Mi incontrerai dopo un giorno di pioggia di Hatsumi (/viewuser.php?uid=11603)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo ***
Capitolo 1 *** Capitolo Primo ***
Capitolo 1
-Jennifer
questa mattina arriva
il nuovo procuratore, mi raccomando.
È
il mio capo a pronunciare
queste parole, alle quali rispondo con uno sbuffo e un leggero accenno
col
capo. Questa mattina sono stanca, le carte da compilare sembrano non
finire mai
e il tempo, che ho modo di osservare dalla finestra accanto alla mia
scrivania,
non fa che peggiorare il mio umore. Cosa terribile la meteoropatia:
rende le
giornate piovose un vero e proprio inferno. Quando piove, quando il
cielo è
grigio e cupo, mi sembra quasi che l’intero mondo mi abbia
puntato il dito
contro. In un attimo o in un lampo, come sarebbe poetico dire, anche la
più
insignificante nota negativa della mia vita inizia
pesare e sento un grandissimo macigno che mi
schiaccia e mi lascia solo un grosso nodo alla gola, un desiderio
infinito di
scoppiare in lacrime. E dire che l’ho tanto desiderata quella
scrivania accanto
alla finestra! Dopo circa tre anni chiusa in un cubicolo buio e cieco
anche
l’idea di un pallido raggio di sole che riscaldasse il mio
viso mi sembrava una
svolta. Ma quale svolta! Ho ventisei anni, mi sono laureata a
ventiquattro con
voti non altissimi ma rispettabili e lavoro
in questo misero ufficio a William’s
County, in California, da ben quattro anni di cui due da apprendista.
Sono un
assistente sociale, perlomeno è quello che sta scritto sul
mio pezzo di carta.
-Sai
Andrew, credo che peggio di
Jakobson non potrebbe esserci nessuno!
Esclamo,
rispondendo al mio capo
che si gira improvvisamente verso di me. Stava tornando nel suo
ufficio,
probabilmente a compilare carte per l’arrivo del procuratore.
Carte, sempre
carte. Sembra che non si faccia altro di questi tempi.
Andrew,
il mio capo, mi fa cenno
con la mano di aspettare e per un secondo scompare dietro la porta del
suo
ufficio. Quando ritorna mi appoggia una cartelletta, una sorta di
dossier color
caramello sulla scrivania. Gli rivolgo uno
sguardo incuriosito aggrottando la fronte, come sono solita fare quando
non so
cosa aspettarmi. Dopodiché apro la cartelletta e scopro che
all’interno è
contenuta una scheda piuttosto dettagliata , un curriculum
forse. Inizio a leggerlo.
-Nicholas Becks, nato a Bismarck Nord Dakota, 6
gennaio 1954…
William
posa una mano sul
documento che sto leggendo, impedendomi di proseguire.
-Non
mi interessa che tu lo legga
ad alta voce, Jen. Voglio solo che dia un’occhiata ai casi
che ha trattato. Da
pagina sette a nove. Di qualcuno sicuramente ne avrai sentito parlare
per i
restanti casi… beh, puoi affidarti al buon vecchio Google o
dare un’occhiata ai
nostri dossier, giù nelle cantine.
Il
nome da solo non mi suscita
alcun pensiero per cui, senza stare a controllare caso per caso, digito
immediatamente
“Nicholas Becks” nel motore di ricerca del computer
e mi appaiono un sacco di
directory che lo citano, in un modo o nell’altro, in casi che
hanno fatto
scalpore negli ultimi mesi.
-È
uno con le palle, Jen.
Afferma
Andrew, battendomi sul
tempo. Non sarei riuscita ad esprimermi meglio.
-Lo
sai Andrew che gli darò filo
da torcere! Esattamente come ho fatto con i precedenti!
Esclamo,
fingendo una fiducia
estrema in me stessa. In realtà sto bluffando e Andrew lo sa
bene, sa che molte
volte il mio essere spavalda nasconde un paura, spesso irrazionale, di
trovarmi
a fronteggiare situazioni sulle quali potrei non avere pieno controllo.
-Ti
chiedo solo di non fare nulla
di non necessario, va bene?
Annuisco,
permettendogli di
andare finalmente nel suo ufficio a svolgere il suo lavoro. Sono
già le dieci
di mattina e nessuno ha fatto qualcosa di veramente concreto. Adam ed
Ellie, i
miei colleghi negli uffici accanto (quelli senza finestre), sono
bloccati in un
caso di affidamento di minori abbastanza complesso. Io e il capo ci
occupiamo
di qualcosa di più grosso. Tyler, un bambino di appena nove
anni, è
sopravvissuto ad una lite domestica sfociata in un
tentato omicidio e successivo suicidio del
padre. La madre, dopo esser stata ricoverata per circa sei mesi in una
clinica psichiatrica per via dello shock, reclama il suo diritto di
averlo con
sé. Ad opporsi ci sono nonni paterni Tyler che si sono
occupati di lui nei
mesi passati e ritengono che la madre non sia idonea all'affidamento.
Ci
troviamo in un punto morto
perché il procuratore al quale era affidato il caso ha
deciso di andarsene.
Andrew ritiene che la colpa sia stata mia. Secondo gli avvocati il
ragazzo deve
essere affidato ad un istituto per minori, poiché nessuna
delle due parti è ritenuta
in grado di crescerlo adeguatamente. Io ritengo, invece, che la madre
sia
pronta a ricominciare la sua vita e che riavere Tyler con sé
potrebbe essere
non solo un aiuto ma anche uno sprono a lasciarsi quella tragedia alle
spalle.
-Quindi
arriva il nuovo
procuratore, eh?
Mi
giro ed Ellie è sulla porta
del mio ufficio. Ha in mano due bicchieroni di caffè presi
da Starbucks,
gentilmente me ne offre uno.
-Ho
pensato che ne avessi
bisogno.
Sorrido
e annuisco.
-Grazie.
Ellie
si siede su un sedia
accanto alla mia scrivania, di solito occupata dai miei
“clienti”, anche se non
li chiamerei in questo mod, direi più che altro "gli
sfortunati". Inizia a
sorseggiare il suo caffè mentre io ancora giocherello con la
cannuccia del mio.
-Magari
questa volta sarà un bel
giovane aitante che si innamorerà di te.
Scoppio
a ridere. Ellie adora
scherzare e, benché la conosca da poco più di un
anno, è la persona che si
avvicina di più alla figura di amica. Abbiamo la stessa
età, anche se lei è
arrivata soltanto lo scorso anno. “Disastrosa
Ellie” la chiama il mio capo. È una gran
pasticciona, buona parte di ciò che fa riesce adeguatamente
solo per merito di Adam, divenuto da poco tempo il suo ragazzo.
-Stai
ancora cercando un coppia
per fare doppi appuntamenti?
Chiedo,
iniziando a sorseggiare
il mio caffè. Ellie sbuffa e arrossisce, evidentemente ho
centrato il
bersaglio.
-Ma
dai! Come puoi non crederci?
Non conosco nessuno che divori le commedie romantiche come te!
È
una sorta di attacco il suo. Per
non so quale motivo non riesce a capacitarsi del fatto che la mia vita
sentimentale, di recente, sia paragonabile al più arido dei
deserti. Non ho una
relazione vera, una di quelle di cui si può parlare
nostalgicamente o dare consigli tutt'altro che spassionati, da almeno
due anni. Secondo Ellie è qualcosa di inaccettabile.
-Non
è che non ci credo Ellie,
semplicemente so come sono i procuratori distrettuali: magrissimi,
pelati o con
pochi capelli in testa, vestiti sempre come manichini, occhialetti
rotondi e
una grande, grandissima predisposizione a farmi uscire di senno.
Sorride
e spalanca quei suoi
luminosissimi occhi azzurri. È molto bella: alta,
longilinea, lunghi capelli
castani e, appunto, due occhi bellissimi. Non ci è voluto
molto prima che Adam
smettesse di rivolgere le sue attenzioni a me e le indirizzasse verso
di lei. Chi
potrebbe dargli torto? Io stessa, se dovessi scegliere, la preferirei a
me.
-Ti
dirò una cosa, Jen, si tratta
di una mia impressione.
Prima
di proseguire a parlare si
gira per assicurarsi, ho capito poi, che la porta
dell’ufficio di Andrew fosse
chiusa. Si sporge lentamente verso di me e abbassa in modo notevole il
tono
della voce, quasi sussurra.
-Credo
che Andrew abbia un debole
per te.
Porto
gli occhi al cielo. Non
posso credere che sia arrivata a fare queste ipotesi.
-Perché
no?
Chiede,
accortasi della mia
espressione disdegnante.
-Non
dire sciocchezze Ellie. Per
prima cosa è il mio capo, ha circa vent’anni in
più di me, è separato da poco
e… di sicuro non è il mio tipo.
Esclamo.
In quel momento la mia
attenzione viene colta dalla pila di fogli che ancora non ho finito di
compilare. Sopra di essi c’è un post-it con il
nuovo numero di telefono della
madre di Tyler, il ragazzino che ho in custodia. Dovrei chiamarla, se
non altro
per avvisarla dell’arrivo del nuovo procuratore. Ho parlato molto con
quella donna nei mesi
passati, l’ho vista piangere e cadere nello sconforto
più profondo. Vorrei
tanto per una volta telefonarle e dirle che ho trovato la scappatoia,
il modo,
la persona giusta. Insomma vorrei tanto dirle che sono riuscita,
finalmente, a
porre fine alle sue sofferenze.
-Non
ti ho mai chiesto quale sia
il tuo ideale di uomo, Jen.
Le
parole di Ellie mi distolgono
immediatamente dai miei pensieri.
-In
che senso Ellie?
Chiedo,
temendo di essermi persa
una parte del discorso.
-Beh…
fisicamente almeno. Dici
che Andrew non è il tuo tipo, va bene. Allora cosa ti piace?
Mi
sembra una domanda piuttosto
sciocca e infantile, quella di Ellie. Tante volte quando sono con lei
mi sembra
di trovarmi con l’amica d’adolescenza che non ho
mai avuto, per un motivo o per
l’altro. Trovare un’amicizia così a
ventisei anni è piuttosto strano, come lo è
stato essermi ritrovata una domenica pomeriggio
nell’appartamento di Ellie a
vedere metà della prima serie di Sex & the city.
Eppure forse è per questo
motivo che mi trovo tanto bene con lei perché, anche se in
ritardo di almeno
una decina di anni, è riuscita ad ricoprire quella figura
che tanto mi sarebbe
servita. Sorridendo decido di rispondere alla sua domanda, allo stesso
modo in
cui lo farebbe una ragazza in età scolare.
-Allora…
lo voglio alto, moro,
pelle chiara ma non troppo. Insomma io ho la pelle già
abbastanza chiara,
insieme sembreremmo una coppia di cadaveri.
Ellie
sorride.
-E
poi…
Lo
strepitio della pioggia
battere sul vetro della finestra mi distrae e, per un attimo, mi
ritrovo a
fissare le gocce sul vetro, che si infrangono e lentamente si spingono
verso il
basso. Ancora con lo sguardo fisso nel vuoto, completo la mia risposta.
-…
con gli occhi del colore della
pioggia. Vitrei, al punto che ad ogni suo sguardo mi venga alla mente
l’acqua che
scorre e che in qualche modo lavi via tutti i miei pensieri.
Scuoto
il capo, solo dopo essermi
accorta di quanto sia patetico quello che ho appena detto. Al contrario
Ellie
sogghigna e mi osserva con sguardo sognante.
-Da
dove ti escono certi pensieri,
Jen?
Chiede,
quasi esaltata da ciò che
ho appena affermato. Al contrario io me ne vergogno e prendo finalmente
in mano
i documenti e la cornetta del cordless sulla mia scrivania.
-Immagino
da qualche film. Ora
scusami ma devo seriamente iniziare a lavorare.
Ellie
si alza, forse un po’
offesa dal modo in cui l’ho liquidata.
-Ok,
ok! Buon lavoro cara. Ci
vediamo per pranzo?
Chiede.
Io annuisco, mentre
compongo il numero di telefono.
-Senz’altro.
Grazie ancora del
caffè.
Sto
componendo il numero, mi
manca una cifra e mi blocco. Immediatamente schiaccio il tasto
“annulla” ma non
appoggio la cornetta sulla base. Non ho intenzione di rimandare la
telefonata,
solo sto vivendo uno dei miei “momenti di
riflessione”, mi capita spesso. Mi
riferisco a quando il mio cervello si blocca su un pensiero o su di
un’idea in
particolare e non mi permette di fare altro finché non
sviscero quella singola
idea ai minimi termini e ne traggo, in qualche modo, una conclusione.
Sto
pensando a ciò che ho appena detto ad Ellie. Ho descritto in
maniera alquanto
grossolana ed infantile lo stereotipo fisico dell’uomo che,
se lo incontrassi e
se esistesse, potrebbe sconvolgere la mia vita. Non sono stata troppo a
pensarci, ho elencato di getto una lista di caratteristiche fisiche
più o meno
apprezzate, finché non sono arrivata a parlare degli occhi.
Ho affermato di
volere un uomo con occhi come la pioggia e, solo ora, mi rendo conto
della mia
incoerenza. Come potrei desiderare di vedere ogni giorno un uomo il cui
sguardo
mi portasse alla mente qualcosa che mi rende tanto triste? Detesto la
pioggia,
sono sempre malinconica durante i temporali. E allora
perché? Arrivata alla
conclusione di non avere una spiegazione, non per il momento, decido di
tornare
a concentrarmi sul mio lavoro e compongo finalmente il numero della
madre di
Tyler. Il telefono fa diversi squilli prima di permettermi di sentire
la voce
dall’altro capo.
-Margareth?
Questo
è il nome della donna.
Conoscendola da circa tre mesi e avendo parlato con lei quasi ogni
giorno ho
sviluppato una certa confidenza, un certa complicità.
Abbiamo iniziato a
chiamarci per nome e abbiamo deciso di abolire ogni
formalità eccessiva.
-Jennifer!
Ti ho pensata
stamattina, ci sono novità?
Il
suo tono di voce è impaziente,
speranzoso. Ogni volta che le devo comunicare qualche notizia il mio
cuore
sobbalza.
-Direi
di si.
Mi
limito a dire, cercando di
celare in qualche modo la mia preoccupazione.
-Ti
ascolto!
Me
la immagino, dall’altra parte,
seduta composta mentre con una mano accarezza nervosamente il bracciolo
della
poltrona su cui è seduta. La immagino sulla stessa poltrona
sulla quale l’ho
sempre trovata seduta nelle mie visite nel suo appartamento: una reclinabile marrone,
molto anni ’70, con
dei braccioli di legno chiari, piuttosto ampi.
-Stamattina
siamo stati informati
dell’arrivo del nuovo procuratore distrettuale.
Cerco
di non far trapelare nessun
tipo di emozione. Non voglio preoccuparla né crearle
aspettative inesistenti.
-Oh…
immagino fosse imminente. E
dimmi, che tipo è?
A
quella domanda inizio a pensare
a quanto sia inutile la mia telefonata. Avrei sicuramente fatto miglior
cosa a
rimandare la chiamata dopo averlo conosciuto, quel procuratore. In quel
modo
sarei stata in grado di preparare adeguatamente Margareth. Ora non so
proprio
cosa dirle e mi sento un po’ sciocca.
-La
verità è che… ancora non
abbiamo avuto modo di conoscerlo. Ho voluto chiamarti solo per
avvisarti, per
dirti… di non perdere la speranza, ecco tutto.
Pessime
parole, me ne rendo conto.
Tuttavia non sono stata in grado di trovare una motivazione differente.
-Capisco…
Ti ringrazio per avermi
avvisata Jennifer. Ti assicuro che non smetterò mai di
perdere le speranze,
soprattutto finché saprò di avere almeno una
persona al mio fianco. Sei ancora
con me, non è vero?
La
sua voce è insicura, tremante.
Ha bisogno di essere rassicurata e, almeno questo, sono in grado di
farlo.
-Ma
certo Margareth! Io sarò
sempre dalla tua parte e farò di tutto, per il
bene di Tyler.
Sento
Margareth vacillare
dall’altro capo del telefono. Lo avverto dalla sua voce, dal
suo respiro
affannoso.
-Ora
stacco. Ti farò sapere
quanto prima eventuali novità.
Decido
di chiudere la telefonata.
La mia emotività eccessiva a volte è un ostacolo
grande, quasi invalicabile,
nello svolgere il mio mestiere.
-Grazie,
a presto.
Appoggio
velocemente il telefono
sulla base e sospiro, prendendomi poi il capo fra le mani. Ci sono
giorni in
cui mi chiedo cosa mi abbia spinto a scegliere una professione che
coinvolga in
modo così massiccio i sentimenti.
Piove,
piove ancora, piove
sempre.
--
Ciao a tutti e grazie per aver letto questo mio primo capitolo. La
storia che state leggendo è un vero e proprio esperimento
per me. È tutt'ora in completamento e la sto alternando a
quell'altra che già pubblico da diversi anni (e che mi devo
decidere a finire, prima o poi) qui su EFP. Questa è la mia
PRIMA (e fin'ora unica) storia a tematica NON omosessuale. Si tratta di
una sfida, per una volta ho voluto cimentarmi in qualcosa di "diverso".
Vedremo cosa ne verrà fuori. Nel frattempo... mi auguro di
avere abbastanza compagni di lettura, nonché critici
spassionati. A presto ----
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Capitolo 2 *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 2
Non
credo di aver mai sentito il
tempo scorrere così lentamente. I miei documenti sembrano
non finire mai e la
lancetta dell’orologio pare abbia timore del mio sguardo.
Ogni qual volta alzi
il capo e mi ritrovi ad osservare il quadrante bianco
dell’orologio sulla parete
difronte a me, la lancetta dei minuti risulta ferma: completamente
immobile.
Quasi qualcuno avesse deciso di togliere le pile all’orologio
al solo scopo di
farmi dispetto. Almeno un paio di volte ho avvertito
l’impulso e la curiosità
di alzarmi, spostare la sedia contro la parete dove
l’orologio è posizionato
(questo poiché sono troppo bassa per poterci arrivare
altrimenti) e sollevarlo
dal gancio sul quale è appeso per controllare se
effettivamente le batterie non
siano state rimosse o se invece siano semplicemente esaurite.
Mentre
mi arrovello su questo
dilemma Andrew entra nel mio ufficio. Non appena il suo sguardo
incrocia il mio
capisco il motivo della sua visita.
-È
qui, non è vero?
Chiedo
fingendo di essere
occupata in mansioni di ufficio quali: allineare dei fogli, sistemare
delle graffette o
semplicemente tenere impegnate le mani in qualche modo.
-Non
essere nervosa Jennifer.
Sarà pure un pescecane sulla carta ma noi ancora non lo
conosciamo.
Preferisco
non ripetere ad Andrew
quanto poco tolleri i procuratori distrettuali o gli avvocati, in
generale.
Detesto quando, per forza di cose, ci tocca lavorare con i penalisti:
fanno
parte della peggior specie. Sono senza pietà, non hanno
interesse se non il
proprio e, perlomeno quelli che ho avuto modo di conoscere, non sono a
coscienza di un piccolo codice comportamentale chiamato
“buone maniere”.
-Lo
so che detesti dover trattare
con questa gente ma non abbiamo scelta. È il nostro lavoro,
Jen.
Sospiro.
Andrew mi osserva da dietro
le lenti dei suoi occhiali, mi riserva uno di quei suoi sguardi severi
ma allo
stesso tempo bisognosi di comprensione. Annuisco, senza commentare
ulteriormente ciò che ha appena detto.
-Si
presenterà qui in ufficio o
dobbiamo andare a conoscerlo in tribunale?
Chiedo,
cercando di nascondere la
mia insofferenza.
-Qui.
Sta parlando adesso con
Katherine, le ho detto di preparare la sala che di solito usiamo per
gli
incontri.
Mi
alzo, sistemando adeguatamente
la sedia contro la scrivania. Nell’alzarmi dò
un’ultima occhiata alla finestra
e ancora non ha smesso di piovere. Penso tra me e me che non potrebbe
esserci
tempo peggiore per incontrare un avvocato, se non questo.
Rapidamente
seguo Andrew e mi
dirigo verso la sala degli incontri, che nulla è se non un
ufficio più grande
degli altri nel quale è stato posizionato un vecchio tavolo
piuttosto lungo e
al quale sono state aggiunte sei seggiole. Quando arriviamo sulla porta
della
stanza, di spalle, scorgo la figura buia della persona che ci
apprestiamo conoscere.
Sta parlando con Katherine, una
delle segretarie.
-Mi
fa piacere sia arrivato così
presto, avvocato Becks.
Esordisce
Andrew, tendendogli la
mano. Immediatamente l’uomo si gira, dandomi modo di
osservarlo attentamente.
Dopo avergli rivolto uno sguardo da capo a piedi mi ritrovo costretta a
confermare la mia ipotetica ed ironica descrizione fatta ad Ellie,
qualche ora
prima. L’avvocato è piuttosto alto e magro. Non
è eccessivamente brutto.
Ritengo anzi che possa avere il suo fascino per quelle donne che
sappiano
apprezzare gli uomini rasati, con il naso aquilino e con una perenne
aria di
sufficienza.
-Piacere.
Si
limita a dire, stringendo
rapidamente la mano di Andrew.
-Vogliamo
entrare?
Invita
allora il capo, indicando
la porta aperta della stanza. Tutti i presenti, ad eccezione di
Katherine che
si allontana chiudendo la porta, prendono posto. Io e Andrew ci sediamo
sullo
stesso lato del tavolo, mentre l’avvocato si siede sulla
sedia opposta alle
nostre e senza darci troppa importanza appoggia la sua valigetta, che
fino a pochi
istanti prima reggeva in mano, sul tavolo. Gesto abbastanza maleducato,
poiché
la valigetta inzuppata dalla pioggia crea immediatamente una chiazza
d’acqua
sul tavolo. Sogghigno, pensando a quanto siano azzeccate le mie
supposizioni
sugli avvocati. Naturalmente Andrew se ne accorge e mi rivolge uno dei
suoi sguardi severi, questa volta vuole semplicemente rimproverarmi.
-La
ragazza… sarebbe?
Chiede
l’avvocato, senza
rivolgere lo sguardo verso nessuno di noi. Se ne sta semplicemente con
la testa
infilata nella valigetta, alla ricerca di chissà quale
documento. Ad ogni modo
io ed Andrew ci guardiamo per capire cosa intenda con “la
ragazza”, conveniamo
si stesse riferendo a me. In effetti non si è dato la pena
di salutarmi poco prima,
sul ciglio della porta. D’altro canto nemmeno io ci ho
pensato troppo. Tutto
ciò non può che presagire l’inizio di
una terribile collaborazione. Andrew mi
precede nella risposta, probabilmente temeva uscissi con qualche frase
tagliente.
-Jennifer
Ricci: assistente
sociale. Lavoriamo insieme a questo caso.
L’avvocato
alza la testa e mi
indirizza nuovamente uno sguardo di sufficienza.
-C’è
veramente bisogno di due
persone, per questo caso?
Faccio
un respiro profondo e
cerco di tenere la bocca chiusa, se l’aprissi probabilmente
non sarei in grado
di risparmiarmi qualcosa di offensivo.
-Questo
è il modo in cui
lavoriamo nel mio ufficio.
Risponde
rapidamente Andrew, con
diplomazia. Questa volta evita di rimproverarmi, evidentemente la
domanda
dell’avvocato deve aver infastidito anche lui.
-Contenti
voi… Dunque, prima di
chiedervi il parere riguardo al caso Goldman, vorrei leggere il referto
medico
di Margareth Goldman Jones.
Andrew
annuisce. Conosciamo
entrambi a memoria quel referto, ce l’hanno letto diverse
volte nel corso degli
ultimi mesi. Andrew si mette comodo, gomiti poggiati sul tavolo e mento
tra il
palmo delle mani. Sta osservando l’avvocato, per questo non
riesco a scorgere
la sua espressione. Io, al contrario, preferisco non ascoltare per
l’ennesima
volta quel documento e la mia attenzione è rivolta
all’ambiente circostante. Si
tratta di un altro “antro” buio. Non
c’è nessuna finestra, solo una bocchetta
per l’aria posizionata in alto, tra la parte finale del muro
e il soffitto.
L’illuminazione dell’ambiente è
piuttosto scarsa, benché sul soffitto siano
installati dei faretti, presumo al led, a giudicare dal colore
azzurrognolo
della luce che emanano. La porta è chiusa e la finestra
più vicina è al di là
del corridoio, ragion per cui non riesco a capire se stia ancora
piovendo o se
invece quel temporale che ci tormenta da due giorni abbia deciso di
lasciar
posto al sole. A giudicare dal mio umore il temporale deve essere ben
lontano
dalla fine.
Osservo
l’avvocato, che ancora
sta leggendo il documento. Di tanto in tanto alza gli occhi dal foglio
e
osserva Andrew che si limita ad asserire col capo. Posso
tranquillamente
affermare di non aver ascoltato una parola di quanto ha detto
quell’uomo. Lo
vedo leggere, sogghignare e scrutare Andrew ma il mio cervello non mi
da’
l’attenzione necessaria
per ascoltarlo.
-Vede
avvocato, quel referto
risale a due settimane prima della dimissione della signora Jones. I
medici
sono stati concordi a
dire che, una
volta rilasciato il paziente, sono pressoché sicure le sue
condizioni.
Riesco
a captare il discorso di
Andrew e capisco di dover tornare a seguire quanto sta accadendo.
-Vi
è anche stato detto che
potrebbero verificarsi altri episodi di alterazione.
Ribatte
l’avvocato.
-Questo
non è possibile
prevederlo.
Intervengo
io, intromettendomi
nel discorso. L’avvocato sogghigna.
-Vedo
che ha anche una voce,
signorina. Ho quasi pensato fosse un ornamento, dal momento che non in
solo istante
ha prestato attenzione a ciò che ho appena letto. Mi sbaglio?
Abbasso
lo sguardo. Non posso
contraddirlo ma al tempo stesso una grande rabbia mi monta in corpo,
facendomi
desiderare di alzarmi e di tornare nel mio ufficio.
-Conosciamo
bene il documento,
avvocato. In ogni caso gradirei continuassimo a parlare del nostro
lavoro, la
signorina Ricci le ha appena risposto.
Andrew
interviene in mio aiuto.
Lo fa sempre quando mi vede in difficoltà, credo che abbia
imparato a conoscere
i segnali d’ira sul mio viso.
-Ma
certo, signorina, nessuno è
in grado di prevederlo. Proprio per questo motivo l’idea
migliore sarebbe
quella di affidare il ragazzo ad una istituzione neutrale, che sappia
prendersi
cura di lui in modo adeguato.
Quel
“signorina” pronunciato in
tono di disprezzo per un attimo mi fa uscire di senno. Ad ogni modo
cerco di
respingere i miei personali risentimenti e rispondo.
-Tyler
ha solo nove anni. È un
bambino, non un ragazzo. Inoltre, quale istituzione potrebbe crescerlo
meglio
di quanto farebbe una madre, sua madre?
L’avvocato
scoppia in un risatina
isterica. Questa sua reazione infastidisce anche Andrew, lo capisco dai
suoi gesti:
inizia a sfregarsi nervosamente le mani e spinge, in modo piuttosto
seccato,
gli occhiali sulla gobba del naso, nel frattempo scivolatigli verso la
punta.
-Questo
è esattamente il motivo
per cui le donne non dovrebbero occupare certe posizioni lavorative. Le
consiglio, signor Greene, di rivedere le mansioni delle sue
collaboratrici.
Andrew
sbatte un pugno sul
tavolo. Non credo di averlo mai visto così irritato.
-Se
la sua intenzione, avvocato
Becks, è quella di offendere il mio organico e di scaldare
inutilmente gli
animi la invito a ripresentarsi solo quando sarà veramente
intenzionato a trattare di lavoro.
L’avvocato
annuisce.
-Non
era affatto mia intenzione scaldare
gli animi. Comunque, vi ho oltremodo esposto il mio parere. Non
c’è bisogno di
andare oltre. Il prossimo nostro incontro è fissato tra due
settimane, con il
giudice.
Rapidamente
raccoglie i documenti
posati sul tavolo e li ripone nella valigetta che poi chiude. Senza
rivolgerci
ulteriori sguardi si alza, passa accanto ad Andrew bofonchiando un
sommesso “Arrivederci”
ed esce dalla stanza dimenticandosi, oppure non importandosi, di
chiudere la
porta.
-Vedo
che la misoginia è ancora
di moda, eh?
Commento,
cercando di essere
sarcastica. Andrew non risponde. Sta ancora fissando la sedia che fino
a pochi
istanti prima era occupata dall’avvocato.
-Non
credo andrà a finire bene questa
faccenda. Lo capisci, Jennifer?
Afferma
poi, senza però
guardarmi.
-Sì,
di sicuro questa persona ci
darà filo da torcere ma ancora non sappiamo chi
sarà il giudice. Forse saremo
fortunati e potremmo lavorare di nuovo con il giudice May!
Il
giudice May, Monica May, è una
signora di circa cinquant’anni, molto intelligente e
pragmatica con la quale lo
studio di Andrew ha avuto modo di lavorare più volte. Una
persona molto
riflessiva che ci tiene ad ascoltare ogni singolo parere prima di
prendere una
decisione. Più volte siamo riusciti a ottenere il nostro
intento in situazioni
critiche, grazie al suo aiuto.
-Abbiamo
lavorato con lei
nell’ultimo caso Jennifer, non ci faranno la grazia di
affidarcela di nuovo.
Commenta
Andrew, questa volta
rivolgendomi uno sguardo che deduco preoccupato.
-Ce
la faremo anche questa volta
Andrew, vedrai.
Accarezzo
la mano di Andrew che
immediatamente afferra la mia, stringendola.
-Sai
che ora dovrai dire del
nostro incontro alla Jones, non è vero?
Annuisco.
Il primo pensiero
balenatomi in testa, vedendo l’avvocato uscire dalla stanza,
l’avevo rivolto a
Margareth con la quale avevo parlato solo qualche ora prima. Dopo
averle detto di
non perdere la speranza e di avere fiducia mi sento malissimo al sol
pensiero
di doverla portare di nuovo nello sconforto.
-Le
ho già parlato qualche ora
fa. Le ho telefonato per avvisarla dell’arrivo del
procuratore. Rimanderò a
domani la telefonata.
Andrew
mi lascia la mano e si
alza.
-Credo
sia il caso di tornare in
ufficio. Puoi tornare a casa se vuoi, Jen.
Mi
sporgo verso il ciglio della
porta per cercare di scorgere l’orologio nell’atrio
delle segretarie e noto che
è da poco passato mezzogiorno.
-Così
presto?
Chiedo,
sorpresa dalla sua
affermazione. Andrew mi sorride, un sorriso quasi malinconico.
-Si,
non credo che riusciremmo a
fare molto altro oggi. Io finirò di compilare le mie
scartoffie e poi andrò a
casa. Ellie e Adam hanno l’incontro con il giudice alle due,
quindi l’ufficio
sarà vuoto. Non voglio impegnarti la giornata inutilmente.
Senza
pensarci troppo accetto,
forse a casa riuscirò a trovare qualcosa di più
interessante da fare. Decido di
salire nell’ufficio per salutare Ellie e comunicarle che non
ci sarò per l’ora
di pranzo.
-Cosa?
No! È tantissimo che non
pranziamo insieme!
Si
lamenta, in modo bambinesco.
-Abbiamo
pranzato insieme la
settimana scorsa, Ellie.
Commento
io, sorridendo.
-Beh
vorrà dire che una di queste
sere verrò da te e mi cucinerai qualcosa di speciale!
Scoppio
a ridere. A volte
ripiango il giorno in cui invitai per la prima volta Ellie a cenare a
casa mia.
Ci eravamo appena conosciute e ancora non aveva iniziato a frequentare
Adam,
così aveva un sacco di tempo libero che non sapeva
esattamente come impegnare.
Non faceva altro che telefonarmi e chiedermi di uscire con lei in bar,
pub,
discoteche; insomma di fare vita mondana. Mi piace uscire e non
disdegno una
serata in un locale, appena posso, tuttavia dopo una settimana di
follia, con
conseguenti analgesici le mattine successive, per far fronte alle
peggiori
sbornie della mia vita, avevo deciso di fare una tregua e avevo
proposto una serata tranquilla, in casa. Ellie dopo aver storto il naso
aveva accettato e si rivelò essere,
credo, la miglior serata mai passata con lei. Fu proprio in quella sera
che mi
resi conto di aver trovato l’amica del liceo che non avevo
mai avuto occasione
di conoscere. Non so per quale motivo Ellie continui a ritenermi una
cuoca
favolosa. Potrebbe essere dovuto al fatto che lei ai fornelli sia una
frana e
che buona parte dei suoi pasti siano quei terribili vassoi pre-cotti da
infilare nel microonde. Si era letteralmente commossa davanti alla mia
semplicissima pasta con il ragù di carne, per non parlare
dell’arrosticino con
le patate al forno! A me non era costata più di un paio
d’ore la preparazione,
mentre a lei era parso chissà quale pasto faraonico. Il
risultato è che sempre
più spesso mi chieda di invitarla a cena, tante volte a
spese del povero Adam,
abbandonato e ritenuto meno interessante di un cibo cotto
adeguatamente.
-D’accordo
ma portati dietro
anche Adam. Mi spiace che se ne rimanga solo.
Ellie
scuote il capo.
-No
no cara! Adam verrà solo
quando ci sarà un altro uomo in casa tua. Quindi se ti
dispiace tanto per lui
sbrigati a trovarne uno!
Non
si smentisce mai, Ellie.
Decido di non darle ulteriormente corda e mi dirigo verso il mio
ufficio per prendere
le mie cose.
-Buona
giornata Ellie! In bocca
al lupo per l’incontro con il giudice.
--
Secondo capitolo. Ho deciso di pubblicarli quasi ogni giorno,
finché riesco. Spero anche prima o poi di trovare una
recensione, un commento o una critica. Ci terrei ad avere un parere
esterno. Alla prossima :) --
|
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Capitolo 3 *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 3
Saluto
Katherine e Carol, le due
segretarie, poi mi dirigo di corsa verso la mia auto che fortunatamente
è parcheggiata a pochi passi dall’ufficio. Il nostro ufficio
è situato in un
vecchio stabile in centro, occupiamo il piano terra. Accanto a noi ci
sono
dentisti, assicuratori e chiropratici. Non è raro
incontrarsi con gli altri
professionisti e più di una volta Ellie mi ha suggerito di
trovarmi un “marito
dentista”. Ogni qual volta mi capiti di incontrare
all’ingresso del palazzo il
malcapitato che Ellie aveva designato come uomo perfetto per me, a
stento
trattengo le risate. Credo che prima o poi se ne accorgerà e fraintenderà
la mia reazione.
Corro
velocemente verso l’auto,
cercando di bagnarmi il meno possibile. Benché piovesse
già da questa mattina
non voluto portare con me l’ombrello. La verità
è che detesto gli ombrelli più
o meno allo stesso modo in cui detesto la pioggia. Il sol pensiero di
dover
passare con quell’affare tra le mani sui marciapiedi,
cercando di evitare di
colpire le altre persone e di non farmi colpire a mia volta, mi provoca
una
grande sensazione di fastidio. Una volta raggiunta la macchina sospiro
e mi
osservo nello specchietto retrovisore, regolato male. Il che
può significare
solo una cosa: Adam mi ha spostato l’auto. Sorrido e infatti
scorgo un post-it
sul cruscotto.
“Come al solito hai parcheggiato in mezzo
alla strada! Se rivuoi le
chiavi fammelo sapere. Adam”
Adam
è stata la prima persona che
abbia conosciuto in ufficio. Ha all’incirca dieci anni in
più di me, forse
qualcuno in più. Lavorava per Andrew già da tre
anni, quando sono arrivata. Mi
aiuta a parcheggiare l’auto da allora. Devo ammettere di
avere certe difficoltà
nei parcheggi, nonostante abbia la patente da quasi dieci anni. Il mio
secondo
giorno di lavoro Adam mi vide parcheggiare, in qualche modo, in un
viottolo
dietro al nostro ufficio. Dopo aver osservato la mia faccia sconvolta e
affaticata,
mi chiese se avessi bisogno di aiuto e con non poco imbarazzo gli
risposi:
-Credo
che non imparerò mai a
parcheggiare l’auto!
Lui,
senza farsi problemi, senza
nemmeno prendermi in giro (e sicuramente non è difficile
fare sarcasmo su
questa mia incapacità) mi chiese:
-Hai
un mazzo di scorta? Potresti
lasciarmele, te la parcheggio io la macchina.
Non
me lo feci ripetere due volte
e anche oggi, dopo quattro anni, capita molto spesso di trovare gli
specchietti
regolati diversamente da come li ho lasciati. Senza contare il sedile,
posizionato piuttosto lontano dal volante. All’inizio Adam mi
avvisava di ogni spostamento
poi, col passare del tempo, la cosa ha iniziato a diventare un
abitudine. Non
posso negare che mi faccia piacere questa sua gentilezza, anche adesso
che è
legato ad Ellie. C’è stato un periodo tra secondo
e il terzo anno alla Greene
Social, il nome del mio ufficio, in cui tra me ed Adam nacque una certa
complicità. Pensai veramente di andare oltre e credetti che,
forse, l’uomo
giusto per me fosse soltanto una porta più in là.
Adam, dal canto suo, era
sempre gentile nei miei confronti e più di una volta aveva
manifestato
interesse verso di me. Sfortunatamente quando mi decisi a fare un
tentativo
arrivò Ellie e in men che non si dica quella magia che si
era creata tra me e
Adam svanì. Sarà sempre una delle mie
caratteristiche, quella di sbagliare i
tempi. In effetti io arrivo sempre in ritardo, negli appuntamenti
così come
nelle occasioni della vita. Non ho mai detto ad Ellie di quel mio
sentimento passato
per Adam. Questo non perché tema che si arrabbi con me,
tutt’al più se ne
dispiacerebbe. Solo l’ho ritenuta una di quelle cose che
preferisco serbare per
me, da catalogare con quell’insieme di “false
partenze” che ho collezionato nei
miei relativamente pochi anni di vita.
Decido
che è arrivato il momento
di partire, sistemo specchietti, il sedile e aziono il tergicristalli.
Cerco
di osservare il cielo, nella speranza di trovare un piccolo angolo
azzurro o,
ancora meglio, uno scorcio di arcobaleno. Eppure nulla…
sempre grigio, cielo
inequivocabilmente cupo e pioggia.
Casa
mia non dista molto
dall’ufficio, ci metto all’incirca quindici minuti,
in auto. Parcheggio nel
vialetto e corro velocemente in casa. Ovviamente la pioggia
è così insistente
da inzupparmi, benché tra il vialetto e la casa ci siano
poco più di 30 metri.
La
mia è la classica abitazione
simil-vittoriana, che spesso si vede nelle cittadine della California.
Si
tratta di una casa di famiglia, ereditata da mia nonna Angela. Ho
vissuto con
lei in questa casa negli ultimi dieci anni poiché i miei
genitori, due
ricercatori, sono sempre stati in giro per il mondo e non hanno mai
avuto
troppo tempo o cura per me. Sono stati dati per dispersi solo tre anni
fa, benché io
non avessi avuto più loro notizie da almeno cinque anni.
Nonna Angela invece è
venuta a mancare lo scorso anno. Era piuttosto anziana e, stando ai
suoi
racconti, deve aver vissuto la sua vita appieno.
Entro
in casa gocciolando su
tutto il pavimento e subito mi guardo allo specchio, posizionato
all’ingresso.
Non credo di essere chissà quale bellezza ma ho una vera e
propria ossessione
per gli specchi o qualsiasi superficie riflettente. Inizio ad
osservarmi. I
miei capelli sono bagnati, il mio trucco non ha retto alla pioggia e il
mascara
si è sciolto.
Anche la mia autostima risente della meteoropatia: mi
guardo e, tornando a pensare al discorso di poco prima, sono sempre
più convinta
a non biasimare la scelta di Adam. Ellie è alta, di sicuro
si avvicina molto al
metro e ottanta, mentre io a fatica raggiungo il metro e sessanta.
Certo, porto
spesso i tacchi alti ma chi voglio ingannare? Ellie ha dei bellissimi
occhi
azzurri, occhi da gatta. I miei sono grandi e hanno un colore
indefinito.
Nocciola, suppongo. Non ho mai capito se siano verdi o marroni e,
osservandoli
attentamente, hanno qualche sfumatura giallastra. Per non parlare dei
capelli!
Allie li ha così lunghi, folti, color del cioccolato
fondente. I miei sono
biondi, sottili e di poco superano le spalle. Chi sceglierebbe una
ragazza
con il viso da bambina, al posto di una splendida top model?
Mi
sfilo le scarpe, il mio
adorato tacco dodici, lanciandole contro la porta. Penserò
dopo a sistemarle
nella scarpiera. Mi appresto ad andare a farmi un bagno, uno di quelli
belli
caldi che mi fanno desiderare di non uscire mai dalla vasca quando
sento dei
rumori provenire dalla porta d’ingresso. Posso già
immaginare di cosa si
tratti.
-Hiram!
Esclamo,
aprendo la porta al mio
gatto. Il gatto di mia nonna, in realtà. Stando alla
veterinaria ha circa sei
anni e ce lo siamo trovate in casa un pomeriggio d’inverno,
di tre anni fa.
“Ci
ha scelte, ha deciso di
restare con noi.”
Aveva
subito pensato mia nonna.
Non aveva un collarino e non era stato quindi possibile risalire al
proprietario, né scoprire quale fosse stato il suo vero
nome. Da un giorno
all’altro mia nonna aveva iniziato a chiamarlo Hiram e lui a
risponderle.
-Micino,
sei tutto bagnato!
Lo
prendo in braccio e mi dirigo
verso il bagno per cercare un asciugamano con il quale asciugarlo.
Immediatamente lo avvolgo in una salvietta e inizio a tamponare il
pelo. Il suo
pelo lungo e folto trattiene molta acqua, mi ci vorrà un
po’ per asciugarlo.
Utilizzerei il phon ma mi costerebbe qualche fastidioso e doloroso
graffio, detestando lui l'aria calda. Per
un momento mi dimentico di essere zuppa a mia volta e mi dedico
completamente
al gatto. Quando me ne rendo conto, proprio nel momento in cui i
vestiti iniziano ad
asciugarmisi addosso ed interviene una fastidiosa sensazione di freddo,
decido
di non farci caso. Hiram è l’unica compagnia che
abbia in questa casa e non
voglio assolutamente che si ammali. Hiram,
secondo la veterinaria, sarebbe stato un ottima compagnia per mia
nonna, quando io ero fuori casa. Ora che lei non c'è
più mi aiuta a sentirmi meno sola, in una casa tanto grande
e piena di stanze vuote.
Ad opera quasi ultimata il gatto comincia a dimenarsi, segnale che non
resisterà oltre. Lo libero dalla salvietta e lui subito fa
un balzo verso il
pavimento. Dopodiché, elegantemente, esce dal bagno.
Invidierò sempre
l’elegante e sinuoso movimento dei gatti.
Finalmente
posso liberarmi dei
vestiti umidi, che getto subito nel cesto della biancheria e mi infilo
nella
vasca. L’acqua è calda, bollente, tanto da
riempire di vapore l’intera stanza e
appannare il vetro dello specchio sopra il lavandino. Mi lascio
lentamente
scivolare lungo il bordo della vasca e chiudo gli occhi. La mia mente
inizia a
vagare e mi riporta a qualche anno prima, quando il gatto Hiram
entrò nella
vita mia e di mia nonna.
-Sai
nonna, ho sempre desiderato
un gatto.
Esclamai,
osservando quel
mucchietto d’ossa che in quel preciso momento si stava
ingozzando di croccantini.
Era molto magro e affamato, doveva essere a digiuno da
parecchio tempo.
-Lo
so Jenny, non facevi che
ripetermelo da bambina. Era tua madre non voleva che l’avessi.
Rispose
mia nonna. Me la rivedo
ancora adesso: seduta sulla sedia di vimini nel salottino della
veranda, con i
suoi capelli bianchi come la neve raccolti in cima al capo e i suoi
vestiti a
fiori. Sorrideva sempre quando mi guardava.
-Già…
diceva che avrebbero voluto
portarmi con loro in giro per il mondo e che un gatto sarebbe stato
sconveniente. Mi avessero almeno portata a fare una vacanza, San Diego
o a
Santa Monica. Non chiedevo molto…
Mia
nonna soffriva nel vedermi
triste e parlare dei miei genitori mi ha creato sempre una grande
tristezza, per
questo motivo cercava di distrarmi e di cambiare discorso, il
più delle volte
in maniera alquanto palese. Nonna Angela era mia nonna materna e
benché non
avesse mai apprezzato il modo in cui mia madre si comportava con me,
preferiva
non dirlo apertamente né aveva mai esplicitamente criticato
le sue scelte.
-Oh
guarda! Ha alzato la testa,
ti sta guardando!
Esclamò,
indirizzando di nuovo
l’attenzione sul gatto.
-Come
pensi si chiami?
Chiesi,
avvicinandomi di più.
Avevo timore a toccarlo, i primi momenti. Temevo che avesse paura e che
mi
graffiasse, al contrario, non aspettava altro che qualcuno lo
carezzasse.
-Non
avremmo mai modo di saperlo,
Jenny. Possiamo però provare ad indovinare, che ne dici?
Annuii,
iniziando ad
osservare il gatto
per capire quale nome
potesse avere.
-È
un gatto bianco… Neve?
Il
gatto sembrava non rispondere.
Non che dovesse o potesse farlo ma ero convinta che in qualche modo
sarebbe
riuscito a farcelo capire.
-Uhm…
no, va bene. Cotone?
Nuvola?
Ancora
nulla. Iniziai a credere
che quel gatto non avrebbe mai risposto a nessun nome,
finché fu mia nonna
a parlare.
-Hiram!
Il
gatto immediatamente inclinò
il capo e si avvicinò a mia nonna, strusciandosi contro le
sue gambe. Rimasi
quasi sorpresa dalla sua reazione.
-Credi
che sia veramente questo
il nome, nonna?
Mia
nonna mi sorrise di nuovo,
dopodiché fece cenno al gatto di salire sulle sue gambe,
chiamandolo ancora una volta con quel nome particolare.
Questi le saltò sulle gambe immediatamente e si mise seduto,
ricevendo di buon grado le
coccole di mia nonna.
-Ne
dubito. Potrebbe assomigliare
al suo vero nome oppure ricordagli la sonorità.
Iniziai
subito a pensare a
qualche nome il cui suono potesse almeno assomigliare ad
“Hiram” ma non mi
venne in mente nulla.
-Nome
interessante nonna. Da dove
ti è uscito?
Chiesi
poi, molto curiosa. Mia
nonna, che stava ancora accarezzando il gatto, ci mise un istante per
rispondere e per la prima volta dopo tanti anni, perlomeno dopo la
morte del
nonno, le vidi un’espressione malinconica sul viso.
-Conoscevo
una persona con questo
nome. Tanti anni fa…
La
mia mente romantica mi spinse
subito a pensare a qualche vecchio amore adolescenziale e non mi feci
alcun
problema a farle delle domande a riguardo.
-Era
un tuo fidanzato? Magari del
periodo della Seconda Guerra Mondiale! Eri ancora in Italia? Il nome mi
sembra
ebraico o sbaglio?
Mia
nonna scosse il capo.
-Non
era il mio fidanzato.
Comunque fai un po’ troppe domande, non ti pare?
Sobbalzo.
Mi stavo quasi
addormentando nella vasca da bagno. Mi succede spesso quando mi
rilasso, quando
libero ogni muscolo del mio corpo e mi concedo il lusso di non fare
nulla,
assolutamente nulla. Dopo qualche istante, giusto il tempo necessario
per
riprendere coscienza e capire effettivamente dove e chi sia, esco dalla
vasca e
mi avvolgo nell’accappatoio. Benché piova non fa
freddo, siamo solo a settembre
dopotutto! Senza contare che per fortuna il clima in California
è sempre
gradevole.
Non
sapendo cosa indossare e non
avendo la minima voglia di scegliere dei vestiti, ancora con
l’accappatoio
indosso, mi getto sul letto. Anche Hiram si trova nella mia stanza,
è
acciambellato ai piedi del letto e sta dormendo. Mi allungo verso in
comodino
alla mia sinistra e afferro il telecomando. Credo di aver guardato il
telegiornale l’ultima volta che ho acceso questa televisione,
poiché il canale
che mi ritrovo davanti è quello d’informazione
ventiquattrore su ventiquattro.
Stanno trasmettendo il meteo e decido di fermarmi ad ascoltare, prima
di
cambiare canale. L’annunciatrice del meteo, che mi ricorda in
modo spaventoso
Ellie, inizia a parlare della California del nord, la zona in cui mi
trovo. Si
riferisce a questa ondata di maltempo come qualcosa di eccessivamente
sorprendente e improvviso. Annuncia poi, a mio gran dispiacere, che
questa
perturbazione non lascerà la costa per almeno altri tre
giorni. Dopo aver
sentito ciò decido che è ora di girare canale.
Nel frattempo Hiram si è mosso e
si è accoccolato in quella piccola porzione di spazio tra il
mio gomito e il
mio fianco sinistro.
Mi
addormento, senza rendermene
conto e mi sveglio solo grazie al suono del mio cellulare. Balzo
rapidamente in
piedi, dimenticandomi del gatto sdraiato accanto a
me, che finisce immediatamente in fondo al letto.
Il cellulare si trova ancora al piano di sotto, nella mia borsa.
Scendo le scale reggendomi alla ringhiera, poiché essendo
ancora a piedi nudi
rischio di scivolare sui gradini di legno. Afferro il cellulare e,
senza
nemmeno guardare il display, rispondo.
-Pronto?
Esclamo,
quasi timorosa di chi
possa essere il mio interlocutore.
-Jennifer!
Sarà già la quarta
telefonata che ti faccio.
È
Andrew e, dal tono di voce,
sembra indispettito.
-Andrew
scusami! Devo essermi
addormentata. Avevi bisogno di qualcosa?
Andrew
esita prima di parlare.
-Veramente
si. Ascolta, so di
averti mandata a casa e credimi non avrei voluto disturbarti
ma…
Capisco
di dover tornare in
ufficio e il tono di Andrew sembra preoccupato.
-Non
importa. È successo qualcosa
di grave?
Chiedo.
-Si
ma preferirei parlartene a
quattr’occhi. Tra quanto tempo riusciresti a venire in
ufficio?
Guardo
l’orologio a pendolo del
salotto, segna le 16.30. Mi sorprendo di essermi addormentata
così a lungo,
dimenticandomi persino di mangiare.
-Per
le cinque è troppo tardi?
-No,
va benissimo. Ti aspetto.
Riattacca.
Appoggio il telefono
sulla credenza del salotto accanto alla borsa e salgo immediatamente in
camera,
pronta a vestirmi e correre in ufficio il prima possibile. Andrew non
mi ha
detto nulla, non mi ha lasciato capire per quale motivo è
intenzionato a
vedermi immediatamente. So solo che si tratta di qualcosa di importante
o
peggio, di grave. Dò un ultimo sguardo al gatto sul letto,
che nel frattempo si
è addormentato di nuovo e poi mi catapulto nella mia piccola
ma stracolma
cabina armadio per prendere il primo abito decente che mi salti
all’occhio.
Senza nemmeno truccarmi, con i capelli ancora umidi, esco di casa,
cercando di
essere più veloce possibile.
---
Ecco anche la terza parte. Ringrazio intanto opale nero per
la recensione. A partire da questo capitolo le cose iniziano a
movimentarsi. Non mi dilungo oltre, a presto :) ---
|
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Capitolo 4 *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 4
Non
ho tempo per parcheggiare
l’auto adeguatamente e allo stesso tempo non ho intenzione di
disturbare Adam
che, oltretutto, dovrebbe essere in tribunale a quest’ora.
Per questo motivo
parcheggio dove capita senza preoccuparmi o cimentarmi in manovre
complesse,
sperando vivamente di non ricavarne una multa.
Immediatamente
corro in ufficio e
trovo Andrew all’ingresso, che parla con le segretarie.
-Andrew,
ho fatto più presto
possibile. Cosa è successo?
Il
suo viso è sconvolto e non
porta gli occhiali. Caroline mi fa un breve cenno di saluto con la
mano, anche
la sua espressione non è gioiosa. Non riesco veramente ad
immaginare cosa possa
essere successo di tanto terribile. Il mio primo pensiero mi porta ad
Ellie ed
Adam. Spero vivamente non sia successo nulla a nessuno dei due.
-Vieni
nel mio ufficio, ne
parliamo là.
Seguo
Andrew che a passo veloce
mi conduce nel suo ufficio, aspetta che entri e che mi sieda e poi
chiude la
porta. Non dice una parola finché non è seduto
anche lui a sua volta, alla sua
scrivania.
-Si
tratta del procuratore,
quello che abbiamo conosciuto qualche ora fa.
Annuisco
per dargli segno di
proseguire con il discorso.
-È
stato trovato morto nella sua
auto.
Spalanco
gli occhi. Non riesco a
credere a ciò che mi è stato appena detto.
-Morto?
Richiedo,
giusto per essere
sicura. Mi aggrappo alla seduta della sedia per assicurarmi di essere
realmente in ufficio e
non ancora immersa nella vasca da bagno, esanime.
-Mi
ha telefonato all’incirca
alle quattro un agente di polizia. A quanto pare l’ora del
decesso è stimata
tra le 13 e le 15.30, non lo sanno ancora con precisione.
Sfortunatamente sono
stato io l’ultima persona ad averlo visto.
Risponde
Andrew senza guardarmi
negli occhi, giocherellando nervosamente con la bacchetta degli
occhiali.
-C’ero
anche io con te!
Esclamo.
Lui per un istante alza
gli occhi e mi rivolge un debole sorriso.
-Sulla
sua agenda c’era scritto
il mio nome. Nessuno sapeva che ci saresti stata anche tu, Jen.
Scuoto
il capo. Sebbene non sia
successo nulla non ho intenzione di lasciare Andrew da solo in questa
situazione.
-Testimonierò
per te come farà
anche Katherine; anche lei l’ha visto uscire dal nostro
ufficio!
Senza
accorgermi alzo la voce e
Andrew subito mi fa cenno con la mano di abbassare i toni, di non
urlare. Per
qualche istante regna il silenzio nella stanza. Si sentono solamente le
bacchette degli occhiali di Andrew aprirsi e chiudersi. Mi permetto di
osservarlo, sempre in silenzio, per un poco. Questa faccenda deve
averlo
colpito eccessivamente perché il suo viso sembra devastato e
triste.
-Sai
Jen, so bene di non dover
temere l’incontro del poliziotto. Benché sia
uscito proprio alle 13 da questo
ufficio, come ha testimoniato il portiere del palazzo, non ho fatto
nulla. Sono
andato dritto a casa e sai cos’ho fatto?
So
bene che si tratta di una di
quelle domande che avranno comunque una risposta, così non
parlo e mi limito a
rivolgergli uno sguardo incuriosito.
-Ho
firmato i documenti del mio
divorzio e, non appena ho finito, è squillato il telefono
dal quale ho ricevuto
questa bella notizia. Non è stato proprio il mio anno, sai?
Le
parole cariche di dolore di
Andrew mi rattristano. Vorrei tanto fare qualcosa per aiutarlo per
stargli
vicino, in qualche modo.
-Andrew
io.. non so veramente
cosa dire.
Annuisce
e si infila gli
occhiali, quasi voglia concentrarsi su qualcosa.
-Domani
mattina verrai con me?
Chiede,
con tono quasi
supplichevole.
-Ma
certo, che domande!
Fuori
dall’ufficio non so se
tornare a casa o meno. Non ho nulla da fare a casa, di sicuro finirei
per
addormentarmi o al peggio a riflettere su quanto è appena
accaduto. Se mi
avessero detto questa mattina che l’indomani avrei discusso
con un poliziotto
circa un caso di omicidio di certo sarei scoppiata a ridere. Capita
spesso che
omicidi/suicidi richiedano la mia figura lavorativa ma mai un omicidio
mi aveva
toccata così da vicino. Non ho idea di che ore si siano
fatte, presumo le sei.
Prendo il cellulare dalla borsa e decido, senza pensarci troppo, di
fare una
telefonata a Ellie per invitarla a cena. Ovviamente lei accetta
chiedendomi
anche i particolari del suddetto omicidio, che molto probabilmente
diverrà
l’argomento principale della nostra cena.
Poiché
nel mio frigorifero c’è
poco o nulla, decido di fare una visita al centro commerciale
più vicino per
comprare qualcosa di buono da cucinare per la mia serata tranquilla con
Ellie. Prendo
il cestino con le ruote ed inizio a guardarmi attorno per avere una
qualche
ispirazione. So che Ellie adora le patate al forno, per cui mi dirigo
immediatamente
al reparto ortofrutta e lancio una retina di sei patate nel cestino,
dopodiché
ritengo opportuno dare un’occhiata alla carne. Tutto
ciò che so cucinare mi è
stato insegnato da mia nonna che, neanche a farlo apposta, incarnava il
perfetto esempio della donna italiana di un volta: amante della
famiglia e ottima cuoca. Era brava a cucinare l’arrosto e
deve avermi trasmesso in qualche
modo oltre alla ricetta anche la sua abilità. Mentre osservo
minuziosamente un
pezzo di carne incellofanato dopo l’altro, cercando di
preferire quelli più
magri e più sostanziosi, un brivido mi percorre la schiena.
Un brivido freddo,
gelido, che mi colpisce fino alle ossa e che mi fa sussultare.
Istintivamente
mi giro, credendo forse che qualcuno abbia aperto i frigoriferi a muro
che
contengono i surgelati. Tuttavia dietro di me non
c’è nessuno e i frigoriferi
sono troppo lontani, se anche qualcuno li aprisse non mi darebbe alcun
fastidio. Penso allora di essere rimasta troppo tempo davanti alle
vaschette
della carne. Infilo nel cestino il pezzo di che ho in mano in quel
momento e mi
allontano dal reparto. Mi trovo ora nella corsia delle bevande. Credo
che una
buona bottiglia di vino sia l’elemento essenziale in una cena
casalinga. Dopo
aver deciso di orientarmi sul vino rosso inizio a leggere le varie
etichette e
naturalmente i prezzi, decisamente alti. Proprio mentre cerco di
allungarmi il
più possibile per raggiungere una bottiglia di vino a soli
tre dollari e
quarantacinque, vengo colta dallo stesso brivido di poco prima,
più intenso e
più duraturo. Mi guardo nuovamente in giro per cercare di
rilevare la causa di
questa sorta di malessere ma continuo a non capire. Decidendo di dare
la colpa al
sistema di aria condizionata prendo così la prima bottiglia
davanti a me e, senza tener
conto del prezzo, la appoggio nel cestello per poi dirigermi
immediatamente
alle casse.
Fuori
dal supermercato carico le
borse della spesa in macchina che per poco,non finiscono sul pavimento
di
cemento poiché ancora un volta lo stesso brivido di poco
prima mi scuote.
Inizio a preoccuparmi ma questa volta imputo il problema ad un
possibile
raffreddore in arrivo. Dopotutto ho trascorso perlomeno
mezz’ora con i vestiti
bagnati, più preoccupata ad asciugare il gatto che me stessa
e subito dopo mi
sono addormentata con la pelle ancora umida e l’accappatoio
bagnato addosso.
Decido di prendere un’aspirina non appena arriverò
a casa, con la speranza di
bloccare sul tempo il possibile malanno nascente.
-Te
lo devo proprio dire Jen: sei
fantastica!
Esclama
Ellie, divorando con
voracità buona parte del suo piatto di arrosto. Io sorrido,
quasi imbarazzata
da quello che credo sia il suo decimo complimento della serata. Le
verso un
bicchiere di vino che lei, di certo, non rifiuta.
-Non
abbiamo ancora parlato dell’omicidio!
Esordisce,
con la bocca ancora
piena. Se l’argomento da trattare non fosse così
serio definirei la scena
piuttosto comica.
-A
dirti la verità, Ellie, non so
granché. So solo che Andrew era a dir poco distrutto.
Ellie
posa la forchetta e beve un
piccolo sorso di vino, prima di parlare.
-Credono
veramente che sia stato
lui ad uccidere questo tizio?
Scuoto
il capo.
-No.
Non penso, almeno. Credo che
per prassi debbano interrogare l’ultima o le ultime persone
che abbiano avuto
contatto con la vittima.
Sia
io sia Ellie abbiamo finito
di cenare, ragion per cui mi alzo per portare i piatti in cucina.
-E…
come sarebbe morto questo
tizio? Non potrebbe semplicemente trattarsi, che so, di un infarto?
Domanda
Ellie, che si alza per
darmi una mano. Ovviamente rifiuto e le faccio cenno di rimanere seduta.
-Non
credo. Il poliziotto ha
parlato di omicidio. Si sarà trattato di una pugnalata o un
colpo di pistola o…
non saprei.
Arrivata
in cucina poso i piatti
nel lavello, dove poco prima avevo già messo pentole e
teglia per le patate.
Metto il tappo al lavandino e do uno sguardo veloce alla finestra. Sono
passate
le nove e il cielo è buio. Il mio giardino non è
dotato di grande
illuminazione, tuttavia a giudicare dal rumore proveniente dalle
grondaie e
dalle gocce sul vetro, la pioggia non ha ancora intenzione di cessare.
Cerco di non pensarci e mi
metto a preparare
la moka per il caffè, una cosa che apprezzano sempre i miei
ospiti delle mie
cene: il caffè. Personalmente non ne sono grande
consumatrice ma mia nonna mi
ha insegnato a prepararlo alla vecchia maniera e, a quanto pare,
è ottimo.
Svito la parte superiore della caffettiera e vi verso l’acqua
quanto basta per
far sì che l’imbuto, che poi andrò a
posizionarvi sopra, rimanga asciutto.
Dopodiché vado a prendere una delle mie miscele preferite e
la metto proprio
sopra l’imbuto bucherellato, facendo ben attenzione a non
schiacciarla troppo
con il cucchiaino. Mia nonna diceva sempre che maggiore è la
delicatezza nel
posizionare la polvere e migliore sarà il gusto del
caffè. Alla fine posiziono
la moka sul fornello più piccolo e aspetto che sia pronto.
Ho sempre trovato
piuttosto rilassante la procedura di preparazione del caffè.
Benché, appunto,
non ne sia avida consumatrice adoro quel profumo forte e carico.
Al
fischio della caffettiera
spengo il fuco e preparo le tazzine del caffè portandole poi
in sala da Ellie,
che ne frattempo ha quasi finito la bottiglia di vino.
-Deduco
ti piacesse molto anche
il vino, non è vero?
Ellie
sorride, le sue guance
hanno assunto un delizioso color rosso fuoco e i suoi occhi luccicano.
Il vino
deve aver già fatto il suo effetto.
-Sarò
un po’ brilla Jen ma nulla
mi toglie dalla testa che Andrew sia segretamente cotto di te!
Finisco
d’un sorso il mio caffè,
prima di risponderle.
-Ellie,
ti ho già detto di no.
Non insistere, su!
Ellie
continua a non essere
d’accordo e preferisce pensarla a suo modo.
-Dici
di no adesso ma… vedrai! Ci
scommetto tutto quello che vuoi, si avvicinerà a te prima o
poi e forse ti
renderai conto tu stessa che ho ragione!
Ellie
torna a casa poco dopo le
undici ed io rimango di nuovo sola. Per evitare di fare altri pensieri
decido
di andare subito a letto ma prima prendo nuovamente
un’aspirina. Dovendo andare
alla centrale di polizia con Andrew, l’indomani, vorrei
essere in perfetta
forma. Mentre sciacquo il bicchiere utilizzato per la pastiglia mi
rendo conto
di non aver visto Hiram in giro per casa per tutta la durata della
cena.
Immediatamente mi metto a cercarlo, lo chiamo più volte ed
inizio a
preoccuparmi. Fuori imperversa il temporale e il solo pensiero che
possa
trascorrere da solo la notte in mezzo alla tempesta mi mette in
apprensione.
Decido di infilarmi qualcosa addosso e, armata della luce del flash del
mio
cellulare, esco in cortile a cercarlo. Inizio a chiamarlo in tono
sempre più
disperato, finché non sento un miagolio alle mie spalle. Mi
giro e lui è dietro
di me, seduto che mi fissa. Istintivamente mi sporgo per prenderlo ma
mi
graffia. Una reazione strana da parte sua, poiché non mi ha
mai graffiata senza
un valido motivo. Subito dopo però mi si avvicina
ed inizia a strusciarsi
contro le mie gambe, lasciandovi una chiazza scura che sembra essere
sangue.
Temendo che sia ferito o che abbia avuto la peggio in qualche baruffa
felina,
lo afferro rapidamente e lo porto in casa. Senza tener conto delle
buone norme
dell’igiene lo appoggio sul bordo del lavello più
vicino, che è quello della
cucina, inizio poi a tamponare il pelo con acqua calda e carta
assorbente. Mi
accorgo che fortunatamente non ha alcuna ferita, il sangue non deve
essere il
suo. Quasi sollevata lo appoggio sul pavimento e lui immediatamente
corre verso
la sua cuccetta in salotto, ad asciugare il pelo bagnato. Lavo via anche il sangue
trasferito sulla mia
gamba e, abbassando lo sguardo, noto la scia di impronte lasciate da
Hiram.
-Di
nuovo sangue!
Esclamo,
osservando con più
attenzione. Per un istante mi fermo a pensare come sia possibile che il
mio
gatto avesse addosso tutto quel sangue. Nella mia testa avanza
l’ipotesi che
possa trattarsi di una piccola preda, come un topo o un coniglio,
massacrato
brutalmente dal gatto. Non mi sembra però una spiegazione
plausibile perché
Hiram non è un gran cacciatore e di rado le sue passeggiate
superano il
giardino di casa. Inoltre se anche avesse ucciso un animale il suo muso
e lo
sterno sarebbero stati sporchi. La quantità più
grande del sangue si trovava invece
sulla schiena e sul fianco destro del gatto.
-Come
se qualcuno con le mani sporche
di sangue lo avesse accarezzato…
Sussulto
e immediatamente una
paura quasi del tutto irrazionale mi assale. Con ancora in mente
l’omicidio
dell’avvocato inizio a temere la presenza di un serial killer
in città, arrivato
magari nel mio quartiere e corro a chiudere tutte le porte e le
finestre della
casa con il cuore che mi batte all’impazzata. Do un ultimo
sguardo al gatto
che, ignaro di tutto, si è addormentato nella sua cuccia e
mentre pulisco ogni
singola traccia di sangue dal pavimento cerco di non farmi prendere del
tutto
dalla paura.
La
mattina successiva impiego
circa una decina di minuti ad aprire tutte le finestre chiuse con i
chiavistelli. Con mio grande disappunto noto che sta ancora piovendo.
Velocemente mi vesto e mi preparo per incontrare Andrew alla centrale
di
polizia.
Uscendo
noto che l’abitazione
difronte alla mia reca il cartello “Vendesi” nel
vialetto. Cosa piuttosto
curiosa perché non mi ricordo di averlo visto il giorno
precedente. In quella
casa abitava un signore che vi si è trasferito circa tre
mesi fa, un certo Warren
di Chicago. Non credo di aver mai parlato con lui, gli ho forse rivolto
qualche
cenno di saluto dall’altra parte della strada, le rare volte
nelle quali l’ho
visto uscire da casa sua. Ad ogni modo, per evitare di presentarmi in
ritardo,
salgo in macchina e mi dirigo verso la centrale che si trova a circa mezz’ora da casa
mia. Quando arrivo
Andrew è già là nel piazzale di fronte
all’edificio con l’ombrello in mano.
-Sono
in ritardo?
Chiedo
correndo verso di lui che
subito pone l’ombrello sopra il mio capo.
-No,
anzi, siamo in anticipo. Non
sono riuscito a dormire molto stanotte e mi sono presentato qui circa
venti
minuti fa.
Riesco
a leggere chiaramente la
tensione sul viso di Andrew. Si è fatto la barba,
probabilmente poche ore prima,
perché il suo viso è ancora leggermente
arrossato, si è anche vestito di tutto punto ma
nulla è servito per mascherare il suo reale stato
d’animo.
-Ha
altro da dichiarare?
Chiede
l’agente che fino a pochi
minuti prima ha parlato con Andrew e con me, chiedendoci le cose
più disparate.
-Nulla.
Come ho già detto è stata
la prima volta in cui abbiamo visto quell’uomo.
L’agente
continua a prendere
appunti e a scribacchiare sul suo quadernino. La sua espressione
è
indecifrabile, non un momento durante il colloquio si è
mostrato convinto o
insospettito riguardo alle nostre dichiarazioni. Di certo,
però, non ha
tralasciato neanche una parola.
-Dal
momento in cui non ci sono
prove nei vostri confronti, direi che siete liberi di andare. Ad ogni
modo i
sospetti su di voi, giusto perché lo sappiate, erano davvero
minimi.
Conclude,
alla fine, posando il
blocco sulla scrivania. Si
alza e tende
la mano verso Andrew, facendogli quindi cenno di alzarsi a sua volta e
di
andare. Andrew immediatamente balza in piedi e così faccio
io, salutando allo
stesso modo l’agente.
Percorriamo
la rampa di scale che
porta dall’ufficetto nel quale abbiamo trascorso quasi due
ore all’ingresso
dello stabile, senza dire una parola.
-Aspetta,
dimenticavo l’ombrello!
Sobbalza
Andrew, poco prima di
abbandonare l’edificio. Io annuisco col capo e, nel
frattempo, decido di
iniziare ad uscire. Quel piccolo ufficio buio mi ha lasciato un
terribile senso
di oppressione. Per fortuna l’ingresso è previsto
di tettoia e anche uscendo
non dovrei bagnarmi. Una volta uscita dall'edificio, con mia grande
sorpresa, noto che la pioggia è
cessata.
-Jen,
potevi aspettarmi dentro!
Esclama
Andrew, quasi con il
fiatone. Evidentemente deve aver fatto le scale di corsa.
-Non
piove più!
Esclamo
con un grande sorriso che
pare spiazzare Andrew, dal momento che abbassa lo sguardo, quasi
timoroso.
-Non
mi sembra vero che abbia
smesso finalmente di piovere!
Esclamo,
correndo in maniera poco
educata nel parcheggio. Distendo le braccia e quasi mi sento sollevata
dal non
sentire neanche una sola goccia di pioggia sulla pelle. Andrew mi
raggiunge e rimane
per qualche secondo ad osservarmi incuriosito.
-Il
cielo è ancora piuttosto
grigio, aspetterei a cantare: “vittoria”,
se fossi in te.
Io
scuoto il capo.
-Sento
che adesso tornerà il
sole! Un bel sole caldo, come quelli che tutti conosciamo in California!
Mi sento un po’
bambina nelle mie reazioni e nella mia
sproporzionata felicità. Credo che anche Andrew sia rimasto
sorpreso dal mio
comportamento ma gli sguardi che mi rivolge sembrano quasi teneri.
Probabilmente
chiunque avesse visto una ragazza della mia età saltellare e
girare su se
stessa in un parcheggio avrebbe, come minimo, storto il naso. Lui, al
contrario, sembra servirsi della mia felicità.
--- Eccomi con il quarto capitolo. Ad
essere sincera questa sarebbe stata l'ultima parte del primo capitolo
ma ho deciso di dividerlo in più parti per
"comodità". Ringrazio nuovamente Opale nero per il
commento: sì, Jen è piccola ma tosta. Tutta la
sua forza emergerà andando avanti con la storia :)
Alla prossima! ---
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Capitolo 5 *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 5
Mi
alzo quasi con impazienza.
Balzo dal letto con la stessa rapidità di un gatto e mi
precipito ad aprire la
finestra. Ecco che il sole, che tanto si è fatto desiderare,
avvolgere il mio
viso con tutto il suo calore. Rimango appoggiata al davanzale della
finestra
della mia stanza ad occhi chiusi, respirando la brezza mattutina e
lasciando
che il calore pervada tutto il mio corpo. Sebbene voglia rimanere
ancora
qualche minuto in muta contemplazione decido di darmi una mossa e
inizio quindi
a prepararmi per andare a lavoro. In una giornata come questa
presentarmi in
ufficio sarebbe di sicuro l’ultima cosa che vorrei fare, per
quanto mi piaccia
il mio lavoro. Oltretutto il giorno precedente Andrew era stato
così gentile da
lasciarmi di nuovo la giornata libera, non appena tornati dalla
centrale di
polizia. L’avevo visto più sollevato, quasi
più sereno.
Scendo
le scale con il sorriso
sulle labbra, saltellando di gradino in gradino. Il gatto mi aspetta
già
davanti alla porta, invitandomi ad aprirgli per permettergli di fare la
sua
quotidiana passeggiata.
-Buongiorno
Hiram!
Mi
chino e lo accarezzo
affettuosamente. Lui subito si stiracchia ed inizia a fare le fusa. Non
ho
trovato nessun altro segno sul suo corpicino dopo quella sera. Ancora
mi chiedo
cosa possa essere stato, tuttavia decido di smettere di preoccuparmi.
Apro la
porta e mi dirigo verso la cucina per prepararmi la colazione.
La
cucina è la stanza più esposta
al sole di tutta la casa, fa sempre un gran caldo e quando ci si siede
al
tavolo durante il giorno è necessario il più
delle volte socchiudere gli occhi
per via dei raggi che pervadono l'ambiente. Ho deciso di indossare un
vestitino
di lino bianco, con dei decori in pizzo. È tipicamente
estivo e particolarmente
adatto alla giornata attuale. Mi siedo al tavolo in cucina
e strofino con la guancia la mia spalla calda e seminuda, in pura
estasi. Non
volendo far tardi bevo di corsa il mio latte di soia e poi vado subito
a
chiamare il gatto per farlo rientrare.
Non
ho bisogno di chiamarlo
questa mattina, perché è disteso lungo
l’ultimo gradino dell’ingresso e si sta
stiracchiando. Non appena mi vede mi raggiunge e in modo molto
diligente
rientra in casa, strusciandosi contro le mie gambe.
Dopo
aver chiuso con attenzione
porte e finestre di casa raccolgo la mia borsa, indosso un paio di
occhiali da
sole e mi preparo ad uscire. Lo sguardo mi porta ad osservare la casa
di
fronte. Il cartello “Vendesi” comparso il giorno
precedente non c’è più. Al
contrario la casa ora sembra essere abitata. Tutte le persiane sono
aperte e,
nonostante la distanza, i vetri sembrano splendentii; come appena
lavati.
Ad ogni
modo non ho tempo di osservare la casa, la mia contemplazione nei al
sole mi ha quasi fatto ritardare, per cui mi dirigo verso la macchina
senza
ulteriori indugi. Mi accorgo di aver lasciato le chiavi in fondo alla
borsa e
mentre frugo tra portafogli, cosmetici vari e fazzoletti vengo
nuovamente interrotta da un
brivido, dalla stessa intensità di quelli di un paio di
giorni prima.
Mi blocco per qualche istante, stringendomi nella spalle. Forse ho
semplicemente esagerato con l’abbigliamento estivo. Torno a
cercare le chiavi
che mi capitano subito tra le dita e salgo in macchina.
Arrivata
in ufficio vengo fermata
da Katherine, una delle segretarie.
-Jennifer,
il capo ha chiesto di
mandarti subito nel suo ufficio.
Afferma,
senza quasi guardarmi in
viso. Non ho idea di cosa possa avere bisogno con urgenza Andrew,
così senza
farmi troppe domande o rimuginarci troppo mi dirigo verso il suo
ufficio. Busso
e lui è seduto ad aspettarmi.
-Eccoti!
Ti ha già detto qualcosa
Katherine?
Chiede.
Scuoto il capo.
-Beh,
entra. Non stare sulla
porta, dai.
Annuisco
ed entro nell’ufficio,
socchiudendo la porta alle mie spalle. Mi siedo su una delle
poltroncine
davanti alla scrivania di Andrew e lui sospira. Non lo vedo come un
buon segno.
-La
faccio breve: sta già
arrivando il nuovo avvocato.
Sorrido
nervosamente. Non ci
avevo ancora pensato ma era pressoché ovvio.
-Quando?
Mi
limito a chiedere.
-Tra…
una ventina di minuti
circa.
Spalanco
gli occhi. L’arrivo del
nuovo avvocato mi coglie impreparata. Cerco di riformulare i pensieri,
prima di
parlare con Andrew. Non voglio essere sgarbata.
-Sappiamo
già il nome?
Lui
scuote il capo.
-Brancoliamo
nel buio questa
volta, Jen.
Abbasso
lo sguardo ed inizio a
mordermi nervosamente il labbro. Dovrei alzarmi e andare nel mio
ufficetto ma
la notizia che mi è stata appena data mi ha spiazzata.
Rimango, nella speranza
che dalla bocca di Andrew possa uscire qualche dato utile per non farmi
trovare
del tutto impreparata. Senza pensare che non ho più avuto
occasione di chiamare
Margareth, la madre del bambino sotto servizi sociali. Non
l’ho nemmeno avvisata
della precoce dipartita dell’avvocato appena assegnato.
-Forse
il destino ci ha aiutati.
Esclamo,
riscoprendo in me
un’inaspettata ventata di ottimismo. Andrew aggrotta la
fronte e mi guarda
confuso, invitandomi di spiegarmi meglio.
-Non
è molto bello da dire ma…
forse la morte dell’avvocato Becks non sarà del
tutto negativa.
Non
riesco a capire se
l’espressione sul viso di Andrew è disgustata o
imbarazzata. Ad ogni modo non
parla, costringendomi a continuare il discorso.
-Non
mi fraintendere Andrew. Di certo non
mi felicito della morte di una persona, mai e poi mai lo farei. Dico
solo che
magari il prossimo avvocato sarà più clemente con
noi.
Osservo
il mio capo con
occhi supplicanti, cercando
quasi di sfruttare al meglio la naturale ingenuità del mio
sguardo. Credo che
mia tattica funzioni, perché sulle labbra di Andrew compare
un evidente
sorriso.
-Sei
incredibile, Jen. Fino a
ieri una notizia del genere ti avrebbe quasi portata alle lacrime. Oggi
invece
sorridi tanto che il tuo faccino minuto a stento riesce a contenerti.
Scoppio
una risata alquanto rumorosa
che pare divertire Andrew.
-Ti
piace davvero tanto il sole,
eh?
Annuisco.
-Confesso!
Mi
batto una mano sul petto in
segno di giuramento e anche Andrew scoppia a ridere.
Mancano
giusto dieci minuti
all’arrivo del nuovo avvocato. Per fare buona impressione
decido di andare a
prendere del caffè da Starbucks, che si trova a poco meno di
cento metri
dall’ufficio. Osservo per sicurezza l’orologio del
mio cellulare, per essere
certa di essere ancora in tempo. Uscita dall’ufficio,
però, vengo colta nuovamente
da un brivido.
Rimango
bloccata cercando di
calmarmi ed inizio a sfregarmi energicamente le braccia per
riscaldarle. Non
posso dire di avere freddo ma al tempo stesso la sensazione spiacevole
provocata da quel genere di brividio è estremamente
fastidiosa. Ricorda un
misto tra una scossa elettrica e una secchiata di acqua gelida gettata
sulla
schiena.
-Un
po’ di esposizione al sole è
il rimedio migliore.
Afferma
una voce, proveniente alla
mia destra. Mi giro e riesco appena a scorgere una figura. Si tratta di
un uomo
in completo piuttosto elegante, grigio forse, che sparisce
all’interno
dell’edificio. Estraggo nuovamente il cellulare dalla mia
borsa per controllare
l’orario, con il sospetto che quella figura appartenga
proprio al nuovo
avvocato. C’è ancora del tempo.
Sempre
più convinta della mia visita a
Starbucks attraverso la strada. Sono le 10.50, generalmente i tempi di
attesa a
quest’ora sono piuttosto brevi. Davanti all’entrata esito. Inizio ad essere
quasi sicura che
l’uomo incrociato poco prima sia il nuovo avvocato. Certo,
nel palazzo sono
compresi altri uffici e altre strutture, tuttavia deve per forza
trattarsi di
lui.
“Ormai
sono qui. Meglio
presentarsi in ritardo con una buona scusa, che a mani
vuote.” Penso, decisa ad
entrare. Davanti a me alla cassa ci sono solo un paio di persone. Non
appena
arrivato il mio turno ordino, senza pensarci troppo, tre
caffè semplici. Scatto
poi in ufficio, riuscendo ad arrivare in perfetto orario.
-Andrew
si trova già nella
saletta con l’avvocato, fai presto.
Esclama
Katherine non appena mi
vede. Come immaginavo, l’avvocato era proprio la persona che
mi è passata
accanto pochi minuti prima. Arrivata alla saletta faccio un respiro
profondo e
busso alla porta che è già stata chiusa. Un
“avanti” di Andrew mi permette di
entrare. Ovviamente, quando ho comprato tre bicchieri giganti da
Starbucks, non
avevo fatto conto del mio essere maldestra, ragion per cui faccio
notevole
fatica ad aprire la porta.
-Eccomi,
spero di essere in
orario.
Annuncio,
mentre ancora solo una
parte del mio corpo è entrata ufficialmente nella stanza.
Per non far cadere
nulla apro la porta facendo pressione sulla maniglia con il gomito e
spingendo
con la spalla libera (nell’altra ho la mia borsa, piuttosto
ingombrante) la
porta. Vedendomi in difficoltà uno dei due uomini si alza,
non riesco a capire
immediatamente di chi si tratti ma poi, al primo sguardo, noto che non
si
tratta di Andrew.
Vengo
colta da un altro di quei
brividi, che quasi mi porta a far cadere i bicchieri di
caffè. Prontamente
l’uomo che etichetto come
“l’avvocato” recupera i bicchieri, senza
che una sola
goccia finisca a terra.
-Grazie.
Esclamo,
imbarazzata.
Dopodiché
appoggio il tutto sul
tavolo e mi siedo accanto ad Andrew, che non osservo per paura di
incappare in
uno dei suo sguardi di disapprovazione.
-Dunque
avvocato, come le ho annunciato,
questa è Jennifer Ricci: mia collaboratrice.
L’avvocato
mi tende la mano e io
alzo lo sguardo, facendo altrettanto.
-Hiram
O’Dowell, piacere.
Gli
stringo la mano e lo guardo.
Non è assolutamente il tipo di viso che mi aspettavo di
osservare, è quanto di
più diverso abbia mai visto in un avvocato penalista.
Rimango quasi paralizzata
e ho il sospetto di aver stretto la mano troppo a lungo o di aver
aperto
eccessivamente la bocca, per lo stupore.
Abbasso
nuovamente lo sguardo.
Temo che Andrew si sia accorto della mia reazione inappropriata
poiché si
schiarisce la voce, come per imbarazzo.
-Presumo
che lei si sia già
informato sul caso, avvocato.
Prosegue.
Io prendo coraggio e
torno ad osservare l’uomo che mi sta seduto davanti che, per
fortuna, non
sembra accorgersi del mio scrutare. A primo impatto mi trovo costretta
ad
affermare di non aver mai visto in carne ed ossa un uomo di tale
bellezza.
Alto e di statura robusta, dall’incarnato chiaro ma luminoso,
capelli castano
scuro, quasi tendenti al nero, lineamenti simmetrici.
Si
accorge di me e mi rivolge di
nuovo un’occhiata fugace e mi pietrifica, anzi, mi congela.
Occhi
di ghiaccio quasi
trasparenti, che mi provocano praticamente il medesimo effetto di quei
brividi
che tanto mi infastidiscono da due giorni a questa parte. A differenza
di
quelli, però, potrei osservare quegli occhi per tempo
interminabile, rischiando
quasi di arrivare a congelarmi, di certo non mi lamenterei.
Terminato quello stadio
terribile e alquanto
infantile di paralisi, vengo colta da un flash. Ha detto di chiamarsi
“Hiram”,
come il mio gatto. Non avevo mai conosciuto una persona che si
chiamasse come
il mio gatto e penso che da questo momento in poi mi
sembrerà strano chiamarlo
per dargli da mangiare o per fargli qualche carezza.
-Hai
da aggiungere qualcosa,
Jennifer?
Mi
chiede Andrew, cogliendomi
totalmente impreparata. Non ho ascoltato una parola di ciò
che ha detto. Mi
sembra di colpo di essere tornata alle superiori quando il professore,
accortosi del mio momento di distrazione, mi faceva una domanda
sull’argomento
del quale stava parlando, lasciandomi incapace di rispondere.
-No,
niente.
Dico,
cercando di essere
diplomatica. Ovviamente il trucco non funzionerà con Andrew,
ma spero che
l’avvocato non gli dia troppo peso. Non vorrei mai che quel
mio piccolo momento
di leggerezza mandasse in frantumi tutto il lavoro che ho fatto finora
sul
caso.
In
pieno nervosismo afferro uno
dei tre bicchieroni di Starbucks e ne bevo un sorso, cercando di
schiarirmi le
idee.
-Posso
prenderne uno?
Chiede
gentilmente l’avvocato
Io
annuisco. Non riesco a parlare
perché sto ancora bevendo il mio caffè e il
bicchiere mi copre metà viso.
-Li
ho portati per voi.
Esclamo
rapida, trangugiando
sgraziatamente il caffè che, essendo ancora bollente,
rischia di ustionarmi lo
stomaco.
-Molto
gentile.
Ringrazia
l’avvocato, con
un’eleganza a dir poco atipica. Anche Andrew forse per non
sentirsi escluso,
prende una tazza dalla quale beve un piccolo sorso e poi torna a
parlare.
-Mi
rendo conto che le sembrerà
inappropriato avvocato ma prima di proseguire oltre voglio essere
diretto con
lei: favorevole o sfavorevole?
La
franchezza di Andrew mi
spiazza. Di solito è più diplomatico ed
è di sua consuetudine girare attorno
agli argomenti, senza arrivare mai a dire chiaramente ciò
che vuole sapere.
-Se
per favorevole intende dare
la custodia esclusiva alla madre, direi favorevole.
La
risposta coglie entrambi di
sorpresa. In tutti quei mesi non una sola carica che avesse realmente
peso ai
fini dell’udienza si era rivelata concorde con il nostro
operato. Andrew pare
essere forse più incredulo di me, al punto di dover fare
altre domande per
ottenere un’ulteriore conferma.
-Quindi
per lei la madre è
mentalmente stabile per potersi occupare del figlio?
L’avvocato
non esita un secondo a
dare la sua risposta.
-Per
quanto mi concerne: credo
che non ci sia nessuno più adatto della madre, per occuparsi
del ragazzo.
Ritengo, leggendo i referti, che le sue condizioni siano più
che buone e che
certamente ottenere la custodia esclusiva non farà che
migliorare la
situazione.
-Bene,
molto bene.
Andrew
quasi balbetta. Io mi
limito a sorridere in maniera decisamente ebete. Anche volendo dire
qualcosa,
non riuscirei. La persona davanti a me ha appena espresso il pensiero
che io e
il capo cerchiamo di portare avanti da mesi, l’idea di poter
vedere finalmente
la luce in fondo al tunnel mi lascia a senza parole.
-Naturalmente
ho bisogno di un
confronto con la madre, prima dell’udienza. Se per voi
può andare bene farei
domani, nel pomeriggio.
Andrew
si limita ad annuire.
-Dovrei prima avvisare la
signora Goldman.
Annuncio io,
risvegliandomi dalla catalessi.
-Naturalmente, Jen. Non ci
saranno problemi avvocato.
Ribadisce Andrew,
liquidandomi in modo indegno.
-Perfetto. Se le cose
stanno così direi di congedarsi.
L’avvocato si
alza e, come prima cosa, porge la mano ad
Andrew come cenno di saluto. Io rimango seduta, senza accorgermi della
mia
maleducazione. Non appena dà cenno di voler salutare anche
me mi alzo,
probabilmente arrossendo.
Andrew accompagna
l’avvocato fuori dall’ufficio, mentre io
mi limito a stare seduta, origliando la discussione in disparte.
-Vogliate perdonare la mia
fretta, purtroppo mi sono da poco
trasferito in città e ho ancora delle faccende da sbrigare.
Afferma
l’avvocato, la cui voce sembra essere sempre più
lontana.
-Nessun problema,
avvocato. Avremo modo domani per
approfondire meglio il caso. Abita nelle vicinanze?
Decido di alzarmi,
fingendo di sistemare la sedie, per non
perdere una sola parola del dialogo.
-Si, a poco meno di una
ventina di minuti da qui.
Dopo aver salutato
l’avvocato Andrew torna da me. Chiude
la porta e poggia entrambi i palmi
delle mani sul tavolo.
-Ti avrei uccisa Jen, lo
sai?
Sospira.
-Non ero in ritardo,
è stato lui ad arrivare in anticipo.
Cerco invano di difendermi
ma mi rendo perfettamente conto di
essere poco credibile, al punto che il mio tono di voce va’
pian piano
sfumando.
-Gli ho detto che stavo
aspettando la mia collaboratrice e
lui m’ha detto di aver visto una ragazza bionda uscire
dall’ufficio…
Mi mordo il labbro
nervosamente e abbasso lo sguardo, non so
come replicare e provo un certo imbarazzo.
-Sei fortunata, dopo
questo incontro sono di buon umore e te la faccio passare!
Andrew si china per
cercare il mio sguardo, che al momento è
rivolto alle piastrelle in linoleum dell’ufficio.
-Sorridi, dai!
Esclama.
-Credi davvero che
andrà tutto bene?
Chiedo, colta
improvvisamente da una terribile sensazione.
-Potrei giurarci. Mi ha
fatto una buonissima impressione
l’avvocato. Quando l’ho visto entrare non pensavo
fosse lui, sembrava un
modello di Abercrombie!
Trattengo a stento una
risatina, portando la mano alla
bocca.
-Non l’avevo
notato.
Esclamo sarcastica.
-Certo, ti credo. Ad ogni
modo, facciamo un accordo, ti va?
Chiede Andrew,
sorprendendomi.
-Che tipo di accordo?
Lui sospira. Prima di
continuare a parlare dà uno sguardo
alla porta, forse per accertarsi che sia realmente chiusa.
-Se tutto andrà
a finire bene ti offro una cena, dove vuoi
tu.
Rimango per un attimo a
bocca spalancata.
-Non ti va?
Chiede lui, quasi insicuro.
-Beh mi farebbe piacere,
certo. Ma… non devi disturbarti
tanto.
Andrew mi sorride. Si
toglie gli occhiali, li piega e
li infila nel taschino della camicia.
-Non è un
disturbo e comunque te lo devo. Sei venuta con me
alla centrale ieri e stai lavorando su questo caso in modo instancabile
da fin
troppo tempo. Non posso darti un aumento purtroppo, visto il periodo
economico
non esattamente favorevole. Tuttavia una cena posso ancora offrirtela,
sempre
che ti faccia piacere.
Annuisco.
-In questo caso molto
volentieri, ti ringrazio.
--Ed eccomi con il quinto
capitolo. Ho scoperto che da adesso (da quando??) è possibile
rispondere alle recensioni. Ma io credo farò alla vecchia
maniera, ringraziando in questo caso TeenAngels.
Non credo di riuscire a
pubblicare domani il sesto capitolo, quindi inizio a darvi appuntamento
a lunedì. Buona domenica a tutti e... a presto :) ---
|
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Capitolo 6 *** Capitolo Sesto ***
Capitolo
6
-Lo
sapevo, lo sapevo!
Urla
Ellie, saltellando sulla
sedia. Siamo in pausa pranzo, in una piccola caffetteria poco distante
dal
nostro ufficio e le ho appena comunicato dell’invito a cena
di Andrew.
-Sapevo
che non avrei dovuto
dirtelo…
Mi
pento di quanto le ho appena
raccontato.
-Te
l’ho detto l’altro giorno,
cavolo, mi sento una veggente!
Esclama,
mentre un pezzetto della
foglia di insalata che sta mangiando le sporge poco aggraziatamente
dalla
bocca.
-Attenta
a non ingozzarti!
Ellie
è troppo agitata e
trangugia una forchettata di insalata dopo l’altra,
riempiendosi le guance come
un criceto. Non credevo che tale notizia potesse sconvolgerla al tal
punto. Sorrido
nel vederla così allegra. Personalmente non mi sono fatta
nessuna particolare
idea riguardo all’invito di Andrew. La nostra relazione
è sempre stata
puramente professionale, non nego di aver stretto una sorta di amicizia
o per
meglio dire simpatia, tuttavia non abbiamo mai avuto occasione di
incontrarci
al di fuori dell’ufficio e sono ben poche le volte nelle
quali i nostri
discorsi non abbiano toccato il lavoro o la quotidianità. La
stessa questione
spinosa del suo divorzio non era mai stata argomento di discussione tra
di noi.
L’intera faccenda è passata in ufficio come voce
di corridoio e credo che
Andrew abbia accettato quel tipo di divulgazione senza farsi problemi,
dando
quindi per scontato che tutti quanti siano a conoscenza della
situazione
spiacevole nella quale si trova da diversi mesi a questa parte.
-Cambiando
discorso, sei poi
andata dal medico?
Chiede
Ellie, cambiando
espressione. Lì per lì vengo colta alla
sprovvista e mi pare quasi spontaneo
chiederle a cosa si riferisca, salvo poi ricordarmi di averle parlato
di quei
miei fastidiosi e improvvisi brividi.
-Oh…
no, non ho ancora avuto
tempo.
Rispondo,
sorseggiando poi un po’
del mio smoothie di verdure. Ellie finge di essere una patita del cibo
sano e
biologico, per cui tutti i nostri pranzi insieme sono a base degli
alimenti più
improponibili: triple insalate, vellutate di qualsiasi verdura
esistente sulla
faccia della terra e strane torte salate preparate con farine o cereali
delle
quali, per quanto mi sforzi, non ricorderò mai il nome.
Anche a me piace
mangiare sano e sto attenta a non esagerare con il cibo spazzatura,
tuttavia
credo che anche un coniglio si rifiuterebbe di ingurigitare buona parte
dei
nostri pranzi. Circa un sei mesi fa, stanca di mangiare alimenti
decisamente
troppo sani, pensai di invitare Ellie in una steak-house o comunque un
piccolo
ristorantino a conduzione familiare, di quelli che si trovano nelle
viette
secondarie. Come al solito sottovalutai l’entusiasmo di Ellie
che apprezzò quel
nuovo punto di ristoro in maniera a dir poco eccessiva, facendolo
diventare il
luogo di ogni nostro pranzo per all’incirca tre mesi e
portando entrambe a
mettere su la bellezza di tre chili. Su Ellie, stangona statuaria,
qualche
chiletto in più non aveva che giovato mentre su di me
avevano creato quel
terribile effetto salsicciotto-salvagente sui fianchi che ero riuscita
ad
eliminare in un paio di mesi a forza di diete affamanti, litri
d’acqua e
assidui massaggi con le più improponibili creme rassodanti
esistenti in
commercio. Da allora ho deciso di lasciarmi portare dai lei nei soliti
posti da
hipster new age, popolato da personaggi il cui amore per lo stile di
vita
“sano” e il cibo biologico risulta essere finto
come le mostruose Louis Vuitton
contraffatte che sventolano con molta nonchalance.
-Sai,
stamattina è arrivato il
nuovo avvocato.
Esordisco,
cercando di intavolare
un nuovo argomento. Ellie rimane in silenzio per qualche minuto, prima
di
formulare una risposta.
-Ah!
Già arrivato? Credevo ci
volesse del tempo prima che ne designassero un altro, sai
l’omicidio e tutto
quanto.
La
parola “omicidio” pronunciata
da Ellie con estrema naturalezza fa girare immediatamente le persone
circostanti. Io imbarazzata distolgo lo sguardo mentre Ellie si limita
a
pronunciare un sommesso “ops” quasi sottovoce.
-Credevo
anche io ci sarebbe
voluto del tempo invece è già arrivato e forse
siamo a cavallo!
Esclamo,
mostrando il più
vigoroso dei miei sorrisi. Ellie spalanca la bocca stupita.
-Vi
appoggerà?
Annuisco.
-Fantastico!
Vedi? Anche i
“manichini”, come li chiami tu, hanno un anima!
Involontariamente
aggrotto le
sopracciglia, gesto di cui Ellie si accorge subito.
-Cos’altro
c’è?
Chiede,
quasi snervata. Credo di
aver parlato fin troppo con lei di quel caso negli ultimi mesi,
evidentemente
non vede l’ora che si risolva.
-Nulla.
Rispondo
rapidamente, afferrando
ciò che resta del mio smoothie e cercando di tenere la bocca
occupata il più
possibile. Immediatamente sul viso di Ellie spunta
un’espressione quasi
inquietante, i suoi occhi si allargano e inizia a sorridere, un sorriso
plastico, compatto e artificiale come quello di una Barbie. Deve aver
realizzato qualcosa o meglio crede di aver fatto una gran scoperta, che
non
esita ad espormi.
-Lui.
Esclama,
ridacchiando.
-Chi?
Ribatto
io, guardandomi attorno,
fingendo di non aver capito dove voglia arrivare.
-Non
è il solito manichino, non è
vero?
Scoppio
a ridere. Sono stata io,
inconsciamente, a tirare fuori l’argomento, me ne rendo conto
in questo
momento. Fingo di non volerne parlare e che non me ne importi ma la
verità è
che dovevo assolutamente parlarne con Ellie, con chi altri
sennò?
-Proprio
no.
Ellie
diventa sempre più curiosa,
al punto di scostare e abbandonare totalmente la sua insalata in un
angolo,
abbandonando anche quel suo finto senso di appagamento.
Appoggia entrambi e gomiti sul tavolo e
avvicina di più verso il centro, quasi volesse confidarmi un
segreto o
sussurrarmi in un orecchio.
-Dimmi
tutto!
Scuoto
il capo.
-Nulla
di che, è solo un
bell’uomo. Questa è la differenza.
La
mia risposta smorza
immediatamente il suo entusiasmo, glielo leggo negli occhi. Sospirando
ritorna
composta anzi, raccoglie la sua borsa e si alza.
-Ho
capito, vuoi fare la
misteriosa. Va bene, va bene…
Deduce,
quasi amareggiata. I suoi
comportamenti infantili a volte sono irritanti e assurdi, altre volte
(come in
questo caso) mi inducono uno smisurato senso di tenerezza. Mi alzo a
mia volta
e le poggio una mano sulla spalla.
-Domani
pomeriggio tornerà in
ufficio, verso le quattro circa. Scendi casualmente le scale, mi saprai
dire.
Questa
mia risposta le solleva
immediatamente il morale, annuisce e batte le mani delicatamente, per
esprimere
la sua soddisfazione per ciò che le ho appena detto.
Anche
questo pomeriggio Andrew mi
dà la possibilità di tornare a casa prima,
ovviamente non dopo aver telefonato
a Margareth, la madre del bambino dell’affido. Questa volta
la telefonata dura
qualche minuto in più e al termine mi lascia una piacevole
sensazione nel
cuore. Appoggiando la cornetta sulla base tiro un respiro di sollievo.
Mi tocco
il petto, all’altezza del cuore, che batte
all’impazzata, data l’estrema
soddisfazione che sto provando in questo momento. Ho quasi paura che
balzi
fuori.
Scendo
le scale, saluto le
segretarie ed esco. Sono felice al punto di aver guidato fino a casa in
assoluta tranquillità, senza preoccuparmi di automobilisti
schiamazzanti, di
gente che mi taglia la strada o quant’altro. Parcheggio nel
vialetto e scendo.
Immediatamente sento il miagolio di un gatto, probabilmente il mio
gatto. Mi
giro ma non lo vedo. In effetti non mi era parso di sentirlo da vicino.
Osservando meglio noto che si trova dall’altro lato della
strada, davanti alla
porta della casa precedentemente messa in vendita.
Lo
chiamo, sperando di attirare
la sua attenzione. Il gatto mi guarda ma torna a fissare la porta di
quella
casa. Cerco di scrutare con attenzione le finestre di entrambi i piani,
prima
di scattare a riprendermi il gatto. Non vorrei che una volta arrivata
davanti
alla porta comparisse qualcuno, accusandomi di essere una ladra o una
guardona.
Facendomi
coraggio attraverso la
strada. Prima di avvicinarmi all’ingresso cerco di richiamare
il gatto dal
marciapiede ma questi non vuole sentire ragione, al contrario si
avvicina di
più alla porta, iniziando a grattarla per farsi aprire.
Immediatamente scatto e
lo afferro, correndo il rischio di essere graffiata da uno dei sui
artigli.
-Hiram!
Sciocco di un gatto! Cosa
ti salta in testa?
Lo
rimprovero, prendendolo
sottobraccio. Il micio miagola e mi osserva con uno sguardo vacuo e
indecifrabile che ovviamente non mi aspetto di comprendere. Mi dirigo immediatamente
verso casa quando
però i miei timori si concretizzano e sento la porta
d’ingresso aprirsi alle
mie spalle. Strizzo gli occhi e non mi giro poiché sono
certa che la persona
alle mie spalle, chiunque sia, richiamerà la mia attenzione
a breve.
-Ha
bisogno di qualcosa?
Deglutisco
e mi giro, con il
gatto ancora in braccio.
-Ehm…
no, è che il mio gatto-
Mi
blocco e non riesco più a
parlare. Non ho mai creduto nelle coincidenze e non voglio iniziare a
crederci
ora, tuttavia potrei dare a tutto il sistema una possibilità.
-Signorina
Ricci, non è vero?
Annuisco.
La persona che mi trovo
davanti è l’avvocato, conosciuto solo poche ore
prima.
-Esatto.
Mi scusi avvocato, sono
semplicemente venuta a recuperare il mio gatto.
Alla
parola “gatto”, il suddetto
mi sfugge dalle braccia e corre verso l’avvocato.
-Hiram!
Esclamo
infastidita, salvo
ricordarmi che la persona che mi trovo davanti e il mio gatto
condividono lo
stesso nome. Piena di vergogna mi porto una mano alla bocca.
-E
così ti chiami come me…
Commenta
lui, semplicemente,
chinandosi ad accarezzare il gatto che nel frattempo si sta strusciando
contro
i suoi stinchi.
-Mi
dispiace.
Confesso,
non sapendo che altro
dire. Lui mi guarda con aria quasi rassicurante, poi indirizza le sue
attenzioni
verso il gatto, si china quanto basta per poter allungare il braccio e
carezzarne la testa. Il gatto sembra essersi affezionato a lui, al
punto che
inizia a fare le fusa e strusciare il musetto sul dorso della sua mano.
-Non
c’è motivo di cui
dispiacersi, per un gatto così bello poi…
Risponde,
continuando a coccolare
il gatto.
-Quindi…
lei abita qui?
Chiedo,
tentando disperatamente
di cambiare discorso e nel tentativo di sviare l’imbarazzo.
-Mi
sono trasferito da un paio di
giorni. Anche lei è di questo quartiere?
Chiede,
smettendo di accarezzare
il gatto e tornando a guardarmi negli occhi.
-Abito
proprio difronte.
Allungo
il braccio e indico la
mia casa, colta di nuovo da una ventata di imbarazzo quasi immotivato.
-Curiosa
coincidenza.
Ribatte
lui, sorridendo. Inizio
ad osservarlo più da vicino: è vestito e
pettinato in modo differente rispetto
a poche ora prima, senza dubbio più informale. Quando
l’ho visto stamattina i
suoi capelli erano perfettamente pettinati all’indietro,
mentre al momento sono
lasciati al naturale e risultano essere più mossi e
leggermente scompigliati.
Il completo grigio e la camicia color perla sono stati rimpiazzati da
un paio
di jeans chiari slavati e una maglietta semplice, bianca, senza loghi
né tessiture
particolare e i ai piedi… nulla.
-Si,
odio le scarpe.
Commenta
lui, probabilmente
accortosi del mio sguardo sui suoi piedi. Inizia anche a battere le
dita sul
pavimento, quasi in modo scherzoso. Cerco di simulare un sorrisetto
disinvolto,
per fingere di non essere stata beccata imbambolata a scrutarlo.
-Le
sue devono anche essere
piuttosto scomode, o sbaglio?
Si
riferisce sicuramente
all’altezza del tacco. Le scarpe che indosso sono tra le mie
preferite per
tutti i giorni: un paio di decolleté bianche con decorazioni
sui lati in pizzo
di un tono più scuro, dal tacco mediamente sottile e alte
poco più di dieci
centimetri.
Mi
osservo il tacco quasi per
confermare o smentire la sua teoria, come se non sapessi dare una
risposta
certa, pur possedendo questo paio di scarpe da circa un anno e avendolo
indossato nelle ultime dieci ore.
-Ne
ho di peggiori.
Concludo
alla fine. Non so perché
ma ho un irrefrenabile voglia di afferrare il mio gatto, che non fa che
strusciarsi attorno agli stinchi dell’avvocato, per poi
filare dritta in casa.
Sicuramente mi trovo davanti ad un uomo estremamente affascinante, da
un
aspetto così gradevole da volerci passare ore e ore, anche
portando avanti
discorsi circostanziali e senza senso, come in questo momento. Eppure
allo
stesso tempo mi inquieta.
Cerco
di guardare con più attenzione
i suoi occhi, provando questa volta di non farmi notare. Tentativo
miseramente
fallito perché lui accortosi della mia insistenza inclina il
capo e socchiude
gli occhi, rivolgendomi uno sguardo che pare dire: “Beh? Che
altro vuoi?”. Quel
breve istante in cui riesco ad osservare i suoi occhi ecco riapparire
in me
quel brivido che mi accompagna da giorni,
d’intensità minore. Immediatamente
distolgo lo sguardo e mi chiudo nelle spalle.
-Si
sente bene?
Chiede
lui. Io fingo che sia
tutto a posto e decido di approfittare della situazione per andare via.
-Si,
grazie. Se vuole scusarmi
ora andrei. Hir- ehm, micio, andiamo a casa.
Mi
autocorreggo, dimenticandomi
di nuovo dell’omonimia tra l’uomo e il gatto.
Quest’ultimo finalmente mi dà
retta e si avvicina permettendomi di portarlo a casa. Disinvolta e
più naturale
possibile mi dirigo verso casa, arrivo alla porta e mi chino lasciando
andare
il gatto, per riuscire ad avere accesso alla borsa e recuperare le
chiavi.
Quasi
istintivamente mi giro, il
mio nuovo vicino è ancora sulla porta e mi sta osservando.
Improvviso un
sorriso e faccio timido cenno di saluto, immediatamente ricambiato,
entro poi
in casa e chiudo la porta senza fare attenzione e correndo il rischio
di
decapitare il mio gatto, che fa appena in tempo ad infilarsi in casa.
Tiro
un sospiro di sollievo.
Finalmente a casa, finalmente dentro casa. Tutta quella situazione mi
ha messa
in estremo imbarazzo e non sono ancora in grado di spiegarmi il
perché. Rimango
qualche istante con la schiena contro la porta, il respiro affannoso e
la testa
in pieno stato confusionale, prima di riprendermi e decidermi a fare
qualcosa.
L’istinto
mi porta a girarmi di
nuovo per vedere se è possibile scorgere l’altro
lato della strada attraverso
inserti in vetro della porta di ingresso. Mi faccio coraggio e mi
sporgo quanto
basta. Il mio vicino è già rientrato in casa, per
mio sollievo o disappunto;
non riesco a capire quale delle due emozioni prevalga.
--
Di ritorno con il nuovo capitolo, come avevo annunciato. Ho visto che
la mia storia è stata letta e, con sincerità, mi
spiace non aver ricevuto un parere, buono o cattivo che sia.
Per una storia è importante avere dei feedback per
poter andare avanti. Inutile dirlo ma anche quelli NEGATIVI (che non
siano però insulti, sia chiaro) son d'aiuto. Spero di aver
più successo, nei prossimi capitoli. Arriverò
fino al decimo e poi valuterò se continuare a pubblicarla
qui o migrare verso altri lidi... Alla prossima! ---
|
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Capitolo 7 *** Capitolo Settimo ***
Capitolo
7
-Jennifer
assicurami che non sto
sognando, ti prego.
Mi
chiede Margareth, afferrandomi
le mani in una stretta forte e calda. Mi supplica, osservandomi con i
suoi
dolci occhi castani che ad osservarli bene sarebbero perfettamente in
grado di
rivelare ciò che ha passato e ciò che ancora sta
passando.
-Se
è un sogno non sei sola
Margareth, ci sono anche io.
Le
rispondo, cercando anche di
strapparle un seppur debole sorriso. Siamo sedute
nell’ufficio di Andrew,
aspettando che questi ci chiami per andare a parlare con
l’avvocato. Margareth
non riesce a stare seduta. Da quando è arrivata, circa
mezz’ora fa, non ha
passato più di cinque minuti sulla sedia. La vedo camminare
nervosamente avanti
e indietro in questo piccolo spazietto chiuso.
Io,
al contrario, rimango seduta
e non posso fare a meno che osservarla. Mi ricordo il primo giorno in
cui ho
potuto parlare con lei.
Era
da poco uscita dalla clinica,
aveva un’aria spaesata ma si era presentata e aveva
raccontato la sua vicenda
in maniera composta.
-Mio
marito ha tentato di
uccidermi, non avendone il coraggio ha cambiato bersaglio: se stesso.
Queste
sono le esatte parole che
aveva pronunciato davanti a me e Andrew, quel giorno. Non ero riuscita
a
contenere le mie
reazioni: spalancando
la bocca in modo decisamente poco appropriato. Andrew non era stato da
meno,
commentando con un ancor più prevedibile: “Dio
Mio”.
Parlando
fra di noi ci scoprimmo
entrambi sorpresi dalla compostezza e la fermezza che quella donna
avesse
dimostrato, raccontando la sua terribile storia e cercando esporci i
motivi per
i quali intendeva rivendicare ciò che le spettava di
diritto: suo figlio. Tuttavia,
col passare del tempo e dei mesi dopo udienze rimandate, litigi in
tribunale,
ispezioni sul lavoro, visite mediche, colloqui con psichiatri,
psicologi e
pedagoghi di mezza
California, la
maschera che la signora Goldman, da allora poi divenuta semplicemente
Margareth,
iniziò ad incrinarsi rivelando tutti i demoni e i mali di
ciò che aveva
passato.
Dopo
l’ennesimo rifiuto e la
minaccia di abbandonare il caso del procuratore, minaccia che si
realizzò nel
giro di poche settimane, la vera natura di Margareth iniziò
ad emergere. Fu in
casa sua, un pomeriggio, che iniziai a conoscerla davvero e provare
empatia con
lei, al punto di tenere alla sua vicenda come se l’avessi
vissuta io stessa.
Seduta
sulla sua poltrona dai
braccioli in legno mi raccontò per filo e per segno, con
voce meno salda,
l’incubo che si era trovata a vivere. Riuscii a vedere gli
occhi vuoti del
marito mentre le puntava il fucile da caccia sulla tempia e sentire la
sensazione di gelo di quest’ultima, sulla pelle. Mentre il
discorso diventava
sempre più ricco e carico di particolari il mio cuore
iniziava a battere e si
fermava, quasi la paura e lo stupore di quella disgrazia si stessero
ripresentando a me
personalmente.
Fu
infine quando si alzò per
prendere da un cassetto una foto di Tyler, che reggeva in mano come il
più
prezioso dei tesori, che mi convinse a fare tutto ciò che
fosse mio potere fare
per riunire ciò che restava di quella famiglia. Nessun
figlio meriterebbe di
essere portato via dai propri genitori. Nessuno al mondo dovrebbe
arrogarsi il
diritto di privare una madre dell’affetto, l’amore
e la presenza dei propri
figli.
Essendo
cresciuta con i miei
nonni, pur avendo avuto comunque due figure adulte forti, ho potuto
sperimentare sulla mia pelle il dolore provocato dalla lontananza dei
genitori.
Ho potuto vedere anche io con i miei occhi da bambina quanto il mondo
fosse più
buio, solo e confusionario senza una madre un padre accanto.
Non
potrei mai permettere ad un
altro bambino di trovarsi in una situazione simile, specialmente se
c’è una via
d’uscita, se c’è una scelta.
-Jennifer,
Margareth: è arrivato.
Avvisa
Andrew, facendo capolino
in ufficio e invitandoci a scendere. Immediatamente mi alzo. Noto
l’imbarazzo
di Margareth, che mi aspetta prima di seguire Andrew. Le rivolgo un
sorriso e
poggiandole una mano sulla spalla in modo affettuoso le sussurro un
“Coraggio!”
.
Arrivati
nella sala di incontri
noto che l’avvocato è già seduto. Evito
di guardarlo, preferisco concentrarmi
su Margareth. Non posso assolutamente permettermi distrazioni o
imbarazzi, in
un momento
così importante. Dopo questo
colloquio verranno decise le linee guida da presentare in tribunale. Se
l’avvocato confermerà quanto ci ha detto il giorno
precedente tutto questo
incubo sarebbe ad un passo dalla fine.
Margareth
si siede di fronte
all’avvocato, mentre Andrew ed io ci posizioniamo
rispettivamente alla sua
destra e alla sua sinistra.
-Signora
Goldman, vorrei
presentarle l’avvocato O’Dowell.
Annuncia
Adrew, rompendo il
silenzio. Immediatamente l’avvocato allunga il braccio per
presentarsi alla
donna.
-Ho
finalmente il piacere di
conoscerla, signora Goldman.
Commenta
l’avvocato. Mi lascio
sfuggire uno sguardo, immediatamente catturato dall’avvocato.
-Buongiorno
anche a lei,
signorina Ricci.
Annuisco
col capo, senza
proferire parola.
-Signora
Goldman, Margareth, ha
qualcosa che vorrebbe puntualizzare con l’avvocato?
Domanda
Andrew, ponendo una sue
solite domande di rito.
-Non
saprei proprio cos’altro
dire, a questo punto.
Le
parole di Margareth mi spezzano
il cuore. Vorrei tanto rincuorarla in questo momento ma so di non
dovermi
esporre eccessivamente davanti all’avvocato.
Margareth
inizia a giocherellare
nervosamente con le mani, tamburellandole le dita sul tavolo.
Sorprendentemente
l’avvocato allunga una mano per poi posarla su quelle della
donna, in modo
quasi rassicuratore.
-Margareth,
posso chiamarla per
nome?
Chiede,
con un tono di voce
profondo e rilassante. La donna alza lo sguardo, fino a quel momento
fisso sul
tavolo ed annuisce.
-Mi
ascolti: non ho bisogno che
mi dica altro. Ho letto tutti i documenti e sono in possesso di tutto
il
materiale prodotto fino ad ora. Sono dalla sua parte, senza ombra di
dubbio.
Margareth
rimane probabilmente
sconvolta, poiché non fa altro se non fissare
l’avvocato, temendo forse che da
un momento all’altro cambierà idea, nel caso
distogliesse lo sguardo o
smettesse di prestare attenzione.
-Ora
voglio solo che lei si
tranquillizzi. Le prometto che andrà tutto bene questa
volta, mi deve credere.
Margareth
annuisce, senza però
fiatare.
-Hai
sentito Margareth? Non è un
sogno!
Commento
io, cercando di farle
prendere contatto con la realtà.
-Io…
non so proprio che dire.
Queste
sono le uniche parole che
Margareth riesce a pronunciare.
-L’avvocato
ha spiazzato un po’ tutti,
credo.
Commenta
Andrew, anche lui
visibilmente scosso.
Dopo
aver concordato la data
dell’udienza definitiva Margareth Goldman esce dallo studio,
per la prima volta
sorridendo. Io la accompagno alla porta e ritorno poi nella saletta
delle
riunioni dove Andrew sta ancora parlando con l’avvocato.
-La
signora Goldman è andata via,
credo di non averla mai vista così felice.
Commento,
rivolgendomi ad Andrew.
-Ne
stavo giusto parlando con
l’avvocato, chiedendogli anche dove fosse stato nascosto fino
ad ora. Se
l’avessimo trovato prima ci saremmo risparmiati tutti questi
mesi di agonia,
non credi?
Mi
limito ad annuire, non avendo
null’altro da aggiungere. Ancora una volta mi sento in
soggezione di fronte a
quell’uomo. Nonostante ritenga le parole di Andrew veritiere
continuo a nutrire
sospetti su di lui e il fatto che sia mio vicino di casa non
può che peggiorare
la mia inquietudine
-Bene,
a questo punto credo di
doverci congedare fino al prossimo martedì, il giorno
dell’udienza.
Afferma
l’avvocato, porgendo la
mano ad Andrew che immediatamente la stringe con entusiasmo. Al
contrario di me
sembra trovarsi a suo agio con quell’uomo e sorride, quasi
fosse un amico e non
un estraneo conosciuto poco più di ventiquattro ore prima.
-Credo
che noi ci si vedrà ancora
presto, signorina Ricci.
Inizialmente
le sue parole mi
colgono alla sprovvista e, non appena riesco a coglierne il
significato,
improvviso un sorriso, sempre senza aprir bocca.
-Mi
sono perso qualcosa?
Chiede
Andrew, guardandomi
incuriosito.
-Io
e la signorina Ricci abbiamo
scoperto di essere vicini di casa.
Ribatte
l’avvocato, battendomi
sul tempo. Andrew spalanca gli occhi sorpreso e sogghigna.
-Davvero?
Che coincidenza!
Commenta
poi.
-Lo
è davvero! Ora se volete
scusarmi, andrei.
Andrew
annuisce e lascia passare
l’avvocato.
Uscendo
dalla stanza mi accorgo
di Ellie che finge di sistemare dei fogli su una delle scrivanie delle
segretarie. So con certezza che sta fingendo poiché il suo
sguardo continua ad
alzarsi per osservare alternatamente, quasi stesse seguendo una partita
a
tennis, me e l’avvocato. Cerco di non darle troppa
importanza, so già che sarà
lei stessa ad espormi le sue impressioni, senza bisogno che le si
chieda nulla.
-Ti
ho vista piuttosto
silenziosa, Jen. Tutto bene?
Chiede
Andrew, ancora girato di
spalle e intento a chiudere a chiave la saletta.
-Sì,
forse sono ancora un po’
frastornata per tutto quello che sta succedendo.
Commento,
cercando di fornire una
spiegazione che nemmeno io mi so dare.
Andrew
si gira e mi rivolge uno
dei suoi sguardi compassionevoli. Mi appoggia una mano sulla spalla che
accarezza, in modo affettuoso.
-Sì,
sta succedendo tutto così in
fretta ma avevi ragione tu: siamo stati graziati questa volta.
Sorrido.
Andrew è felice e lo
sono anche io, vedendolo.
-Direi
che dopo questo possiamo
anche andarcene a casa, ce lo siamo meritati.
Si
ferma un attimo e allunga il
collo, in direzione delle scrivanie delle segretarie.
-Vale
anche per te e Adam, Ellie!
Esclama,
alzando la voce e
facendo sobbalzare Ellie, probabilmente convinta di essere in qualche
modo
invisibile.
-Ricevuto,
capo!
Risponde,
con il capo chino per
l’imbarazzo. Aspetto che Andrew si diriga verso il suo
ufficio e poi raggiungo
Ellie.
-Spero
che diventare un
investigatore privato non fosse uno dei tuoi sogni perché,
cara mia, non fa
proprio per te.
Commento,
appoggiandomi alla
scrivania. Ellie scoppia a ridere. Non riesco a capire se la sua sia
una risata
imbarazzata o divertita.
-Me
l’hai detto tu di essere casualmente
presente.
Ribatte.
-Sì
ma speravo lo facessi con più
discrezione!
Commento,
ancora ridacchiando. Il
bell’aspetto di Ellie proprio non si addice, il
più delle volte, alla natura
ingenua e pasticciona dei suoi gesti.
-Non
ha importanza, quel che
importa è: ti rendi conto di quanto sia mozzafiato quel tipo?
Alla
parola “mozzafiato” le
pupille di Ellie si allargano, quasi volesse dare ulteriore enfasi a
ciò che ha
appena detto.
-Ti
giuro che se non fossi
fidanzata…
Si
interrompe, merito
probabilmente del mio sguardo fulmineo.
-Ehi,
calma! Ho detto “se”. È
tutto tuo tesoro, te lo meriti!
Conclude,
saltellando come una
scolaretta. Ancora una volta mi rivolge uno di quei suoi terrificanti
sorrisi
da Barbie.
-Che
sia un bell’uomo credo
nessuno lo metterebbe mai in dubbio. Tuttavia…
Quel
momento di svago e di risate
quasi adolescenziale viene presto rimpiazzato dalle mie sensazioni, non
del
tutto positive, circa quell’uomo. Probabilmente il mio viso
deve essersi fatto
cupo e serio, perché Ellie inclina il capo e aggrotta la
fronte con preoccupazione,
prima di rivolgermi parola.
-Qualcosa
che non va?
Non
riesco a formulare un
discorso. Forse perché quello che provo sono solo un mucchio
di emozioni e
sensazioni poco definite, per le quali non sono in grado di fornire una
descrizione.
-Non
lo so Ellie, c’è qualcosa
che mi frena davanti a questa persona.
Ellie
scuote il capo, chiaramente
non riesce a capire cosa voglia dire.
-Non
lo conosco e di lui non so
nulla eppure ha qualcosa di strano. Non riesco a spiegartelo ma non mi
sento
tranquilla.
Ellie
inizia a preoccuparsi,
glielo leggo negli occhi.
-Che
ne dici se parliamo più
liberamente, fuori di qui?
Annuisco.
-Va’
pure di sopra a prendere le
tue cose, ti aspetto al bar qui in fondo alla strada per un aperitivo.
Afferma,
mettendosi in spalla la
borsa.
---
Eccomi di nuovo. Spero che la
storia vi sia piacendo. Vi chiedo ancora una volta, per favore, di
lasciare un
segno del vostro passaggio con i vostri pareri, mi farebbe molto
piacere e mi
invoglierebbe a proseguire qui la storia. Per il resto vi auguro una
buona
giornata e vi do appuntamento a giovedì, questa volta.
Purtroppo domani sarò
fuori casa e non potrò pubblicare. Alla prossima. --
|
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Capitolo 8 *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 8
Il
locale scelto da Ellie per il
nostro aperitivo è piuttosto elegante e particolare, di
stile etnico lo
definirei. Nell’aria si sente un forte profumo di incenso e
sulle pareti
circostanti sono accese un numero spropositato di candele; ogni qual
volta
cerchi di contarle mentalmente e confermarne il numero ecco che subito
ne
scorgo un’altra. I tavolini disposti lungo la sala sono di
stili diversi l’uno
con l’altro, io ed Ellie ci troviamo su un tavolo basso che
in effetti sembra
più un tavolino da caffè e siamo sedute su dei
cuscini piuttosto bizzarri viola
e arancioni, mentre accanto a noi una coppia è intenta a
sorseggiare mojitos ad
un tavolo ricavato da una botte in legno.
Mi
sono sentita leggermente a
disagio al mio ingresso nel locale, poiché il mio
abbigliamento non è
assolutamente uniforme a quello dei presenti. Questa mattina per
l’incontro con
Margareth e l’avvocato avevo deciso di darmi un tono
più sofisticato, decidendo
di indossare un paio di pantaloni gessati neri e una camicetta classica
ma con
qualche rouche sul decolté, dal colore lilla e ai piedi
indosso un paio di open
toe nere in vernice lucida, che riprendono lo stile della mia borsa. La
maggior
parte delle donne presenti indossa svolazzanti e leggeri vestiti dai
colori
estivi, con sandali dai toni della terra e gioielli dorati.
Anche
Ellie, che avevo faticato a
trovare nel locale essendo le luci decisamente troppo soffuse,
è vestita fuori
luogo ma sembra non badarsene.
-Mi
sono permessa di ordinare un
long island anche per te!
Esclama,
non appena il cameriere
ci porta la consumazione.
-Può
portare anche qualcosina da
stuzzicare, patatine, tramezzini…?
Chiede
Ellie, senza alcun timore.
Ovviamente il cameriere non sa resistere al suo fascino e annuisce,
tornando
poco dopo con almeno quattro ciotole piene di salatini e un piatto con
qualche
tramezzino.
-Grazie,
troppo gentile!
Commenta
lei, regalandogli un
sorriso smagliante che crea nel cameriere non poco imbarazzo. Ellie
è fatta
così: è sfrontata e non ha peli sulla lingua. Io
probabilmente non avrei
chiesto nulla al cameriere e avrei aspettato che mi portasse lui
qualche
stuzzichino, in quantità decisamente inferiori rispetto al
banchetto davanti ai miei occhi in questo momento.
-Prima
di iniziare, cin-cin!
Esclama
Ellie, alzando il
bicchiere.
-Cin!
Ribatto
io, aspettando però a
sorseggiare il drink.
-Allora,
dimmi cosa ti preoccupa.
Invita
Ellie, dopo aver bevuto
d’un sorso poco meno di metà bicchiere.
-Non
è che abbia nulla da dire, a
dirti la verità. Ti ripeto: sono solo mie sensazioni,
terribili sensazioni.
Mi
decido a dare il primo sorso
del mio drink. Non sono una grande consumatrice di alcolici ma sono
dell’idea
che qualche goccia di alcool non faccia male, se il risultato
è avere per
qualche ora la mente più leggera.
-La
vera notizia però è che… è
il
mio nuovo vicino di casa.
Ellie
quasi si ingozza, cercando
di ribattere, mentre ha ancora la bocca piena.
-Cosa?!
Borbotta.,
in modo incomprensibile. Mastica e
deglutisce, prima di aggiungere altro.
-Ne
sei sicura?
Annuisco,
prendendo una manciata
di patatine.
-L’altro
giorno ho avuto modo di
parlare con lui. Il mio gatto per non so quale motivo era intenzionato
a fare irruzione in casa sua, sono andata a recuperarlo e ci siamo
incrociati…
Mi
fermo un secondo, giusto il
tempo di bere un altro sorso di long island. Apprezzo particolarmente
questo
tipo di bevanda, benché sia considerato uno dei
superalcolici più forti risulta
essere molto dolce e piacevole al gusto. Sento a malapena bruciare la
gola
quando lo bevo e questo può rivelarsi un problema
poiché sarei in grado di
berne almeno due bicchieri di fila, ritrovandomi senza nemmeno esserne
consapevole, in stati fisici e mentali a dir poco impietosi.
-Ho
avuto modo di parlare con lui
di… nulla, praticamente. Eppure, benché volessi
passare altro tempo in sua
compagnia, mi sentivo estremamente a disagio e non vedevo
l’ora di tornarmene
in casa. Non riesco a capirne il motivo.
Commento,
sempre più confusa,
giocherellando con la cannuccia del mio drink.
-Ti
ha per caso detto qualcosa di
strano? O ha piuttosto fatto qualcosa di sospetto o insolito?
Scuoto
il capo.
-No,
ha solo accarezzato il
gatto.
Per
qualche minuto regna il
silenzio, è Ellie a parlare per prima.
-Il
fatto che siate vicini di
casa è a dir poco surreale. Quante possibilità
c’erano che una cosa del genere
accadesse?
Faccio
spallucce, per confermare
di non essere in grado di dare una risposta.
-Anche
quando l’ho visto per la
prima volta, è stato tutto così strano! Sono
quasi rimasta pietrificata.
Inizialmente pensavo che fosse per il suo aspetto fisico.
Ellie
trattiene a stento un
risolino, che cerca di nascondere ingurgitando cibo.
-Ma
non posso essere così sciocca
da imbambolarmi davanti ad un uomo avvenente! Infatti quando
l’ho incontrato
di nuovo nel pomeriggio, ho capito che si trattava di qualcosa di
più. I suoi
occhi…
Mi
interrompo, cercando le parole
adatte. Nella mia mente intanto si fanno spazio quelle due splendide e
al tempo
stesso terrificanti iridi cerulee.
-Azzurri
ma… non come i tuoi.
Sono forse più chiari, quasi glaciali…
Mi
arrendo, non sapendo dare con
esattezza una descrizione.
-Insomma,
sembrano quasi esser
fatti di ghiaccio! Ed è proprio quella la sensazione che mi
danno.
Ellie
è sempre più confusa;
strizza gli occhi, mostrando di non aver capito nulla di ciò
che le sto
dicendo.
-Ti
ricordi quando ti ho parlato di
quei brividi, dai quali vengo colta spesso ultimamente?
Ellie
annuisce.
-Ecco,
guardandolo negli occhi
provo la stessa sensazione, lo stesso tipo di freddo gelido, pungente e
paralizzante.
Termina
di bere il suo drink e
poi scuote il capo.
-Stento
a credere che una cosa
del genere possa anche essere possibile.
Commenta.
In effetti anche io
trovo ciò che ho appena detto
un’assurdità e se, a ruoli invertiti, fosse stata
Ellie a dirmi la stessa cosa con le stesse parole, probabilmente le
avrei
rivolto il medesimo sguardo scettico che lei ha indirizzato a me.
-Oh,
mi sono dimenticata di dirti
che si chiama Hiram…
Ellie
spalanca gli occhi.
-Come
il tuo gatto!
Annuisco,
sorseggiando le ultime
gocce del mio long island.
-Oddio!
Immaginatelo dopo il
bagnetto, tutto bagnato che si struscia contro di te… come
il micio!
Ellie
scoppia a ridere e io la
osservo divertita ma imbarazzata!
-Ellie!
Ti prego!
Probabilmente
l’alcool inizia a
sortire il suo effetto, dal momento che quella battuta ne innesca
altre,
coinvolgendoci entrambe in un momento assolutamente ilare. Tutta la
tensione e
l’atmosfera cupa che fino a questo momento avevano
caratterizzato la nostra
discussione spariscono, lasciando posto a battutine nonsense e dal
gusto
pressoché dubbio.
Verso
le sette circa Adam
raggiunge Ellie per accompagnarla a casa. Vedendo entrambe piuttosto
scomposte
e arrossate in viso, intuisce subito che risvolto possa aver preso il
nostro
aperitivo e con grande gentilezza e premura mi chiede se ho bisogno di
essere
accompagnata a casa.
-Jen,
sei sicura di farcela?
Mi
chiede, dopo il mio rifiuto.
-Tranquillo,
abbiamo bevuto solo
un bicchierino. Sto bene!
Rispondo,
cercando di mostrarmi
più lucida possibile. Tuttavia Adam non è
convinto, forse perché Ellie si è già
seduta in auto e si trova in uno strano stato di catalessi.
Dà infatti un’occhiata alla
sua ragazza, con uno sguardo misto tra la preoccupazione e il
disappunto.
Adam,
al contrario di Ellie, è
totalmente astemio. Per di più non è un tipo che
ama i locali, ad una birra in
un pub preferisce una serata tranquilla al cinema. È il
classico bravo ragazzo,
con gli occhi dolci, la faccia da angelo e un cuore tenero e gentile
che
nessuno al mondo sarebbe in grado di disprezzare.
-Aaaadaaaam
vieeeeeniii!
Esclama
Ellie in tono malizioso,
ridacchiando.
-Solo
un bicchierino, ne sei
sicura?
Trattengo
una risata e osservo il
pavimento mordicchiandomi un labbro, per non farmi notare.
-Forse
lei ne ha bevuti un paio…
Confesso
poi. Adam sospira. Non
ha mai detto nulla ad Ellie apertamente, né ha mai criticato
la sua indole
festaiola, eppure è evidente che certi atteggiamenti lo
infastidiscano.
-Lascia
almeno che ti sposti la
macchina, te la parcheggio in direzione della strada per casa tua
così non
devi far fatica, ti va?
Lo
osservo e quasi mi sento in
imbarazzo per tanta gentilezza. Mi osserva in modo tenero, quasi sia
lui stesso
ad aver bisogno di offrirmi aiuto. Lo sguardo di Adam è
irresistibile, non
sensuale come può esserlo quello dell’avvocato,
è però piuttosto tenero: i suoi
occhi sono scuri, quasi neri, al punto che pupilla e iride al buio
sembrino tutt’uno.
-Se
non ti dà fastidio…
Rispondo,
alla fine, non volendo
essere sgarbata. Lui immediatamente estrae dalla tasca dei pantaloni,
un paio
pantaloni classici beige, il mazzo di scorta delle mie chiavi. Mi
sorprende il
fatto che le porti sempre con sé e non le lasci
semplicemente in un cassetto
della scrivania in ufficio, come io gli avevo consigliato.
-Faresti
compagnia ad Ellie?
Annuisco.
Mentre Adam si
allontana di corsa per raggiungere la mia auto inizio seriamente ad
osservarlo.
Ora, non so se sia per colpa dell’alcool o se questo sia uno
dei miei soliti
momenti di riflessione ma inizio a pensare a quanto sia bello e
straordinario
Adam e a quanto sia fortunata Ellie ad averlo al suo fianco. Una vocina
maligna
nel mio cervello mi porta a chiedermi: “Se lo
meriterà?”. Vocina alla quale non
voglio assolutamente dare ascolto. Tuttavia non riesco proprio a
distogliere lo
sguardo da lui. È un ragazzo carino, forse ordinario ma
comunque carino. Altri
pensieri affollano la mia mente, tra questi anche il rimorso per
essermi
lasciata scappare una perla tanto rara. Dubito a credere che al mondo e
specialmente al
giorno d’oggi, esistano molte persone come lui. Adam
è forse l’unica persona
che io conosca, compresa me stessa, che provi seriamente piacere
nell’aiutare
gli altri e le cui gentilezze, ormai considerate straordinarie, per lui
non
siano proprio nulla.
Quando
Adam definitivamente
sparisce dalla visuale raggiungo Ellie alla macchina.
-Forse
ho un po’ esagerato.
Commenta,
probabilmente
recuperando buona parte delle sue facoltà mentali.
-Forse!
Ribatto
io, sarcastica. Nel
frattempo vedo comparire Adam, con la mia macchina. Accosta quanto
basta per
permettermi di cavarmela in una manovra e poi scende.
-Ecco
fatto. Devi mettere in
marcia e partire.
Spiega,
infilando di nuovo le
chiavi in tasca.
-Grazie
davvero, a domani! Ciao
Ellie!
Ellie
si limita a farmi un cenno
con la mano, mentre Adam mi sorride.
Sulla
strada di casa i pensieri indotti dall'alcool non fanno che torturarmi.
Una dopo l’altra nella mia testa si
susseguono in sequenze esatte tutti i ricordi delle occasioni che mi
sono
lasciata scappare con Adam. Dal primo giorno in cui mi
mostrò l’ufficio, a
quando mi si ruppe un tacco e mi portò in braccio fino alla
macchina (probabilmente
uno dei gesti più teneri che qualcuno mi abbia rivolto) e
tanti altri piccoli
sorrisi, sguardi. Questo fino ad arrivare al giorno in cui Ellie mise
piede in
ufficio, indossando un vestitino con la gonna ampia, color corallo.
Bellissima,
sorridente e sfrontata e fu così che tutte le mie timidezze
e tutte le mie
esitazioni rimasero state punite con il loro giusto prezzo.
Senza
nemmeno accorgermene arrivo
a casa. Parcheggio nel vialetto ma non scendo, non riesco.
Improvvisamente,
quasi senza controllo, un fiume di lacrime inizia a scorrermi sul viso.
Continuo a dare la colpa all’alcool per questa mia improvvisa
emotività, anche
se so bene che questo stato d’animo, questo mio rimpianto,
sia continuamente
presente nella mia testa e che forse per la prima volta abbia avuto il
coraggio
di concretizzarsi. Mi rattristo perché non è la
prima volta, in vita mia, che
qualche ingiustificato e insensato timore mi precluda
dall’ottenere qualcosa di
veramente bello e prezioso. Penso che se avessi dato più
ascolto al mio cuore
probabilmente non mi troverei sola in una vecchia casa vuota, con la
sola
compagnia di un gatto. Probabilmente ora in questa macchina al mio
posto
sarebbe seduto Adam e le mie lacrime sarebbero teneri sorrisi.
Il
mio pianto si fa disperato, da
farmi quasi mancare il respiro. Mi osservo di sfuggita nello
specchietto
retrovisore e quasi mi spavento. Il trucco sul mio viso è
ovunque, fuorché dove
dovrebbe realmente essere. Cerco di fare un respiro profondo e di
calmarmi,
prima di uscire dall’auto. Mi allungo verso la borsa,
abbandonata sul sedile
del passeggero, per recuperare un pacchetto di fazzoletti. Solo dopo
aver
rimosso, per quanto sia possibile, le tracce di trucco sciolto scendo
dall’auto.
-Buonasera!
Mi
giro. Si tratta chiaramente
del mio nuovo vicino, l’avvocato, intento a gettare un sacco
dell’immondizia
nel bidone di fronte a casa sua.
-Buonasera.
Ribatto
io, corredando il saluto
ad un breve cenno con la mano. Mi accorgo che l’avvocato non
entra subito in
casa, probabilmente vuole rivolgermi qualche parola. Non sono
dell’umore adatto
e, pur passando per maleducata, decido di entrarmene subito in casa,
senza
rivolgergli ulteriori sguardi.
---
Eccomi tornata, come avevo promesso. Per prima cosa ringrazio alberodellefarfalle per
il commento. Sì, Hiram è un personaggio curioso e
sicuramente non è quello che sembra ;)
Voglio inoltre chiedere se fa piacere avere un capitolo al giorno o se
preferireste un giorno sì e uno no o addirittura un capitolo
a settimana. Io sto cercando di pubblicare tutti i giorni (tranne la
domenica) poiché noto che le storie nella categoria
"Romantica" sono molte e avere la visibilità in prima pagina
è molto difficile! Chi legge la storia, per favore, mi
scriva cosa preferirebbe. In alternativa, finché
avrò materiale, continuerò a postare tutti i giorni in un orario tra
le 14 e le 14.30.
Aspetto, come sempre, dei feedback, sempre ben accetti. Alla prossima
:) ---
|
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Capitolo 9 *** Capitolo Nono ***
Capitolo 9
Adoro
il sabato e credo resterà
per sempre la mia giornata preferita. Presumo comunque sia la giornata
preferita di chiunque, poiché generalmente di sabato non si
lavora. Avrei
voluto alzarmi un pochino tardi e godermi qualche piacevole istante
d’ozio ma
il mio gatto ha deciso che le nove erano abbastanza, svegliandomi a
suon di fusa
e miagolii per convincermi ad aprirgli la porta per uscire.
Dopo
aver assecondato il gatto
decido di preparare la colazione. Non riesco mai a godermi una
colazione come si
deve. Purtroppo sono una grande ritardataria e non ho mai tempo per
consumare una colazione degna di tale nome. Solitamente mi verso in un
pentolino due dita di latte di soia che lascio scaldare mentre mi metto
le
scarpe o ritocco il trucco, lo bevo al volo, metto la tazza nel
lavandino e
via, a lavoro. Nel weekend ne approfitto per cucinare qualcosa di
buono.
Preparare
gli impasti mi rilassa
molto. Questa mattina ho deciso di infornare qualche biscotto, senza
contare che la pastafrolla è
uno dei miei pezzi forti. Dopo aver modellato per bene una bella palla
di
impasto inizio a stenderla e, per l’occasione, rispolvero dei
vecchi stampini
dalle varie forme: coniglietti, stelle, fiori: un po’ di
tutto! Mi sbizzarrisco
finché ogni centimetro di pasta viene utilizzato
dopodiché setto il timer, la
temperatura e inforno.
Nella
ventina di minuti di
cottura decido di andare a farmi una bella doccia. Anche oggi
è una giornata
piuttosto calda, ragion per cui il mio abbigliamento sarà
decisamente estivo.
Faccio passare tra le dita tutte le grucce dei miei abiti,
finché non mi fermo
su quello prescelto: un delizioso abitino da giorno bianco con un
motivo
particolare: delle piccole ciliegie rosso fuoco. Mi ricordo di aver
comprato
con Ellie questo vestito, la scorsa estate. Secondo Ellie è troppo fuori
moda e fino all’ultimo aveva
cercato di farmi desistere dal comprarlo ma io non ho saputo resistere
al fascino di
questo abitino. Ha qualcosa di romantico, di vintage e ricorda un
po’ quei
vecchi sceneggiati televisivi anni cinquanta, dove le donne erano
belle,
perfette con le loro collane di perle al collo e
l’impeccabile rossetto rosso
che non si sbavava mai. Dopo aver ammirato per forse la ventesima volta
il
vestitino lo indosso e mi osservo allo specchio. Ha una gonna a ruota
piuttosto
vaporosa e uno scollo all’americana. Giro su me stessa come
una bambina, finché
non avverto uno strano senso di vertigine.
Il
profumo dei biscotti mi fa
ricordare di dover correre a spegnere il forno. Per fortuna sono stata
in grado
di calcolare i tempi in modo adeguato e la mia infornata risulta essere
perfetta.
Spegno il forno, abbasso la temperatura e li lascio ancora qualche
istante, per
evitare che si guastino. Nel frattempo chiudo gli occhi, lasciando che
i
ricordi abbiano il sopravvento.
È
stata mia nonna, ovviamente, ad
insegnarmi anche questa ricetta ed è stato uno dei
primissimi dolci che abbia
imparato a cucinare. Mia nonna infornava una teglia di biscotti ogni
domenica
mattina. Quasi mi commuovo ripensando a quando da bambina scendendo le
scale
sentivo il profumo intensificarsi, di passo in passo. Entravo di
soppiatto in
cucina e mia nonna era là, girata di spalle, con uno dei
suoi grembiuli bianchi
con i fronzoli che sfornava i biscotti, canticchiando. Non ho mai
capito
esattamente cosa cantasse, probabilmente qualche canzone di quando era
ragazza.
Mi ricordo solo una strofa: “Ricordo
un
angolo di cielo, dove ti stavo ad aspettar. Ricordo il volto tanto
amato e la
tua bocca da baciar.”.
Non
credo di aver mai
sentito altro perché mia nonna tendeva a canticchiare,
più che a cantare.
Capitava, specialmente quando ero già cresciuta al punto di
apprezzare una
scena così tenera, che mi fermassi sulla porta ad
osservarla, cercando di fare
meno rumore possibile pur di non interromperla.
Ha
infornato biscotti fino alla
domenica prima di lasciarmi per sempre, la mia cara nonna. Deglutisco e cerco, in
qualche modo, di
mandare via quel nodo in gola, indottomi da una sproporzionata dose di
nostalgia. Dopodiché estraggo i biscotti e appoggio la
teglia sui fornelli, per
lasciarli riposare.
Il
colore dei biscotti è
perfetto, sono deliziosamente dorati e il profumo di vanillina e
zucchero che
emanano è estatico. Non appena i biscotti si sono
raffreddati li tolgo dalla
carta forno e li posiziono in un cestino.
Vengo
interrotta da dei rumori
provenienti dalla porta, sicuramente il gatto che vuole rientrare.
Raggiungo
quindi l’ingresso e gli permetto di entrare.
-Buongiorno!
Alzo
lo sguardo e ovviamente si
tratta del vicino, l’avvocato. Probabilmente deve essere di
rientro da una
sessione di corsa, poiché è vestito in modo
sportivo e sembra essere sudato.
-Buongiorno!
Rispondo,
abbassando però subito
lo sguardo, intenzionata a rientrare subito in casa.
-Bellissima
giornata, non crede?
Domanda,
impedendomi di
rientrare.
-Sì,
deliziosa. Arrivederci!
Rispondo,
alquanto fulminea. Una
volta in casa continuo a sistemare i miei biscotti. Posizionando
l’ultimo
inizio a riflettere circa il mio comportamento con il vicino. Comincio
a
pensare di essere stata piuttosto maleducata, poco fa, avendogli
praticamente
sbattuto la porta in faccia. So che non dovrei basarmi su impressioni
del tutto prive di fondamento ma non riesco a fare a meno di nutrire
dei sospetti nei confronti di
quella persona. Oltre ad essere un collega è il mio nuovo
vicino di casa e
dovrei essere gentile o cercare di mostrarmi tale,
tuttalpiù. Arrendendomi
all’idea decido di farmi coraggio, preparando un piatto di
biscotti da
portargli come ammenda, diciamo. In ogni caso non riuscirei a mangiarli
tutti
quanti da sola e con il passare dei giorni si guasterebbero.
Riesco
a recuperare un cestino di
vimini dai mobiletti pensili della cucina e dispongo un tovagliolo sul
quale adagio
qualche biscotto. Dopo aver preparato il pacchetto mi blocco:
“E se non
abitasse da solo?” inizio a pensare tra me e me. Non mi
sembra di aver visto
nessuno all’infuori di lui nei pressi
dell’abitazione ma potrebbe essere
sposato o convivere con qualcuno. Nel dubbio decido di aggiungere altri
biscotti,
per non sembrare avida.
Arrivata
davanti alla porta, con
il cestino di biscotti in
mano, mi
faccio coraggio e suono il campanello. Aspetto e non si presenta
nessuno. Non
essendo del tutto convinta di ciò che sto facendo esito
prima di suonare
un’altra volta. Tuttavia faccio respiro profondo e ignorando
i miei timori suono di nuovo. Questa volta, dopo circa una
trentina di secondi, sento aprirsi
la porta, di fronte a me ed ecco comparire lui: torso nudo, capelli
bagnati,
pantaloncini da ginnastica e, ancora una volta, piedi scalzi.
-Oh!
Mi perdoni di averla
disturbata.
Esclamo,
rendendomi conto che
probabilmente è appena uscito dalla doccia. Non avevo
pensato che essendo
andato a fare sport, probabilmente, avrebbe fatto una doccia poco dopo.
Come
ogni normale essere umano, ovviamente.
-Nessun
problema, mi stavo solo
asciugando. Aveva bisogno di qualcosa?
Risponde
lui, passandosi una mano
tra i capelli ancora bagnati, forse con l’intento di
sistemarli.
-Io
avrei portato dei biscotti.
Porgo
in avanti il cestino con i
biscotti, che l’avvocato subito scruta, interessato.
-Hanno
un profumo davvero
delizioso.
Commenta,
prendendo il cestino.
-Andiamo
dentro, va bene?
Chiede,
indicandomi di entrare.
Io inizialmente esito poi annuisco ed entro in casa.
-Permesso…
Chiedo.
Subito l’avvocato chiude
la porta alle mie spalle. Il mio cuore inizia a battere
all’impazzata.
-Le
dispiace se le chiedo di
aspettarmi in salotto, mentre mi metto qualcosa di…
presentabile?
Chiede
indicando la sua tenuta
decisamente molto “comoda”.
Annuisco,
senza aprire bocca.
-Da
questa parte, allora.
Mi
indica di seguirlo. Mi conduce
verso una stanza che stilisticamente ricorda il salotto di
casa mia. In effetti lo stile
dell’intera casa è simile, devono essere state
costruite nello stesso periodo.
L’avvocato
appoggia il cestino di
biscotti su un tavolino da caffè, davanti al grosso divano
beige che fa da
padrone nel salotto.
-Si
sieda pure, arrivo subito.
Assecondo
l’avvocato e mi siedo
su quel divano beige, continuando però a scrutare con
sospetto l’intera stanza.
L’ambiente è pulito e ordinato e tutto
l’arredamento è coordinato in modo
perfetto. Lo stile lo definirei
georgiano, con qualche elemento più moderno
come il divano scamosciato
su cui sono seduta e chiaramente tutti gli apparecchi elettronici
presenti
nella stanza. Davanti a me noto subito un camino bianco, praticamente
identico
a quello di casa mia ma probabilmente non funzionante, dal momento che
nel
punto del focolare è posizionato un vaso con dei fiori
secchi. Sopra il camino
c’è un’imponente televisore a muro,
quasi mostruoso per la sua grandezza.
Dopo
aver constato di trovarmi in un
ambiente decisamente curato e di classe, inizio a scrutare per trovare
dettagli
e particolari di natura personale, per scoprire qualcosa di
più sull’avvocato,
delle foto, magari. Tuttavia con mio disappunto non trovo nulla. Non
noto
inoltre nessun segno che potrebbe suggerire la presenza di una donna in
casa,
per cui continuo a pensare che abiti solo. Probabilmente
l’intero ammobilio
deve essere stato lasciato dal precedente inquilino poiché
non ricordo di aver
visto nessun furgoncino dei trasporti davanti alla casa. Non ritengo
possibile
che in due giorni sia riuscito a sistemare e a portare tutti quei
mobili in
questa casa, senza essere notato.
D’accordo,
non trascorro
generalmente molto tempo a casa eppure sono rincasata presto nei
pomeriggi
precedenti e non una volta ho visto qualcuno introdurre qualcosa in
questa
casa. Il pensiero stesso mi inquieta, mi chiedo come sia possibile che
una
persona che si trasferisca in una casa nuova non abbia oggetti
personali da
portare con sé. Una casa asettica e priva di tocco personale
decisamente non fa
per me. Forse perché la mia casa è una casa di
famiglia e ogni mobile, quadro,
segno sul muro o graffio sul parquet porta con sé una sua
personalissima
storia. Come i segni sullo stipite della porta in lavanderia, le mie
misurazioni di altezza dai quattro ai diciassette anni (quando ho
smesso di
crescere, con mio gran disappunto) oppure quella chiazza scura del
parquet in
camera mia, quella volta nella quale mi cadde un’intera
boccetta di smalto sul
pavimento e tentai di toglierla con un intero flacone di solvente,
peggiorando
la situazione.
La
casa in cui mi trovo ora non
mi trasmette assolutamente nulla. Quasi non fosse mai stata abitata,
quasi i
precedenti inquilini fossero solo di passaggio, fermatisi in tempi
così brevi da non
lasciarsi alle spalle neanche un briciolo di storia.
-Mi
scusi se l’ho fatta
aspettare.
Esclama
l’avvocato, apparendo
sulla porta del salone. I capelli ora sono quasi asciutti e indossa un
paio di jeans
scuri e una maglietta verde, a maniche corte.
-Immagino che i biscotti
siano deliziosi. Con
cosa gradirebbe accompagnarli? Del the, magari?
Il
modo di parlare dell’uomo che
mi trovo davanti è alquanto singolare. È vestito
da ragazzo e credo, a
giudicare dall’aspetto, che non abbia più
trent’anni eppure ha una parlata
d’altri tempi, quasi avesse frequentato una scuola privata o
un corso di buone
maniere. Anche il suo accento è decisamente insolito, non
è americano, questo è
certo.
-Va
bene anche dell’acqua, non si
disturbi.
Rispondo
io.
-Dell’acqua?
Ne è sicura?
Annuisco.
L’avvocato sparisce per
qualche minuto e riappare poco dopo con una bottiglia d’acqua
sottobraccio e un
paio di bicchieri di cristallo in mano. I bicchieri sembrano essere
molto
antichi e preziosi, nella parte inferiore hanno un decoro trapuntato in
rilievo.
-Non
ho mai usato questi
bicchieri, ne vuole degli altri?
Commenta,
versando l’acqua.
Sobbalzo, sorpresa e quasi preoccupata da come sia stato in grado di
decifrare
il mio sguardo.
-No,
sono molto belli. Forse
troppo belli, per l’occasione. È a questo che
stavo pensando…
L’avvocato
sorride. Ha un sorriso
davvero particolare, ogni volta che inarca le labbra una piccola
fossetta
piuttosto profonda compare su entrambe le guance. Prende un biscotto e
poi si
siede alla mia destra, su una poltrona, probabilmente appartenente allo
stesso
set del divano.
-Sono
appena stati sfornati.
Commento,
ancor prima che
assaggi. L’avvocato annuisce e dà subito un morso
al biscotto. Lo osservo
mentre mastica, in modo lento, quasi stia cercando di assaporare o
ancor più di
capire quali siano gli ingredienti.
-I
miei complimenti, sono davvero
deliziosi!
Arrossisco
quasi, dopodiché
prendo anche io un biscotto. Nonostante li abbia cucinati non ne ho
ancora
provato uno, se non altro per sapere se il complimento
dell’avvocato sia
semplice gentilezza.
-Grazie.
Non sono esattamente tra
i miei migliori ma… sono gustosi.
Commento
con modestia, dopo aver
assaggiato un biscotto.
-È
stata davvero gentile ad
offrirmeli, non avrebbe dovuto disturbarsi.
Esclama,
con tono quasi serio.
-Oh…
nessun disturbo! Volevo
scusarmi per essere stata maleducata, ultimamente.
Rispondo,
in tutta sincerità.
L’avvocato aggrotta la fronte.
-Siamo
vicini di casa e ancora
non ho trovato un momento per presentarci, in maniera adeguata.
Spiego,
poi.
L’avvocato
si sporge verso il
tavolino e afferra un altro biscotto.
-In
tutta onestà l’ho vista
molto fredda nei miei confronti, signorina.
Rimango
a bocca aperta. Non posso
negare ciò che ha appena detto, eppure non riesco a credere
di averlo dato a
vedere in modo così evidente.
-Non
era mia intenzion. Se le è
sembrato così le chiedo perdono.
Ribatto,
con tono quasi timoroso.
L’avvocato termina il biscotto che ha in mano e beve un sorso
d’acqua, prima di
rispondere.
-No
intendevo rimproverarla.
Posso ben comprendere la sua diffidenza.
Lo
osservo, quasi intimorita. Il
suo sguardo è serio, quasi cupo. I suoi occhi di ghiaccio
sembrano ancora più rigidi.
-Mi
sono trasferito in questa
casa praticamente di notte. Non conosco nessuno nel quartiere
né in città. La
gente dei paesini lungo la costa, come questo, mormora. Se non
c’è materiale su
cui basarsi sorgono i sospetti.
Il
discorso dell’avvocato non fa
che alimentare i miei timori nei suoi confronti. Il suo tono
è decisamente
troppo serio. Benché mi abbia detto che il suo non
è un rimprovero, stento a
crederlo. Ancora una volta vorrei alzarmi e scappare via ma allo stesso
tempo
sento come se fossi incapace di farlo.
-È
buona cosa smentirli questi
sospetti, se non si ha nulla da nascondere.
Ribatto,
sfoderando un
inaspettato coraggio. Stento a credere che quelle parole siano uscite
dalla mia
bocca.
-Certamente.
Risponde
lui, abbozzando un mezzo
sorriso.
-Mia
nonna mi ha insegnato che
c’è sempre un fondo di verità, anche
nelle malelingue. Non che ne abbia sentite
su di lei.
Proseguo.
Improvvisamente ho una
gran voglia di vederci chiaro in tutta la faccenda.
L’avvocato pare quasi
stupito dalla mia intraprendenza. Sicuramente si era fatto
un’idea sbagliata su
di me, vedendomi il più delle volte impacciata e silenziosa.
-Sua
nonna?
Si
limita a chiedere, ignorando
completamente la mia provocazione.
-Sì,
è lei che mi ha cresciuta.
Rispondo,
con fierezza.
-Le
ha insegnato lei a fare i
biscotti?
Chiede,
prendendone un altro.
-Veramente
sì. Come lo sa?
Domando.
In questo caso sorpresa
della sua supposizione.
-Non
lo sapevo, ho tirato ad
indovinare.
Spiega,
di nuovo sorridendo. Un
sorriso strano, che difficilmente riesco a decifrare. Per qualche
istante regna
il silenzio poi, l’avvocato, inizia a canticchiare,
sottovoce. Una melodia che
mi sembra di ricordare, che conosco.
Mi
blocco. Non è possibile, non
può esserlo.
-Qualcosa
non va’?
Chiede
l’avvocato, interrompendosi.
Io rimango paralizzata.
-La
canzone…
Riesco
solo a commentare.
Improvvisamente il mio cuore inizia a battere sempre più
forte, quasi
togliendomi il respiro. Si tratta della stessa canzone che canticchiava
mia
nonna cucinando i biscotti, una canzone vecchia e nemmeno americana.
Non riesco
a credere che possa conoscerla.
-Mi
perdoni. Mi capita spesso di
canticchiare.
Il
desiderio di scappare in
questo momento aumenta. Inizio seriamente a guardare la porta del
salone e
l’ingresso. Mi
alzo dal divano, cercando
di nascondere la mia paura.
-Credo…
di dover tornare a casa!
Mi ha fatto piacere questa chiacchierata.
L’avvocato
si alza a sua volta.
-L’ho
in qualche modo
infastidita? Mi perdoni, mi capita spesso di canticchiare in
solitudine. Non
sono abituato alla compagnia.
Scuoto
il capo, cercando di
uscire da quella casa al più presto possibile.
-Oh,
no. Non c’è nessun problema.
Semplicemente ho delle cose da fare a casa e…
L’avvocato
mi afferra un braccio
e mi blocco. Mi osserva con quei suoi occhi di vetro. Questa volta
però non
avverto nessun brivido, nessuna sensazione spiacevole, tuttavia non
riesco a
muovermi. Nella mia mente vorrei dimenarmi e scappare via, correre.
Eppure mi
fermo, rimango immobile e per un breve istante le mie paure si
mitigano, il mio
sconcerto sparisce.
-Mi
perdoni, Jennifer, non
volevo.
Annuisco.
-Va
bene.
Rispondo,
quasi automatica.
Dopodiché mi libera il braccio e mi permette di tornare a
casa. Attraverso la
strada in piena tranquillità. Tutta l’agitazione e
la preoccupazione che fino a
poco prima avevano regnato su di me sono come sparite. Entro in casa,
chiudo la
porta ma vengo colta da uno strano malessere. La mia vista
inizia ad
appannarsi e una potentissima ventata di caldo parte dal mio petto fino
ad
arrivarmi alla testa.
Riesco
a stento a raggiungere il
divano in salotto, poiché le mie gambe cedono. Faccio un
respiro profondo,
tentando di calmarmi ma non riesco. Non appena la mia vista inizia a
migliorare
mi allungo in direzione del tavolino accanto al divano, dove
è posizionato il
telefono cordless. Senza pensarci troppo compongo il numero di telefono
di
Ellie.
Suona.
Suona
di nuovo.
“Ti
prego Ellie, rispondi.”
Penso.
Ogni squillo a vuoto è
come uno spillo, conficcato nel mio cuore.
-Pronto?
-Ellie,
sono io.
-Jen!
Dimmi.
-Io…
credo di non sentirmi
affatto bene.
-Che
è successo?
-Non
lo so, io…
Non
so rispondere, per fortuna
Ellie mi precede.
-Arrivo
subito. Mi spiegherai
quando sarò lì, non muoverti.
--
Inizio ringraziando Iwannagofast,
mi fa piacere che tu ritenga la storia molto bella. Come
tu stessa hai detto ci tengo molto e credo che pian piano diventi
sempre più interessante e movimentata, ovviamente sono di
parte :P
Come
ho annunciato pubblicherò ogni giorno eccetto la domenica (e
giorni in cui sarò fuori casa, che comunicherò in
seguito) tra le 14 e le
14.30.
Devo
però fare un'eccezione per DOMANI,
pubblicherò o attorno alle 13 o dopo le 17.
Quindi se non volete farvi scappare il nuovo capitolo, aggiungetela
nelle "storie seguite"
oppure se non avete un account o non volete farmi sapere del vostro
passaggio, mettetela nei preferiti del vostro browser.
Come
al solito vi invito a lasciarmi correzioni/impressioni/pareri e vi
saluto.
Alla
prossima! ---
|
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Capitolo 10 *** Capitolo Decimo ***
Capitolo
10
-Jen
sto entrando, c’è anche
Adam.
Esclama
Ellie, aprendo la porta
d’ingresso.
-Si,
venite. Sono in salotto.
Rispondo,
cercando anche di darmi
una sistemata, per quanto sia possibile. Ellie e Adam entrano
immediatamente
nel salone. Ellie si precipita sul divano, al mio fianco.
-Che
cosa ti è successo?
Chiede,
con aria preoccupata.
Probabilmente erano entrambi in casa perché Ellie indossa un
paio di pantaloni
della tuta e una maglietta semplice, così come Adam.
-Non
lo so, sono stata dal vicino
e…
Ellie
spalanca gli occhi.
-Dell’avvocato
intendi?
Adam
ha un’espressione confusa
sul viso, probabilmente Ellie non gli ha detto nulla circa dove abita.
-Abita
qui di fronte.
Spiego.
Adam
sembra molto sorpreso ma al
tempo stesso preoccupato. Si siede sulla punta del tavolino da
caffè, di fronte
a me, azione chi gli causa un immediato rimprovero da parte di Ellie.
-Adam!
Esistono i divani!
Lui
tuttavia, dopo averla
guardata storto, torna a rivolgere la sua attenzione verso di me. In
questo
momento inizio a sentirmi meglio, ho recuperato quasi totalmente la
vista salvo
un leggero offuscamento, anche i giramenti di testa sembrano essersene
definitivamente andati.
-Come
ti senti adesso?
Chiede
Ellie, accarezzandomi un
braccio in modo affettuoso.
-Bene.
Decisamente meglio.
Scusatemi se vi ho disturbato ma ho creduto seriamente di non farcela.
So che
può sembrare esagerato, eppure…
Mi
scuso, sentendomi un po’ in colpa
per averli praticamente costretti a venire da me. Non è
colpa loro se abito
sola, se non ho un fidanzato o altri amici al di fuori di loro. Avrei
dovuto
cavarmela da sola, nel peggiore dei casi avrei potuto chiamare un
medico.
Dovrei seriamente imparare a cavarmela per conto mio, senza dipendere
da
nessuno, iniziandomi ad arrendermi all’idea che quella di
rimanere da sola
potrebbe essere una delle mie opzioni future.
-Figurati,
stavamo solo andando a
fare jogging!
Commenta
Adam, regalandomi uno
dei suoi sguardi teneri.
-Piuttosto,
hai detto di essere
andata a casa dell’avvocato, perché?
Chiede
Ellie, in tono serio.
-Ti
ho già parlato dei miei
sospetti, probabilmente infondati, su di lui.
Ellie
annuisce e mi fa cenno di
proseguire.
-L’ho
sempre evitato, tutte le
volte che mi è capitato di vederlo davanti casa sua o nel
suo giardino.
Stamattina in modo particolarmente brusco, oltretutto. Ragion per cui
ho deciso
di porgergli un’offerta di pace, portandogli qualche biscotto.
Rispondo,
cercando di far
sembrare il mio discorso meno sciocco possibile. Mi rendo conto,
spiegandomi,
che tutto ciò che ho fatto è stato estremamente
infantile. Insomma, sono
entrata in casa di un perfetto sconosciuto sul quale già
nutrivo non pochi
sospetti e non contenta ho deciso di portargli dei biscotti e di
fermarmi a
consumarli, con lui. Avrei potuto semplicemente lasciarglieli e andare
via,
sarebbe stato comunque un gesto cortese. Probabilmente il mio agire
è stato
dettato da quel dualismo di emozioni che provo verso quella persona.
Tutt’ora
mentre parlo con Ellie e Adam di quello che mi è successo
cerco di pesare le
parole, tentando di non farlo sembrare un personaggio ambiguo o peggio
pericoloso.
-Ti
ha fatto entrare? Ti ha
offerto qualcosa?
Chiede
Adam, facendosi più serio.
I due si osservano, quasi complicità. Ellie ad un certo
punto annuisce, facendo
apparire un'espressione
dura sul viso di Adam.
-Non
ti avrà drogata, spero?
Chiede
infine, esponendo quelli
che probabilmente sono i sospetti condivisi da entrambi dal momento che
Ellie
non lo smentisce, continuando a guardarmi con apprensione. Io
ovviamente nego.
Non credo di essere stata drogata, l’avvocato mi ha offerto
della semplice
acqua, versata da una bottiglia sigillata. Inoltre ho bevuto giusto un
sorso.
-No,
davvero. Non credo sia nulla
di tutto questo, tranquilli.
Adam
rimane in silenzio e si
mette a fissare il pavimento per qualche istante.
-Ti
ha per caso minacciata? Ha
detto qualcosa di strano?
Prosegue
Ellie. Io scuoto il
capo.
-Non
mi ha minacciata, però…
Mi
soffermo a pensare alla
piccola discussione avuta con lui. Mi ricordo di essermi spaventata per
qualcosa che ha detto ma esattamente non riesco a ricordarmi che cosa
fosse.
Rimango in silenzio, con lo sguardo fisso nel vuoto cercando di pensare
a ciò
che la mia mente vorrebbe dire, probabilmente per troppo tempo
perché Ellie mi
tocca una spalla, scuotendomi.
-Cosa?
Cosa c’è?
Mi
chiede. Il suo tono di voce ha
delle note cariche di terrore. Nel frattempo Adam si è
alzato. Si trova davanti
alla finestra, probabilmente sta cercando di scorgere il mio vicino al
di là
della strada.
-Non
mi ricordo. Davvero, non ne
ho memoria. Credo abbia detto qualcosa, un particolare che non avrebbe
dovuto
sapere.
Adam
si gira di scatto verso di
me ed Ellie mostra un’espressione tutt’al
più confusa.
-Non
credo fosse nulla di grave o
di serio. Forse un nome o un dato. Davvero, per quanto mi sforzi non me
lo
ricord, non deve essere importante.
Ellie
fa un sospiro lungo, quasi
sconfortato. Io le prendo le mani e le sorrido.
-Siete
stati entrambi davvero
carini ad essere venuti qui. Grazie davvero ma ora potete andare, sto
bene.
Ellie
scuote il capo.
-No,
almeno stanotte non ti
lasciamo.
Commenta
Adam, ricevendo
l’approvazione di Ellie, che subito aggiunge qualcosa.
-Sì,
dormirò con te. Adam potrà
sistemarsi sul divano.
Quest’ultimo
annuisce. Io rimango
spiazzata. Da un lato non penso che la faccenda sia così
seria da dover
necessitare di essere tenuta sotto controllo, dall’altro sono
quasi imbarazzata
dalla gentilezza e la disponibilità di Adam ed Ellie.
-Tranquilli,
starò bene. Magari è
stato solo un calo di zuccheri, mangerò qualche biscotto per
rimediare.
Dopo
un paio d’ore Adam ed Ellie
tornano a casa, dopo aver tentato di convincermi a farli restare almeno
una decina di
volte. Cerco di mostrare, anche e forse soprattutto a me stessa, di
stare bene.
Probabilmente ciò che ho detto ad Ellie ed Adam è
vero, potrebbe essersi
trattato di un malore passeggero. Ad ogni modo, per precauzione, chiudo
con ben
due mandate la porta di casa e per le restanti ore del giorno non oso
mettere
piede in giardino.
Decido
di passare la giornata
all’insegna delle cure di bellezza. Mi piace molto prendermi
cura del mio viso
e del mio corpo, tuttavia il più delle volte non ho tempo,
principalmente per
gli impegni lavorativi che figurano oltre al lavoro d’ufficio
anche le udienze
in tribunale e i colloqui personali con i miei assistiti. Mi osservo le
mani e
noto che il mio smalto rosso, applicato poco più di una
settimana fa, inizia a
sbeccarsi sulle punte delle dita, ragion per cui la prima coccola che
mi
concederò sarà la manicure.
Dopo
aver attentamente limato le
unghie, rimosso le cuticole e lucidato la superfice ungueale alla
perfezione,
rimango qualche minuto incantata davanti al cestino contenente i miei
smalti,
indecisa su quale colore applicare. Avrò
all’incirca una cinquantina di smalti
e mi rendo perfettamente conto che a una persona normale, per quanto
amante
delle mani curate, ne basterebbero anche poco meno della
metà. Tante boccette
di smalto sono praticamente identiche, variano di una sola sfumatura,
che
risulta visibile attraverso il vetro del flacone ma assolutamente
insignificante una volta stesa sull’unghia. Inizialmente
decido di applicare di
nuovo lo smalto rosso, salvo poi pensare di averlo già messo
almeno per tre
settimane di fila nell’ultimo periodo. A cosa serve avere
più smalti di un
centro estetico, se poi applico sempre il medesimo colore? Inizio
applicando la
base trasparente, per temporeggiare.
Pur
scegliendo, alla fine, di
utilizzare un lilla rimango indecisa fino all’ultimo per il
rosso. Il rosso è
decisamente il colore più comune per la manicure,
nonché quello classico
utilizzato da buona parte delle donne. Per me ha anche un significato
speciale,
poiché mi riporta alla mente uno dei pochi ricordi legati a
mia madre.
Non
penso quasi mai a mia madre.
Sembra qualcosa di davvero terribile e sconveniente da dire ma avendo
passato
così poco tempo con lei, con gli anni ho iniziato a
considerarla una zia più di
una mamma. Credo di aver versato molte più lacrime al
funerale di nonna Angela,
rispetto a quando la polizia si è presentata davanti alla
porta di casa,
comunicando la triste notizia che i miei genitori da quel momento in
poi
sarebbero stati considerati dispersi. Ad ogni modo lo smalto rosso
è uno dei
pochi particolari che ricordo di lei. Non le assomiglio
particolarmente, mia
madre aveva capelli e occhi scuri, come mio nonno. Non assomiglio
neanche a mio
padre, a dir la verità. Ricordo, guardando le foto di mia
nonna da giovane, di
essermi ritenuta molto più simile a lei fisicamente,
benché gli occhi di mia
nonna fossero color del cielo e i miei nocciola o verde scuro, come lei
insisteva descriverli.
Ripongo
lo smalto rosso nel
contenitore, soffermandomi a guardare la boccetta. Ho iniziato da
bambina a
dipingermi le unghie di questo colore, forse proprio per emulare in
qualche modo mia
madre.
Dopo
aver dipinto le unghie
preparo una maschera per nutrire i capelli a base di miele e yogurt
greco e,
subito dopo, ne applico una alla menta sul viso. In questo modo la
giornata
scorre veloce, al punto di arrivare all’orario di cena, senza
che me ne
accorga. Credo che se Hiram non avesse iniziato a strusciarsi contro le
mie gambe
e miagolare, implorandomi praticamente di dargli del cibo, mi sarei
dimenticata
di cenare io stessa.
Dopo
cena ricevo una telefonata
da parte di Ellie, per accertarsi che stia bene e che non mi sia
successo
nient’altro nel frattempo. Non conoscevo questo lato
così materno e apprensivo
di Ellie, non me lo sarei aspettato da lei. Forse la sua relazione con
Adam
l’ha responsabilizzata rispetto ai primi periodi nei quali
era tutta locali,
discoteche e null’altro. Terminata la telefonata con Ellie,
durata all’incirca
mezz’ora, decido di prepararmi per andare a letto. I miei
timori di dover
passare una notte insonne sono molti ,decido quindi di
prepararmi
una bella tisana per calmare in nervi e la mente.
Non
so se sia merito dell’effetto
placebo o se effettivamente i miei nervi si siano calmati, tuttavia
dopo aver
bevuto una tazza intera di tisana alla valeriana mi sento
immediatamente
meglio. Mi metto a letto e giusto il tempo di dare una carezza al gatto
e
spegnere la luce che i miei occhi si chiudono e cado in un sonno
profondo.
Inizio
a sognare.
Mi
ritrovo nella stessa stanza
nella quale sono ora ma sembra diversa. A giudicare dalla carta da
parati rosa
e dai pupazzi della Disney sul letto riconosco l’arredamento
che avevo da
bambina. Alla mia destra non c’è ancora il vanity
table dove ora tengo i miei
trucchi, bensì una gigantesca casetta rosa e lilla di Barbie
a forma di
castello, in compagnia della quale ho passato buona parte dei pomeriggi
della
mia infanzia. Proprio là nell’angolo mi rivedo, da
bambina: capelli più chiari,
sciolti e spettinati, vestitino a quadretti rosa e un peluche tra le
mani, un
cagnolino. Non si tratta di un semplice cagnolino, bensì del
pupazzo che porto
con me sino dalla culla e che ancora a quasi trent’anni
conservo gelosamente
sul mio comodino, anche se gli anni l’hanno ridotto ad uno
straccio.
“Amico”
è il nome del mio
pupazzo, l’ho chiamato io stessa da bambina in questo modo e
per anni,
purtroppo, è rimasto l’unico amico che avessi al
mondo. Per me è sempre stato
difficile stringere amicizia e soprattutto portare avanti delle
amicizie per
lungo tempo. Questo probabilmente per la mia situazione familiare
particolare e
perché essendo le disponibilità finanziarie
scarse, non ho mai potuto avere
tutto quello che le altre bambine mie coetanee avevano,
benché mia nonna avesse
fatto il possibile per non farmi mancare nulla.
La
scena che mi trovo ad
osservare dall’alto, come se fossi un fantasma o comunque
un’entità invisibile,
mi ricorda qualcosa. Certo, buona parte dei miei pomeriggi li
trascorrevo in
camera, con i miei giocattoli e la mia spropositata fantasia eppure mi
sembra
di averla vissuta quella particolare scena. La piccola Jenny si alza di
scatto
dopo qualche minuto, senza però abbandonare Amico, tenuto
stretto vicino al
cuore. Si è spaventata perché ha sentito la nonna
alzare la voce in sala,
probabilmente con il nonno, anche se a giudicare
dall’età di Jenny, il nonno
dovrebbe potrebbe già essere venuto a mancare.
La
piccola Jenny apre piano piano
la porta, in modo da lasciarne aperto uno spiraglio solamente. Si siede
sul
pavimento e tiene l’orecchio testo contro lo stipite, per
cercare di
origliare. Ha quasi paura a respirare, per il timore di essere sentita
e
probabilmente sgridata.
-Non
puoi fare questo, non a
Jenny!
Anche
se così lontana, così
confusa e disturbata, è la voce della nonna. La piccola
Jenny sussulta, quando
sente pronunciare con chiarezza il suo o meglio il nostro nome.
-Non
l’avevo previsto ma non
posso evitarlo.
Questa
è la risposta dell’altra
voce, una voce probabilmente maschile che non mi sembra di riconoscere.
-Devi!
Non farle quello che hai
fatto a me, ti prego! Lei non se lo merita. Non la mia piccola Jenny!
Ne ha già
passate tante, troppe.
La
voce della nonna diventa
sempre più acuta e quasi dolorosa da sentire. La piccola
Jenny smette di
ascoltare, stringe ancora più forte il suo pupazzo e
nasconde il viso tra le
ginocchia, in procinto di piangere. Dopo qualche istante la porta
accanto a lei
si apre. Una mano grande, una mano maschile troppo giovane per
appartenere al
nonno e troppo dolce per appartenere a papà, che per anni ho
creduto avesse
sviluppato un’allergia nei miei confronti, non avendomi mai
fatto una carezza,
si posa sulla testolina delicata della piccola Jenny, che subito alza
lo
sguardo. Questa persona, quest’uomo, si inginocchia davanti
alla bambina e le
prende il viso tra le mani. La piccola Jenny lo guarda e lui le sorride.
-Perdonami
Jenny, non vorrei.
D’un
colpo la figura oscura
assume un’identità, un volto e un nome.
Il
sogno si tramuta in incubo e
mi sveglio di soprassalto, mettendomi a sedere, con la
rapidità di una molla.
-Hiram
O’Dowell.
Bisbiglio,
con il fiato corto e
il cuore che batte all’impazzata.
--
Pubblicato al volo. Spero sia piaciuto, ringrazio alberodellefarfalle
per la recensione.
Come
sempre aspetto pareri.
Buona
Domenica a tutti, a presto! ---
|
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Capitolo 11 *** Capitolo Undicesimo ***
Capitolo 11
Il
giorno fissato per l’udienza
definitiva arriva piuttosto velocemente, nonostante abbia trascorso
buona parte
delle notti precedenti insonne. Dopo quell’incubo del quale
non sono in grado
di darmi una spiegazione, anche il sol pensiero di sdraiarmi e chiudere
gli
occhi mi provoca seri attacchi di panico.
Non
ho voluto parlare con nessuno
del sogno, né delle mie paure e le volte nelle quali Ellie
mi ha fatto domande
o mi ha chiesto se tutto si fosse risolto e se tutto andasse bene, ho
sempre
risposto in maniera positiva, sforzandomi il più possibile
per sembrare sincera
e rilassata. Si è trattata comunque di un’impresa
dura dal momento che le
grosse occhiaie sotto i miei occhi, malamente celate con strati sempre
più
spessi di correttore, parlano da sole.
Mi
trovo già in tribunale, sono
arrivata per prima e subito dopo mi ha raggiunta Andrew. Lo vedo molto
tranquillo e sorridente, non so se questo sia da attribuirsi alle sue
sicurezze
circa il caso Goldman oppure per qualcosa di piacevole accadutogli di
recente. Cercando
di pensare il meno possibile alle mie ansie, decido di fare un
po’ di
conversazione con lui. Durante il weekend, chiaramente, non ci siamo
visti e
ieri è stato tutto il tempo al telefono.
-Ti
vedo parecchio tranquillo,
Andrew.
Esordisco,
attirando la sua
attenzione. Siamo seduti su una panchina all’interno del
tribunale, appena
fuori dall’aula nella quale si terrà a breve
l’udienza, Margareth dovrebbe
arrivare tra circa una decina di minuti.
-Sì!
Sono felice perché
finalmente potremmo archiviare tutto quanto e dedicarci ad altro!
Esclama,
in maniera sincera.
-Quindi
non hai neanche un
piccolo dubbio, questa volta?
Chiedo,
decisamente sorpresa
dalla sua tranquillità. Generalmente
in
modo nervoso avanti e indietro, fissando ogni orologio presente nella
stanza.
Questo rito l’ha applicato anche in casi sui quali eravamo
praticamente certi
di avere la meglio. Per questo motivo mi sorprende non notare neanche
un
briciolo di preoccupazione nei suoi gesti o sul suo viso.
-Quindi
sei così rilassato
soltanto per il processo?
Credo
mi ritenga eccessivamente
insistente, dal momento che mi rivolge un’occhiata di
sconcerto.
-Ma
certo! Tu hai qualche dubbio?
Scuoto
il capo. I miei dubbi sono
perlopiù relativi all’identità e alla
personalità dell’avvocato. Ovviamente non
posso parlare con Andrew, dovrei mettermi a spiegargli ogni cosa e non
sono
certa che il nostro livello di conoscenza gli permetterebbe di capirmi,
come
invece potrebbero fare Ellie e Adam.
-No.
Solo tu sei sempre così
agitato e preoccupato. Mi fa piacere vedere e sapere che stai bene, per
una
volta!
Il
nostro discorso viene
interrotto da Margareth, che finalmente ci raggiunge. Oggi è
un forma a dir
poco splendida. I suoi capelli sono raccolti in una coda molto
elegante, il
trucco sul suo viso è leggero e impeccabile e indossa un
tailleur color rosa
antico che le conferisce oltre ad un’innata eleganza anche un
certo senso di
rispettabilità.
-Margareth,
stai benissimo!
Esclamo,
alzandomi a salutarla.
Le stringo la mano e le do un affettuoso buffetto sulla spalla, lei mi
sorride.
Anche il suo viso è riposato e sereno.
-Siamo
pronti?
Chiede
Andrew, avvicinandosi
anche lui a salutare Margareth. Dopodiché entriamo
definitivamente nella sala.
Essendo il nostro un
processo che
tratterà di affido non ci sono spettatori, gli unici
presenti siamo noi tre, il
giudice, la dattilografa e l’opposizione composta da un
avvocato e i suoceri
della signora Goldman.
-Pensavo
che l’avvocato fosse già
arrivato.
Commenta
Andrew, battendomi sul
tempo. Non mi ero accorta della sua assenza e questo è un
fatto che mi preoccupa
parecchio. Riesco a scorgere anche sul viso di Margareth una nota di
sconcerto,
immediatamente mi avvicino a lei, cercando di rassicurarla.
-Sarà
bloccato nel traffico,
tranquilla.
Le
dico, benché io stessa sia ben
poco tranquilla. Quell’uomo non mi piace e mi spaventa,
tuttavia non credo
sarebbe mai capace di fare una cosa tanto meschina come non presentarsi
ad
un’udienza, non dopo le belle parole e i sorrisi rassicuranti
che aveva
elargito a tutti quanti noi. Continuo a fissare la porta,
già chiusa da una
delle guardie giurate, augurandomi
che
si apra da un momento all’altro. Andrew nel frattempo sta
parlando con il
giudice, un uomo piuttosto in là con gli anni, con il quale
non abbiamo mai
avuto modo di lavorare e che quindi non conosciamo sotto il punto di
vista
operativo.
Mi
accorgo che i suoceri della
signora Goldman sono parecchio agitati. Bisbigliano qualcosa con il
loro
avvocato e, dal momento che il loro sguardo e fisso sulla porta
d’ingresso,
sono certa che si stiano lamentando dell’assenza del nostro
avvocato. Non
sapendo cosa fare invito Margareth a sedersi, poiché al
momento è ancora in
piedi, quasi pietrificata ai lati della panca destinata a noi.
Mentre
Margareth si siede sento
dei passi provenire dal corridoio, passi veloci. Poco dopo ecco la
porta del
tribunale aprirsi e l’avvocato O’Dowell entra,
quasi correndo, in direzione di
Andrew, sventolando la sua valigetta.
-Perdonatemi
il ritardo. Immagino
conosciate le condizioni del traffico a mezzogiorno. Possiamo iniziare?
Chiede,
questa volta rivolgendosi
al giudice che gli fa cenno di sì col capo.
-Signora
Goldman, mi auguro che
non abbia temuto il peggio.
Esclama,
appoggiandole una mano
sulla spalla. Quest’ultima gli sorride, senza però
dire nulla. Per quanto
riguarda me avrei voluto continuare a guardare in avanti, fingendo che
quell’uomo
non fosse mai entrato tuttavia, come temevo, è lui stesso a
rivolgermi la
parola. Per non destare sospetti devo, obbligatoriamente, prestargli
attenzione.
-Buongiorno
signorina Ricci.
Mi
porge la mano, che stringo
fugacemente. Dopo aver ritratto la mia mano mi blocco. A differenza
delle volte
precedenti le sue dita sono fredde, quasi ghiacciate. Il palmo della
mano è
piuttosto caldo, mentre le dita sembrano due pezzi di ghiaccio.
Mi
chiedo se fuori faccia già
veramente così freddo, da sentirlo sulla pelle. Purtroppo le
temperature si
sono abbassate ma comunque si tratta di una giornata di fine estate. Il
mio abbigliamento
è leggero, benché abbia preferito indossare una
camicetta con la manica lunga,
più per
decoro a dire la verità. Inizio
a pensare che magari semplicemente si senta poco bene, ragion per cui
è
arrivato in tribunale in ritardo, nonostante abbia attribuito la colpa
al
traffico.
Ad
ogni modo l’udienza inizia nel
giro di pochi istanti. Il giudice fa una specie di riassunto del caso,
quasi
stesse introducendo la nuova puntata di un telefilm. Subito dopo
intervengono
gli avvocati, il primo a parlare è quello dei suoceri della
signora Goldman,
successivamente il turno passa a noi. Mi fermo ad osservare
l’avvocato, per
l’ennesima volta. È vestito di blu. Un completo
blu scuro e una camicia
azzurra, che risalta in modo perfetto il coloro dei suoi occhi,
nonché il
riflesso dei suoi capelli.
Scuoto
il capo. Non riesco a
capire come sia possibile che sia fisicamente attratta da lui, quasi
dal punto
di voler continuamente incontrare il suo sguardo e al tempo stesso
esserne
irrimediabilmente terrorizzata. Quest’uomo in un modo o
nell’altro è entrato
nella mia testa e non riesco a farlo uscire, in nessun modo. Il sogno
terribile
della notte precedente oltre ad avermi spaventata e sconvolta, mi ha
lasciato
un sacco di punti interrogativi in testa.
Mi
è quasi sembrato che tutto il
sogno fosse invece un ricordo. Mi ricordo di aver sentito mia nonna
urlare, mi
ricordo di essermi preoccupata per qualcosa che le avevo sentito dire
eppure non
saprei con esattezza ricordarne il momento né
l’occasione e di certo la presenza
dell’avvocato O’Dowell nel bel mezzo del sogno, non
ha fatto che rendere
l’intera situazione confusa e incerta. Mi è
capitato altre volte di sognare
qualcosa e pensare di avere vissuto determinate situazioni, quando
invece tutto
era il semplice frutto della mia fantasia o, come sarebbe
più corretto dire, si
è trattato di episodi di déjà-vu. Per
quanto riguarda quest’ultimo mio sogno
benché tutti i dettagli sembrino suggerirmi che si tratti di
immaginazione,
fervida immaginazione, non riesco ad esserne sicura.
Non
riesco inoltre a ricordare il
motivo che mi ha spinta a scappare dalla casa dell’avvocato,
lo scorso sabato.
Continuo a pensarci e sono sicura che sia stato per qualche parola di
troppo.
Ad ogni modo, col passare del giorno i ricordi si fanno sempre
più offuscati,
portandomi quasi a pensare di essermi inventata tutto quanto.
-…riteniamo
quindi di affidare la
custodia esclusiva alla signora Margareth Goldman. Il caso è
chiuso.
I
miei pensieri vengono
interrotti dal verdetto del giudice, finalmente positivo.
Immediatamente mi
giro verso Margareth che nasconde il viso tra le mani, per
l’emozione. Piange.
Un pianto liberatorio, un pianto di gioia.
-Ce
l’abbiamo fatta!
Esclamo,
rivolgendomi verso di
lei. Andrew tira un sospiro di sollievo e subito dopo stringe
entusiasta la
mano dell’avvocato.
-I
miei complimenti, davvero!
Commenta,
con un sorriso a dir
poco travolgente. L’avvocato subito si gira verso di me,
aspettandosi
probabilmente qualche complimento. Mi limito a sorridere e annuire.
Usciti
dallo studio mi fermo a
salutare Margareth, mentre Andrew e l’avvocato rimangono in
disparte.
-E
così… è finita!
Esclama
Margareth, probabilmente
ancora incredula.
-Sì,
ora puoi finalmente tornare
a vivere Margareth.
Commento,
genuinamente felice per
l’epilogo positivo.
-Non
so veramente cosa dire.
Margareth
scuote il capo. Mi
sembra quasi imbarazzata. Sicuramente dopo così tanti mesi
di fatica e di
disperazione si sentirà un po’ scossa e
inizialmente incapace di agire.
-Non
devi proprio dire nulla.
Semplicemente sorridi, respira e corri subito ad abbracciare tuo figlio!
Margareth
annuisce poi
improvvisamente si avvicina di più a me, abbracciandomi.
-Grazie
davvero, Jennifer. Sei
stata un’amica, prima di tutto.
Il
suo abbraccio mi ha colto di
sorpresa.
-Non
devi ringraziare me, solo te
stessa e la tua forza!
Ribatto,
un poco in imbarazzo per
tanta gratitudine. Poco dopo Margareth scioglie l’abbraccio.
-Non
esitare a chiamarmi per
qualsiasi cosa tu abbia bisogno, Margareth. In bocca al lupo.
Poco
dopo Margareth mi saluta e
se ne va. Io dopo un sospiro di sollievo mi avvicino ad Andrew, che sta
ancora
parlando con l’avvocato.
-Oh
Jen! Stavamo giusto parlando
di te.
Esclama
Andrew, non appena mi
vede comparire.
-Di
me?
Chiedo,
in tono misto tra la
preoccupazione e la sorpresa.
-Sì,
l’avvocato mi ha chiesto se
siamo disposti a collaborare con lui, nelle prossime occasioni.
Non
so cosa ribattere, mi limito
ad annuire.
-Andrew
voleva sapere se anche a
lei stava bene, signorina Ricci.
“Andrew”.
Storco il naso per l’inaspettata
confidenza instauratasi tra il mio capo e l’avvocato.
Nonostante io ci abbia
lavorato per mesi fianco a fianco c’è voluto
parecchio tempo prima che mi
chiedesse di abbattere ogni formalità e di chiamarlo per
nome. Mi meraviglio di
come Andrew si sia avvicinato in fretta a quell’uomo.
Generalmente è un tipo
piuttosto riservato e serioso.
-Non
sono io la proprietaria
della Greene Social. Quello che va bene ad Andrew, va bene a me.
Rispondo,
mettendo particolare
enfasi sulla parola “Andrew”.
-Non
essere così modesta Jen, lo
sai che per me la tua opinione è importante.
Ribatte
Andrew, appoggiandomi una
mano sulla spalla.
-Avremo
modo di riparlarne.
Conclude
l’avvocato,
probabilmente accortosi della mia indifferenza.
-Sicuramente!
A questo proposito,
sempre se tu sei d’accordo Jen, vorrei invitarti alla nostra
cena di
festeggiamento.
La
cena di festeggiamento è generalmente
una cena che teniamo noi dello studio dopo la riuscita di casi
particolarmente
complessi, come quello di Margareth, appunto. Benché si
tratti di una
tradizione, fino a questo momento non era ancora stata nominata,
né ne sono
state decisi i particolari. Tuttavia, ultimamente, la festa
è stata organizzata
a casa mia. Io stessa mi sono offerta nelle ultime occasioni di
cucinare per
tutti quanti, essendo appunto la cucina una delle mie grandi passioni.
-Oh,
ne sarei davvero onorato.
Mi
rendo conto solo in questo
momento che ciò che Andrew mi chiede è di
invitare a casa mia anche l’avvocato.
Vista la mia diffidenza nei suoi confronti esito a rispondere.
L’idea che possa
entrare in casa mia, francamente, non mi alletta.
-Non
vorrei essere maleducato
Jen, te lo chiedo perché negli ultimi due anni sei stata tu
ad ospitarci e
cucinare per tutti noi. Se ti dà problemi questa cosa
possiamo andare al ristorante,
come eravamo soliti fare.
Scuoto
il capo.
-Ma
no Andrew, non è giusto che
tu ci inviti e offra a tutti quanti, sai come la penso!
Ribatto.
-Sei
sempre troppo gentile e
forse me ne approfitto, perdonami.
Mi
rendo conto di dover
accettare. Tuttavia prima che possa aprire bocca interviene
l’avvocato.
-Potremmo
tenerla a casa la mia
cena.
Io
e Andrew lo guardiamo,
stupiti.
-Io
e la signorina Ricci abitiamo
a due passi. Può cucinare a casa sua se lo preferisce e poi
portare tutto
quanto da me, se lo desidera.
Andrew
prima di rispondere all’avvocato
mi guarda, in attesa della mia approvazione.
-Va
bene.
Mi
limito a dire, senza mostrare
particolare entusiasmo. Dopodiché l’avvocato ci
saluta e se ne va, lasciandoci
soli.
-Sei
sempre un tesoro.
Commenta
Andrew, rompendo
immediatamente il silenzio creatisi tra di noi negli ultimi istanti.
-Figurati,
per così poco.
Rispondo,
benché tutta l’intera
faccenda mi soddisfi poco, anche con l’opzione suggerita
dall’avvocato.
-Ah,
naturalmente non mi sono
dimenticato della cena che ti ho offerto. Ne parleremo nei prossimi
giorni,
promesso!
--- Eccomi tornata con il capitolo nuovo. Spero vi piaccia, questa
volta si tratta di una capitolo di "transizione". Il prossimo
sarà più movimentato, ve lo prometto. Vi avviso
però che probabilmente domani
pubblicherò tra le 14.30 e le 15.
Aspetto come sempre i vostri commenti e... alla prossima! --
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