
annuiscono, e dopo poco siamo fuori
dalla discoteca, immerse nell’aria umida di Los Angeles.
«Grazie
al cielo, si moriva di caldo lì dentro», esclama
Rain.
«Già.
Dove andiamo adesso? Non voglio tornare a casa, non ho finito di
divertirmi
stasera, sono ancora troppo sobria e troppo depressa», dice
Frances, anche se
non mi sembra sia molto stabile sui tacchi.
Nemmeno
io, comunque, voglio finire la mia serata così. Non ho mai
creduto fosse giusto
bere fino a star male, da persone responsabile e ancorata alla terra
come sono,
raramente mi lascio andare, ma quelle poche volte che lo faccio,
pretendo di
farlo bene. E non è che io non abbia avuto dispiacere
più grandi di non esser
riuscita a parlare con i miei musicisti preferiti, sia chiaro, non ho
mai avuto
una vita semplice; solo ho diciannove anni e qualche volta ho il
diritto di
fare errori, di ingigantire le cose, di prendere il contatto con la
terra e con
il mondo, ma, soprattutto con me. Staccare la spina per un
po’, dalle
delusioni, dai problemi mascherati da altri problemi più
futili, dalle
responsabilità. È mentre penso tutte queste cose
– prova che sono ancora lucida
– che vedo dall’altra parte della strada un negozio
di alcolici. «Guardate lì»,
indico il piccolo negozio con il dito. «Soluzione
trovata».
«Bisogna
avere 21 anni per comprare alcolici in questo stupido paese»,
sbuffa Rain.
Mi
guardo intorno alla ricerca di una soluzione e la trovo vicino alla
porta del
locale: un ragazzo che fuma una sigaretta. È giovane, ma di
sicuro non giovane
quanto noi. Il fatto che un po’ blilla lo sono mi da lo
slancio per mettere in
moto i piedi e avvicinarmi a lui. «Ciao, scusa, posso
chiederti un favore?»
Annuisce, continuando a fumarsi la sua sigaretta. «Io e le
mie amiche siamo
italiane. Li gli alcolici si possono comprare nei supermercati dai
diciotto
anni in su, ma qui abbiamo scoperto che non possiamo. Non è
che se ti diamo i
soldi puoi entrare in quel negozio a comprarci qualcosa?».
Faccio gli occhi
dolci e un sorriso, sperando di convincerlo.
Mi
guarda criptico e poi sorride, schiacciando il mozzicone sotto il
piede. «Solo
se posso bere con voi dopo».
Ci
penso su un secondo: è carino, sembra gentile,
perché no? «Sì, certo, no
problem». Mi porge una mano su cui deposita i soldi e da dove
sono lo seguo con
lo sguardo fino a che non entra nel negozio. A quel punto torno dalle
mie
amiche con un sorriso vittorioso in faccia. «Ecco
fatto».
«Fatto
cosa?», domanda Rain.
«Ci
prende lui gli alcolici».
«Chi
è?», continua.
«Ma
chissene frega», esclama Frances. «Ci prende gli
alcolici!»
«Ci
prende gli alcolici!», ribadisco.
«Ci
prende gli alcolici!», esulta lei. Ridiamo, e in quel momento
il ragazzo ci
raggiunge con in mano quattro bottiglie di non so cosa. Mi passa il
resto che
metto in borsa e poi, con davvero poco eleganza da parte di tutte e
tre,
cominciamo a tracannare dalle bottiglie come se non ci fosse un altro
giorno
per farlo.
Ci
ritroviamo in spiaggia. Non so quale spiaggia, l’anatomia di
questa città, dopo
una settimana, non mi è ancora molto chiara. In
più non mi è chiara nemmeno la
vista. E non mi è nemmeno chiaro per quale motivo sto,
stiamo, ridendo da più
di un paio di minuti. Siamo legate una all’altra tenendoci a
braccetto, e il
ragazzo che ci ha preso da bere è dietro di noi. Ci segue,
bevendo dalla sua
bottiglia, e sorride quando una di noi gli parla, e ci aiuta a
rialzarci quando
una di noi perde l’equilibro e cade rovinosamente a terra.
Insomma, sembra un
tipo simpatico.
Volto
la testa verso di lui. «Hei, tu!». Attacco di risa.
«Mh, come hai detto che ti
chiami?»
«Non
l’ho detto. Paul, comunque».
«Ancora
grazie per queste, Paul», dice Rain alzando la sua bottiglia,
per poi portarla
alla bocca e finirne il contenuto. «Uffi. È
già finita. Ma che ore sono?»
«Sono
le cinque di mattina», dice lui, guardando
l’orologio.
«Uh,
ma allora è ancora presto».
Continuiamo
a camminare sulla sabbia, tenendo le scarpe in mano per evitare di
cadere più
di quello che non facciamo giù. Sotto i piedi, la sabbia
è vellutata e fresca,
ed è una sensazione bellissima. La luna è alta in
cielo, e, anche se non è
piena, irradia molta luce. In questo momento sento che potrei
saltare e toccare il cielo. Come quando sono ad un concerto
e sento la sua
voce dire «Jump, jump, jump», e sono sfinita, senza
energie,
sudata, ma sono felice. Mi sento viva. E anche ora provo la stessa
sensazione:
sono con le amiche più care che ho, in un posto a cui sento
di appartenere, con
della sabbia sotto i piedi che mi accarezza e lo schifo del mondo che,
al
contrario, non mi sfiora nemmeno.
«Facciamo
il bagno nudo», se ne esce Frances mentre io sproloquio con
la mia mente.
La
sua affermazione, infatti, mi desta dai miei pensieri.
«Cosa?»
«Il
bagno nudo, nei film americani lo fanno sempre. E con nudo intendo in
mutande e
reggiseno perché abbiamo Paul qua con noi», dice
ammiccando verso il ragazzo. «Vieni
anche tu?»
Lo
vediamo scuotere la testa e alzare la bottiglia. «Io vi
aspetto qui».
«Okay».
Ci spogliamo e entriamo nell’acqua, che, ad essere sincera,
non è nemmeno
fredda come pensavo. «Guardate la luna quanto è
bella. Quanto è bella Los
Angeles? Davvero, ora li capisco quei tre».
«Questa
città è casa», concorda Rain.
«Dobbiamo
assolutamente riuscire a vedere l’alba questa
notte», dico.
Cominciamo
a cantare, come abbiamo già fatto qualche giorno fa, e tutto
sembra perfetto.
Non importa più se non siamo riusciti ad incontrare le
persone che ci hanno
salvato con la loro musica, non importa più se ci mancano i
nostri amici a casa
e le nostre famiglie, non importa più niente se non che
siamo a Los Angeles,
sotto a una luna meravigliosa, bagnate fradice e ubriache di alcol e di
vita
come non mai.
Quando
notiamo che l’alba sta per sorgere decidiamo di uscire
dall’acqua. Nel lasso di
tempo in cui cantavamo, e ridevamo e tutto il resto, non ci eravamo
accorte di
un fatto, però: Paul. Paul non aveva fiatato, non era
entrato in acqua con noi,
non aveva cantato. Niente di niente. E il punto era che Paul non
c’era proprio
più su quella spiaggia.
«Dov’è
andato?», chiedo, le braccia strette attorno al busto.
Comincio a sentire freddo.
Rain
alza le spalle. «Non è che mi interessi, non era
il mio tipo». A me, invece, un
po’ dispiaceva. Era stato gentile con noi.
«Ragazze»,
dice Frances alle mie spalle, così mi volte. «Non
ci sono più i nostri vestiti.
E le borse».
«Ma
no dai, le avremmo messe da qualche altra parte», affermo,
cominciando a
guardarmi attorno. Ma non vedo nulla se non sabbia. «Cazzo.
Dite che sia stato
P…»
«Paul!
Ovvio! Ci ha rubato tutto!», esclama Rain.
«Oddio»,
dice Frances, sedendosi. «Per fortuna non abbiamo portato con
noi molti soldi»
«E
i documenti li abbiamo lasciati a casa», aggiungo.
«Il
mio Blackberry è andato», dice fra sé
Rain, un tono tristissimo.
Mi
avvicino a lei e la abbraccio goffamente. «Andremo dalla
polizia, magari li
ritrovano. Magari è un ladro conosciutissimo e aiuteremo a
catturarlo».
«Non
siamo in un fottuto episodio di CSI e venderà il mio
telefono su Ebay!», sbotta
lei.
Mi
prendo la testa fra le mani e me ne sto in silenzio. Sento anche io la
rabbia
montarmi dentro, e non so se sia colpa dell’alcol o cosa, ma
mi alzo in piedi e
comincio a calciare la sabbia e ad imprecare a voce alta. Scoppio
d’ira forse è
il termine esatto. O rabbia repressa. O pazzia che comincia a dilagare.
So solo
che devo sembrare in preda a una crisi epilettica.
Ne
ho la conferma quando sento una voce alle nostre spalle.
«Tutto bene?». È una
voce maschile. Quando la sabbia che ho alzato ritorna al suo posto
spinta a
terra dalla forza di gravità, posso infatti distinguere nel
buio una figura: è
un ragazzo, di cui ovviamente non riesco a capire
l’età poiché il viso rimane
in ombra, non troppo alto, ma ben piazzato; la cosa che mi salta subito
all’occhio,
comunque, sono le spalle muscolose e forti. Ora, se
c’è una cosa che tutti
quelli che mi conoscono sanno è che anche io un fetish. E
non per i piedi o per
il sadomaso o per la pizza pomodorini e brie (quest’ultima
è più un’ossessione)
ma quella per le schiene e spalle ad esse annesse. Se non hai una bella
schiena
per me non sei nessuno. E io posso vederlo, anche se in
realtà non vedo proprio niente per il buio, per
l’alcol e per la lente a contatto che è andata a
farsi benedire, che lui ha una schiena perfetta.
«No»,
e la voce mi esce stridula. «Ci hanno derubate».
Lo
vedo piegare la testa di lato, ma non muove nessun altro muscolo del
corpo e
non fa cenno di avvicinarsi. «Dei vestiti?»
Posso
dirlo vero che mi ero dimenticata di essere in piedi davanti a un ragazzo dalle
spalle
perfette praticamente nuda? D’istinto mi stringo le braccia
al petto. «Sì,
anche. Vestiti, soldi, telefoni. Si è preso tutto».
«He tooks
everything. Era un ragazzo?»
«Sì,
sappiamo che si chiama Paul, niente di più».
«E
sì è preso i vostri vestiti».
«Sì».
«Cosa
se ne fa dei vostri vestiti, questo Paul?»
Comincio
a spazientirmi. «Cosa cazzo ne so io di quello che ci vuole
fare del mio
vestito! So solo che in mutande a casa non ci posso tornare,
cioè in motel…
insomma, non posso girare in mutande per la città,
ecco».
«Ah
no?», ridacchia lui.
«Senti,
se vuoi aiutarci bene, altrimenti puoi anche andartene a
fanculo», sbotto.
C’è
un momento di silenzio tombale in cui ho modo di smaltire la rabbia e
poi il
ragazzo comincia ad avvicinarsi. Cammina lento verso di noi, e per
qualche
ragione, forse, di nuovo, solo perché ha delle spalle
fottutamente perfette e
una voce che si può definire solo con la parola sensuale, un
brivido mi scorre
lungo il corpo. Come se dovessi aver capito qualcosa che in
realtà non ho
capito. Mi volto verso le mie amiche che stanno guardando lo
sconosciuto
avvicinarsi e noto che anche loro sono rigide, i corpi in attesa.
Capisco che
anche loro si sentono come me.
E
poi mi rendo conto del perché. Il ragazzo ormai è
davanti noi, e sebbene sia
senza lenti a contatto, sebbene abbia la mente offuscata
dall’alcol e dalla
rabbia verso Paul, lo riconosco. Le gambe tremano un pochino quando il
mio
cervello fa due più due: voce sexy, spalle perfette, basso
ma ben piazzato, occhiali da sole anche di notte. Quello che abbiamo
davanti è Shannon Leto. E io
gli ho appena detto di andarsene a fanculo.
E
quindi sì, la sfiga nell’alcool non sono riuscite
ad annegarla, come potete
vedere, ma hanno Shannon e le sue perfette spalle davanti. Riusciranno
a
combinare qualcosa? Vedremo.
Spero che come sempre il capitolo vi sia piaciuto
(sì, è un invito a farmi sapere cosa ne pensate)
e mi scuso per il ritardo, ma
non esco di casa da giorni a causa della scuola – maledetta
– e sarò piena di
compiti anche tutta la prossima settimana. Per fortuna poi ci sono i
Mars a
Milano, che mi rigenereranno. Qualcuno di voi sarà al
concerto? Intanto vi
lascio un muffin a tutti e un bacio sul naso. Deb.
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Capitolo 7 *** Capitolo sette. ***
Deglutisco.
Il cervello gira lentamente. Perché, di preciso, ho appena
mandato a fanculo
Shannon Leto? Una vocina dentro di me, che immagino sia la mia
coscienza, mi
suggerisce la risposta è “perché ha
fatto ironia, e tu odi quando qualcuno fa
ironia su di te”. Giusto.
«Io
voglio aiutarvi», dice lui, quando si ritrova proprio davanti
a me. Lo so che
questo è il mio sogno, ma me l’ero immaginato un
tantino diverso, il nostro
primo incontro. Qualcosa come il tramonto sullo sfondo e lui che mi
sorride
mentre gli dico che mi ha salvato la vita eccetera. E invece no,
ovviamente non
sta andando così. Ma posso ancora riscattarmi.
«Davvero?»,
balbetto, non riuscendo ad incanalare abbastanza aria. Al diavolo ogni
possibilità di riscatto, ho Shannon-scopami-qui-e-ora-Leto
davanti, non posso
pretendere troppo da me stessa.
Mi
sorride. «No, in realtà. Bye». Mi gira
le spalle e comincia a camminare nella
direzione opposta a noi.
Mi
volto verso le mie amiche, gli occhi sbarrati, annaspando aria che
comunque non
mi arriva al cervello. «Cosa… cosa
devo…»
«Seguiamolo»,
dice Rain.
«Cosa?!
L’ho mandato a fanculo!», esclamo iperventilando.
«Chissene
frega», ribatte lei. «Hei, aspetta!».
Rain si mette a correre – per quanto la
sabbia gliela permetta – dietro a Shannon, che quando sente
la sua voce si
volta. «Scusa», dice raggiungendolo.
«Ubriacatura rabbiosa. Io sono l’amica
simpatica e pacifica».
«Sì?»
«Sì.
Puoi portarci dei vestiti, per favore?».
Guardo
Shannon e gli sorrido timidamente a mo’ di scuse e anche se
non posso vedergli
gli occhi a causa degli occhiali scuri, posso giurare di vedere alzarsi
gli
angoli della bocca. Apparentemente mi ha perdonata, quindi mi azzardo a
parlare. «Per favore Shannon». E circa un millesimo
di secondo dopo mi accorgo
che ho fatto una cazzata colossale. Ora lo vedo il suo cervellino
stanco
mettersi in moto e chiedersi come diavolo io, perfetta sconosciuta che
l’ha
appena insultato, faccia a conoscere il suo nome. La risposta
è semplicissima:
lo so perché ho sogni erotici sulle sue spalle da quanto ho
quindici anni, e
perché mi addormento con la sua musica ogni sera, per poi
risvegliarmi ore dopo
sempre in sua compagnia. Ma lui non lo sa. Non specifico il fatto che
sono di
nuovo entrata in panico, che di nuovo sto iperventilando e che di nuovo
mi sto
insultando mentalmente. Io lo so che mi ritroverò a
trent’anni con i capelli
bianchi, altro che fucsia.
Si
toglie gli occhiali puntando gli occhi su di me, e poi anche sulle
altre, e io
muoio un pochino dentro. Non so come ma mi contengo, anche se ormai una dignità non
ce l’ho più e l’unica cosa
che potrebbe salvarmi sarebbe l’apocalisse.
«Echelon?», chiede. Annuisco, e
vedo le mie amiche fare lo stesso. «Mh. A questo punto sono
costretto a
trovarvi dei vestiti, aspettatemi qui», dice, e si incammina
per poi sparire
dietro a una collinetta.
«Porca
puttana. Tagliatemi la lingua la prossima volta, vi prego»,
esclamo, buttandomi
a terra e sbattendo il sedere. Loro si siedono accanto a me e sento
Rain
sospirare. Mi volto verso di lei e la vedo con un grosso sorriso sul
viso. «Cosa?»
«Shannon
Leto, ho parlato con Shannon Leto», dice in tono sognante.
Non posso
biasimarla, anche io sto per vomitare arcobaleni e tutto il resto, ma
mi sto
anche punendo per la figuraccia che ho appena fatto. Non era colpa mia,
comunque, se non l’avevo riconosciuto e se lui si era
comportato da
strafottente.
Noto
che Frances se ne sta muta affianco a me. «Va tutto
bene?». Annuisce. «Sicura?
A cosa pensi?»
«Penso
che non sono riuscita a dire una parola e che mi viene da
piangere».
«Tu,
piangere?», dico incredula, per poi rendermi conto che forse
è una frase da
insensibile. Perché questo maledetto alcol non se ne va e mi
fa tornare la solita
Deborah che tace sempre? «Cioè, intendevo che tu
non piangi spesso e… e sì,
insomma, perché ti viene da piangere?».
Mi
guarda e ha davvero gli occhi lucidi. Mi fa tenerezza.
«Vorrei abbracciarlo».
«Quando
torna con i vestiti chiediglielo, tu infine sei stata zitta e muta, non
ti
crede ancora decelebrata».
«Non
so se ci riesco».
«Glielo
chiedo io se vuoi, tanto non riesco a stare zitta». Astio
verso me stessa è
tutto quello che provo, al momento.
Scuote
la testa. «Poi glielo chiedo».
«Brava».
Le do una leggera botta sulla schiena e lei scoppia a ridere, i suoi
ricordi
eco dei miei. In quarta superiore, infatti, il nostro adorato
professore di
storia, ci aveva mostrato un film antiquato sulla Rivoluzione Francese,
in cui,
ad un certo punto, uno dei protagonisti principali esclamava
pomposamente
“buonanotte figlio mio” al neonato che teneva in
braccio sua moglie,
completando l’epica buonanotte con un pat-pat sulla schiena
del piccolo. Da
quel momento per me e Frances le pacche sulla spalla sono diventate
oggetto di
risate copiose.
«Cosa
c’è di così divertente?». Il
mio corpo comincia a tremare di nuovo, perché a
parlare è stato Shannon.
«Ricordi
del liceo», dice Frances, senza nessun segno di esitazione
nella voce. È
tornata sicura di sé, la fredda e diplomatica futura
chirurga che conosco da
anni.
«Ecco»,
dice Shannon passandoci dei vestiti. Ne prendo uno a caso di colore
nero, e
solo dopo averlo dispiegato mi accorgo che sì e no mi
arriverà a metà coscia.
Non oso commentare, ma so che ha notato la mia espressione
perché gli si apre
un sorriso in volto. “Bastardo” è tutto
ciò che riesco a pensare.
Si
volta per lasciarci vestire, e anche se il suo gesto non ha nessun
senso,
avendoci viste mezze nude fino a quel momento, apprezzo la galanteria.
Mi
infilo il microabito e i miei sospetti sono fondati: è
davvero, davvero micro. In
più la schiena è
completamente scoperta. Posso notare con una nota di sollievo che anche
i
vestiti di Frances e Rain sono simili per indecenza al mio, ma un
sbuffo mi
esce involontariamente dalle labbra.
«Qualcosa
non va?», dice Shannon voltandosi verso di noi.
«No»,
pigolo. Non ho nessuna intenzione di irritare lui – e me
– di nuovo con
affermazioni sbagliate. «Dove li hai, emh, trovati?»
Rimane
un po’ a squadrarci (i peli mi si rizzano sulle braccia
quando il suo sguardo
si posa su di me e lascio immagine la fine che fanno le mie povere
ovaie) e poi
sorride. «Sembrava che quelle ragazze non ne avessero
particolare bisogno». Mi
strozzo con la saliva. Ho capito giusto? Credo di aver capito giusto.
«Ma
ditemi, non siete americane, giusto?»
Vorrei
ribattere che neanche lui lo sembra, dato che non si capisce
un’acca di quel
che dice ma mi trattengo mordendomi la lingua. È Frances a
prendere la parola
questa volta. «Italiane»
«E
cosa ci fate qui a Los Angeles?»
«Stiamo
cercando il nostro sogno».
«Pensate
lo troverete proprio in questa città?»
«Penso,
in realtà, che l’abbiamo trovato questa sera, ma
non voglio sbilanciarmi troppo»,
dice lei. Sorrido e mi viene da abbracciarla, ma non lo faccio, per non
interrompere la conversazione.
«E
quale sarebbe, posso saperlo?». Shannon sembra affascinato.
Infine anche lui ha
trovato la sua strada venendo in questa magnifica città.
«Non
ancora».
Ci
guarda tutte e tre di sottecchi. «Quanti anni
avete?»
«Amh…»,
Frances tentenna un po’. Capisco il suo disagio: dire o non
dire al tuo idolo
quarantenne che tu nei hai solo diciannove e potresti essere sua figlia
ma
questo non ti impedisce di pensare cose di qualsiasi
tipo su di lui? «Dicciannove», dice poi tutto
d’un fiato.
«Ah
ma quindi siete qui con i vostri genitori!», esclama lui.
Lo
guardiamo sbalordite. «No», rispondo.
«Certo che no! Abbiamo diciannove anni,
mica due». Mi ha appena ferito nell’orgoglio.
«Non
potete nemmeno comprarvi una birra».
«Infatti
lo facciamo fare agli altri. Si da il caso che lo stesso Paul che ci ha
rubato
tutto ci avessi comprato da bere», affermo amareggiata. Spero
che Zeus lo
colpisca e lo riduca in cenere.
«Uh,
delle ribelli…». Ci fa il verso e io sto quasi per
rispondergli che lo facevo
un pelo più maturo per la sua età, ma lui
ricomincia a parlare. «Italiane a Los
Angeles in cerca del proprio sogno, per di più Echelon, che
quindi
presubilmente conoscono anche l’indirizzo di casa mia oltre
che alla marca di
occhiali da sole che preferisco, che hanno l’immensa fortuna
di incontrarmi ma
l’ancora più grande sfortuna di aver perso il
telefono e quindi di non potersi
farsi una foto con me. Che cosa devo fare con voi?»
«Portaci
alla festa con te», dice Rain secca.
«Come
fai a sapere che ero a una festa?».
«Si
sente della musica in lontananza. Ti stavi facendo un giretto
perché hai bevuto
e l’aria lì dentro era viziata e ti era venuto mal
di testa. In più hai preso
questi vestiti a tre ragazze che, come hai detto tu, sono impegnate a
fare
altro, qualcosa che non necessita di vestiti. Eri ad una
festa».
Shannon
sorride. «Siete anche sveglie. Venite con me, magari cambiate
sogno questa sera»,
dice in tono malizioso. O sono io che lo percepisco in tono malizioso?
Non so
dirlo. So però che non ce lo facciamo ripetere due volte: lo
seguiamo, i piedi
nudi sulla sabbia morbida, i vestiti che ci salgono sulle cosce.
Amh,
lo so che ho detto che avrei pubblicato settimana prossima, ma
è uscito il
video di City Of Angels (e la versione acustica della canzone per
Dallas Buyers
Club) e sono stata ispirata. E quindi sì, nuovo capitolo.
Bacio sul naso. Deb.
PS:
spero ti porti fortuna in fisica, F.
|
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Capitolo 8 *** Capitolo otto. ***
«The people that aren’t
dreamers, the people that don’t try to walk the
lesser beaten path, they don’t understand. But I do and I
know what are you
going through. And sometimes you just have to keep marching forward,
even when
you doubt. Even when you think it’s impossible, you keep
doing the work, you
keep showing up, you keep focusing, you keep doing and fighting for
what you
believe in. And that’s the most important thing. Stick
around»
Jared Leto.
Qualcosa
di appuntito mi sta massacrando un fianco. Mi esce un lamento dalle
labbra
quando ancora ho gli occhi chiusi. Non ho nessuna voglia di svegliarmi,
sento
già il mal di testa che mi torturerà per le
prossime ore. Ma anche quella
maledetta cosa che mi schiaccia il fianco mi sta distruggendo.
L’immagine che
mi si para davanti alle palpebre scure è quella di Don
Rodrigo tormentato nel
sogno da un bubbone della peste. Sbuffo e sbarro gli occhi, poi mi
volto verso
destra per scoprire e uccidere la fonte del mio prematuro risveglio e
noto che
è il gomito di Frances. Impreco a bassa voce e mi sposto di
qualche centimetro.
Mi guardo in giro, anche se c’è troppa luce per i
miei gusti, e noto solo un
gran casino. Ci sono vestiti sparsi sul pavimento, tavoli pieni di cibo
intatto,
macchie di strani liquidi scuri sui tappeti e, particolare da non
trascurare,
persone che non ho mai visto in vita mia. Ad essere sincera solo in
quel
momento mi rendo conto che non ho la più pallida idea di
dove sono, e mi alzo
di scatto. Non dovevo farlo, ovviamente: le cervella mi sbattono sulla
corteccia celebrale e mi sento tramortita, come se mi avessero tirato
un pugno
sul naso. Perfetto. Si prospetta una giornata splendida.
Mi
strofino gli occhi con il dorso della mano e cerco di mettere in moto
il
cervello. Della caffeina mi sarebbe d’aiuto e anche un bagno,
dato che sento la
vescica che protesta, ma decido che se starò ferma e
immobile riuscirò a
resistere un altro po’. Molto lentamente comincio a
ricomporre i pezzi della
notte precedente: siamo state in una discoteca che abbiamo lasciato
dopo
nemmeno due ore a causa del caldo, e a quel punto eravamo
già brille, ma non
abbastanza, così ho intelligentemente chiesto a un ragazzo
di comprarci
dell’alcol e lui l’ha fatto, da brava persona; poi
ci siamo spostate spiaggia,
e c’era una luna bellissima. Qui comincia a diventare tutto
offuscato, e
qualcosa mi dice che sia a causa della bottiglia di vodka che mi sono
fatta
fuori.
«Shit»,
qualcuno impreca a bassa voce scavalcando i corpi che gli impediscono
di
andarsene. È una ragazza bionda, in reggiseno e pantaloncini
di jeans. Quando
si accorge che la guardo mi fa una smorfia che credo sia un tentativo
di
sorriso mattutino. «Sai dov’è la mia
maglia?», mi chiede con un marcato accento
americano che fatico a comprendere. Scuoto la testa. Non so neanche
sicura di
sapere come mi chiamo, al momento, figuriamoci se so
dov’è finita la sua
t-shirt in mezzo a tutta la confusione. «Well, nevermind.
Bye», dice, e esce da
una porta finestre dietro al divano su cui io sono distesa insieme a
Rain e
Frances, ancora perfettamente addormentate.
Luna
bellissima. E poi? E poi quel Paul ci ha rubato i vestiti, e noi siamo
rimaste
fradice a camminare avanti e indietro sulla sabbia senza un telefono e
un
soldo. E poi? E poi… oh.
«Che
cosa stai facendo?», borbotta Rain, gli occhi semichiusi.
«Ti
sto svegliando. Abbiamo davvero incontrato Shannon questa notte o io mi
sono
fatta un sogno molto vivido?», chiedo, improvvisamente
sveglissima.
«Ma
che ore sono?»
«Non
lo so».
«Dove
siamo?»
«Non
lo so. Puoi rispondere alla mia domanda, per favore?»
«Non
lo so».
«Mi
stai prendendo in giro?»
Ridacchia
e si stropiccia gli occhi. «Com’è che mi
chiamo? Ho un mal di testa terribile»
«Anche
io, ma il tuo nome, a contrario di questa notte, me lo ricordo ancora.
Rain».
«Giusto».
Si mette a sedere. «Deborah».
«Sì,
è ancora il mio nome», dico alzando gli occhi al
cielo.
Sbuffa.
«So che ti chiami Deborah, il mio era un “Deborah
abbiamo incontrato Shannon
Leto”»
Mi
illumino. «Ah, è successo davvero,
allora!». Guardo i corpi apparentemente
senza vita sparsi per il pavimento ma del batterista non
c’è traccia. «Tu lo
vedi?»
Scuote
la testa. «Se ne sarà andato».
«What the fuck are
you two saying? What fucking
language is that, latin or something?», esclama una voce
maschile proveniente
dal pavimento. Io e Rain
rimaniamo mute, cercando di individuare la fonte parlante. Un
ragazzo pallido si è alzato su un gomito e ci guarda con
un’espressione
addormentata e corrucciata. Noi continuiamo
a non rispondere. «I don’t care, actually. Just
shut the fuck up, I’m trying to
sleep».
Guardo
Rain e mi scappa una risatina. «Svegliamo Frances e
andiamocene», sussurro.
Annuisce
e poi da uno schiaffo leggero in faccia all’altra che, di
colpo, si mette a
sedere. «What?». Si guarda intorno e incontra le
nostre facce divertite. «Cosa?
Cosa succede?». Vorrei scoppiare a ridere, ma
l’unica cosa che faccio è dirle
di alzarsi e trascinarla fuori dalla stanza attraverso la stessa porta
finestra
da cui ho visto uscire la bionda spilungona, dato che non si regge in
piedi. «Ma
dove siamo?», chiede confusa.
Ci
risiamo. «Bella domanda. Ti ricordo, in caso
l’epidemia dei buchi neri della
memoria avesse contagiato anche te, che siamo state derubate e non
abbiamo
nessuno dei nostri super tecnologici telefoni»
«Shannon»,
esala lei. «Abbiamo conosciuto Shannon!»
Annuisco.
«Che è sparito, comunque». Sono
irritata? Decisamente. Non è suo dovere aiutare
delle povere echelon sperdute? La solita vocina mi dice che questa
notte l’ha
già fatto, più di una volta. Al più di
una volta blocco i pensieri. Più di una
volta? Frugo tra i ricordi annebbiati: Shannon che ci porta i vestiti,
aiuto
numero uno; Shannon che stacca Rain da un tizio che non ha buone
intenzioni,
aiuto due; Shannon che mi allunga una mano quando mentre ballando sono
rovinosamente caduta a terra, aiuto tre.
«Sono
caduta davanti a Shannon», sussurro più a me che
altro, senza nessuna
intenzione di essere sentita.
«Oh
sì. Come sta il sedere?». Sussulto e mi giro verso
la voce che ho appena
sentito e che, ahimè, conosco. Shannon, i capelli spettinati
e gli occhi gonfi,
è proprio davanti a me. «Buongiorno»,
dice. Le mie guance si colorano di rosso.
Datemi una badilata in testa e fatemi morire.
«Shannon
Leto senza occhiali? Ma che cosa sta succedendo?», esclama
Frances in italiano.
Io e Rain scoppiamo a ridere davanti allo sguardo confuso di Shannon
che
ovviamente non ha capito.
«What?»,
domanda lui, un sorrisino sulle labbra.
«Nothing»,
risponde Rain. «Dormito bene?»
«Mh».
Mh è la sua risposta. Che cosa diamine significa quel verso?
Sorride. «Voi,
dormito bene?»
Mi
tornano in mente Don Rodrigo e il gomito di Frances e storgo il naso.
«Da Dio»,
dico un tono ironico.
«Shannon,
dove siamo?», chiede Frances che sembra essersi svegliata dal
lungo letargo in
cui era caduta.
«A
casa di Antoine. Vi ricordate qualcosa della notte scorsa o avete
annegato
tutto nell’alcool?»
Una
lampadina mi si illumina: il vero motivo di tutto il disastro in cui si
era
tramutata quella notte era il desiderio di annegare la sfiga collegata
a non
essere riuscite a incontrare i Mars, a causa del loro ritiro in cerca
di
ispirazione. «Ma tu non dovresti essere in ritiro spiritico o
qualcosa del
genere?», me ne esco io.
Lui
mi guarda con un’espressione indecifrabile. «Ma tu
qualche volta te ne stai un
po’ zitta?»
Arrossisco.
«Io…».
Fa
un cenno con la mano. «Lascia perdere. Trovo la mia
ispirazione nella gente,
nel ritmo dei corpi che ballano tutti insieme, nei piedi che
disordinatamente
si pestano l’uno con l’altro, negli occhi che si
cercano da un capo all’altro
della stanza, nei bicchieri vuoti che cadono sul tappeto sordi. Ero
alla
ricerca di ispirazione ieri sera, ma poi mi siete capitate voi fra capo
e collo
e mi è toccato farvi da balia»
«Potevamo
cavarcela da sole», dice Rain.
«Senza
vestiti?», ribatte lui con un sorrisino.
Mi
mordo il labbro. «Okay, hai vinto».
«Già»,
dice lui, pescando gli occhiali dal taschino della giacca.
«Già,
ma visto che ti sei autoproclamato nostra balia è tuo dovere
aiutarci»,
continuo. Tanto mi odia già, un tentativo vale la pena farlo.
«Cos’è
che devo fare io?», dice bloccando il braccio a
metà strada fra la tasca e il
viso.
«Portarci
a comprare dei telefoni nuovi. Per favore». Un po’
di gentilezza non guasta
mai, in questi casi.
«Non
se ne parla».
«Ti
prego», dice Frances. Ha un’aria terribile, e
Frances non ha mai un’aria
terribile. Lei è quella perfetta. Mi chiedo quando di
preciso abbia bevuto la
notte scorsa, ma non so darmi una risposta. Purtroppo è
molto probabile avessi
in mano una tequila quando invece avrei dovuto fermare lei.
«Pensa
se non chiamassi Constance per tre giorni. Impazzirebbe»,
rincara Rain. «Ci
servono dei telefoni».
Shannon
ci guarda tutte, rimanendo in silenzio per secondi che sembrano minuti
e poi
sbuffa. «Poi sparite dalla mia vita».
«Ti
facevo più simpatico», mi lascio scappare ad alta
voce, per fortuna in
italiano. Mi becco un’occhiataccia dalle mia amiche.
«Grazie», aggiungo in
inglese, con un sorriso.
«Vi
porto in motel». Detto questo ci da le spalle e si incammina.
«Da
quanto parli così tanto?», mi chiede Frances.
Mi
stringo nelle spalle. «Effetto Shannon Leto?»
«Effetto
Vodka», ribatte Rain.
«”Ti
facevo più simpatico”, ma come ti è
uscita? Shannon è adorabile», dice Frances,
gli occhi che le sbrilluccicano.
«Lo
so che è adorabile. Ero sotto lo strascico
dell’effetto della vodka e del
sonno. Potete perdonarmi?», affermo esasperata. Shannon, come
aveva promesso,
era passato qualche ora più tardi a prenderci e ci aveva
portato in un negozio
di elettronica il cui proprietario era un suo caro amico che ci aveva
fatto uno
sconto esorbitante sull’acquisto dei nostri tre nuovi Iphone.
Era stato
difficile convincere Rain ad abbandonare il caro e vecchio Berry, ma
poi ce
l’avevo fatta.
«Per
fortuna hai parlato in italiano», dice Rain.
Mi
mordo il labbro. «Gli sto antipatica, vero? Sto antipatica al
mio batterista
preferito».
«Forse
non siete compatibili», risponde Rain stringendosi nelle
spalle.
Guardo
Shannon camminare qualche passo davanti a me e divento un po’
triste. Forse non
siamo compatibili, forse lui non mi sopporta, forse io me lo immaginavo
diverso, ma non posso essergli grata per tutto quello che sta facendo
per me,
ancora una volta, come se con la sua musica non avesse già
fatto abbastanza.
Accelero
il passo e, quando gli sono accanto, lui si volta verso di me e alza un
sopracciglio. «What?»
«Grazie».
«Per
cosa?»
«Non
lo so, di tutto. Per i vestiti questa notte, per i telefoni, per averci
fatto
da balia. Per tutto quanto. E lo so che non mi sopporti, ma un grazie
rimane un
grazie sincero anche quando a pronunciarlo è una persona che
non ti piace»,
dico, torturandomi le mani, nervosa, e evitando per tutto il tempo il
suo
sguardo.
«Oh»,
lo sento dire, e quando mi volto a guardarlo si sta grattando la
fronte. Si
accorge che lo fisso e mi sorride. «Non è che non
mi piaci, è che…».
«Non
siamo compatibili», concludo io, più a me stessa
che altro.
«Più
o meno», sorride. Si avvicina e mi tocca la spalla con la
sua. «Hai carattere,
mi piaci».
Non
mi vedo, ma so che il mio sorriso si
apre fino ad un rischio paralisi. «Anche tu mi
piaci Shannon». Lui alza
gli occhi al cielo e io mi sento una stupida e arrossisco
all’istante, ma poi
lo vedo ridacchiare e io ritorno dentro la mia bolla di
felicità. Rimango al
suo fianco fino a quando
svolta
improvvisamente a destra entrando in un grande negozio di vestiti.
«Devo
prendermi un paio di jeans», dice avviandosi verso il bancone
del negozio e
cominciando a parlare con una giovane commessa che, immagino quando
nota quanto
sia bello l’uomo che ha davanti, comincia a parlare con un
tono stridulo poco
sopportabile. Alzo gli occhi al cielo: donne.
Giro
per gli scaffali del negozio, mettendo gli occhi su diversi capi che in
ogni
caso non posso permettermi: non so che negozio sia questo, ma di sicuro
non per
delle diciannovenni squattrinate come me.
«Guardate
questo vestito, è splendido», dice Frances,
posandosi addosso un lungo abito
rosso.
«Provalo»,
dice Shannon, spuntato affianco a me e Rain.
Frances
rimane interdetta per un secondo e poi dice «Okay»,
avviandosi verso i
camerini. Rimaniamo in silenzio religioso ad aspettare che scosti le
tende e ci
faccia vedere quanto perfetta sia in quel vestito. Quando finalmente lo
fa, ci
accorgiamo che l’abito le sta davvero da Dio. Se ne accorge
sicuramente anche
Shannon che, improvvisamente, raddrizza la schiena, come se gli
avessero messo
una scopa sul deretano.
«Le
sta molto bene, non crede anche lei?», chiede la commessa, un
sorriso in volto,
rivolgendosi a Shannon. «Ma d'altronde è molto
bella, proprio come il padre».
Silenzio
di tomba.
E
poi lo sento, lo sento salire, fino a che il primo singhiozzo mi esce
dalle
labbra contro la mia volontà
e non
riesco più a trattenermi: scoppio a ridere. Rido
così tanto che in pochi
secondi sento affiorare le lacrime agli occhi e devo cominciare a
camminare
avanti e indietro per cercare di smettere. Anche le mie amiche ridono
come me. La
commessa, ha appena scambiato Shannon per il padre di Frances, questo
l’abbiamo
capito tutte a quanto pare. Shannon anche l’ha capito bene,
ma, a contrario
nostro, non ride, ma anzi si è fatto scuro in volto.
«Io, suo padre? Sta scherzando,
vero?»
«Beh,
veramente no…», risponde lui, confusa.
«Ma se mi sono sbagliata mi scuso,
ovviamente».
«Sì,
si è sbagliata», dice stizzito lui.
«Daddy,
ci porti al Luna park questa sera?», domanda Rain tra un
singhiozzo o l’altro. Shannon
la guarda gelido e con un’uscita di scena degna della
più grande diva di
Hollywood – o di suo fratello Jared – lascia il
negozio, una commessa
sbalordita e noi con le lacrime agli occhi.
Appena
Frances riesce a liberarsi dal vestito, e dopo esserci scusate con la
gentile
commessa, usciamo di corsa dal negozio, ma, guardandoci intorno, non
vediamo
tracce di Shannon. «Dov’è
andato?», chiedo.
«Non
lo so», risponde Rain.
Continuiamo
a guardarci attorno ma di lui non c’è traccia, per
cui, tristi, seguiamo la
strada su cui ci ha abbandonato strascicando i piedi. Dopo qualche
minuto,
butto l’occhio dentro la vetrina di un negozio di strumenti
musicali e fra le
decine di chitarre appese al soffitto scorgo la testa di Shannon, gli
occhiali
sugli occhi, intento a picchiettare i piatti di una batteria con una
bacchetta
tenuta in una mano e con l’altra reggere un telefono vicino
ad un orecchio. «Eccolo»,
dico indicandolo.
Entriamo
nel negozio e ci avviciniamo. Quando ci scorge sbuffa sonoramente.
«Jared, ti
devo lasciare, le mie bambine mi
hanno trovato», detto questo riattacca il telefono.
«La smetterete mai di
tormentarmi voi tre?»
«Siamo
le tue bambine», ridacchio. Lui mi guarda in cagnesco e io mi
ritrovo ad alzare
le mani in segno di resa. «Okay okay».
«Shannon,
potresti presentarcelo Jared, però», dice Frances.
«Volete
conoscerlo?», chiede lui, alzando gli occhi dalla batteria
che l’aveva
distratto. Mi intenerisco: quante volte ha detto che Christine
l’ha salvato da
morte certa? Davvero tante, e ne ho appena avuta la prova.
«Pronto,
Terra chiama Shannon, siamo delle echelon, è ovvio che
vogliamo conoscere tuo
fratello. E Tomo», risponde lei.
«Giusto»,
dice lui. «Va bene, ve lo presento».
«Davvero?!»,
domanda Rain. Come me si aspettava tutto tranne quello.
Annuisce.
«Certo, ma prima voglio sapere qual è il vostro
sogno», afferma con un
sorrisino sulle labbra che non promette nulla di buono.
Ci
guardiamo tutte e tre, sapendo che si riferisce alla frase che Frances
aveva
detto la sera prima, quella del “stiamo cercando il nostro
sogno ma pensiamo di
averlo trovato questa sera”, e non sappiamo che cosa
rispondere. È da escludere
dirgli che il nostro sogno era quello di conoscere lui, sarebbe troppo
imbarazzante, anche se probabilmente lui ha già capito la
verità ed è per
quello che ce l’ha chiesto, è per quello che
sorride in quel modo.
Quindi,
dopo un lungo scambio di sguardi con le mie amiche mi volto verso di
lui. «Il
mio sogno più grande è di diventare una
scrittrice. Voglio raccontare la realtà, bella o brutta che
sia, mettere su
carta i pensieri che mi tormentano tutti i giorni, vivere vite diverse
da
quella che vivo qui, su questa terra, conoscermi meglio attraverso i
personaggi
dei miei racconti, reinventarmi, immaginarmi diversa. Voglio emozionare
con le
parole, far sentire le persone meno sole, voglio essere associata alla
pioggia
e a una tazza di tè. Voglio solo scrivere ed essere brava a
farlo».
«Voglio
vivere in una bella città, in una casa con delle vetrate in
salotto, con una
persona che amo, trovare un lavoro che mi renda soddisfatta di me
stessa, che
mi faccia arrivare a casa la sera stanca ma fiera di me. Voglio essere
serena e
capire chi sono davvero facendo un lungo viaggio, per rimanere
meravigliata
ancora una volta dalle persone, dai loro sbagli, dai loro pregi, da
ciò che
creano ogni giorno con la loro passione e da ciò che
distruggono con lo stesso
impeto. Voglio imparare a prendere delle decisioni per conto
mio», dice Rain.
«Sogno
di rendere le persone felici con quello che so fare meglio, quello per
cui
studierò e faticherò tanto. Sogno di salvare
delle vite, che sia ricucendo loro
un braccio, o tenendo la mano di una madre preoccupata per suo figlio
per tutta
la notte. Voglio che le persone abbiamo bisogno di me, e non per
egoismo, non
perché voglio essere al centro dell’attenzione, ma
perché voglio essere utile,
voglio poter dire che ho condiviso la mia vita con tante persone,
persone a cui
ho rubato un piccolo pezzo di anima e fatto mio, persone che ne hanno
rubato
tanti piccoli pezzi a me», dice invece Frances.
Shannon
si toglie gli occhiali e ci guarda, una alla volta, e mi sembra che per
la
prima volta ci veda davvero per quello che siamo. Poi sorride.
«Avete trovato
queste cose in questa città?»
Mi
mordo il labbro. «Abbiamo trovato te, che insieme a Jared e
Tomo ci incoraggi
ogni giorno a credere in noi, a credere che se il nostro sogno non ci
spaventa,
se il nostro sogno non è grande, apparentemente
irragiungibile allora non è
vero. Stay focused on the dreams, right?»
«Dai»,
dice facendo un cenno del capo. «Andiamo a prendere questo
zucchero filato al
Luna Park, ve lo siete meritato».
Questo
capitolo parla di sogni, e ho voluto cominciarlo con una frase che
Jared ha
detto recentemente durante un VyRT Violet. Dietro tutte le risate,
tutte le
prese in giro, dietro a tutto quello che scrivo in questa fan fiction
c’è l’amore
e l’ammirazione che provo nei confronti di questi tre uomini,
che il loro sogno
lo stanno vivendo grazie a noi, ma che allo stesso tempo ci danno
forza, ci
spingono a fare quello in cui crediamo, ci aiutano a capire chi siamo.
Sabato
li ho visti in concerto per la seconda volta, a Milano, e mi sono resa
conto
veramente di quanto siano importanti per me. Quindi sì, un
capitolo un po’ più
serio nel finale ma che spero vi sia piaciuto lo stesso. A presto, Deb.
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Capitolo 9 *** Capitolo nove. ***
Sento
un rumore strano, ma il sonno e l’annebbiamento che esso mi
produce in testa,
mi impediscono di capire di che cosa si tratta. Inconsciamente decido
di
ignorarlo, per cui mi rimetto comoda sulla mia parte di letto
– sono riuscita a
confinare Rain nel divano a suon di minacce – e mi faccio
avvolgere di nuovo
dal tepore di Morfeo. Per qualche motivo, comunque, il rumore si fa
più
fastidioso. Sprango la mia mente, impedendole di continuare ad udirlo,
ma
niente, quel suono mi si insinua fin dentro l’ultima cellula
del cervello e lo riscuote
incitandomi a svegliarmi una volta per tutte. Quando lo sto per fare,
il rumore
molesto viene sovrapposto da un «ma che cazzo
è?» pronunciato da Frances. Mi
volto verso di lei e apro gli occhi lentamente – io e la luce
di mattina non
siamo mai andate d’accordo.
«Non
sapevo nemmeno ci fosse, un telefono, in questo schifo di
posto», borbotta
alzando la cornetta del telefono che, effettivamente, è
sempre stato sul suo
comodino. «Pronto?»
«O-okay,
grazie», risponde qualche secondo dopo, prima di attaccare e
voltarsi verso di
me con la faccia corrucciata. «Era una della reception. A
quanto pare abbiamo
ospiti».
«In
che senso?»
«Ha
solo detto che qualcuno sarebbe salito nella nostra stanza, e poi ha
chiuso».
«Non
c’è nessuna possibilità che sia mia
mamma, vero?», chiedo ironicamente, ma un
po’ allarmata. Nell’istante in cui lo pronuncio,
comunque, bussano alla porta.
Frances e io ci guardiamo, poi lei si alza e va ad aprirla.
«Shannon?»,
esclama lei.
«Hi».
Perché anche se non l’ho ancora visto i miei
ormoni si sono risvegliati dal
sonno profondo in cui li avevo costretti a rimanere? Basta la sua voce
a farmi
andare letteralmente su di giri? Evidentemente sì.
«Che
cosa ci fai qua?»
«Se
mi fai entrare te lo spiego».
Mi
accorgo che sono in pigiama, che non mi sono ancora pettinata
né lavata il viso
e i denti e che Rain sta ancora dormendo. Mi allungo e le pizzico un
braccio,
poi acciuffo un elastico per i capelli e faccio una coda.
«Hei»,
dice Shannon facendo un cenno del capo verso di me. «Vi ho
svegliate a quanto
pare».
«Perché
mi hai pizzicato un braccio, cretina?», abbaia Rain in
italiano.
«Shannon»,
dico soltanto, sperando si accorga che è a pochi passi da
lei.
«Cos’ha
Shannon?»
«Morning»,
ridacchia lui.
La
testa di Rain scatta verso la voce che l’ha appena salutata,
e la sua faccia
assume un’espressione indecifrabile. «Che cosa ci
fai qua?», annaspa.
«Ve
l’ho già detto un po’ mi fate paura?
fate le stesse domande. Vivere in simbiosi
non vi fa bene, ve lo dico io. Comunque ho portato del
caffè», dice alzando dei
contenitori che non mi ero accorta avesse in mano.
«Grazie
al cielo!» Scatto sul letto, sentendo il richiamo della
caffeina, e ne acciuffo
uno.
«Grazie
Shannon, casomai», dice lui.
«Grazie
Shannon per avermi portato questo caffè, non ti
risponderò più in modo
sarcastico, non ti prenderò più in giro
né manderò a fanculo».
«Dovrei
crederti?»
«No».
«Lo
sapevo», dice lui alzando gli occhi al cielo.
«Cosa
diavolo ci fai qui?», chiedo. Infine sono l’unica
che non ha ancora posto la
domanda.
Shannon
guarda l’orologio che tiene al polso e poi ci guarda.
«Avete mezz’ora per
preparare una valigia con dei vestiti, uno spazzolino da denti e del
gel
antibatterico che non si sa mai».
«Gel
antibatterico? Ma che cosa stai dicendo?», domanda Rain che
sembra appena
essere uscita dall’oltretomba.
«Andiamo
a New York».
«Cosa?»,
esclamiamo tutte e tre contemporaneamente.
«Ho
promesso che vi avrei presentato Jared, e Jared in questo momento
è a New York,
ergo noi andiamo a New York».
«Stai
scherzando», dico spaesata dopo un minuto buono.
«Tick
tock, il tempo passa. Avete solo ventotto minuti».
Quando
atterriamo all’aeroporto di New York, dopo ore e ore di volo
in cui non sono
riuscita a rilassarmi nemmeno un secondo (beh, forse quando Shannon ha
accennato a un massaggio sulle mie spalle stufo delle mie continue
lamentele e
paranoie dicendomi «stai zitta un attimo»
all’altezza e all’aereo sfracellato
al suolo non ci ho poi pensato tanto) mi sento sfinita. Allo stesso
tempo ho
tanta di quella adrenalina in corpo che l’unica cosa che
vorrei fare sarebbe
urlare fino a che ho fiato in corpo e andare a farmi una corsetta, come
a casa
faccio spesso quando sono tesa per qualcosa. Sono euforica e sfinita, e
le due
cose nel mio corpo non vanno mai messe assieme, a meno che non si
vogliano
ottenere risultati disastrosi.
«Ho
bisogno di caffè», dico quando siamo riusciti a
recuperare i nostri bagagli.
«Concordo»,
annuisce Shannon, sorpassando però lo Starbucks.
Inchiodo,
e le altre si schiantano su di me. Ignoro i loro insulti.
«Perché hai superato
questo bellissimo negozio che sprizza caffè da tutti i pori
che non ha?»
Shannon
guarda Frances e Rain con una faccia sconvolta. «Ma parla
sempre così o
l’enorme onore ce l’ho solo io?»
«Sempre
così, e la conosco da dodici anni», scuote la
testa Rain.
«Sono
qui davanti a voi, se ve lo foste per caso dimenticati»,
sbotto. Mi stanno
apertamente insultando, e anche se la cosa sicuramente
apparirà comica, io sono
una persona orgogliosa.
Lui
alza gli occhi al cielo. «Conosco un posto migliore. Ti fidi
di me? Quante
volte ci sei stata in questo posto?» Ricordo improvvisamente
l’altra volta in
cui sono stata in questo posto: io, Frances e Rain alle calcagna di
Jared.
Ridacchio. «Stai ridendo da sola?». Ha un
sopracciglio alzato e Dio solo sa
quanto siano sexy le sue sopracciglia.
«Lasciala
perdere. Caffè. Ora», interviene Rain salvandomi
da imbarazzo certo.
Il
posto in cui ci porta Shannon è un locale molto piccolo,
incastrato fra un
McDonald affollato e una farmacia. Non c’è tanta
gente, solo un’altra coppia di
anziani signori vestiti eleganti che si cibano di qualcosa che a questa
distanza sembra riso nero con delle verdure, ma non ci metterei la mano
sul
fuoco. Ordiniamo tutti un caffè tranne Frances, a cui non
piace e che opta per
una bibita al cioccolato. Lo so che con i nervi tesi che mi ritrovo non
dovrei,
ma lo ordino nel formato più grande che hanno,
perché voglio rimanere sveglia e
vigile per tutta la giornata. Sto per incontrare Jared, non
è una cosa che
capita tutti i giorni nella vita.
«Decisamente
più buono del caffè di Starbucks»,
convengo.
«Lo
so», sorride lui soddisfatto.
«Non
per sembrare invadente», si intromette Frances. «Ma
dove lo troviamo Jared? Non
ci fucilerà all’istante? Infine ha un momento per
sé e tu piombi qui con tre
fan…».
Shannon
alza le spalle. «Che io sappia non ha mai ucciso
nessuno».
«Rassicurante»,
dice Rain in tono ironico. «Che nessuno dica
c’è sempre una prima volta, per
favore. E con nessuno intendo te, Deborah», aggiunge.
Alzo
gli occhi al mio caffè e assumo un’espressione
offesa. «Ah-ah, simpatica».
«Lo
so», dice lei muovendosi i capelli.
Un
telefono comincia a squillare e interrompe il nostro botta e risposta.
È quello
di Shannon, che lo estrae dalla tasca del giubbotto di jeans che
indossa e
legge il nome sul display. «È Jared. Fatemi la
cortesia di stare zitte per due
secondi». Odio quando ci tratta come delle bambine di due
anni, ma infine ha
l’età di mia madre, su per giù, ed
è una rock star. Che cosa ci si può
aspettare da lui? «Hi bro». Comincia a parlare in
un inglese troppo veloce
perché io riesca a capire tutte le sue parole, per cui dopo
qualche secondo ci
rinuncio, cominciando ad esplorare i vari tipi di zucchero che ci sono
nella ciottola
in centro al tavolo. Ho sempre collezionato praticamente qualsiasi
cosa, dalle
cartoline, alle figurine, ai francobolli, e per un periodo anche
bustine di
zucchero. Quando ne trovo una davvero carina, dimenticandomi
dell’avvertimento
di Shannon, esclamo ad alta voce un «guardate questa
quant’è caaaarina»,
alludendo alla mela sorridente ritratta, lui mi lancia
un’occhiataccia. «Nothing, just wait a
second», allontana il cellulare
dall’orecchio. «I’m gonna kill you if you
don’t shut up now».
«Do it or die, I get
it», dico ridacchiando. Non
so
perché ma non mi mette più in soggezione. Non mi
sembra più di avere davanti il
batterista per cui ho sbavato per anni, pur avendone coscienza, ma un
amico,
con cui scherzare liberamente.
Shannon
continua a parlare per diversi minuti, e poi riattacca.
«Andiamo».
Salita
in taxi mi limito a guardare fuori dal finestrino, ammirando la
città nella
quale ho sempre sognato di andare e perché no, vivere. Il
caos, le luci, i
concerti, l’albero di Trafalguar Square a Natale, la neve, il
Moma, Central
Park. Tutte cose che sogno da quando ho quindici anni e che forse
avrò
l’occasione di vedere, almeno in parte.
C’è il sole, e i raggi si riflettono
sul vetro dei grattaceli di cui spesso non riesco a vedere la cima.
Tutto in
questa città è affascinante, niente a che vedere
con il posto in cui sono nata,
niente a che vedere con le spiagge e i tramonti di Los Angeles.
Mi
risveglio dal trance in cui ero caduta quando l’auto gialla
si ferma davanti
all’entrata di un hotel e quando sento l’autista
scusarsi con Shannon per il
traffico. Scendiamo e dei fattorini sono subito pronti a raccogliere i
nostri
bagagli. Sto per entrare in un hotel a cinque stelle, me lo sento.
«È
qui che alloggia Jared?», chiedo entrando per la porta che un
uomo alto di
colore sta tenendo aperta per noi, dandoci il benvenuto. Tutto questo
fa molto
Gossip Girl e io non sono per niente eccitata, no.
«Così
pare».
Quando
arriviamo al bancone mi rendo conto che Shannon ha già
prenotato due camere,
una per noi tre e una singola per lui. Non specifica quante notti
alloggeremo,
e io mi faccio prendere dall’ansia per una cosa a cui prima
non avevo pensato:
chi pagherà tutto ciò? L’ansia aumenta
quando, dopo trenta piani di ascensore,
apriamo la porta della nostra camera e ci accorgiamo che è
una suite. «Sto per
dormire in una fottuta suite!», esclama Frances cominciando a
saltellare in
giro per la stanza. Stanza che assomiglia più a un mini
appartamento, preciso.
«Io
vado a cercare Jared, voi aspettatemi qui, okay? Dormire, mangiate,
saltate sui
letti e fate tutte quelle cose da diciannovenni ma non lasciate
quest’hotel per
nessuna ragione al mondo. Non ho voglia di venirvi a raccattare in
prigione o
che so io».
«Quanto
sei pessimista», esclamo.
«Vi
ho incontrato mezze nude in spiaggia, senza un soldo. In più
vi ho visto
ubriache, se vi ricordate», ribatte lui scoccandomi
un’occhiataccia.
Gli
faccio una linguaccia. «Okay papà». Se
ne va alzando gli occhi al cielo.
«Oddio.
Ma avete visto questo posto? Favoloso!», dice Francis
euforica.
«Ragazze»,
comincio io. «Non vorrei davvero uccidere la vostra euforia,
ma lo sapete che
se dobbiamo pagare noi questo posto dobbiamo creare un mutuo o lavare i
piatti
per l’hotel per il resto della nostra vita, giusto?»
«Merda»,
dice Rain.
«Già».
«Avevo
dato per scontato che pagasse Shannon, ma mi hai fatto venire
l’ansia adesso».
«Benvenuta
nel club», borbotto.
«Che
facciamo quindi?», domanda Francis, le labbra
all’ingiù.
Sto
per rispondere quando bussano alla porta. Tre colpi secchi.
«Cazzo. Quanto male
sono presa?»
Gli
occhi di entrambe le mie amiche si dilatano. «Porca
troia».
Tutte
e tre ci precipitiamo in bagno, sgomitando per appartarci un angolino
di
specchio. «Sono bruttissima», si lamenta Frances.
La
guardo: è perfetta come sempre, in realtà.
«Sei bionda e respiri. Hai più
chance tu di io e Rain messe insieme, con Jared, fidati di
me». Le mi tira una
gomitata su un fianco e io scoppio a ridere. Sento di nuovo battere
sulla porta,
impazientemente. «Dobbiamo andare o buttano giù la
porta. O peggio, chiamano
l’FBI per ritrovarci. Andiamo». Le trascino fuori
dal bagno – personalmente non
sono mai stata una che perde le ore davanti allo specchio per
prepararmi, il
mio brutto aspetto rimane lo stesso anche se continuo a fissarlo per
minuti – e
mi fermo solo quando siamo davanti alla porta.
«Chi
apre?», bisbiglio. Non voglio farmi sentire da loro due.
«Non
so che cosa hai detto, ma so che sei li dietro Deborah. Apri questa
dannata
porta».
Come
non detto. Impugno la maniglia con la mano che mi trema e spalanco la
porta,
forse con un po’ troppa forza, dato che, essendo ancorata ad
essa con tutte le
mie forze a causa dell’ansia, quasi vengo scaraventata
addosso al muro dove la
faccio sbattere. Arrossisco anche le orecchie probabilmente.
«Forse
ho capito», dice Jared. Quasi mi sento morire quando il
cervello comincia a
girare di nuovo e lo vedo davanti a me, sento la sua voce. Lui continua
a
scrutarci, una alla volta, con uno sguardo che fa veramente
decedere le mie ovaie. Poi si volta verso Shannon.
«Andiamo».
E
non so che cosa abbia capito, non riesco nemmeno a pensarci in questo
momento,
ma so che vado.
Non
mi convince molto questo capitolo, sapete? Comunque enjoy it. Ah, a
proposito:
qualche frase l’ho lasciata scritta in inglese
perché rendeva meglio. Sono
sicura che tutti capirete, anche quelli che non capiscono
un’acca di lingue
straniere. Deb.
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci. ***
«Cos’è
che ha capito precisamente, secondo voi?», chiede Rain.
«Vai
a saperlo», risponde Francis.
«Com’è che dice sempre Shannon? Se non
fosse
stato un attore e un cantante adesso sarebbe in un centro di
infermità mentale».
«Mi
immagino già Bart che si dibatte arrabbiato dentro la sua
testa», dico
scuotendo la mia.
«What are you three
saying?», s’intromette
Jared, fissandoci dritte negli occhi. Noi
ci ammutoliamo sul momento. È la
prima volta che ci rivolge la parola direttamente, per tutto il
tragitto in
metro è rimasto in silenzio – come anche Shannon
– con il cappuccio in testa e
gli occhiali da sole.
«Amh…».
Purtroppo è tutto quello che esce dalla mia bocca. Dove sono
finite tutte le
mie capacità linguistiche? E questo non è un
problema di inglese, le parole
sono proprio bloccate da qualche parte nel mio cervello e non hanno
nessuna
intenzione di uscire. Gli ultimi due neuroni sopravissuti
all’incontro dei
fratelli Leto probabilmente sono in letargo. Non posso biasimarli.
«Stavamo
parlando della città», esclama Rain con una voce a
dir poco stridula. La guardo
e sgrano gli occhi. Mi chiedo che cosa abbia intenzione di inventarsi.
«E
cosa dicevate?».
«Che
siamo contente di vederla, che è molto bella».
«Tutto
qui?». Ahi, Rain non poteva essersi dimenticata che New York
era il suo posto
preferito nel mondo, giusto? «Solo molto bella? Questa
città è perfetta».
«Vorrei
farti notare che la metro è al chiuso».
«E
quindi?», è confuso e le sue sopracciglia si
avvicinano tra loro. Adorabile.
«E
quindi non posso dire molto dato che quello che visto fino ad ora sono
solo
delle mura. È la nostra prima volta, qui nella Grande
Mela», dice Rain
esasperata.
«Touché»,
sorride Jared.
«Francese,
ti pareva», mi dice Francis all’orecchio.
«Fissato»,
confermo annuendo. Mi guardo intorno, e solo voltando il busto
completamente
vedo Shannon, alcuni passi dietro di noi. «Hei, vecchietto,
non riesci a tenere
il nostro passo?», scherzo. Mi diverto troppo a farlo
innervosire facendo
frecciatine riguardo alla sua non più tenera età,
non ci posso fare niente. La
risposta pronta e seccata che di solito mi riserva, però,
tarda ad arrivare.
Nel suo viso invece si tratteggia una smorfia. Guardo Francis: anche
lei è
confusa quanto me. Ci avviciniamo un po’.
«Va
tutto bene, Shan?», chiede la mia amica.
Lui
annuisce. «Tutto bene, non preoccupatevi». Fa
qualche passo verso di noi, ma la
sua camminata e strascicata. Potrei giurare che un po’
zoppica.
«Non
vorrei contraddirti…», comincio, ma lui alza gli
occhi al cielo e mi blocca.
«Come
non fai mai, certo…».
Lo
guardo con uno sguardo di sfida e lui ammutolisce. «Stavo per
dire che non mi
sembra vada tutto bene. Tu zoppichi, Shannon».
«Non
è niente», ripete, il tono fermo.
Mi
volto verso Francis. «Io non ci credo», le dico in
italiano. «Ha qualcosa che
non va».
Lei
mi guarda qualche secondo e poi gli si avvicina. Non so con che
coraggio ma,
dopo averlo fissato per qualche secondo, si inginocchia davanti a lui e
comincia a toccargli la gamba destra. Sul volto di Shannon si dipinge
una
maschera di sorpresa e incredulità che credo sia specchio
della mia.
Lo
so che probabilmente è tutto frutto della mia mente malata,
o forse è solo
l’aria di New York che mi fa pensare a queste cose, ma, in un
primo momento, mi
chiedo se Francis non voglia farlo stare meglio utilizzando qualche
tecnica
censurata in Hurricane che non sto qui a specificare. Tossicchio fra
me: mi
faccio spavento, quando penso a queste cose. In un secondo momento
penso invece
che stia sfoderando il suo lato da medico. E ne ho la conferma quando
la sento
chiedere: «Qui ti fa male?».
Shannon
sussulta. «Jesus».
«Non
ho ancora iniziato a studiare, se non consideriamo i tomi di biologia e
chimica
per il test d’ammissione all’università,
ma il tuo ginocchio destro è gonfio.
Devi farti visitare da un medico, uno di quelli veri si
intende», dice Francis
alzandosi e rassettandosi i pantaloni.
Shannon
si porta una mano sugli occhi e rimane in quella posizione per un tempo
che mi sembra
infinito. Mi si stringe il cuore. Conosco molte cose su di loro, ogni
giorno
scopro qualcosa di nuovo attraverso un’intervista, un
servizio fotografico, un
semplice tweet. Eppure mai avrei pensato di poter vedere sul serio la
loro
sofferenza. A volte tendiamo a dimenticarcelo che anche loro, le
persone che
seguiamo come se fossero dei messia, come se fossero degli dei
– i nostri dei –
sono umani, e provano dolore. A volte tendiamo a dimenticarcelo che le
canzoni
che noi ascoltiamo la mattina andando a scuola seduti sul sellino
gelido di un
autobus, sono spesso frutto di quel dolore che li trafigge e che noi
non
possiamo conoscere. Ci è off limits. E invece ora ce
l’ho proprio davanti agli
occhi, il suo star male.
Francis
gli si avvicina e, come se fosse la cosa più giusta da fare,
lo abbraccia. In un
primo momento vedo Shannon irrigidirsi. Poi, come se improvvisamente
avesse
capito che quello era esattamente quello di cui aveva bisogno, la
stringe a sé.
«Appena torniamo a casa ci vado», lo sento dire.
«Domani,
devi andarci domani. Quel ginocchio ti serve».
Lui
scioglie l’abbraccio e la guarda, e guarda anche me. Tace per
qualche secondo, si
sistema la custodia con la chitarra sulla spalla, poi prende un grosso
respiro.
«Ho paura. Come dici tu, quel fottuto ginocchio mi serve.
Come diavolo suono
Christine, altrimenti?». Una parte di me non ci crede, ma ho
appena sentito dire
a Shannon Leto che ha paura. L’ha detto a noi, delle ragazze
che fondamentalmente
lo tormentano da giorni.
Una
forza che proviene da dentro mi spinge ad avvicinarmi a loro.
«Lo so che fa
paura, le novità spaventano sempre, ma tu devi andare dal
medico. Possiamo venire
con te, se vuoi. Sicuramente Jared lo farà, se gli spieghi
la situazione».
«Che
cos’è che deve spiegarmi?». La voce di
Jared suona alle mie spalle, ed è
proprio lì che lo trovo quando mi volto, intento ad
osservare me, suo fratello
e Francis. Dev’essere sicuramente stato attratto
dall’abbraccio della mia
amica, per aver abbandonato l’animata conversazione che stava
facendo con Rain.
Guardo
Shannon e gli sorrido. Se potessi gli stringerei la mano, per dirgli
che io e i
milioni di echelon ancora ignari del suo ginocchio, sono con lui,
pronto a
sostenerlo in qualsiasi momento. Lui annuisce a me e Francis e prende
un
respiro. «Sto diventando vecchio, Jared, ecco cosa
c’è».
«No
warning sign, no alibi, we’re fading faster than the speed of
light».
Jared canta con gli
occhi chiusi, la chitarra posizionata stancamente
sulla gamba. È seduto su una fontana al centro di una
piccola piazza che, a
giudicare del via vai di gente, deve essere abbastanza in centro. «Took
our
chance, crashed and burned, no we’ll never ever
learn». Shannon
affianco a lui lo accompagna, suonando
delle note delicate che rendono la situazione irreale. Ci sono loro, io
e le
mie amiche, e un piccolo gruppo di persone alle nostre spalle. «I fell apart, but got back up
again». Apro
gli occhi nell’esatto istante in cui Jared e Shannon si
guardano e poi, come se
fossero chiusi in una bolla e non con decine di persone davanti, si
sorridono. Mi
scende una lacrima, e non solo perché quella canzone per me
ha fatto tanto,
perché mi ha insegnato a non arrendermi, a rialzarmi e
andare avanti nonostante
tutto, ma perché so che loro due ci saranno sempre:
l’uno per l’altro, per me,
per le persone alle mie spalle. So che saranno sempre sinceri, so che
mi
insegneranno ancora molto.
Sento
che Francis alla mia destra mi stringe la mano, così mi
volto a guardarla:
piange anche lei. Le sorrido, la scavalco con lo sguardo, e faccio lo
stesso
con Rain. È un sogno?,
lo so che lo
stanno pensando anche loro, quindi scuoto la testa. «Non
è un sogno. Siamo qui,
stiamo ascoltando Alibi», dico a me stessa e a loro.
«…the
battle is the only way we feel alive», continua Jared. Quanto abbiamo combattuto noi, nelle nostre
vite? Quante battaglie abbiamo superato?, non senza cicatrici, certo,
ma le
abbiamo superate. Quante dovremmo combatterne, in futuro? Chi lo sa.
Intanto ci
rimangono i sogni, ci rimangono gli amici, ci rimane la speranza, ci
rimane l’amore,
ci rimane la fortuna, ci rimane quel desiderio di essere sempre
migliori, di
reinventarci, di cambiare e di amare, di essere amati, di scoprire e
viaggiare
e imparare.
Il
mio sguardo incrocia quello di Jared, e non lo so perché lo
faccio, non so
nemmeno se quello che faccio abbia un senso, se lui lo
capirà, ma sussurro un «Grazie»
e lui alza gli angoli delle labbra. Magari quando saremo tornate a casa
lui si
sarò scordato dei nostri nomi, ma io non
dimenticherò mai che cosa mi ha detto
con quel sorriso. Mi ha detto che sì, posso farcela. Che
sì, devo continuarci a
crederci. Nei miei sogni, in me stessa, in lui. Perché sa
cosa significa
soffrire, sa cosa significa piangere di notte e farlo così
tanto da non
riuscirci più dopo un po’, sa cosa significa
volere bene alle persone ma non
riuscire a comunicarlo. Lui sa, sa chi si sono e che cosa provo, ma
sì, mi ha
detto che sì, non sono da sola.
Sorrido,
ancora. Ringrazierò per sempre Dio, o chi per lui, per
avermi fatto sentire le
parole «sapevamo che avresti detto sì, quindi i
soldi del biglietto li abbiamo
anticipati noi», per avermi fatto accettare quel pazzo
viaggio dall’altra parte
del mondo.
È
terribile, nel mio modesto parere. E sono pure in un ritardo
imperdonabile. Ma voi
perdonatemi lo stesso, vi prego. E lo so che questa è nata
come una storia
comica, ma la vita non lo è quindi sì, ogni tanto
mi va di inserirci delle cose
tristi/lacrimose, spero piacciano anche a voi. A presto, Deb.
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Capitolo 11 *** Capitolo undici. ***
«Dimmi
che non stai facendo quello che sto pensando che tu stia
facendo», dico,
cercando di nascondere una risata. Jared mi guarda voltandosi appena,
un
sorriso furbo sulle labbra, e annuisce. Mi siedo sul bracciolo di uno
dei tanti
divani che troneggiano nel salone del quartiere generale della band, e
mi godo
la scena sorridendo. Jared,
il suo
fedele Blackberry stretto fra le mani, si è posizionato
davanti a un esemplare
di Shannon addormentato con un impacco di argilla sul ginocchio e la
testa a
penzoloni con tutta l’intenzione di immortalare quel momento.
Da qua non vedo
bene, ma è probabile che Shannon abbia anche le bavette che
gli escono dalla
bocca. Dorme di gusto, lo si vede dalla pelle del volto distesa e
rilassata,
dalle labbra leggermente dischiuse. Quello che in questo momento non
sa, perso
fra le calde braccia di Morfeo, è che si
sveglierà con un torcicollo del
diavolo e con una foto decisamente compromettente nel telefono del suo
adorabile
fratellino. E non solo in quello.
«Ora
la invio a Tomo», ridacchia Jared dopo averla scattata.
«A
proposito di Tomo», dice Francis,
«dov’è?»
Jared
alza le spalle. «A casa sua, immagino».
In
quell’esatto istante sentiamo bussare alla porta del The Hive
e Jared, la
faccia corrucciata, si fa strada fra la confusione generale che regna
nella
stanza, e va ad aprire la porta.
«Hola
amigo!», esclama Tomo, un sorriso a trentadue denti che si fa
spazio fra la
folta barba nera. Sento che il cuore potrebbe esplodermi da un momento
all’altro dall’emozione. Ancora sulla porta di casa
lo vedo alzare il telefono
con la foto del bell’addormentato sullo schermo.
«Devo preoccuparmi?».
«Che
cosa ci fa qui?», chiede Jared scansandosi per farlo entrare
in casa.
Tomo
alza le spalle. «Mi annoiavo. A casa ci sono i parenti di
Vicky, quindi la
chitarra è off limits, e direi che anche mia moglie lo
è, troppo indaffarata a
pulire casa, a portare tè e pasticcini a sua nonna e
quant’altro. Sono
semplicemente fuggito dall’inferno». Jared gli da
delle pacche sulle spalle e
lo spinge in avanti, ma Tomo si blocca all’istante quando ci
vede appollaiate
sul divano. «Amico, non è che devi spiegarmi
qualcosa?», chiede inclinando la
testa rivolto verso Jared.
«Potrebbe
farlo Shannon». Pronunciando il nome del fratello alza il
tono della voce a
livelli che non sono sicura siano legali, e il povero malato alza la
testa in
un scatto, aprendo gli occhi come un pulcino appena uscito
dall’uovo.
«Cosa?
Cosa succede?», domanda, guardandosi attorno probabilmente
alla ricerca di un
incendio. Non riesco a trattenermi e scoppio a ridere, e in pochi
secondi tutti,
tranne Shannon ovviamente, mi seguono a ruota. Quando si accorge dalla
presenza
di Tomo, la sua faccia diventa definitivamente un punto di domanda.
«Tomo? Ma
che diavolo ci fai qui?».
«Si
annoiava», risponde Rain e vedo il chitarrista annuire.
Shannon
ci scruta per qualche secondo tutte e tre e poi sorride.
«Avete conosciuto
Tomo!». Non riesco a capire se si sia rincitrullito nel giro
di un’ora, se i
farmaci che sta assumendo per il ginocchio gli stiano facendo degli
effetti
strani o se sia ancora rintronato a causa del sonno. Qualunque cosa sia
lo
rende molto più divertente del solito. E buffo.
«In
realtà non ho la più pallida idea di chi sono.
Saresti così gentile da
presentarmele, Shan?», dice Tomo.
Shannon
si siede più comodo, imprecando quando muove il ginocchio
per il dolore. «Fanculo»,
esclama passandosi una mano sulla fronte, per ritrovarsi poi cinque
paia di
occhi puntati addosso. «Sto bene». Nessuno di noi
gli crede, ma non possiamo
fare più di tanto. «Le ho trovate nude sulla
spiaggia».
Sento
la saliva raggrumarsi in gola e comincio a tossire per evitare di
soffocarmi. «Non
eravamo nude!», di difendo, tra un colpo di tosse e
l’altro.
«Avevate
solo la biancheria», puntualizza. Vorrei intervenire ma lui
continua il suo
racconto. «Quando mi hanno detto che sono delle Echelon mi
sono sentito in
dovere di aiutarle, per cui sono andato a cercare dei vestiti a casa di
Antoine».
«Antoine?»,
chiede Tomo. Ho come l’impressione che il dj non gli piaccia
molto. «Lo vedi
ancora?».
«Qualche
volta», risponde Shannon, non guardando in faccia
l’amico. Mi volto verso
Frances e Rain e hanno anche loro delle espressioni corrucciate a causa
di
quella celata schermaglia di opinioni. «In ogni caso, non
potevo lasciarle sole
senza un centesimo, per cui le ho portate alla festa con me».
«Perché
eravate senza un centesimo?», chiede Tomo.
«Ci
hanno derubate quella sera. Soldi, vestiti, cellulari,
tutto», dice Rain.
«Un
certo Paul», continua Francis. Quando pronuncia il suo nome
sento le mani
prudere, e sono costretta ad incrociare le braccia. Non sono mai stata
una tipa
violenta, che cosa mi sta succedendo?
«E
poi?». Tomo rapito dal racconto del nostro incontro con Leto
Senior mi fa
tenerezza.
«E
poi mi hanno ricattato», dice Shannon.
«Che
cos’è che abbiamo fatto noi, scusa?»,
sbotto.
Shannon
ridacchia. «Visto che ti sei
autoproclamato nostra balia è tuo dovere aiutarci»,
mi scimmiotta,
utilizzando le stesse parole che avevo usato io giorni prima, e sento
anche le
orecchie arrossire. «Quindi le ho portate a prendere dei
cellulari nuovi e a
fare un giro in centro».
«E
al Luna park a prendere lo zucchero filato», aggiungo io.
«Come
un bravo papà», ridacchia Tomo. Io, Rain e Francis
ci guardiamo e scoppiamo a
ridere. Shannon ci lancia un’occhiataccia che ci zittisce
all’istante. “Quello che
succede al Luna park, resta al
Luna park”, ci aveva detto quel giorno e noi
avevamo promesso.
«Il
giorno dopo erano a New York per incontrare me», dice quindi
Jared che fino a
quel momento era rimasto in silenzio. «Ma a causa del
ginocchio di Shan siamo
dovuti tornare a casa, e ora sono qui a farci compagnia e a raccontarci
un po’
di aneddoti echelon».
«Delle
echelon al The Hive, è successo solo una volta ed
è stato bellissimo», sorride
Tomo. Solo in quel momento mi rendo veramente conto di chi ho davanti e
mi
aggrappo alla collana con la triad che porto al collo.
«Tomo»,
me ne esco io dopo un po’ interrompendo la sua chiacchierata
con Shannon, «posso
abbracciarti?». Lui scoppia a ridere e mi viene incontro. Lo
abbraccio, e un
secondo dopo sento che anche le mie amiche si sono strette intorno a
noi, e mi
viene da ridere e da piangere contemporaneamente.
«Che
cosa succede qui?», chiede Jared che si era spostato in
cucina a prepararsi
qualcosa da mangiare. Quando vede il nostro abbraccio si fa spuntare un
grosso
sorriso sulla faccia e ci raggiunge con una piccola corsa,
sbilanciandoci tutti
e facendoci finire sul divano affianco a Shannon che, per fortuna
dotato di
riflessi pronti, si scansa prima di venire investito.
In
quel momento, con la
risata di Tomo nelle
orecchie e le braccia di Jared e Shannon che toccano le mie, sento che
non potrei
essere più felice di così, e sorrido, rido,
piango, non so più nemmeno io che
cosa faccio, ma mi sento viva, come quando li ho visti per la prima
volta in
concerto, e ho sentito il mondo scivolarmi addosso, come quando li ho
visti la
seconda volta, e loro erano già diventati degli amici da cui
non riuscivo a
separarmi, perché mi tenevano compagnia, mi consolavano, mi
facevano ridere,
stare bene. Quando ci sciogliamo dall’abbraccio, decidiamo
che è tempo per noi
di andarci a fare una lunga e meritata doccia, quindi salutiamo i
ragazzi, come
se davvero fossero i nostri
più cari
amici, e ci chiudiamo la porta del The Hive alle spalle.
«Non
ci credo», dice Rain, un sorriso da ebete in faccia.
Annuisco. «I believe
in nothing but the
beating of our hearts». E
i nostri cuori, in questo momento, stanno
battendo veramente forte. Li sento, forti e chiari, e in loro credo,
credo solo
in loro. Sorrido. «Ce l’abbiamo fatta».
Per
la milionesima volta: sono imperdonabile, lo so. But surprise!, il
nuovo
capitolo è qui. Finalmente le ragazze hanno incontrato Tomo
e la sua fantastica
risata. Non so se sono coincidenze o no, ma oggi sono passati due mesi
dal
concerto di Milano e io sono mezza depressa. In ogni caso finalmente
è uscito
il capitolo, quindi forse è proprio merito del ricordo di
quel giorno super
speciale.
Colgo
l’occasione per dirvi altre due cose, prima: buon anno nuovo,
che vi porti
tante belle cose, eccetera eccetera, e, seconda: ho iniziato una nuova
storia
con protagonista Jared, Sleeping
with ghosts, leggetela, se vi va.
MarsHug
per tutte, Deb.
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici. ***
«Io
non vorrei dirvelo, ma siamo senza un centesimo», esordisco,
il portafoglio
vuoto fra le mani.
«Siamo
senza soldi perché dovevamo rimanere due settimane al
massimo e invece abbiamo
già prolungato di dieci giorni. Che cosa ci dice il
cervello?», chiede Frances.
«Il
cervello ci dice che siamo diventate delle assidue frequentatrici di
casa Leto
e giustamente tornare a casa e affrontare la vita fa schifo»,
risponde ovvia
Rain.
Mi
butto di peso sul letto. «Io non ci voglio tornare alla vita
reale»,
piagnucolo. Mi alzo sostenendomi con un gomito. «Non ci
voglio tornare».
«La
parola università vi fa accapponare la pelle come a me,
vedo», dice Frances.
«Sempre
detto che i corpi morti non erano una bella cosa da studiare».
«Deborah»,
mi apostrofa.
Mi
alzo su un gomito per guardarla in faccia. «Devi accettare il
fatto che prima o
poi vedrai dei cadaveri, e in quel momento, oh come mi penserai in quel
momento».
Fa
un grosso sospiro. «Possiamo tornare a pensare a questioni
più importanti, per
favore?». Mi stringo nelle spalle. «Dobbiamo
tornare a casa. Li abbiamo incontrati
infine, ci siamo riuscite».
«Io
ho ancora troppe cose da dire loro», dico, e mentre lo faccio
so che è vero. Ho
bisogno di sentirmi dire da Jared che un giorno riuscirò a
scriverlo, il romanzo
perfetto che ho in testa, ho bisogno di dirgli deve sposarsi e
procreare perché
non può lasciare che la perfezione dei suoi geni venga
sprecata in questo modo,
ho bisogno di far ridere Tomo per sentire ancora una volta la sua
bellissima
risata nelle orecchie, ho bisogno di dire a Shannon quanto sia brutto
il suo
pigiama a righe marroni, e continuare a prenderlo in giro e
punzecchiarlo.
«Siamo
Mars dipendenti», conclude Rain.
«Cristo»,
esclama Frances buttandosi affianco a me. «Cristo
sì».
«Facendo
due calcoli possiamo rimanere qui un’altra settimana e
riuscire a sistemarci
comunque prima dell’inizio delle lezioni»,
rifletto. «Non più di una settimana,
però. Poi dobbiamo andarcene. O cambiare il nostro futuro
rimanendo a Los
Angeles per sempre».
«A
fare che?», domanda Frances.
«Non
so. Le barbone, visto che siamo senza un soldo?»
«Possiamo
trovare un lavoro», dice Rain.
«E
stare a Los Angeles per sempre?». Davanti agli occhi prende
forma la mia vita:
io che la mattina mi sveglio, i piedi doloranti, mi faccio una doccia,
mangio
dei cereali che hanno preso aria e quindi sono diventati molli, mi
faccio
strada fra le cianfrusaglie che trovo sul pavimento, esco di casa e
vado al
lavoro; lavoro in un ristorante e anche Frances e Rain, ma loro hanno
il turno
diverso del mio, per cui sono a casa a dormire (ho cercato infatti di
fare meno
rumore possibile, per non svegliarle), lavo bicchieri, piatti, pentole,
le mani
mi diventano molle, servo i clienti in sala e la camicia bianca mi fa
stare
scomoda per ore. So quello che si prova perché ho
già fatto quel lavoro, lo
abbiamo tutte e tre già fatto, e sebbene guadagnare dei
soldi sia davvero
gratificante, so che non è quello che mi aspetto da me
stessa. Io voglio di
più. Io posso fare di più. Tutte noi possiamo.
Sospiro e scuoto la testa. «Io
la cameriera per il resto della mia vita non voglio farla. Ho sudato
per
entrare in quell’università», concludo.
«Come anche voi».
Rimaniamo
in silenzio per un po’, a pensare ognuno alla propria vita,
alle
responsabilità, ai sogni, alle scelte, alle
possibilità, al futuro. «Una
settimana possiamo ancora permettercela. Poi torniamo a
casa», conclude
Frances. «Ci state?»
Non
ho bisogno di pensare molto prima di dire «Ci sto. Anche
perché non ho ancora
raccontato a Jared perché l’assassino nel mio
libro sia il personaggio più
bello di sempre».
«Anche
perché Tomo non mi ha ancora detto qual è il
segreto per trovare l’amore della
mia vita», esclama Rain.
«Anche
perché il ginocchio di Shannon non è ancora
guarito e potrebbe aver bisogno di
me», dice Frances. «È
deciso allora». Io
e Rain annuiamo, ed è in quel momento che un telefono
comincia a suonare. La
suoneria è Night of the hunter, quindi deduco che sia il
mio. Di slancio mi
alzo dal letto e seguo il suono con le orecchie per cercare di
indovinare la
posizione esatta del telefono, che trovo dopo qualche squillo sotto una
pila
infinita di vestiti. Mi dimentico di guardare lo schermo, e rispondo.
«Pronto?»
«Deborah,
is that you?». Stacco il telefono dall’orecchio e
il nome Tomo è impresso sullo
schermo.
«Yes, it’s
me. Are you okay? It’s
everything okay?».
«Shannon
stamattina deve andare a fare quegli esami per il ginocchio, e vuole
che
Frances vada con lui perché dice che ne capisce di
più di tutti noi messi
insieme, ma lei continua a non rispondergli al
telef…». Sento del trambusto
dall’altra parte della cornetta e mi corruccio.
«È stata rapita dagli alieni?
Le hanno di nuovo rubato il cellulare?».
«Shannon?»,
riconosco la voce. «Che cosa diavolo stai
blaterando?». Metto il vivavoce in
modo che anche Rain e Frances, che si stringono attorno al telefono,
possano
sentire.
Lo
sento sospirare. «Per favore, per
favore»,
abbassa la voce, «potete venire qui?»
«Quando?»
«Adesso.
E con delle ciambelle».
«Ciambelle?».
Sono sempre più confusa.
«Devono
far placare l’ira di Jared».
«Perché
Jared è arrabbiato?»
Sento
il suo respiro che si strozza, come se da un momento
all’altro stesse per
scoppiare a ridere (o morire, ma l’opzione rantolo di morte
la escludo visto
che fino a un secondo fa mi stava parlando in modo abbastanza lucido)
«È
arrabbiato con me».
«Shannon,
che hai combinato?», chiede Frances.
«Gli
ho fatto notare che aveva un capello bianco. Aveva un capello bianco,
gliel’ho
detto e lui si è messo ad urlare come un ossesso dicendomi
che era impossibile,
che lui non è
vecchio».
«Dov’è
adesso?». Modulo la frase cercando di trattenere una risata.
Credo di essere
rossa in faccia per lo sforzo.
«In
camera sua. Immagino sia davanti allo specchio a controllarsi capello
per
capello, ho provato a bussare ma non risponde, e a Tomo ha detto di
andarsene
al diavolo, lui possessore di un così bel colore di
capelli».
«Arriviamo
tra massimo mezz’ora con le ciambelle», dico, e
attacco senza aspettare una
risposta perché non ce la faccio più: scoppio a
ridere così tanto che dopo
alcuni minuti comincia a farmi male la pancia, seguita a ruota da
Francis e
Rain. Quando finalmente riusciamo a calmarci, a smettere di lacrimare e
emettere strani rumori da trichechi in soffocamento, mi alzo dal letto.
«Che la
missione Benjamin Button abbia inizio: destinazione Il Mondo della
ciambella».
Rain
allunga una mano e bussa alla porta. «Il primo capello bianco
di Jared: mi
sento quasi onorata di
assistere
ad un tale avvenimento. Per quanto possiamo andare avanti a sfotterlo,
secondo
voi?»
«Basta
per tutta una vita», ridacchia Francis.
Tomo
apre la porta e con una mano, da bravo gentiluomo, prende il vassoio
con le
ciambelle che reggevo io. «Grazie al cielo. Non potete
capire, sembra sia
scoppiata la terza guerra mondiale qui dentro. Avete presente quando
due stati
sono alleati, ma poi inizia la guerra e uno va contro l’altro
lo stesso? Ecco. Qui
c’è una faida tra fratelli e io non so come
risolverla».
«Non
sono ancora ricorsi alle armi, vero?», mi accerto. Quel
discorso sulla guerra
mi ha fatto un po’ preoccupare.
«Per
ora c’è stata una specie di lotta con i cuscini,
finita con la rovinosa caduta
di Shannon sul divano, dato che li ginocchio non regge ancora bene
tutto il suo
peso», spiega lui.
«Dov’è
adesso?», chiede Rain guardandosi intorno.
«Sappiamo che la diva è chiusa in
camera e non fa entrare nessuno».
Tomo
scuote la testa. «Nemmeno me, ci credete? Comunque Shannon
è seduto fuori
camera di lui, non so bene a fare cosa. L’ultima volta che ho
controllato stava
sbattendo la testa contro il muro chiedendosi che cosa avesse fatto di
male a
meritarsi un fratello del genere».
Guardo
le mie amiche, prendo possesso di nuovo delle ciambelle e a passo
spedito
comincio a salire le scale. Troviamo Shannon che al nostro arrivo si
illumina. Fa
per parlare ma lo zittisco, poi busso
alla porta di Jared. «Jared, sono Deborah, mi puoi per favore
aprire? Ho una
sorpresa per te. Abbiamo una sorpresa per te, con me ci sono anche Rain
e
Francis». Ci provo: se è un bambino bisogna
trattarlo come tale e come fare se
non ricattarlo con un regalo?
Niente,
nessuna risposta. Ci riprovo. «Stai veramente lasciando
queste povere ciambelle
finire nella pancia del tuo perfido fratello? Perché
è la fine che faranno se
non aprirai questa dannata porta». Tratteniamo il respiro
mentre i secondi
passano, ed è proprio quando sto per cedere la parola a una
delle mie amiche
che si sentono dei rumori provenire dal’interno della stanza:
un tonfo, un
lamento, una sedia trascinata. Poi si sente la serratura della porta
schioccare
e Jared mette fuori la testa.
«Ciao
Jared, come stai?», chiede Rain, prudente.
Lui
ci squadra. Si sta chiedendo se si può fidare di noi, si sta
chiedendo da che
parte stiamo. Da che parte stiamo? Non lo so nemmeno io, in questo
momento. Certo,
stiamo facendo questa assurda scenetta per Shannon, ma posso capire il
dramma
di Jared: il primo capello bianco è la porta al primo
pannolone, al primo dente
caduto, alle prime rughe intono agli occhi… rabbrividisco.
Povera piccola diva.
«È la verità, vero?», chiede
lui, un tono che si contiene ma che ha tutto del
lamentoso.
«Che
cosa?», domanda Francis cauta.
«Ho
i capelli bianchi».
«Shannon
ha detto che ne avevi solo uno, non facciamo di tutta l’erba
un fascio», dico
io.
Errore.
Mi fissa, gli occhi più o meno iniettati di sangue.
«È Shannon che vi ha mandato
qui? Dite pure a quel nano malefico che io con lui non ci
parlo».
Sbuffo,
spazientita. «Siete due bambini. Tieni, queste sono ciambelle
per te, mangiale,
ingrassa come tutti i comuni mortali e poi esci da quella maledetta
stanza. Quando
ti sarai deciso a fare l’uomo – ebbene
sì, Jared, hai quarantadue anni, ti
avvicini ai quarantatre, è una cosa normale, è
una cosa che si chiama vita –
noi saremmo giù in cucina ad aspettarti con un sorriso
rassicurandoti che sei
ancora un figo da paura, anche se un capello bianco ha osato spuntarti
in testa»,
dico tutto d’un fiato, concludendo la scenetta ficcandogli la
scatola di
ciambelle in mano e voltandomi per scendere le scale.
«Aspettate!»,
esclama, costringendoci a voltarci. «Quindi pensate ancora
che io sia molto
bello?», domanda lui.
Alzo
gli occhi al cielo. Da quando ha bisogno di una dose di autostima?
«Bellissimo»,
confermo.
«Anche
se sto invecchiando e potrei avere i capelli bianchi molto
presto», appare
dubbioso.
«Esistono
le tinte per capelli. Guarda Deborah, ce li ha fucsia, io ce li ho
rossi,
Francis biondo platino. Siamo tutte tinte, puoi farle anche tu, in caso
ti
servisse», lo rassicura Rain.
«Jared»,
dice Francis, faccendoni voltare tutti dalla sua parte. «Lo
so che questo è un
duro colpo per te – dopo aver interpretato Rayon poi, sei
diventato una specie
di checca isterica, devi ammetterlo, quella donna ti ha un
po’ divorato il
cervello, in senso buono, io la amo – ma se ti rassicura, e
parlo a nome di
loro due», indica me e Rain, «e di tutte le echelon
del mondo, ho ancora voglia
di scoparti sopra ogni superficie piana e non di questa casa».
Jared
sfoggia un sorriso luminoso. «Ogni superficie?».
«Ogni
superficie», rispondiamo in coro.
Lui
scoppia in una risata cristallina e comincia a scartare le ciambelle,
per poi
bloccarsi quando sente la voce di Shannon dire: «Quindi sono
perdonato?»
Lo
fissa per qualche istante e poi mette su un sorrisino. «Tu
sei più vecchio di
me».
«Quale
scoperta».
«Quindi
i capelli bianchi ce li avrai presto anche tu e io sarò
così gentile da fartelo
notare ogni giorno fino a che non te li strapperai uno a
uno», dice, il tono
che sembra una minaccia.
Shannon
alza le mani in segno di resa. «Come vuoi fratello. Ora dammi
una ciambella».
«Deborah
ha detto che sono per me».
«Sii
generoso».
«Sono
una egoista bastardo, ricordi?»
«Una
sola, quella più piccola e con meno glassa», dice
Shannon, il tono lamentoso e
il labbro inferiore che quasi sporge.
Non
ce la posso fare, davvero. Guardo Rain e Francis e le trovo allibite
quanto me.
«Cari miei, voi avete qualche serio problema. In questo
momento provo molta
pena per Tomo, colui che si merita quelle ciambelle per riuscire a
sopportarvi
tutti i santi giorni», dice la bionda, strappando la scatola
con i dolciumi
dalle mani di Jared e correndo giù dalle scale a suon di
«Tomo, Tomo dove sei?»
«Le
mie ciambelle», esala Jared, le braccia ancora in avanti, il
peso del furto
appena subito stampato in faccia. Si volta verso il fratello, la cui
espressione è specchio della sua.
«Vi
ha appena risparmiato di diventare grassi, oltre che vecchio, dovreste
esserne
felici», ridacchia Rain dandogli dei colpetti sulla spalla.
Rido anche io e
scendo le scale per addentare una meritata parte di paradiso con la
glassa al cioccolato
sopra, ma, quando siamo a metà della prima rampa, capiamo
che dobbiamo darcela
a gambe prima di essere uccise, perché sentiamo urlare
«Io non sono vecchio!» e
rabbrividisco, perché ad urlarlo non è stato solo
Jared, ma anche Shannon.
Vedo
Tomo davanti a me, la focaccina sospesa a mezz’aria e il
terrore in volto. «Avete
appena creato un arma di distruzione di massa, due fratelli uniti nello
stesso
fronte».
«To the left, to the
right…», canticchia con
la voce malferma Francis.
Tomo annuisce. «This
is war. E ora come
ora non so chi ne uscirà vivo».
Non ho mai
scritto una cosa più
demenziale di questa in vita mia, me per qualche strana ragione la
pazzia e la
ilarità si sono prese possesso di me da sabato mattino.
Sospetto a causa delle
due verifiche di matematica che dovrò affrontare la
settimana prossima e la
simulazione di terza prova che incombe su di me in meno di un mese. E
poi, sul
serio, quanti premi sta vincendo Jared? Io non sapevo nemmeno
esistessero tutti
quei premi prima che lui li vincesse tutti. Sto passando le notte
sveglie per
guardarmi in streaming red carpet di tutti i tipi, e ho più
occhiaie io di un
morto, ma ne vale la pena.
Ah, ho voluto
inserire Rayon in questo
capitolo perché, come spero abbiate capito, la storia
è ambientata nel futuro,
nell’estate 2014, più o meno ad agosto.
Probabilmente non si saranno ancora
fermati con il tour, ma quando ho iniziato a scrivere questa storia
pensavo l’avessero
finito da un pezzo, e invece continuano a inserire nuove date. Essendo
che
Dallas Buyers Club è già uscito – dieci
esatti giorni da oggi e lo vedrò al
cinema, non sto più nella pelle – mi sembrava
carino inserirlo nel capitolo per
sostenere la mia tesi che Jared non è altro che una diva.
Non che in realtà ce
ne sia bisogno.
Detto questo,
grazie a tutte quelle che
leggono, recensiscono, preferiscono, mi mandano messaggi eccetera,
siete
adorabili. Un abbraccio, Deb.
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici. ***
«Oscar
Wilde, di nuovo?». Alzo la testa dal libro e annuisco a
Francis. Abbiamo perso
il conto del numero di volte che ho letto Il Ritratto di Dorian Gray e
le varie
commedie teatrali di Wilde. E sì, so citare buona parte dei
suoi aforismi a
memoria. Non è ancora stato scientificamente spiegato il
motivo, ho solo un
amore incondizionato per quell’uomo e non credo ci sia nulla
che potrà mai
farmi cambiare idea. «Qualche nuova scoperta?»
«Direi
di no: la parte in cui parla delle pietre è noiosa come
sempre». Francis
annuisce e torna a mangiucchiare la matita che sta usando per
sottolineare le
pagine di un grosso libro di anatomia. Cerco con lo sguardo Rain e la
trovo intenta
a disegnare qualcosa impugnando la matita talmente forte che potrebbe
spezzarsi
da un momento all’altro. Poso il libro e la raggiungo, senza
che lei si accorga
di nulla visto che sta ascoltando della musica con le cuffiette,
mettendomi
alle sue spalle: sta copiando un’immagine dei Shannon, Tomo e
Jared, e lo sta
facendo un modo assolutamente splendido. Le picchietto una spalla e
quando si
volta alzo il pollice in segno di approvazione e lei sorride
togliendosi le
cuffie. «Fa parte di un progetto che mi è venuto
in mente, ma ve lo spiego
dopo, altrimenti perdo l’ispirazione».
Confusa
e curiosa come non mai, me ne ritorno al mio libro con tutta
l’intenzione di
finirlo. Qualche istante dopo – che si rivelano essere due
ore – sento qualcosa
vibrare vicino a me. Scocciata mi sposto un po’ sulla
poltrona, come se quello
potesse scacciare l’odiosa sensazione. Non se ne va,
ovviamente. Sbuffo e solo
in quel momento mi accorgo che è il mio telefono. Mi fiondo
a rispondere senza
nemmeno guardare chi stia chiamando per paura di mancare la chiamata.
«Hi. Umh,
pronto?»
«Che
è, ti sei dimenticata l’italiano adesso?»
«Ma
chi parla?»
Silenzio.
«Potrei essermi offesa, non riconosci nemmeno la mia voce.
Sono Elisa».
«Teeeesoro»,
esclamo, «scusa, scusa scusa, stavo leggendo e sai che non
capisco più una
ciospa quando leggo».
«Certo,
certo. Allora, novità? Cosa farete oggi, andrete a conoscere
mamma Constance?»
«Elisa…»
«Elisa
un corno! Spunto robaccia verde, meglio conosciuta come invidia, da
giorni. E
voi, maledettissime che non siete altro, non mi raccontate mai
nulla».
«Sai
com’è, una chiamata in Italia costa un occhio
della testa. A proposito, ma tu
da che numero stai chiamando?». Stacco il telefono
dall’orecchio ma appare solo
una fila di numeri a me sconosciuti. Colgo l’occasione e
metto in vivavoce,
facendo segno alle altre di avvicinarsi.
«Quello
del lavoro. Ma che cos’è questo casino?»
«Sei
in vivavoce. E Rain si stava ammazzando su una delle mie scarpe.
Ops».
«Ops
sto par di palle», risponde lei fulminandomi con lo sguardo.
«Pace
e amore, per favore», dice Francis. «Ciao
Eli».
«Francis,
luce dei miei occhi, amore della mia vita, sbaglio o dovevi raccontarmi
qualcosa riguardo a un certo massaggio fatto a Shannon?»
Corruccio
la fronte e volto lo sguardo in direzione di Francis. «Che
massaggio?»
«Sì,
quale massaggio?», rimarca Rain.
La
faccia di Francis diventa di un indefinito colore rosso e
improvvisamente
sembra essere seduta su un letto di spine. «Ma niente, quando
l’ho accompagnato
a fare quegli esami, gli è preso una specie di crampo ad una
gamba, per cui mi
sono cimentata in uno di quei massaggi che mi hanno insegnato al corso
di
pronto soccorso. Niente di che».
«È
perché sei arrossita?», chiede Rain.
«Sei
arrossita?», domanda a sua volta la voce di Elisa dalla
cornetta.
«Non
sono arrossita! È solo questo maledetto caldo».
Sbuffo.
«Sei arrossita».
«Smettetela.
Hai finito i preparativi per la festa, Elisa?», domanda
Francis per sviare il
nostro attacco.
«Sì,
ma voi non ci sarete», dice lei con un tono che mi fa sentire
in colpa. Il caso
– beh, non proprio il caso, dato che non avremmo
già dovuto essere rientrate in
Italia – ha voluto che abbia fissato la festa dei suoi
diciannove anni circa
una settimana prima del nostro ritorno.
«Sai
che ci dispiace. Ti porteremo un sacco di regali», dice Rain.
«Ma
a me basta che vi ficcate Shannon in valigia, come regalo è
più che sufficiente».
«Non
possiamo prometterti niente, ma faremo del nostro meglio»,
ridacchio.
«Sarà
il caso, altrimenti me la lego al dito».
C’è un momento di silenzio e poi
sentiamo un suo sospiro. «Ma siete sicure sicure che non
tornerete per il
tredici ovvero tra quattro giorni? No, perché se non
è vero e me lo state
dicendo solo per farmi una sorpresa allora potete anche dirmelo.
Farò finta di
non averlo saputo. Farò la faccia stupita».
Guardo
le altre e so che la loro espressione è specchio della mia.
«No piccola, non ci
saremo davvero. Abbiamo l’aereo già prenotato per
il venti di agosto e prima
non riusciamo a spostarlo», dice Francis in un tono che
racchiude tutta la
nostra tristezza.
Elisa
rimane in silenzio per qualche secondo. «Va bene. Allora io
aspetto Shannon eh».
Ridacchiamo
con ancora però un peso sullo stomaco. «Tanto
è nano, in valigia ci sta»,
scherza Rain.
«Pesa
un po’ troppo per poterlo spedire come bagalio in
stiva», ragiono.
«Troveremo
un modo», conclude Francis, pragmatica come sempre.
«Ora
devo andare, mi aspettano un mucchio di scartoffie inutili. Sappiate
che se non
mi chiamate voi la prossima volta io non vi parlo più. Lo
giuro sulla mia chitarra».
«È
una cosa seria, allora!», esclamo. Da quando abbiamo
conosciuto Elisa in un
gruppo di echelon su internet, scoperto che viveva in una
città vicina alla
nostra, è sempre stato chiaro che la sua chitarra, la sua
musica, i testi delle
sue canzoni e i suoi sogni legati a tutto ciò che riesce a
produrre
strimpellando delle corde di ferro, erano la cosa più
importante per lei.
All’inizio non ci credeva. In se stessa, nel suo sogno e
nelle possibilità che
questo un giorno avrebbe potuto realizzarsi. Una piccola parte di lei
probabilmente non ci crede ancora adesso, come succede sempre a tutti.
Era
successo comunque, come succede alla maggior parte degli echelon, che
un giorno
lei avesse capito che vale sempre la pena lottare per ciò
che ci fa stare bene.
Glielo aveva suggerito una vecchia frase pronunciata da Shannon nella
quale
parlava di quel suo periodo nero, o quel video nel quale Tomo diceva
che stava
quasi per abbandonare la musica, fino a quando non è stato
scelto, ed è stata
la cosa migliore della sua vita. Ecco, io sono convinta che la cosa
migliore
della vita di Elisa sia la sua bellissima voce, il modo in cui il suo
timbro
accompagna alla perfezione le parole che ha buttato giù di
suo pugno, su cui ci
è stata pomeriggi interi. So che un giorno
smetterà di sistemare documenti in
quell’ufficio e verrà scelta anche lei.
È per questo motivo che prendo le sue
parole sul serio: se ci dimenticassimo di lei nel momento in cui noi
stiamo
vivendo il sogno che avrebbe voluto vivere anche lei, ne rimarrebbe
molto
ferita. «Mi metto un post-it sulla fronte. Anzi, lo metto su
quella di Francis
così ce l’ho sempre davanti e non me ne
dimentico».
«Perché
la mia fronte e non quella di Rain?»
«La
tua è più spaziosa». Mi guarda in
cagnesco e il alzo le spalle, accennando un
sorriso.
«Parola
di lupetto?», chiede Elisa.
«Parola
di echelon», ribattiamo tutte e tre contemporaneamente. Dopo
averla salutata
con calore la salutiamo e chiudiamo la chiamata.
«Dobbiamo
organizzare qualcosa», dice Francis.
«Sì»,
risponde Rain, «ma cosa?»
«Credo
di avere un’idea, ma abbiamo bisogno di tre personcine a
caso. Usciamo a
prendere delle ciambelle?».
Alla
mia affermazione un sorriso affiora sui volti delle mie amiche.
«Ormai abbiamo
scoperto il modo per corromperli, tanto vale approfittarne».
***
Quattro
giorni dopo, tredici agosto, giorno del diciannovesimo compleanno di
Elisa.
«Siete
pronti?», chiede Rain.
«È
la millesima volta che ce lo chiedi. Non
sarai mica una di quelle che se le cose non vanno come vuole lei allora
succede
l’apocalisse come Emma, vero?», dice Shannon, il
tono una via di mezzo tra un
lamento e una
supplica.
«Sono una
di quelle che ci tiene molto a che i piani vengano rispettati. Non mi
piacciono
le brutte sorprese».
Shannon
alza gli occhi al cielo. «Signore aiutaci tu».
Mi avvicino
e gli metto una mano sul braccio per richiamare la sua attenzione.
«Io non mi
metterei contro di lei in questi momenti. Se davvero
qualcosa andrà storto lei vi ucciderà. E no,
“ma io sono
Shannon Leto” non ti salverà questa volta, caro
mio», dico a bassa voce in modo
che Rain non possa sentirmi.
«Siamo
pronti», dice Tomo. «Quando la video chiamata
partirà noi dobbiamo parlare con
la vostra amica e farle tanti auguri. Tutto questo perché
non potrete essere
presenti alla sua festa. A questo punto, nelle indicazioni che ci hai
lasciato»,
e con un dito punta Rain, «c’era un NB molto grande
che diceva che questa Elisa
è follemente e nemmeno tanto segretamente innamorata di
Shannon».
«E quindi
tu, Shannon Leto, che cosa devi fare?»aQuan
,
chiede Francis.
«Devo,
punto uno, togliermi gli occhiali da sole, ma non subito,
perché è risaputo che
gli occhiali piacciono molto alle echelon perché mi rendono
più misterioso e
affascinante, e punto due farle dei calorosi auguri dispensandole
sorrisi e faccini
dolci ogni due per tre».
«Te
lo sei imparato a memoria?», domando.
«Questa
cosa che se i piani non vanno come devono andare Rain mi farà a
pezzettini non mi piace per niente,
per cui sì, mi sono imparato a memoria tutto».
Gli
do due pacchette sul braccio. «L’istinto di
sopravvivenza è proprio una bella
cosa».
«Jared?»,
chiede Rain.
Lui
alza la testa dal suo Black berry e ci guarda spaesato. «Non
era specificato
che cosa devo fare perché sono un attore e posso benissimo
improvvisare. Parole
tue, Rain».
«E
cosa improvviserai?», domanda lei smaniosa di sapere.
«Se
è un improvvisazione non è programmata. Non so
che cosa dirò alla vostra amica».
Sento
i denti della mia amica digrignare. «Va bene, Jared, ma per
favore, ti
supplico, non fare la diva mestruata».
«La
che?»
«Niente»,
dice Francis. «Siate solo voi stessi e Elisa avrà
il miglior regalo di
compleanno di sempre, okay?»
Rispondono
con un ‘kay biascicato tutti e tre. «Shannon, tu
starai vicino a me mentre farò
partire la videochiamata dato che sei il vecchietto infermo della
situazione»,
gli dico sedendomi accanto a lui nelle gradinate vicino alla pista da
pattinaggio.
La mia splendida idea è stata ricreare uno dei compleanni di
Jared, dato che
lui sembrava aver apprezzato molto, e sono quasi certa lo
farà anche Elisa.
Abbiamo quindi proposto ai ragazzi di trascorrere con noi la giornata
in un
pista da pattinaggio – non sul ghiaccio, nemmeno qui a Los
Angeles ricreano delle
piste ghiacciate interne nel pieno di agosto, immagino sarebbe troppo
costoso –
e con grande sorpresa hanno accettato dicendo “un
po’ di allenamento ci farebbe
proprio bene”. Shannon e il suo ginocchio si sono rifiutati
di indossare quegli
oggetti infernali conosciuti anche come pattini, e devo dire che
nemmeno io
smanio dalla voglia di imprigionare i miei piedi in quei cosi, per cui
sto
mantenendo un profilo basso sperando che le altre non si accorgano dei
miei
piani. Non sono mai stata una persona stabile nemmeno con addosso delle
Converse,
figuriamoci con delle rotelle sotto la pianta del piede. Rabbrividisco.
No,
pattinerò solo se portata di peso sulla pista. E con una
pistola puntata alla
testa. «You ready Shannimal?». Lui mi guarda storto
e poi annuisce alzando gli
occhi al cielo. «Voi», dico in tono più
alto in modo che mi possano sentire dal
centro della pista, «tutto okay?». Quattro pollici
si alzano in segno
affermativo e io premo il tasto verde sullo schermo per far partire la
chiamata.
Quando
vedo la faccia di Elisa comparire sullo schermo del telefono, mi apro
in un
grande sorriso. «Allora, vecchietta, rughe nuove? Sono
più o meno sicura tu ne
abbia, ma sai, con questa connessione non si vede tanto bene. Hai la
faccia a
quadratini».
«Oh,
ciao anche a te Deborah, e grazie per gli auguri! Simpatica come una
pigna nel
culo come al solito. Le altre?»
«Sono
uscite un po’ di tempo fa e non sono ancora
rientrate».
«Uh».
«Senti,
so che sei molto triste che non siamo lì con te,
ma…» il telefono mi viene
strappato via dalle mani.
«Hi Elisa,
I’m Shannon, how are you? Mi
hanno detto
che oggi è il tuo compleanno, per cui tanti
auguri». Allarme rosso: Shannon non
sta rispettando i piani. Lo guardo interrogativa e lui alza le spalle,
per poi
continuare a parlare allo schermo. «Deborah ci stava mettendo
troppo tempo. Immagino
che ti abbiamo detto quanto gli dispiaccia migliaia di volte, Shannon
che ti fa
gli auguri capita solo una volta nella vita».
«Oh
porca troia». Sono le esatte parole che passano attraverso i
fili telefonici di
tutto il mondo dopo alcuno secondi di totale mutismo da parte sua. La
faccia di
Elisa sembra improvvisamente di marmo. Ha avvicinato gli occhi allo
schermo del
telefono, presuppongo per accertarsi che quello che ha davanti sia
davvero Shannon
Leto. Al secondo
«cazzo» immagino si sia
convinta che lo sia.
«What?»,
chiede Shannon, un sorrisino sulle labbra: sono sempre stata convinta
che le
imprecazioni siano internazionali. Forse non sai tradurle nella tua
lingua, ma
sai che quella è una parolaccia, lo sai e basta.
«Nothing. Omg,
Shannon thank you!»
«Oh»,
si passa una mano fra i capelli di nuovo lunghi,
«you’re welcome. So you’re nineteen now».
«Nineteen and looking
for a man. Will you marry
me?».
Shannon
scoppia a ridere. «Maybe one day», e gli fa
l’occhiolino. Non posso vedere bene
l’espressione della mia amica, ma sembra quasi stia per
soffocare.
Mi
avvicino a Shannon per apparire nell’inquadratura.
«Va bene anche se non l’abbiamo
impachettato e spedito in valigia? È un rottame, si sarebbe
sicuramente
distrutto».
«Va
benissimo», ridacchia Elisa.
«Com’è
il respiro, infarti in corso o puoi resistere ancora? Perché
ci sarebbe un’altra
sorpresina, se non sei troppo su di giri a causa dello
scimmione…».
«Su
di giri io? Ma che dici. Io amo le sorprese. Dimmi l’altra
sorpresa».
«Okaaaaay».
Volto il telefono e Tomo, Jared, Rain e Francis cominciano a pattinare
verso me
e Shannon cantando Happy birthday a squarciagola. Sento Elisa battere
le mani e
ridere come una pazza dall’altro capo del telefono. Una volta
arrivati davanti
a me cominciano uno alla volta a salutarla e farle gli auguri ognuno a
modo
proprio.
«Grazie
grazie grazie, è il più bel regalo di sempre
ragazze», dice lei, la felicità
fatta persona. Parliamo con lei ancora qualche minuto ed è
come se lei fosse li
con noi, la sentiamo molto vicina e capiamo che la nostra sorpresa ha
davvero
funzionato. Quando termina la chiamata, con la promessa di vederci
appena
saremo tornate a casa, mentre appoggio il telefono sulla superficie
affianco a
me, sento qualcosa che mi picchietta la spalla. Alzo gli occhi ed
è Jared con
dei pattini in mano. Scuoto la testa. «Su quei cosi non ci
salgo nemmeno se mi
punti una pistola alla tempia e poi decidi che è una morte
troppo veloce e
cominci a torturarmi».
Sorride
e mi porge la mano. «Non sali su quei cosi nemmeno se io ti
tengo fino a che
non impari bene come si fa? Giuro che non ti faccio cadere, sono molto
bravo».
Nessun
trasporto di peso sulla pista e nessuna pistola alla tempia: faccio un
grosso
sospiro e allungo il braccio per acciuffare gli oggetti infernali e,
una volta
infilati, alzo lo sguardo incrociando quelli di Jared. «E
adesso?»
«E
adesso alzi il culo da quella panchina».
«Facile
come bere del caffè, mi dicono».
«Deborah».
«Sì,
sì, è il mio nome, quale sorpresa!».
Non so come, opto per qualche miracolo del
cielo, riesco ad alzarmi e a non cadere rovinosamente al primo passo.
«Non
fissarti i piedi, guarda me», dice lui, un sorriso di
incoraggiamento sulla
faccia. Scoppio a ridere fragorosamente. Forse non lo sa, ma la mia
stabilità,
se lui mi è vicino, è ancora più in
pericolo. Figuriamoci se devo guardarlo dritto
in volto. «Perché ridi?»
«Niente,
niente. Quindi, cammino?»
Si
posiziona davanti a me e mi porge entrambe le mani, che prontamente
stringo con
le mie. «Cammina. Al massimo mi curerò
personalmente di raccogliere i tuoi
brandelli dall’asfalto con un cucchiaio».
So
che sono in tremendo ritardo, e vi chiedo scusa, ma sono stata travolta
da un
turbinio di cose. In ogni caso dedico questo capitolo ad Elisa, la mia
nuova
sister, da cui ho preso ispirazione per parlare del nuovo personaggio.
Sono
davvero contenta di averti conosciuta e so, anche se tu non lo sai o
non ci
credi, che ce la farai con la tua musica. Ne sono sicura.
Una
ciambella di dunkin donuts (sono appena tornata da Berlino e il mio
organismo
ne è assuefatto, ma che ci volete fare, la mint donut
è troppo buona,
irresistibile), Deb.
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici. ***
«Io
mi fido di voi, ragazze, ma tutta questa situazione mi sta spaventando,
e non
poco», dice Tomo.
«Non
devo ricordarvi che sono ancora convalescente, giusto?»,
aggiunge Shannon.
Sbuffo.
«Ma volete tacere? Non vi stiamo portando al patibolo, se la
cosa vi può
rassicurare», dico calcando un pochino la mano sulla schiena
di Jared per
guidarlo mentre cammina. Non vorrei mai che, bendato
com’è, cadesse di faccia e
si rovinasse il suo bel nasino. Anche perché probabilmente
dovrei cambiare
identità, dato che i soldi per pagare gli avvocati non li
avrei. Rabbrividisco.
«È una cosa che vi piacerà»,
aggiungo.
L’idea
ce l’ha avuta Rain qualche giorno fa. Con l’aiuto
di Emma siamo riuscite ad
entrare in una delle stanze del The Hive inutilizzata (trovandoci al
suo
interno pile stipate di volantini, corde di chitarre abbandonate per
terra,
pantofole di colori improbabili, montagne di polvere e fogli con note
musicali
a me incomprensibili) e dopo averla sistemata e pulita da cima a fondo,
l’abbiamo addobbata a modo nostro. Abbiamo deciso che non
vogliamo che si dimentichino di noi.
«Ecco,
ci siamo quasi», dice Francis aprendo la porta con una mano e
spingendo Shannon
in avanti con l’altra.
«Vernice
fresca», borbotta Jared, «c’è
odore da vernice fresca qua dentro».
«Io
direi di pulito», ribatte Shannon.
«È
vernice fresca, fidati di me. Io ne so di queste cose».
«Disse
l’artista», borbotto fra me e me.
«Hai
detto qualcosa, Deb?», domanda Jared.
Tossicchio.
«Siete pronti?»
«Of
couuurse», rispondono insieme.
Togliamo
le bende alle nostre vittime e attendiamo in silenzio le loro reazioni.
In un
primo momento vedo la confusione dipingersi nei loro volti, poi la
curiosità
prevale, e tutti e tre si avvicinano ai muri della stanza. Non riesco a
non
farmi scappare un sorriso.
«Allora,
vi piace?», chiede Rain.
Tomo
si volta verso di noi. «Come avete fatto a racimolare tutte
queste cose?»
«Da
quant’è che stata a lavorando in segreto a questo
progetto?», ci domanda invece
Jared.
«È
fantastico. Davvero fantastico», è tutto quello
che dice Shannon.
«Quando
siamo partite per Los Angeles», comincia Francis,
«i nostri amici ci hanno
chiesto di consegnarvi tutte le lettere e i disegni che vedete
attaccate a
queste pareti, se per caso un giorno saremmo davvero riuscite ad
incontrarvi».
«Si
erano aperte scommesse al riguardo. Non serve precisare il fatto che
tutti
tranne due avevano scommesso non vi avremmo visto nemmeno con il
binocolo su un
giornale di gossip, vero?»
«Ma
sono tantissime», dice Jared.
«Abbiamo
molti amici echelon», acconsento.
I
tre si guardano per alcuni minuti intorno. Leggono, toccano disegni
fatti a
matita con le dita, sporcandosele, annusano, scrutano, percepiscono i
sogni,
l’amore, la speranza che tutti gli echelon che abbiamo
conosciuto ci hanno
affidato. Perché sì, noi siamo le loro portavoce,
ma ora essi sono qui con noi,
in questa stanza, e intorno a me vedo le facce di tutti i miei amici,
delle
persone con cui per mesi mi sono sentita per messaggio, magari dopo
aver
passato con loro ore in fila ad aspettare un concerto, al caldo, con i
raggi
del sole che ci battevano sulle teste e ci facevano cantare, anche se
eravamo
stonati, anche se magari le parole delle canzoni non le sapevamo
proprio tutte,
o bene, perché eravamo felici, di essere lì, di
poter affermare che sì, quella
era veramente una delle più belle giornate di tutto
l’anno e chissà, magari
anche di tutta una vita; posso sentire le loro voci, vedere i loro
sorrisi,
perché tre tra le persone più importanti della
loro vita ora sanno che
esistono, i loro tre eroi. Quelle tre persone che ogni giorni sono
lì, con la
loro musica, dentro alla loro testa, a ricordare loro che va bene
lottare per
un sogno, che è giusto provare e anche fallire, che va bene
cadere ogni tanto,
ma che bisogna poi rialzarsi, rimboccarsi le maniche, lavorare per
arrivare in
cima, e una volta arrivati, cercare un’altra vetta da
scalare, perché la vita
un secondo ti da tutto, e quello dopo è capace a togliertelo.
«E
questa bandiera? Non riesco bene a capire che cosa
c’è scritto», dice Tomo.
Mi
avvicino a lui. «C’è scritto
spritz».
«Cosa
sarebbe, se posso chiedertelo?»
«È
una bevanda tipica di una regione d’Italia, quella da cui
tutte noi tre
proveniamo. Diciamo che il sogno del nostro gruppo, della nostra
division-non-ufficiale, è quello di presentarci ad un vostro
meet and greet e
di farvi ubriacare».
«Cosa?»,
chiede Jared con un tono sconvolto.
«Sto
scherzando, capretta. Lo so che l’unica cosa che tu apprezzi
è l’erbetta fresca».
«Sempre
gentile, Deborah».
Sorrido.
«Lo so».
Shannon
si avvicina e ci guarda negli occhi una ad una. «Loro sanno
del mio ginocchio,
questi vostri amici?»
«Dovevamo
dirglielo», dice Francis guardandosi i piedi. Shannon
continua a fissarci, e
non riesco a capire che cosa voglia dirci con il suo sguardo.
«Però, aspetta,
non arrabbiarti, prima ascolta questo». Estrae il telefono
dalla tasca, pigia
lo schermo e poi lo da in mano a Shan. «Clicca play quando
sei pronto».
Un
ultimo sguardo, un sospiro e poi fa partire la registrazione. Quello
che esce è
un coro di voci che canta City of Angels. Riconosco la voce di Gloria,
Ilaria,
Ludovica. Sento Arianna sbagliare qualche parola, perché si
sa che a lei non
piace l’inglese, e l’altra Arianna, invece, me la
immagino cantare il quel
sorriso che mi fa sempre tenerezza. Sento Sara, Riccardo, Alessia,
Emma, Marta,
sento Camilla e Ludovico ridere, sento Linda e Melissa sussurrare le
parole,
perché dicono sempre che sono stonate. Sento quelle persone
che non vedo più da
qualche mese, sento la loro mancanza, ma soprattutto sento che tutta
quella
forza che stanno facendo uscire dalle loro corde vocali è
per Shannon, per il
loro batterista preferito, che ha bisogno di loro anche se forse non lo
sa.
Istintivamente
comincio a canticchiare anche io, a voce bassa, e guardo Shannon, che
ho la
fortuna di avere davanti a me. Con un ginocchio dolorante, questo
è vero, ma
sta bene, ed è pronto a continuare a vivere il suo sogno,
anche grazie a me,
anche grazie a tutti noi. Quello di cui non mi accorgo subito
è che i suoi
occhi sono diventati lucidi, come se fosse sul punto di piangere.
Prendo un
sospiro e alzo la voce, cantando più forte, e anche Francis
e Rain lo fanno.
Cantiamo per lui, perché lui ci ha salvato tante volte e ora
vogliamo salvarlo
noi. Quando la canzoni finisce mi ritrovo a trattenere il fiato per
alcuni
secondi.
«È
per me?», chiede lui.
Annuiamo.
«È per te. Siamo una famiglia, no?»,
dice Rain.
«Non
credo ci dimenticheremo facilmente di voi tre piccole
rompiscatole», risponde
lui, la voce che tradisce belle emozioni.
«Lo
credo anche io», concorda Tomo. «E poi siete le
uniche che comprendono il
nostro amore per le ciambelle, sono sicuro che Emma non ce le
porterà mai neanche se gliele chiediamo in
ginocchio».
Scoppio
a ridere. Non lo dico, ma anche io non mi dimenticherò
presto di loro. Anzi,
sono sicura che loro continueranno ad esserci nella mia vita per molto,
molto
tempo, perché senza di loro non sarei dove sono adesso,
probabilmente non sarei
nemmeno la stessa persona.
***
«Quindi ve
ne andate davvero», sussurra Tomo.
Siamo seduti
su delle sedie parecchio scomode all’interno
dell’immenso aeroporto di Los
Angeles, ad aspettare che negli schermi appaia il numero del terminal
del
nostro volo che ci riporterà in Italia. Gioco con un
elastico per capelli che
ho al polso, incapace di rispondere. Credo che chiunque vedendomi ora
potrebbe
scorgere la mia tristezza. Annuisco. «Già, pensavi
fosse uno scherzo?»
«Vi avrei
anche perdonato per avermi fatto svegliare alle sette di
mattina», aggiunge
lui, il tono lamentoso.
«Quale
sacrificio», ridacchia Rain.
Shannon
e Jared non hanno potuto accompagnarci in quanto dovevano essere
presenti ad un importante
meeting con la casa discografica, al quale Tomo poteva assentarsi non
essendo
un membro fondatore della band. Gli avevamo salutati – con
gli occhi
decisamente lucidi, per quanto mi riguarda – la sera
precedente, dopo avere
bevuto un vegan frappè a casa di Leto Junior. Vegan
frappè da lui preparato. Avevamo
scoperto con immenso stupore che almeno il frullatore lo sapeva
utilizzare nel
modo giusto. Fin che stava lontano dai fornelli, a quanto pare, andava
tutto
bene.
Mi
ritrovo a pensare a quanto io sia stata fortunata nell’ultimo
mese: ho
ascoltato Alibi a pochi passi dalle chitarre che emettevano quella
melodia che
da anni mi cullava a letto quando qualcosa nella mia vita non andava
come
speravo, ho detto a Jared, Shannon e Tomo un numero spropositato di
volte
grazie, una parola che per me ha un grande valore, un grazie che
racchiude
tutto quello che loro mi hanno fatto superare, anche solo attraverso i
fili
delle cuffiette, i fili del computer, i fili elettrici delle casse
che a pochi metri da me, quella prima volta che li avevo visti in
concerto, mi
avevano fatto ritrovare di nuovo me stessa.
Fili
invisibili che in questo momento sento uscirmi dal petto, dalle punta
delle
dita, dalle labbra, da qualsiasi parte del mio corpo e collegarsi alle
mie
amiche, che come me cercano di non pensare al loro futuro,
perché fa paura,
perché non lo conosciamo e vogliamo vivercelo ma abbiamo
paura di non riuscire
a farlo nel modo giusto; collegarsi a Tomo, che ci guarda come se
fossimo
anche noi uno di quei gatti randagi che trova per strada e porta a
casa, per
volergli bene, sfamargli, giocare con loro, farli vivere. E infine
sento che
questi fili invisibili che mi escono dalle membra si legano a tutto
ciò che mi
circonda: alla coppia di anziani davanti a me, che con gli occhiali
posati sul
naso, leggono lo stesso libro, aspettandosi a vicenda per girare le
pagine; a
quella bambina dentro il passeggino che sorride alla propria giovane
mamma ogni
qual volta lei abbassa la testa per ammirarla, mettendola di buon
umore; a quel
ragazzo con un cappello calato sulla fronte, che ora mi sembra
arrabbiato,
forse con il padre, la ragazza, l’insegnante di scienze o il
mondo intero, come
è normale quando si ha la sua età. Come
è normale anche quando si ha la mia
età.
«I’m
seventeen and looking for a fight…»,
sussurro.
«Cosa?»,
mi chiede Francis, seduta affianco a me.
Scuoto
la testa. «Niente», le dico, e invece vorrei dirle
che anche io, come quel
ragazzo che ora si morde le unghie delle mani, strappandole come se con
esse
anche la rabbia potesse andare via, che anche io, come quel giovane
Shannon
logorato dalla droga che si era rifugiato nell’aiuto del
fratello perché non voleva più
soffrire, che anche io, come Jared quando aveva diciassette anni, mi
sento
confusa, arrabbiata, stanca di un mondo che spesso non mi da quello che
voglio,
desidero, sogno, ma allo stesso tempo vorrei dirle che sono
così che contenta
di essere qui, in questo esatto momento, a guardare le persone partire
per mete
lontane, per una nuova vita, per una nuova vacanze, per creare delle
nuove
parti di se stessi.
«Deborah?»,
mi volto verso Tomo e gli sorrido per incoraggiarlo a continuare la
frase. «Chi
è l’assassino, alla fine del libro?»
Alzo
gli occhi al cielo. «Me l’hai chiesto mille volte,
Tomislav. Che è, stai
diventando sordo, forse?»
«Forse,
dato che non ho mai sentito arrivare la tua risposta».
Mi
stringo nelle spalle. «Non te lo dico».
«E
come faccio a scoprirlo?»
«Quando
lo leggerai, lo scoprirai».
«Ma
è in italiano!», sbotta lui, un sorriso che
però lo tradisce.
Ridacchio.
«Lo sappiamo tutti che tu e google traduttore siete grandi
amici».
«Ciao
miei compagni pasta sgranocchiando pazzo popolo italiano!»,
esclama Francis,
piegata in due dalle risate ricordando uno dei più celebri
tweet del
chitarrista.
«Fateci
mangiare pasta insieme!», continua Rain, sotto lo sguardo
altezzoso di Tomo.
«Volete
spiegarmi, per favore, per quale motivo mi state apertamente prendendo
in giro?»
«Chi
sta prendendo in giro chi?», dice una voce alle nostre spalle
che riconosco
immediatamente come quella di Shannon. Quando mi volto, infatti, lui e
Jared
sono in piedi a guardarci curiosi, i sorrisi nascosti dalle lunghe
barbe che
ormai, temo, si siano impossessate dei loro volti. Vedendo i nostri
sguardi
inquisitori, alza le spalle. «Abbiamo finito in tempo e
abbiamo pensato di fare
un salto sperando non vi foste già imbarcate».
«How
cute», esclamo. Quello che i sei occhi che mi fissano
straniti per la mia
uscita non sanno è che quell’affermazione pensavo
di averla solo pensata. «Intendo,
carino da parte vostra. Insomma, qua potrebbero riconoscervi tutti e
…»,
comincio a gesticolare e ad impapinarmi in preda al nervosismo.
«Abbiamo
capito», dice Jared e gli altri annuiscono. Alzo il pollice e
sfodero un
sorriso da “datemi una buca per sotterrarmi in questo mare di
cemento” e faccio
ridere tutti. «Chi prende in giro chi?», domanda
lui evidentemente togliendomi
dall’imbarazzo. «E per la cronaca»,
continua guardandomi dritta negli occhi, «a noi non interessa
quando, dove
e con chi ci vedono i paparazzi. È la nostra vita e non
possiamo viverla
barricati nel MarsLab, anche se è quello che principalmente
facciamo quando non
siamo in tour, quindi non preoccupatevi per noi».
Mi
sento gli occhi brillare di lacrime e abbasso la testa per non farmi
beccare. Questa
situazione è troppo per il mio cuoricino romantico. Ho come
l’impressione che
da un momento all’altro ci lascerò le penne, a
causa di tutte queste belle
emozioni, accipicchia.
«Mi
prendevano in giro riguardo ad un tweet che ho scritto, ma non ne
capisco il
motivo», riprende il filo Tomo, le braccia incrociate al
petto con fare
indignato.
«Hai
scritto una cosa veramente senza senso secondo la grammatica italiana,
che nel suo
complesso fa molto, e ripeto, molto ridere. Molto».
«Molto?»
«Moltissimo».
«Quindi
il mondo sa che uso google traduttore e non sono un
poliglotta», afferma.
«Già»,
diciamo in coro. «Ma anche Leto qui non scherza»,
aggiunge Rain.
«Io?»,
dice Shannon puntandosi un dito contro.
«No,
tu scrivi la stessa frase per ogni tappa del tour ormai.
Però sbagli i nomi
delle città, a volte, e anche quello è molto
divertente», ridacchia Rain. «In
ogni caso mi riferivo a Jared, che a suon di hastag bizzarri e xo ci fa
sbellicare ogni volta».
«Veramente
ha rotto le palle con quegli xo», borbotto io.
«E
con la Francia», aggiunge Francis.
«E
con le bionde», dice invece Rain.
«Avete
finito?», ci chiede Jared, che come Tomo e Shannon ora ha
assunto un’espressione
offesa, incrociando le braccia sul torace.
«Ci
sarebbero molte cose da dire ancora, ma sì, credo che
abbiamo finito qui. Per
il momento», sogghigna Francis.
«Ingrate»,
soffia Shannon ricevendo approvazione dagli altri due.
Mentre
noi tre ragazze ci sbellichiamo dalle risate per la reazione dei tre
“uomini”
che abbiamo davanti, che in realtà assomigliano di
più a gatti irritati,
sentiamo annunciare che il nostro volo è stato assegnato al
terminal numero 5,
e che i passeggeri sono gentilmente invitati a recarsi al check-in.
«Immagino
sia ora che voi ve ne andiate», dice Tomo.
«Finalmente!»,
esclama Shannon, con però un sorriso benevolo in faccia.
Mi
sarei aspettata tutto tranne che i tre che si avvicinano a noi e ci
abbracciano
come un sol uomo, scompigliandoci i vestiti e i capelli. Un
po’ come quando dei
vecchi amici che ormai vivono in luoghi diversi, si salutano affianco
ad un
treno che a breve partirà, non sapendo quando si rivedranno,
ma celando dentro
di essi un sentimento che difficilmente può essere
cancellato, nemmeno dalla
distanza.
«Okay
okay, basta o scoppio a piangere», dico tirando su col naso,
perché qualche
lacrima in realtà mi è già scesa.
«Giusto»,
dice Shannon, una voce roca. «Andate o ci tocca vedervi per
ancora chissà
quanti giorni, se perdete questo aereo».
«Sai
cosa Shan? Vaffanculo», dico, e gli mando una linguaccia
mentre raccolgo i miei
bagagli.
Lui
scoppia a ridere. «Sì, vaffanculo anche a te
Deborah».
E
lo so che questo è il loro modo per dirci addio, sperando
che sia un arrivederci,
che altro non è che un vediamoci presto, perché
sappiamo che a breve sentiremo
la vostra mancanza, voi che altro non siete che parte della nostra
enorme
famiglia chiamata Echelon.
Umh.
Ora parto con la raffica di scuse, okay?
Esami
di maturità che mi hanno tenuta incollata ai libri per un
mese, più o meno. Per
fortuna sono finiti e anche bene, un ostacolo in meno da superare.
Sul
più bello che gli esami sono finiti, mi si è
rotto di nuovo il computer. Qualcuno
ci ha lanciato un malocchio sopra, secondo me, perché questo
catorcio non
smette di avere problemi.
È
tornato e ho dovuto scrivere una cosa per il Campiello,
perché credo di non
averlo comunicato qui, ma sono *rullo di tamburi immaginario* una delle
cinque
finaliste del concorso Campiello Giovani. Sì, mi sento alla
grande. Sì, è tutto
fighissimo. Sì, sono emozionata. E sì, ho
un’ansia allucinante.
Ultima
ma non meno importante scusa è che la mia ispirazione era
andata a farsi un
viaggetto in qualche isola caraibica e non aveva più
intenzione di tornare a
casa.
Ma
ora eccomi qui con quello che è l’ultimo capitolo.
Quindi dobbiamo salutarci e
io non sono brav…
No,
non è vero, c’è ancora
l’epilogo. Ergo a presto (spero), e (spero) che qualcuno
leggerà questa schifezza e non verrà a sgozzarmi
nel sonno ritenendola una non schifezza.
Bacini
sul naso, Deborah.
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Capitolo 15 *** Epilogo ***
Un
anno dopo
«Sembra
morta».
«Sta
solo
dormendo».
«Guarda
quanto è
pallida».
«È
sempre bianca
come un lenzuolo, e di certo la luce di Londra non le fa migliorare il
colorito».
«Sembra
più un
cadavere che un lenzuolo».
«Normale
amministrazione».
Con non poca
sofferenza apro un occhio, rimanendo accecata dalla luce bianchiccia
che entra
dalle finestre, e noto che a pochi centimetri dal mio volto due occhi
scuri mi
stanno fissando. «Come puoi vedere, James, non sono morta.
Stavo dormendo,
prima che voi mi svegliaste», dico spettinando i capelli del
bambino che ancora
mi guarda interessato, la voce impastata dal sonno.
«Peccato».
«Come?»,
chiedo
alzandomi a sedere sul divano, con il cervello che si muove in maniera
burrascosa all’interno della mia scatola cranica. Forse non
ho più l’età per
leggere fino alle sei del mattino.
«Sarebbe
stato
bello vedere un morto», esclama.
Alzo gli
occhi al
cielo. «Sappi che in questa casa non guarderai mai
più la televisione, se ti fa
questi effetti».
«È
Rain la mia
babysitter, non tu», ribatte lui.
«Sì»,
confermo,
«ma questa è anche casa mia».
Sento James
farmi
il verso alle spalle, ma mi limito a camminare verso il bancone della
cucina
per prepararmi un caffè doppio. Decisamente devo smetterla
di divorare libri al
posto di dormire. Libri tristi, oltretutto. Che mi fanno piangere. E
gonfiare
gli occhi.
«Ti
sentivo
singhiozzare fino a camera mia», dice Rain appoggiata alla
cucina
sgranocchiando dei cracker. «Credo ti regalerò un
libro di barzellette per
Natale». Come non detto.
«Com’è
andato
l’esame? Hai letto il bigliettino che ti avevo
lasciato?», svio io l’argomento.
Lei annuisce
con
un sorriso, estraendo il post-it che le avevo appiccicato sul
frigorifero
quella mattina, prima di addormentarmi accoccolata al cuscino del
divano, il
trucco rovinosamente colato sulle guance e l’aspetto di una
donna in crisi di
mezza età. Non credo di avere nessuna colpa se non quella di
innamorarmi
follemente e rovinosamente dei protagonisti dei libri.
«Passato con il
massimo».
Di slancio
l’abbraccio, cogliendola di sorpresa. Non dispenso affetto
tanto facilmente se
non a libri, cuscini e al mio Ipod. «Sono fiera di te, avevi
studiato tanto».
L’atmosfera
viene
rovinata completamente dall’urlo di James.
«Deborah, il tuo telefono continua a
vibrare».
Ipotizzando
che
sia mia madre, corro verso il telefono che il bambino mi sta porgendo,
e
rispondo senza guardare lo schermo. «Pronto?»
«Mh…
are you sure is this the number, Tomo?». La voce
femminile che parla
dell’altra parte del telefono ha un forte accento americano,
e non riesco a
riconoscerla. Due cose, però, mi sono certe: non
è mia mamma, e la donna ha
detto Tomo. Allontano il cellulare dall’orecchio, ma
ciò che appare è un numero
che non è salvato in rubrica.
«Hello?
Who’s
there?», chiedo, gli occhi di Rain che mi guardano mentre
probabilmente assumo
strane espressioni facciali. Sento un grande trambusto, sembra perfino
che cada
qualcosa di molto vicino al microfono del telefono, e dopo alcune
imprecazioni,
cade il silenzio.
«Deborah?»
«Yes,
I’m Deborah. The point is who are you?»
«I’m
Tomo!»
«Quel
Tomo?»
«Quanti
Tomislav
Milicevic conosci?»
«Uno,
l’ultima volta
che ho controllato», ridacchio. «Hai cambiato
numero?»
«Ti
chiamo con il
telefono di Vicky, mia moglie».
«So
chi è Vicky».
«Giusto».
«Giusto».
Silenzio. «È successo qualcosa?», chiedo.
«Sì.
Cioè, no.
Voglio dire, niente di grave».
Mi
corruccio.
«Shannon e Jared stanno bene? Emma?»
«Stanno
tutti
bene. Fai avvicinare Rain al telefono».
«Chi
ti dice che
Rain sia con me?»
«Non
vivete in
simbiosi voi due?»
Alzo gli
occhi al
cielo e faccio avvicinare Rain che, da quel che sono riuscita a capire,
è
riuscita a convincere James ha mangiare uno yoghurt. Quando lei mi
affianca,
metto in vivavoce. «No, non viviamo in simbiosi. Ma sei
fortunato, è appena
rientrata».
«Hi
Milicevic»,
saluta lei, un sorriso sulle labbra. «Sputa il rospo, qua a
Londra la vita è
frenetica, abbiamo da fare. Almeno io». Rain mi lancia
un’occhiataccia.
«Deborah non fa altro che leggere, e leggere, e scrivere e
leggere».
Soffio.
«È il mio
lavoro». Di giorno studio per
l’università, e di notte leggo libri per la casa
editrice per cui lavoro. Nei momenti liberi, scrivo il mio di libro,
nella
speranza che un giorno qualche mio collega editor lo legga e decida di
pubblicarlo.
«Pensa,
ti pagano
per piangere. Io chiederei un aumento, se fossi in te». Le
do’ un pugnetto
indispettito sulla spalla, e lei ridacchia. «Comunque dicci
pure, Tomo».
«Siete
libere la
prossima settimana, ragazze in carriera?»
«Dipende»,
dice
Rain.
«Da
che cosa?»
«Per
che cosa
dovrei liberarmi?», continua lei.
«Sappiate
che
Francis ha detto sì», risponde lui. «Ed
era assai, assai contenta».
«Parla,
Tomislav»,
dico io.
«Beh,
c’è questa
cosa che vorremmo proporvi di fare… è stata
un’idea di Jared».
Rain mi
guarda.
«Ora inizio ufficialmente ad aver paura».
**
Sono seduta
sul divano rosso di
casa mia, talmente stretta che faccio fatica a respirare. Mi ficco un
altro pop-corn in bocca e annaspo. A fine giornata non ci
arrivo viva.
«La
vuoi smettere di agitarti?»,
chiede Rain, seduta al mio fianco, così vicina che il suo
gomito è premuto
contro le mie costole.
«Questo
divano è un po’ troppo
affollato, sai com’è».
«È
il tuo modo carino per
cacciarci?»
Mi volto
verso la voce e stringo
gli occhi. «Se alzi il tuo bellissimo sedere da quel cuscino
ti lancio dietro
l’enciclopedia in russo di Rain».
Shannon
ride. «Questa sì che è
una bella minaccia».
«Sto
ampliando il mio
repertorio».
«Noto».
«Felice
che qualcuno apprezzi il
mio lavoro».
Qualcuno
tossicchia irritato. «Se
non state zitti sarà il mio, di lavoro, a non essere
apprezzato. Ho passato le
notti in bianco davanti al computer per montare questo
video». Jared Maniaco
Del Controllo Leto.
Ingoio
qualche altro pop-corn
sperando vivamente di strozzarmi sul momento, così da non
dover soffrire un
secondo di più. «Tanto tu non dormi
mai», bofonchio.
Una mano
calda scivola nella mia.
Mi volto verso Francis e le sorrido. È sempre bionda, anche
se i capelli ora
sono più corti e più chiari. I lineamenti del
viso sono rimasti invariati,
anche se giorno per giorno assomiglia sempre di più a sua
madre. Rain, invece,
è sempre la stessa, eterna ragazzina. Se non fosse per lo
sguardo, non si
direbbe che sia passato un giorno, da quel martedì di due
anni fa, quando, con
l’ansia che rischiava di farmi esplodere il cuore, vagavamo
per l’aeroporto
alla ricerca del luogo dove fare il check-in, destinazione Los Angeles.
Ora ha
lo sguardo più maturo, e forse più sereno,
perché finalmente comincia a capire
chi è veramente e chi un giorno vorrebbe essere.
«Mancano
due minuti», dice Jared,
controllando il telefono. Poi si volta nella mia direzione, un grosso
sorriso
sulle labbra. «Due minuti, ci credi?»
«Cerca
di non metterti a fare il
countdown», dico mordicchiandomi le unghie della mano libera.
«Dovrebbe
essere un momento di
felicità per tutti», afferma Jared.
«Soprattutto per te».
«Sì,
ma lei è la signorina che di
nome fa Deborah e di cognome Ansia», ribatte Shannon.
«Tacete.
Quanto manca?», chiedo.
«Un
minuto», dice Jared.
«Trenta
secondi», continua Tomo.
«Ci
siamo», sussurro infine io,
l’eccitazione che non mi stare seduta ferma sul posto.
Una signora
al telefono, il naso
appoggiato ad un vetro, la mano destra che si scuote in segno di saluto
e un
sorriso sul volto che sa già di malinconia.
Rain e
Francis che parlottano fra
loro con in mano una cartina che non capiscono perché
rovescia.
Il cielo di
Los Angeles visto dal
tetto del motel che era stato casa nostra per qualche settimana. Poche
stelle,
molti sogni.
Joe, il
cameriere che ci ha
servito più bibite di quante sia pensabile servire e che ci
ha sopportato nel
suo locale per giorni interi, osservandoci silenziosamente per la
maggior parte
del tempo, che si copre la faccia con una tazza di caffè
vuota perché non vuole
essere ripreso.
Shannon e
Jared che si guardano,
mentre dalle loro chitarre escono le note che compongono The Story.
Tomo che
addenta una ciambella
alla vaniglia e si lecca i baffi nello stesso identico modo in cui lo
farebbe
uno dei suoi cani dopo aver mangiato dalla sua ciotola.
Francis che
corre a piedi nudi
sulla spiaggia intonando una canzone di cui non si capiscono le parole,
i
lunghi capelli che per l’aria non riescono a toccarle la
schiena.
Jared che
piroetta sui suoi
pattini a rotelle, per poi sbilanciarsi e cadere rovinosamente a terra.
Io che, la
testa a penzoloni, mi
sono addormentata sul libro di James Joyce che fin
dall’inizio ero stata
indecisa se infilare in valigia oppure no, ma che aveva finito per
diventare
uno dei miei libri preferiti.
E poi ancora
Shannon che si
emoziona sentendo cantare per lui attraverso una registrazione su un
telefono,
Shannon che mangia lo zucchero filato impiastricciandosi le mani, Jared
che
ride, perché non vedeva il proprio fratello stare
così bene da molto tempo.
Tomo che
accarezza Ramsey dietro
le orecchie.
Raccordo
sul nero.
«Abbiamo
preso un aereo per
realizzare il nostro sogno, quello di incontrare delle persone molto
importanti
per noi», dice la mia voce. La me sullo schermo non ha
più i capelli fucsia
delle riprese precedenti, essi sono infatti tornati castani. Me li
sfioro,
abbandonando le pop-corn che continuo a tenere in grembo.
«Poi
però, dopo una lunga notte
passata pressoché insonne su un divano, ci siamo rese conto
che incontrare loro
non era il sogno più grande, ma che loro, con la loro
musica, ci servivano
tutti i giorni per continuare a crederci», aggiunge Francis.
«È
stata un’avventura, siamo
state su Marte per un po’, e ci è sembrato che
tutto fosse bellissimo. Poi
siamo tornate alla vita normale, ma niente era più come
prima. Eravamo
concentrate, determinate. In quel momento abbiamo cominciato a credere.
A cosa?
In noi stesse, credo. Abbiamo cominciato a credere che, se lo avessimo
voluto
davvero, avremmo potuto fare tutto, anche quello che fino ad allora ci
era
sembrato impossibile», dice Rain, con un sorriso.
«Non
dico che ora non abbiamo
paura del futuro, di quello che potrà succedere domani, di
ciò che non possiamo
controllare. Non dico nemmeno che ora sappiamo esattamente chi siamo, o
chi vorremmo
essere per tutto il resto della nostra vita, perché starei
mentendo. Abbiamo vent’anni
e vogliamo vivere e realizzarci, forse è tutto
ciò che ora sappiamo, tutto ciò
in cui crediamo», concludo io.
Raccordo
sul nero, di nuovo.
«Don’t
ever ask for permission to follow your dream. Follow them no matter
fucking
what. We have one life here. Everybody has this one life. And you are
the author
of your story. You are much more responsible for your dreams coming
true, or
not, than anyone else you’ll ever come into contact with. So
dream big and work
hard. And make it happen no matter what», dice Jared
guardando dritto in
camera.
Tutto
diventa nero di nuovo, ed è
finito. Il nostro viaggio è finito.
«Allora?»,
chiede Jared, dopo
alcuni istanti in cui tutto è rimasto immobile nella stanza.
«Che cosa ne
dite?» Si volta verso di me, e io lo faccio verso di lui,
guardandolo dritto
negli occhi, sapendo che i miei sono lucidi.
Prendo un
respiro. «Dico che non
sono veramente in grado di fare delle riprese decenti. Tutte, e dico
tutte
quelle che ho fatto io sono mosse all’inverosimile. Come
diavolo hai fatto a
farle sembrare perfette, in quel video perfetto?».
Jared
sorride. «Le tue riprese
casuali sono state fondamentali, senza di quelle non saremo mai stati
in grado
di realizzare questo video dedicato a tutti gli echelon del mondo. Sia
santificata la tua videocamera, la ricorderemo tutti per sempre con
grande
affetto». Telecamera che sfortunatamente è caduta
dentro il Tamigi qualche mese
fa. Posso solo dire che ha avuto una vita breve ma intensa.
«È
bellissimo», dice Rain che al
momento sta stringendo la mia mano veramente tanto.
«Bellissimo. Siamo noi, e
siete voi. È il nostro viaggio, dall’inizio alla
fine. È tutto ciò che
significa far parte di questa grande famiglia chiamata
Echelon».
Annuisco.
«Well done, guys». Nel
momento in cui li guardo tutti e tre, i miei tre eroi, come aveva detto
quel
ragazzo nel video di Do or Die, sento una lacrima salata bagnarmi le
labbra e
scoppio a ridere. Il mio cervello mi comunica con un pensiero che mi
sto di
nuovo comportando in maniera strana. Ma ormai sa che succede ogni volta
che mi
sento bene, ogni volta che, anche solo ascoltando la musica di queste
tre
persone che ora ho la fortuna di avere accanto, volo su Marte. Come un
disco
rotto, ripeto quelle parole che troppe volte ho ripetuto loro:
«Grazie». Non
aggiungo altro, perché è una parola
così potente da racchiudere tutto l’amore,
il rispetto e l’ammirazione che ho nei loro confronti. Dei
sentimenti che so
non se ne andranno mai. Perché l’essere echelon
è una cosa che capisci o che
non capisci, non ci sono vie di mezzo, amore o odio. E io, noi, abbiamo
scelto
l’amore. Noi siamo gli echelon di tutto il mondo.
Eccoci qui,
alla fine.
Sto
sadicamente sperando siate
tutti scoppiati a piangere, muahahah. Vi ho fatto penare un
po’ con questi
aggiornamenti una volta ogni morte del papa, i know. Da quel che mi
avete fatto
capire, comunque, grazie alle recensioni e al numero di lettori
silenziosi, o
lettori che hanno messo la mia storia fra le ricordate/preferite/da
seguire, mi
perdonavate ogni volta.
Che altro
dire: grazie, anche a
voi, non solo ai Mars. Un ringraziamento speciale va a Francesca e a
Roberta,
ma anche a Veronica, che dice sempre che ho talento, Angelica e Chiara,
le mie
picciricci ed in fine ad Arianna, Gloria e tutte le altre mie spritzine
(non so
chi di voi legga la storia di preciso), siete sempre state di grande
aiuto.
Vi saluto,
ricordandovi che ho
altre due storie in corso riguardanti soprattutto Jared, ovvero Sleeping with ghosts e Drink
You Pretty, la new entry. Magari
un giorno diventerò uno scrittrice costante e vi
sparerò un capitolo a
settimana – come no, credeteci.
Concludo con
il dire che avevo
provato a tradurre il discorso di Jared, che scommetto conoscete tutte
quante,
dato che l’ha detto in una recente intervista, ma secondo me
perdeva quel non
so che che Jared riesce sempre a dare ai suoi discorsi neanche fosse un
prete
durante la predica (e dopo la stola usata durante gli ultimi concerti
comincio
ad avere qualche dubbio sulla sua vera natura…) e quindi ho
deciso di lasciarlo
in lingua originale.
Spero che vi
sia piaciuto il
finale, fatevi sentire, mi farebbe molto piace.
Un abbraccio
grande grande,
Deborah.
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