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Perché mi sono
stancata di aspettare, perché leggere troppo Dan Brown
e Ken Follet lascia il
segno, perché amo i Beatles e il nostro sociopatico iperattivo, perché Doyle mi ha ispirato notevolmente e perché amo Londra, che
ancora per un anno non visiterò.
Insomma, una post-Reichnbach di diciassette capitoli molto fantasiosa.
Ci sarà tutto e tutti, teoria di salvataggio Sherlock
compresa. Ed è un thriller, e tutto ciò che questo titolo comporta. *uomo
avvisato mezzo salvato*
È nata come storia
romantica di qualche capitolo, ma si sa cosa succede fantasticandoci sopra
troppo. Ergo, è un thriller-romantico(?). Ci sarà anche un po’ di Johnlock (una volta nel giro non si esce più), e anche
qualcosa John/Mary, ma il pairing principale è un
altro.
Avviso subito che
mi sono tuffata in un mondo (l’MI5) che conoscevo a
malapena, quindi è tutto molto romanzato.
Dimentico qualcosa?
Ah sì, la cosa più importante, forse. La storia si svolge attorno a un enigma
che il nuovo (bah, chissà) cattivo di turno propinerà a Sherlock. Spero di aver
costruito bene la storia e che qualcuno riesca a risolverlo anche prima della
spiegazione finale.
Detto questo non mi resta che augurarvi una
buona lettura.
A voi l’ardua sentenza,
Gage.
A Sofia, perché c’è,
A Giulia, perché ama Londra anche
più di quanto la ami io,
A Michela, perché senza di lei
probabilmente non avrei mai visto questa serie,
E a Bibi, perché…
perché sì.
BecauseI’monly a crack in thiscastleofglass Hardlyanythingleftforyoutosee Foryoutosee
(Castleof
Glass, Linkin Park) [1]
HACKER
Prologo
«Ciao, Molly...»
La ragazza, che stava
tranquillamente uscendo dopo un’altra giornata di duro lavoro, per poco non
sbatté la testa al muro per lo spavento. Si girò di scatto verso la voce e
inorridì. «Che cosa...? Io... Che
cosa ci fai tu qui?» balbettò.
«Ho bisogno del tuo
aiuto...»
Molly si passò una
mano sulla fronte pallida. «Del-del mio aiuto?»
«Sì... per Sherlock...»
A quel nome Molly
sembrò illuminarsi. «Sherlock... Dovrebbe volere il mio aiuto?»
«Per favore, Molly. È in
pericolo...»
La ragazza sembrava
essersi improvvisamente pietrificata.
«...di vita.»
***
Il buio opprimeva la
strada al di là del vetro appannato dal suo alito, ma
Sherlock non stava guardando fuori. Aveva gli occhi chiusi, e pensava. Pensava
a tutto quello che stava accadendo là fuori e a quello che poco prima aveva
capito. Moriarty voleva ucciderlo.
Si malediva per non
averci pensato subito, era talmente ovvio. Se solo avesse avuto quell’intuizione un po’ prima, magari avrebbe avuto molto
più tempo per organizzare tutto e molte più possibilità di rendere quel piano
sicuro, assicurandosi una vincita. Ma ora, la sua vita
stava giungendo a un termine troppo velocemente e il tempo scarseggiava. Se
solo un piccolissimo particolare del suo piano andava storto, poteva rimetterci
la vita. E lui non doveva morire. Il perché di quella convinzione non lo
sapeva, ma sapeva per certo che non avrebbe consegnato
la vittoria a Moriarty su un piatto d’argento.
Un altro pensiero che
continuava a ronzargli in testa era John. Cosa doveva
fare con lui? Tirarlo in mezzo o lasciarlo andare per la sua strada? Avrebbe
saputo mentire?
Avrebbe
potuto sparire per
mesi, anni… forse non sarebbe mai tornato. Fu proprio quel pensiero a fargli
capire cosa doveva fare. Non lo avrebbe tirato in
mezzo. John lo avrebbe ucciso se mai un giorno sarebbe
tornato, lo sapeva, ma quella era la scelta più saggia, più logica.
Respirò a fondo.
Mycroft avrebbe
assicurato la riuscita del suo piano, lui poteva farlo. Non avrebbe rifiutato
la sua richiesta di aiuto: Sherlock ne avrebbe volentieri fatto a meno di
Mycroft, ma non poteva negare che con il suo appoggio avrebbe avuto un asso
nella manica. Il fratello era l’unico che avesse modo di aiutarlo, in quel
momento. E, anche se odiava ammetterlo, lui aveva bisogno di aiuto in quel
momento. Avrebbe odiato il suo sorrisetto di “te lo avevo detto che prima o poi avresti avuto bisogno di me” che sarebbe
comparso sul volto del fratello. Ma non poteva farne a
meno, come non poteva fare a meno di Molly. Ma dopotutto era stata lei ad offrirgli il suo aiuto, no?
Un suono spezzò il
silenzio, ma non erano i passi che Sherlock stava aspettando. Era l’ultima cosa
che aspettava di sentire: il suo cellulare.
Con un gesto spazientito lo tirò
fuori dal cappotto, aspettandosi un messaggio di John, forse di Lestrade, al
peggio di Moriarty, ma quello che vide lo lasciò per un attimo perplesso.
(8:23 pm)
Hai
bisogno di aiuto? A
Qualcosa di indefinibile
gli strinse lo stomaco in una lieve morsa che il detective riuscì subito ad
allontanare, ormai abituatoci. Si costrinse a concentrarsi sulle parole del
messaggio, allontanando a forza i ricordi che minacciavano di prendere possesso
della sua mente. Lui aveva bisogno dell’aiuto di Mycroft, nessun altro.
(8:24 pm)
Io
penso di sì. A
Il cellulare suonò
nuovamente nella sua mano.
Strinse l’apparecchio
con forza, forse per non vedere il tremore alla mano, per illudersi che fosse
solo un brutto scherzo della sua mente.
Per una delle poche
volte in vita sua Sherlock non sapeva cosa fare. Il suo istinto gli diceva di
rispondere affermativamente, la logica di ignorare i
messaggi; qualcosa di indefinito gli diceva che era quello che aspettava da
quasi due anni.
E alla fine fu l’istinto a prevalere,
insieme alla logica che, alla fine, aveva formulato il pensiero che il suo
aiuto era utile.
(8:26
pm)
Ok
Per la seconda volta
in pochi minuti si sorprese, perché il suono che aveva appena sentito non
veniva dalla sua mano, non era un messaggio indirizzato a lui dopo la sua
risposta, no, quel suono veniva da dietro di lui.
Si girò lentamente per
poi posare gli occhi su ciò che già sapeva avrebbe
visto.
Lei era lì, accanto
alla porta chiusa: aveva ancora il cellulare in mano e aveva appena finito di vedere
la risposta alla sua domanda. Doveva essere scivolata all’interno della stanza
mentre era immerso nei suoi pensieri, e lui non l’aveva sentita.
Un lieve sorriso comparve sulle labbra
della donna, poi mise il cellulare nella tasca dei pantaloni. Alzò lo sguardo
su di lui e i suoi occhi castano scuro incontrarono
quelli azzurri e attenti di lui. «Qual è il tuo
piano, Sherlock?»
***
“One, Two, Three, Four
Can I have
a little more?
Five, Six, Seven, Eight, Nine, Ten
I loveyou.
A, B, C, D
Can I bringmy friend to tea?
E, F, G, H, I, J
I loveyou.
Sail the ship, Jumpthetree
Skip the rope,
Look at me
Alltogethernow....”[2]
Sherlock si chiuse la porta alle spalle, mentre udiva per la
prima volta in vita sua quella canzone.
«Oh... eccoci qui, finalmente!». Moriarty sedeva sul
cornicione, il cellulare in mano e la canzone a tutto volume. «Io e te Sherlock... e il nostro problema, il problema
finale...»
Alice si rigirava con trepidazione
il cellulare tra le mani, appoggiata tranquillamente alla portiera di un camion
rosso della lavanderia. Osservava alcuni uomini caricare su di esso sacchi di
coperte e lenzuoli sporchi provenienti direttamente dall’ospedale.
Era nervosa, non poteva
negarlo, ma anche estremamente eccitata.
Aveva pensato a tutto
per mesi e ora stava per iniziare la parte più divertente di
quel folle piano.
Sherlock si avvicinò lentamente.
«Alltogethernow! È così noiosa... no?»
Sherlock non rispose, limitandosi a guardarsi intorno.
«È qualcosa di piatto...» Come a enfatizzare le sue parole, Moriarty tese una mano in avanti.
Poi
se la passò sul viso.
Un nuovo messaggio.
(7:22
pm)
Il
cadavere è pronto.
«Per tutta la mia vita ho cercato delle distrazioni...» continuò Moriarty, «Tu eri quella migliore, e ora non
ho più neanche quella! Perché ti ho battuto...!»
Sherlock lo guardò vagamente stupito.
«E la sai una cosa? Alla fine è stato abbastanza semplice...
elementare... ora devo tornare a giocare con le persone comuni... e a quanto
pare anche tu sei come loro!»
Alice abbandonò il
camion e varcò l’ingresso del pronto soccorso, dirigendosi poi a passo
cadenzato lungo il marciapiede.
La gente camminava
tranquilla lungo la strada, per la maggior parte ignara di ciò che stava per
accadere.
Alzò per un attimo lo
sguardo al tetto. Vide distintamente la figura in controluce di un uomo seduto
sul parapetto. Strinse i pugni con forza.
Sherlock tamburellò con le dita sul dorso della mano.
«Bene... hai capito anche quello»
«I colpi sono cifre, ogni colpo è un uno, quando stai fermo è
uno zero, è un codice binario. Per
questo quegli assassini volevano salvarmi la vita. Era nascosto in me, nella
mia testa. Semplici stringhe di codice informatico che si introducono
in qualsiasi sistema».
«L’ho detto ai miei clienti, l’ultimo che arriva è una
femminuccia».
«Sì... è ora che l’ho capito posso usarlo per alterare i registri.
Posso uccidere Richard Brook e riportare in vita Jim
Moriarty!»
L’uomo lo osservò, forse in attesa di una continuazione.
Quando questa non venne scosse la testa sconsolato.
«No, no, no... è troppo semplice, troppo semplice!»
Sherlock sembrò non capire.
«Non c’è nessuna chiave... SEI UN IDIOTA!» urlò.
«Quelle cifre non hanno significato, nessun valore!»
Il cellulare suonò
nuovamente all’arrivo di un altro messaggio.
Alice scaricò velocemente le
immagini riconoscendo subito dopo il volto dell’uomo a bordo del taxi.
(7:30
am)
Non
ancora a Baker Street
diceva poi l’sms.
«Allora come hai fatto...»
«...ad entrare in banca nella torre
e in prigione? Un furto alla luce del sole!» Alzò la
voce, spazientito. «Bisogna trovare dei collaboratori!
Sapevo che avresti abboccato... È la tua debolezza. Vuoi che tutto sia
intelligente. Finiamo il gioco a questo punto, un ultimo atto finale. Hai
scelto un edificio alto, è un bel modo per farlo.»
«Farlo...?fare
che cosa...» poi capì. Si girò lentamente verso Moriarty. «Massì certo...
il mio suicidio.»
«Geniale detective si rivela essere un impostore, l’ho letto sul giornale,
quindi deve essere vero. Adoro i giornali. Così come le favole...»
Sherlock salì sul cornicione e guardò di sotto.
«...anche quelle più spaventose...»
Moriarty gli si avvicinò.
Due figure si sporsero
dal cornicione.
Alice attraversò la
strada portandosi al marciapiede opposto. A quel punto, tenendo d’occhio
contemporaneamente il tetto e l’ingresso del pronto soccorso, indietreggiò. Era
ancora presto e non c’erano molte macchine in giro, così attraversò
tranquillamente la strada. Si fermò pochi metri dopo, in un punto
dove riusciva a vedere il tetto del Barts, il
marciapiede sotto di esso, l’ingresso del pronto soccorso e la strada dietro la
palazzina bassa di fronte all’ospedale. Un luogo semplicemente perfetto.
«Posso ancora provare che hai creato un’identità̀ del
tutto falsa...»
«Oh, buttati e basta, faresti molta meno fatica.»
Sherlock si agitò sul posto.
«Su forza... fallo per me.»
Sherlock si gettò su di lui, lo afferrò e lo tese nel vuoto.
«Tu sei pazzo...»
«E lo hai capito solo adesso... oh! Ok... lascia che ti dia un piccolo
incentivo. I tuoi amici moriranno se non lo farai».
«John...»
«Non solo John... no... uno per uno!»
«La signora Hudson...»
«Tutti quanti...»
«Lestrade.»
«Tre proiettili, tre assassini, tre vittime, e non è
possibile fermarli ora.»
Ennesimo messaggio.
(7:34
am)
Appena
uscito da Baker Street.
Sherlock lo tirò su di scatto.
«A meno che non ti vedano saltare.
Puoi anche farmi arrestare, puoi anche torturarmi.
Puoi fare tutto ciò che vuoi con me. Ma niente li fermerà dal
premere il grilletto. I tuoi unici amici al mondo moriranno. A
meno che...»
«A meno che non mi tolga la vita,
per completare la tua storia.» concluse Sherlock per lui. Moriarty annuì.
«Bisogna dirlo... è molto sexy.»
«Morirò nella vergogna.»
«Beh certo, lo scopo è questo. Guarda... hai anche il pubblico!
Dai... salta giù! Coraggio...»
E Sherlock salì sul
cornicione.
Alice alzò una mano e
fece un gesto come per scacciare una mosca.
Doveva trattenersi
ancora un po’: il dottore stava arrivando.
La tua morte è l’unica cosa che fermerà gli
assassini... e io non ho intenzione di fermarli.»
«Puoi darmi... un momento per favore?» chiese Sherlock.
(7:44
am)
Siamo
pronti.
(7:44
am)
Al
mio secondo squillo.
«Fai solo lo sbruffone... sei così ordinario. Sei una persona ordinaria
dalla parte degli angeli.»
«Oh... sarò anche dalla parte degli angeli, ma non pensare
neanche per un secondo che io sia uno di loro, Moriarty.» sibilò Sherlock.
«No... non lo sei!» esclamò d’un
tratto Moriarty. «Ora capisco, non sei ordinario!
No... tu sei me...» ridacchiò, «sei me! Grazie...
Sherlock Holmes...» gli tese una mano, con il sorriso
che gli si allargava sul volto.
Sherlock la strinse, lentamente, con esitazione.
«Grazie...» continuò Moriarty,
«Grazie! Dio ti benedica...»
Rimasero entrambi immobili, ancora un po’ in silenzio. Poi l’espressione
di Moriarty si fece triste.
«Fin quando sarò in vita potrai
salvare i tuoi amici, hai una via d’uscita...» Annuì, sovrappensiero.
Poi sorrise. «Allora buona fortuna!»
Nell’aria risuonò uno
sparo.
Pochi attimi dopo
Sherlock era sul cornicione, e guardava di sotto.
Un taxi si fermò a
pochi passi da Alice. La donna fissò impassibile un uomo scendere dall’auto e
rispondere a una chiamata sul cellulare.
Guardò in su verso Sherlock e lo vide con una mano all’orecchio.
Perfetto.
John avanzò verso l’ospedale
ma si bloccò e tornò indietro nel punto in cui Sherlock gli aveva indicato.
«Sherlock!» lo sentì dire.
Alice incrociò le
braccia al petto, mentre un uomo con addosso un
cappotto le si avvicinava. Lei gli indicò con un cenno della testa il dottore e
l’altro annuì, camminando poi con aria distratta verso di lui.
Intanto John si era
accorto dell’amico sul tetto e lo guardava.
Alice fece il primo
squillo.
«Io ho fatto delle ricerche... prima di incontrarti ho scoperto tutto il
possibile per impressionarti. Era un trucco, un semplice trucco...»
Il camion si affacciò
dall’uscita del pronto soccorso, come per accertarsi di avere la via libera per uscire.
Alice lo tenne d’occhio,
per poi spostare lo sguardo sui due uomini, alternativamente, chiedendosi se il
dolore che vedeva sul volto di John fosse lo stesso che provava Sherlock. E
sentì un’odiosa fitta al petto.
«Addio John.»
«No... non...»
Sherlock buttò il
cellulare alla sua destra.
Il segnale.
Alice fece il secondo
squillo.
«SHERLOCK!»
Ma l’urlo di John servì a poco.
Sherlock si buttò, e
Alice osservò i fili del piano ricucirsi insieme come al rallentatore.
Il camion rosso della
lavanderia passò, e Sherlock ci cadde sopra perfettamente sincronizzato. Nel
frattempo John aveva cominciato a correre quando l’uomo col cappotto gli si
avvicinò e lo prese per le spalle. John cadde a terra, privo di sensi.
Dalla vicina porta del
Barts uscirono di corsa tre
uomini, trascinando un cadavere con le esatte sembianze di Sherlock. Lo
sdraiarono nel punto in cui avrebbe dovuto cadere e
gli versarono addosso del sangue, poi si dileguarono come erano arrivati.
Gli infermieri già
pronti accorsero, insieme alla folla, tutti uomini e donne organizzati precedentemente.
John si risvegliò e
ricominciò a correre verso Sherlock. Le persone cercarono di trattenerlo, ma
lui riuscì a chinarsi sul cadavere e a sentirgli il polso. Ovviamente era
fermo, e John si lasciò andare all’indietro, barcollando.
Alice portò il
cellulare all’orecchio con un lieve sorriso sul volto. «È tutto tuo,
Molly...»
La ragazza dall’altro
capo della cornetta era agitata e rispose con parole frettolose e sconclusionate.
«Grazie. Accertati che ci credano
tutti, soprattutto Mycroft. Poi fai la tua parte.»
«Sì, Alice, so cosa
devo fare.»
Alice sorrise, «Ne
sono certa...» e chiuse la comunicazione. Oltrepassò
la palazzina e camminò sul marciapiede verso il punto prefissato, quando il
cellulare squillò ancora una volta. L’ultima.
«Jim Moriarty è morto…
ora il gioco si fa avvincente.» commentò sarcasticamente la voce.
«È tutto a posto. Sherlock
è qui.» disse Alice, ignorando completamente la
frase dell’uomo. «Buona fortuna...» aggiunse con una
smorfia.
La comunicazione si
spense, ma non prima che Alice potesse avere modo di sentire una risata sommessa.
Con un sospiro affrettò
il passo e si avvicinò alla macchina che la aspettava poco lontano, alla quale
si appoggiava l’uomo dal cappotto blu scuro. Alla sua vista aprì lo sportello
ed entrò.
Alice andò al lato
sinistro del veicolo ed entrò al posto di guida. Mise in moto l’auto e passò un
piccolo fagotto a Sherlock, silenzioso al suo fianco. Questi lo prese con una
smorfia. Sembrava voler dire qualcosa, ma non lo fece. Al contrario, con uno
sbuffo, si mise il cappello da caccia in testa.
Alice sorrise
sommessamente e premette col piede sull’acceleratore.
Mentre partiva, però,
alzò ancora una volta lo sguardo al tetto del Barts.
Non poté non notare il punto nero su di esso.
Fece marcia indietro e si allontanò a
velocità calcolata, con la certezza che un paio di occhi castano chiaro la
stessero fissando dall’alto.
***
La chiamata arrivò all’improvviso.
«Sì... ho capito sì...» borbottò Mycroft Holmes al cellulare. Chiuse la
comunicazione e si lasciò cadere sulla poltrona.
Si passò una mano sul volto: aveva
sbagliato tutto.
Note:
[1] Perché sono l’unica
crepa in questo castello di vetro
Non c’è
quasi nient’altro che tu riesca a vedere
Che tu
riesca a vedere
Consideratela la colonna sonora del racconto.
[2] Uno, due, tre,
quattro
Posso averne un po’
di più?
Cinque, sei, sette,
otto, nove, dieci
Ti amo.
A, B, C, D,
Posso portare un
mio amico a prendere il the?
E, F, G, H, I, J
Ti amo.
Naviga con la nave,
salta sull’albero
Salta la corda
Guardami
Tutti insieme adesso...
Alltogethernow,
Beatles. (No, non èStayingalive *risata malefica*)
Dialogo tra Moriarty e
Sherlock e tra John e Sherlock preso dalla 2x03 – The ReichenbachFall.
Eccoci qui, secondo
capitolo. Qui arriva l’MI5, che già ho nominato
all’inizio del capitolo scorso. Ripeto che tutto ciò che so su di esso arriva
dal web, quindi non è molto. Man mano che andremo avanti cercherò di darvi
un’idea di ciò che penso io succeda, in modo da non lasciarvi dubbi. Ricordo
anche che questa è una fanfiction, quindi non è tutto
perfetto e va, come si suol dire, preso con le pinze.
(Soprattutto se si considera che l’autrice sono io xD).
Altra cosa prima di
lasciarvi al capitolo, la storia si alterna tra presente e passato. Ogni
capitolo presente sarà seguito da uno passato, fino
alla fine. Sebbene io abbia cercato di fare i capitoli tutti lunghi uguali, non
ci sono riuscita per scarsità di contenuti in alcuni, quindi vi annuncio già
che questo è uno dei più corti.
E ora vi saluto,
Gage.
HACKER
CAPITOLO I
Passato - Una nuova vita
Di una cosa si può essere certi: Mycroft
Holmes odiava i servizi segreti britannici. Sebbene fossero estremamente utili in molti casi, faticava a fidarsene:
“gente pagata per spiare” li definiva, e non aveva tutti i torti. Se poi si
considerava chi ne era a capo, Mycroft non poteva far altro che odiarli ancora
di più. Martin non era mai stata una buona
persona, e forse lui era uno dei pochi a saperlo, ma non poteva non ammettere
che era l’uomo perfetto per il suo ruolo: scaltro e attivo, pronto
all’evenienza, con un buon carisma e un’autodeterminazione da fare invidia alla
regina Elisabetta.
In piedi sul pavimento lucido dell’aeroporto di Stansted, Mycroft si morse
un labbro.
Con tutti gli impegni che aveva, ora ci mancava solo che dovesse fare anche
quello, e tutto per colpa di quella stupido impegno
che si era preso. Solo ora si rendeva veramente
conto del peso della sua scelta.
Sbuffava e pensava, Mycroft, mentre aspettava impazientemente l’aereo che
sarebbe atterrato di lì a qualche minuto.
Ne aveva conosciute parecchie di persone come quella che stava aspettando,
e doveva ammettere che nonostante le loro straordinarie capacità non gli piacevano affatto. Martin lo conosceva e doveva ben
sapere il suo pensiero al riguardo. Si ripromise di vendicarsi, un
giorno.
Sospirò, pensando all’enorme quantità di scartoffie che lo aspettavano
sulla sua scrivania, quando una voce annunciò l’atterraggio dell’aereo che
aspettava ormai da quasi dieci minuti, e non erano pochi.
Si passò da una mano all’altra il dossier della donna che stava aspettando.
Gli aveva dato un’occhiata quella mattina e lo aveva trovato ricco di commenti:
quella donna aveva dietro di sé una vita movimentata a quanto pareva.
Non era riportata la data di nascita, ma dagli eventi Mycroft stimava che
avesse una quarantina d’anni.
Conosceva il tipo di persona, e per quel motivo si stupì quando a venirgli incontro fu una giovane ragazza, di al massimo
trent’anni. Era magra, su questo non c’era dubbio, e sembrava avere una certa
agilità. Ma con il suo occhio allenato
Mycroft non percepì nella ragazza alcun segno di un qualsiasi tipo di allenamento.
Presentava però i tratti caratteristici del suo lavoro.
Gli si avvicinò con aria stanca. Il viaggio doveva essere stato lungo, ne
dedusse Mycroft. Purtroppo non gli era concesso sapere da dove venisse; che
poi, nessuno lo sapeva veramente. Quella ragazza era stata così abile da far
sparire tutte le sue tracce originali. Dopotutto, si ricordò Mycroft, non per
niente le avevano proposto un programma di protezione: si diceva che fosse una
delle migliori nel suo campo, e i servizi segreti non si erano fatti sfuggire
quell’occasione.
La ragazza gli si avvicinò e allungò una mano verso di lui. Mycroft la
strinse e le sorrise cortesemente. «Piacere di conoscerla signorina…» si bloccò
un momento e sbirciò sul foglio, «Alice Moffat.»
La ragazza fece una smorfia al metà tra
il divertito e l’annoiato. «Alice Moffat… beh,
sempre meglio di quello precedente…»
«Perché, qual era?» chiese di getto l’uomo.
Alice lo fissò, soppesando le sue parole. Poi si strinse nelle spalle.
«Dubito servirà a qualcosa se glielo dico… era Charlie Cumberbatch.»
ammise, poi diede in un risolino forzato. «Mi
piacerebbe tanto sapere chi sceglie i nomi… Cumberbatch?
Non vedevo l’ora di liberarmene.» ammise quasi
con sconforto.
Mycroft annuì, impassibile. «Il mio nome è Mycroft Holmes.»
Alice alzò un sopracciglio. «Mycroft?»
L’uomo storse il naso. «È una tradizione di famiglia avere nomi strani.»
ammise con riluttanza.
Alice ridacchiò. «Piacere di conoscerla, signor
Holmes.»
Mycroft guardò l’orologio. «Se non le dispiace, andrei un
tantino di fretta. Possiamo recuperare i bagagli e andarcene, per favore?» disse, senza nascondere una punta di disprezzo.
La ragazza lo guardò divertita. «Sarà felice di sapere che non porto
bagagli con me, questa borsa è il mio unico avere…» disse, indicando una borsa
relativamente piccola per contenere qualsiasi cosa al di
là di un portatile e qualche vestito, come si vedeva bene dalla
forma.
Mycroft annuì e partì verso il parcheggio dell’aeroporto. La ragazza lo
seguì silenziosamente e salì nell’elegante auto nera che li aspettava a pochi
passi dalla porta di uscita.
Mycroft si sedette nel sedile posteriore affianco al suo e diede un paio di
ordini veloci al conducente, poi, dopo un attimo di silenzio, aprì nuovamente
il dossier della ragazza e si preparò a parlare. «Dovrebbe già sapere ciò che
le aspetta, non è vero?»
«Trovarsi un posto nella società, costruirsi una vita nuova, arrangiarsi
per vivere ed essere reperibile ad ogni
minuto del giorno. Sì, direi di sì…» rispose
velocemente, snocciolando ogni parola come se la sapesse a memoria. Intanto
guardava fuori dal finestrino il paesaggio di Londra che scorreva velocemente,
quasi incantata, avrebbe detto Mycroft.
«Molto bene…» sospirò l’uomo. «Per quanto riguarda “l’arrangiarsi” le daremo il necessario finché non troverà un modo per
farlo da sola.»
Alice annuì. «Temo ci sarà bisogno di tempo
per questo. Lo stipendio per i miei servigi che mi è stato concesso è
relativamente poco e almeno nei primi tempi credo che dovrò spenderlo nella mia
attrezzatura.» osservò.
“I miei servigi”? Che faccia tosta pensò contrariato. «Credevo che le
attrezzature gliele fornissero…» si inasprì
Mycroft.
La ragazza sorrise sommessamente. «Quei
vecchi rottami che mi sono stati comunicati? Ma per
favore… si può fare di meglio con altri mezzi. Ho bisogno di attrezzature
specifiche che provvederò a procurarmi da
sola, grazie.» concluse, con acidità.
Fissò Mycroft con distanza e per un attimo l’uomo si ritrovò ad analizzare
gli occhi castano scuro della ragazza. Come
pochi nella sua famiglia se ne intendeva di donne, e non poté fare a meno di
pensare di non aver mai visto degli occhi così accesi e attenti. Davano ad
Alice una bellezza innaturale.
«Molto bene…» aggiunse Mycroft scocciato distogliendo lo sguardo.
«Di media, poi, quanto costerebbe un appartamento qui a Londra?» aggiunse
la ragazza con un sorrisetto di trionfo sul volto.
Mycroft sbuffò.
«Si sta scocciando signor Holmes? E pensare che l’avevo vista come un uomo paziente. Ma lo so, non se ne preoccupi. In molti trovano
seccante la mia presenza, e io stessa mi
diverto nel fare la seccante. Dovrebbe vedere la reaz…»
«Non tutti ne sarebbero seccati…» la interruppe Mycroft sovrappensiero.
Alice si bloccò. Evidentemente non si aspettava un commento del genere e
soprattutto non con quella voce tranquilla con cui le aveva rivolto la parola.
«Ma davvero?» bofonchiò sommessamente.
Mycroft si girò lentamente verso di lei, gioendo mentalmente dell’idea che
gli era appena passata per la mente. Stava riuscendo a risolvere due problemi
in uno.
«Un appartamento costa abbastanza per una persona sola a dire il vero…»
sorrise.
Alice lo guardò, senza capire.
«Mi sembra una signorina abbastanza intelligente. Direi
che è molto dedita al suo lavoro e interessata ai suoi studi di medicina. Direi
anche che è una ragazza appartata e che non ama la confusione, né di certo ama parlare al contrario di quello che vuole dimostrare.
Le piace mostrarsi incredibile e piena di risorse, che sicuramente non le
mancano, e non rinuncerebbe mai a sorprendere qualcuno con la sua furbizia. Mi
auguro che il suo viaggio in aereo vicino al corridoio non le abbia dato noia
data la sua preferenza per i posti al finestrino, e che il pranzo non le
rimanga sullo stomaco. Le bibite ghiacciate possono interferire con la
digestione, gliel’hanno mai detto?»
Alice rimase a bocca aperta. Appena se ne accorse la richiuse
e si corresse in un atteggiamento di disinteresse. Ma non
seppe resistere alla curiosità. «Come ha fatto?» chiese.
Holmes sorrise beffardo. «Si sorprenderà se le dico che ho
osservato e dedotto.»
Alice lo fissò con stizza. «Di medicina immagino abbia letto, ma il resto?»
Mycroft sospirò. «Per raggiungere risultati così elevati in informatica e
proseguire contemporaneamente studi di medicina è abbastanza evidente che lei
sia dedita e interessata al suo lavoro, anche divertita oserei
dire. Non ama parlare: lavora da sola, perché dovrebbe? È furba, anche questo
si può facilmente intuire dai suoi precedenti. Per quanto riguarda il suo
viaggio in aereo, invece, è evidente che il suo posto dava sul corridoio dal
fatto che sia stata una delle prime a scendere,
e il suo biglietto dice il resto. Data l’ora, direi che in aereo ha mangiato
(sui jeans ha poi qualche briciola di pane) e appena scesa ha buttato un
bicchiere di Coca Cola nel cestino, di quelli che solitamente danno con il
ghiaccio.»
Alice rimase delusa della spiegazione, si aspettava qualcosa di più, ma
rimase comunque colpita dalla capacità di osservazione dell’uomo.
Mycroft lo notò e sorrise vittorioso. «Riuscirebbe a sopportare qualcuno
che fa così in ogni istante della giornata?»
Alice alzò un sopracciglio. «Mi sta chiedendo di venire a vivere con lei,
Holmes?» chiese sarcastica.
Mycroft fece una smorfia di disgusto. «Effettivamente
con un Holmes sì, ma non con me. Ho un fratello di sette anni più
piccolo, e guarda caso cerca proprio qualcuno con cui condividere un
appartamento. Finora non ha accettato nessuna delle persone che gli si sono presentate, o per lo meno, penso che gli altri non l’abbiano
accettato. Non è un coinquilino dei migliori…»
Alice socchiuse gli occhi.
«E per quanto mi riguarda, signorina Moffat, sono pronto a versargli una buona somma di denaro
ogni settimana se mi porterà costantemente informazioni su di lui, o per lo
meno quelle che le chiederò. In questo modo potrà tranquillamente pagare le sue
attrezzature e qualsiasi altra cosa voglia.» Mycroft
si distese sul sedile, contento del suo lavoro.
Alice si morse il labbro inferiore. «Se è suo fratello… per quale motivo mi
sta chiedendo di spiarlo?»
Mycroft sorrise sommessamente. «È una storia lunga… ma non andiamo molto
d’accordo, tutto qui.»
«Eppure lei si preoccupa per lui…» osservò la ragazza.
«Diciamo che tende… a mettersi nei guai, ecco. Allora,
accetta?»
La macchina nel frattempo si era fermata.
Alice fissò le proprie mani, pensierosa.
«Dov’è il trucco?»
«Oh, nessun trucco! Sarà esattamente così come gliel’ho
proposto. Solo… dovrà farsi accettare da mio fratello. La prenda come una
scommessa…»
Alice storse il naso. Se la metteva su questi termini era
difficile non accettare: non gliel’avrebbe data vinta. Annuì. «E va bene, signor Holmes. Come si chiama, di grazia?»
Mycroft sorrise trionfante. «Sherlock
Holmes. Lo troverà benissimo di mattina all’ospedale Barts,
ultimo piano, intento in qualche suo lavoretto chimico. Tanto lei ci lavorerà,
no?»
Alice annuì. «Sherlock e Mycroft. E io che mi lamentavo…». Guardò l’uomo al suo fianco con
cipiglio critico. Sembrò voler dire qualcosa ma poi sbuffò ed
uscì dalla macchina senza aggiungere una parola.
«Ah, signorina Moffat… si ricordi che non
può proferir parola sul suo lavoro, ovviamente…» aggiunse Mycroft con aria
divertita.
Ma in risposta ebbe solo un grugnito
lontano.
Note:
Come in ogni storia con nuovi
personaggi, ho avuto bisogno di nuovi nomi. Poi mi
sono detta: con un intero cast di attori a disposizione, perché perdere tempo a
inventarseli? Ergo, vi ritroverete i loro nomi sparpagliati per il racconto. Di
volta in volta riporterò nelle note chi sono e cosa fanno.
- Moffat: Steven
Moffat, sceneggiatore
- Martin: Martin Freeman, John Watson
- Cumberbatch:
BenedictCumberbatch,
Sherlock Holmes.
Inoltre, la nostra protagonista, in
passato si chiamava Charlie Cumberbatch. Se il
cognome è quello dell’attore di Sherlock, il nome Charlie è un piccolo
contributo a Charlie Bradbury, personaggio della serie televisiva Supernatural. Posso comodamente rivelarvi che questa insana
idea è partita a grandi linee da lì. So,thankyou Charlie.
La segretaria si agitò
sul posto, poi si portò una mano alla bocca e abbassò il tono della voce. «È un
codice arancione, signore…» bisbigliò.
Mycroft alzò di colpo
lo sguardo dalle carte che stava esaminando. «Non è possibile…» Lanciò un’occhiata
alla scrivania completamente coperta di fogli. «Fallo entrare…»
Appena la segretaria
si voltò ammucchiò le carte come meglio poteva e si chinò per metterle nel
cassetto quando sentì dei passi avvicinarsi. Mentre tirava fuori la chiave e
chiudeva il cassetto parlò. «Come mai qui? Non ho mai
ricevuto visite…»
«C’è sempre una prima
volta…»
Mycroft si bloccò a
metà, ancora chino sul cassetto e la chiave nella toppa. Strinse i denti, poi si infilò con calma la chiave in tasca e si alzò,
rigidamente.
«Come sarebbe a dire
codice arancione?» borbottò.
La figura davanti a
lui sorrise lievemente, poi gli porse un biglietto che Mycroft osservò con
rabbia mascherata.
«Che cosa vuole
Freeman da me?» chiese lentamente, quasi a temere la risposta.
«Lui niente. Non sa che sono qui. Ma ho bisogno del tuo aiuto Mycroft…»
***
John aprì gli occhi.
Sdraiato sul letto osservò il soffitto bianco che lo sovrastava,
abituando poco alla volta gli occhi alla luce mattutina che entrava dalla
finestra. Spinto dall’abitudine voltò il capo alla sua
sinistra, per poi ricordarsi che non avrebbe visto nessuno disteso accanto a
sé. Tirò un sospiro e si stropicciò gli occhi.
Casa nuova, vita nuova, e anche una fidanzata nuova. La ragazza migliore che
poteva desiderare: carina, premurosa, e anche una buona cuoca.
Mary Morstan. Gli piaceva il suono che quel nome produceva sulle
sue labbra, meglio ancora il suono si trasformava in Mary
Watson.
L’aveva conosciuta un
paio di mesi prima, nel ristorante che erano soliti frequentare entrambi nella
pausa pranzo. Era trascorsa una buona settimana prima che John avesse modo di
accorgersi della sua presenza: sempre immerso nei suoi pensieri non faceva più
tanto caso al mondo intorno a lui. E tutto per colpa di… per colpa
sua. Era raro che aprisse bocca e i suoi pazienti lo giudicavano
un medico efficiente e tranquillo, quando invece la verità era che non aveva
niente di interessante da dire. Non più.
Mary era una donna
fantastica e John le si ci era praticamente attaccato.
Era il suo sostegno, l’unica che gli desse una ragione per andare avanti.
Sapeva che forse era un po’ affrettata come cosa ma aveva intenzione di
chiederle di sposarlo. Aveva già scelto l’anello, doveva solo trovare il
coraggio di comprarlo e chiederglielo.
Era proprio a questo
che pensava mentre fissava il soffitto, quella cupa mattina di
inizio autunno.
Erano trascorsi tre
mesi da quel giorno, giorno che gli aveva cambiato la
vita, per la seconda volta. La prima era stata tornando dall’Afghanistan,
quando lo aveva conosciuto. E poi quel giorno di tre mesi prima, quando lui
era… no, non doveva pensarci. L’analista continuava a ripetergli che doveva
accettare la cosa, che era l’unico modo per superare la situazione, ma lui si
era arrangiato così: non ci pensava e basta. Pensava alla sua nuova vita, all’ottimo
posto di lavoro che aveva, a Mary, e tutto andava bene. Non poteva non
ammettere che era stato fortunato.
Ma quella mattina non
avrebbe avuto niente a che fare con tutto ciò; quel
giorno era destinato a prendere una piega decisamente diversa.
John si accorse subito
di qualcosa che non andava quando sentì delle voci provenire dal salotto. Tese
l’orecchio, cercando di captare una qualsiasi parola ma durò poco. Così pensò
di essersele semplicemente immaginate. Non era la prima volta che accadeva: a volte si svegliava nel cuore della notte convinto di aver
sentito degli spari, poi si alzava e accendeva la luce del salotto, e si
accorgeva che era stato tutto frutto della sua immaginazione. Altre volte,
invece, si alzava con il cuore in gola, con la
sensazione di aver appena sentito un violino suonare. Ma
non era così, ovviamente.
Con uno sbuffò, John scalciò
le coperte e si alzò, si infilò la vestaglia e mezzo
assonnato uscì dalla camera, zoppicando. Entrò nel salotto e per poco non si
prese un colpo.
Fece un salto all’indietro
e sbatté la testa contro il muro, rimanendo per un attimo stordito. Poi aguzzò
la vista e spalancò gli occhi, incredulo.
Nella sua poltrona,
vicino al piccolo caminetto, era comodamente seduto niente di meno che Mycroft
Holmes.
Ci volle qualche
secondo perché John si riprendesse dalla sorpresa. Era da mesi che non lo
vedeva, non più da quel giorno.
«Buongiorno, John…» lo
salutò Holmes laconico.
John deglutì a fatica.
«Che diamine ci fai qui?» chiese, senza nascondere l’irritazione. «E come
diamine hai fatto ad entrare in casa mia? C’è un
sistema di allarme!» esclamò irritato.
Mycroft per tutta
risposta fece una smorfia contrariata. «Lo abbiamo raggirato,
John…»
John boccheggiò
sorpreso. «Rag-raggirato?
Noi?»
«Un allarme piuttosto vecchio sul
mercato, ormai superato. Si è mai chiesto perché vengano
aggiornati ogni tanto?»
La voce proveniva
dalla poltrona che gli dava le spalle. Una voce di donna.
Zoppicando sulla gamba
ancora malridotta le girò intorno, in modo da trovarsi in mezzo alle due
poltrone e da poter vedere meglio gli occupanti di entrambe. Per poco non
svenne.
«TU!» urlò,
sorprendendosi egli stesso per aver alzato così tanto
la voce.
Mycroft passò lo
sguardo dall’ex medico militare alla donna che gli stava di fronte. «Vi
conoscete?» chiese annoiato.
La donna sorrise.
«Conoscerci?» John
passò lo sguardo dall’aria divertita della donna a quella completamente
disinteressata di Mycroft. «Mi ha completamente imbottito di bombe!» esclamò,
esasperato dalla continua indifferenza dell’uomo.
Mycroft alzò un
sopracciglio e lanciò un’occhiata di sbieco alla donna.
«Uhm… sì, il nostro primo incontro non è stato
dei migliori, eh signor Watson?» La donna scattò in piedi e gli si avvicinò,
tendendo una mano. «Louise Brealey…»
Mycroft serrò gli
occhi. «O Alice Moffat… scegli quello che preferisci…»
commentò sarcasticamente.
La donna gli rivolse
un’occhiataccia.
John ignorò
completamente la mano e scattò. «Mi ha vestito di
bombe! In quella stramaledetta piscina! Mi ascolta o no Mycroft?» sbottò. «Mi ha riempito di bombe per ordine di Moriarty!»
Barcollò.
Alice fu rapida. Lo
afferrò e lo spinse sulla poltrona.
Mycroft osservò John
che, inorridito, lo guardava con aria stanca e gli occhi lucidi. Poi spostò lo
sguardo su Alice. «Oh sì… e quanti atri ne hai aiutati, Alice?»
John si passò una mano
sul viso, incredulo.
Alice si strinse nelle
spalle. «Era inevitabile…»
Mycroft sbadigliò.
«Cerchiamo di arrivare al punto… per favore.»
Alice si rivolse al
medico. «Mi scuso per quello che è successo, ma ormai
la considero una cosa passata. Piuttosto, siamo qui per un motivo preciso.
Ieri…»
John la guardò
strabuzzando gli occhi. «Tutto qui? Questo è tutto ciò
che è capace di dirmi? Mi ha quasi ucciso!»
Alice sbuffò,
spazientita. «È morto? Mi pare di no, quindi arriviamo
al punto se non le dispiace…»
John sospirò e si
lasciò andare sulla poltrona, chiudendo gli occhi.
«Sono passati tre mesi
dalla morte di Sherlock Holmes, come lei ben saprà…» cominciò la donna.
John immerse il viso
nelle mani. «È proprio inevitabile parlarne?» e anche se tentava di nasconderlo
Alice non poté non notare la nota di disperazione
nella sua voce.
«Temo proprio di sì,
signor Watson, mi dispiace…» commentò calorosamente. «Esattamente ieri, abbiamo
intercettato questa lettera indirizzata a lei…»
John alzò lo sguardo.
Aveva gli occhi ancora più lucidi di prima, notò Alice. L’argomento doveva
ancora causargli tristezza a quanto pareva.
«Intercettato? E come?»
«È da mesi che
controlliamo la sua posta, dottore…» ribatté la donna. «Era
inevitabile. Dovevamo essere sicuri che nessuno le desse più fastidio…»
«Fantastico…»
commentò.
Alice fece un respiro
profondo e si sfilò una busta dalla tasca interna della giacca. «Questa era
indirizzata a lei…» e gliela porse.
John allungò una mano
e la afferrò, lesse l’intestazione e impallidì. L’aprì
velocemente e dispiegò il foglio, scorrendo le parole con gli occhi. Quando
arrivò in fondo era bianco come un cencio. «Co-cosa significa?» balbettò.
Mycroft sospirò.
«Non lo sappiamo
neppure noi, Watson, mi creda…» si scusò Alice. «Non lo sappiamo, ma domani
potremmo… con la sua collaborazione.»
John si alzò, lasciando cadere la
lettera ai suoi piedi.
Ti aspetto
domani pomeriggio al National Gallery, John, alla 1 pm.
È importante, e ti chiedo di esserci.
Per favore.
Sherlock Holmes
«Non è possibile
vero?» La voce di John era flebile, quasi un sussurro.
Alice sospirò e
raccolse la lettera da terra, contemplando le lettere
scritte con interesse. «Per quanto mi riguarda, la grafia
è sicuramente la sua. Ma non deve essere difficile copiarla in qualche modo…»
«Sherlock…» deglutì a
fatica e chiuse gli occhi. «Sherlock è morto…» Una lacrime gli sfuggì e gli rigò il volto.
Alice lo guardò con
tristezza. «Escludendo l’impossibile, quel che rimane, seppur improbabile, deve essere la verità…» commentò sovrappensiero.
«Perle di saggezza…»
criticò con sdegno Mycroft.
Alice gli lanciò un’occhiata
colma di risentimento.
John invece non sembrava
prestare attenzione alla battaglia silenziosa in corso tra i due. «Deve essere
un impostore, senza dubbio.»
Alice annuì. «C’è solo un modo per scoprirlo. Domani lei si farà trovare
all’appuntamento. Io sarò lì ad aspettarla. Le coprirò le spalle…»
«Oh, puoi fidarti di lei, John!
Ovviamente…»
Alice non resse più. «Ora basta Mycroft. Mi hai stancata.
Che cosa vuoi? Che cosa hai in contrario? Sei libero
di esprimere la tua opinione!» sibilò.
«Ah sì?» Mycroft si
alzò, colmo di risentimento. «Vuoi la mia opinione?
Bene!» esclamò. «Tu hai
scritto quella lettera, tu hai inventato l’appuntamento! Tu ci vuoi portare in
quel posto mentre uno dei tuoi amichetti ci aspetta per avere qualcosa da noi!
Tu vuoi qualcosa e stai cercando un modo per prendertela! Non so cosa ti salti
in mente in quella testa che ti ritrovi ma…»
«Non ti fidi di me?»
ribatté Alice stizzita.
«No che non mi fido di
te!» sbottò Mycroft. «Non mi fido di te! Non mi sono
mai fidato! Conosco i tipi come te, gli ho sempre conosciuti!
È colpa tua, solo colpa tua…»
«Colpa mia? E per cosa di grazia?»
«PER TUTTO!» Mycroft
fissava la donna con odio.
John non aveva mai
visto l’uomo in quelle condizioni. Era rosso in viso e agitava il fedele
ombrello con energia. «Ti sei mai chiesta come si
fosse sentito Sherlock quando te ne sei andata? Hai mai considerato i… suoi
sentimenti?»
Alice si bloccò,
terrea in viso.
«Hai mai pensato a lui? EH? Hai idea
delle condizioni in cui l’hai lasciato?»
«Mycroft…» cercò di
fermarlo, ma invano.
«Sei sparita nel nulla! Senza
avvisare! Sherlock si fidava di te, Sherlock era… era…»
si fermò, ansimando.
«…era che cosa, Mycroft?»
chiese Alice in tono di sfida. Poi scoppiò in una risata forzata. «Lo pensi
davvero?» Scosse la testa con energia, poi sembrò illuminarsi. «Ho capito…»
sussurrò.
Mycroft la fissava,
ancora ansimante e vagamente pentito di avere perso la calma in quel modo.
«Ho capito…» continuò
Alice. «Tu hai tradito tuo fratello. Hai raccontato a
Moriarty l’intera storia e ora ti sei pentito di averlo fatto… cerchi di
spostare le tue colpe su di me!» Rise, una risata
amara e priva di gioia. «Sei un mostro Mycroft, uno
schiavo nelle mani d’altri, oppresso dal potere e dai soldi. Mi fai schifo…» concluse con un’acidità e una cattiveria che John rimase
allibito.
Mycroft si lasciò
cadere sulla poltrona e immerse il viso tra le mani. John non indagò oltre ma
vide distintamente l’ombra di un singhiozzo inarcargli la schiena.
Alice sembrò non
badarci., era notevolmente scossa. «Bene
Watson. Scelga quello che crede meglio. Io domani sarò là. Buon proseguimento
di giornata…»
Detto questo uscì, lasciandosi dietro il
silenzio.
***
Con
un sospiro l’uomo spinse la porta. Una ventata d’aria fresca lo investì mentre
muoveva qualche passo in avanti sulla terrazza. Si fermò poco dopo e rimase a
osservare il paesaggio che si vedeva da quell’altezza. Case su case si estendevano all’infinito oltre l’orizzonte in tutte
le direzioni. Qua e là spuntava il campanile di qualche chiesa o una gru di
qualche casa in costruzione. Dal punto in cui l’uomo si trovava
arrivava attutito il rumore del traffico di Londra.
Era
questa l’ultima cosa che aveva visto e sentito?
Chiuse
gli occhi e sospirò ancora, respirando l’aria fredda del mattino. L’ultima cosa
che voleva fare era piangere.
Con
una certa esitazione si avvicinò al parapetto e vi si sedette. Per una volta le
vertigini non lo spaventarono: aveva ben altro a cui
pensare. Guardò dall’alto il punto in cui Sherlock doveva essere atterrato.
Sherlock
Holmes, il grande detective, morto.
Per
quanto in vita sua lo avesse molte volte odiato non
avrebbe mai pensato che la sua vita sarebbe finita così presto. E non a quel
modo.
Deglutì.
Di certo non avrebbe neanche pensato che potesse mancargli. Era stato un suo
amico, dopotutto.
Lestrade
prese il proprio distintivo dalla tasca e se lo rigirò tra le mani. Detective
Ispettore... Quanto si meritava veramente quel titolo?
Aveva sempre chiesto aiuto a Sherlock, senza di lui non avrebbe risolto neanche
la metà dei casi.
Fece
vagare lo sguardo lungo il cornicione. Quel giorno non era andato al cimitero,
John non aveva voluto farsi accompagnare.
Erano
passati tre mesi dalla sua morte e John non riusciva ancora ad accettarlo.
Lestrade si era sentito in dovere di stargli vicino e più di una volta lo aveva
invitato a bere una birra, molte altre volte se l’era
ritrovato davanti alla porta dell’ufficio supplichevole di dare una mano
in qualche caso. E Lestrade aveva acconsentito.
Tre
mesi dalla morte del “falso” genio. L’ispettore non aveva creduto a una sola
parola di tutto quello che i giornali dicevano. Tra una birra e l’altra John gli aveva riferito le ultime parole di
Sherlock, ma neanche con quelle Lestrade aveva creduto a quella stupida storia.
Sherlock era un genio, lo era sempre stato, e l’ispettore si era presto pentito
di quello stupido dubbio che si era insinuato tra le sue idee tempo prima. Ora
era sicuro dell’innocenza di Sherlock, anche se non sapeva effettivamente come
giustificare tutto ciò che era successo.
Guardò
il punto dove era stato rinvenuto il corpo di
Moriarty. Lo aveva visto di persona: un vero schifo. Si era sparato un colpo
alla testa. Lo avevano trovato immerso in una pozza di sangue, il cranio
fracassato e il volto deformato dall’esplosione. Gli veniva da rimettere al
solo pensarci. In molti avevano supposto che fosse stato in realtà Sherlock a
sparargli, ma in qualche modo Lestrade sapeva che non era andata così.
Sospirò
per l’ennesima volta mentre si alzava e cominciava a passeggiare su e giù,
mille pensieri e ricordi ad affollargli la testa.
Fu un
caso.
Il
sole fece capolino da dietro un edificio e un raggio di luce colpì qualcosa ai
suoi piedi, il quale lo riflesse e accecò l’ispettore
per qualche istante.
Quando
Lestrade ebbe recuperato la vista si chinò e raccolse
da terra un pezzetto di plastica trasparente. Se lo rigirò tra le dita, poi si
guardò attentamente intorno per cercare di capire da dove provenisse.
Poco
lontano il muro del parapetto era interrotto da un buco di scolo. Con il cuore
in gola Lestrade si avvicinò e vi guardò dentro.
Per
un attimo gli mancò il fiato.
Allungò
una mano e afferrò il cellulare, nascosto all’interno dell’apertura.
Se lo
rigirò tra le mani tremanti. Non era in buono stato: lo schermo era crepato ed
evidentemente il pezzo di plastica che aveva trovato doveva provenire da lì.
Provò ad accenderlo ma l’apparecchio non diede alcun segno di vita.
Si
alzò, tenendolo stretto in mano come una reliquia, e decise che lo avrebbe
portato a Scotland Yard. Era sicuro che qualcosa sarebbero
riusciti a ricavarlo.
Note:
- Martin Freeman, John Watson
- Louise Brealey,
Molly Hooper
Passatemi il fatto che nessuno si è accorto del cellulare di Sherlock. In fondo…
era nascosto nel buco di scolo, no? (incastrato
ovviamente. L’acqua non è riuscito a portarselo via…)
Ci tenevo a ringraziare le persone che hanno messo
questa storia tra le preferite/seguite/ricordate. :D
Mi piacerebbe però ricevere anche qualche parere
tramite recensione. State pur tranquilli che non vi mangio xD
E ora vi lascio al nuovo capitolo-passato… enjoy!
HACKER
CAPITOLO III
Passato – 77 Montague Street
Pasta o ravioli? Era lì da tre giorni e aveva sempre preso
la pasta. Decise che per questa volta avrebbe preferito i ravioli.
Alice afferrò il
piatto e spostò il vassoio verso i secondi. Ora la scelta si spostava tra
patate e pesce, o tra patate e carne.
«La carne la fanno buona qui…» mormorò una voce alle sue spalle.
Alice si girò. Davanti
a lei stava una ragazza all’incirca della sua età, ma un po’ più bassa. Aveva
lunghi capelli castani raccolti in una coda e indossava un camice bianco da
laboratorio. Sorrideva, timida, e si mordeva il labbro nervosamente.
«Oh beh… grazie»
sorrise in risposta Alice e afferrò il piatto.
Si avviò per la sala e
si sedette ad un tavolo a caso. La ragazza la seguì e
si sedette con il proprio vassoio di fronte a lei. «Piacere, Molly Hooper.» disse allungando una mano.
Alice la strinse.
«Alice Moffat, il piacere è mio.»
Sorrisero entrambe,
poi Alice si mise in bocca il primo boccone. «Lavori
al laboratorio di chimica?» chiese, cercando di
iniziare una conversazione.
«Ehm… sì. Si capisce dal camice, vero?» sorrise Molly con discrezione.
Alice rise e annuì. «Beh, sì. Io sono specializzanda infermiera. All’ultimo
anno, pare…»
«Ti sei trasferita da
poco?» chiese Molly.
Alice annuì. «Sì. Ho appena lasciato l’America. Per una serie di motivi
ho preferito traslocare qui in Inghilterra. È stato quasi un trauma… è dura
lasciare la propria terra di origine.» sospirò
sconsolata.
Molly annuì
seriamente. «Lo posso immaginare… ma vedrai che ti troverai bene qui.»
«Sì, lo penso
anch’io.» Alice cambiò espressione e tornò a sorridere.
Il pranzo proseguì tra
chiacchiere varie. In poco tempo Molly le raccontò quasi tutta la sua vita e
Alice fu contenta di poter conoscere qualcuno e di poter
finalmente distogliere i propri pensieri da tutto ciò che stava al di fuori
dell’ospedale.
Alice non si sbilanciò
molto sul suo passato. Raccontò solo qualche aneddoto della sua vita, inventata
giorni prima sull’aereo che l’aveva portata a Londra, e concordata con i suoi
superiori, tra i quali il poco paziente Holmes. Di vero qualcosa c’era però. Qualche anno prima aveva preso la laura in medicina,
per esempio, ed era vissuta veramente in America, anche se per un breve
periodo. Doveva essere stata la sua quarta o quinta vita, non era difficile
confondersi. Aveva preso l’abitudine di dimenticare tutta la sua vita ogni
volta che ne cambiava una, conservando naturalmente le informazioni più importanti
in un angolo della sua mente, pronte ad essere scovate
quando ne avrebbe avuto bisogno. Infatti, nonostante fosse una persona molto
razionale, a volte le piaceva estraniarsi dal mondo e cominciare a fantasticare
su qualcosa di diverso, qualcosa che nella sua vita non sarebbe mai potuto accadere.
Fu verso la fine del
pasto che la porta si spalancò e lasciò entrare un ragazzo alto, dai folti
riccioli castani, con addosso un lungo cappotto blu scuro.
Alice non lo avrebbe degnato della minima attenzione se non fosse stato per il
rapido sguardo che il ragazzo diede alla stanza, prima di dirigersi verso un
tizio con la barba poco distante da loro. La cosa che la colpì particolarmente
furono i suoi occhi: azzurro chiaro, freddi, come il
ghiaccio. Esattamente come quelli di Mycroft Holmes.
Molly dovette
accorgersi della sua improvvisa disattenzione al discorso, perché si bloccò e
guardò Alice con un sorriso divertito. «Anche tu lo hai notato, allora…»
Alice distolse lo
sguardo dal nuovo arrivato e tornò a guardare Molly. «Che cosa?» chiese
lentamente.
Molly arrossì
lievemente, poi si strinse nelle spalle. «Lui non
lavora qui, lavora con la polizia. Ma è in buoni
rapporti con il signor Brown, il capo del mio
reparto…» sorrise con una nota di tristezza.
Alice lanciò un’occhiata
al ragazzo, chino verso Brown. «Il suo nome è forse
Sherlock Holmes?» chiese con aria distratta, facendo finta di non essere troppo
interessata all’argomento.
Molly rimase un attimo stupita. «Lo conosci?»
«Ne ho sentito
parlare…» ribatté, rimanendo sul vago.
Molly annuì.
Alice le sorrise. «Ti
piace?» chiese noncurante.
Molly arrossì
violentemente e per poco non le andò di traverso un boccone. «Io… no, ma certo
che no… non lo conosco neanche!»
Alice sorrise e annuì
lentamente, mentre il giovane Holmes usciva dalla sala. Poi abbassò lo sguardo
verso il suo piatto. «Non vorrei metterti una spina nel fianco…» continuò
Alice.
Molly sembrò vagamente
sorpresa. «In che senso?» domandò leggermente preoccupata.
«Ho sentito che cerca
un coinquilino…» Alice tornò a guardarla e vide che stava leggermente
impallidendo.
«Ah…» fece in risposta. «Oh… ehm…» sembrava voler sorridere ma non ci
riusciva. «Non credo sarà facile… ha rifiutato praticamente
tutti…» aggiunse con sorriso debole.
Alice sogghignò. «Già,
me l’hanno detto…» Poi, dopo un attimo di silenzio, aggiunse «Ma
credo di sapere come convincerlo. Ho davvero bisogno di un coinquilino: non ho
abbastanza soldi per pagarmi un appartamento da sola e
quelli che ho messo da parte stanno rapidamente finendo…»
Vedendo la faccia
avvilita di Molly, Alice si affrettò a concludere il
discorso. «Non mi interessa lui, stai pure tranquilla.
Anzi, se potrò in qualche modo aiutarti a farti notare da lui lo farò.» Le sorrise, cercando di dipingersi in faccia
un’espressione abbastanza convincente. Di Sherlock Holmes le interessava
veramente poco, considerato il fratello poi, pensava di sapere con chi si
sarebbe trovata a che fare. Se avesse potuto avrebbe
anche evitato di avere un coinquilino, ma i soldi che Mycroft le aveva proposto
non erano pochi, e soprattutto non riusciva a dimenticare la sua espressione di
sfida quando le aveva fatto la proposta.
Molly arrossì
nuovamente e bofonchiò qualche altra parola sommessa sul fatto che non era vero
che le piacesse.
«Quindi
niente rancori?» chiese Alice, e Molly fu costretta ad annuire, seppur con
un’espressione tutt’altro che felice sul volto.
Alice sorrise
nuovamente e poi, con la scusa che cominciava a farsi tardi, la salutò e uscì
dalla mensa dopo aver svuotato il vassoio.
Percorse
i corridoi dell’ospedale, seguendo le indicazioni per il laboratorio di chimica. Era lì da poco e ancora non aveva
un’idea ben precisa della pianta del palazzo.
Alla fine dopo un paio
di sbagli riuscì a raggiungere finalmente il luogo che cercava. Prese un
respiro profondo ed entrò nella stanza.
Il laboratorio era esattamente
come se lo immaginava: era una stanza relativamente piccola e quasi tutta
occupata da un lungo tavolo dove erano appoggiate le
cose più varie, tra boccette e microscopi.
Il ragazzo di poco
prima era chino sul microscopio, intento ad analizzare chissà cosa, e non degnò
neanche di uno sguardo la nuova arrivata.
Alice rimase un attimo
in silenzio, guardandosi intorno e aspettando che il ragazzo desse il minimo
cenno di averla vista, ma invano. Così si azzardò a cominciare. «Ehm… lei è il
signor Holmes?» chiese con una punta di insicurezza
nella voce.
Il ragazzo alzò
finalmente lo sguardo dal microscopio e la guardò. La squadrò da capo a piedi e
poi tornò al suo lavoro. «Sì?» mugugnò.
Alice si morse un
labbro. «Oh, beh… mi è stato detto che cerca un
coinquilino per pagare l’affitto di un appartamento. Anch’io ne
o bisogno quindi pensavo di…»
«Infermiera.»
Alice si bloccò. «Come
scusi?»
Sherlock si alzò e le si avvicinò squadrandola. «Infermiera.
Timida e insicura. Arrivata in Inghilterra da poco, probabilmente
dall’occidente. È molto dedita al suo lavoro, al suo ultimo anno di
specializzazione. Non ha conoscenze in Inghilterra, né parenti. Adora usare il
computer? Portatile immagino…»
Alice atteggiò il
volto in un’espressione di stupita curiosità. Stava per dire qualcosa quando il
ragazzo continuò.
«La scorsa notte non ha dormito e
stamattina ha fatto una veloce colazione al bar. Il pranzo l’ha mandato giù
lentamente, magari parlando con un’amica. Ora è stanca e vorrebbe andarsene da
questo posto ma la aspetta un turno pomeridiano e prima di iniziarlo vorrebbe concludere questa faccenda e avere un coinquilino prima di
questa sera, probabilmente perché siamo alla fine della settimana è ha ancora
ben poche possibilità di trovarne uno prima di iniziare a pagare l’affitto
dell’appartamento ora in suo possesso per la settimana prossima.»
Alice rimase qualche
secondo in silenzio, il tempo giusto perché il ragazzo credesse di averla
stupita.
Poi cambiò espressione
e sorrise. «Complimenti, ottime osservazioni. Tutte
esatte per la verità… come fa…?»
«Scienza della
deduzione…» Sherlock guardò l’orologio al polso. «Penso
che lei sia in ritardo… e la mia risposta è no. Penso che non le sarei ben
gradito. Buonasera…» disse, le voltò le spalle e tornò
davanti al microscopio.
Alice rimase un attimo
a guardarlo, inumidendosi le labbra con la punta della lingua. «Molto bene
signor Holmes…» disse poi freddamente.
Sherlock si irrigidì.
«Mi lasci dire una
cosa…» continuò imperturbabile Alice, «Se qualcuno non le sembra alla sua altezza ci sono due possibilità: o non lo è affatto, o lo è
molto più di lei. Ci ha mai pensato? Forse certe proposte sarebbe
meglio che le guardasse più da vicino prima di liquidarle con un simile tono. Ha
una spiccata capacità d’osservazione, lo ammetto, ma non è il dio in terra.
Potrei ripeterle parola per parola i procedimenti deduttivi con il quale lei è arrivato alle sue brillanti conclusioni, ma
come lei ha giustamente notato sono in ritardo, e non ho intenzione di perdere
tempo dietro a un ragazzino capriccioso…»
Sherlock girò
lentamente la testa verso la ragazza, il volto che non lasciava trasparire la
minima emozione.
La ragazza che aveva
descritto poco prima era sparita del tutto. Al suo posto ora c’era l’esatto
opposto. Una mente fredda e calcolatrice, per niente impressionata da lui e dai
suoi metodi, e neanche tanto interessata alla proposta che gli aveva fatto. Ora
vedeva una ragazza sicura di sé e piena di orgoglio. Niente lasciava trasparire
la ragazza vivace e timida che era prima.
Alice lo squadrò,
seria, poi si avvicinò e gli passò un bigliettino leggermente stropicciato.
Continuando a fissarlo negli occhi disse: «Questo è il
mio numero signor Holmes. Se accetterà sarò felice di
darle un indirizzo…» Poi fece qualche passo indietro. Rimase ancora qualche
secondo in silenzio, giusto per dargli modo di osservarla ancora un attimo, poi
si rilassò, un sorriso le comparve sul volto e tornò ad
essere la ragazza timida e insicura di prima. «Beh, le auguro una buona
serata!» esclamò felicemente. Poi si girò con un sorriso sprezzante e uscì.
Sherlock abbassò lo sguardo sul bigliettino, dove erano state
scarabocchiate una serie di cifre. Respirò a fondo e si portò
le dita alle labbra, pensieroso.
***
«Allora? Com’è andata, ha accettato?» sorrise Molly, mentre si sedevano a uno dei tavoli della
mensa dell’ospedale.
Alice sorrise in risposta e scosse la testa. «Sinceramente non lo so
ancora… ma credo che abbia rifiutato… come credi dovrei interpretare
il fatto che non mi abbia ancora chiamato dopo che gli ho lasciato il
mio numero ieri pomeriggio?»
Quel giorno pranzarono
in fretta. Infatti Molly doveva iniziare un po’ prima
il suo turno, ma Alice era intenzionata a prendere un caffè insieme a lei,
quindi volevano finire velocemente di mangiare. Ma a metà pranzo dovettero interrompere il pasto.
La porta si aprì e
Sherlock Holmes fece il suo ingresso, in sciarpa e giacca blu. Inizialmente
Molly e Alice non ci fecero caso, pensando che volesse solo parlare ancora una
volta con il signor Brown, ma Sherlock, dopo una rapida occhiata, si avviò proprio
verso di loro.
Alice ingoiò il
boccone e lo guardò avvicinarsi con gli occhi socchiusi.
Sherlock si fermò di
fronte a loro e guardò sprezzante la ragazza di fronte a sé. «Suono il violino
quando mi pare e piace, anche nel bel mezzo della notte se mi va…»
Alice lo guardò con
aria altezzosa. «Quindi?»
«A volte mi chiudo in
silenzio e non rivolgo la parola a nessuno, anche per
giorni interi…» continuò Sherlock.
«Amo il silenzio…»
«Non cucino, non
pulisco, tengo tutto in disordine.»
«Non ho praticamente effetti personali…»
«Se sto pensando, non
voglio che mi si rivolga la parola, neanche se la casa sta andando a fuoco.»
«Potrei sparire per
giorni interi, o per settimane, senza dare mie notizie…»
ribatté Alice.
Sherlock aprì la bocca
per ribattere ma si fermò. «Qual è l’indirizzo?» chiese infine.
Alice sorrise
vittoriosa. «77 Montague Street[1].
Stasera, alle sette.»
Sherlock indugiò
ancora qualche secondo, poi si voltò e se ne andò.
Molly guardava la sua
amica, esterrefatta.
«Che stronzo…» mormorò
Alice sovrappensiero fissando la porta da dove era appena uscito. «Senza
offesa, Molly…» disse poi, voltandosi verso l’amica, «…ma non mi sembra un buon
ragazzo da avere come fidanzato…»
Molly la fissò,
incapace di dire alcunché. «Come… come ci sei
riuscita?»
Alice si strinse nelle spalle. «Ne ho conosciute di persone come lui, anche peggiori. So
come parlarci…» Sorrise.
***
«Le faccio i miei
complimenti signorina Moffat…» disse la voce di Mycroft
al cellulare.
«Aspetto i soldi sul
mio conto per la fine della settimana, Holmes, grazie.» e chiuse la
comunicazione. Non le andava per niente di trattare al telefono con Mycroft, e
comunque il taxi era quasi arrivato a destinazione. Alice afferrò la sua borsa
e scese, pagando poi il tassista. «La ringrazio.»
«Buonasera!» disse
poi, salutando Sherlock Holmes, in piedi davanti alla porta del 77, le mani in
tasca e l’espressione truce.
Alice gli sorrise allegra, e suonò il campanello. Un signore dall’aria
gioviale si affacciò alla porta. «Moffat?» chiese.
Alice annuì, «e il
signor Holmes» aggiunse poi, indicando l’uomo al suo fianco con una mano. «Holmes, il proprietario di casa, il signor Lyons…»
L’uomo li salutò
calorosamente e li fece entrare. Salirono un paio di rampe di scale e si
ritrovarono in un appartamento moderno, piccolo ma accogliente.
Alice si guardò
intorno con aria soddisfatta, poi guardò Sherlock. «Allora? Cosa ne pensa?»
Sherlock fece un giro
per la stanza e diede un’occhiata alle camere da letto
e alla cucina. «Direi che il frigorifero è abbastanza largo…»
Alice lo guardò
accigliata. «Il frigorifero?»
Sherlock sogghignò.
«Come infermiera spero che non le diano fastidio i
cadaveri…»
Alice non rispose, ma continuò a
osservarlo mentre si guardava intorno. Poi il suo telefono squillò.
(7:14
pm)
Vieni.
M
Alice sbuffò.
«Qualcosa ch non va?»
chiese Sherlock, dedicando una particolare attenzione al cellulare della
ragazza.
«Sì… il lavoro.» rispose secca Alice
mentre portava la propria borsa nella camera che aveva deciso
essere sua. Tirò fuori la borsa con il computer, ci infilò dentro un pacco di
fogli per appunti e tornò nel salotto. «Devo andare… non so a che ora tornerò.»
Poi, poco prima di uscire si voltò verso Sherlock, che si guadava intorno con
aria soddisfatta. Ritirò la frase che stava per pronunciare e uscì.
***
Quando tornò erano le undici di sera. Aprì la porta lentamente,
cercando di non fare rumore, ed entrò. Sherlock era sdraiato sul divano, il
braccio steso e… che cos’erano quelli?
Ma vi distolse subito l’attenzione per
posarla sulla sala intera. Sherlock non scherzava quando parlava di disordine.
Se prima sembrava un appartamento pulito e ben ordinato, ora sembrava che ci
fosse appena stata una battaglia. C’erano fogli e libri dappertutto e… Alice si
avvicinò a una mensola vicino a un quadro. Sopra di essa, oltre ad alcuni
libri, c’era un teschio. Alice lo prese in mano esterrefatta e se lo rigirò tra
le dita: era proprio vero. Stava per rimetterlo a posto quando cadde un
sacchettino. Si chinò per raccoglierlo e vide che conteneva una sottile
polverina bianca. Il suo cuore perse un battito: conosceva fin troppo bene
quella cosa.
«Stai frugando nella
mia roba?»
Alice si girò di
scatto e per poco il sacchettino non le cadde a terra. «Cos’è questa?» chiese,
sventolando il sacchettino.
Sherlock gli lanciò
un’occhiata disinteressata, poi richiuse gli occhi. «Qualche problema?»
Alice lo guardò a
bocca aperta. Deglutì, fissando il pavimento e cercando di mantenere la calma.
«Per me può fare tutto quello che vuole, ma non ho intenzione di avere problemi
con la polizia o roba del genere…»
«Perché, ne hai già
avuti?» Sherlock balzò in piedi e gli tolse il sacchetto di mano, infilandolo
poi nuovamente sotto il teschio.
Alice non rispose ma
si limitò a fissarlo. Poi sbuffò e si diresse in cucina, decisa a buttare giù
qualcosa prima di andare a letto. Afferrò una scatola di biscotti nella
credenza, probabilmente messa lì dal signor Lyons
come regalo di benvenuto, e afferrò il latte dal sacchetto di plastica della
sua ben misera spesa appena fatta al negozio dell’angolo. Si preparò una tazza
di latte e si sedette al tavolo della cucina, facendosi tranquillamente spazio
tra le cose appoggiate lì dal suo coinquilino senza un ordine logico.
«Come ci riesci?»
Alice lanciò
un’occhiata alla porta, dove Sherlock la osservava con interesse. «Riesco a
fare cosa?»
«A cambiare
personalità…»
Alice lo guardò di
sbieco. «Come scusi…?»
Sherlock sorrise e si
sedette sulla sedia di fronte a lei, unendo poi le punte delle dita e facendo
saettare gli occhi sul suo volto, studiandola. «Quanti anni hai?»
Alice ghignò.
«Abbastanza.»
Sherlock sospirò e si
lasciò andare sullo schienale della sedia. «Eliminato l’impossibile, ciò che
resta, seppur improbabile, dev’essere la verità.»
Alice si accigliò. «Sa,
vero, che sta facendo un discorso senza senso?»
«Non lo è nella mia
testa…» Fece una smorfia.
«Allora perché non mi
rende partecipe del discorso presente nella sua testa
così posso capirci qualcosa anch’io?»
Sherlock sembrò
ignorare totalmente la sua richiesta. «Mi hai detto che se qualcuno non mi
sembra alla mia altezza, o non lo è affatto, o lo ho
più di me. Di quale gruppo fai parte?»
Alice non rispose
subito, bevendo qualche sorso dalla tazza. «Lei cosa ne dice?»
Sherlock sorrise
enigmatico. «Di solito fanno tutti parte del primo.»
Alice ghignò. «Considerando che ha accettato di aiutarmi a pagare
l’affitto di questa casa, direi che mi considera parte del secondo gruppo. O mi
sbaglio?» Sherlock non rispose mai alla sua domanda, o
almeno non direttamente. In quel momento si limitò solo a fissarla.
«Mi manca ancora
qualcosa…» Tamburellò con le dita sul tavolo, pensieroso, mentre Alice lo
guardava interrogativa.
Poi il cellulare di
Alice sul tavolo lanciò un debole squillo, e gli occhi di entrambi saettarono
verso di esso. Alice allungò una mano e lo afferrò, sorridendo poi dopo aver
letto il messaggio. «Buone notizie: faccio ufficialmente parte del secondo
gruppo.»
Sherlock annuì tra sé
e sé, come in risposta a un suo pensiero. «Non c’è
altro modo, immagino.»
Alice sbuffò e tornò
alla sua tazza di latte. Se Sherlock preferiva fare il misterioso, di certo lei
non lo avrebbe pregato a fare il contrario.
Non si scambiarono una parola fino alla fine della sua piccola
cena. Dopodiché si alzò stiracchiandosi, con l’intenzione di andare a
sdraiarsi. «Potrebbe darsi che domani mattina quando si sveglierà
non ci sarò. Le auguro una buona notte, Holmes.»
«Non serve, non dormirò. E comunque…
Sherlock, grazie.»
***
L’uomo si grattava
distrattamente il mento, osservando il paesaggio di Parigi illuminato dalle
prime luci dell’alba dall’alto della stanza d’albergo che occupava. Le luci
della torre Eiffel lontana brillavano ancora debolmente nella debole luce
mattutina.
«È andato… il piano è
completamente andato.»
L’uomo alla finestra
annuì, spostando lo sguardo sull’uomo seduto poco distante. «Ripetimi il suo
nome…»
«Maybe,
signore.»
L’uomo cominciò a passeggiare
avanti e indietro, gli occhi preoccupati dell’altro puntati addosso.
«Trovatelo.»
«Sembra si tratti di
una donna, signore…»
L’uomo fermò il suo
passo e guardò l’altro furioso. «Vuoi fare lo spiritoso?»
L’interpellato
scosse
velocemente la testa e si alzò, sfuggendo lo sguardo dell’uomo alla finestra.
«Faremo del nostro meglio…»
«Credo di non essermi spiegato bene…
Voi la troverete. È chiaro?»
L’uomo annuì
velocemente e con un lieve cenno di saluto uscì dalla stanza.
Che fosse uomo o donna
gli importava ben poco, voleva solo che non lo intralciasse più. E l’unico modo
per non essere intralciato, era tenerla sotto controllo.
Note:
[1] Nel racconto “Il rituale dei Musgrave”
della raccolta “Le memorie di Sherlock Holmes”, Sherlock fa riferimento al
fatto che nei primi tempi in cui abitava a Londra viveva a Montague
Street, dietro l’angolo del BritishMuseum. Ho pensato di infilarcelo qui. Il 77 non esiste, così evito problemi.
La mia conoscenza in campo medico si
limita alle puntate di Scrubs che ho visto, quindi
che Alice sia specializzanda l’ho presa da lì…
Prima di lasciarvi al nuovo capitolo
devo dire una cosa importante.
Daeran (che ringrazio^^), mi ha gentilmente spiegato alcune cose
che effettivamente non sapevo e che mi sono affrettata a correggere.
Per cui, al posto dell’MI6 vedremo all’opera l’MI5. Per chi abbia
già letto i capitoli passati sappia che ho corretto, per chi è nuovo è ha già letto il capitolo corretto salti
deliberatamente questa nota ;)
Chiunque trovasse qualche altro errore
non esiti a farmelo notare, ci tengo a questa storia e mi piacerebbe che non ce
ne fossero :D
Inoltre, un grazie di cuore a tutti coloro che seguono questa storia^^
Un bacio,
Gage.
HACKER
CAPITOLO IV
Trafalgar Square
Dopo la sfuriata cui aveva assistito a casa sua, John era rimasto
abbastanza scosso. Non aveva mai visto Mycroft in
quella situazione, e per un momento si maledì per essere stato così egoista i
giorni subito dopo la… la disgrazia. Mycroft era comparso, dopo aver fatto il
riconoscimento del cadavere, e John era stata la prima
persona con cui aveva parlato. «È lui, ed è morto.» aveva detto semplicemente.
John non era riuscito a trattenersi e gli aveva sferrato un pugno al naso, per
poi andarsene, scappare e rinchiudersi a Baker Street.
Ma ora come ora si rendeva conto di essersi arrabbiato
per niente. Era ovvio, chissà che cosa ci fosse nel DNA degli Holmes che gli
impedisse di provare il benché minimo sentimento. John aveva quasi invidiato
Mycroft, perché lui non c’era riuscito.
Non osava ripensare a quello che aveva passato la settimana
immediatamente dopo. Era un soldato, e aveva visto molti suoi amici morire, ma
quello era stato un duro colpo. Sherlock evidentemente aveva qualcosa di
speciale, e molto, per farlo sentire così.
Ripensò a Mycroft sulla sua poltrona, il volto tra le mani e la
schiena scossa dai singhiozzi. John lo aveva sopravalutato. Anche lui doveva
aver sofferto, e molto. Evidentemente voleva veramente bene
al fratello. John non aveva osato dire niente, ma aveva osservato
Mycroft soffrire in silenzio, e forse il più vecchio
degli Holmes gliene era stato grato.
Quando era riuscito a calmarsi se ne era
andato, in silenzio, e John lo aveva lasciato andare senza aprir bocca. Ma ora se ne pentiva amaramente. Avrebbe dovuto chiedergli
consiglio: non era ben sicuro della scelta che aveva preso. Eppure la
tentazione era troppo forte.
Stringeva tra le mani quella stupida lettera, John, mentre il taxi lo
trasportava per le vie di Londra, verso la meta stabilita. Cercava di dirsi che
non era vero, che non poteva essere vero. Era solo una presa in giro, una trappola macchinata da
qualcuno. Eppure che cos’era quello che sentiva? Che cos’era quella cosa che lo trasportava inevitabilmente verso il National Gallery? Continuava a ripetersi di essere uno stupido, ma
non riusciva a fermarsi.
Scese e pagò il tassista.
Si guardò intorno, poi attraversò la piazza, dirigendosi verso il
museo. Il cancello d’ingresso era chiuso, e per un attimo John si chiese se non
dovesse scavalcarlo.
Si guardò intorno, nervoso. Mancavano dieci minuti all’una.
La piazza brulicava di gente, nonostante l’ora di pranzo. Erano per la
maggior parte turisti, ma c’erano anche vari impiegati che attraversavano la
piazza, probabilmente dirigendosi verso la vicina fermata della Tube di Charing Cross, vestiti elegantemente e con talvolta una
ventiquattrore sotto il braccio. L’alta colonna dell’ammiraglio Nelson
sovrastava la piazza, con i suoi cinquanta metri di altezza.
Guardò nuovamente l’orologio. Ora mancavano meno di due minuti
all’una.
John cominciò a camminare avanti e indietro, incerto se tornarsene a
casa o aspettare. Quando l’una era ormai passata da ben cinque minuti, però,
cominciò a scocciarsi. Che fine aveva fatto quella dannata donna? Aveva detto
che ci sarebbe stata anche lei! E il suo mittente segreto?
Stava ormai prendendo la decisione di andarsene quando un urlo arrivò
dalla piazza. Con il cuore in gola, John osservò la moltitudine di gente
presente che accorreva nello spazio compreso tra le due fontane, circondando
qualcosa al centro. Quando cominciarono a partire i flash delle macchine
fotografiche, John cominciò a correre e si tuffò nella folla, deciso a vedere
cosa stava succedendo. A furia di spinte e gomitate
riuscì a farsi largo e ad affacciarsi.
Rimase a bocca aperta.
Di fronte a lui, sul pavimento, delle strane e grandi lettere erano
state tracciate con quello che somigliava molto a del sangue. Guardando meglio
si accorse che non erano lettere, ma bensì numeri, e
che quello che poteva apparire facilmente sangue era in realtà della vernice
rossa.
La gente intorno a lui continuava a parlare vivacemente e il suono
degli scatti dei flash era quasi indistinguibile.
John rimase ad osservare il cemento con le orecchie
che gli ronzavano e mille pensieri che gli affollavano la testa.
Ben presto si sentirono le sirene della polizia e la piazza fu invasa
da poliziotti in uniforme che intimavano ai turisti di allontanarsi.
Colto da un
improvviso lampo John si affrettò a ricopiare i numeri
sul cellulare.
097109
Osservò per qualche secondo le cifre, sovrappensiero. Che cosa mai
poteva significare?
Una mano si posò sulla sua spalla, distraendolo dai suoi pensieri.
«Abbiamo visto abbastanza.»
John si voltò di scatto e si ritrovò faccia a faccia
con Alice Moffat. «Dove diamine era finita?» sbottò.
Alice scosse la testa. «Non qui…» Si girò e cominciò a camminare, e
John non poté far altro che seguirla. Evitarono la polizia e si avvicinarono a una macchina nero lucido, ferma evidentemente
ad aspettarli.
«Dove andiamo?» si bloccò John. Non aveva la minima intenzione di venire rapito o qualsiasi altra cosa: evidentemente Mycroft
non era l’unico a comportarsi in quel modo.
«La riporto a casa, Watson. Ne discuteremo
lì…» mormorò Alice, aprendo poi la portiera e
facendogli cenno di entrare.
Dopo un attimo di indecisione, John si lasciò
cadere sul sedile. Dopotutto, pensò, non aveva niente da perdere.
L’automobile partì e si diresse con tutta calma verso casa sua. Quando
erano a circa metà strada una voce proveniente dal
sedile anteriore ruppe il silenzio. «097109…» disse, «Che cosa diamine significa, Alice?»
La donna non rispose, limitandosi a fissare il finestrino, e quando
l’uomo seduto davanti non sentì alcuna risposta sbuffò spazientito. «Sei
pregata di rispondere quando ti faccio una domanda Alice…»
«Sto pensando, Martin…» rispose lei seccata.
John sentì un brivido freddo percorrergli la schiena a quella
risposta. Fece un sospiro profondo e si intimò di
calmarsi. Non era certo il momento più adatto per abbandonarsi a stupidi e
lontani ricordi.
La macchina si fermò.
John, Alice e l’uomo sul sedile anteriore scesero.
«Signor Watson, lieto di fare la sua
conoscenza. Sono Martin Freeman, il… beh, questo può
anche evitare di saperlo per quanto mi riguarda» sorrise incalzante l’uomo,
stringendogli la mano.
John sorrise di circostanza e li invitò ad
entrare in casa. Con la coda dell’occhio vide la lucina rossa dei messaggi
lampeggiare sulla base del cordless, ma decise di far
finta di niente.
Alice sprofondò nella poltrona che aveva occupato la mattina
precedente e si prese la testa fra le mani, mentre John, che cominciava a
sentire il peso della curiosità su quello che aveva appena visto, accese la
televisione. Come previsto la notizia di quello appena successo campeggiava in
tutti i notiziari.
Dalla poltrona giunse un grugnito. «Spenga quella dannata
televisione!»
John squadrò la donna, che era scattata in piedi, e ormai abituato a
situazioni del genere, spense la tv come da richiesta, per poi fissarla
stranito. «Che cosa sta succedendo?»
Alice si portò le mani alle tempie e fece un giro su se stessa, a
occhi chiusi. Poi li riaprì e fissò il soffitto, respirando a fondo.
Dopodiché abbassò lo sguardo e guardò i due. «Ok, Watson, parta con le
domande.»
John rimase basito: neanche tutte le stranezze del suo vecchio
coinquilino erano paragonabili a quella ragazza. Si sforzò di non pensarci e,
con voce flebile, chiese: «Chi è lei?»
Alice parve annoiata da quella domanda. «Alice Moffat,
vecchia conoscente del suo caro amico Sherlock… ma evitiamo domande che
potrebbe rivolgere tranquillamente a Mycroft, per favore...»
John alzò gli occhi al cielo. «Bene… e allora perché ha aiutato
Moriarty?»
«Perché era necessario, Watson. Al momento
ero sotto le sue dipendenze. Ma stia tranquillo che la
situazione era sotto controllo e sapevo benissimo che ne sareste usciti vivi
entrambi. Se il suo problema è stata la paura allora
le chiedo scusa, mi dispiace, ma come le ho detto era inevitabile.»
John evitò di replicare su quel punto. Quella ragazza continuava a
fargli pensare a… no, non adesso.
«D’accordo… allora che cosa è successo poco fa?»
Alice sembrò illuminarsi. «Finalmente qualcosa di interessante!»
Martin Freeman si fece più attento.
«Le esporrò le mie considerazioni. Primo,
quel numero è evidentemente un codice e ho varie idee su quello che possa stare
a significare. Secondo, è questo mi pare ora più importante. Chi ha mandato
quella lettera e perché? Ma soprattutto, ci arriva dal nemico o da un possibile
collaboratore?»
«Collaboratore? E chi potrebbe mai…?» chiese Freeman stupito.
«Non lo so, Martin, ma sta zitto per piacere.
È già tanto che tu riesca a capire le mie parole, figuriamoci se cominci a fare
le tue considerazioni.»
L’uomo ridacchiò e si sistemò meglio sulla poltrona.
John ignorò lo scambio di battute e si passò una mano sul viso stanco.
«E Sherlock che cosa c’entra in tutto questo?»
Alice sospirò. «Non escludo la possibilità che sia lui, ma lo
considero alquanto improbabile.» rispose.
«L’ho visto cadere e spiaccicarsi al suolo… è praticamente
impossibile che sia vivo!» esclamò John, cercando di mantenere un’espressione
distaccata e tranquilla, ma senza molto successo.
Alice lo fissò. «Lo so Watson, lo so…»
Sembrava pensierosa. «Ma non possiamo esserne…» si
bloccò.
«Alice…?»
La donna scosse la testa con forza, come a scacciare un brutto
pensiero. «Abbiamo due possibilità: o è un nemico e vuole farci vedere
qualcosa, o è un collaboratore che ha scoperto qualcosa e ce
lo vuole dire in qualche modo…»
«Io opterei per la seconda…» mormorò Freeman.
«Lei cosa ne pensa Watson?» domandò Alice girandosi verso di lui.
John si guardò intorno nervosamente. Poi tornò a guardare i due e
annuì lentamente. «Sì… io penso che la seconda sia più probabile…»
Alice non rispose ma si limitò a fissare il
pavimento pensierosa. Il suo viso acquistò un’aria preoccupata. Poi
sbuffò e cominciò a camminare avanti e indietro.
«Ma il codice, Alice… che cosa ne facciamo?»
La donna si fermò sul posto. «Aspettiamo.» Rispose risoluta.
«Che cosa? E se significasse qualcosa di importante?»
«Lo scopriremo…» Poi annuì sovrappensiero, come a convincersi di
qualcosa. «Bene Watson, grazie dell’aiuto. Per oggi la
lasceremo in pace.»
John la guardò stupito. «Che cosa? Ma io vi do volentieri una mano!»
«C’è l’ha già data...» Alice sorrise. «E
forse gliene abbiamo data una anche noi… non dubito
che vorrà esserci utile, quindi credo proprio che potrà esserci d’aiuto. Penso
che i suoi contatti con il DI Lestrade ci torneranno
utili…»
John spalancò la bocca. «Come fa a saperlo?».
Alice sorrise. «La gamba, Watson, la sua gamba…»
John lanciò un’occhiata al proprio arto inferiore.
«Ieri mattina zoppicava, Watson, oggi pomeriggio invece non pareva avere alcun male… dato che non porta il bastone con sé ne
deduco che non zoppica spesso. Il suo è un problema psicosomatico, e si
presenta solo quando la sua vita scorre tranquilla, evidentemente non così
tante volte da avere bisogno di un bastone. Quindi lei, reduce dalle sue
collaborazioni con Sherlock Holmes, non ha abbandonato la sua vita di investigatore. Lei aiuta Lestrade nei suoi casi.» concluse.
John abbozzò un sorriso e scosse la testa, passandosi una mano sul
volto. «Ma siete per caso tutti imparentati? E perché
capitate tutti a me?»
«Non è un complimento essere imparentata con un Holmes, Watson.» Alice era seria, ma guardava fisso un punto del muro. John
non riuscì a capire se era tristezza quella che le passava per il volto.
«Martin, andiamo. Watson… lasci
perdere Lestrade, per il momento, la contatterò se ne avrò bisogno. E
Mycroft si farà presto vivo, penso che non resisterà alla tentazione…».
Alice si strinse nel cappotto e uscì, seguita da Martin Freeman, il
quale indugiò ancora un attimo sulla soglia. «Non sa quanto è fastidioso lavorarci…»
mormorò a bassa voce mentre stringeva la mano al dottore.
John annuì. «Ci sono passato anch’io…»
Freeman
scoppiò in una risata sommessa. «Oh no, non credo proprio, Watson, non credo proprio…» e con aria divertita salì a bordo della
macchina che lo aspettava, sotto lo sguardo sbigottito e vagamente irritato di
John.
Approfitto di questo piccolo spazio per ringraziare chi mi
sta seguendo ma, per favore, mi piacerebbe sapere anche che cosa ne pensate :)
Mi lascereste una piccola recensione? Ma proprio piccina piccina? :3
Con questo vi saluto a martedì ;)
Un bacio,
Gage.
HACKER
CAPITOLO V
Passato – Il paziente interno
In poco tempo Alice e
Sherlock avevano imparato a convivere.
Alice era rimasta
soddisfatta del suo lavoro e aveva ringraziato Mycroft mentalmente: di certo
non lo avrebbe mai fatto di persona. Una settimana dopo i suoi soldi erano lì, al sicuro nel suo conto in banca e non aveva
neanche fatto niente di speciale.
Sherlock si era
rivelato un buon coinquilino alla fin fine. Passava intere giornate in
silenzio, a pensare, e poi usciva senza avvisare, tornando a orari
improponibili. Altre volte invece suonava il suo
violino e, al contrario di quello che aveva pensato inizialmente Alice, si era
rivelato un ottimo musicista.
Gli unici momenti in
cui Alice rimpiangeva di aver accettato l’accordo erano quando Sherlock si
definiva “annoiato”. Continuava a girare per le stanze della casa, brontolando,
e se Alice si azzardava ad uscire dalla sua stanza
cominciava a dedurre tutto quello che aveva e stava facendo, talmente veloce
che Alice non riusciva neanche ad aprire bocca per rispondergli acidamente.
Per fortuna
trascorreva la maggior parte del suo tempo fuori casa.
Al mattino andava al lavoro al St Barth,
e quando tornava veniva quasi sempre contattata da Mycroft. Era una fortuna che
Sherlock non si fosse ancora accorto del legame che intercorreva tra Alice e il
fratello, ma stando al maggiore degli Holmes non avrebbe tardato a scoprirlo.
Quando era in casa,
invece, si chiudeva nella sua stanza con il proprio computer e non usciva fino
a ora di cena, pasto che lei e Sherlock erano soliti consumare nel più completo
silenzio.
A volte però non aveva
niente da fare e allora si sedeva nella poltrona in salotto a leggere un libro.
Quando in casa non c’era Sherlock poteva definirsi fortunata. Quando c’era,
infatti, o si sdraiava sul divano a fumare sigarette su sigarette (a niente
servivano gli sbuffi di Alice, cui il fumo dava parecchio fastidio) o qualche
tipo di droga nella quale la ragazza non si azzardava neanche a metterci il
naso, o non stava un attimo fermo e a quel punto Alice non riusciva più a
concentrarsi sul libro e allora cominciavano a parlare di varie cose, quasi sempre del lavoro di Sherlock. Alice aveva infatti appreso che Sherlock collaborava con la polizia nel
risolvere vari casi. Più di una volta si era ritrovata
in casa l’ispettore detective Lestrade a spiegare a Sherlock particolari di
omicidi o furti e si era limitata ad ascoltare in silenzio. Molte volte il
ragazzo li risolveva soltanto con qualche particolare fornitogli da Lestrade,
altre volte lo seguiva sul luogo del delitto e Alice
era libera di avere la casa per sé.
Quel piovoso
pomeriggio di ottobre, però, la solita routine quotidiana venne
improvvisamente interrotta.
Alice aveva finito i
lavori che le erano stati commissionati e sedeva tranquillamente nella poltrona
in salotto, leggendo uno schedario pescato a caso dalla libreria del suo
coinquilino. Sherlock non se ne era neanche accorto: in quel momento era
davanti alla finestra e stava accordando pazientemente il violino.
Ad un certo punto suonò il campanello.
Sherlock non sembrò sentirlo così Alice si alzò controvoglia e andò ad aprire.
Alla porta c’era un
uomo di bell’aspetto, alto, di trentacinque anni circa, col viso sottile e un
leggero colorito malsano come segno di una leggera agitazione. Si presentò come
PercyTrevelyan, dottore, e
chiese di Sherlock Holmes.
Alice lo invitò ad entrare e stava per dire qualcosa al suo inquilino quando
si accorse che era già seduto in una poltrona, una sedia pronta davanti a lui,
e fissava l’uomo da capo a piedi. «Qual è il suo problema, dottore?» chiese
qualche secondo dopo.
Alice fece per uscire
dalla stanza, ma poi ci ripensò. Si sedette sull’altra poltrona e guardò in
silenzio il nuovo arrivato.
Percy si sedette e si strofinò
nervosamente le mani, poi cominciò. «Sono venuto qui
perché mi hanno detto che lei è un investigatore ben preparato e sicc…»
Sherlock alzò gli
occhi al cielo in un gesto di impazienza. «Venga al
punto.»
«Oh, beh… ecco, allora. Temo di dover
iniziare con la mia storia fin dal principio.» Si
fermò un attimo, come in attesa di un qualche commento ma Sherlock non disse
una parola.
Percy continuò. «Come ho detto prima sono
dottore, e abito al 3 di Brook
Street. Ho avuto una buona preparazione universitaria e ho
vinto anche numerosi premi per le mie ricerche. Una volta finita l’università,
però, ho avuto un intoppo nella mia carriera. Purtroppo ho avuto
una grave malattia, dalla quale ne sono uscito molto tempo dopo, e quando ormai
ero certo di poter iniziare nuovamente ad esercitare la mia professione ho
trovato molte difficoltà nell’affermarmi.
Fino a quando un
giorno ho ricevuto la strana e quanto meno inaspettata
visita di un certo Blessington. Vede, soffre di
cuore, e ha bisogno di un controllo medico costante. Per questo motivo mi
propose di diventare il suo medico personale. In cambio mi avrebbe offerto una
casa, uno studio dove esercitare la mia professione e
mi avrebbe garantito una buona clientela. A lui sarebbero andati i tre quarti
del mio guadagno e, naturalmente, le mie cure.
Così andai ad abitare aBrook Street e cominciai ad
esercitare la mia professione. Ogni sera, alla stessa ora, entrava nel
consultorio, si prendeva la sua parte come da accordo e la chiudeva in una
cassaforte nella sua stanza. Non vuole assolutamente tenere i suoi soldi in
banca, credo sia importante dirglielo.
Non credo abbia
rimpianto la sua scelta, in pochi anni l’ho fatto diventare ricco…
Qualche settimana fa
il signor Blessington venne da me in uno stato di
estrema agitazione. Mi disse che era preoccupato poiché era appena avvenuto un
furto con scasso nel West End, se ben ricordo. Era talmente agitato che mi stressò
per quasi mezzora chiedendomi quanto il nostro sistema di sicurezza fosse
veramente attendibile.»
Alice si lasciò
sfuggire un sorriso e Sherlock le lanciò un’occhiata. La
ragazza sperò con tutto il cuore che non avesse pensato a quello cui aveva pensato lei.
«Per una settimana ha
continuato ad essere irrequieto: sbirciava
continuamente fuori dalle finestre, mangiava poco e non faceva più la sua
solita passeggiata serale prima di cena. Sembrava estremamente
preoccupato per qualcosa, ma quando gliel’ho chiesto non mi ha risposto.
Poi due giorni fa,
quando stavo per chiudere lo studio, ricevetti due uomini di origine russa: uno
giovane e uno più anziano, che scoprii in seguito
essere padre e figlio. Quello più giovane mi disse che di lì a qualche mese suo
padre aveva cominciato a dimenticarsi costantemente eventi recenti, e mi chiese
se potevo occuparmene, in quanto sosteneva potesse
trattarsi di Alzheimer. Feci accomodare il ragazzo in sala d’attesa e feci il
mio consultorio con il paziente. E niente, poi se ne sono andati tranquillamente.
Quando Blessington è tornato a casa dalla passeggiata
(quel giorno gli avevo consigliato io stesso di svagarsi) è salito nella sua
stanza ed è tornato subito indietro spaventatissimo. Mi chiese se qualcuno era
entrato nella sua stanza ed io gli risposi di no, che non era possibile, e che
l’allarme avrebbe dovuto suonare. Sembrò
tranquillizzarsi un po’ ma non del tutto. Ieri sera non ha mangiato neanche un
boccone…»
Alice trattenne a
stento uno sbadiglio, mentre Sherlock sembrava non perdere nemmeno una parola
di quello che l’uomo stava dicendo.
«Effettivamente nella sua stanza era
entrato qualcuno. Ieri pomeriggio, come ricorderà, ha piovuto, e sulla moquette
della sua stanza si vedevano chiaramente delle impronte. Ma
non so cosa dirle, signor Holmes, abbiamo visto il video delle telecamere di
sicurezza e non succede assolutamente niente! È per questo che sono venuto qui a chiederle consiglio, un mio amico mi ha detto che ha
delle grandi capacità, sa, quello che le aveva chiesto…»
Sherlock fece un gesto
della mano come se non gli importasse. «Qualcun altro ha accesso alla sua casa,
signor Trevelyan?»
Il dottore scosse la
testa. «Nessuno a parte il domestico, il signor Andrew Hayward[1].»
Sherlock fece una
smorfia di disappunto.
Percy scosse la testa con un sorriso. «So
cosa pensa, Holmes, ma no. Hayward
è al servizio di Blessington da ancora prima che
arrivassi io.»
«Dubito che lo
sappia…» ribatté seccato Sherlock. Poi si alzò, si infilò
il cappotto e fece cenno al dottore di precederlo alla porta.
«Passa a prendere il
pane quando torni…» sbadigliò Alice per poi tornare a sedersi
sul divano, sostituendo lo schedario con un libro.
Ma non passò neanche mezz’ora che la
porta d’ingresso si riaprì e Sherlock entrò come una furia. Si gettò sul divano,
con in mano già due sigarette.
Alice lo guardò
allibita. «Sei stato così veloce?»
Sherlock sbuffò. «Ho
perso il mio tempo, Blessington mente…»
«Ah sì?» sorrise Alice.
«Sostiene di non
conoscere i due uomini che il dottore ha accolto.»
Alice lo guardò stupita.
«E come potrebbe?»
Ma Sherlock non la stava più
ascoltando.
La mattina seguente
era il giorno libero di Alice, e si ritrovò ancora senza niente da fare. Così
si era sistemata comodamente, ancora una volta, sulla sua poltrona, decisa a
finire di leggere il libro iniziato il giorno seguente.
Ma l’ora successiva aveva già smesso.
Il cellulare di
Sherlock suonò per la decima volta in cinque minuti. Alice si alzò sbuffando e
lo prese in mano. «È Lestrade…» mormorò rivolta al ragazzo.
Sherlock, in cucina
alle prese con i suoi esperimenti chimici, non rispose, così si alzò e glielo
mise di fronte agli occhi. «Vorrei evitare di sentirlo ancora suonare… e poco
fa non ti lamentavi che eri annoiato?»
Sherlock la guardò
scocciato e prese in mano il telefono, guardando uno ad
uno i messaggi che gli aveva inviato l’ispettore. In pochi secondi un sorriso
gli comparve sul volto. «C’è stato un apparente suicidio a BrookStreet.» sorrise soddisfatto.
Alice sprofondò
nuovamente nel divano. «BrookStreet?
Non dirmi che il tizio di ieri si è suicidato…»
Ma Sherlock era già sparito nella sua
stanza. Ricomparve poco dopo, pronto per uscire. Gettò un’occhiata ad Alice,
seduta ancora nella poltrona.
«Ti stai interessando
improvvisamente ai miei casi?» chiese.
Alice o guardò storto.
«Scusa?»
«Ieri leggevi il mio
schedario…»
Alice sorrise e annuì.
«Non ti sfugge niente, eh? Ho visto che ne hai
risolti… in quanti la polizia non è riuscita a fare niente?»
Sherlock sorrise orgoglioso.
«In tutti, ovviamente…»
Afferrò il cappotto dall’attaccapanni
nell’ingresso poi si girò nuovamente verso la ragazza. «Sono quasi certo che in
questo caso non si tratti di un suicidio…»
«Uhm…»
«Ti andrebbe di
assistere a un caso dal vero?»
«Uhm… aspetta, cosa?»
Alice alzò di scatto gli occhi dal libro e lo fissò stupita.
Sherlock si strinse
nelle spalle. «Potrebbe essere interessante…»
Alice lo guardò
allibita, poi gettò un’occhiata allo schedario e tornò a guardare il
coinquilino. Annuì e balzò in piedi. «Stupiscimi…»
La polizia affollava BrookStreet. Alice non era mai
stata sulla scena di un delitto, e si stupì nel vedere quanta gente se ne
occupasse. C’erano poliziotti che andavano avanti e indietro sorvegliando la
strada, altri che uscivano dall’edificio dove i due coinquilini erano diretti
in una strana tuta azzurro scuro, altri ancora che
comunicavano con la centrale tramite le ricetrasmittenti.
Sherlock scese
dall’auto e si diresse tranquillamente verso l’area delimitata dal nastro,
tenendolo alzato per far passare anche Alice.
All’ingresso della
casa gli accolse Lestrade. Salutò Sherlock e squadrò Alice
sospettoso.
Sherlock rispose alla
sua domanda silenziosa. «È la mia assistente…»
Alice nascose a stento
una smorfia divertita mentre Lestrade lo guardava con le mani piantate sui
fianchi. «Ma davvero? Non posso farla entrare se…»
«Ho detto che è la mia
assistente Lestrade, o entrambi o nessuno.»
L’ispettore sbuffò e
fece loro largo in casa.
Salirono una rampa di
scale e superarono un corridoio per poi entrare in una spaziosa stanza,
arredata a camera da letto. Esattamente al centro del
soffitto pendeva una corda, al cui cappio era appeso un uomo abbastanza grasso
con addosso una lunga camicia da notte dalla quale
spuntavano le caviglie. Il collo, invece, era tirato come quello di un pollo, e
faceva apparire il resto del corpo obeso ed enorme. Accanto al suicida un
ispettore di polizia stava prendendo appunti.
«Allora… cosa ne pensi
genio?» chiese Lestrade, guardando Sherlock con aria speranzosa.
Sherlock sorrise e
cominciò a girare per la stanza, guardando attentamente ogni minimo
particolare. Lestrade intanto analizzò Alice. «Che cosa l’ha trascinata qui?»
bisbigliò.
Alice fece un cenno
della testa indirizzato a Sherlock. «Può essere interessante assister…»
«Perché ho bisogno di
lei.» la interruppe Sherlock, «Cosa puoi dirmi del
cadavere?»
Alice lo guardò
sorpresa, poi diede un’occhiata all’uomo. «A giudicare
dalla rigidità di muscoli direi che è morto da circa tre ore…»
«Suicida?»
«Non vedo segni di
contusione o altro…»
«Bene…» annuì Sherlock,
poi si rivolse a Lestrade. «E le telecamere di sicurezza cosa dicono?»
L’ispettore lo guardò
stupito. «Come sai delle telecamere di sicurezza?»
Sherlock fece un gesto
d’impazienza. «Te lo spiego dopo… allora?»
Lestrade sospirò. «Non lo sappiamo. Sono state bloccate, insieme all’allarme.»
Sherlock annuì
pensieroso. Poi si voltò verso il cadavere e tornò ad analizzarlo. «Penso che
Alice sarà ben felice di dare un’occhiata a quelle
telecamere…»
Alice si bloccò.
«Scusa?»
Sherlock alzò lo
sguardo e lo posò sulla ragazza. «Penso che potresti dargli un’occhiata…»
Lestrade intervenne:
«Sherlock non posso farle vedere…»
«È un’esperta
Lestrade, otterrà ciò che ci serve.»
Alice si sentì
mancare.
«Un’esperta?»
«Lavora per mio
fratello… Ora sei convinto?»
Lestrade rimase un
attimo perplesso, poi annuì scoraggiato e si avviò verso la porta. «Da questa
parte…»
Alice gettò
un’occhiata veloce a Sherlock ma lui era tornato ad
occuparsi del caso. Con un sospiro seguì l’ispettore.
Non le ci volle molto
a penetrare nel sistema delle telecamere di sorveglianza. Ci lavorò per cinque
minuti, sotto gli occhi stupiti e attenti di Lestrade, poi sbuffò. «Non posso fare altro, mi serve il mio computer per andare
avanti. Ma se lo ho posso facilmente identificare gli
assassini…»
Lestrade spostò il
peso da una gamba all’altra. «Ma è legale?» chiese,
non del tutto convinto.
Alice si strinse nelle
spalle. «Lo chieda a Holmes senior» ghignò.
Mezz’ora dopo Alice
osservava soddisfatta le facce dei due malviventi al computer, direttamente dal
sistema delle telecamere. Erano state hackerate da un
evidente complice degli assassini, ma non abbastanza perché lei non potesse
mettere le cose a posto.
Inviarono subito le
foto a chi di dovere e partì subito una caccia
all’uomo.
Sherlock sembrava
soddisfatto ma non lo fu abbastanza fino a quando non spiegò a tutti come
stavano le cose.
«Lestrade, abbiamo
acciuffato la banda della grande rapina alla WorthingdonBank[2].» sorrise soddisfatto. Tirò fuori il suo
cellulare e ci lavorò per un paio di secondi, poi mostrò lo schermo ai
presenti. «Biddle, Hayward, Cartwright, Moffat e Blessington o Sutton[3].»
Lestrade scosse la
testa sorridendo. «E come ci sei arrivato?»
Sherlock fece
spallucce ma Alice non poté non notare un luccichio d’orgoglio nei suoi occhi.
«Furono arrestati tutti e cinque per la rapina ma le prove a loro carico risultarono insufficienti. Blessington
e Hayward cantarono con il risultato che Cartwright si suicidò e gli altri
due furono rinchiusi in cella, quindici anni a testa. L’altro giorno sono
usciti con qualche anno di anticipo e si sono messi sulle tracce dei traditori.
In qualche modo sono entrati in contatto con Hayward,
il domestico, il quale ha preferito aiutare. Era un esperto, e ha hackerato il programma di allarme.»
Il medico, PercyTrevelyan si grattò
pensieroso il mento. «E come ci è arrivato?»
Sherlock fece
spallucce. «Qualche ricerca. Era ovvio che il finto
paziente era un tentativo di distrarla. Sono arrivati
all’orario di chiusura per essere certi che non ci fosse nessuno in sala
d’attesa. Il ragazzo è rimasto fuori durante la seduta e ne ha approfittato per
salire nell’appartamento di Blessington, ma non lo ha trovato per via della sua passeggiata serale. Allora
hanno pensato bene di tornare durante la notte e di ammazzarlo. Le telecamere
dicono il resto.»
«Come
ci sei arrivato?» Alice sedeva nella poltrona e fissava Sherlock a occhi chiusi
su quella di fronte.
Il
ragazzo aprì gli occhi. «A cosa?»
«Al
fatto che io lavori per tuo fratello...»
Sherlock
ghignò. «Ragazza appena arrivata dall’occidente, apparentemente medico ma con
ottime capacità in campo tecnologico: si presenta per caso davanti alla
porta del laboratorio chiedendo di diventare mia coinquilina quando non le interessa affatto. Ottima attrice, sparisce ogni
tanto e non può dire dove va. Ovviamente qualcosa di
segreto. Al nostro primo incontro non ti sei stupita quanto ti ho raccontato
parte della tua vita. Per questo c’erano solo due possibilità: o avevi già
visto qualcuno fare lo stesso, o sapevi farlo tu
stessa. Molto più probabile la prima. Quanto ti paga?»
Alice
annuì divertita. «Abbastanza.»
Sherlock
sorrise tra sé e sé.
Passarono
alcuni minuti in completo silenzio.
«E ho
dato un'occhiata al tuo cellulare.»
Alice
impallidì. «Che cosa?»
Sherlock
sorrise vagamente divertito.
«Ma è protetto da password!»
«Una
volta hai guardato un messaggio, poi sei andata a fare
la doccia e lo hai gettato sul divano senza bloccarlo. Quel modello ha come
minimo un minuto per l'autoblocco. È stato semplice...»
«Questo
è meschino...»
Il
ragazzo annuì e chiuse nuovamente gli occhi. «Lo so.»
Note:
Ispirato al racconto di Arthur Conan Doyle, “Il Paziente Interno”.
[1] Andrew Scott, attore che interpreta Jim Moriarty.
[2] Non so se esista, il nome è preso direttamente dal
racconto di Doyle.
[3] Questa volta è una coincidenza xD
Nel racconto di Doyle uno dei complici si chiama
effettivamente Moffat.
Mycroft non rispose
subito. L’uomo fissava la punta delle sue scarpe con la fronte aggrottata,
perso in chi sa quali pensieri. Dopo qualche attimo sospirò e annuì lentamente.
«Anche se odio ammetterlo temo proprio di sì, John. Dobbiamo fidarci di lei...
Ma non completamente.»
John lo guardò
sconcertato. «In che senso?»
Mycroft sospirò a
occhi chiusi. «Ho parlato con Martin Freeman, attualmente a guida dei servizi
segreti: Alice lavora effettivamente per lui e afferma di sapere quello che sta
facendo e di avere piena fiducia in lei. Ma c’è qualcosa che non mi
convince...»
«Ovvero?»
Holmes lo guardò
arricciando le labbra. «Non saprei dire esattamente cosa, ma la conosco
abbastanza da capire che ci sta nascondendo qualcosa. È un’abile attrice, ma si
sa, gli attori sono attori, John, e la loro recitazione non corrisponde mai all’esatta
verità.» Fece una pausa, posando lo sguardo sul proprio ombrello. «Dicono che
sia una delle migliori nel suo campo, se non la migliore, ma sono sicuro che
non lo sia quanto vorrebbe essere. Penso che qualcuno ci sia, in grado di
superarla...»
John sbuffò.
Nonostante Mycroft gli avesse raccontato tutto ciò che sapeva sulla donna
faticava ancora a fidarsene.
«In sostanza, John,
faccia ciò che le chiede ma tenga gli occhi aperti. Ha il mio numero, farò del
mio meglio per aiutarla. Freeman è restio dal coinvolgermi in questa storia ma
a quanto pare Alice lo ha convinto in quanto le serviva il suo aiuto, e di
conseguenza, il mio.»
«Hai detto che è il
suo lavoro. Che ha aiutato Moriarty per questo. Ma come sappiamo che non
lavorava più per lui tre mesi fa con la storia del-del...?»
Mycroft annuì.
«Freeman sostiene che Alice si è rivolta a lui poco prima degli eventi con la
signorina Adler, ovvero dopo che l’avevi appena conosciuta, John. Non so perché
Moriarty la abbia lasciata andare, è un bottino abbastanza sostanzioso, ed è
per questo che credo di non potermi fidare di lei ciecamente.»
John annuì, mentre Mycroft si alzava dalla
poltrona e si dirigeva verso porta. «Arrivederci, John, e buona fortuna.»
***
Sherlock giocherellava
nervosamente con il foglietto, rigirandoselo tra le mani. I numeri scritti in
pennarello indelebile nero rilucevano ogni qual volta il fascio di luce della
lampada li colpiva di striscio. 097109. Si morse il labbro.
Alice, seduta poco
lontano, fissava lo schermo del computer, dove gli stessi numeri capeggiavano
nell’immagine della piazza di Trafalgar Square.
Erano in un’ampia
stanza dove decine di uomini sedevano di fronte ai loro computer, intenti nel
loro lavoro.
I due ragazzi
stonavano nel complesso: gli uomini erano tutti vestiti elegantemente, mentre
loro due sembravano appena usciti da una battaglia corpo a corpo. Sherlock
aveva i lunghi riccioli castani arruffati, era dimagrito di diversi chili e
risultava essere più pallido e emaciato. La barba gli cresceva ispida sulla
pelle diafana, appena accennata mentre le borse sotto gli occhi sembravano
farsi di giorno in giorno più pesanti. Non dormiva, perché non ne sentiva il
bisogno.
Alice in confronto era
messa molto meglio, ma anche lei riportava segni di stanchezza. L’ultimo mese
era stato incredibilmente difficile per entrambi.
Subito dopo il
salvataggio erano partiti, lontano dall’Inghilterra, e si erano nascosti sotto
copertura per trovare un modo per smontare l’organizzazione di Moriarty. In
parte ci erano riusciti e un gran numero di uomini era stato arrestato o ucciso
(per qualche strana e inspiegabile coincidenza), ma non erano riusciti a
concludere niente: il piano prevedeva di rimanere nascosti per alcuni anni e
invece qualcuno aveva pensato bene di minacciarli.
«Per quanto tempo
ancora dobbiamo tenere montato questo teatrino?»
I due ragazzi alzarono
lo sguardo dalle proprie distrazioni. Persi nei loro pensieri non si erano
accorti del gruppo che aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza.
Martin Freeman li
capeggiava, seguito da un gruppo di persone in giacca e cravatta che si
guardava intorno con superiorità.
Alice sbuffò e
distolse lo sguardo. «Per quanto ce ne sarà ancora bisogno.»
Sherlock ghignò.
Martin in tutta
risposta si passò una mano sul volto, stanco. «Devo ammettere che non avevo mai
usato le mie doti artistiche, e che ne sono rimasto piacevolmente sorpreso, ma
non credo che lo scherzo reggerà ancora per molto. Mycroft per primo era poco
convinto. Quanto ci impiegherà a sospettare di qualcosa?»
Alice sorrise
divertita. «L’importante è reggere il gioco con il dottore...» Sherlock fece
una smorfia. «...fino a quando il nostro criminale non si farà vivo. Poi
vedremo come agire. Pensi che reggerà il colpo, Sherlock?»
L’uomo non si scompose
ma gli occhi gli si velarono.
«E il codice? Novità?»
«Sedici.»
Martin guardò il
detective sorpreso.
«Sedici possibilità di
decifrazione e nessuna sembra calzare a pennello.» Sospirò Sherlock.
Alice si passò una
mano tra i capelli, divertita. «Non possiamo far altro che aspettare. Il nostro
amico si farà presto vedere, ne sono sicura...»
Freeman sbuffò.
Rimasero una decina di
minuti in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, poi un suono arrivò da
uno dei computer vicini. Gli uomini tutt’intorno si affrettarono e cominciarono
a parlare tra loro, urlando ordini da un capo all’altro della stanza.
In tutta quella
confusione Sherlock e Alice scattarono in piedi e si affrettarono al computer
centrale, seguiti da Freeman e compagnia.
Un messaggio si aprì davanti ai loro
occhi. «Tower Bridge, 2 pm.»
***
John stava per andare a coricarsi per
il suo sonnellino pomeridiano quando improvvisamente il cellulare squillò. Con
uno sbuffo spazientito afferrò lo smartphone e guardò
sconcertato il messaggio appena comparso sullo schermo.
(1:03
pm)
Le
va una passeggiata nei dintorni di Tower Bridge,
Watson? AM
Rilesse un paio di
volte il messaggio, con stanchezza, quasi a sperare che scomparisse da un
momento all’altro. Quando questi non lo fece, si alzò, abbandonando
completamente l’idea di un po’ di riposo, e si vestì in fretta. Appena prima di
uscire scrisse un messaggio veloce a Mycroft poi si lasciò alle spalle la pace
casalinga e si avventurò nel traffico di Londra.
Trovò Alice Moffat ad aspettarlo all’inizio di Tower
Bridge Approach intenta a scrivere freneticamente al
cellulare. Appena lo vide, tuttavia, abbandonò lo smartphone
e gli rivolse tutta la sua attenzione.
«Buon pomeriggio,
Watson. Non ha passato una buona nottata, vero? Avrebbe dovuto prendersi una
pausa per pranzo e mangiare qualcosa degno di questo nome. Il cibo spazzatura
riempirà anche, ma non le fa bene alla salute...»
John soffocò sul
nascere quella domanda che ormai non rivolgeva più da tre mesi, e ricambiò il
saluto. «Ci sono novità?» chiese invece.
Alice sorrise e annuì,
estraendo dalla tasca una lettera. John ignorò la fitta al petto nel rivedere
la scrittura dell’amico perduto. «Tower
Bridge, 2 pm» lesse, «Che cosa significa?»
«Penso che il nostro
informatore segreto ci voglia lì per quell’ora...» sospirò Alice.
John annuì poco
convinto. «Lei pensa che... insomma...» scosse la testa sconsolato come a
scacciare un brutto pensiero.
Alice gli rivolse uno
sguardo triste. «In questo momento non so più cosa pensare, Watson. Ma venga,
sarò felice di rispondere alle sue domande, per quanto mi è concesso. La zona è
controllata. Reciteremo la parte dei turisti curiosi mentre faremo la nostra
chiacchierata.» Sorrise e si avviò lungo la strada che costeggiava il complesso
della torre di Londra, diretta verso il famoso ponte. John la seguì.
«Allora...» cominciò
la donna, «che cosa vorrebbe sapere?» lo incoraggiò gioviale.
John si morse il
labbro. «Perché sta facendo tutto questo? Secondo Mycroft non è lei a lavorare
per i servizi segreti ma il contrario...»
Alice scoppiò a ridere.
«Diciamo che lavoriamo insieme per una causa comune.» Sorrise. «Ma posso
assicurarle che le decisioni non le prendo da sola come invece potrebbe
sembrare.»
«E quale sarebbe
questa causa comune?» si azzardò l’uomo.
Alice arricciò un
labbro. «Londra.»
John ridacchiò.
«Londra?»
«Questa persona sta
attentando ai luoghi più famosi della città, non se n’è accorto?» ribatté
Alice.
John sospirò. «Lei fa
di tutto per evitare l’argomento...»
La donna lo guardò
esterrefatta. «Ovvero?»
L’uomo deglutì.
«Sherlock Holmes.»
«Ah beh...» mormorò
Alice divertita, «lei sembra fare di tutto per parlarne allora...»
John annuì. «Che cosa
l’ha fatta tornare a Londra dopo questi anni? E che cosa le ha fatto cambiare
idea dopo quella notte in piscina per cominciare a passare informazioni su
Moriarty all’MI5? E poi, come ha fatto a fuggire?»
Alice ridacchiò. «Mi
lasci almeno il tempo di respirare, dottore!» Spostò lo sguardo sulla famosa
torre poco lontana e sospirò. «Ho la vaga impressione che Mycroft la stia
annebbiando con le sue idee...»
«Quali idee? Quelle
per le quali Sherlock possa avere un giorno provato qualcosa nei suoi
confronti? E perché c’è l’ha tanto con Mycroft Holmes?»
Alice scosse la testa
pensierosa. «Non vado d’accordo con Mycroft per ovvi motivi, Watson. Penso che nei
miei panni farebbe lo stesso. Per quanto riguarda Sherlock, invece, me ne sorprendo,
pensavo lo conoscesse abbastanza bene. Dovrebbe sapere che con lui le regole
normali non valgono...»
John sbuffò. «L’ho
visto personalmente soffrire per l’apparente morte della signorina Adler, e
successivamente avere paura per un mastino immaginario… Potrà nascondere i suoi
sentimenti sotto strati e strati di non so cosa, ma le assicuro che è umano
anche lui.»
Alice sembrava
vagamente irritata. «Ne parla ancora al presente, Watson... Non lo ha ancora
accettato, vero? Per quanto mi riguarda dubito fortemente che abbia sofferto
per Irene Adler. L’ho conosciuta personalmente e abbiamo avuto modo di parlare
di Sherlock insieme. Le assicuro che si sbaglia.»
John sgranò gli occhi.
«Lei conosceva Irene Adler?»
Alice fece un gesto d’impazienza
con la mano. «La conosco, ma sono cose che non la riguardano.»
John si inumidì le
labbra, ma non osò proseguire oltre con quel discorso. «Mycroft mi ha detto che
quando lei se ne è andata Sherlock è quasi finito in overdose.»
Alice si oscurò e per
un attimo John credette di vedere un velo di sorpresa nei suoi occhi. Poi però
scosse la testa e tornò a guardare il Tamigi con diffidenza. «C’è altro?»
Ormai Tower Bridge era vicino e l’orologio da polso di John
segnava che mancavano dieci minuti alle due. John si fermò e fissò Alice negli
occhi. «Possibile che non le importi niente?» domandò, una nota di rabbia nella
voce.
Il volto di Alice si
indurì. «Me ne importa abbastanza da essere qui, ora. Si è chiesto perché io la
stia coinvolgendo?»
John non rispose,
distogliendo lo sguardo infastidito.
Alice si addolcì
leggermente. «Quanto gliene importa a lei, invece?»
Un leggero colorito
rossastro comparve sulle guance del medico. «Glielo devo. Ha fatto cose
strabilianti e per questo è stato reputato un falso e un ipocrita.»
Alice ghignò. «Se il
mittente fosse veramente lui, come reagirebbe dottore? Non mi sembra tipo da
svenimenti improvvisi.»
John si incupì.
«Semplicemente non è lui, punto. L’ho visto con i miei occhi spiaccicarsi al
suolo, l’ho visto a terra con la testa fracassata e ricoperto di sangue. Che si
sia salvato è impossibile. A meno che non fosse diventato improvvisamente un
mago, ne dubito fortemente.»
Alice ridacchiò. «Non
so se Sherlock apprezzerebbe il suo modo di ragionare... Ma non le piacerebbe
sapere che è vivo e vegeto e che le sta guardando le spalle?»
John annuì
distrattamente perso nei suoi pensieri e per questo non notò l’espressione
colpevole comparsa sul volto della donna.
Continuarono a
camminare in silenzio fino alle due meno cinque, poi passarono finalmente sotto
il grande arco di pietra, passando di fianco alla targa che recava il nome del
ponte. Si guardarono attentamente intorno, ma a parte qualche auto che passava
e alcune persone, per lo più turisti, che guardavano il panorama, non notarono
niente di strano.
Accadde all’improvviso.
L’orologio di John
aveva appena emesso il bip delle due in punto quando
nell’aria risuonò il suono di una forte esplosione.
Tutti i passanti
compresi Alice e John si girarono verso il centro del ponte dove evidentemente un’auto
era appena esplosa e ora bruciava lentamente accartocciandosi su se stessa.
In un attimo il ponte
risuonò delle urla dei passanti e degli allarmi delle auto. John ed Alice, dopo
essersi scambiati un’occhiata veloce, corsero verso il punto dove era avvenuta
l’esplosione. In lontananza si sentivano già i suoni delle sirene, mentre
decine di uomini in completo nero si avvicinavano insieme ad Alice e John.
La donna pareva
furiosa: urlava ordini a destra e a manca, comandando agli uomini di spargersi
e cercare prima dell’arrivo della polizia. Ma era evidentemente troppo tardi:
nessuno trovò niente.
In mezzo alla
confusione John si guardò intorno. Fu il tempo di un secondo. Per un attimo
vide l’alta figura di un uomo, avviluppato nel suo lungo cappotto, in piedi, in
controluce, di fianco al rottame.
Sbatté gli occhi, col
fiato sospeso e il cuore a mille, ma quando li riaprì era già scomparso. Rimase
immobile, boccheggiante, fino a quando Alice non lo richiamò all’attenzione e
lo costrinse ad allontanarsi. «La polizia non deve assolutamente trovarla qui,
Watson.»
John la seguì,
apatico, e si lasciò cadere sul sedile di un’auto nera, mentre Alice gli si
sedeva accanto. Poi l’auto partì sgommando.
Ripresosi dal colpo,
John aprì e chiuse velocemente la mano sinistra, nervosamente.
«Tutto bene dottore?»
gli chiese Alice, un guizzo di comprensione negli occhi.
«Io... sì... sì, tutto a posto... Mi
pare a solo di aver visto...» Si passò una mano sul volto, poi scosse la testa,
mentre Alice si irrigidiva impercettibilmente sul sedile dell’auto.
***
«C’è solo una
spiegazione a tutto questo...» Alice parlava, seria, mentre le immagini dell’esplosione
a Tower Bridge passavano nel servizio della BBC.
Erano ancora nella stanza dei computer, lei, Sherlock, Martin e alcuni
esponenti dell’MI5. La ascoltavano tutti, attenti.
«Conosco solo una
persona in grado di fare tutto ciò, e la conosco abbastanza da riconoscerla.» S’interruppe mentre si portava una mano al volto e si
scostava una ciocca di capelli dall’occhio con un’espressione truce sul viso.
«C’è solo una persona, e il suo nome è Moriarty.»
Capitolo 8 *** Passato - La faccia alla finestra ***
Mi scuso immensamente per il ritardo
ma oggi ho avuto un compito abbastanza importante e ieri ho passato tutto il
pomeriggio a studiare, per cui non ho avuto il tempo di rileggere il capitolo e
pubblicarlo :)
Anyway, eccoci qua.
Il prossimo aggiornamento (dove
vedremo… ok, no, non vi dico niente, buaahahahah) arriverà martedì, come sempre.
Un bacio,
Gage.
HACKER
CAPITOLO IX
Passato – La faccia alla finestra
Alla fine Alice aveva trovato un nuovo modo per passare il proprio
tempo libero: aiutare Sherlock. O meglio, ascoltarlo mentre faceva le sue brillanti deduzioni e fare qualche piccolo lavoretto
per lui ogni tanto.
Mycroft era venuto presto a sapere della bravata del
paziente interno e, inutile dirlo, non solo ne era rimasto colpito (a sentirlo
nessuno aveva mai aiutato Sherlock in niente e, in effetti, neanche lui stesso
riusciva ad avvicinarlo), ma ne era rimasto anche abbastanza contrariato. Alice
si era dovuta sorbire ben mezzora di lavata di capo sul fatto che loro le
stavano offrendo una possibilità di avere una nuova vita e lei si stava
tranquillamente mettendo in mostra, senza degnarsi del fatto che qualcuno
potesse scovarla e rovinarle la copertura. La verità era che ad Alice non
importava molto di cosa potesse fare o non fare, lei
pensava sempre con la sua testa e faceva ciò che le premeva senza tante
cerimonie. Non era una novità per lei mettersi al servizio di qualcuno sotto
falso nome e appena le veniva assegnata una nuova vita
era già pronta all’evenienza di doverla cambiare: non si affezionava mai a
niente proprio per questo motivo. Sapeva che in realtà a Mycroft e a tutti
quelli che c’erano dietro di lui interessava solo
quello che sapeva fare e non la sua incolumità ma aveva imparato a non fidarsi
di nessuno e ad arrangiarsi da sola, a sfruttare quello che aveva e ad andare
avanti, qualunque cosa fosse successa. Per questo non le importava niente di
quello che Mycroft poteva dire e non dire sull’aiuto
che dava a suo fratello: lei avrebbe fatto comunque di testa sua e glielo disse
senza troppi giri di parole. Andò a finire che Mycroft fece la parte della
mamma scocciata che ammonisce la figlia su una qualche conseguenza alle sue
azioni e che Alice se ne sbatté altamente.
Quando tornò al 77 di Montague Street raccontò del suo colloquio di lavoro a
Sherlock e ci risero sopra insieme.
Fatto sta che Alice continuò ad aiutare il suo
coinquilino e... beh sì, quello che era diventato anche suo amico, molto
probabilmente l’unico che avesse da un sacco di tempo. La verità era che con
Sherlock non ci si annoiava mai, neppure quando lui stesso si definiva
annoiato. Alice approfittava di quei momenti per stuzzicarlo e metterlo alla
prova, cercando ogni volta di sfidarlo e imparare qualcosa riguardo ai suoi
metodi.
Sherlock era semplicemente incredibile: Alice avrebbe
potuto tranquillamente definirlo un robot per quanto ne sapeva. Di certo non
era molto umano. Era uno strano scherzo della natura con il raro dono del non
essere noioso, e Alice era felice. Finalmente la sua vita era diventata un po’
meno monotona.
Ogni volta che tornava a casa
la stanchezza sembrava fluire via non appena qualche strano suicidio appariva
sulla porta di casa a tenerla impegnata per il resto del giorno.
Se c’era una cosa che Alice odiava, infatti, era
smettere di pensare. Solo alla sera si concedeva di
rilassare la mente per poter dormire qualche ora. Odiava ammetterlo ma aveva
bisogno di riposare o il giorno dopo non avrebbe potuto fare niente. E anche per
questo invidiava un po’ Sherlock. Quel ragazzo sembrava sfidare ogni legge
della natura, perfino le più essenziali. Mangiava pochissimo
e dormiva altrettanto, eppure non sembrava mai stanco o denutrito.
E per quanto riguardava l’attività fisica, Sherlock
non vi si dedicava mai per amore dell’esercizio in sé: era capace di sforzi
muscolari eccezionali ma considerava l’esercizio fisico fine a se stesso come
uno spreco di energie e raramente faceva del moto se non per qualcuno dei suoi
casi. Eppure era sempre in forma, pronto agli sforzi più grandi.
Fu per questo che, quel
pomeriggio di primavera, Alice rimase stupita quando Sherlock acconsentì a fare
una passeggiata in Hide Park.
Camminarono per il parco per ben due ore finché il
cielo non ricordò loro di tornare a casa.
Fu la passeggiata più strana che Alice avesse mai
fatto e ben presto capì il motivo della risposta affermativa alla sua proposta:
Sherlock sembrava in vena di mettere alla prova le sue abilità deduttive e per
ogni passante che incrociavano si divertiva a descriverlo,
rispondendo poi alle domande di Alice sui suoi metodi. Un paio di persone sentirono i suoi commenti acidi e Alice fu costretta a
trascinare via il detective prima che potesse avere luogo una rissa.
Quando furono di ritorno il
portiere corse loro incontro informandoli che una donna li stava aspettando già
da un’ora.
Alice notò che Sherlock si trattenne dal ribadirle l’inutilità del moto, salendo gli scalini di
volata.
Quando arrivò le venne
presentata la signora Elizabeth Battaglia, una donna abbastanza odiosa che
cominciò a borbottare qualcosa sui nullafacenti. I due coinquilini la
ignorarono e la pregarono invece di esporre loro il problema.
«I fatti sono questi. Sono
sposata da tre anni e per tutto questo tempo mio marito ed io ci siamo amati profondamente,
la nostra vita è stata felice come quella di qualsiasi altra coppia.» Qui la visitatrice lanciò un’occhiata prima ad Alice, poi
a Sherlock.
«E...?» Sbuffò il detective
impaziente.
«Beh, insomma... Non abbiamo
mai avuto nessun disaccordo e mio marito è sempre stato sincero con me, su
tutto, ma da lunedì scorso ci siamo improvvisamente estraniati.
Vede... Riccardo, mio marito, lo incontrai per la
prima volta quand’era ancora molto giovane, aveva soltanto venticinque anni,
eppure era già vedovo. Veniva dall’Italia e sua moglie e sua figlia erano morti in seguito a un incendio. Tra noi e stato amore
a prima vista e ci siamo sposati appena un anno dopo esserci conosciuti. Siamo
abbastanza benestanti e abbiamo una bella villetta a Norbury,
abbastanza isolata. Nei nostri paraggi c’è solo un albergo, un cottage e una
fila di casette a schiera poco sopra di noi, poi non ci sono più abitazioni nel
giro di un chilometro.
Fatto sta che circa sei settimane fa ho notato che
dal nostro conto in banca era stata prelevata una grande somma di denaro. Io
non l’avevo prelevata, per cui mi sono rivolta a mio marito che ha confermato,
non volendomi però rivelare a cosa gli era servita.
Non so se possa c’entrare qualcosa, ma il fatto è
talmente strano che ho pensato fosse opportuno
dirglielo.
Lunedì scorso stavo facendo la mia solita corsa
pomeridiana nel boschetto nei pressi del cottage, che è disabitato da circa
otto mesi. Quel giorno però vidi un’auto parcheggiata nel cortile interno, così
pensai che forse era stato venduto una volta per
tutte.
Quando ne feci parola a mio marito
lui reagì in modo molto strano e quando gli dissi che sarebbe stato carino da
parte nostra fare una visita ai nuovi vicini divenne pallido e cominciò a
borbottare qualcosa sul fatto che erano appena arrivati e non c’era motivo di
disturbarli. Così lasciai momentaneamente perdere e non parlammo più di questo
per qualche tempo.
Durante una delle mie passeggiate, però, passai
nuovamente affianco al cottage e sbirciai di là dalla siepe. Mi creda signor
Holmes, se le dico che quel volto non aveva niente di
normale. Era lì, affacciato alla finestra più alta della casa e guardava giù.
Non saprei dirle che cosa c’era di anormale perché ero un po’ lontana, ma ne
rimasi abbastanza scossa.
Quando ne parlai a mio marito, quella sera, lo vidi
farsi ancora una volta pallido in volto e mi rispose che dovevo essermelo
sognata. Quella volta gli chiesi che cosa gli desse tanta preoccupazione e lui
negò, dicendo che era solo stanco.
La notte però non riuscivo a prendere sonno e quando
mi alzai per prendere una tazza di latte vidi mio marito attraversare di corsa
la strada. Alzandomi non l’avevo visto nel letto ma pensavo che fosse
semplicemente andato in bagno. Lo aspettai alzata e quando tornò
gli chiesi una spiegazione ma mi disse semplicemente che il signor Michael
della casa all’angolo gli aveva inviato un messaggio chiedendogli di andare
immediatamente a casa sua poiché si era sentito male. La cosa non mi parve
molto strana: vede, mio marito è medico, e un po’ tutti nel vicinato gli
chiedono aiuto quando hanno bisogno. Nel modo in cui me l’ha raccontato
però c’era qualcosa che mi faceva pensare che stesse mentendo e che in realtà
fosse andato in quel cottage.
Presi quindi la decisione di
suonare alla loro porta con la scusa di un saluto. Ci sono andata ieri,
e prima di entrare ho visto ancora quel volto alla finestra, ma quando poi ho
suonato nessuno mi ha aperto.
Ho così deciso di venire a consultarla dato che passavo da queste parti. E questo è tutto signor
Holmes.»
Sherlock osservava la donna con gli occhi socchiusi.
Alla fine fece una smorfia annoiata.
«Potrebbe giurare che la faccia vista alla finestra
sia di una donna?» chiese poi.
La donna scosse la testa. «No,
non so dirglielo. Era troppo distante.»
«Ha mai visto una fotografia della prima moglie di
suo marito?»
«No, penso che non ne
possegga. Dopo l’incendio deve aver preferito non avere sue foto, forse.»
«Ha mai visto un certificato di morte?»
«Sì, me lo ha mostrato
qualche mese dopo esserci conosciuti.»
«Ha mai incontrato qualcuno che l’avesse conosciuto
in Italia?»
«No.»
«Ha mai espresso il desiderio di ritornarci?»
«No.»
«Ha mai ricevuto messaggi?»
«Se sì non me ne ha mai parlato.»
«Bene. Torni a Norbury e dia un’occhiata alle
finestre. Se vede ancora la faccia mi spedisca una mail e sarò da lei appena
possibile.»
«E se, se ne sono andati?»
«Ne riparleremo.»
Quando la donna se ne andò Sherlock sprofondò nel suo
solito silenzio pensoso e non parlò fino a qualche decina di minuti dopo. «Penso
che alla base ci sia sempre la solita storia... Ne avrò avuti
una decina di casi del genere.»
«Ovvero?»
«Tu che cosa ne diresti?»
Alice si accigliò: raramente le chiedeva un parere
che non riguardasse l’informatica o la medicina. Si strinse nelle spalle. «Qualcuno
ricatta il signor Battaglia?»
Sherlock sorrise. «Quasi.
Direi che abbiamo a che fare con l’ex moglie del signor Battaglia. In realtà
non è morta e ora si è rifatta viva chiedendogli di tornare insieme a lei. In passato deve essere successo qualcosa di brutto
per cui l’uomo ha deciso di scappare e costruirsi una nuova vita. Lui non la
vuole più tra i piedi e gli porta una somma di denaro per allontanarla, ma lei
rimane. Quando la signora Battaglia esprime il desiderio di incontrare il nuovo
vicino il signore fa di tutto per impedirlo e tenta di convincere nuovamente l’ex
ad andarsene mentre la moglie dorme. Non ci riesce. Quando la signora Battaglia
suona il campanello il giorno dopo, il signore ha avvertito l’ex moglie in
tempo perché possa nascondersi.»
«E perché l’ex moglie dovrebbe temere un incontro con
la signora Battaglia?»
«La mia è solo un’ipotesi.
Non ci resta che aspettare il messaggio della signora Battaglia.»
Non dovettero attendere molto, soltanto un’ora dopo
arrivò la mail.
«Il cottage è ancora abitato
e ho rivisto la faccia alla finestra. Non farò niente fino al vostro arrivo.»
Meno di mezzora dopo erano di nuovo in compagnia
della donna. «Sono ancora in casa. Ho deciso di
entrare con la forza per vedere chi ci abita. Ah... Mio marito non era in casa
quando sono tornata, temo che sia tornato là dentro.»
«Bene. La seguiamo, anche se
andiamo dalla parte del torto. È il modo più veloce per risolvere questo caso.»
Entrarono nel vialetto che conduceva alla casa ma
prima che potessero raggiungerla un uomo corse fuori verso di loro. «Eliza, ti prego no! Non entrare!»
«No, Riccardo, mi hai
mentito abbastanza. Io e il signor Holmes aggiusteremo la cosa...»
Lo spinse da una parte ed entrò nella casa con i due
coinquilini al seguito.
Elizabeth Battaglia si precipitò nella stanza
illuminata al piano superiore e Sherlock e Alice entrarono subito dietro di
lei.
Era un piccolo ambiente, bene ammobiliato e
illuminato da una lampada in un angolo della stanza. China su un piccolo
tavolinetto c’era quella che sembrava una bambina, vestita di un abito rosso e
con una maschera da carnevale sul volto.
Alice scoppiò a ridere, mentre la signora Battaglia
fissava la bambina inorridita. «Che cosa succede?»
«Te lo dico io, Eliza.»
Riccardo fece il suo ingresso nella stanza e la bambina gli corse appresso. «Questa
è mia figlia, Rosa.» Detto questo le tolse la
maschera, rivelando il volto di pelle nera come il carbone.
La signora Battaglia sembrava aver appena visto un
asino volare nel cielo.
«Mia moglie non è morta ma
abbiamo semplicemente divorziato. Era una nera e questa è la figlia che ho
avuto da lei. Per tutto questo tempo ha vissuto là con la madre e solo poche
settimane fa Jessie ha voluto portarmela qui.»
In quel momento una donna dal corpo esile fece il suo
ingresso nella stanza. Guardò la signora Battaglia con espressione torva, poi
le allungò una mano titubante.
«So di quel tuo amico che
gioca con te a carte, Eliza, e so quanto egli
disprezzi i neri. Avevo paura che potessi avere i suoi stessi pensieri.» continuò il signor Battaglia. «Mi dispiace di averti
mentito.» aggiunse poi.
La signora Battaglia aprì e richiuse la bocca un paio di volte, poi si guardò intorno esterrefatta. «Ma
come hai potuto pensare una cosa del genere?»
Si voltò verso l’ex signora Battaglia e le strinse la
mano con un sorriso sul volto. «Mi fa molto piacere conoscerla,
signora, e anche la bambina.»
Battaglia sembrò rilassarsi e si avvicinò ad
abbracciare la moglie.
Alice prese Sherlock per un braccio e lo trascinò
via.
Il detective non parlò fino a quando non furono di ritorno al 77 Montague
Street, quando Alice sorridendo beffarda non gli parlò. «Quante
volte hai sbagliato? Questa è la prima?»
Sherlock si oscurò. «Le vicende famigliari sono
sempre le più idiote e possono avere i risvolti più
complessi.»
«A me è parsa una bella
storia d’amore. Se l’avevo vista come una donna abbastanza irritante, mi sono
ricreduta. È una brava moglie.»
Sherlock fece una faccia schifata. «Le storie d’amore
sono ridicole.»
Alice ridacchiò. «Lo dici solo perché non ne hai mai
avuta una.»
«I sentimenti sono solo una debolezza per l’uomo.» ribadì l’altro.
Alice lo osservò per qualche istante. «Tutti?»
«Tutti.»
«Dì un po’... Hai mai avuto qualche amico oltre a
Lestrade?»
Sherlock la guardò con gli occhi socchiusi. «Lestrade non è mio amico.
Gli amici sono solo una grande seccatura.»
Alice sospirò, poi sprofondò nel divano dietro allo
schermo del suo portatile.
Non osò chiedergli che considerazione ne avesse di
lei. Sperò solo che la sua idea di amico si avvicinasse molto a quella di
coinquilino, anche se non le sarebbe dispiaciuto
essere considerata sua rivale. Anzi, forse quello era meglio.
Note:
Ispirato al racconto di Arthur Conan Doyle,
La faccia gialla.
E ci siamo. Siamo al capitolo di
mezzo. Con questo siamo esattamente a metà storia. Contenti? xD non vi assillerò ancora per
molto, dai…
Questo è in assoluto uno dei capitoli
più importanti e spero che vi piacerà.
Ringrazio daeran
per le sue recensioni, e tutti coloro che, anche se in
silenzio, stanno seguendo questa storia :D
A venerdì,
Gage.
HACKER
CAPITOLO VIII
HistoryMuseum
Quel giorno Mycroft Holmes arrivò più tardi al Diogenes Club. Solitamente era particolarmente puntuale, ma quel giorno aveva avuto un piccolo
contrattempo.
Andò verso la poltrona che era solito occupare e stava finalmente per
sedersi quando notò un biglietto di cui la calligrafia conosceva molto bene. Se
prima era sollevato di poter trascorrere un po’ di tempo al Diogenes, quando varcò la soglia della saletta degli estranei desiderò non esserci mai arrivato.
***
John rispose al telefono appena tornò a casa dal
lavoro. Ne avrebbe volentieri fatto a meno, ma quando vide chi era rispose con
tutta l’allegria che riuscì a raccogliere.
«John!» fece la voce al telefono, preoccupata. «Ho appena sentito le ultime notizie! Oddio... Stai bene?»
John sorrise nell’udire la preoccupazione della
donna. «Sì, Mary, tutto a posto, tranquilla...»
«Ti prego, dimmi che non stai aiutando la polizia in
questo momento.»
John sospirò. «Ti dico che è
tutto a posto, Mary, tranquilla! Non preoccuparti per me... Piuttosto,
come vanno le tue vacanze? E Julie come sta?»
Quella settimana Mary si trovava in America a trovare la sua vecchia amica d’infanzia Julie. Era stata una
vera fortuna che fosse partita, almeno John poteva dedicarsi a quel caso che
aveva sconvolto l’Inghilterra senza proibizioni da parte della sua donna. Era
meglio che almeno lei ne restasse fuori.
«John, promettimi che non aiuterai Greg, questa
volta.»
L’uomo si prese qualche secondo per rispondere,
mascherandolo con un colpo di tosse. «No, Mary, non aiuterò Lestrade, te lo
prometto.» disse, ed era la verità.
La donna all’altro capo della cornetta sospirò. «Stai
attento...» mormorò.
John la rassicurò sulle proprie condizioni e poi
parlarono delle vacanze di Mary e del lavoro di John, del Tower
Bridge e di come Londra sembrasse essere diventata centro di ritrovi
terroristici.
Quando finalmente riappese
si diresse a passo pesante verso la poltrona, deciso a rilassarsi un attimo e a
riordinare i propri pensieri.
Era passato appena un giorno dall’esplosione a Tower Bridge. John e Alice erano spariti dalla scena prima
che qualcuno potesse vederli, ma John aveva la strana sensazione di essere
sempre e costantemente osservato. Alice lo aveva riportato a casa con la scusa
che aveva bisogno di silenzio per pensare e non si era fatta più sentire. Anche
John avrebbe voluto provare a riordinare le idee, ma non riusciva a trovare un
nesso tra le due parti, se non che dovevano essere per
forza essere state compiute dalla stessa persona o organizzazione. Avevano
appena finito di tirare un sospiro di sollievo con la
morte di Moriarty e ora erano tornati alla difesa. Ma
questa volta non c’erano menti geniali a risolvere il caso.
Provò una fitta di dispiacere nel ripensare a quell’uomo
che era stato capace di trasformare la sua noiosa vita in un nuovo campo di
battaglia.
Ripensò alla lettera che Alice gli aveva mostrato. Se
era veramente lui, per quale motivo non usciva allo scoperto? No, non era lui.
Lui era morto, lo aveva visto con i suoi occhi. Ma
allora chi era il loro mittente segreto? E come faceva a prevedere gli attacchi?
Forse avevano un alleato nelle schiere nemiche… ma perché fingersi Sherlock? E
soprattutto chi era il nemico?
Poi c’era quel numero a Trafalgar Square.
A Tower Bridge non erano stati lasciati indizi: solo
un’esplosione, in pieno giorno. Erano riusciti a superare le difese e i
controlli dei servizi segreto. Che il nemico fosse uno di loro?
Nelle ultime ore John aveva sentito le ipotesi più
strampalate e le teorie più assurde venire formulate
dai giornalisti più attivi. C’era chi sosteneva che fosse un attacco terroristico,
chi, reduce dai ricordi degli ultimi quattro mesi, attribuiva quelle gesta a un
altro pazzo al pari di Moriarty. Ma lui era morto là sul tetto del St Barth. Il corpo era stato
recuperato, come quello di Sherlock. Che avesse avuto un altro collaboratore?
Sarebbe stato plausibile… ma cosa voleva dimostrare con tutto
ciò?
Guardò distrattamente l’orario. Le 2 pm. Era passato esattamente un giorno dall’ultimo attacco.
Poi lo sguardo gli cadde sulla prima lettera che gli era stata mostrata, ancora
sul tavolino della stanza dove era stata lasciata. Diceva chiaramente di
trovarsi al National Gallery per la
1 pm…
Balzò in piedi. Che fosse una coincidenza?
In quel momento il suo cellulare squillò. Rispose di
getto. «Pronto?»
«Watson, abbiamo ragione di credere
che il nostro amico attaccherà l’HistoryMuseum…» disse la voce di Alice dall’altro capo del
cellulare.
«Mi faccia indovinare… forse per le 3 pm?»
Dall’altra parte si fece silenzio. «La aspetto alla
biglietteria, dottore…» e chiuse la comunicazione.
Con un ultimo sguardo al cellulare, John sorrise, mentre sentiva l’adrenalina
cominciare a scorrergli nelle vene.
***
Mezzora dopo Alice e John camminavano per i corridoi
del museo guardandosi attentamenteintorno,
pronti a tirar fuori l’arma da fuoco accuratamente nascosta nel caso ce ne
fosse stato bisogno.
A quell’ora il museo era pieno di turisti e non era
facile accorgersi di ciò che stonava.
Le telecamere erano tutte accuratamente sorvegliate,
da quelle delle sale principali a quelle degli sgabuzzini più nascosti, e
agenti in borghese si muovevano nel museo con gli occhi bene aperti.
Alice aveva brevemente spiegato a John la situazione:
il falso(o forse no)-Sherlock
aveva inviato un’altra lettera, con il luogo della futura sorpresa e l’ennesima
indicazione dell’orario che, come John aveva notato, corrispondeva alle 3
pm. Alice era convinta che ciò che li attendeva era un’altra esplosione, così
sperava di trovare il dinamitardo in una delle sale più famose o in una di
quelle più nascoste e insignificanti.
A John e Alice era toccata l’ala più insignificante
di tutte, l’unica ancora in allestimento e non ancora aperta al pubblico.
Arrivarono al battente che era stato loro indicato e
con una chiave consegnatole dal personale, Alice la aprì.
Entrarono silenziosamente, sfoderando le armi.
Si ritrovarono in un corridoio dal quale si aprivano
sul lato destro alcune stanze. Verso la parete di sinistra, invece, c’erano
alcune bacheche in allestimento, a distanza regolare l’una dall’altra, alcune
ancora vuote coperte da cellophane.
Avanzarono nell’ombra mentre Alice comunicava
velocemente al walkie-talkie la loro posizione. Dopodiché si accostò a una
delle stanze, nascondendosi dietro la parete. «Teniamo d’occhio il corridoio,
Watson.» sussurrò.
John annuì e si accucciò al suo fianco nell’ombra. «Le
copro le spalle.»
I minuti passarono nel più completo silenzio.
Giacevano entrambi rigidi, le orecchie tese a captare il minimo rumore, le
pistole in mano e il corpo pronto a scattare.
Erano di poco passate le tre, e a John cominciavano a
dolere le gambe, quando il rimbombo di un’esplosione lontana fece quasi tremare
il pavimento.
John si irrigidì sul posto,
mentre Alice cominciava a valutare se andarsene di lì e raggiungere gli altri
sul luogo o rimanere lì a sorvegliare nel caso il dinamitardo approfittasse di
quell’ala per fuggire.
Rimasero fermi in ascolto, il respiro corto, mentre
si udivano le prime urla di spavento e il suono di un allarme risuonare. Anche
nel corridoio vuoto in cui si trovavano cominciò a
rimbombare il suono dell’allarme e sia John che Alice dovettero portarsi le
mani alle orecchie per evitare di venirne assordati.
Poi John vide Alice impietrirsi e si accorse che una
porta aveva sbattuto poco lontano. Tra il suono incessante dell’allarme sentì
chiaramente i tonfi sordi di qualcuno che correva per il corridoio.
Non fece in tempo a rendersene conto che Alice era
già balzata fuori dal loro nascondiglio, buttandosi nel corridoio.
John si affacciò e un’ombra nera lo superò di slancio
seguendo la donna. Vide Alice alzare la pistola e sparare al fuggitivo che
evitò per un pelo il colpo buttandosi dietro a una bacheca.
L’allarme smise di suonare.
John sgusciò fuori dal suo nascondiglio, puntando la
pistola all’uomo che stava dietro Alice e di cui lei non sembrava essersi accorta.
«È dietro la bacheca Watson!» urlò Alice, ferma in
piedi al corridoio, il dito puntato verso un punto non molto lontano del
corridoio.
John si bloccò con il cuore in gola, mentre l’uomo cui
puntava la pistola si irrigidiva.
Non ricevendo una risposta Alice si voltò e alla
vista dei due dietro di lei impallidì.
In quel preciso istante il fuggitivo si affacciò e
sparò un colpo alla cieca, il quale mancò di molto Alice
ma si diresse a tutta velocità verso John, che sarebbe sicuramente stato
colpito se l’uomo poco distante da lui non si fosse voltato di scatto
spingendolo contro la parete.
John si ritrovò spalle al muro, boccheggiante per lo
spavento, gli occhi azzurro chiaro del suo salvatore
puntati nei suoi, le mani che lo tenevano saldamente per le spalle.
Dal corridoio giunse l’eco dell’urlo di Alice, appena
colpita da un altro proiettile, ma John non lo udì, le
orecchie assordate da un forte ronzio.
«Alice!» Vide la preoccupazione dipingersi sul volto
del suo salvatore mentre si voltava verso la donna che si era afflosciata al
suolo, stringendo le braccia intorno al corpo.
«Alice!» Ripeté Sherlock, lasciando John e accorrendo
verso la donna che emise un flebile lamento. «È scappato, dannazione!»
Sherlock sembrò rilassarsi mentre si chinava verso di
lei.
Alice lasciò andare il braccio che teneva stretto,
rivelando la manica già mezza inzuppata di sangue. «Mi ha preso solo di
striscio...» mugugnò.
Sherlock afferrò la ricetrasmittente e parlò
velocemente con qualcuno, comunicando l’accaduto, poi strappò la manica della
donna e gliela strinse intorno al braccio a mo’ di laccio emostatico.
Alice alzò lo sguardo oltre le spalle di Sherlock,
stringendo i denti per il dolore, e si bloccò, vedendo John che, immobile
contro la parete, li fissava.
In un attimo sembrò accorgersi di ciò che era
realmente successo. «Sherlock...» mormorò, gli occhi
fissi in quelli del medico.
Il detective sembrò ignorare il suo richiamo e la
guardò negli occhi. «Tutto a posto?»
Alice annuì distrattamente. «Sì ma...»
Sherlock si staccò da lei e si alzò, girandosi poi
lentamente verso l’amico.
Si infilò le mani in tasca e
sospirò, mentre agenti comparivano capeggiati da Freeman, il quale aveva lo
sguardo furente.
Avanzò di qualche passo verso John, esitante. «Ciao
John...»
Se non fosse stato in guerra, se non avesse mai visto
tutto quello che aveva visto e se avesse sofferto di
cuore, molto probabilmente sarebbe svenuto, ma in quel momento il medico si
ritrovò semplicemente a sgranare gli occhi, come risvegliatosi improvvisamente
da uno stato di trance nell’udire il proprio nome.
Cominciò a respirare a fatica,
il cuore che aveva cominciato a battere a mille.
Sherlock sembrò sorpreso della sua reazione e come
rassicurato coprì con pochi passi la distanza che li divideva. «John...» esitò.
Il medico boccheggiò in cerca d’aria e tese una mano
verso il suo non-più-defunto
amico.
Sherlock l’afferrò e la
strinse con forza. «John, va tutto bene...» cercò di
sorridergli rassicurante ma non fu sicuro della sua riuscita.
Gli occhi di John si fecero grandi mentre allibito lo toccava con mani tremanti. Si aggrappò alle sue
braccia mentre il ronzio nelle sue orecchie si faceva via via
più debole.
Vide distrattamente le labbra del detective muoversi
per dirgli qualcosa ma non lo capì.
Pensò invece al fatto che Sherlock era lì, davanti ai
suoi occhi. Vivo.
La nebbia che gli aveva offuscato la mente fino a
quel momento cominciò a dissiparsi mentre domande su domande
gli riempivano la testa. Ma c’era anche qualcos’altro,
qualcosa che dal profondo dello stomaco cominciò a salirgli, bruciante, fino a
quando non ci vide più. Improvvisamente tutta la rabbia, il dolore, la
nostalgia e tutti quei sentimenti cui non avrebbe saputo dare
un nome provati in quei tre mesi sembrarono trovare la strada e uscirono allo
scoperto.
In un istante la sua espressione passò da allibita a
una maschera indecifrabile di emozioni. In un unico gesto secco la sua mano
destra si strinse a pugno e un attimo dopo colpì il volto del detective.
Sherlock, colto alla sprovvista, non fece in tempo a
schivare il colpo e prese il pugno dritto sul naso.
John scoprì che il pugno che aveva colpito l’amico
sembrava aver beneficato alla sua condizione e fu una fortuna che si trovasse
proprio lì a pochi centimetri da lui: gli si gettò addosso e cominciò a
colpirlo in tutti i punti del corpo che riusciva a raggiungere, beandosi della
sensazione di dolore che ogni pugno sembrava infliggere all’uomo.
Solo quando Sherlock cominciò a mandare i primi
lamenti, i presenti sembrarono accorgersi della rissa in corso.
In un attimo alcuni agenti si gettarono sulla coppia
tentando di dividerli.
Ci vollero almeno una ventina di secondi per riuscire
a separare John dalla sua vittima e a ogni colpo Alice affondava sempre di più
i denti nel labbro, preoccupata per le sorti di Sherlock.
Quando vennero allontanati l’uno
dall’altro, Sherlock cadde a terra bocconi stringendosi le mani allo stomaco,
mentre John urlava e si dibatteva, cercando ancora di raggiungere l’uomo. «Io ti ammazzo, bastardo senz’anima! Lurido stronzo, verme,...» continuò ad insultarlo con tutte le parole che gli
passavano per la testa, senza logica.
Alla fine, dopo qualche minuto di lotta furibonda, John sembrò
spegnersi, fino a quando non crollò a terra distrutto, e improvvisamente
svenne.
***
Alice sedette di fronte a Sherlock, il braccio ferito
accuratamente fasciato. Al contrario della donna, il detective aveva rifiutato
le cure del medico e ora giaceva pallido e dolorante su una sedia.
Alice porse all’uomo un fazzoletto che andò a
sostituire quello ormai pregno di sangue che Sherlock teneva sul naso. Si
avvicinò poi un beauty e dopo aver tirato fuori del cotone e qualche liquido
strano cominciò a tamponare e disinfettare il volto dell’uomo.
Sherlock gemette debolmente quando il tocco della
donna si fece troppo insistente.
«Scusami...» sospirò Alice a
pochi centimetri dal suo viso. Poi sorrise debolmente. «John ti ha sistemato
per bene...»
Sherlock fece una smorfia di disappunto. «Sono solo passati tre mesi, dannazione! Che cosa avrebbe
fatto se fossero stati tre anni?»
«Considerati fortunato che non lo sono...» ridacchiò Alice.
Rimasero qualche minuto in silenzio, rotto solo dai
piccoli gemiti che il detective tirava ogni tanto.
Si trovavano nella cucina della nuova casa di John
Watson, dove avevano deciso di riunirsi per discutere dell’accaduto in seguito
allo svenimento del dottore. Al momento Freeman stava blaterando ordini al
telefono e Alice aveva deciso di dare una sistemata a Sherlock prima che
accadesse altro.
«Sherlock...?» Alice
aggrottò la fronte.
«Sì?»
«Perché non me lo hai detto?» Gli chiese gentilmente
mentre tamponava con il cotone un taglio poco profondo sullo zigomo destro dell’uomo.
«Che cosa?»
«Che... sei stato male... Quando…
quando me ne sono andata.» mormorò Alice lievemente imbarazzata.
Sherlock sgranò di poco gli occhi. «Perché non era
importante.»
Alice tenne fisso lo sguardo nel suo. «Sei quasi
finito in overdose, Sherlock...» insistette.
Il detective abbassò lo sguardo sul cotone. «Ho sbagliato. Avevo bisogno di pensare e ne ho preso una dose di troppo...»
Alice si morse un labbro, il pensiero a ciò che John
le aveva detto il giorno prima. Avrebbe voluto dirgli che non gli credeva, ma
si trattenne. Forse non era il momento adatto per discuterne. Finì il suo lavoro,
poi risistemò le cose che aveva usato nel beauty e lo
richiuse.
«Alice.»
La donna alzò nuovamente lo sguardo su di lui.
«Devi parlargli.» disse.
Alice deglutì.
«Io... Io non credo di
poterlo fare. Devi raccontargli tutto, dall’inizio alla fine. Rispondi alle sue
domande, digli tutto ciò che vuole sapere. Io... ho bisogno che mi creda. Ho
bisogno... di lui.» concluse con un sospiro.
Alice allontanò lo sguardo mentre un nodo le bloccava
la gola. Annuì. «Va bene.»
Sherlock si rilassò e chiuse gli occhi, portandosi le
mani giunte sotto il mento. «Vado al St Barth, avviserò Molly. Voglio provare a vedere se riesco a
scoprire qualcosa da quell’impronta.»
Alice si alzò. «D’accordo.
Avvisa Freeman prima.»
Fece un passo verso la porta ma si fermò,
il cuore in gola. Strinse i pugni e tornò a guardare l’uomo. «Ti voglio
bene Sherlock...» mormorò debolmente.
Il detective non rispose, ma sgranò appena gli occhi
e questo bastò ad Alice per sapere che l’aveva
sentita.
Note:
Non sono mai stata all’HistoryMuseum, ergo non ho la più pallida idea di come sia fatto
all’interno. La mia ricerca su internet non mi ha dato le risposte che cercavo,
so… passatemelo :3
Ormai i capitoli mancanti si contano
sulla punta delle dita D:
Con questo capitolo festeggio ufficialmente
i miei due anni su EFP. Mi sembrano un’eternità, eppure sono solo due… xD
Vi lascio al nostro nuovo “passato”,
mentre io vado a studiarmi un passato che non ho la minima voglia di
memorizzare, alias storia.
Come sempre, buona lettura ;)
Gage.
HACKER
CAPITOLO XI
Passato - L’interprete ciclista
Ben presto i
giorni si trasformarono in mesi e i mesi in anni.
Ormai Alice
abitava con Sherlock da due anni e mezzo, ma le sembrava che fossero trascorse
appena due settimane. Non poteva credere che fosse passato così
tanto tempo dal giorno in cui era entrata per la prima volta al Barts e aveva fatto la conoscenza di Sherlock. Le sembrava
semplicemente impossibile che fosse riuscita a mantenersi nella stessa città
con lo stesso nome per più di un anno ma tutto sommato
ne era felice.
La vita scorreva
tranquilla. Al Barts il lavoro non mancava mai, e
neanche al di fuori di esso, ovviamente. Avrebbe fatto anche a meno del lavoro
all’ospedale, ma la medicina, che l’aveva da sempre appassionata, continuava a
dargli una certa soddisfazione. Era in qualche modo qualcosa che la legava a
tutte le sue vite passate: ovunque era andata aveva sempre portato avanti gli
studi, anche se aveva ritardato di qualche anno la sua preparazione. E in un
certo senso ne andava fiera.
Molly aveva
finito la specializzazione e ora lavorava come patologa. L’amicizia tra lei e
Alice si era un po’ affievolita con l’entrata di Sherlock, ma
Molly, ancora con una cotta per il detective, non poteva fare a meno di stare
accanto ad Alice per saperne il più possibile su di lui. Avendo la sua
coinquilina come amica era riuscita a rivolgere la parola a
Sherlock per la prima volta e alla fine era riuscita perfino a sentirsi
chiamare Molly dalla sua bocca. Ora Sherlock veniva direttamente da lei per poter usufruire del laboratorio e Molly era sempre
felice di poter aiutare con qualche analisi.
Alice,
invece, era contenta di poter avere un’amica. Molly era rimasta la ragazza
timida e impacciata che aveva conosciuto e sebbene sapesse
di essere oggetto della sua gelosia per l’appartamento che condivideva con
Sherlock, Alice trovava sempre il modo per rendersi utile nei suoi confronti.
In fondo era merito suo se era riuscita a rivolgergli la parola.
Dopo la sua
discussione con Sherlock, Alice sapeva bene che Molly non sarebbe mai stata
ricambiata, ma per l’affetto che provava nei suoi confronti
evitava di farglielo notare, cercando invece di spostare la sua attenzione su
qualche altro ragazzo. E fino a un certo punto c’era riuscita: Molly era uscita
con altri uomini, ma con nessuno era andata a buon fine.
Quel giorno
Alice raggiunse Sherlock nel laboratorio dove lo trovò
intento in un esperimento su un resto di sangue secco trovato su un panno in
uno dei suoi recenti casi. Molly la raggiunse qualche minuto dopo con un paio
di bicchieri di caffè.
«Com’è andata con Mike l’altra sera?» le chiese Alice.
Molly
arrossì lievemente e lanciò un’occhiata di sbieco a Sherlock. «Bene... Mi ha
chiesto se mi andava di andare al cinema sabato sera...»
Alice le
sorrise felice. «Magnifico!
Com’è?»
Molly si
fece più sicura. «Oh beh... È proprio un bravo
ragazzo. È tenero e molto dolce. Ha un brutto passato alle spalle... Ha detto
che gli ricordo molto sua sorella.»
«Non è vero. Non ha sorelle.»
Alice e
Molly guardarono Sherlock di sbieco. «E tu come lo sai?»
Sherlock regolò
il microscopio. «Mike Stamford dell’università? Non ha
ragazze da un sacco di tempo e non ha nessun brutto passato alle spalle, a meno che non si riferisca ai suoi problemi con l’obesità,
e in quel caso non lo definirei un “brutto” passato. E non ha sorelle.»
Alice e
Molly si scambiarono un’occhiata.
«Sua sorella
è morta cinque anni fa...» mormorò Molly tristemente.
Sherlock
fece una smorfia.
«Lascia perdere Molly... Non è il suo campo.»
«Perché il
tuo sì?» Sherlock alzò gli occhi e li puntò in quello di Alice, che si sentì
trafitta.
«Per lo meno
tento di essere gentile.»
«Mentendo? A Mike non interessa
niente di Molly, lo sta facendo per arrivare a te, Alice. E mi sorprenderei se
non te fossi accorta...»
Molly spalancò
la bocca sorpresa, spostando poi lo sguardo da uno all’altra.
Alice si irrigidì, incerta sul rispondergli. «Non me ne importa
niente di Mike Stamford.»
«Ma per
procurarti i libri di medicina sì... O no?»
Alice balzò
in piedi mentre Molly acquistava via via un colorito
sempre più scarlatto.
Sherlock
tornò al suo microscopio, mentre Molly guardava Alice con rabbia. «Me lo hai
fatto conoscere tu... Io pensavo che...» Deglutì, con
gli occhi lucidi, poi scosse la testa e uscì velocemente dalla stanza.
Alice rimase
immobile al suo posto, furente. «Pensi che io me ne
stessi approfittando? Cercavo solo di aiutarla! Impara a farti gli affari tuoi,
Sherlock!»
Il detective
si strinse nelle spalle. «Ho solo detto la verità.»
«A volte la
verità fa male, Sherlock. Possibile che tu non riesca
a capire quando avere un po’ di tatto?»
Sherlock
tornò a guardarla con gli occhi socchiusi. «Era la...»
Ma non fece in tempo a finire la frase che il
cellulare di Alice squillò.
Con uno
sbuffo rabbioso la donna afferrò l’apparecchio e rispose. «Cosa
c’è? Oh certo... Cosa? Stai scherzando? Non verrà
mai... Senti, non sono qui per... Uff,
perché non glielo chiedi tu? Sì! Ovvio che lo sono!»
Alice imprecò sottovoce. «D’accordo... Non contarci.»
E chiuse la chiamata.
Si
risedette, desiderando di poter sparire. «Mycroft vuole vederti.» Disse poi.
Sherlock si
oscurò.
«Ha detto
che c’è un caso interessante per te.»
«Bene. Non ci andrò.»
Alice sbuffò
e si alzò. «Non ho la minima intenzione di star qui a fare da messaggero tra
due fratelli, richiamalo e digli che non ci vai, io torno a casa.»
«Che ore
sono?»
«Le sei.»
Sherlock
alzò un angolo delle labbra in un ghigno, poi si alzò. «Potrebbe essere
interessante.»
Cinque
minuti dopo Alice era seduta in taxi, scura in volto, mentre Sherlock al suo
fianco giocherellava con il cellulare.
«Dove hai
detto che stiamo andando?»
«Diogenes Club. È lì che mio fratello passa i suoi pomeriggi,
dalle cinque meno un quarto alle otto meno dieci, ogni giorno.»
Alice alzò
un sopracciglio. «E sarebbe?»
«Un luogo dove si trovano le persone
meno socievoli della città. Ai soci è vietato occuparsi degli altri. Tranne che
nella sala degli estranei è assolutamente vietato parlare, in qualsiasi
circostanza, e alla terza infrazione, se denunciata dal Comitato, chi ha
infranto il silenzio viene espulso.»
«Oh... Fantastico.»
Scesero dal
taxi e si fermarono davanti a un portone poco distante da Carlton. In silenzio
entrarono nell’anticamera e attraversarono una stanza lussuosa nella quale
sedevano molti uomini, ciascuno nel suo angolino, immersi nella lettura dei
giornali.
Dopo aver
varcato un’altra porta entrarono in una stanza, dove
seduto su una poltrona, in compagnia di un ometto piccolo e robusto, si trovava
Mycroft Holmes.
«Ogni giorno
mi sorprendo sempre di più sul suo conto, Moffat.» Esordì Mycroft vedendoli entrare, poi si rivolse al
fratello. «Grazie per essere venuto: il signor Melas,
che incontro qui molto spesso, ha un caso da proporti abbastanza interessante.» Accavallò le gambe e incrociò le mani in grembo, mentre
Alice e Sherlock prendevano posto sul divanetto di
fronte.
«Piacere di
conoscerla signor Holmes.» fece l’ometto sorridendogli. «I
fatti che le sto per esporre sono avvenuti lo scorso lunedì. Non ho osato
rivolgermi alla polizia, credo sia un fatto abbastanza insolito per loro.
Prima di
tutto deve sapere che sono di origine greca. Lavoro in un albergo come
interprete, parlo un po’ tutte le lingue, ma
soprattutto il greco ovviamente. Ogni mattina mi reco al lavoro in bicicletta e
questo è tutto il moto che faccio. È stata circa una settimana fa che sulla strada, di solito molto poco frequentata, mi
sono voltato e mi sono accorto di essere seguito. All’inizio ho pensato solo
che fosse un’altra persona che pedalava nella mia stessa direzione, ma quando
mi sono fermato per bere un sorso d’acqua ho notato
che si era fermato anche lui, mantenendo sempre una certa distanza da me. La
stessa cosa si è ripetuta per tutta la settimana. Quando lunedì scorso l’ho
visto ancora ho cominciato a preoccuparmi. Poi l’altro
ieri è successa la cosa strana. Stavo legando la bicicletta fuori dall’albergo
quando un uomo disinvolto mi si è avvicinato e mi ha chiesto se ero io il
signor Melas. Gli ho risposto di sì, e lui mi ha
detto che aveva bisogno del mio aiuto in una certa questione. Così ci siamo
messi d’accordo per giovedì, ovvero domani. Appena se ne è andato ho visto il mio inseguitore guardare l’uomo
allontanarsi e poi cominciare a seguirlo. Non l’ho visto bene in faccia, ma so
per certo di non averlo mai visto in vita mia. Ora, domani andrò al mio
appuntamento con questo signore, ma mi piacerebbe tanto sapere chi è quell’uomo
che mi seguiva. Per questo mi sono rivolto a lei Sherlock Holmes, suo fratello
mi ha detto che le interessano i casi strani.»
Sherlock
sospirò. «Che cosa voleva da lei quel signore?»
«Mi ha chiesto se potevo aiutarlo con
un affare di lavoro. Ha detto di aver bisogno di un interprete per parlare con
un greco.»
«Il ciclista
che la seguiva, non l’ha mai visto in faccia?»
«No, è
sempre rimasto lontano da me.»
«E crede che
abbia sentito il suo discorso con quell’uomo?»
L’ometto si
morse un labbro. «Non saprei... Di solito si allontana
appena varco l’ingresso dell’albergo, lo vedo dalla finestra. Quindi in quel
momento era ancora lì, ma credo che non abbia sentito, no... Era troppo
lontano.»
Mycroft
ridacchiò. Sherlock non gli badò e si alzò. «È
interessante signor Melas... Credo di non poter far
molto in questo momento, però. Domani a che ora andrà all’appuntamento?»
«Tre del
pomeriggio.»
«Passerà dal
lavoro al mattino?»
«Beh sì.»
«Allora sarò là all’albergo ad
aspettarla domani mattina. È l’unico modo per sapere chi è il suo
inseguitore.»
Il mattino
dopo Alice non poté accompagnare Sherlock poiché lavorava, così ebbe modo di
apprendere l’accaduto solo una volta tornata a Montague
Street.
Sherlock era
sdraiato sul divano con una sigaretta in bocca e ignorò le proteste di Alice
sul fumo.
«Oggi l’inseguitore
non si è fatto vedere.» disse.
Alice rimase
sorpresa. «Quindi?»
«Quindi temo che non sia finito bene.
Oggi andremo all’appuntamento del signor Melas.»
Alice si
lasciò cadere sulla poltrona. «Hai già qualche
ipotesi? Stamattina ci pensavo... Penso che Melas non
dovrebbe andare a quell’appuntamento.»
Sherlock
sorrise beffardo. «Già... Ho modo di pensare che quel
signore abbia chiesto l’aiuto del signor Melas per
qualcosa di quantomeno illegale. Ma andare all’appuntamento è l’unico modo per
scoprirlo.»
Così alle
tre meno un quarto erano nei pressi dell’albergo,
nascosti all’angolo della strada. Alle tre in punto il signor Melas uscì e trovò un’auto ad aspettarlo. Dovette
riconoscerne il proprietario perché salutò e vi entrò, poi la macchina ripartì.
«E ora che
si fa?» chiese Alice.
Sherlock
tirò fuori il portatile da una borsa a tracolla e glielo consegnò. «Ho chiesto al signor Melas di
accendere il GPS sul suo cellulare. Controlla dove va,
intanto io cerco un taxi.»
Alice obbedì
e dieci minuti dopo sedeva nell’auto, dando indicazioni al tassista per la
strada da seguire.
Alla fine si
fermarono in Clifford Street, davanti a un portone scuro di una casa che
sembrava tanto abbandonata.
Pagarono il
tassista e si appostarono in un angolo in ombra.
Fu l’attesa
più lunga cui Alice avesse mai preso parte. Non successe niente per almeno due
ore, poi a un certo punto il portone si aprì e ne uscì un ragazzo. Si guardò
furtivamente intorno, poi corse dall’altro lato della
strada e sparì dietro l’angolo. A un cenno di Sherlock Alice gli corse dietro.
Arrivò
appena in tempo per vederlo prendere una bici e montarvici
sopra.
Con uno
scatto Alice corse all’angolo opposto e appena il ragazzo girò balzò sul
percorso della bici. Il ragazzo sterzò di botto e cadde a terra. Alice gli fu subito addosso e lo immobilizzò in mezzo alla strada
deserta. «E così tu saresti l’inseguitore del signor Melas...» sibilò.
Il ragazzo
impallidì. «Allora lo conosce! La prego, deve
aiutarmi!»
Alice lo
guardò stupita. «Che cosa succede?»
«Il signor Melas
è in pericolo! Ho già chiamato la polizia... Mi ha suggerito di allontanarmi e
così ho fatto.»
Alice lo
lasciò andare. «Vieni, penso che avrai qualcosa da spiegare.»
Ripercorsero
la strada a ritroso fino all’angolo dove Alice e
Sherlock si erano nascosti, ma del detective non c’era traccia. Il ragazzo si
agitò. «Dobbiamo entrare!» esclamò.
Alice tirò
un sospiro profondo. «Cosa ci facevi là dentro? E perché
inseguivi il signor Melas in bici?»
«Il signor Melas
è mio padre! Lo inseguivo perché sapevo che Robert avrebbe preso lui come
traduttore! Mio fratello più grande fa parte di quella banda di criminali e
stanno interrogando un certo greco per avere qualcosa. Ho sentito mio fratello
parlarne l’altra sera al telefono con un suo amico... È una brutta faccenda...»
Alice diede
un’occhiata veloce alla casa, poi si decise.
Aiutata dal ragazzo riuscì ad aprire la porta e fecero irruzione nella
casa. Vuota e silenziosa. Alice cominciò anche lei ad agitarsi.
Da lontano
sentirono le sirene della polizia e il ragazzo uscì nuovamente per andare loro
incontro. Alice invece rimase ferma sul posto fino a quando Lestrade non le si affiancò, una pistola tra le mani. La guardò sorpreso.
«E Sherlock?»
Alice stava
per rispondere quando un flebile lamento venne da una delle porte. Insieme a
Lestrade aprì in fretta la porta e vi entrò, per poi uscirne subito dopo
tossendo. «Ossido di carbonio!» Corse il più lontano possibile e prese un
respiro profondo, poi tornò nella stanza trattenendo il fiato e spalancò le
finestre.
Insieme ad alcuni poliziotti trasportarono fuori un uomo per il
quale non ci fu più niente da fare, il signor Melas e
Sherlock. Alice slegò il coinquilino quasi svenuto e aiutandolo a reggersi in
piedi lo trasportò fuori in strada, dove un’ambulanza era già arrivata.
Per fortuna
erano arrivati in tempo e sia Sherlock che il signor Melas
si ripresero in fretta.
Il detective
sembrava abbattuto. Solo quando furono di ritorno a MontagueStreet si decise a parlare, con l’unica presenza di
Lestrade.
«Ho sentito un urlo e sono entrato.
Quegli imbecilli mi hanno preso e legato insieme agli
altri due e sono scappati.» Guardò Alice di traverso. «Quanto tempo ci hai
impiegato a prendere quel tizio?»
La donna non
gli badò, cominciando invece a spiegare a Lestrade ciò che sapeva.
La banda di
furfanti venne riacciuffata solo qualche ora dopo. Uno
dei membri era effettivamente il figlio maggiore di Melas
e si guadagnò con la sua bravata qualche anno di
carcere.
Il padre,
distrutto, dichiarò di non aver mai saputo niente di tutto ciò e si arrabbiò
con il figlio minore per non averlo mai avvisato.
Per quanto
riguarda Sherlock, invece, non si diede pace per giorni e giorni,
e non rivolse ad Alice la parola per un bel po’. A quanto pareva non gli
andava giù di essere stato “salvato”.
Quanto a
Mycroft, fece una visita ai due coinquilini qualche giorno dopo l’accaduto,
comunicando loro che il signor Melas li ringraziava entrambi per il loro aiuto. Lasciò ad Alice un
lavoro e poi si accomiatò.
Una volta
uscito il fratello, Sherlock riprese tutta la sua vivacità e afferrò il
violino.
«Di solito preferisco non impicciarmi
in affari che non mi riguardano. Ma precisamente, Mycroft,
che cosa fa?»
Sherlock
sorrise. «Qualcosa per il governo.»
Alice si
accigliò. «Ma quindi i servizi segreti...»
Sherlock
scosse il capo. «Non lo so. So solo che lui odia i
servizi segreti e ne farebbe volentieri a meno. Se gli da’ una mano è solo perché deve qualcosa al tuo superiore...»
Alice
ridacchiò al pensiero di Mycroft sottoposto a Freeman. «Gli deve qualcosa di
molto grosso per arrivare a fare da intermediario tra me e loro.»
Sherlock posò l’archetto sul violino
e chiuse gli occhi. «O forse tu sei qualcosa di abbastanza grosso per arrivare a scomodarlo di persona...»
***
A più di un
continente di distanza un uomo scorreva alcune foto sul proprio cellulare.
La stava
cercando da quasi tre anni... L’aveva trovata.
Note:
Capitolo ispirato ai racconti di Arthur
Conan Doyle “L’interprete greco” e “La ciclista
solitaria”.
Ero indecisa tra i due, così ne ho fatto un
misto.
(Ancora grazie alla mia stella ispiratrice
Michela Jawn per l’idea…)
Undicesima fermata! Non so voi ma mi
sta salendo la tristezza… manca sempre di meno alla fine D:
Anyway, questo è in assoluto uno dei miei
capitoli preferiti e spero che possa piacere anche a voi.
Ringrazio coloro che
hanno recensito, mi fa veramente piacere leggere qualche vostro parere
:)
Detto questo… Buona lettura!
Gage.
HACKER
CAPITOLO X
Un vecchio nemico
«Ok... lascia che ti dia un piccolo incentivo. I tuoi amici moriranno se
non lo farai.»
«John...»
«Non solo John... no... uno per uno!»
«La signora Hudson...»
«Tutti quanti...»
«Lestrade.»
«Tre proiettili, tre assassini, tre vittime, e non
è possibile fermarli ora.»
Lestrade
deglutì. Moriarty lo aveva minacciato, Sherlock aveva dato
la vita per loro, si era sacrificato.
La
testa cominciò a girargli e dovette sedersi.
«Fin quando sarò in vita potrai salvare i tuoi amici, hai una via d’uscita...
Allora buona fortuna!»
E poi
il suono dello sparo. Moriarty si era ucciso perché Sherlock non avesse altro
da fare che buttarsi per salvare i suoi amici.
Sentì
calde lacrime rigargli il viso, ma non ebbe la forza di asciugarle.
Sally
Donovan di fronte a lui ascoltava la registrazione con l’orrore dipinto in
viso. Lestrade non poté fare a meno di provare un moto di rabbia nei suoi
confronti: era colpa sua se Sherlock era stato arrestato, se era passato dall’essere
considerato il grande genio al grande truffatore.
La
registrazione finì. Lestrade sapeva che in quel momento doveva essere arrivato
John.
Si
alzò, incapace di proferire parola, ed evitando lo sguardo dei colleghi si
chiuse nel suo ufficio.
Dopo qualche
giorno di lavoro gli era stato comunicato che il cellulare era danneggiato, ma
si era riuscito a recuperare i file all’interno della scheda di memoria. Insieme
ai suoi colleghi Lestrade aveva guardato il contenuto del cellulare di Sherlock
e alla fine avevano trovato quella registrazione. Sherlock aveva registrato il
dialogo con Moriarty, aveva lasciato una prova della sua innocenza.
Deglutì,
ragionando velocemente. La mossa più giusta sarebbe stata quella di rendere la
registrazione pubblica, in modo che tutti sapessero la verità. Ma conveniva farlo in quel momento? I media erano troppo
interessati alle vicende degli ultimi giorni per poter
dedicare la giusta attenzione a quell’evento di tre mesi prima.
Lanciò
un’occhiata al cellulare. John doveva sapere.
Fece
il numero e aspettò con ansia, contando i tu-tu dell’attesa.
«Pronto?»
«John! Sono io, Greg.» Deglutì, cercando di
trovare le parole più adatte per comunicargli la sua scoperta.
«Oh, ciao Greg... Ehm, possiamo sentirci più tardi? Ora non è proprio il
momento...»
«No! Cioè... Ti prego, è una cosa importante, riguarda Sherlock.»
Con
stupore sentì John ridere dall’altra parte. «John?»
«Lascia perdere Greg...»
«No, John, ascoltami! Ho ritrovato il suo cellulare sul tetto del Barts... Sherlock ha registrato la sua conversazione con
Moriarty! So tutto. Era una balla, Sherlock si è sacrificato per noi, John,
eravamo minacciati da...»
John
sospirò. «Tre assassini. Sì, lo so Greg.»
L’ispettore
si ammutolì dallo stupore.
«Senti... Vai al Barts,
nel laboratorio di chimica. Ti aspetto lì, credo ci sia qualcosa che dovresti
sapere...»
***
Quando
John si svegliò si ritrovò nel proprio letto, a casa
sua.
Per
un attimo sperò che tutto ciò che ricordava fosse
stato solo un brutto sogno, e sarebbe anche riuscito a convincersene, se solo
voltando di poco la testa non avesse incrociato lo sguardo con quello di Alice Moffat, la quale sedeva al suo capezzale con il braccio
fasciato a ricordo dell’esperienza appena passata.
Quando
la donna si accorse che John era sveglio gli regalò un sorriso di circostanza.
«Ben svegliato Watson.»
John
rivolse gli occhi al soffitto e si portò le mani alla
testa gemendo piano. «Mi dica che è stato tutto un brutto sogno...»
«Se
anche fosse stato un sogno, sarebbe poi così brutto?» chiese Alice con
gentilezza.
John
si sedette sul letto di slancio, stringendo le mani a pugno, ma si accorse ben
presto che la rabbia del giorno prima sembrava svanita quasi del tutto per
lasciare il posto a un’amara delusione. «Lei lo sapeva...»
Alice
annuì. «Lo abbiamo aiutato a scappare, io, Molly e i servizi segreti..»
John
spalancò gli occhi. «Molly? Molly Hooper?»
Alice
annuì nuovamente. «Ha recuperato il cadavere che è andato a sostituire il corpo
di Sherlock.»
John
la guardò riluttante. «Quindi ero l’unico a non saperlo... Magnifico!»
Alice
inclinò leggermente la testa. «Sono qui per farle cercare di capire quanto
fosse importante che lo sapesse meno gente possibile.»
«E
neanche il suo migliore amico?» sbottò John. «Io che gli sono sempre rimasto
accanto dopo tutto? Che pensavo ormai si fidasse di
me? Ha idea di quanto abbia sofferto?»
Alice
deglutì e abbassò lo sguardo. «Sì, lo so. Mi creda
Watson, so cosa si prova a perdere un amico.»
John si impose di calmarsi. «Tutto questo non ha senso...»
Alice
sospirò. «Lo ha eccome. Posso raccontarle come sono
andate realmente le cose?»
John
fissò la parete di fronte a sé. «Spero sia esauriente.» disse, ma temeva che
niente avrebbe mai perdonato ciò che Sherlock gli
aveva fatto.
«Moriarty
lo ha minacciato.» cominciò Alice. «Con tutto quel
casino che ha organizzato voleva che Sherlock si
suicidasse morendo nella vergogna. Sherlock naturalmente non si sarebbe mai buttato,
così Moriarty ha fatto una delle cose più spregevoli e vergognose cui giocatore
leale non avrebbe mai neanche pensato.»
John
fece una smorfia.
«C’erano tre cecchini. Uno per Lestrade, uno per la
signora Hudson e uno per lei.» Si fermò qualche istante, osservando la
reazione del medico, il quale non la deluse. John si voltò a osservarla con gli
occhi velati.
«L’unico modo per fermarli era che Sherlock si buttasse. Solo Moriarty
poteva effettivamente bloccarli, e quando Sherlock lo ha
capito Moriarty si è sparato. Non gli era rimasta altra scelta.»
John
inorridì. «Si è sparato perché Sherlock si uccidesse?»
«Esattamente.»
Alice notò che aveva gli occhi lucidi. «Abbiamo
approfittato del fatto che poteva morire per sparire. In questi tre mesi
abbiamo cominciato a smantellare l’organizzazione di Moriarty.»
Passarono
alcuni minuti, durante i quali John cercò di trattenere le lacrime di
commozione. Alice non lo disturbò, girando la testa dall’altra parte.
«Come
avete fatto?»
Alice
sorrise debolmente. «Ricorda che Sherlock le ha chiesto di andare in un punto
preciso?»
John
annuì. «Mi ha chiesto di tornare indietro al punto in cui ero sceso dal taxi e
poi di fermarmi.»
«Bene. C’era una palazzina bassa davanti a lei, ricorda? Lei non ha mai
visto l’impatto di Sherlock al suolo.»
John
deglutì, cominciando a capire.
«Era tutto pronto. Il segnale era Sherlock che buttava il telefono a
terra. Il camion della lavanderia è partito ed è passato sotto, permettendogli
di saltarci sopra. A quel punto è stato un gioco da ragazzi. Due uomini hanno
trasportato il cadavere precedentemente truccato da
Molly nel punto in cui Sherlock avrebbe dovuto cadere e gli hanno buttato
addosso del sangue.»
«Ma non è possibile!» John la guardò allibito. «Non ce ne sarebbe stato il tempo! Sono accorso lì appena ho
potuto!»
Alice
scosse la testa. «Abbiamo pensato anche a questo.
Appena ha cominciato a correre è entrato in gioco l’illusionista.»
«Illuche?»
«Uno degli amici di strada di Sherlock. Per lo meno ha fatto bene il suo
lavoro... Lei non se lo ricorda, ma le è venuto in contro e... beh, non so di preciso cosa le abbia fatto. Penso l’abbia drogata...»
John
era terreo in volto. «Pensavo che un ciclista mi avesse investito!»
Alice
ridacchiò. «Una bella coincidenza non trova? Un
ciclista la investe proprio nel momento in cui lei dovrebbe accorrere al corpo
del suo amico...»
John
si oscurò e Alice si affrettò a nascondere il divertimento dietro a una faccia
triste. «Ci dispiace di averle mentito, Watson...»
disse qualche istante dopo. «Sherlock ha fatto tutto questo solo per... per lei.» si oscurò. «Per il suo bene.»
John
si sentiva uno schifo. Per tre mesi era vissuto nella menzogna, nella certezza
che il suo amico fosse morto, e ora invece era là chissà dove, vivo. «Quanti altri sapevano? Mycroft?»
Alice
scosse la testa. «Nessun altro. Come le ho detto, meno
persone sapevano, meglio era.»
«Allora
la storia delle lettere...?»
«Erano una balla. Le ha scritte Sherlock per coinvolgerla. Volevamo darle la notizia un po’ per volta... Ma Sherlock ha agito
impulsivamente ieri. Stava rincorrendo il dinamitardo e ha fatto un grave
errore. Il nostro amico ha inviato personalmente i messaggi, via mail.»
John sbatté
gli occhi. «Ma... perché?»
Alice
si morse un labbro. «Preferirei non rispondere a
questa domanda, Watson. Sono convinta che ci debba essere un’altra causa a
tutta questa pagliacciata.»
John
annuì e sospirò. Guardò la donna. «E ora cosa facciamo?»
Alice
calcolò la sua espressione. «È ancora arrabbiato o lo ha
perdonato?»
John
schioccò la lingua. «Non lo perdonerò mai per quello
che mi ha fatto. Ma... non posso non farlo.» si portò
le mani alla testa e cominciò a massaggiarsi le tempie. «Gli do una tregua.»
Alice
sembrò soddisfatta e si alzò. «Bene Watson. Allora... Come lei ha intuito abbiamo ragione di pensare che il
dinamitardo non farà altro fino alle quattro del pomeriggio e ora sono le sei
di mattina. Abbiamo qualche ora per pensarci su. Se
non ha impegni, possiamo raggiungere tutti al Barts.»
John
scosse la testa. «Penso che questo sia più importante di
qualsiasi altra cosa.»
Alice
sorrise. «Allora andiamo.»
Alle
sette in punto erano all’ospedale.
Salirono
fino al laboratorio di chimica dove li accolse un’agitata
Molly. La donna abbracciò John di slancio, singhiozzando poi sulla sua spalla. «Oh, John! Mi dispiace tanto...»
Spiazzato
da quello slancio di affetto John rimase un attimo
immobile, poi la strinse in risposta per tranquillizzarla, ma i suoi occhi
erano solo per l’uomo seduto al tavolo, chino sul microscopio. Aveva desiderato
per mesi poterlo rivedere ancora una volta e quando Sherlock lo aveva salvato al
museo il giorno prima lo aveva massacrato.
Distolse
lo sguardo e si staccò da Molly, ringraziando che Sherlock non si fosse accorto
della sua presenza, o che comunque non si fosse girato ad
osservarlo. Non credeva di essere ancora pronto per affrontarlo.
Molly
si asciugò le lacrime e guardò Alice. «Ci sono notizie?» John notò con sorpresa
il tono distaccato della donna.
Alice
scosse la testa. «Niente di nuovo.»
Subito
dopo Sherlock mandò all’aria il lavoro che stava facendo e si passò furiosamente le mani tra i capelli. «Niente!
Quelle maledette impronte non dicono niente!»
Alice
lo guardò apprensiva. «Avevi pochissime possibilità di ricavarci qualcosa...»
Il
detective alzò lo sguardo sorpreso. I suoi occhi corsero subito a cercare John,
il quale distolse velocemente lo sguardo abbassandolo a terra.
«A
quanto pare non abbiamo niente da fare fino alla prossima mail... o fino al
prossimo attacco.» Alice si lasciò cadere su uno
sgabello.
In
quel momento le porte si spalancarono un’altra volta e Lestrade fece il suo
ingresso nella stanza, seguito da Sally Donovan.
I
suoi occhi si posarono per primi su Alice e l’ispettore spalancò la bocca
sorpreso. «Che cosa ci fai qui?» balbettò.
«‘Giorno
Lestrade...» Sogghignò Alice. «Anch’io sono felice di
rivederti... Per caso soffri di cuore?»
Lestrade
la guardò interrogativo. «Per...?» Ma non fece in
tempo a finire la frase. Fece girare lo sguardo per la stanza e posò
distrattamente gli occhi su Sherlock, in piedi davanti al tavolo con l’aria di
uno che si sta divertendo abbastanza.
Sally
urlò. Greg strabuzzò gli occhi per poi stramazzare a terra.
John
e Alice si affrettarono a sollevarlo e a rianimarlo. Quando riprese i sensi boccheggiò e si guardò intorno. Guardò Sherlock e aprì
e richiuse la bocca un paio di volte.
«Ciao,
Lestrade…»
L’ispettore rovesciò la testa all’indietro, pallido in volto.
«Non è possibile…» soffiò tra le labbra, portandosi poi le mani al volto.
Alice tirò un sospiro
profondo e cominciò a parlare, spiegando da come fosse tornata a come Sherlock
fosse riuscito a salvarsi, per poi lasciarsi cadere su uno sgabello, stremata
dal lungo racconto.
Greg, al contrario di
John, non la fece troppo lunga, limitandosi solo ad
ignorare Sherlock, così che Alice fu costretta a rispondere a tutte le sue
domande. Spiegò infine la storia degli indizi e delle esplosioni, aggiungendo
altri particolari alle conoscenze dell’ispettore.
Erano ormai le dieci
del mattino quando il cellulare di Alice squillò. Rispose con uno sbuffo di
stanchezza, ma subito dopo la sua espressione cambiò e il suo viso assunse un
colorito terreo. «Che cosa?» quasi urlò, attirando gli sguardi incuriositi dei
presenti. Poi le labbra si stirarono in un sorriso di trionfo mentre attaccava
con il vivavoce e si fiondava al portatile di Sherlock.
«Che cosa cazzo
significa?» sbraitava intanto Freeman al cellulare. «Come diamine ha fatto a
sopravvivere?»
Alice aprì la mail
dell’amico e tutti i presenti le si fecero vicini. Con
un clic fece partire il filmato.
Il volto di James
Moriarty riempì lo schermo.
Un ghigno si aprì sul viso del
criminale. «Buongiorno Londra!» rise. «Allora… vi sono
mancato? Oh… cosa sono queste facce tristi? Pensavate che un genio come me
potesse veramente morire in quel modo? Andiamo… mi avete sottovalutato ragazzi!» rise ancora, in un modo che faceva accapponare la pelle,
poi tornò improvvisamente serio. «Dietro a tutto
quello che state vivendo in questi giorni ci sono io, naturalmente. Chi altri potrebbe fare qualcosa del genere? Si tratta di un enigma
ragazzi… un bellissimo e grande enigma! Oh sì… tutto
questo è un grande gioco per i miei cari amici dalle menti geniali! E ora,
eccovi l’ultimo indizio… è talmente semplice che quasi mi
vergogno a proporvelo!» Fece un respiro profondo, poi recitò:
«Gira gira
rotellina,
Londra veglia da sera a mattina.
Di turisti è ovvia meta,
il panorama la vista quieta.
Trasparente e bianca,
è l’occhio che incanta.
Il suo nome scoprire servirà,
se la prossima esplosione prevenire si
vorrà.
«E ci aggiungerei…
l’ora che il tè precede…» rise ancora una volta. «Beh,
vi aspetto lì ragazzi. Buona fortuna!»
La registrazione finì
e nella stanza calò il silenzio.
«Questo video è andato
in onda su territorio nazionale interrompendo i programmi del mattino…» sospirò
Alice, ripetendo ciò che Freeman le aveva detto al cellulare. Poi alzò lo
sguardo sui presenti che guardavano inorriditi lo schermo.
«Non è possibile…»
gracchiò infine Lestrade. «Che cosa diamine sta
succedendo? L’alba dei morti viventi?» Il suo sguardo
si spostò da Sherlock allo schermo. «Quell’uomo è morto!» urlò esasperato.
«L’ho visto con i miei occhi!»
«Almeno quanto lo è il
nostro amico qui…» sorrise Alice, accennando a Sherlock, che nel frattempo si
era portato le mani alle labbra pensieroso.
«Tu l’hai visto! Sherlock, l’hai visto
spararsi in bocca! Ho sentito la registrazione sul tuo cellulare…»
Il detective guardò
stupito l’ispettore. «Allora l’avete trovato!»
«L’ho trovato qualche
giorno fa…»
Sherlock cominciò a
camminare avanti e indietro. «Ho visto che si sparava, ma effettivamente non ho
controllato se fosse morto o no…»
Alice portò gli occhi
al cielo. «Idiota…»
Sherlock la ignorò e
continuò a camminare. «L’ora che il tè precede…
Ovviamente è per le quattro, ma questo lo sapevamo già. La filastrocca invece…» Si fermò con la fronte aggrottata, poi sorrise. «Semplice,
troppo semplice…»
Sally sembrava
esasperata. «Che cosa è semplice?»
«Rotellina, meta di
turisti, è un occhio…»
Alice sorrise. «Il
London Eye…»
***
Freeman tamburellava
con le dita sul tavolo, ansioso, mentre Alice era china su alcuni fogli e si
mordeva un’unghia nervosamente.
Sherlock invece era in
piedi e camminava avanti e indietro con gli occhi chiusi, ripetendo sottovoce
parole apparentemente a caso.
Lestrade era tornato a
Scotland Yard con Sally, mentre Molly, desiderosa di dare una mano, era rimasta
e ora analizzava i numeri di Trafalgar Square
cercando di ricavarci qualcosa.
John sedeva su uno
sgabello poco lontano da Alice, a fissare il fondo vuoto del bicchiere del
caffè. Non riusciva a pensare, non ne aveva il coraggio. Aveva la faccia di
Moriarty ancora impressa negli occhi, e la sua voce sembrava continuare a
risuonargli nelle orecchie. Non era morto, neanche lui. Aveva vissuto nella
menzogna per tre mesi.
Il suo sguardo andò a
posarsi per l’ennesima volta su Sherlock. Lo aveva conciato veramente bene: il
viso pallido era deturpato da grossi lividi violacei e aveva l’impressione che,
anche se il detective cercava di nasconderlo, faceva quasi fatica a camminare.
John si chiese se
avesse esagerato, ma poi si disse di no. Aveva fatto la cosa più giusta. Per
tre mesi aveva sofferto, pianto, versato innumerevoli lacrime su quella dannata
tomba, e nel giro di due giorni aveva scoperto che era stato tutto inutile.
Sherlock era vivo, ed era lì davanti ai suoi occhi. Da quando era entrato lo aveva deliberatamente ignorato, o per lo meno
questa era l’impressione che dava, ma John lo conosceva e sapeva che i suoi
gesti tradivano una certa ansia. Aveva forse paura di ricevere un’altra
manciata di pugni?
Alice al suo fianco
sbuffò. La vide spostare lo sguardo su Sherlock e fissarlo con… tristezza?
La donna sbatté
velocemente gli occhi per poi alzarsi. «Vado a prendermi un caffè.» annunciò.
Nessuno diede segno di averla sentita, a parte Freeman che le lanciò
un’occhiata veloce. Appena la porta del laboratorio si chiuse John si ritrovò a
fissare Sherlock. Sorrise amaramente. Forse non era un genio, ma alcune cose le
capiva.
Si alzò a sua volta e
uscì dalla stanza. Trovò Alice alla macchina del caffè, gli occhi fissi sui
numeri del tastierino numerico, tuttavia senza vederlo. Quando la macchina finì
di erogare il caffè non sembrò neanche accorgersene.
John lo prese per lei
e glielo porse. Alice si riscosse dai suoi pensieri e lo guardò stupita. «Oh…
grazie Watson…» Non sorrise. John si accorse che era probabilmente la prima
volta che non lo faceva: si era sempre mostrata cordiale nei suoi confronti. Si
accorse improvvisamente anche di un’altra cosa che stonava. «Ci diamo ancora
del lei?»
Alice abbassò lo
sguardo. «Mantengo sempre una certa distanza dalle persone…» sospirò.
John la invitò a
camminare e Alice non rifiutò.
«Perché lo fai?»
La donna sorrise
amaramente. «Devo essere sempre pronta a non sentirne
la mancanza quando me ne vado. L’unica volta che l’ho fatto me ne sono pentita
amaramente.»
John si sentì
improvvisamente a disagio. «Non dovrebbe…»
Alice sorrise senza
gioia. «Oh, John!» Si fermò e guardò fuori da una finestra. «Ho
imparato ad avere una mente fredda e razionale. Guardo ai fatti e mi adeguo di
conseguenza. Fantasticare non serve a niente. La fantasia che possiedo da
quando ero bambina la uso per altri scopi.»
«E se le tue non
fossero solo fantasie?»
Alice lo guardò, persa.
«Guarda in faccia la realtà, John. Non cercare di
consolarmi, non ne ho bisogno. È da anni che mi arrangio da sola, ed è sempre
andato tutto bene…»
John scosse la testa.
«Tu non l’hai visto…»
«No, John. Tu non l’hai visto.» Ora era seria e lo
fissava con distanza. «Tu non l’hai visto in questi tre mesi, tu non l’hai
visto non chiudere occhio per settimane perché doveva concludere
il lavoro. Non l’hai visto chiuso in se stesso, in silenzio anche più del
solito, a guardare i giornali con la speranza di non vederci il tuo nome sopra.»
John spalancò le
labbra, forse per dire qualcosa, ma non lo fece.
Alice distolse lo
sguardo. Respirò a fondo dal naso e accartocciò tra le mani il bicchiere ormai
vuoto. «Grazie John… per la comprensione. Ma se vuoi
veramente farmi felice, vai là dentro e dagli ciò che io non posso.»
John rimase in
silenzio a osservarla mentre la donna si asciugava con decisione una lacrima
sfuggita al suo autocontrollo e poi se ne andava a passo deciso lungo il
corridoio.
E John decise che avrebbe
parlato a Sherlock.
Note:
Un grazie alla mia
personale Watson, Michela, per i suoi consigli con la filastrocca-indizio :)
Questo e il prossimo capitolo sono un po’ la quiete
prima della tempesta xD
Buona lettura!
Gage.
HACKER
CAPITOLO XI
Passato – Un addio
Era una
cupa mattina di fine novembre. Era il giorno libero di Alice e la sera prima
aveva dato la sua disponibilità a Sherlock per aiutarlo nello strano caso che
lo teneva ormai occupato da alcune settimane.
Era
stata una quindicina di giorni prima che un uomo sposato da appena un anno si
era presentato con uno strano foglio dove erano disegnati tanti omini
stilizzati nelle posizioni più disparate, accompagnato da un’altrettanta strana
storia.
A
quanto diceva la moglie aveva ricevuto una cartolina dall’America, dove il
marito sapeva che la donna aveva vissuto durante la sua infanzia. Dopo averla letta l’aveva gettata nel fuoco e da quel momento si era
fatta più distante e silenziosa.
Erano
trascorsi solo pochi giorni e la donna aveva ricevuto un’altra cartolina, che
il marito aveva avuto l’accortezza di leggere prima di consegnargliela. Sul
retro erano scarabocchiati una serie di omini danzanti. La moglie si era fatta
ancora più cupa e aveva cominciato ad aver paura di uscire di
casa. A quel punto l’uomo, il cui nome era Harrison, si era fatto avanti.
Non c’era
stato bisogno dell’abilità del coinquilino perché Alice capisse di avere a che
fare con un codice cifrato. Quando il signor Harrison aveva
inoltrato loro una mail con un’altra serie di omini Alice si era messa al
lavoro per aiutare Sherlock nella cifratura.
Un
lavoro assegnatole da Mycroft le aveva però fatto perdere gran parte del
divertimento. Solo in quel suo giorno libero sperava di poter rimettersi in
pari e decodificare una volta per tutte il messaggio.
Ma
quando la mattina si svegliò ebbe la spiacevole
sorpresa di trovare un biglietto di Sherlock in cui le comunicava che Lestrade
aveva chiamato nella notte pregandolo di farsi raggiungere all’appartamento dei
coniugi Harrison.
Così
Alice rimase senza niente da fare. Poi, quando vide che non tornava, decise di
raggiungerlo.
Uscì di casa sperando di scoprire una volta per tutte il mistero
degli omini danzanti ma presto esso passò in secondo piano.
Decise
di non prendere il taxi per farsi una passeggiata e se ne pentì
amaramente. Aveva fatto appena due isolati quando una macchina nera le si affiancò. Sentì la rabbia montargli dentro: a quanto
pareva il destino le era contro. Con uno sbuffò infastidito
entrò nell’auto, le portiere si chiusero con uno schiocco e l’auto ripartì. Alice
rimase un attimo stranita. Nessun autista l’aveva mai
chiusa dentro. Le sue preoccupazioni crebbero quando l’auto non imboccò la
solita strada ma si diresse esattamente dalla parte
opposta. Filarono per le vie e Alice rimpianse di non aver memorizzato le
strade di Londra come Sherlock: ora avrebbe saputo esattamente
dove si trovavano.
L’auto
si fermò in un parcheggio interno e l’autista scese per aprirgli la porta.
Alice
aprì la bocca per chiedere dove fossero ma la pistola
che l’autista le puntò alla tempia la fece desistere. Con il cuore in gola si
lasciò sospingere su per una scala laterale e poi dentro a un ascensore. Si
ritrovarono su un pianerottolo del nono piano. L’uomo aprì una delle porte e le
fece cenno di entrare.
Quando
entrò nella stanza la porta si chiuse dietro di lei
con un tonfo e si ritrovò nell’ingresso di un piccolo appartamento che aveva
tutta l’aria di essere un monolocale.
Mosse
qualche passo in avanti, sorpassando la parete che le copriva la visuale sul
salotto. Era relativamente piccolo: un divano dall’aria malconcia era addossato
a una parete, di fronte si trovava un mobiletto con un televisore vecchio
apparentemente non funzionante. Le pareti erano spoglie: non c’erano né quadri
né orologi ad ornarle. Tutto in quella stanza sembrava
far pensare che l’appartamento non fosse abitato.
«Buongiorno...»
Alice
sobbalzò e si girò di scatto. Davanti a lei, appoggiato alla parete dell’ingresso,
stava un uomo di bell’aspetto, ben vestito. Sul volto aveva dipinto un ghigno
malevolo e squadrava la ragazza con interesse. Aveva un paio di occhi castano
chiaro e l’espressione che ricordava tanto quella di un bambino curioso.
Alice
lo fissò distante. «Chi è lei?»
L’uomo
stirò le labbra in un debole sorriso. «Qualcuno che ha interesse a conoscerti.»
Alice
si accigliò. «Uhm... Bene. Io non
sono affatto interessata, invece.» Sebbene si sentisse tranquilla
qualcosa nel suo stomaco si agitò. «Se vuole qualcosa
da Sherlock stia pur certo che non le sarò d’aiuto.» disse poi.
L’uomo
alzò un sopracciglio. «Sherlock?» chiese vagamente sorpreso.
Alice
cominciò a sentire il cuore batterle forte nel petto, mentre un vago
presentimento cominciava a farsi strada nella sua
mente. «Chi è lei?»
L’uomo
si staccò dalla parete e fece qualche passo verso di lei. «È buffo.»
Alice
indietreggiò senza volerlo. «Che cosa?»
«È
buffo...» ripeté l’uomo, «come io conosca te e come tu
conosca me, senza eppure esserci mai incontrati.»
Alice
ebbe un tuffo al cuore ma si impose di mantenere la
calma. «Io la conosco?»
L’uomo
la ignorò. «Sei giovane... Quanti anni hai?» chiese
invece.
«Abbastanza.»
rispose seccata.
L’uomo
sorrise divertito. «Hai un bel caratterino... Devo
ammettere che non è stato facile trovarti. Ma ho un po’ di contatti
dappertutto, è alla fine ci sono riuscito.»
Alice
sentì ogni speranza abbandonarla.
«Maybe.»
Deglutì
a fatica. Quel nome. Aveva sperato di non doverlo mai più sentire. Strinse i
pugni come a infondersi coraggio e respirò a fondo. «Con chi ho
l’onore di parlare?»
L’uomo
fece un passo avanti e le tese una mano. «James Moriarty, per gli amici Jim.»
Per un
attimo Alice sentì le gambe cedergli. Non strinse la sua mano, non mosse un
muscolo, mentre nella testa cominciavano a vorticarle mille pensieri.
Conosceva
quell’uomo. Oh, se lo conosceva... Nessuno come lei
poteva fare a meno di conoscerlo. Ritrovarselo davanti, sapere chi era, fu come
un secchio di acqua gelida in una giornata afosa d’estate.
Era
finita. La vita di Alice Moffat era finita.
«Che
cosa vuole da me?» fu l’unica cosa che le riuscì dire. Si stupì del flebile
sussurro che le era uscito, un sussurro debole, quasi
stanco.
Moriarty
ritrasse la mano divertito e sogghignò. «Ma mi sembra abbastanza ovvio... O no?»
Alice
sbuffò infastidita.
«Ho bisogno
di una donna dotata e senza scrupoli, sicura di sé e prudente. Mi hanno parlato
molto bene di te. So cosa sei in grado di fare e ho
bisogno del tuo aiuto.»
Alice
si passò la lingua tra le labbra. Ormai non aveva più scampo, e lo sapeva, ma
qualcosa le diceva che era meglio tenere la testa
alta. «E cosa le fa pensare che la aiuterò?»
Moriarty
fece un gesto d’impazienza con la mano. «Suvvia...
Accetta e basta. Risparmieremo una gran quantità di tempo.»
«Io non
ho fretta.»
Moriarty
la squadrò. «Te lo sto chiedendo con le buone... Se mi conosci, e mi conosci,
sai a che cosa posso arrivare.»
Alice
incrociò le braccia al petto. «Sì, lo so. Ma non vedo che cosa posso perderci.»
«Capisco...» Moriarty fece qualche passo avanti e indietro,
congiungendo le mani dietro la schiena. Poi si fermò. «Mettiamola
così. Se non farai ciò che ti chiedo, qualcuno potrebbe farsi veramente male.»
Alice
annuì. «Per esempio?»
L’uomo
tornò a osservarla. «Per esempio... Come hai detto che
si chiama?» Tirò fuori un cellulare dalla tasca interna della giacca e dopo
aver digitato qualcosa sullo schermo glielo mise davanti agli occhi.
Le
braccia della donna caddero deboli lungo i fianchi mentre il suo volto assumeva
un’espressione sconcertata.
Nel
piccolo schermo si vedeva chiaramente l’interno di una stanza che Alice
conosceva molto bene. Un uomo alto avvolto in un cappotto blu scuro camminava
avanti e indietro per la stanza, i riccioli castani che volteggiavano intorno
al viso pallido e affilato.
«Sherlock»
sussurrò poi con voce roca.
Sentì
Moriarty ridacchiare trionfante. «Come vedi ti ho
tenuto d’occhio per un po’. Questa è un’immagine in tempo reale. Lì vicino c’è
un mio carissimo amico che può sparargli un bel colpo in testa se tu non farai
come ti chiedo.»
Alice
sentì la rabbia montargli dentro. «E che cosa le fa pensare che mi importi qualcosa di lui? È soltanto il mio coinquilino...»
Moriarty
rise. «Vuoi prendermi in giro?»
Alice
si arrese e abbassò lo sguardo.
L’uomo
ritrasse il cellulare e se lo rimise in tasca. «Andiamo...
Cos’è quell’aria afflitta? Sarà divertente, te lo prometto. Ciò che farai in
mia compagnia non sarà minimamente paragonabile a quei piccoli lavoretti che ti
lasciano i servizi segreti.»Si infilò
le mani in tasca e la guardò con aria divertita.
Alice
sospirò rassegnata.
«Se
farai la brava bambina alla fine ti lascerò andare e
potrai tornare da questo tuo... Sherlock.»
«Non è
il mio Sherlock e non sono una
bambina.»
«Come
siamo suscettibili...» Allungò per la seconda volta
una mano verso di lei. «Allora siamo d’accordo? Io non
farò del male al tuo amico e tu farai
tutto ciò che ti chiedo.»
Alice la strinse con tutta la forza
che la rabbia riusciva ad infonderle. «Accetto.»
sibilò tra i denti.
***
Alice
varcò la porta del laboratorio come in sogno. Si fermò appena dopo la soglia e
fissò l’uomo seduto sullo sgabello chino sul microscopio.
Lì
tutto era iniziato e lì tutto sarebbe finito.
Sentì
una morsa stringerla all’altezza dello stomaco mentre faceva qualche passo
avanti.
«Il tizio dei
messaggi è stato preso. Era l’ex marito della signora Harrison, infuriato perché
si era risposata. Quei messaggi erano semplici minacce. Il signor Harrison non
ha fatto una bella fine, però... La signora si è salvata per un pelo.» Sherlock parlò con la sua voce distaccata senza alzare lo
sguardo dal proprio lavoro.
Come
sempre. Tutto era normale, come era sempre stato.
Alice
rimase a osservarlo senza muoversi.
Alla
fine Sherlock alzò lo sguardo, sorpreso che la donna non avesse ancora parlato
ma dopo aver notato l’espressione di alice socchiuse gli occhi e si alzò. «Cosa è successo?»
Alice
sorrise debolmente e abbassò lo sguardo, incapace di guardarlo negli occhi.
Quando lo rialzò aveva gli occhi lucidi. «Avevi ragione.»
disse poi, sorprendendosi della voce chiara e del tono sicuro con cui aveva
parlato. «Le emozioni sono una debolezza per l’uomo, e avere degli amici è
solo una grande seccatura.»
Sherlock
si bloccò, un velo di sorpresa sul volto.
Alice
sorrise e annuì tra sé e sé.
Sherlock
sembrava in difficoltà. «Che cosa è successo?» ripeté.
Alice
distolse ancora lo sguardo e si ficcò le mani nelle
tasche della giacca, stringendole poi a pugno. «È
successo ciò che tuo fratello aveva predetto. Avrei dovuto dargli ascolto.» Respirò a fondo.
Sherlock
parve capire e rimase completamente immobile.
«Sono
venuta a salutarti...» continuò Alice fissando un
punto impreciso del muro di fronte a sé.
Sorrise
nuovamente e si strinse nelle spalle. «Ma forse tutto sommato avrei anche
potuto evitarlo.» Tornò a guardare il detective che la
osservava impassibile. Si diede della stupida per aver anche solo sperato in
una sua reazione.
Non
seppe neanche dove trovò la forza per fare quello che
fece. Prese un altro respiro profondo e gli si avvicinò. Si alzò sulla punta
dei piedi per avere il suo viso alla sua altezza e gli diede un leggero bacio
sulla guancia, poi si staccò e tornò verso la porta. Lì si girò ancora una
volta a osservarlo. «Addio Sherlock.» mormorò, le parole che facevano fatica a
uscirle dalla gola.
Indugiò
solo qualche altro secondo, poi gli voltò definitivamente le spalle e se ne
andò.
Passarono
vari minuti prima che Sherlock riuscisse a riprendere il controllo di sé stesso, e ne passarono il doppio prima che riuscisse a
riacquistare una certa lucidità. Fissava ancora la porta che Alice si era
chiusa alle spalle. Per la prima volta in vita sua sentì la terra mancargli
sotto i piedi e avvertì il bisogno di sedersi.
Quando
Mycroft comparve sulla porta di Montague Street, quella
sera, lo trovò seduto nella poltrona a fissare il muro davanti a sé. A nulla
servirono le parole rabbiose di Mycroft, le urla e le accuse su ciò che era
successo.
Sherlock
quel giorno non sentì nient’altro al di fuori di quelle parole che continuavano
a rimbombargli nella testa: «Addio
Sherlock.»
Note:
Caso di
Sherlock ispirato al racconto di Arthur Conan Doyle “L’avventura
degli omini danzanti.”
La
donna uscì dal supermercato con una sola busta di plastica, contenente una
bottiglia di latte, in mano. Si guardò intorno appena in tempo per vedere l’autobus
che ripartiva a tutta velocità lungo la via. Con un sospirò
di delusione si accasciò sulla panchina della fermata preparandosi ad aspettare
la corsa successiva con più di venti minuti d’attesa. Julie l’avrebbe uccisa.
«Mary Morstan?»
La
donna sobbalzò e si voltò di scatto verso l’uomo che le aveva parlato, appoggiato
con aria indifferente al cartello degli orari.
Spalancò
gli occhi e la bocca in un muto cenno di orrore.
«Beh,
direi di sì.» L’uomo ghignò malevolo.
Mary
emise un verso strozzato e fece per alzarsi ma le gambe non la ressero e
ricadde seduta. «Ma-ma... Lei è... M-morto...»
«Non più.»
***
Quando
John rientrò nel laboratorio trovò tutt’altra
situazione ad aspettarlo di quella che aveva lasciato poco prima.
Sherlock
era in piedi e fremeva per l’impazienza, mentre Alice e Freeman confabulavano
poco lontano.
John
gettò un’occhiata al detective con una muta richiesta. Sherlock non aspettava
altro. «THE!» esclamò. Gli si avvicinò di slancio con gli occhi che brillavano.
«THE! Tower Bridge, HistoryMuseum, London Eye! Le parole chiave sono Tower,
HistoryeEye!»
John
sorrise all’entusiasmo dell’altro: non avrebbe mai pensato di poter rivivere un
momento del genere e finalmente capiva quanto fosse in realtà felice di
rivedere il suo migliore amico.
«Abbiamo una
parte dell’enigma! Ora non ci resta che decifrare il resto…»
«Sì
ma…»
«Bene.»
li interruppe Alice, felice come se non fosse successo niente durante il suo
breve colloquio con John, tanto che il medico si chiese se non fosse stata
tutta una messa in scena. «Io e Martin andremo a
cercare di stanare Moriarty prima che dia fuoco alla ruota panoramica, voi
pensate a risolvere il codice.»
Sherlock
spostò lo sguardo da John ad Alice ma quest’ultima si stava già preparando per
uscire. Per un attimo John incrociò lo sguardo con quello della donna, la quale
gli rivolse un debole sorriso complice. Poi Alice uscì, salutando con un
allegro «Buona fortuna!»
Anche Molly
si dileguò subito dietro di loro con la scusa di aver bisogno di una dormita.
Alla
fine la porta si richiuse con un tonfo secco e John e Sherlock rimasero soli. Subito
calò un silenzio imbarazzato. Solo dopo qualche minuto John si azzardò a
romperlo: «Allora…»
«John.»
lo interruppe l’altro. Si guardarono l’un l’altro.
«Stavo…»
«Mi
dispiace…»
«No,
davvero…»
«Volevo
solo tenerti fuori.»
«Lo
so.»
Di
nuovo silenzio, ancora più insopportabile di prima.
«Sono
passati solo tre mesi…»
«Tre lunghi mesi in cui ho pensato che non
ti avrei mai più rivisto.» sottolineò John.
Sherlock
distolse lo sguardo. «Alice ti ha detto tutto.»
«Anche
fin troppo.» John fissò i lividi sul suo volto, poi spostò lo sguardo sui fogli
sparsi sul tavolo. «Forse è meglio se diamo un’occhiata a
questo enigma. Sono già le tre e mezza, fra poco
avremo l’esplosione.»
«No.»
La risposta di Sherlock fu secca. «Voglio sapere se è tutto ok.»
John
sospirò. «Per il momento è tutto ok, Sherlock, almeno
per me. Forse dovresti fare questa domanda a qualcun altro…»
Il
detective lo guardò storto.
John
sentì un cupo rossore invadergli le guance. Distolse lo sguardo e picchiettò
sul tavolo con le dita. «Quanto ti importa veramente
di me, Sherlock?» Sputò tutto fuori prima che qualcosa potesse bloccarlo.
Voleva chiarire le cose, e al più presto.
Sherlock
parve confuso. «Che cosa intendi?»
John
fece un sospiro profondo cercando di darsi una calmata, ma non servì a niente:
ora era ancora più imbarazzato. «Hanno… hanno sempre parlato molto…» deglutì,
«La gente ha sempre parlato tanto… chissà che cosa si sono detti su… su di noi.»
Sherlock
sembrò veramente capire dove voleva arrivare. «Io non…»
«Una
volta mi hai detto che non hai mai avuto una ragazza[1]…»
Sherlock
si ammutolì.
«Penso
che tu mi abbia mentito.» continuò John, desideroso di concludere.
«Non ti
ho mentito…»
«Lo hai
fatto per metà.» John lo fissò negli occhi azzurri. «Forse non l’avrai mai
avuta una ragazza, cioè… forse non l’avrai mai baciata, o non ci sarai mai
andato a letto o qualsiasi altra cosa che fanno normalmente due ragazzi che
stanno insieme, ma…» deglutì, «ma l’hai avuta sotto il
naso per anni, e te ne sei innamorato. Forse tu non l’hai capito ma io sì. Ho
visto come la guardi, ho visto la tua espressione di
terrore quando è stata ferita al museo. Forse ho anche capito perché non hai
mai accettato un invito a cena dalla Adler…»
Sherlock
aprì la bocca per ribattere ma John lo anticipò. «Dimmi che è così, Sherlock, o
se no c’è solo un’altra spiegazione plausibile e… per quanto io
ti voglia bene, Sherlock, no…». Ormai era rosso come un pomodoro troppo maturo.
Sherlock
sorrise.
«Cosa
c’è?» sbottò John, irritato.
«Sei in
imbarazzo John…»
«Ovvio che lo
sono! Idiota…»
Sherlock
scoppiò a ridere. «Pensavo che lo avessi capito…»
John
ebbe un tuffo al cuore.
«Sei
stato l’unico vero amico che io abbia mai avuto…»
John
non capì, ma lo avrebbe fatto in seguito.
In quel
momento squillò il cellulare di Sherlock il quale si affrettò a mettere il
vivavoce. «Pronto?»
«È
esplosa una cabina della ruota, non chiedermi come, Holmes. Novità con
l’enigma?»
Sherlock
scambiò una rapida occhiata con John. «No.»
«Bene,
vedi se questo ti dice qualcosa: 101222102202111021121022»
Sherlock
si affrettò a trascrivere le cifre su un foglio.
«Sono
stati trovati dentro una scatola di metallo tra i resti della cabina.»
«Devo
pensarci…» commentò il detective e John capì subito che aveva già cominciato da
come leggeva velocemente il numero muovendo gli occhi.
«Bene,
troviamoci a casa del dottore tra venti minuti. Alice si è fatta viva?»
Sherlock
distolse lo sguardo dal foglio. «Non era con te?»
Freeman
sbuffò dall’altra parte. «Dannata donna! Si sarà
cacciata da qualche parte… provo a chiamarla.» e
chiuse la comunicazione.
Meno di
mezzora dopo varcavano la soglia della casa. Lestrade era già lì, accompagnato
dalla fedele Sally Donovan, e c’erano anche Molly, agitata, e alcuni agenti dei
servizi segreti. Neanche a distanza di un minuto arrivò Freeman, accompagnato
da altri agenti. Quelli già presenti si rivolsero al loro superiore. «Non
l’abbiamo trovata… si è volatilizzata…»
«Dove
cazzo si è andata a cacciare?» esclamò l’uomo,
furioso. «Al cellulare non risponde. È sparita nel
nulla appena dopo l’esplosione!»
John
guardò Sherlock, sconcertato, ma il detective non sembrava essersi accorto
della discussione in corso. Osservava attento le cifre sul foglio.
Dopo l’ennesima
volta che provava a chiamare Alice, Freeman si arrese. «Allora?
L’enigma?»
Sherlock
non lo degnò di uno sguardo mentre parlava. «Voglio
più foto possibili su Trafalgar Square, Tower Bridge, HistoryMuseum e London Eye. Sul tavolo
di cucina!» ordinò, per poi muoversi verso la stanza. Ma si bloccò a metà strada.
Dal
divano Molly mandò un gemito strozzato.
Solo in
quel momento John si accorse che la donna stava guardando il notiziario in tv.
Alzò velocemente il volume mentre tutti i presenti si avvicinavano. Moriarty
era di nuovo lì, sorridente.
«Buonasera
Londra! Come se la passa la mia città preferita?»
John lo
fissò inorridito.
Moriarty
arricciò il labbro compiaciuto. «Siamo alla fine ormai… un ultimo, piccolo,
sforzo.» sorrise alla telecamera.
Freeman
cominciò a parlare freneticamente al cellulare ma nessuno gli diede retta.
«Ma prima di continuare lasciate che vi dia un piccolo
incentivo… di sicuro non vi lascerò tutto il tempo del mondo!» si spostò verso
destra e la telecamera mise a fuoco qualcosa dietro di lui.
John
sentì la rabbia montargli dentro, insieme al terrore.
Lì,
legata e imbavagliata ad una sedia, pallida e
tremante, c’era niente di meno che «Mary!» gemette inorridito.
I
presenti si voltarono verso di lui. Sherlock incrociò il suo sguardo, stupito.
«Mary… la mia ragazza!» esclamò John, ora verosimilmente
agitato. Tornò a guardare lo schermo, frustrato.
Moriarty
rise. «Questa bella ragazza ha bisogno di essere
salvata! Oh, oh, oh…» le si avvicinò e la accarezzò
lentamente sulla testa. Poi tornò a voltarsi verso l’obbiettivo.
«Allora… ancora non ti sei deciso a venire allo
scoperto, eh? Hai per caso paura?»
John
vide con la coda dell’occhio Sherlock serrare la mascella.
«Mi
rivolgo ovviamente a te, Sherlock Holmes!» esclamò Moriarty. Rise ancora, in un
modo che faceva accapponare la pelle. «Avanti… credevi forse che ignorassi il fatto che sei vivo?» Tornò serio, mentre tirava
fuori un cellulare dalla tasca. «Pensavi forse che mi sarei ucciso senza
accertarmi che morissi anche tu?» Sventolò il cellulare davanti alla
telecamera. «No… è giunta l’ora. Fai vedere al mondo cosa sei in grado di fare… fatti sentire… fai
sapere al mondo che sei vivo!»
Con la
mano libera tirò fuori una pistola dalla tasca e la puntò contro la povera
donna che lanciò un gridolino strozzato.
«Ti do dieci
secondi. Chiamami, Sherlock, il numero è questo.
Voglio sentire la tua voce…» Alcune cifre comparvero
alla base dello schermo. «Se non lo farai…» rise, «Beh, sai qual è la risposta.»
John si
guardò intorno, cercando di mantenere la calma. Sherlock aveva cominciato a
camminare avanti e indietro.
«Dieci,
nove,…» iniziò la voce di Moriarty.
John
afferrò il proprio cellulare e compose il numero velocemente.
«sette,
sei, cinque,…»
Premette
la cornetta verde e lo lanciò al detective che lo afferrò al volo con una certa
riluttanza.
«Quattro, tre,…»
“One, Two, Three, Four
Can I have a little more?
Five, Six, Seven, Eight, Nine, Ten
I loveyou.
A, B, C, D
Can I bringmy friend to tea?
E, F, G, H, I, J
I loveyou.
Sail the ship, Jumpthetree
Skip the rope,
Look at me
Alltogethernow....”
Un sorriso si allargò sul volto di Moriarty mentre
lasciava che la canzone riempisse il silenzio. «Sei fortunata cara…» mormorò a
Mary, poi mise il vivavoce al cellulare e rispose.
«Smettila.» La voce di Sherlock rimbombò nella
stanza, in contemporanea con quella vicino a John.
Mary sussultò e John immaginò migliaia di altre
persone in tutta Londra avere la stessa reazione.
«Smetterla? E perché mai
Sherlock? Non ti stai divertendo?»
Sherlock deglutì. «Hai giocato abbastanza Moriarty.
Non è divertente.»
Moriarty scosse la testa. «Sì,
hai ragione… le cose cominciano a ripetersi, non è vero? Io che rapisco, ti
minaccio, tu che risolvi, arrivi, salvi…» Si fermò e
sospirò falsamente triste. «Ma basta, oggi finirà
tutto, te lo prometto. Risolvi l’enigma e scopri dove
mi trovo. Raggiungimi, ti aspetto. Vieni diciamo per le… sei? Sì le sei vanno
bene… Solo tu e il tuo amico John, nessun altro. Azzardati a portare qualcun
altro e io la uccido.» disse, rivolgendo un cenno alla
ragazza. «Noi finiremo il nostro gioco, mentre il
mondo rimarrà a guardare. Accetti la sfida?» chiese,
mentre con la canna dell’arma accarezzava una guancia della donna.
John si sentì ribollire di rabbia e lanciò
un’occhiata colma di rabbia a Sherlock.
Il detective lo guardò tristemente, poi tornò a guardare Moriarty. «Non credo di avere molta scelta…»
Moriarty sorrise. «Ti aspetto…» e con un gesto
teatrale spense la comunicazione, mentre lo schermo si faceva un attimo buio
per poi tornare a trasmettere le notizie. La giornalista era terrea in volto e
ricominciò a parlare con voce tremante, ma non sentirono altro perché Molly
spense la televisione.
Sherlock, spazientito, gettò a John il cellulare. «Voglio quelle foto.»
Originariamente questo capitolo era un
papiro lungo il doppio ma alla fine ho deciso di spezzarlo in due parti. Era
veramente troppo lungo xD
Approfitto di questo spazietto per
ringraziare di cuore tutti coloro che stanno leggendo, seguendo, preferendo,
ricordando e anche recensendo questa storia. Non siete molti ma siete il mio
piccolo pubblico e a voi dedico questo capitolo :)
Detto questo vi auguro una buona
lettura e vi saluto a martedì, quando finalmente scopriremo la soluzione
dell’enigma!
Gage.
HACKER
CAPITOLO XIII
Passato - Consulente Criminale (parte I)
Consulente criminale, questo era Moriarty, e Alice
ebbe modo di scoprirlo con i suoi stessi occhi. Se all’inizio Moriarty le aveva
detto che si sarebbe servita di lei per svolgere alcuni lavori, di certo Alice
non avrebbe mai immaginato quello che ora si ritrovava effettivamente a fare.
Ben presto Moriarty si era rilevato non bisognoso di
una dipendente, ma bensì di un’assistente. Aveva alla fine capito cosa
intendesse l’uomo quando le aveva detto «Ho
bisogno di una donna dotata e senza scrupoli, sicura di sé e prudente.»
Nel giro di un anno si era ritrovata faccia a faccia
con criminali di ogni nazionalità e genere: aveva parlato con assassini,
cecchini, ladri, scassinatori e un’infinità di altra gentaglia, dai più grandi
ambiziosi con l’obbiettivo di svaligiare banche di stato ai più sciocchi con
piccole scaramucce famigliari. E nel giro di poco tempo si era resa conto di
quanto fosse vasta e intricata l’organizzazione che James Moriarty era riuscito
a costruire. Era arrivata alla conclusione che anche lei era stata
involontariamente sotto il suo comando qualche volta, nel suo passato, e ne era
rimasta stupefatta e ammirata. Moriarty era decisamente il miglior criminale
che avesse mai conosciuto e incontrato. In un certo senso era lusingata di aver
avuto l’onore di essere stata scelta come suo braccio destro: perché alla fine
era questo che era diventata, il braccio destro di James Moriarty.
Lei si preoccupava di procurarsi varie identità e di
falsificarle, in modo che potessero girare per il mondo indisturbati, e veniva
contattata da chiunque volesse ricevere un aiuto da Moriarty
nell’organizzazione delle proprie truffe. Il bello era proprio il fatto che
quasi tutti lo conoscevano di nome, ma nessuno avrebbe mai saputo dire chi
fosse o dove si trovasse. Moriarty era come un ragno al centro di una ragnatela
i cui fili si diramavano in varie direzioni. Aveva collaboratori e conoscenze
dappertutto e Alice aveva modo di immaginare che se mai un giorno sarebbe stato
accusato da qualcuno, non sarebbe mai finito di fronte alla giustizia. Moriarty
era semplicemente un genio, un genio del male.
Alice alzò lo sguardo dal giornale che stava leggendo
per posarlo sull’uomo che si era appena seduto al suo fianco. Si trovava in un
bar poco fuori Londra, seduta comodamente su una sedia di plastica, una tazza
di caffè finita appoggiata sul tavolino.
L’uomo la squadrò, forse tentando di scoprire qualcosa
di più sul suo volto, nascosto sotto un cappello a tesa larga. Alice ghignò e
si calcò più a fondo l’indumento in testa.
L’uomo era anziano, con radi capelli bianchi che gli
sfuggivano dal cappello di maglia dello stesso colore grigiastro del maglione
largo e consunto che portava addosso. Aveva un paio di occhiali che
ingrandivano gli occhietti piccoli e acquosi, che si sistemò sul naso. A prima
vista assomigliava molto a un gigantesco topo.
«Lei è la signorina Vertue[1]?»
Alice fece una smorfia divertita. «Arrivi al punto.»
L’uomo si agitò lievemente sulla sedia. «Mi pagherete
per uccidere delle persone?»
Alice annuì. «È ciò che le abbiamo chiesto.»
L’uomo sembrò calmarsi un poco. «Solo quelle che
chiederete voi?»
«Solo quelle.»
L’anziano si grattò il naso nervosamente. «Allora
accetto.»
Alice piegò il giornale e lo gettò sul tavolo insieme
a un paio di monete per il caffè. Poi si alzò.
L’uomo la seguì a ruota. «Ma chi è questo Moriarty?»
Alice non rispose, chinando la testa in un cenno di
saluto per poi avviarsi lungo la strada.
L’uomo
si strinse nelle spalle e si avviò nella direzione opposta, verso un taxi
parcheggiato poco lontano.
***
Un anno. Era passato un anno dall’ultima volta che
aveva visto Alice Moffat. Non aveva dimenticato un singolo istante di quel loro
ultimo saluto, non lo aveva dimenticato e ciò non gli piaceva. Si era
ripromesso di dimenticare qualsiasi cosa non gli fosse utile, e invece quel
pensiero continuava a venir fuori nei momenti più inopportuni. E ciò non andava
per niente bene.
Senza considerare il casino in cui si era andato a
ficcare. Già la sorveglianza di Mycroft era abbastanza stressante, figurarsi
dopo quello che era successo. Si era pentito amaramente di quello stupido
esperimento. Perché quello era stato un esperimento: quella dose di troppo che
aveva rischiato di ucciderlo, era stato un esperimento. Ma sapeva quello che
invece pensava Mycroft, il fratello incolpava Alice di tutto ciò che era
successo. Era adirato perché gli era sfuggita sotto il naso e non poteva fare a
meno di incolparla per tutto ciò che gli passava per la mente.
Come se Sherlock potesse aver cercato di uccidersi per
colpa di una donna. A volte stentava a credere che Mycroft fosse suo fratello:
si conoscevano veramente poco per essere considerati tali.
«Mi chiedevo se ti andasse una tazza di caffè...»
«Nero con due zollette, grazie. Vado di sopra.»
Salì velocemente gli scalini che portavano al
laboratorio di chimica e dopo aver attaccato il cappotto dietro la porta andò a
sedersi al lungo tavolo. Cominciò ad armeggiare con le pipette, fino a quando
la porta del laboratorio non si aprì. Alzò lo sguardo pensando che fosse Molly
con il caffè, ma dai due battenti entrò Stamford accompagnato da un altro uomo
che non conosceva. «Molto diverso dai miei tempi...»
Distolse subito lo sguardo mentre la sua mente
cominciava ad elaborare le informazioni.
Abbronzato. Postura
tipica militare. Capigliatura militare. Porta bastone. Dai miei tempi... Medico
militare?
Bastone. Non chiede
di sedersi, sembra essersene dimenticato. Possibile malattia psicosomatica.
Accompagnato da
Stamford.
Prese un profondo respiro. Gli stava presentando un
possibile coinquilino?
Qualcosa che ancora non sapeva definire lo fece subito
pensare a quel lontano giorno. Stesso posto, quasi stessa ora; stessa
situazione. Era incredibile quanto gli eventi si ripetessero sempre uguali, un
cerchio perfetto.
Deglutì mentre scacciava con rabbia il pensiero di
Alice.
Lei
non esisteva più per lui. Lei se ne era andata. Lei era diventata inutile.
***
«Morto.»
«Morto?»
«Morto.»
Moriarty si massaggiò il setto nasale con una smorfia
di disappunto. «Ancora un’altra e lo faccio fuori.»
Alice rabbrividì. «E a quel punto potrò andarmene.»
Moriarty gli lanciò un’occhiata. «Per quanto reggerai
ancora il gioco “non mi importa niente del mio ex fidanzato”?» Si alzò e
cominciò a camminare per la stanza mentre Alice borbottava qualcosa sul fatto
che non era il suo fidanzato.
«In fondo non scegli male le tue compagnie... Mi ero
sbagliato.»
Alice non rispose, spostando lo sguardo ai suoi piedi.
«Sherlock Holmes. Suona bene... Sherlock Holmes.»
Continuò a ripetere quel nome sottovoce, al ritmo del proprio passo.
Alice sospirò. Possibile che dovesse cacciarsi sempre
nei guai quell’uomo? Cominciava a pensare che Mycroft avesse ragione a volerlo
tenere sotto sorveglianza. Anche se cercava di non darlo a vedere a Moriarty
temeva per quello che quest’ultimo avrebbe potuto fargli. Finché il consulente
criminale la teneva sulle strette però, era impossibile che lei riuscisse ad
aiutarlo in qualche modo. Non se lo sarebbe mai perdonata se gli fosse successo
qualcosa.
Moriarty si fermò. «Ancora una ed entrerò in azione.»
Alice strinse i pugni. «In tal caso non credo che ti
aiuterò. Avevamo un patto...»
L’uomo la guardò. «Non mi aiuterai se vorrò
ucciderlo... Ma non ho intenzione di mettere fine alla sua vita così presto, oh
no! È il primo che trovo alla mia altezza... Lo metterò alla prova.» Concluse
con un ghigno.
Alice
si rilassò un poco. Ancora una Sherlock.
***
Sherlock entrò in casa, attaccò il cappotto dietro la
porta della sua stanza e tornò in salotto. Guardò le foto e i suoi vari appunti
attaccati alla parete.
Un codice basato sulla guida di Londra... Una cosa a
dir poco geniale. Era arrivato appena in tempo per evitare una tragedia: John
non glielo avrebbe mai perdonato se fosse successo qualcosa a Sarah.
Decise che avrebbe dovuto allenarsi un po’ di più nel
baritsu[2]: era già la seconda volta che riuscivano a prenderlo e per poco non
lo soffocavano.
«Non avresti dovuto tirare in ballo Sarah.»
Sherlock si voltò e osservò John seduto stancamente
sulla sua poltrona. «L’hai invitata tu, John.»
«Era un appuntamento Sherlock... Possibile che... Ah.
Dimentico che non provi sentimenti. Perché non puoi avere una ragazza come
tutti?»
Alice.
Gli diede nuovamente le spalle e cominciò a staccare i
vari appunti dalla parete, tenendo le cose interessanti e buttando le altre in
un angolo. «Non ne ho bisogno.» disse poi a denti stretti.
«Sherlock!» John fece un verso spazientito.
Ma il detective non lo stava più ascoltando.
«Maledizione, Sherlock! Tutti, e sottolineo tutti,
hanno bisogno di svagarsi ogni tanto! E... ah...» John si passò una mano sulla
fronte. «Sarà una vera fortuna se Sarah deciderà di continuare a vedermi!»
Sherlock accartocciò tra le mani il foglio che teneva
in un lampo di rabbia e lo gettò per terra insieme agli altri. «Se evitava di
ficcare il naso nel nostro caso tutto questo non sarebbe successo.» disse poi.
John lo guardava incredulo. Poi scosse la testa.
«Inutile. Lascia perdere.»
Sherlock
sospirò e allontanò dalla mente il pensiero della vecchia coinquilina. Quello
non era proprio il momento adatto per pensarci, e lui non avrebbe dovuto
neanche farlo, tra l’altro.
***
«Ricordami, Alice, quante volte ancora doveva
intralciarmi?»
Alice strinse i denti e non rispose.
Moriarty si voltò a guardarla. Indicò con un cenno lo
schermo del computer dove fino a qualche secondo prima compariva il volto della
donna del fiore di loto. «Un’intera organizzazione andata distrutta. Questa
volta il detective ha esagerato.» Acchiappò una penna dalla scrivania e
cominciò a rigirarsela tra le mani.
«Cosa pensi di fargli?» Sospirò infine la donna.
«Un piccolo gioco di deduzione...» Rimase in silenzio
per qualche minuto poi balzò in piedi. «Contatta quel tizio dell’altra volta,
il dinamitardo. Lo voglio in linea nei prossimi dieci minuti. E mi servono
anche un paio di spie. Agili. Poi pesca a caso quattro numeri dall’elenco
telefonico. Saranno le nostre prossime vittime. Qual era il suo nuovo
indirizzo?»
«221B
Baker Street.»
***
John si svegliò di soprassalto. Respirò a fondo mentre
si guardava intorno. Era sdraiato su una panchina di legno in quello che
sembrava... Uno spogliatoio?
«La piscina.»
Sobbalzò nuovamente e si voltò verso la persona che
aveva parlato seduta poco distante da lui.
«Lo ha voluto Sherlock.»
John sentì un brivido freddo percorrergli la schiena,
poi abbassò lo sguardo su se stesso: aveva un cappotto sotto al quale uscivano
dei fili collegati a «Bombe?» Si sentì mancare.
La donna ridacchiò. «Oh, sì dottor Watson.
Preoccupato?»
John si morse un labbro e poggiò la nuca contro il
muro dietro di sé, cercando di mantenere la calma.
«Se farà esattamente quello che le verrà richiesto non
le succederà niente, glielo prometto. Vede, l’obbiettivo e far prendere un bel
colpo a Sherlock, niente di più.»
John deglutì e guardò la donna. «È a questo che è
servito il gioco di Moriarty? A spaventare Sherlock?»
La donna inclinò la testa osservandolo di sbieco.
«Dovete smetterla di investigare. È questo l’obbiettivo.»
John diede in una risatina nervosa. «Sherlock non si
fermerà.»
La donna giocherellò con il cellulare tra le mani. «In
tal caso dovremo uccidervi.» Sembrò pensarci su qualche secondo poi tornò a
guardare John. «Lo fermi, dottore. Ce la metta tutta per fermarlo. Sherlock non
sa a cosa va incontro.»
John la guardò curioso. Stava per dire qualcosa quando
una voce venne dalla piscina dietro la parete.
La
donna scattò in piedi e gli fece cenno di alzarsi.
***
Moriarty varcò la porta dello spogliatoio e Alice tirò
un sospiro di sollievo. Dal punto in cui si trovava vide Sherlock togliere il
giubbotto imbottito di bombe al medico e poi seguire Moriarty nello
spogliatoio, per poi riuscirne sconcertato.
Alice stava per andarsene quando una porta sbatté e
Moriarty ricomparve.
Il cuore cominciò a batterle forte nel petto mentre
ritornava sui propri passi.
«Scusatemi ragazzi, sono così volubile!»
Alice sentì la rabbia montarle nel petto mentre
prendeva il cellulare, ma si bloccò a metà gesto quando un pallino verde le
comparve all’altezza del cuore. Moriarty l’aveva imbrogliata. Avrebbe ucciso
Sherlock e lei non poteva fare niente per aiutarlo.
Vide il detective puntare la pistola verso il
giubbotto di bombe a terra vicino a Moriarty e capì che bastava un solo gesto
fuori luogo e sarebbero saltati tutti in aria. Si ritrovò a mordersi il labbro
freneticamente in cerca di una soluzione e in quel momento il suo cellulare
vibrò. Con il cuore in gola abbassò lo sguardo sullo schermo dell’oggetto che
teneva in mano e tirò un sospiro di sollievo.
Poco
dopo il cellulare di Moriarty risuonò nella stanza.
Note:
[1] Sue Vertue,
produttrice della serie.
[2] Il bartitsu è
un'arte marziale eclettica ed un metodo di autodifesa, sviluppato
originariamente in Inghilterra, ideato da Edward William
Barton-Wright, durante gli anni 1898–1902. Qui la pagina wikipedia ;)
L'uomo avanzò nell'ombra lentamente, carponi sul
pavimento, mentre la donna al suo fianco gemeva piano per il terrore.
Le fece cenno per l'ennesima volta di starsene zitta.
Al piano di sopra arrivavano attutite le voci concitate
della discussione in corso ma l'uomo non ci fece caso.
Si
guardò intorno e sorrise debolmente, poi si rimboccò le maniche e si preparò
all'azione.
***
E
alla fine, dopo tanti giri, erano ancora lì, nella stessa medesima situazione:
Sherlock scriveva, sparpagliava fogli dappertutto per la cucina; si arrabbiava,
si innervosiva e gettava tutto all’aria; spalancava
gli occhi quando gli arrivava un’illuminazione e si infuriava quando essa si
rivelava errata. E John era lì che guardava, insieme a
Molly e Lestrade, gli unici che il detective avesse accettato nella stanza. L’MI6 era andato chissà dove a preparare chissà cosa:
Freeman aveva solo borbottato qualcosa riguardo al “lo troveremo”, ed era
sparito oltre la porta insieme alla maggior parte degli agenti. Altri erano
rimasti in salotto, in una sorta di sorveglianza a Sherlock.
Il
gruppo riunito in cucina aveva il compito di comunicare immediatamente la
posizione di Moriarty non appena lo avesse scoperto.
Era
passata più di una mezzora del tempo lasciato da Moriarty e ancora non erano arrivati a capo di niente. O almeno, loro no, ma forse
Sherlock sì. Fu allo scadere della prima ora e all’ennesimo foglio
accartocciato da Sherlock che John intervenne. «Manca
solo un’ora Sherlock! Hai intenzione di renderci partecipi dei tuoi
ragionamenti così magari arriviamo alla conclusione di qualcosa?»
Sherlock
si passò una mano tra i capelli. «C’è qualcosa che mi
sfugge! Mi manca il filo conduttore, maledizione…»
«Che
cosa hai scoperto fin’ora?» mormorò John stancamente.
«THE. Non capisco… deve per forza far parte di una frase! Tre esplosioni…
tre luoghi, tre iniziali. THE…»
«Il
codice numerico di Trafalgar Square?» azzardò John.
«Sono sei numeri… 097109.»
«Cifre…
sono sei cifre che compongono un numero solo.» lo corresse
Sherlock con una punta di esasperazione nella voce.
John
lo ignorò. «Si ripete due volte 09, all’inizio e alla fine.» osservò, «La nona
lettera dell’alfabeto è… I. I…71 I. Significa qualcosa?»
Sherlock
sbuffò. «No, non funziona così. Deve esserci qualcosa…
maledizione!»
«Posso
provare a cercare un luogo di Londra con THE nel nome…» provò Lestrade.
Sherlock
si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro. «Non dobbiamo andare per
tentativi, deve essere qualcosa di logico!»
È la tua debolezza. Vuoi che
tutto sia intelligente.
Sherlock
sbuffò. Spostò lo sguardo su Lestrade, che guardava sconsolato il cellulare. Il
suo cellulare.
Alltogethernow!
È così noiosa... no? È qualcosa di piatto...
Attraversò in pochi
passi la stanza e gli prese il cellulare di mano, ignorando le proteste
dell’ispettore per i suoi modi bruschi. Cercò la registrazione nei file
multimediali e la fece partire.
I suoi passi sul
cemento. La porta che si apriva. One, Two, Three, Four, Can I have a little more? Five, Six, Seven, Eight, Nine, Ten, I loveyou.
Spalancò gli occhi.
«Che cos’è?»
I presenti lo
guardarono storto.
Sherlock sbuffò e
sventolò il cellulare, mentre Moriarty cominciava a parlare nella
registrazione. «Questa canzone! Che cos’è?»
Lestrade alzò un
sopracciglio. «Come che cos’è? È una canzone dei
Beatles… non la conosci? È famosissima!» esclamò.
«Beatles, Beatles,
Beatles…» ripeté Sherlock sottovoce come una cantilena. Fece
ripartire la canzone.
«One,
two, three, four, can I have…»
E Sherlock rise. «One, two, three, four. One,
two, three, four. Uno, due, tre, quattro. Uno,
due, tre, quattro. 1, 2, 3, 4!» Si girò verso
gli amici. «THE!» esclamò infine, puntando un dito sul foglio dove erano
appuntati i tre nomi dei tre luoghi di Londra. «THE!» esclamò nuovamente,
guardando gli amici speranzoso. Poi la sua espressione
diventò stupefatta, accorgendosi che gli altri non avevano capito quello che
aveva capito lui. «Andiamo… è
geniale! THE, sono tre lettere!»
Alle facce ancora
perplesse degli altri si spazientì. «Avanti… 1, 2, 3,
4! È stato sotto i nostri occhi fin da subito…
Appuntamento a Trafalgar Square per le 1 pm,
esplosione a Tower Bridge per le 2 pm, HistoryMuseum per le 3 pm e
London Eye per le 4 pm!
THE sono tre lettere…
quindi sono la nostra terza parte dell’enigma. THE
dovrebbe far parte di una frase, quindi è la nostra terza parola. Se funziona
così per tutte avremo una frase di quattro parole: la
prima composta da una lettera, la seconda da due, la terza da tre e la quarta
da quattro.»
Lestrade annuì con un
vago sorriso, mentre John rivolgeva la sua attenzione ai fogli sparpagliati sul
tavolo.
«Allora 097109 sarà la
prima parola della frase!» esclamò Molly.
Sherlock gettò
un’occhiata al tavolo. «No…» mormorò. Afferrò la prima busta che avevano consegnato a John. «Il primo messaggio che ci ha
lasciato… diceva di farci trovare a Trafalgar Square
per… no!» Aprì la busta di scatto e tirò fuori la lettera. «Diceva
al National Gallery! Perché dire lì e poi lasciare il
codice in Trafalgar Square? Le esplosioni sono avvenute dove era stato detto…» Scorse veloce le foto della
piazza che aveva richiesto. Erano prese da un po’ tutte le angolazioni:
una dall’alto, una dalla fontana di destra e una dalla fontana di sinistra. Poi
ne prese una, la guardò per qualche secondo corrugando la fronte e s’illuminò.
«Ma
certo!» esclamò. «Questa è stata scattata dal National Gallery,
no?» la mostrò ai suoi amici, che annuirono silenziosi.
«Se vi dicessi di
trovare una lettera, che cosa mi direste?»
John gli strappò la
foto di mano, guardandola poi attentamente. «Una lettera…» Corrugò
la fronte, scorrendo lo sguardo sulle fontane simmetriche ai lati della piazza,
la colonna dell’ammiraglio Nelson in mezzo, le case sullo sfondo e la
gente immortalata nella foto. «Aspetta…» mormorò. «È una I!»
esultò infine.
Sherlock annuì
soddisfatto. «La colonna è una I» disse, mentre
Lestrade e Molly si passavano la foto l’un l’altro sorridendo compiaciuti.
«A questo punto la seconda parola è
senz’altro una sola… ma andiamo con ordine.» continuò Sherlock. «I… THE…»
Afferrò un foglio e ci scarabocchiò sopra le cifre di Trafalgar Square.
097109
«Questo è il secondo indizio in ordine
cronologico, quindi corrisponderà alla seconda parola, che è di due lettere.
Sono sei cifre: se le lettere sono due, dividiamo le cifre in due gruppi.» E così dicendo tracciò una linea a separarle.
097 | 109
«Ma
Alice che fine ha fatto?» li interruppe Lestrade.
Sherlock sorrise. «Lestrade sei un genio! Esattamente come pensavo… anche se
avrebbe potuto essere ‘LL tutto sommato.»
Lestrade si accigliò.
«Che cosa avrei detto di tanto geniale?»
«ASCII, Lestrade,
ASCII…»
Molly sembrò
illuminarsi e si fiondò al portatile.
«ASCII è l'acronimo di American Standard Code for
Information Interchange. È un sistema di codifica dei
caratteri a 7 bit,
comunemente utilizzato nei calcolatori.» Spiegò Sherlock. «Ogni simbolo o
carattere corrisponde a un numero da 001 a 227.»
Molly andò un urletto di giubilo. «097 e 109 corrispondono a “a” e “m”
minuscole.»
Sherlock annuì. «Iam the…» Afferrò l’ultimo
codice. «Questo ci darà la risposta.»
John guardò la serie di cifre e si
sentì girare la testa. Avevano solo mezzora.
101222102202111021121022
«Sappiamo che sono quattro lettere…
queste sono ventiquattro cifre.» Scribacchiò su un
foglio.
24:4=6
101222 | 102202 | 111021 | 121022
«Potrebbe essere
ASCII…» notò Molly con discrezione ma Sherlock scosse la testa. «Non ha usato un metodo uguale per tutti. Dobbiamo solo
pensare e…» si bloccò. Poi rise ancora una volta. «Oh,
questo enigma!»
John si impose di darsi una calmata per evitare di tirargli un
pugno. «Allora?»
Sherlock balzò
nuovamente in piedi. «Moriarty ha una fissazione per
il tre! Sempre tre… I gioielli della corona, la prigione di Pantonville,
la banca di stato… Sono tre i crimini che l’hanno fatto conoscere al mondo. Tre
sono le buste per il gioco delle fiabe, tre le volte in cui è comparsa la
scritta IOU, composta a sua volta da tre lettere! Coincidenze? Tre cecchini,
tre vittime, ed è tornato dopo tre mesi!» Sorrise
trionfante. «È un codice a base tre!»
Quando gli altri non
sembrarono capire, a parte Molly, si affrettò a spiegare. «È un sistema di
numerazione a base tre, in cui vengono utilizzate solo
tre cifre. In questo caso sono 0, 1, 2. Ilnumero 3 in base
decimale corrisponderà al 10 in base tre, il 4 corrisponderà all’11 e così
via…» Riprese in mano il foglio, cancellando gli appunti di poco prima mentre
John guardava impaziente l’orologio pensando alla sua Mary. Che cosa le stava
facendo Moriarty?
Sherlock esultò. «È la quarta parola
quindi bisogna togliere un numero ogni quattro!»
101222102202111021121022
«Ora rimangono venti cifre che divise
per quattro lettere sono cinque cifre per ogni lettera…»
10122 | 10202 | 11021 | 11022
«…che in base decimale
vanno a dare i numeri 98, 101, 115, 116…» aggiunse
Molly, che si era già portata avanti mentre Sherlock spiegava a John e Greg.
Sherlock la guardò storto poi
confrontò i nuovi numeri ottenuti con la tabella ASCII.
b e s t
John osservò le lettere sconcertato.
«Iam the best…[1]» Sherlock ripeté quelle quattro
parole lentamente.
«Fantastico…» mormorò Molly.
«Tutto qui?» chiese
invece Lestrade. «E dove si trova Moriarty?»
Sherlock corrugò la
fronte. «Ci deve essere sfuggito qualcosa…» Ricontrollò velocemente tutto ciò
che avevano scritto, ricontrollò i calcoli, tutto
quello che avevano scartato.
Fu John ad
accorgersene, forse per l’ansia rivolta a Mary o per la voglia di rendersi
utile. «Sherlock…» mormorò, guadagnandosi un’occhiataccia dall’amico. John lo
ignorò e prese in mano il foglio dove avevano scritto
l’ultimo codice. «I numeri che hai tolto… 2, 2, 1, 2…
la B è la seconda lettera dell’alfabeto, no? 221B!
Moriarty è al 221B di Baker Street!» esclamò, a metà
tra la felicità di aver scoperto qualcosa anche lui e lo sconcerto.
Con sua grande
sorpresa Sherlock scosse la testa sorridendo. «I numeri sono quelli, è vero
John, ma la soluzione che hai dato tu è troppo
semplice…»
«Come troppo
semplice?» ribatté John irato.
«John… lo hai sentito? Un gioco per
menti geniali! Tu non sei un genio…»
John alzò un
sopracciglio esterrefatto ma Sherlock era già avanti con i propri pensieri. «Sherlock Holmes, James Moriarty e… e Alice. Siamo noi i
geni. E siamo in tre.» sospirò il detective. «È un
codice a base tre, di nuovo…» Svolse altri calcoli sul foglio.
2212
2x33
+ 2x32 + 1x31 + 2x30
54 + 18 + 3
+ 2
77
Molly, Lestrade e John
osservarono il numero che ne venne fuori, ma solo John sembrò non capire. «77?»
Sherlock si rabbuiò e
annuì piano. «77 Montague Street,
John…»
Lestrade scattò in
piedi e contattò Scotland Yard. Sherlock si lasciò
cadere sulla sedia, poi dopo qualche secondo si rialzò.
«Era il suo vecchio
indirizzo… quando abitava con Alice…» spiegò Molly a John con una punta di
tristezza nella voce.
Sherlock s’infilò il
cappotto e la sciarpa. «Andiamo?» chiese al medico che annuì suo malgrado.
Sentì una strana stretta allo stomaco
quando guardò l’espressione di Sherlock. Gettò ancora uno sguardo al 77, e improvvisamente capì. Ovunque Alice fosse finita, non
sarebbe andata con loro.
***
L’intero isolato era
stato circondato. Nessun civile aveva il permesso di accedervi, nemmeno gli
stessi residenti. Le case vicine erano state evacuate e gli abitanti spostati
negli alberghi vicini. Molti curiosi si erano appostati nelle strade attigue e
numerosi giornalisti si aggiravano nelle vicinanze con la speranza di qualche
esclusiva.
Le acque si erano agitate, e
parecchio, causando esattamente quello che voleva Moriarty: confusione,
incredulità e molta, molta pubblicità. Dappertutto ora non si parlava d’altro:
L’EROE DELLE
REICHNBACH FALL È TORNATO
FALSA MORTE
PER L’EROE DELLE REICHNBACH FALL
IL GENIO DELLE REICHNBACH FALL È
VIVO, DI NUOVO
erano solo alcuni dei titoli che
capeggiavano in tutti i notiziari.
La macchina nera si
fermò al nastro arancione che delimitava la zona controllata dalle forze
dell’ordine e John e Sherlock scesero.
Mancavano solo pochi
minuti alle sei del pomeriggio, e John continuava ad aprire e chiudere la mano
in un gesto che esprimeva tutta la sua preoccupazione. Se fosse successo qualcosa a Mary non se lo sarebbe mai perdonato.
Sherlock si sistemò la
sciarpa al collo e lisciò con le mani il lungo cappotto blu scuro, poi avanzò
nella strada deserta a passo felpato. John si mosse al suo fianco. «Mi sembra
quasi di essere il protagonista di Io sono leggenda…» mormorò. «Camminiamo in una strada deserta… non c’è nessuno. Solo noi
due.»
Sherlock gli lanciò
un’occhiata interrogativa.
«Lascia
perdere…»
Percorsero in silenzio
il lungo viale dove si affacciavano le villette
bianche. I numeri civici al loro fianco passarono senza che nessuno dei due
proferisse parola.
Alla fine fu Sherlock
a spezzare il silenzio, quando ormai avevano raggiunto il numero 50[2]. «Mi
dispiace di averti tirato in mezzo fino a questo punto…» sospirò.
«No che non ti
dispiace.» scosse la testa John in risposta.
Sherlock sorrise
beffardo. «Era un tentativo di…»
«Beh, lascia perdere. Voi Holmes non ne siete in grado. E poi…
dopo tutto quello che abbiamo passato insieme non mi
sorprendo più…»
Sherlock annuì mentre
sorpassavano il 55. «Mi dispiace per la tua ragazza…»
John strinse la mano a
pugno.
«È probabile che non ne usciremo vivi,
lo sai? O per lo meno io…»
John ridacchiò
nervosamente. «Giuro che se moriamo ti verrò a cercare all’inferno pur di
fartela pagare.»
«Dico sul serio, John. L’ultimo gioco…»
«No, non lo sarà. Hai già beffato la
morte una volta. Lo farai anche oggi.»
Sherlock abbassò lo
sguardo con un lieve sorriso sul volto.
Rimasero in silenzio
ancora qualche minuto, sempre avanzando passo dopo passo,
poi toccò a John spezzare il silenzio. «Nel caso questa fosse l’ultima volta
che posso parlarti… beh, volevo dire che sono veramente onorato di essere stato
il tuo unico amico, e soprattutto di essere stato l’unico a non sapere della
tua falsa morte.»
Sherlock deglutì.
«Avevi detto che…»
«Non posso dimenticare quello che ho
vissuto in questi mesi, Sherlock. Non lo dimenticherò mai.»
Sherlock sospirò.
«L’hai capito o no, alla fine?»
John lo guardò di
sbieco. «Che cosa?»
«Sei stato il mio
primo e unico amico John…» sembrava agitato e John si impietrì.
«Nel senso che non ho mai avuto amici prima di te…»
John ebbe
un’illuminazione, mentre avvistava il 77, ormai
vicino. «Quindi Alice…»
«Non era mia amica.»
«Né tua nemica…» John
annuì, mentre un peso gli si toglieva dallo stomaco. «Ora ho capito, sì.»
Si fermarono. La
targhetta sul cancelletto indicava il numero 77. John
prese un respiro profondo e aprì il cancello. Attraversarono il giardino in
silenzio e si fermarono di fronte al portone.
«Hai la rivoltella?»
chiese Sherlock.
John si batté una mano
sulla tasca della giacca.
«Buona fortuna John.»
Bussarono.
Dall’interno si
udirono dei passi e un tramestio di chiavi, poi la porta si aprì e John dovette
trattenersi per non lasciarsi andare preda alla rabbia.
«Buonasera Sherlock.»
Salutò Alice, un sorriso beffardo ad illuminarle il
volto. «E ciao John. Perfettamente puntuali. Facile
vero?»
Sherlock era
impassibile. «Un gioco da ragazzi.»
Alice scosse la testa.
«Un gioco per menti geniali.» Si spostò di lato e li lasciò entrare, poi
richiuse la porta dietro di sé. Fece loro cenno di salire la scala e John seguì
Sherlock sul primo gradino, Alice dietro di loro. Varcarono la porta e si
ritrovarono in una stanza, un salotto per la precisione. I mobili erano stati
accatastati tutt'intorno per lasciare spazio libero al centro della stanza,
dove Mary era legata alla sedia.
«Bentornato
Sherlock, bentornato a casa...» Moriarty era vicino
alla finestra e si girò verso di loro appena varcarono la soglia.
Sherlock
fece una smorfia. «È diversa da come la ricordavo...»
«Oh beh... Immagino. Per prima cosa Alice non è al tuo fianco. No? Ora c'è
John...»
Alice
girò loro intorno e affiancò Moriarty. Poi, con
estremo disgusto di John, Moriarty la avvicinò a sé e la baciò. Alice si staccò
e sorrise divertita. «Avevi detto niente umiliazioni, Jim...»
Moriarty
si voltò verso Sherlock e sorrise sprezzante. «Non
credo che a Sherlock importi molto. Guardalo, Alice,
non è più umano di un bastone di legno.»
John
avvertì Sherlock irrigidirsi al suo fianco. Era sicuro che gli importasse, e
molto, e questo non fece che accrescere la sua rabbia: Alice li aveva traditi,
presi in giro con il più sporco dei giochi.
«Vogliamo
concludere Moriarty?» disse Sherlock senza fare una
piega.
«Oh
sì, Sherlock, sì...» Si avvicinò ad
un tavolo dove un portatile era stato posto sopra una pila di libri. Ci lavorò
per qualche secondo, poi piegò lo schermo, regolandolo. «Eccoci
qui! All'epilogo di questa grande quanto intricata storia!»
esclamò, poi si spostò.
Con
grande orrore John si vide nello schermo: Moriarty li stava riprendendo in
diretta. Cosa aveva intenzione di fare?
«Sherlock Holmes e John Watson, di nuovo insieme, come tre
mesi fa. Uniti
contro il crimine...» stava intanto dicendo Moriarty.
John
strinse i denti per non cedere alla tentazione di saltargli addosso e prenderlo
a pugni. Poi i suoi occhi si spostarono verso Mary che lo fissava con gli occhi pieno di lacrime. Sapeva che cosa pensava: perché sei venuto, John?
«Allora
Sherlock... vuoi spiegare ai tuoi fan come hai risolto l'enigma?» continuò
Moriarty. Sembrava felice come un bambino nel giorno del suo compleanno.
Sherlock
esitò. «Lascia andare la donna...»
Moriarty
rise. «Oh no... E poi come ti faccio parlare? Anzi... Non voglio passare qui le ore.» Fece un cenno ad Alice, la
quale tirò fuori una pistola, caricò il colpo e la puntò alla testa di Mary,
che cominciò a piangere in silenzio.
Sherlock
deglutì. Poi, fissando Moriarty, cominciò a raccontare da come aveva scoperto
che le tre esplosioni andavano a formare la parola "the" a come
infine era arrivato all'ultima parola, "best".
«Iam the best... Già, già. Bello no?» Rise nuovamente. «Bene, bene... Hai qualcosa da
dire, Sherlock?»
Il
detective non rispose.
Moriarty
si girò verso la webcam. «Penso... Sì. Penso di poter
dare l'annuncio finale. Qualche mese fa pensavo... quale potrebbe essere la
fine ideale per delle menti geniali come le nostre, Sherlock?» Moriarty tornò a
guardare il detective e John si irrigidì sul posto.
Sherlock
lo scrutò attentamente senza rispondere.
«Non lo sai? Beh, dopo un po' di tempo mi è arrivata la soluzione... Mi
sono detto: perché fare che Sherlock si suicidi?
Certo, lui morirebbe nella vergogna, ma io poi che farò? Come morirò? Spararsi
in bocca... beh no, nessuno avrebbe mai saputo della mia grandezza.» Fece una pausa. «E poi la
soluzione... Un grande gioco che mi avrebbe reso famoso al mondo. Una semplice
frase che avrebbe espresso tutta la mia grandezza, un enigma che avrebbe espresso
tutta la mia genialità. Una fine che si sarebbero ricordati tutti per sempre...»
Afferrò
qualcosa dalla tasca e la mostrò nella webcam. «Una grande esplosione...»
Alice
sorrise e a un cenno di Moriarty guardò i due amici. «Il
sotterraneo della casa è riempito di esplosivo. Un semplice gesto...» indicò il pulsante che Moriarty teneva in mano, «...e
salteremo tutti in aria.» Alzò il mento e li guardò,
fiera. «Qualcosa di diverso dalle solite storie. Né
vincitori né vinti.»
Gli
occhi di Sherlock saettarono dalla donna a Mary. «Va
bene, va bene, moriremo tutti. Tutti e tre. Lascia andare John e la sua ragazza...» disse piano.
Alice
scosse la testa. «No, John morirà. Nessuno soffrirà
più per causa tua, Sherlock.»
John
sentì la testa girargli. Alice voleva che morissero tutti, voleva
che lui non soffrisse per un'altra morte del suo amico? Fissò Mary sconcertato. «Mary...» Guardò
Alice, supplichevole. «Lei non c'entra niente in tutto
questo. Lasciatela andare maledizione!»
Alice
lo guardò impassibile. «Mi dispiace, John.»
«Tutto
quello che ti ho detto è vero!» John spostò lo sguardo
verso Sherlock. «Non sono solo fantasie! Ti prego,
credimi...»
Alice
chiuse gli occhi.
John
si rivolse all'amico. «Maledizione, Sherlock! Digli
qualcosa!»
Ma il detective scosse la testa. «Basta John.» Guardò Alice. «Non ti
ascolterà...»
La
donna sorrise e fece un cenno a Moriarty, il quale la baciò ancora una volta.
Poi si staccò e cominciò il conto alla rovescia.
«Dieci,
nove...»
John
fissava Mary, incapace di fare alcunché. La donna lo
fissava di rimando, le guance bagnate da calde lacrime.
«...otto, sette...»
Sherlock
fissava Alice.
«...sei, cinque...»
Alice
guardò Jim.
«...quattro, tre...»
Trattennero
tutti il respiro.
«...due, uno.»
Note:
[1] “Io sono il migliore”. (Forse è
futile dirlo, ma non si sa mai…)
[2] I numeri civici si fermano al 24 se
non sbaglio. Immaginate di prolungare la strada xD
Un
ringraziamento a mio padre che mi ha aiutato con il codice, spiegandomi tutte
le varie trasformazioni tra sistemi di numerazioni ecc. Da sola non ci sarei
mai arrivata :)
Ci siamo, un capitolo ancora e la
storia finirà. Mi viene il magone
solo a pensarci :’(
Questo è ufficialmente l’ultimo
passato, seconda parte del precedente e… beh, si capiranno un po’ di cosucce. Mi
dispiace farvi aspettare per sapere come finirà la storia di Montague Street, ma, insomma, io vi avevo avvisato *evita
pomodori*
Detto questo
vi auguro (per l’ultima volta, la prossima metterò le note alla fine) buona
lettura :)
Gage.
HACKER
CAPITOLO XV
Passato - Consulente Criminale (parte II)
«Buongiorno.»
Alice squadrò la donna che le stava di fronte dalla
testa ai piedi, soffermandosi particolarmente sul cappotto blu scuro che
indossava. Poi si fece da parte per lasciarla entrare. «Abbiamo visite!»
esclamò.
Moriarty si affacciò dalla porta che dava alla sua
stanza con la camicia abbottonata solo per metà. Fissò la nuova arrivata con un
velo di sorpresa. «Adler...»
«Sono passata a fare un saluto.» Lo sguardo della
donna tornò su Alice che la osservava ancora. «E così tu saresti la famosa Maybe...»
Alice annuì impercettibilmente. «E lei la famosa Irene
Adler...»
«Colei che ha salvato Sherlock Holmes da morte
certa... Dovresti ringraziarla Alice...» Moriarty si
espresse in un ghigno sarcastico.
Alice lo ignorò e si rivolse a Irene. «Mi pare di aver
già visto quel cappotto...»
La donna sembrò divertita. «Oh sì, l’ho preso solo in
prestito... Non mi sembrava opportuno andare in giro per la città completamente
nuda.»
Alice si accigliò, mentre Irene si girava verso
Moriarty. «Sherlock Holmes è più scaltro di quanto
immaginassi. C’è mancato poco che il cellulare finisse nelle sue mani. Ma l’ho
protetto con una nuova password, non si sa mai.»
Tirò fuori il cellulare e digitò brevemente il codice,
poi lo porse a Moriarty, il quale lo prese soddisfatto. «Dammi qualche decina
di minuti.» Si lasciò cadere sul divanetto e cominciò a leggere con la fronte
aggrottata.
Alice osservò con attenzione il cellulare,
riconoscendone subito la marca. Sorrise mentalmente: Sherlock non ci sarebbe
mai arrivato. Poi fece un cenno alla donna, invitandola a sedersi, ma Irene non
le badò. Continuava a osservarla con sguardo distante e curioso allo stesso
tempo. «Credo di aver bisogno di un paio di abiti.»
disse infine, stirando le labbra in un sorriso.
Alice si morse un labbro indecisa,
poi andò in camera per uscirne con qualche abito di colore scuro in mano. «Le
staranno un po’ larghi, ma è meglio di niente.» Li
porse alla donna e Irene allungò una mano per prenderli, indugiando qualche
secondo di troppo quando le sue dita sfiorarono quelle della ragazza.
Alice si ritrasse in fretta invitandola ad usare il bagno per cambiarsi.
Quando Irene uscì, Alice dovette trattenere un sorriso
di piacere. Le aveva dato i suoi abiti più vecchi, che ormai non usava più da un pezzo: la maglietta le stava larga,
l’immagine dei Beatles sbiadita sul davanti e i jeans erano sgualciti e
scoloriti in più punti. Ma alla donna non sembrava
importare.
«Perché, Alice, non riporti il cappotto al suo proprietario?»
Alice si voltò di scatto verso Moriarty. «Scusa?»
L’uomo alzò lo sguardo dal cellulare e le sorrise
mestamente.
Alice
sospirò e prese il cappotto dalle mani della donna, poi uscì.
***
Sherlock si rivoltò nel letto. Aveva la testa che gli girava
e sentiva le palpebre pesanti. Faceva presto John a dirgli che doveva riposare:
non capiva che era solo un’inutile perdita di tempo? Doveva subito rimettersi
in forze, ma non riusciva neanche a stare in piedi e sentiva che la sua mente
si stava lentamente assopendo.
Un suono lo risvegliò momentaneamente. Girò la testa
di lato verso il suo cappotto, appeso dietro la porta. Che cosa ci faceva lì?
Irene Adler lo aveva addosso quando era scappata.
Con
uno sforzo che gli parve enorme si alzò dal letto e barcollò
sulle gambe malferme. Si appoggiò alla porta per mantenere l’equilibrio e prese
il cellulare dalla tasca.
(7:27 pm)
Alla prossima, signor Holmes.
Rimase
un attimo a osservare quelle parole con la mente annebbiata. Con uno sbuffo
cancellò il messaggio e stava per uscire dall’applicazione quando avvistò di
sfuggita un messaggio sotto l’etichetta bozza. Accigliato lo aprì.
SHER LOCK
PWIA
Cercò di capire che cosa potesse significare ma la
testa gli doleva terribilmente e lasciò ricadere il telefono nella tasca del
cappotto per tornare a sedersi sul letto.
«John!» Chiamò.
Pochi istanti dopo la porta si aprì e John comparve
sulla soglia. «Hai bisogno di qualcosa?»
Sherlock sbatté violentemente le palpebre. «Il
cappotto... Come ci è arrivato?»
John sospirò. «La signora Hudson me lo
ha portato su. Ha detto che una donna è passata di qui dicendo che lo
aveva trovato e pensava che potesse tornarti utile.»
Sherlock provò una fitta dolorosa alla testa, cosa che
non sfuggì al medico.
«Vedi di dormire. Eh
no, non ti darò niente. Recupererai le forze riposandoti.»
Detto
questo richiuse la porta con un tonfo.
***
«Felice anno nuovo, Alice.» Irene Adler sorrise e
sollevò il bicchiere verso di lei, per poi berne un grosso sorso.
Alice la ignorò, continuando a scrivere sul proprio
portatile.
Irene sorrise e si distese comodamente sul divano. «A
Sherlock avrebbe fatto piacere se gli avessi mandato un messaggio, ne sono
certa.»
Alice strinse i denti senza quasi accorgersene.
«Nessuno le impedisce di farlo.»
Irene sorrise, osservando il suo
profilo, appena rischiarato dalla luce dello schermo nella stanza altrimenti in
penombra.
«Ha declinato tutti i miei inviti a cenare con lui, lo
sai?»
«Uhm...»
Irene parve leggermente irritata dall’apparente totale
disinteresse dell’altra e le si avvicinò, accavallando
poi le gambe. «Hai qualche idea del perché l’abbia fatto?»
«A lui, lei non interessa.» Rispose seccamente
l’altra.
Irene si morse un labbro pensierosa.
«Da te lo avrebbe accettato un invito?»
Alice sembrò oscurarsi. «Lui non accetta niente da
nessuno.»
«E questo ti da fastidio,
vero?»
Alice distolse lo sguardo dallo schermo e fissò la
donna con gli occhi socchiusi.
Irene parve finalmente felice di aver ottenuto la sua
attenzione e le sorrise cordiale. «James mi ha parlato molto di te.» Proseguì.
Cominciò a giocherellare con una ciocca dei capelli di Alice e la donna si irrigidì. «Devi proprio essere brava... Prova una certa
ammirazione nei tuoi confronti... Lo sai?»
Alice chiuse il portatile con uno scatto, facendo sobbalzare
lievemente la donna. «E fa bene.»
Irene la guardò negli occhi.
Con sgomento Alice si accorse improvvisamente delle
pupille lievemente dilatate di lei e sentì crescere la nausea.
«Sei particolarmente attraente.»
Alice non poté fare a meno di sorridere. «E vediamo...
Chi sarebbe attratto da me?»
Irene si scostò lievemente con un’espressione turbata
sul viso. «Sherlock Holmes e lo stesso Moriarty, per esempio.»
«Nessun altro?» Chiese Alice con un lieve ghigno.
«Nessun altro.» Sorrise Irene di rimando. «Ma penso
che siano abbastanza... Per lo meno per te.»
Alice distolse lo sguardo e si fissò
le mani. «Sherlock non prova questo tipo di sentimenti.»
Irene rise. «Di una cosa sono certa: è attratto da
qualcuno.»
«E da cosa lo deduce?»
Irene la guardò attentamente. «Dal suo comportamento.»
Alice si accigliò. «Se si riferisce alla sua aria continuamente assente le assicuro che è per un altro
motivo.»
La Donna sbuffò.
«Che cosa le fa pensare, invece, che James sia in
qualche modo attratto da me?» chiese qualche minuto dopo Alice.
Irene sospirò. «Me ne intendo
abbastanza di queste cose per capirlo. M’interesserebbe, invece, sapere
che cosa ne pensi tu a tal proposito...»
Alice tornò a guardarla e si accorse che Irene si era
avvicinata. Lasciò che la distanza diminuisse fino a quando rimase a separarle
solo una decina di centimetri e a quel punto parlò. «Penso che non sia niente
male.»
Irene si bloccò mentre Alice sorrideva alla sua
espressione di lieve imbarazzo. «Jim mi piace.» disse infine, e Irene si allontanò
subito con un’espressione truce sul viso.
Alice rise mentalmente al turbamento dell’altra e
accavallate le gambe riaprì il portatile.
Irene la osservò distante, ora decisa a ferirla.
«Fossi in te starei attenta a quel John Watson. Sembra
che lui e Sherlock vadano molto d’accordo, e io me ne
intendo abbastanza di queste cose...» ribadì.
Alice le rivolse un’occhiata che nascondeva tutta la
sua rabbia e preoccupazione. «Sherlock non merita
niente da me, Adler. E ora mi lasci finire il lavoro per Jim...»
In quel momento la porta si aprì ed entrò Moriarty in
persona. Dal suo sorriso di scherno non fu difficile capire che aveva ascoltato
gran parte della conversazione.
Irene si alzò di scatto.
«È arrivata la carrozza, madamoiselle...» disse l’uomo con un lieve inchino.
Irene si strinse le braccia al petto
indignata e gli passò accanto. Poco prima di uscire gli lanciò
un’occhiata carica di disprezzo, poi lasciò l’appartamento.
«Da quando in qua mi chiami Jim?»
Alice si sistemò meglio sul divano. «Da quando ha
importanza farlo.»
James Moriarty si sedette al suo fianco. «Sapevo che
non avresti abboccato a Irene, è attraente ma non fino a questo punto.»
Alice ghignò.
«Ma non ho ben capito cosa volessi dire con “Sherlock
non merita niente da me”.»
Alice chiuse un attimo gli occhi. «Ho
sempre fatto tutto quello che mi chiedeva e lui non ha mai fatto niente per
ringraziarmi. Non mi ha mai degnato di un’attenzione maggiore di quella che
poteva dedicare a una mosca. Non merita il mio affetto.»
James annuì convinto. «E io
me lo merito?»
Alice si voltò a guardarlo. «Mi
permetti di fare cose ben oltre le sue capacità. Non credo di essermi mai
annoiata con te...»
L’uomo
le tolse il portatile di mano e le si avvicinò. «Per
oggi hai fatto abbastanza.»
***
«Oh, Jim Moriarty le manda i suoi saluti...»
Sherlock spalancò gli occhi e si raddrizzò sulla
poltrona. Picchiettò con le dita sul bracciolo del divano mentre il ricordo di
qualche ora prima gli tornava in mente. Irene Adler... No,
non si era sbagliato. Il suo polso, le sue pupille. Quelle erano cose che non
si potevano controllare e che l’avevano tradita.
Improvvisamente
gli passò davanti agli occhi un messaggio.
SHER LOCK
PWIA
E finalmente capì. Non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo mentre si alzava e pronunciava con forza
quel «No.» che fece voltare Irene e suo fratello verso di lui.
SHER LOCK. Un notevole gioco di parole. I AM SHER LOCKED. Mentre si avvicinava ad
Irene e digitava una alla volta le lettere del codice non poté fare a meno di
pensare chi fosse quella donna che gli aveva riportato il cappotto; quella
donna che aveva indovinato il codice del telefono e che glielo aveva lasciato
scritto.
PWIA. PassWord Irene Adler.
Una donna assolutamente geniale che Sherlock aveva
alla fine smesso di allontanare dai suoi pensieri. Quella donna che ora sapeva
essere ancora dalla sua parte.
E
fu anche per quello che giorni e giorni dopo non venne
toccato minimamente dalla notizia che Irene Adler era morta. L’aveva salvata,
era vero, ma i suoi pensieri erano rivolti a un’altra donna. E per una volta
sorrise alla bravura di suo fratello che aveva capito prima di lui i suoi
sentimenti. Forse forse Mycroft lo conosceva
veramente bene, più a fondo di quanto aveva immaginato.
***
Alice passò una mano sulla foto di Sherlock con in testa quello strano cappello da caccia sul giornale.
Lo strano caso del mastino di Beskerville, diceva il
titolo, l’ennesimo caso risolto insieme a John Watson.
Ormai stavano diventando famosi.
Sherlock Holmes e John Watson. Suonavano dannatamente
bene insieme.
Alice non poteva fare a meno di pensare a tutti i casi
cui aveva personalmente assistito e contribuito. Eppure Sherlock non l’aveva
mai degnata di molta attenzione. Non le era mai importato quasi niente di lei.
Le bastava ripensare a quando gli aveva detto addio, su in quel laboratorio del
Barts, a quanto era rimasto freddo e scostante. Non
le aveva chiesto niente di niente: né dove sarebbe
andata, né perché o con chi.
Ripensava poi alle parole della Adler.
Sembra che lui e Sherlock vadano molto
d’accordo. Lei se ne intendeva, lei gli aveva visti
insieme, e Alice nonostante tutto cominciava a crederle. Aveva incontrato John
Watson una sola volta personalmente, ma le era bastato
per notare con quanta preoccupazione aveva reagito alle parole Lo ha voluto Sherlock. come se avesse
pensato che era stato Sherlock a volerlo imbottito di esplosivo.
E come poteva dimenticare l’espressione di puro
terrore che aveva assunto il volto del detective nel vedere John in pericolo di
vita? E la velocità con cui lo aveva liberato della giacca? Mi hai strappato i vestiti di dosso in una
piscina buia. Ora sì che la gente parlerà... Quelle
parole dette quasi per scherzo le erano rimaste impresse come tatuate. Parole
aggiunte a un’infinità di altri discorsi e atteggiamenti che andavano a
pungerla uno a uno come tanti piccoli spilli.
Quando James entrò nell’appartamento che condividevano
e in cui si nascondevano, quella sera, lo accolse con un bacio che doveva
liberarla di tutti quei sentimenti e che lui accolse con entusiasmo.
Fu
con rabbia e fissandolo fermamente negli occhi che infine pronunciò quelle
parole. «Aiutami a distruggerlo, Jim.»
***
«A cosa pensi?»
Sherlock sterzò bruscamente, mancando per un pelo una
buca nel terreno dissestato. «A niente.»
John rise forzatamente. «E quando mai non pensi a
niente?»
Sherlock non rispose. Si era
appena lasciato alle spalle Dartmoor e il laboratorio
di Baskerville, luoghi che gli avevano fatto pensare
molto a quella cosa che cercava continuamente e inutilmente di nascondere.
Non poteva fare a meno di pensare a
con quale facilità lei sarebbe riuscita a entrare in quel dannato
computer, a raggirare la password, a scoprire dell’esperimento HOUND. O forse
erano solo sue fantasie. Forse il laboratorio era abbastanza aggiornato e lei
non sarebbe riuscita a fare nulla. Eppure il suo pensiero era costante, a volte
sperava di aprire gli occhi e ritrovarsela lì al suo fianco. Ma
non doveva farlo, stava diventando come tutti gli altri. Lui non doveva provare
sentimenti. Lui aveva deciso ormai da tempo di
allontanarli da se stesso.
«Il modo con cui hai scoperto la password del
colonnello... È stato... Ah, credo di aver ormai utilizzato tutti gli aggettivi
possibili.»
Eccolo, di nuovo. John. Il suo fedele amico John
Watson. Quanto ci era rimasto male quando in un eccesso di rabbia gli aveva
detto di non avere amici? Lei lo avrebbe capito e non si sarebbe offesa.
John non riusciva a stare zitto. Eppure a Sherlock
faceva piacere ricevere quei complimenti. Lei non gliene aveva mai fatti. Tra loro era sempre stato un mettersi alla prova l’un
l’altro.
«Non abbastanza veloce.»
«Che cosa?»
Sherlock tenne gli occhi fissi sulla strada davanti a
lui. «Non sono stato abbastanza veloce.»
«Scherzi? Quanto
avresti voluto metterci?»
Sherlock non rispose e John cominciò a commentare ogni
singolo momento di quel loro ultimo caso.
Sherlock
non lo ascoltò. Lei sarebbe rimasta in silenzio, avrebbe rispettato quel loro
muto accordo e lo avrebbe lasciato in pace. Non avrebbe chiesto nient’altro.
***
(8:51 pm)
È appena entrato al Barts
Alice guardò di sfuggita il messaggio per poi passare
il cellulare a Moriarty.
Lui lo lesse con un sorriso sul volto. «Ci siamo
quasi.»
Alice sorrise a sua volta e sistemò le ultime cose
nella borsa. Era finalmente tutto pronto. L’appartamento che avevano
occupato risultava stranamente spoglio senza tutte le loro cianfrusaglie. Non
che Alice ne avesse molte, poi, erano quasi tutte di
Jim.
L’uomo le porse la giacca e il cappello. «Allora siamo
arrivati al grande momento.»
Alice scosse la testa mentre afferrava i due capi e li
indossava uno alla volta. «Il grande momento arriverà
tra più di tre mesi, Jim.»
L’uomo fece spallucce. «Beh... La prossima volta ci vedremo per poco. Poi moriremo.»
Alice annuì e lo guardò un’ultima volta. «Ti
dispiace?»
L’uomo scosse la testa. «No,
non molto a dire il vero. Sarà una fine grandiosa la nostra, se ne ricorderanno
tutti per decenni.»
Alice annuì soddisfatta. «È quello che volevamo, no?»
Jim la guardò per qualche secondo, poi la avvicinò e
la baciò per l’ennesima volta. Alice si staccò qualche minuto dopo. Gli sistemò la cravatta con affetto gli sorrise. «Ci vediamo, Jim.»
«Prenditi la tua
rivincita, Alice. Fallo soffrire anche da parte mia.»
sorrise lui.
Alice annuì poi si voltò e aprì la porta.
«Sarà il miglior gioco di tutti i tempi...» Disse Moriarty, appoggiandosi allo stipite della porta.
«Sì, il migliore.» sorrise Alice, poi si voltò e si
allontanò verso il Barts; verso Molly, Sherlock e
tutto ciò che la sua decisione avrebbe comportato.
Moriarty premette il pulsante, ma non avvenne nessuna
esplosione.
Ci fu un attimo di silenzio in cui si guardarono tutti
l’un l’altro, esterrefatti, poi Moriarty premette nuovamente il pulsante.
Niente.
Quando alzò lo sguardo si
ritrovò la canna della pistola di Alice a due centimetri dalla testa. «Game over...» sibilò la donna.
Moriarty spalancò la bocca in un attimo di sorpresa ma
la richiuse qualche secondo dopo, scoppiando poi in
una risata senza gioia.
John sbatté gli occhi un paio
di volte, incredulo. Spostò lo sguardo da Moriarty e Alice in mezzo alla stanza
a Mary, sorpresa almeno quanto lui, e infine lo posò su Sherlock, che fissava la
donna con l'arma in mano, un’espressione indecifrabile, ma per niente stupita,
sul volto.
Moriarty scosse la testa. «No...
Così non va! No no...»
Alice ghignò. «Hai perso,
Jim...»
Moriarty si portò una mano alla testa e la fissò. «Ma che bella storia d'amore! Veramente, spero ci scriverai
su un libro!» sputò.
«Penso che John si prenderà volentieri il merito...» Strinse la pistola tra le dita e tese il braccio verso
l'uomo. «Sai? Avevi ragione. È stato divertente.»
Moriarty assottigliò gli occhi. «Nessuno aveva accesso alla casa, ne sarei stato informato...»
«Dimentichi cosa so fare, Jim...»
«...e dimentica quello che
anch’io posso fare.»
Si voltarono tutti di scatto verso la porta, tranne
Alice che portò gli occhi al cielo.
Per la prima volta da quando lo conosceva, John non
vide Mycroft Holmes impettito nei suoi soliti abiti appena usciti dalla
lavanderia. In quel momento aveva decisamente un’aria
trasandata: i capelli erano leggermente spettinati, non indossava giacche ma semplicemente
una camicia, arrotolata ai gomiti e non completamente abbottonata; i pantaloni
erano chiazzati all’altezza delle ginocchia di quella che sembrava polvere,
come se avesse camminato carponi su un pavimento non particolarmente pulito, e
aveva negli occhi una strana luce perfida. In mano teneva una pistola che puntò
subito verso Moriarty. «Vedi di darti una mossa Moffat.»
disse.
«Aspetta, aspetta…» John
spostò lo sguardo sui presenti, incredulo, il cuore che gli batteva a mille nel
petto per l’ansia. «Tutto questo era… una presa per il culo?»
quasi ringhiò.
Mary, al centro della stanza, mandò un singhiozzo
ansioso e John parve per un attimo dimenticare la propria rabbia perché le si avvicinò di slancio per rassicurarla.
«Mi hai deluso Alice…» continuò Moriarty, fissando la
ragazza con odio.
«Ah sì? Beh, la sai
una cosa? Non me ne frega niente…»
Moriarty la guardò male. «Che
cos’era questo? Un doppio gioco?» Spostò per un attimo
lo sguardo su Sherlock. «Avete architettato tutto questo insieme?»
Alice si inumidì le labbra. «No,
ho fatto tutto da sola…» Ridacchiò tra sé e sé. «Un triplo… ma che dico, un quadruplo gioco! Ho mentito a te, poi a Sherlock, a
Martin e infine di nuovo a te…»
«Sì, ottimo gioco…» borbottò Mycroft con un sospiro
pesante.
«Tu eri l’unico a sapere tutto, Mycroft?» chiese John
irritato.
L’uomo assottigliò gli occhi e strinse con più forza
la pistola tra le mani. «No…»
«Va bene, va bene… hai vinto.»
Si arrese infine Moriarty. «E ora cosa avresti
intenzione di farmi, Alice? Consegnarmi alla giustizia?»
Alice sorrise soddisfatta. «Hai sbagliato,
Jim. Mi hai sottovalutato. Ti sei fidato… fidarsi è da deboli…» Solo per un secondo i suoi occhi saettarono verso Sherlock che osservava
silenzioso la scena, quasi a volerlo sfidare, ma il ragazzo non rispose,
limitandosi a lanciarle un’occhiata inespressiva.
Moriarty la guardò con una smorfia di disgusto sul
volto. «Mi fai pena...»
Alice rise. «E tu mi fai schifo...»
ribatté.
I due sembravano essersi dimenticati di avere un
pubblico e continuavano a battibeccare.
«Allora? Ci stiamo
facendo la muffa qui…» Li interruppe Mycroft con
disprezzo.
Moriarty allungò le mani davanti a sé con
un’espressione schifata sul volto. «Forza, ammanettatemi…»
Alice sbuffò. «Credi che sia
così stupida? Non lascerò che tu ti salvi in qualche altro modo. È già tutto pronto, Jim.»
«Pronto per cosa?»
Alice roteò gli occhi mentre Moriarty passava lo
sguardo da uno all’altra. «Che cosa farai... Mi
sparerai?» Rise.
Alice gli lanciò un’occhiataccia e premette
leggermente la mano sul grilletto.
«Non ne sei capace...» La
schernì.
Alice si morse un labbro. Poi voltò lo sguardo verso
il computer che, ancora acceso, trasmetteva tutta la scena in diretta. «Per
prima cosa penso che il mondo potrà smettere di guardare, ora...»
E con un gesto secco sparò un colpo al portatile.
***
Nessuno seppe mai cosa avvenne lì dentro dopo che la
trasmissione via webcam si interruppe. Se coloro che erano presenti in quel momento capirono quel che
successe decisero di non farlo sapere. Ciò che venne
raccontato fu che quando le forze dell’ordine fecero irruzione nell’appartamento
trovarono il corpo di Moriarty a terra con una pallottola nel petto, e Alice Moffat, Mycroft Holmes e John Watson con una pistola in
mano per uno.
Dissero che c’era stata una colluttazione: a quanto
dicevano Moriarty si era gettato addosso ad Alice, cercando di impossessarsi
dell’arma, e sia John che Mycroft avevano sparato.
Nella stanza venne effettivamente trovato un altro
proiettile, conficcato nel legno di uno scaffale, ed esso risultò essere uscito
dalla pistola di Mycroft, ma la cosa più strana e che nessuno riuscì mai a
spiegarsi era che il proiettile che aveva colpito Moriarty sembrava in realtà
provenire dalla pistola di Alice.
Alla fine questo piccolo particolare venne semplicemente lasciato perdere e si accettò la
versione già data.
Fatto sta che la cosa rimase per sempre avvolta nel
mistero e nessuno seppe mai spiegarsela.
«Le faccio i miei più sentiti complimenti Moffat.» disse Mycroft tendendo una mano verso Alice. La
donna la strinse. «È stato così male alla fine?»
Mycroft fece una smorfia. «Avevo dimenticato che cosa
volesse dire agire... Adrenalina, paura... Speravo di non doverci tornare un’altra
volta, ma alla fine non è stato niente male.»
Alice voltò di poco la testa verso un’ambulanza
vicina, parcheggiata nell’ormai affollata via di Montague
Street. Medici e agenti di polizia andavano avanti e indietro intenti nelle
loro mansioni. Giornalisti si affollavano dietro l’angolo ma erano tenuti sotto
controllo dalle forze dell’ordine e non riuscirono ad avvicinarsi.
Seduta sul bordo dell’ambulanza c’era una donna dai
lunghi capelli castani che tremava violentemente e si guardava intorno con aria
spaventata.
Mycroft colse lo sguardo di Alice e ridacchiò. «Anthea mi ha prontamente
comunicato che si licenzia. Credo che non le sia piaciuto camminare in una
stanza imbottita di esplosivo...»
Alice sorrise in risposta.
«Forse era meglio se agiva da solo...»
«Nah... Sono sicuro che
si porterà il ricordo di quest’ultima avventura come un prezioso insegnamento
per le sue scelte future. L’avevo avvertita che il lavoro sarebbe stato
pesante.»
Alice fece vagare lo sguardo sulla strada. «Ti ringrazio del tuo aiuto, Mycroft, sinceramente. Non hai
pensato che stessi imbrogliando anche te? Avrei potuto uccidervi tutti in un
solo colpo.»
Mycroft fece una smorfia divertita. «No,
le istruzioni che mi hai dato erano esatte. Le ho fatte controllare.»
Alice gli lanciò un’occhiataccia. «Sempre preparato,
Mycroft.»
«Ovviamente. Dopo ciò che hai detto a Moriarty però sono stupito. Perché
fidarsi di me? Mi sembrava di aver capito che era un debole proprio per questo...»
Alice ghignò. «Per quanto mai
cercheremo di assomigliare loro, Mycroft, non saremo mai robot. Siamo umani. E
come tutti gli umani soffriamo e proviamo sentimenti. Forse un po’ meno, forse
riusciamo a tenerli a bada più di altri, ma sempre di sentimenti si trattano; e
anche Moriarty c’è cascato. Forse però lui avrebbe potuto
stare un po’ più attento...»
Il maggiore degli Holmes annuì. «Perché non provi a
spiegarlo a qualcuno laggiù?» Sorrise bonario.
Alice non ebbe bisogno di guardare per capire a chi si
riferiva.
«Ci proverò... Anche se sarà
difficile dopo tutto questo.»
Mycroft ridacchiò. «Ormai ti
credo possibile di tutto, Alice. Sei una donna in gamba. Devo ammettere che
abbiamo fatto un grande affare anni fa...»
Alice sorrise di circostanza. «Sono
io che ti devo ringraziare, Mycroft. Mi hai cambiato la vita, anche se
inconsapevolmente.»
John lasciò Mary alle cure di un medico e si avvicinò
all’uomo avvolto nel lungo cappotto blu scuro che fissava un punto indefinito
della casa che gli stava di fronte. «Sei arrabbiato?» chiese.
Sherlock non rispose.
John sospirò. «Non sopporti l’idea che lei sia
riuscita a superarti, vero?»
Sherlock continuò a non rispondere, ma John non si
arrese. «Dovresti esserne contento, invece. Hai
finalmente trovato qualcuno che sia alla tua altezza, qualcuno che...»
«John...»
«...ci tenga a te, qualcuno
che non si faccia molti scrupoli nell’usare la propria testa, che...»
«John.»
«Che... Sai che ti
dico? Quella ragazza ha fatto tutto questo per te: ha mentito, ha sofferto, ha
rischiato la sua vita... E tu tutto quello che sai fare è arrabbiarti perché il
tuo stupido orgoglio ti impedisce di andare là e
ringraziarla?»
«John!» Sherlock lo fissò, nervoso.
«Che c’è?» John respirò a fondo. Aveva
veramente appena perso le staffe per qualcosa che non lo riguardava personalmente?
Sherlock deglutì, a disagio. «Io non...
Non so come fare...»
John dovette trattenersi dal tirargli un altro pugno
in faccia. «Come sarebbe a dire che non sai come fare?»
Sherlock lo guardò malevolo. «C’è qualcosa di così
difficile da capire nella frase non so
come fare?»
John sbuffò e spostò gli occhi su Alice e Mycroft che
parlavano, poco lontano. Prese un respiro profondo e cercò di mettersi nei
panni dell’amico. «Ok Sherlock... Vai lì e... Parlale,
ok?»
Il detective lo guardò confuso. «Parlare?»
John ridacchiò divertito dall’incomprensione dell’amico.
Per una volta le parti sembravano essersi invertite ed era lui a dover spiegare
a Sherlock come fare qualcosa. «Sì, Sherlock. Si fa
così quando si vuole ringraziare qualcuno, ok? Vai lì e le parli. Cerca di
essere cortese. Al resto penserà lei, sono abbastanza sicuro che comprenderà le
tue intenzioni.»
Sherlock non sembrava molto convinto.
John gli diede una spintarella in avanti. «Coraggio
Sherlock...»
Dopo ancora qualche attimo di esitazione si avvicinò
ad Alice e al fratello. Quest’ultimo lo notò per primo e gli rivolse un’occhiatina
maliziosa che Sherlock decise prontamente di ignorare.
«Ti saluto Alice.
Penso che qualcuno debba parlarti...» mormorò Mycroft
rivolto alla donna, poi si allontanò.
Alice si girò e quando vide il nuovo arrivato sostenne il suo sguardo. Sherlock si fermò a mezzo
metro di distanza. Dopo qualche attimo di silenzio imbarazzato l’uomo si schiarì la voce. «Ehm...»
«Ehm?»Lo schernì la
donna.
Sherlock si irrigidì.
«Il famoso Sherlock Holmes è rimasto a corto di
parole?»
Sherlock abbassò lo sguardo, per la prima volta in
vita sua senza veramente qualcosa da dire, e la cosa lo irritava abbastanza.
Alice ridacchiò e gli si avvicinò, costringendolo poi
a guardarla negli occhi.
«Oh andiamo... Ti sto
prendendo in giro. Mi metti il broncio per questo?»
Sherlock strinse gli occhi a due fessure. «Penso che
tu mi abbia preso abbastanza in giro per oggi...»
Alice sorrise. «E ti dispiace per questo?»
Sherlock non seppe cosa rispondere. «Sì.» mormorò infine,
pentendosi subito dopo: non era sicuro che quel sì corrispondesse all’essere
cortese che gli aveva consigliato John.
Ma Alice era imprevedibile, come al
solito. Non si scompose ma si avvicinò ancora di più a lui. «Ed è questo che mi
piace di te, Sherlock.»
Il detective non aveva bisogno di notare le pupille
leggermente dilatate della donna o di sentirle il polso per capire dove voleva
arrivare. Deglutì, poi, spinto da un ricordo lontano, disse ciò che gli
premeva, senza tanti giri di parole. «Ti voglio bene.» sussurrò.
Alice sorrise dolcemente. «Lo so.» Lentamente, girò il
polso del detective, stretto in una delle sue mani.
Sherlock non poté evitare di rimanere sorpreso mentre
abbassava lo sguardo sulle loro mani unite. Possibile che non si fosse accorto
del tocco di Alice?
Quando tornò a guardarla era ormai a pochi centimetri
dal suo volto. Alice si alzò sulle punte, come già una volta aveva fatto, e unì
le labbra dell’uomo alle sue in un bacio leggero. Si staccò quasi subito per poi
appoggiare il volto sulla sua spalla e stringerlo in un abbraccio. Sospirò di
piacere mentre il suo calore la avvolgeva.
Dopo un attimo di esitazione Sherlock la strinse a sé
passando una mano tra i suoi capelli.
Rimasero così per un tempo indefinito, poi Sherlock
spezzò nuovamente il silenzio. «Uhm... Forse dopotutto non hai proprio
imbrogliato anche Moriarty.»
«In che senso?»
«Beh... E se lui
sapeva quello che avevi in mente? E se in realtà voleva semplicemente morire
così... da cattivo? Verrà ricordato per ciò che ha fatto...»
Alice ridacchiò piano. «Proprio non ti va di
ammetterlo, eh?» Rimase qualche secondo in silenzio, poi continuò. «Mi
perdoni?»
«Per cosa?»
«Per averti mentito. E
per aver… beh sì, aiutato Moriarty.»
Sherlock spalancò gli occhi. «Non mi...»
«Shh...»
Lo zittì lei. «Voglio solo una risposta alla mia domanda.»
Sherlock sospirò. «Sì, ma non ho mai...»
Alice gli pestò un piede e lui si zittì.
«Va bene così, Sherlock, va bene così...»
«Mi sono sbagliato John...»
Il medico lo guardò senza capire. «Che cosa?»
Mycroft continuò a fissare le due figure lontane di
Alice e Sherlock, abbracciate. «Mi sono sbagliato... Alice è veramente la
migliore nel suo campo...»
John sorrise e scosse la testa, abbassandola a fissare
il terreno. «E te ne sei accorto solo ora?»
«Non sto scherzando,
John...». Mycroft si passò un dito sulle labbra. «È entrata nel tuo
sistema di allarmi, con una velocità che sono rimasto basito...»
John annuì.
«Può entrare nel cellulare di chiunque, se lo vuole...». Diede in un risolino forzato. «È entrata nel
sistema di sicurezza della prigione di Pantonville,
in quello della torre di Londra e ha aperto il cavò
della banca! I tre posti con la migliore sorveglianza del nostro paese...».
John lo guardò lievemente preoccupato. Dove voleva
arrivare?
«Ma, John... è riuscita a penetrare anche nel
sistema più complesso forse di tutto il mondo...»
Mycroft fece una smorfia divertita e voltò le spalle al fratello lontano. Poi
guardò John con un’espressione che il medico non gli aveva mai visto. Era gioia
quella?
«È riuscita a
penetrare nel cuore di Sherlock, John. Nel suo cuore...»
Fine
Quando ho finito di scrivere questa
storia ero al mare seduta su una brandina davanti alla
tenda con le cuffie nelle orecchie e l’iPod in mano.
Ho versato un paio di lacrimucce e mi sono trascinata dietro la tristezza per
un giorno intero.
Lì sopra ho messo la parola fine,
perché è la prima volta che porto a termine una long che sia long, e volevo
essere sicura di averlo fatto… non so se mi spiego. Quello di cui non sono
sicura è se questa sarà veramente la fine.
La storia di Alice mi ha tenuto
compagnia per un’estate intera e anche se l’ultimo capitolo che ho scritto
risale ad un lontano giorno di agosto, rileggere e
correggere ogni capitoloprima di
pubblicarlo mi ha fatto rivivere le stesse emozioni che durante la stesura e
non sono per niente sicura di voler abbandonare Alice.
Per il momento però, ho molte altre
idee da sviluppare e una in particolare che ho quasi concluso,
ergo penso che se questo sarà un semplice arrivederci lo sarà per un bel po’ di
tempo.
Detto questo, passiamo ai
ringraziamenti.
Il primo grazie va alla mia
personale Jawn, Michela, per il suo supporto e la sua
infinita pazienza, ma soprattutto per avermi sopportato in chat durante le mie
crisi da “e mo come faccio andare avanti la storia?”.
(Lestry è per te).
Un secondo ringraziamento va a mio
padre che ha avuto la sacrosanta pazienza di aiutarmi con codici e non codici, e di spiegarmi almeno dieci volte cosa è un sistema
numerico. (e sono allo scientifico, yay!)
In merito al codice devo
ringraziare una ff in particolare che mi ha dato una
delle tante idee iniziali, The blog of
Dr. John H. Watson, di Rosebud_secret. È una ff stupenda e se non l’avete ancora
letta, fatelo, ve lo consiglio :)
Infine, ma non per questo meno
importante, voglio ringraziare tutti voi, che state leggendo queste righe, e
soprattutto tutti coloro che hanno recensito (un
grazie a Roxylilly e i suoi complimenti e daeran che mi ha dato alcuni buoni consigli <3) e mi
hanno fatto sapere il loro pensiero riguardo alla storia. <3
Ora è arrivato il momento di
salutarci. Per chiunque abbia voglia di seguirmi anche al di fuori di qui,
lascio il link alla mia pagina facebook,
dove pubblico i vari aggiornamenti e anche alcuni spoiler o curiosità sulle mie
storie.