Mi incontrerai dopo un giorno di pioggia

di Hatsumi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


Capitolo 1

-Jennifer questa mattina arriva il nuovo procuratore, mi raccomando.

È il mio capo a pronunciare queste parole, alle quali rispondo con uno sbuffo e un leggero accenno col capo. Questa mattina sono stanca, le carte da compilare sembrano non finire mai e il tempo, che ho modo di osservare dalla finestra accanto alla mia scrivania, non fa che peggiorare il mio umore. Cosa terribile la meteoropatia: rende le giornate piovose un vero e proprio inferno. Quando piove, quando il cielo è grigio e cupo, mi sembra quasi che l’intero mondo mi abbia puntato il dito contro. In un attimo o in un lampo, come sarebbe poetico dire, anche la più insignificante nota negativa della mia vita inizia  pesare e sento un grandissimo macigno che mi schiaccia e mi lascia solo un grosso nodo alla gola, un desiderio infinito di scoppiare in lacrime. E dire che l’ho tanto desiderata quella scrivania accanto alla finestra! Dopo circa tre anni chiusa in un cubicolo buio e cieco anche l’idea di un pallido raggio di sole che riscaldasse il mio viso mi sembrava una svolta. Ma quale svolta! Ho ventisei anni, mi sono laureata a ventiquattro con voti non altissimi ma rispettabili e  lavoro in questo misero ufficio a William’s County, in California, da ben quattro anni di cui due da apprendista. Sono un assistente sociale, perlomeno è quello che sta scritto sul mio pezzo di carta.

-Sai Andrew, credo che peggio di Jakobson non potrebbe esserci nessuno!

Esclamo, rispondendo al mio capo che si gira improvvisamente verso di me. Stava tornando nel suo ufficio, probabilmente a compilare carte per l’arrivo del procuratore. Carte, sempre carte. Sembra che non si faccia altro di questi tempi.

Andrew, il mio capo, mi fa cenno con la mano di aspettare e per un secondo scompare dietro la porta del suo ufficio. Quando ritorna mi appoggia una cartelletta, una sorta di dossier color caramello sulla scrivania. Gli rivolgo uno sguardo incuriosito aggrottando la fronte, come sono solita fare quando non so cosa aspettarmi. Dopodiché apro la cartelletta e scopro che all’interno è contenuta una scheda piuttosto dettagliata , un curriculum forse. Inizio a leggerlo.

-Nicholas Becks, nato a Bismarck Nord Dakota, 6 gennaio 1954

William posa una mano sul documento che sto leggendo, impedendomi di proseguire.

-Non mi interessa che tu lo legga ad alta voce, Jen. Voglio solo che dia un’occhiata ai casi che ha trattato. Da pagina sette a nove. Di qualcuno sicuramente ne avrai sentito parlare per i restanti casi… beh, puoi affidarti al buon vecchio Google o dare un’occhiata ai nostri dossier, giù nelle cantine.

Il nome da solo non mi suscita alcun pensiero per cui, senza stare a controllare caso per caso, digito immediatamente “Nicholas Becks” nel motore di ricerca del computer e mi appaiono un sacco di directory che lo citano, in un modo o nell’altro, in casi che hanno fatto scalpore negli ultimi mesi.

-È uno con le palle, Jen.

Afferma Andrew, battendomi sul tempo. Non sarei riuscita ad esprimermi meglio.

-Lo sai Andrew che gli darò filo da torcere! Esattamente come ho fatto con i precedenti!

Esclamo, fingendo una fiducia estrema in me stessa. In realtà sto bluffando e Andrew lo sa bene, sa che molte volte il mio essere spavalda nasconde un paura, spesso irrazionale, di trovarmi a fronteggiare situazioni sulle quali potrei non avere pieno controllo.

-Ti chiedo solo di non fare nulla di non necessario, va bene?

Annuisco, permettendogli di andare finalmente nel suo ufficio a svolgere il suo lavoro. Sono già le dieci di mattina e nessuno ha fatto qualcosa di veramente concreto. Adam ed Ellie, i miei colleghi negli uffici accanto (quelli senza finestre), sono bloccati in un caso di affidamento di minori abbastanza complesso. Io e il capo ci occupiamo di qualcosa di più grosso. Tyler, un bambino di appena nove anni, è sopravvissuto ad una lite domestica sfociata in un  tentato omicidio e successivo suicidio del padre. La madre, dopo esser stata ricoverata per circa sei mesi in una clinica psichiatrica per via dello shock, reclama il suo diritto di averlo con sé. Ad opporsi ci sono nonni paterni Tyler che si sono occupati di lui nei mesi passati e ritengono che la madre non sia idonea all'affidamento.

Ci troviamo in un punto morto perché il procuratore al quale era affidato il caso ha deciso di andarsene. Andrew ritiene che la colpa sia stata mia. Secondo gli avvocati il ragazzo deve essere affidato ad un istituto per minori, poiché nessuna delle due parti è ritenuta in grado di crescerlo adeguatamente. Io ritengo, invece, che la madre sia pronta a ricominciare la sua vita e che riavere Tyler con sé potrebbe essere non solo un aiuto ma anche uno sprono a lasciarsi quella tragedia alle spalle.

-Quindi arriva il nuovo procuratore, eh?

Mi giro ed Ellie è sulla porta del mio ufficio. Ha in mano due bicchieroni di caffè presi da Starbucks, gentilmente me ne offre uno.

-Ho pensato che ne avessi bisogno.

Sorrido e annuisco.

-Grazie.

Ellie si siede su un sedia accanto alla mia scrivania, di solito occupata dai miei “clienti”, anche se non li chiamerei in questo mod, direi più che altro "gli sfortunati". Inizia a sorseggiare il suo caffè mentre io ancora giocherello con la cannuccia del mio.

-Magari questa volta sarà un bel giovane aitante che si innamorerà di te.

Scoppio a ridere. Ellie adora scherzare e, benché la conosca da poco più di un anno, è la persona che si avvicina di più alla figura di amica. Abbiamo la stessa età, anche se lei è arrivata soltanto lo scorso anno. “Disastrosa Ellie” la chiama il mio capo. È una gran pasticciona, buona parte di ciò che fa riesce adeguatamente solo per merito di Adam, divenuto da poco tempo il suo ragazzo.

-Stai ancora cercando un coppia per fare doppi appuntamenti?

Chiedo, iniziando a sorseggiare il mio caffè. Ellie sbuffa e arrossisce, evidentemente ho centrato il bersaglio.

-Ma dai! Come puoi non crederci? Non conosco nessuno che divori le commedie romantiche come te!

È una sorta di attacco il suo. Per non so quale motivo non riesce a capacitarsi del fatto che la mia vita sentimentale, di recente, sia paragonabile al più arido dei deserti. Non ho una relazione vera, una di quelle di cui si può parlare nostalgicamente o dare consigli tutt'altro che spassionati, da almeno due anni. Secondo Ellie è qualcosa di inaccettabile.

-Non è che non ci credo Ellie, semplicemente so come sono i procuratori distrettuali: magrissimi, pelati o con pochi capelli in testa, vestiti sempre come manichini, occhialetti rotondi e una grande, grandissima predisposizione a farmi uscire di senno.

Sorride e spalanca quei suoi luminosissimi occhi azzurri. È molto bella: alta, longilinea, lunghi capelli castani e, appunto, due occhi bellissimi. Non ci è voluto molto prima che Adam smettesse di rivolgere le sue attenzioni a me e le indirizzasse verso di lei. Chi potrebbe dargli torto? Io stessa, se dovessi scegliere, la preferirei a me.

-Ti dirò una cosa, Jen, si tratta di una mia impressione.

Prima di proseguire a parlare si gira per assicurarsi, ho capito poi, che la porta dell’ufficio di Andrew fosse chiusa. Si sporge lentamente verso di me e abbassa in modo notevole il tono della voce, quasi sussurra.

-Credo che Andrew abbia un debole per te.

Porto gli occhi al cielo. Non posso credere che sia arrivata a fare queste ipotesi.

-Perché no?

Chiede, accortasi della mia espressione disdegnante.

-Non dire sciocchezze Ellie. Per prima cosa è il mio capo, ha circa vent’anni in più di me, è separato da poco e… di sicuro non è il mio tipo.

Esclamo. In quel momento la mia attenzione viene colta dalla pila di fogli che ancora non ho finito di compilare. Sopra di essi c’è un post-it con il nuovo numero di telefono della madre di Tyler, il ragazzino che ho in custodia. Dovrei chiamarla, se non altro per avvisarla dell’arrivo del nuovo procuratore.  Ho parlato molto con quella donna nei mesi passati, l’ho vista piangere e cadere nello sconforto più profondo. Vorrei tanto per una volta telefonarle e dirle che ho trovato la scappatoia, il modo, la persona giusta. Insomma vorrei tanto dirle che sono riuscita, finalmente, a porre fine alle sue sofferenze.

-Non ti ho mai chiesto quale sia il tuo ideale di uomo, Jen.

Le parole di Ellie mi distolgono immediatamente dai miei pensieri.

-In che senso Ellie?

Chiedo, temendo di essermi persa una parte del discorso.

-Beh… fisicamente almeno. Dici che Andrew non è il tuo tipo, va bene. Allora cosa ti piace?

Mi sembra una domanda piuttosto sciocca e infantile, quella di Ellie. Tante volte quando sono con lei mi sembra di trovarmi con l’amica d’adolescenza che non ho mai avuto, per un motivo o per l’altro. Trovare un’amicizia così a ventisei anni è piuttosto strano, come lo è stato essermi ritrovata una domenica pomeriggio nell’appartamento di Ellie a vedere metà della prima serie di Sex & the city. Eppure forse è per questo motivo che mi trovo tanto bene con lei perché, anche se in ritardo di almeno una decina di anni, è riuscita ad ricoprire quella figura che tanto mi sarebbe servita. Sorridendo decido di rispondere alla sua domanda, allo stesso modo in cui lo farebbe una ragazza in età scolare.

-Allora… lo voglio alto, moro, pelle chiara ma non troppo. Insomma io ho la pelle già abbastanza chiara, insieme sembreremmo una coppia di cadaveri.

Ellie sorride.

-E poi…

Lo strepitio della pioggia battere sul vetro della finestra mi distrae e, per un attimo, mi ritrovo a fissare le gocce sul vetro, che si infrangono e lentamente si spingono verso il basso. Ancora con lo sguardo fisso nel vuoto, completo la mia risposta.

-… con gli occhi del colore della pioggia. Vitrei, al punto che ad ogni suo sguardo mi venga alla mente l’acqua che scorre e che in qualche modo lavi via tutti i miei pensieri.

Scuoto il capo, solo dopo essermi accorta di quanto sia patetico quello che ho appena detto. Al contrario Ellie sogghigna e mi osserva con sguardo sognante.

-Da dove ti escono certi pensieri, Jen?

Chiede, quasi esaltata da ciò che ho appena affermato. Al contrario io me ne vergogno e prendo finalmente in mano i documenti e la cornetta del cordless sulla mia scrivania.

-Immagino da qualche film. Ora scusami ma devo seriamente iniziare a lavorare.

Ellie si alza, forse un po’ offesa dal modo in cui l’ho liquidata.

-Ok, ok! Buon lavoro cara. Ci vediamo per pranzo?

Chiede. Io annuisco, mentre compongo il numero di telefono.

-Senz’altro. Grazie ancora del caffè.

Sto componendo il numero, mi manca una cifra e mi blocco. Immediatamente schiaccio il tasto “annulla” ma non appoggio la cornetta sulla base. Non ho intenzione di rimandare la telefonata, solo sto vivendo uno dei miei “momenti di riflessione”, mi capita spesso. Mi riferisco a quando il mio cervello si blocca su un pensiero o su di un’idea in particolare e non mi permette di fare altro finché non sviscero quella singola idea ai minimi termini e ne traggo, in qualche modo, una conclusione. Sto pensando a ciò che ho appena detto ad Ellie. Ho descritto in maniera alquanto grossolana ed infantile lo stereotipo fisico dell’uomo che, se lo incontrassi e se esistesse, potrebbe sconvolgere la mia vita. Non sono stata troppo a pensarci, ho elencato di getto una lista di caratteristiche fisiche più o meno apprezzate, finché non sono arrivata a parlare degli occhi. Ho affermato di volere un uomo con occhi come la pioggia e, solo ora, mi rendo conto della mia incoerenza. Come potrei desiderare di vedere ogni giorno un uomo il cui sguardo mi portasse alla mente qualcosa che mi rende tanto triste? Detesto la pioggia, sono sempre malinconica durante i temporali. E allora perché? Arrivata alla conclusione di non avere una spiegazione, non per il momento, decido di tornare a concentrarmi sul mio lavoro e compongo finalmente il numero della madre di Tyler. Il telefono fa diversi squilli prima di permettermi di sentire la voce dall’altro capo.

-Margareth?

Questo è il nome della donna. Conoscendola da circa tre mesi e avendo parlato con lei quasi ogni giorno ho sviluppato una certa confidenza, un certa complicità. Abbiamo iniziato a chiamarci per nome e abbiamo deciso di abolire ogni formalità eccessiva.

-Jennifer! Ti ho pensata stamattina, ci sono novità?

Il suo tono di voce è impaziente, speranzoso. Ogni volta che le devo comunicare qualche notizia il mio cuore sobbalza.

-Direi di si.

Mi limito a dire, cercando di celare in qualche modo la mia preoccupazione.

-Ti ascolto!

Me la immagino, dall’altra parte, seduta composta mentre con una mano accarezza nervosamente il bracciolo della poltrona su cui è seduta. La immagino sulla stessa poltrona sulla quale l’ho sempre trovata seduta nelle mie visite nel suo appartamento:  una reclinabile marrone, molto anni ’70, con dei braccioli di legno chiari, piuttosto ampi.

-Stamattina siamo stati informati dell’arrivo del nuovo procuratore distrettuale.

Cerco di non far trapelare nessun tipo di emozione. Non voglio preoccuparla né crearle aspettative inesistenti.

-Oh… immagino fosse imminente. E dimmi, che tipo è?

A quella domanda inizio a pensare a quanto sia inutile la mia telefonata. Avrei sicuramente fatto miglior cosa a rimandare la chiamata dopo averlo conosciuto, quel procuratore. In quel modo sarei stata in grado di preparare adeguatamente Margareth. Ora non so proprio cosa dirle e mi sento un po’ sciocca.

-La verità è che… ancora non abbiamo avuto modo di conoscerlo. Ho voluto chiamarti solo per avvisarti, per dirti… di non perdere la speranza, ecco tutto.

Pessime parole, me ne rendo conto. Tuttavia non sono stata in grado di trovare una motivazione differente.

-Capisco… Ti ringrazio per avermi avvisata Jennifer. Ti assicuro che non smetterò mai di perdere le speranze, soprattutto finché saprò di avere almeno una persona al mio fianco. Sei ancora con me, non è vero?

La sua voce è insicura, tremante. Ha bisogno di essere rassicurata e, almeno questo, sono in grado di farlo.

-Ma certo Margareth! Io sarò sempre dalla tua parte e farò di tutto,  per il bene di Tyler.

Sento Margareth vacillare dall’altro capo del telefono. Lo avverto dalla sua voce, dal suo respiro affannoso.

-Ora stacco. Ti farò sapere quanto prima eventuali novità.

Decido di chiudere la telefonata. La mia emotività eccessiva a volte è un ostacolo grande, quasi invalicabile, nello svolgere il mio mestiere.

-Grazie, a presto.

Appoggio velocemente il telefono sulla base e sospiro, prendendomi poi il capo fra le mani. Ci sono giorni in cui mi chiedo cosa mi abbia spinto a scegliere una professione che coinvolga in modo così massiccio i sentimenti.

Piove, piove ancora, piove sempre.

 

-- Ciao a tutti e grazie per aver letto questo mio primo capitolo. La storia che state leggendo è un vero e proprio esperimento per me. È tutt'ora in completamento e la sto alternando a quell'altra che già pubblico da diversi anni (e che mi devo decidere a finire, prima o poi) qui su EFP. Questa è la mia PRIMA (e fin'ora unica) storia a tematica NON omosessuale. Si tratta di una sfida, per una volta ho voluto cimentarmi in qualcosa di "diverso". Vedremo cosa ne verrà fuori. Nel frattempo... mi auguro di avere abbastanza compagni di lettura, nonché critici spassionati. A presto ----

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***


Capitolo 2

Non credo di aver mai sentito il tempo scorrere così lentamente. I miei documenti sembrano non finire mai e la lancetta dell’orologio pare abbia timore del mio sguardo. Ogni qual volta alzi il capo e mi ritrovi ad osservare il quadrante bianco dell’orologio sulla parete difronte a me, la lancetta dei minuti risulta ferma: completamente immobile. Quasi qualcuno avesse deciso di togliere le pile all’orologio al solo scopo di farmi dispetto. Almeno un paio di volte ho avvertito l’impulso e la curiosità di alzarmi, spostare la sedia contro la parete dove l’orologio è posizionato (questo poiché sono troppo bassa per poterci arrivare altrimenti) e sollevarlo dal gancio sul quale è appeso per controllare se effettivamente le batterie non siano state rimosse o se invece siano semplicemente esaurite.

Mentre mi arrovello su questo dilemma Andrew entra nel mio ufficio. Non appena il suo sguardo incrocia il mio capisco il motivo della sua visita.

-È qui, non è vero?

Chiedo fingendo di essere occupata in mansioni di ufficio quali: allineare dei fogli, sistemare delle graffette o semplicemente tenere impegnate le mani in qualche modo.

-Non essere nervosa Jennifer. Sarà pure un pescecane sulla carta ma noi ancora non lo conosciamo.

Preferisco non ripetere ad Andrew quanto poco tolleri i procuratori distrettuali o gli avvocati, in generale. Detesto quando, per forza di cose, ci tocca lavorare con i penalisti: fanno parte della peggior specie. Sono senza pietà, non hanno interesse se non il proprio e, perlomeno quelli che ho avuto modo di conoscere, non sono a coscienza di un piccolo codice comportamentale chiamato “buone maniere”.

-Lo so che detesti dover trattare con questa gente ma non abbiamo scelta. È il nostro lavoro, Jen.

Sospiro. Andrew mi osserva da dietro le lenti dei suoi occhiali, mi riserva uno di quei suoi sguardi severi ma allo stesso tempo bisognosi di comprensione. Annuisco, senza commentare ulteriormente ciò che ha appena detto.

-Si presenterà qui in ufficio o dobbiamo andare a conoscerlo in tribunale?

Chiedo, cercando di nascondere la mia insofferenza.

-Qui. Sta parlando adesso con Katherine, le ho detto di preparare la sala che di solito usiamo per gli incontri.

Mi alzo, sistemando adeguatamente la sedia contro la scrivania. Nell’alzarmi dò un’ultima occhiata alla finestra e ancora non ha smesso di piovere. Penso tra me e me che non potrebbe esserci tempo peggiore per incontrare un avvocato, se non questo.

Rapidamente seguo Andrew e mi dirigo verso la sala degli incontri, che nulla è se non un ufficio più grande degli altri nel quale è stato posizionato un vecchio tavolo piuttosto lungo e al quale sono state aggiunte sei seggiole. Quando arriviamo sulla porta della stanza, di spalle, scorgo la figura buia della persona che ci apprestiamo  conoscere. Sta parlando con Katherine, una delle segretarie.

-Mi fa piacere sia arrivato così presto, avvocato Becks.

Esordisce Andrew, tendendogli la mano. Immediatamente l’uomo si gira, dandomi modo di osservarlo attentamente. Dopo avergli rivolto uno sguardo da capo a piedi mi ritrovo costretta a confermare la mia ipotetica ed ironica descrizione fatta ad Ellie, qualche ora prima. L’avvocato è piuttosto alto e magro. Non è eccessivamente brutto. Ritengo anzi che possa avere il suo fascino per quelle donne che sappiano apprezzare gli uomini rasati, con il naso aquilino e con una perenne aria di sufficienza.

-Piacere.

Si limita a dire, stringendo rapidamente la mano di Andrew.

-Vogliamo entrare?

Invita allora il capo, indicando la porta aperta della stanza. Tutti i presenti, ad eccezione di Katherine che si allontana chiudendo la porta, prendono posto. Io e Andrew ci sediamo sullo stesso lato del tavolo, mentre l’avvocato si siede sulla sedia opposta alle nostre e senza darci troppa importanza appoggia la sua valigetta, che fino a pochi istanti prima reggeva in mano, sul tavolo. Gesto abbastanza maleducato, poiché la valigetta inzuppata dalla pioggia crea immediatamente una chiazza d’acqua sul tavolo. Sogghigno, pensando a quanto siano azzeccate le mie supposizioni sugli avvocati. Naturalmente Andrew se ne accorge e mi rivolge uno dei suoi sguardi severi, questa volta vuole semplicemente rimproverarmi.

-La ragazza… sarebbe?

Chiede l’avvocato, senza rivolgere lo sguardo verso nessuno di noi. Se ne sta semplicemente con la testa infilata nella valigetta, alla ricerca di chissà quale documento. Ad ogni modo io ed Andrew ci guardiamo per capire cosa intenda con “la ragazza”, conveniamo si stesse riferendo a me. In effetti non si è dato la pena di salutarmi poco prima, sul ciglio della porta. D’altro canto nemmeno io ci ho pensato troppo. Tutto ciò non può che presagire l’inizio di una terribile collaborazione. Andrew mi precede nella risposta, probabilmente temeva uscissi con qualche frase tagliente.

-Jennifer Ricci: assistente sociale. Lavoriamo insieme a questo caso.

L’avvocato alza la testa e mi indirizza nuovamente uno sguardo di sufficienza.

-C’è veramente bisogno di due persone, per questo caso?

Faccio un respiro profondo e cerco di tenere la bocca chiusa, se l’aprissi probabilmente non sarei in grado di risparmiarmi qualcosa di offensivo.

-Questo è il modo in cui lavoriamo nel mio ufficio.

Risponde rapidamente Andrew, con diplomazia. Questa volta evita di rimproverarmi, evidentemente la domanda dell’avvocato deve aver infastidito anche lui.

-Contenti voi… Dunque, prima di chiedervi il parere riguardo al caso Goldman, vorrei leggere il referto medico di Margareth Goldman Jones.

Andrew annuisce. Conosciamo entrambi a memoria quel referto, ce l’hanno letto diverse volte nel corso degli ultimi mesi. Andrew si mette comodo, gomiti poggiati sul tavolo e mento tra il palmo delle mani. Sta osservando l’avvocato, per questo non riesco a scorgere la sua espressione. Io, al contrario, preferisco non ascoltare per l’ennesima volta quel documento e la mia attenzione è rivolta all’ambiente circostante. Si tratta di un altro “antro” buio. Non c’è nessuna finestra, solo una bocchetta per l’aria posizionata in alto, tra la parte finale del muro e il soffitto. L’illuminazione dell’ambiente è piuttosto scarsa, benché sul soffitto siano installati dei faretti, presumo al led, a giudicare dal colore azzurrognolo della luce che emanano. La porta è chiusa e la finestra più vicina è al di là del corridoio, ragion per cui non riesco a capire se stia ancora piovendo o se invece quel temporale che ci tormenta da due giorni abbia deciso di lasciar posto al sole. A giudicare dal mio umore il temporale deve essere ben lontano dalla fine.

Osservo l’avvocato, che ancora sta leggendo il documento. Di tanto in tanto alza gli occhi dal foglio e osserva Andrew che si limita ad asserire col capo. Posso tranquillamente affermare di non aver ascoltato una parola di quanto ha detto quell’uomo. Lo vedo leggere, sogghignare e scrutare Andrew ma il mio cervello non mi da’ l’attenzione necessaria  per ascoltarlo.

-Vede avvocato, quel referto risale a due settimane prima della dimissione della signora Jones. I medici sono stati concordi  a dire che, una volta rilasciato il paziente, sono pressoché sicure le sue condizioni.

Riesco a captare il discorso di Andrew e capisco di dover tornare a seguire quanto sta accadendo.

-Vi è anche stato detto che potrebbero verificarsi altri episodi di alterazione.

Ribatte l’avvocato.

-Questo non è possibile prevederlo.

Intervengo io, intromettendomi nel discorso. L’avvocato sogghigna.

-Vedo che ha anche una voce, signorina. Ho quasi pensato fosse un ornamento, dal momento che non in solo istante ha prestato attenzione a ciò che ho appena letto. Mi sbaglio?

Abbasso lo sguardo. Non posso contraddirlo ma al tempo stesso una grande rabbia mi monta in corpo, facendomi desiderare di alzarmi e di tornare nel mio ufficio.

-Conosciamo bene il documento, avvocato. In ogni caso gradirei continuassimo a parlare del nostro lavoro, la signorina Ricci le ha appena risposto.

Andrew interviene in mio aiuto. Lo fa sempre quando mi vede in difficoltà, credo che abbia imparato a conoscere i segnali d’ira sul mio viso.

-Ma certo, signorina, nessuno è in grado di prevederlo. Proprio per questo motivo l’idea migliore sarebbe quella di affidare il ragazzo ad una istituzione neutrale, che sappia prendersi cura di lui in modo adeguato.

Quel “signorina” pronunciato in tono di disprezzo per un attimo mi fa uscire di senno. Ad ogni modo cerco di respingere i miei personali risentimenti e rispondo.

-Tyler ha solo nove anni. È un bambino, non un ragazzo. Inoltre, quale istituzione potrebbe crescerlo meglio di quanto farebbe una madre, sua madre?

L’avvocato scoppia in un risatina isterica. Questa sua reazione infastidisce anche Andrew, lo capisco dai suoi gesti: inizia a sfregarsi nervosamente le mani e spinge, in modo piuttosto seccato, gli occhiali sulla gobba del naso, nel frattempo scivolatigli verso la punta.

-Questo è esattamente il motivo per cui le donne non dovrebbero occupare certe posizioni lavorative. Le consiglio, signor Greene, di rivedere le mansioni delle sue collaboratrici.

Andrew sbatte un pugno sul tavolo. Non credo di averlo mai visto così irritato.

-Se la sua intenzione, avvocato Becks, è quella di offendere il mio organico e di scaldare inutilmente gli animi la invito a ripresentarsi solo quando sarà veramente intenzionato a trattare di lavoro.

 L’avvocato annuisce.

-Non era affatto mia intenzione scaldare gli animi. Comunque, vi ho oltremodo esposto il mio parere. Non c’è bisogno di andare oltre. Il prossimo nostro incontro è fissato tra due settimane, con il giudice.

Rapidamente raccoglie i documenti posati sul tavolo e li ripone nella valigetta che poi chiude. Senza rivolgerci ulteriori sguardi si alza, passa accanto ad Andrew bofonchiando un sommesso “Arrivederci” ed esce dalla stanza dimenticandosi, oppure non importandosi, di chiudere la porta.

-Vedo che la misoginia è ancora di moda, eh?

Commento, cercando di essere sarcastica. Andrew non risponde. Sta ancora fissando la sedia che fino a pochi istanti prima era occupata dall’avvocato.

-Non credo andrà a finire bene questa faccenda. Lo capisci, Jennifer?

Afferma poi, senza però guardarmi.

-Sì, di sicuro questa persona ci darà filo da torcere ma ancora non sappiamo chi sarà il giudice. Forse saremo fortunati e potremmo lavorare di nuovo con il giudice May!

Il giudice May, Monica May, è una signora di circa cinquant’anni, molto intelligente e pragmatica con la quale lo studio di Andrew ha avuto modo di lavorare più volte. Una persona molto riflessiva che ci tiene ad ascoltare ogni singolo parere prima di prendere una decisione. Più volte siamo riusciti a ottenere il nostro intento in situazioni critiche, grazie al suo aiuto.

-Abbiamo lavorato con lei nell’ultimo caso Jennifer, non ci faranno la grazia di affidarcela di nuovo.

Commenta Andrew, questa volta rivolgendomi uno sguardo che deduco preoccupato.

-Ce la faremo anche questa volta Andrew, vedrai.

Accarezzo la mano di Andrew che immediatamente afferra la mia, stringendola.

-Sai che ora dovrai dire del nostro incontro alla Jones, non è vero?

Annuisco. Il primo pensiero balenatomi in testa, vedendo l’avvocato uscire dalla stanza, l’avevo rivolto a Margareth con la quale avevo parlato solo qualche ora prima. Dopo averle detto di non perdere la speranza e di avere fiducia mi sento malissimo al sol pensiero di doverla portare di nuovo nello sconforto.

-Le ho già parlato qualche ora fa. Le ho telefonato per avvisarla dell’arrivo del procuratore. Rimanderò a domani la telefonata.

Andrew mi lascia la mano e si alza.

-Credo sia il caso di tornare in ufficio. Puoi tornare a casa se vuoi, Jen.

Mi sporgo verso il ciglio della porta per cercare di scorgere l’orologio nell’atrio delle segretarie e noto che è da poco passato mezzogiorno.

-Così presto?

Chiedo, sorpresa dalla sua affermazione. Andrew mi sorride, un sorriso quasi malinconico.

-Si, non credo che riusciremmo a fare molto altro oggi. Io finirò di compilare le mie scartoffie e poi andrò a casa. Ellie e Adam hanno l’incontro con il giudice alle due, quindi l’ufficio sarà vuoto. Non voglio impegnarti la giornata inutilmente.

Senza pensarci troppo accetto, forse a casa riuscirò a trovare qualcosa di più interessante da fare. Decido di salire nell’ufficio per salutare Ellie e comunicarle che non ci sarò per l’ora di pranzo.

-Cosa? No! È tantissimo che non pranziamo insieme!

Si lamenta, in modo bambinesco.

-Abbiamo pranzato insieme la settimana scorsa, Ellie.

Commento io, sorridendo.

-Beh vorrà dire che una di queste sere verrò da te e mi cucinerai qualcosa di speciale!

Scoppio a ridere. A volte ripiango il giorno in cui invitai per la prima volta Ellie a cenare a casa mia. Ci eravamo appena conosciute e ancora non aveva iniziato a frequentare Adam, così aveva un sacco di tempo libero che non sapeva esattamente come impegnare. Non faceva altro che telefonarmi e chiedermi di uscire con lei in bar, pub, discoteche; insomma di fare vita mondana. Mi piace uscire e non disdegno una serata in un locale, appena posso, tuttavia dopo una settimana di follia, con conseguenti analgesici le mattine successive, per far fronte alle peggiori sbornie della mia vita, avevo deciso di fare una tregua e avevo proposto una serata tranquilla, in casa. Ellie dopo aver storto il naso aveva accettato e si rivelò essere, credo, la miglior serata mai passata con lei. Fu proprio in quella sera che mi resi conto di aver trovato l’amica del liceo che non avevo mai avuto occasione di conoscere. Non so per quale motivo Ellie continui a ritenermi una cuoca favolosa. Potrebbe essere dovuto al fatto che lei ai fornelli sia una frana e che buona parte dei suoi pasti siano quei terribili vassoi pre-cotti da infilare nel microonde. Si era letteralmente commossa davanti alla mia semplicissima pasta con il ragù di carne, per non parlare dell’arrosticino con le patate al forno! A me non era costata più di un paio d’ore la preparazione, mentre a lei era parso chissà quale pasto faraonico. Il risultato è che sempre più spesso mi chieda di invitarla a cena, tante volte a spese del povero Adam, abbandonato e ritenuto meno interessante di un cibo cotto adeguatamente.

-D’accordo ma portati dietro anche Adam. Mi spiace che se ne rimanga solo.

Ellie scuote il capo.

-No no cara! Adam verrà solo quando ci sarà un altro uomo in casa tua. Quindi se ti dispiace tanto per lui sbrigati a trovarne uno!

Non si smentisce mai, Ellie. Decido di non darle ulteriormente corda e mi dirigo verso il mio ufficio per  prendere le mie cose.

-Buona giornata Ellie! In bocca al lupo per l’incontro con il giudice.

-- Secondo capitolo. Ho deciso di pubblicarli quasi ogni giorno, finché riesco. Spero anche prima o poi di trovare una recensione, un commento o una critica. Ci terrei ad avere un parere esterno. Alla prossima :) --

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


Capitolo 3

Saluto Katherine e Carol, le due segretarie, poi mi dirigo di corsa verso la mia auto che fortunatamente è parcheggiata a pochi passi dall’ufficio. Il nostro ufficio è situato in un vecchio stabile in centro, occupiamo il piano terra. Accanto a noi ci sono dentisti, assicuratori e chiropratici. Non è raro incontrarsi con gli altri professionisti e più di una volta Ellie mi ha suggerito di trovarmi un “marito dentista”. Ogni qual volta mi capiti di incontrare all’ingresso del palazzo il malcapitato che Ellie aveva designato come uomo perfetto per me, a stento trattengo le risate. Credo che prima o poi se ne accorgerà  e fraintenderà la mia reazione.

Corro velocemente verso l’auto, cercando di bagnarmi il meno possibile. Benché piovesse già da questa mattina non voluto portare con me l’ombrello. La verità è che detesto gli ombrelli più o meno allo stesso modo in cui detesto la pioggia. Il sol pensiero di dover passare con quell’affare tra le mani sui marciapiedi, cercando di evitare di colpire le altre persone e di non farmi colpire a mia volta, mi provoca una grande sensazione di fastidio. Una volta raggiunta la macchina sospiro e mi osservo nello specchietto retrovisore, regolato male. Il che può significare solo una cosa: Adam mi ha spostato l’auto. Sorrido e infatti scorgo un post-it sul cruscotto.

“Come al solito hai parcheggiato in mezzo alla strada! Se rivuoi le chiavi fammelo sapere. Adam”

Adam è stata la prima persona che abbia conosciuto in ufficio. Ha all’incirca dieci anni in più di me, forse qualcuno in più. Lavorava per Andrew già da tre anni, quando sono arrivata. Mi aiuta a parcheggiare l’auto da allora. Devo ammettere di avere certe difficoltà nei parcheggi, nonostante abbia la patente da quasi dieci anni. Il mio secondo giorno di lavoro Adam mi vide parcheggiare, in qualche modo, in un viottolo dietro al nostro ufficio. Dopo aver osservato la mia faccia sconvolta e affaticata, mi chiese se avessi bisogno di aiuto e con non poco imbarazzo gli risposi:

-Credo che non imparerò mai a parcheggiare l’auto!

Lui, senza farsi problemi, senza nemmeno prendermi in giro (e sicuramente non è difficile fare sarcasmo su questa mia incapacità) mi chiese:

-Hai un mazzo di scorta? Potresti lasciarmele, te la parcheggio io la macchina.

Non me lo feci ripetere due volte e anche oggi, dopo quattro anni, capita molto spesso di trovare gli specchietti regolati diversamente da come li ho lasciati. Senza contare il sedile, posizionato piuttosto lontano dal volante. All’inizio Adam mi avvisava di ogni spostamento poi, col passare del tempo, la cosa ha iniziato a diventare un abitudine. Non posso negare che mi faccia piacere questa sua gentilezza, anche adesso che è legato ad Ellie. C’è stato un periodo tra secondo e il terzo anno alla Greene Social, il nome del mio ufficio, in cui tra me ed Adam nacque una certa complicità. Pensai veramente di andare oltre e credetti che, forse, l’uomo giusto per me fosse soltanto una porta più in là. Adam, dal canto suo, era sempre gentile nei miei confronti e più di una volta aveva manifestato interesse verso di me. Sfortunatamente quando mi decisi a fare un tentativo arrivò Ellie e in men che non si dica quella magia che si era creata tra me e Adam svanì. Sarà sempre una delle mie caratteristiche, quella di sbagliare i tempi. In effetti io arrivo sempre in ritardo, negli appuntamenti così come nelle occasioni della vita. Non ho mai detto ad Ellie di quel mio sentimento passato per Adam. Questo non perché tema che si arrabbi con me, tutt’al più se ne dispiacerebbe. Solo l’ho ritenuta una di quelle cose che preferisco serbare per me, da catalogare con quell’insieme di “false partenze” che ho collezionato nei miei  relativamente pochi anni di vita.

Decido che è arrivato il momento di partire, sistemo specchietti, il sedile e aziono il tergicristalli. Cerco di osservare il cielo, nella speranza di trovare un piccolo angolo azzurro o, ancora meglio, uno scorcio di arcobaleno. Eppure nulla… sempre grigio, cielo inequivocabilmente cupo e pioggia.

Casa mia non dista molto dall’ufficio, ci metto all’incirca quindici minuti, in auto. Parcheggio nel vialetto e corro velocemente in casa. Ovviamente la pioggia è così insistente da inzupparmi, benché tra il vialetto e la casa ci siano poco più di 30 metri.

La mia è la classica abitazione simil-vittoriana, che spesso si vede nelle cittadine della California. Si tratta di una casa di famiglia, ereditata da mia nonna Angela. Ho vissuto con lei in questa casa negli ultimi dieci anni poiché i miei genitori, due ricercatori, sono sempre stati in giro per il mondo e non hanno mai avuto troppo tempo o cura per me. Sono stati dati per dispersi solo tre anni fa, benché io non avessi avuto più loro notizie da almeno cinque anni. Nonna Angela invece è venuta a mancare lo scorso anno. Era piuttosto anziana e, stando ai suoi racconti, deve aver vissuto la sua vita appieno.

Entro in casa gocciolando su tutto il pavimento e subito mi guardo allo specchio, posizionato all’ingresso. Non credo di essere chissà quale bellezza ma ho una vera e propria ossessione per gli specchi o qualsiasi superficie riflettente. Inizio ad osservarmi. I miei capelli sono bagnati, il mio trucco non ha retto alla pioggia e il mascara si è sciolto. Anche la mia autostima risente della meteoropatia: mi guardo e, tornando a pensare al discorso di poco prima, sono sempre più convinta a non biasimare la scelta di Adam. Ellie è alta, di sicuro si avvicina molto al metro e ottanta, mentre io a fatica raggiungo il metro e sessanta. Certo, porto spesso i tacchi alti ma chi voglio ingannare? Ellie ha dei bellissimi occhi azzurri, occhi da gatta. I miei sono grandi e hanno un colore indefinito. Nocciola, suppongo. Non ho mai capito se siano verdi o marroni e, osservandoli attentamente, hanno qualche sfumatura giallastra. Per non parlare dei capelli! Allie li ha così lunghi, folti, color del cioccolato fondente. I miei sono biondi, sottili e di poco superano le spalle. Chi sceglierebbe una  ragazza con il viso da bambina, al posto di una splendida top model?

Mi sfilo le scarpe, il mio adorato tacco dodici, lanciandole contro la porta. Penserò dopo a sistemarle nella scarpiera. Mi appresto ad andare a farmi un bagno, uno di quelli belli caldi che mi fanno desiderare di non uscire mai dalla vasca quando sento dei rumori provenire dalla porta d’ingresso. Posso già immaginare di cosa si tratti.

-Hiram!

Esclamo, aprendo la porta al mio gatto. Il gatto di mia nonna, in realtà. Stando alla veterinaria ha circa sei anni e ce lo siamo trovate in casa un pomeriggio d’inverno, di tre anni fa.

“Ci ha scelte, ha deciso di restare con noi.”

Aveva subito pensato mia nonna. Non aveva un collarino e non era stato quindi possibile risalire al proprietario, né scoprire quale fosse stato il suo vero nome. Da un giorno all’altro mia nonna aveva iniziato a chiamarlo Hiram e lui a risponderle.

-Micino, sei tutto bagnato!

Lo prendo in braccio e mi dirigo verso il bagno per cercare un asciugamano con il quale asciugarlo. Immediatamente lo avvolgo in una salvietta e inizio a tamponare il pelo. Il suo pelo lungo e folto trattiene molta acqua, mi ci vorrà un po’ per asciugarlo. Utilizzerei il phon ma mi costerebbe qualche fastidioso e doloroso graffio, detestando lui l'aria calda. Per un momento mi dimentico di essere zuppa a mia volta e mi dedico completamente al gatto. Quando me ne rendo conto, proprio nel momento in cui i vestiti iniziano ad asciugarmisi addosso ed interviene una fastidiosa sensazione di freddo, decido di non farci caso. Hiram è l’unica compagnia che abbia in questa casa e non voglio assolutamente che si ammali. Hiram, secondo la veterinaria, sarebbe stato un ottima compagnia per mia nonna, quando io ero fuori casa. Ora che lei non c'è più mi aiuta a sentirmi meno sola, in una casa tanto grande e piena di stanze vuote. Ad opera quasi ultimata il gatto comincia a dimenarsi, segnale che non resisterà oltre. Lo libero dalla salvietta e lui subito fa un balzo verso il pavimento. Dopodiché, elegantemente, esce dal bagno. Invidierò sempre l’elegante e sinuoso movimento dei gatti.

Finalmente posso liberarmi dei vestiti umidi, che getto subito nel cesto della biancheria e mi infilo nella vasca. L’acqua è calda, bollente, tanto da riempire di vapore l’intera stanza e appannare il vetro dello specchio sopra il lavandino. Mi lascio lentamente scivolare lungo il bordo della vasca e chiudo gli occhi. La mia mente inizia a vagare e mi riporta a qualche anno prima, quando il gatto Hiram entrò nella vita mia e di mia nonna.

-Sai nonna, ho sempre desiderato un gatto.

Esclamai, osservando quel mucchietto d’ossa che in quel preciso momento si stava ingozzando di croccantini. Era molto magro e affamato, doveva essere a digiuno da parecchio tempo.

-Lo so Jenny, non facevi che ripetermelo da bambina. Era tua madre non voleva che l’avessi.

Rispose mia nonna. Me la rivedo ancora adesso: seduta sulla sedia di vimini nel salottino della veranda, con i suoi capelli bianchi come la neve raccolti in cima al capo e i suoi vestiti a fiori. Sorrideva sempre quando mi guardava.

-Già… diceva che avrebbero voluto portarmi con loro in giro per il mondo e che un gatto sarebbe stato sconveniente. Mi avessero almeno portata a fare una vacanza, San Diego o a Santa Monica. Non chiedevo molto…

Mia nonna soffriva nel vedermi triste e parlare dei miei genitori mi ha creato sempre una grande tristezza, per questo motivo cercava di distrarmi e di cambiare discorso, il più delle volte in maniera alquanto palese. Nonna Angela era mia nonna materna e benché non avesse mai apprezzato il modo in cui mia madre si comportava con me, preferiva non dirlo apertamente né aveva mai esplicitamente criticato le sue scelte.

-Oh guarda! Ha alzato la testa, ti sta guardando!

Esclamò, indirizzando di nuovo l’attenzione sul gatto.

-Come pensi si chiami?

Chiesi, avvicinandomi di più. Avevo timore a toccarlo, i primi momenti. Temevo che avesse paura e che mi graffiasse, al contrario, non aspettava altro che qualcuno lo carezzasse.

-Non avremmo mai modo di saperlo, Jenny. Possiamo però provare ad indovinare, che ne dici?

Annuii, iniziando ad osservare  il gatto per capire quale nome potesse avere.

-È un gatto bianco… Neve?

Il gatto sembrava non rispondere. Non che dovesse o potesse farlo ma ero convinta che in qualche modo sarebbe riuscito a farcelo capire.

-Uhm… no, va bene. Cotone? Nuvola?

Ancora nulla. Iniziai a credere che quel gatto non avrebbe mai risposto a nessun nome, finché fu mia nonna a parlare.

-Hiram!

Il gatto immediatamente inclinò il capo e si avvicinò a mia nonna, strusciandosi contro le sue gambe. Rimasi quasi sorpresa dalla sua reazione.

-Credi che sia veramente questo il nome, nonna?

Mia nonna mi sorrise di nuovo, dopodiché fece cenno al gatto di salire sulle sue gambe, chiamandolo ancora una volta con quel nome particolare. Questi le saltò sulle gambe immediatamente e si mise seduto, ricevendo di buon grado le coccole di mia nonna.

-Ne dubito. Potrebbe assomigliare al suo vero nome oppure ricordagli la sonorità.

Iniziai subito a pensare a qualche nome il cui suono potesse almeno assomigliare ad “Hiram” ma non mi venne in mente nulla.

-Nome interessante nonna. Da dove ti è uscito?

Chiesi poi, molto curiosa. Mia nonna, che stava ancora accarezzando il gatto, ci mise un istante per rispondere e per la prima volta dopo tanti anni, perlomeno dopo la morte del nonno, le vidi un’espressione malinconica sul viso.

-Conoscevo una persona con questo nome. Tanti anni fa…

La mia mente romantica mi spinse subito a pensare a qualche vecchio amore adolescenziale e non mi feci alcun problema a farle delle domande a riguardo.

-Era un tuo fidanzato? Magari del periodo della Seconda Guerra Mondiale! Eri ancora in Italia? Il nome mi sembra ebraico o sbaglio?

Mia nonna scosse il capo.

-Non era il mio fidanzato. Comunque fai un po’ troppe domande, non ti pare?

 

Sobbalzo. Mi stavo quasi addormentando nella vasca da bagno. Mi succede spesso quando mi rilasso, quando libero ogni muscolo del mio corpo e mi concedo il lusso di non fare nulla, assolutamente nulla. Dopo qualche istante, giusto il tempo necessario per riprendere coscienza e capire effettivamente dove e chi sia, esco dalla vasca e mi avvolgo nell’accappatoio. Benché piova non fa freddo, siamo solo a settembre dopotutto! Senza contare che per fortuna il clima in California è sempre gradevole.

Non sapendo cosa indossare e non avendo la minima voglia di scegliere dei vestiti, ancora con l’accappatoio indosso, mi getto sul letto. Anche Hiram si trova nella mia stanza, è acciambellato ai piedi del letto e sta dormendo. Mi allungo verso in comodino alla mia sinistra e afferro il telecomando. Credo di aver guardato il telegiornale l’ultima volta che ho acceso questa televisione, poiché il canale che mi ritrovo davanti è quello d’informazione ventiquattrore su ventiquattro. Stanno trasmettendo il meteo e decido di fermarmi ad ascoltare, prima di cambiare canale. L’annunciatrice del meteo, che mi ricorda in modo spaventoso Ellie, inizia a parlare della California del nord, la zona in cui mi trovo. Si riferisce a questa ondata di maltempo come qualcosa di eccessivamente sorprendente e improvviso. Annuncia poi, a mio gran dispiacere, che questa perturbazione non lascerà la costa per almeno altri tre giorni. Dopo aver sentito ciò decido che è ora di girare canale. Nel frattempo Hiram si è mosso e si è accoccolato in quella piccola porzione di spazio tra il mio gomito e il mio fianco sinistro.

Mi addormento, senza rendermene conto e mi sveglio solo grazie al suono del mio cellulare. Balzo rapidamente in piedi, dimenticandomi del gatto sdraiato accanto a me, che finisce immediatamente in fondo al letto. Il cellulare si trova ancora al piano di sotto, nella mia borsa. Scendo le scale reggendomi alla ringhiera, poiché essendo ancora a piedi nudi rischio di scivolare sui gradini di legno. Afferro il cellulare e, senza nemmeno guardare il display, rispondo.

-Pronto?

Esclamo, quasi timorosa di chi possa essere il mio interlocutore.

-Jennifer! Sarà già la quarta telefonata che ti faccio.

È Andrew e, dal tono di voce, sembra indispettito.

-Andrew scusami! Devo essermi addormentata. Avevi bisogno di qualcosa?

Andrew esita prima di parlare.

-Veramente si. Ascolta, so di averti mandata a casa e credimi non avrei voluto disturbarti ma…

Capisco di dover tornare in ufficio e il tono di Andrew sembra preoccupato.

-Non importa. È successo qualcosa di grave?

Chiedo.

-Si ma preferirei parlartene a quattr’occhi. Tra quanto tempo riusciresti a venire in ufficio?

Guardo l’orologio a pendolo del salotto, segna le 16.30. Mi sorprendo di essermi addormentata così a lungo, dimenticandomi persino di mangiare.

-Per le cinque è troppo tardi?

-No, va benissimo. Ti aspetto.

Riattacca. Appoggio il telefono sulla credenza del salotto accanto alla borsa e salgo immediatamente in camera, pronta a vestirmi e correre in ufficio il prima possibile. Andrew non mi ha detto nulla, non mi ha lasciato capire per quale motivo è intenzionato a vedermi immediatamente. So solo che si tratta di qualcosa di importante o peggio, di grave. Dò un ultimo sguardo al gatto sul letto, che nel frattempo si è addormentato di nuovo e poi mi catapulto nella mia piccola ma stracolma cabina armadio per prendere il primo abito decente che mi salti all’occhio. Senza nemmeno truccarmi, con i capelli ancora umidi, esco di casa, cercando di essere più veloce possibile.

 

 

 --- Ecco anche la terza parte. Ringrazio intanto opale nero per la recensione. A partire da questo capitolo le cose iniziano a movimentarsi. Non mi dilungo oltre, a presto :) ---

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


Capitolo 4

Non ho tempo per parcheggiare l’auto adeguatamente e allo stesso tempo non ho intenzione di disturbare Adam che, oltretutto, dovrebbe essere in tribunale a quest’ora. Per questo motivo parcheggio dove capita senza preoccuparmi o cimentarmi in manovre complesse, sperando vivamente di non ricavarne una multa.

Immediatamente corro in ufficio e trovo Andrew all’ingresso, che parla con le segretarie.

-Andrew, ho fatto più presto possibile. Cosa è successo?

Il suo viso è sconvolto e non porta gli occhiali. Caroline mi fa un breve cenno di saluto con la mano, anche la sua espressione non è gioiosa. Non riesco veramente ad immaginare cosa possa essere successo di tanto terribile. Il mio primo pensiero mi porta ad Ellie ed Adam. Spero vivamente non sia successo nulla a nessuno dei due.

-Vieni nel mio ufficio, ne parliamo là.

Seguo Andrew che a passo veloce mi conduce nel suo ufficio, aspetta che entri e che mi sieda e poi chiude la porta. Non dice una parola finché non è seduto anche lui a sua volta, alla sua scrivania.

-Si tratta del procuratore, quello che abbiamo conosciuto qualche ora fa.

Annuisco per dargli segno di proseguire con il discorso.

-È stato trovato morto nella sua auto.

Spalanco gli occhi. Non riesco a credere a ciò che mi è stato appena detto.

-Morto?

Richiedo, giusto per essere sicura. Mi aggrappo alla seduta della sedia per assicurarmi di essere realmente in ufficio e non ancora immersa nella vasca da bagno, esanime.

-Mi ha telefonato all’incirca alle quattro un agente di polizia. A quanto pare l’ora del decesso è stimata tra le 13 e le 15.30, non lo sanno ancora con precisione. Sfortunatamente sono stato io l’ultima persona ad averlo visto.

Risponde Andrew senza guardarmi negli occhi, giocherellando nervosamente con la bacchetta degli occhiali.

-C’ero anche io con te!

Esclamo. Lui per un istante alza gli occhi e mi rivolge un debole sorriso.

-Sulla sua agenda c’era scritto il mio nome. Nessuno sapeva che ci saresti stata anche tu, Jen.

Scuoto il capo. Sebbene non sia successo nulla non ho intenzione di lasciare Andrew da solo in questa situazione.

-Testimonierò per te come farà anche Katherine; anche lei l’ha visto uscire dal nostro ufficio!

Senza accorgermi alzo la voce e Andrew subito mi fa cenno con la mano di abbassare i toni, di non urlare. Per qualche istante regna il silenzio nella stanza. Si sentono solamente le bacchette degli occhiali di Andrew aprirsi e chiudersi. Mi permetto di osservarlo, sempre in silenzio, per un poco. Questa faccenda deve averlo colpito eccessivamente perché il suo viso sembra devastato e triste.

-Sai Jen, so bene di non dover temere l’incontro del poliziotto. Benché sia uscito proprio alle 13 da questo ufficio, come ha testimoniato il portiere del palazzo, non ho fatto nulla. Sono andato dritto a casa e sai cos’ho fatto?

So bene che si tratta di una di quelle domande che avranno comunque una risposta, così non parlo e mi limito a rivolgergli uno sguardo incuriosito.

-Ho firmato i documenti del mio divorzio e, non appena ho finito, è squillato il telefono dal quale ho ricevuto questa bella notizia. Non è stato proprio il mio anno, sai?

Le parole cariche di dolore di Andrew mi rattristano. Vorrei tanto fare qualcosa per aiutarlo per stargli vicino, in qualche modo.

-Andrew io.. non so veramente cosa dire.

Annuisce e si infila gli occhiali, quasi voglia concentrarsi su qualcosa.

-Domani mattina verrai con me?

Chiede, con tono quasi supplichevole.

-Ma certo, che domande!

 

Fuori dall’ufficio non so se tornare a casa o meno. Non ho nulla da fare a casa, di sicuro finirei per addormentarmi o al peggio a riflettere su quanto è appena accaduto. Se mi avessero detto questa mattina che l’indomani avrei discusso con un poliziotto circa un caso di omicidio di certo sarei scoppiata a ridere. Capita spesso che omicidi/suicidi richiedano la mia figura lavorativa ma mai un omicidio mi aveva toccata così da vicino. Non ho idea di che ore si siano fatte, presumo le sei. Prendo il cellulare dalla borsa e decido, senza pensarci troppo, di fare una telefonata a Ellie per invitarla a cena. Ovviamente lei accetta chiedendomi anche i particolari del suddetto omicidio, che molto probabilmente diverrà l’argomento principale della nostra cena.

Poiché nel mio frigorifero c’è poco o nulla, decido di fare una visita al centro commerciale più vicino per comprare qualcosa di buono da cucinare per la mia serata tranquilla con Ellie. Prendo il cestino con le ruote ed inizio a guardarmi attorno per avere una qualche ispirazione. So che Ellie adora le patate al forno, per cui mi dirigo immediatamente al reparto ortofrutta e lancio una retina di sei patate nel cestino, dopodiché ritengo opportuno dare un’occhiata alla carne. Tutto ciò che so cucinare mi è stato insegnato da mia nonna che, neanche a farlo apposta, incarnava il perfetto esempio della donna italiana di un volta: amante della famiglia e ottima cuoca. Era brava a cucinare l’arrosto e deve avermi trasmesso in qualche modo oltre alla ricetta anche la sua abilità. Mentre osservo minuziosamente un pezzo di carne incellofanato dopo l’altro, cercando di preferire quelli più magri e più sostanziosi, un brivido mi percorre la schiena. Un brivido freddo, gelido, che mi colpisce fino alle ossa e che mi fa sussultare. Istintivamente mi giro, credendo forse che qualcuno abbia aperto i frigoriferi a muro che contengono i surgelati. Tuttavia dietro di me non c’è nessuno e i frigoriferi sono troppo lontani, se anche qualcuno li aprisse non mi darebbe alcun fastidio. Penso allora di essere rimasta troppo tempo davanti alle vaschette della carne. Infilo nel cestino il pezzo di che ho in mano in quel momento e mi allontano dal reparto. Mi trovo ora nella corsia delle bevande. Credo che una buona bottiglia di vino sia l’elemento essenziale in una cena casalinga. Dopo aver deciso di orientarmi sul vino rosso inizio a leggere le varie etichette e naturalmente i prezzi, decisamente alti. Proprio mentre cerco di allungarmi il più possibile per raggiungere una bottiglia di vino a soli tre dollari e quarantacinque, vengo colta dallo stesso brivido di poco prima, più intenso e più duraturo. Mi guardo nuovamente in giro per cercare di rilevare la causa di questa sorta di malessere ma continuo a non capire. Decidendo di dare la colpa al sistema di aria condizionata prendo così la prima bottiglia davanti a me e, senza tener conto del prezzo, la appoggio nel cestello per poi dirigermi immediatamente alle casse.

Fuori dal supermercato carico le borse della spesa in macchina che per poco,non finiscono sul pavimento di cemento poiché ancora un volta lo stesso brivido di poco prima mi scuote. Inizio a preoccuparmi ma questa volta imputo il problema ad un possibile raffreddore in arrivo. Dopotutto ho trascorso perlomeno mezz’ora con i vestiti bagnati, più preoccupata ad asciugare il gatto che me stessa e subito dopo mi sono addormentata con la pelle ancora umida e l’accappatoio bagnato addosso. Decido di prendere un’aspirina non appena arriverò a casa, con la speranza di bloccare sul tempo il possibile malanno nascente.

 

-Te lo devo proprio dire Jen: sei fantastica!

Esclama Ellie, divorando con voracità buona parte del suo piatto di arrosto. Io sorrido, quasi imbarazzata da quello che credo sia il suo decimo complimento della serata. Le verso un bicchiere di vino che lei, di certo, non rifiuta.

-Non abbiamo ancora parlato dell’omicidio!

Esordisce, con la bocca ancora piena. Se l’argomento da trattare non fosse così serio definirei la scena piuttosto comica.

-A dirti la verità, Ellie, non so granché. So solo che Andrew era a dir poco distrutto.

Ellie posa la forchetta e beve un piccolo sorso di vino, prima di parlare.

-Credono veramente che sia stato lui ad uccidere questo tizio?

Scuoto il capo.

-No. Non penso, almeno. Credo che per prassi debbano interrogare l’ultima o le ultime persone che abbiano avuto contatto con la vittima.

Sia io sia Ellie abbiamo finito di cenare, ragion per cui mi alzo per portare i piatti in cucina.

-E… come sarebbe morto questo tizio? Non potrebbe semplicemente trattarsi, che so, di un infarto?

Domanda Ellie, che si alza per darmi una mano. Ovviamente rifiuto e le faccio cenno di rimanere seduta.

-Non credo. Il poliziotto ha parlato di omicidio. Si sarà trattato di una pugnalata o un colpo di pistola o… non saprei.

Arrivata in cucina poso i piatti nel lavello, dove poco prima avevo già messo pentole e teglia per le patate. Metto il tappo al lavandino e do uno sguardo veloce alla finestra. Sono passate le nove e il cielo è buio. Il mio giardino non è dotato di grande illuminazione, tuttavia a giudicare dal rumore proveniente dalle grondaie e dalle gocce sul vetro, la pioggia non ha ancora intenzione di cessare.

 Cerco di non pensarci e mi metto a preparare la moka per il caffè, una cosa che apprezzano sempre i miei ospiti delle mie cene: il caffè. Personalmente non ne sono grande consumatrice ma mia nonna mi ha insegnato a prepararlo alla vecchia maniera e, a quanto pare, è ottimo. Svito la parte superiore della caffettiera e vi verso l’acqua quanto basta per far sì che l’imbuto, che poi andrò a posizionarvi sopra, rimanga asciutto. Dopodiché vado a prendere una delle mie miscele preferite e la metto proprio sopra l’imbuto bucherellato, facendo ben attenzione a non schiacciarla troppo con il cucchiaino. Mia nonna diceva sempre che maggiore è la delicatezza nel posizionare la polvere e migliore sarà il gusto del caffè. Alla fine posiziono la moka sul fornello più piccolo e aspetto che sia pronto. Ho sempre trovato piuttosto rilassante la procedura di preparazione del caffè. Benché, appunto, non ne sia avida consumatrice adoro quel profumo forte e carico.

Al fischio della caffettiera spengo il fuco e preparo le tazzine del caffè portandole poi in sala da Ellie, che ne frattempo ha quasi finito la bottiglia di vino.

-Deduco ti piacesse molto anche il vino, non è vero?

Ellie sorride, le sue guance hanno assunto un delizioso color rosso fuoco e i suoi occhi luccicano. Il vino deve aver già fatto il suo effetto.

-Sarò un po’ brilla Jen ma nulla mi toglie dalla testa che Andrew sia segretamente cotto di te!

Finisco d’un sorso il mio caffè, prima di risponderle.

-Ellie, ti ho già detto di no. Non insistere, su!

Ellie continua a non essere d’accordo e preferisce pensarla a suo modo.

-Dici di no adesso ma… vedrai! Ci scommetto tutto quello che vuoi, si avvicinerà a te prima o poi e forse ti renderai conto tu stessa che ho ragione!

Ellie torna a casa poco dopo le undici ed io rimango di nuovo sola. Per evitare di fare altri pensieri decido di andare subito a letto ma prima prendo nuovamente un’aspirina. Dovendo andare alla centrale di polizia con Andrew, l’indomani, vorrei essere in perfetta forma. Mentre sciacquo il bicchiere utilizzato per la pastiglia mi rendo conto di non aver visto Hiram in giro per casa per tutta la durata della cena. Immediatamente mi metto a cercarlo, lo chiamo più volte ed inizio a preoccuparmi. Fuori imperversa il temporale e il solo pensiero che possa trascorrere da solo la notte in mezzo alla tempesta mi mette in apprensione. Decido di infilarmi qualcosa addosso e, armata della luce del flash del mio cellulare, esco in cortile a cercarlo. Inizio a chiamarlo in tono sempre più disperato, finché non sento un miagolio alle mie spalle. Mi giro e lui è dietro di me, seduto che mi fissa. Istintivamente mi sporgo per prenderlo ma mi graffia. Una reazione strana da parte sua, poiché non mi ha mai graffiata senza un valido motivo. Subito dopo però mi si avvicina ed inizia a strusciarsi contro le mie gambe, lasciandovi una chiazza scura che sembra essere sangue. Temendo che sia ferito o che abbia avuto la peggio in qualche baruffa felina, lo afferro rapidamente e lo porto in casa. Senza tener conto delle buone norme dell’igiene lo appoggio sul bordo del lavello più vicino, che è quello della cucina, inizio poi a tamponare il pelo con acqua calda e carta assorbente. Mi accorgo che fortunatamente non ha alcuna ferita, il sangue non deve essere il suo. Quasi sollevata lo appoggio sul pavimento e lui immediatamente corre verso la sua cuccetta in salotto, ad asciugare il pelo bagnato.  Lavo via anche il sangue trasferito sulla mia gamba e, abbassando lo sguardo, noto la scia di impronte lasciate da Hiram.

-Di nuovo sangue!

Esclamo, osservando con più attenzione. Per un istante mi fermo a pensare come sia possibile che il mio gatto avesse addosso tutto quel sangue. Nella mia testa avanza l’ipotesi che possa trattarsi di una piccola preda, come un topo o un coniglio, massacrato brutalmente dal gatto. Non mi sembra però una spiegazione plausibile perché Hiram non è un gran cacciatore e di rado le sue passeggiate superano il giardino di casa. Inoltre se anche avesse ucciso un animale il suo muso e lo sterno sarebbero stati sporchi. La quantità più grande del sangue si trovava invece sulla schiena e sul fianco destro del gatto.

-Come se qualcuno con le mani sporche di sangue lo avesse accarezzato…

Sussulto e immediatamente una paura quasi del tutto irrazionale mi assale. Con ancora in mente l’omicidio dell’avvocato inizio a temere la presenza di un serial killer in città, arrivato magari nel mio quartiere e corro a chiudere tutte le porte e le finestre della casa con il cuore che mi batte all’impazzata. Do un ultimo sguardo al gatto che, ignaro di tutto, si è addormentato nella sua cuccia e mentre pulisco ogni singola traccia di sangue dal pavimento cerco di non farmi prendere del tutto dalla paura.

 

La mattina successiva impiego circa una decina di minuti ad aprire tutte le finestre chiuse con i chiavistelli. Con mio grande disappunto noto che sta ancora piovendo. Velocemente mi vesto e mi preparo per incontrare Andrew alla centrale di polizia.

Uscendo noto che l’abitazione difronte alla mia reca il cartello “Vendesi” nel vialetto. Cosa piuttosto curiosa perché non mi ricordo di averlo visto il giorno precedente. In quella casa abitava un signore che vi si è trasferito circa tre mesi fa, un certo Warren di Chicago. Non credo di aver mai parlato con lui, gli ho forse rivolto qualche cenno di saluto dall’altra parte della strada, le rare volte nelle quali l’ho visto uscire da casa sua. Ad ogni modo, per evitare di presentarmi in ritardo, salgo in macchina e mi dirigo verso la centrale che si trova a circa mezz’ora da casa mia. Quando arrivo Andrew è già là nel piazzale di fronte all’edificio con l’ombrello in mano.

-Sono in ritardo?

Chiedo correndo verso di lui che subito pone l’ombrello sopra il mio capo.

-No, anzi, siamo in anticipo. Non sono riuscito a dormire molto stanotte e mi sono presentato qui circa venti minuti fa.

Riesco a leggere chiaramente la tensione sul viso di Andrew. Si è fatto la barba, probabilmente poche ore prima, perché il suo viso è ancora leggermente arrossato, si  è anche vestito di tutto punto ma nulla è servito per mascherare il suo reale stato d’animo.

 

 

-Ha altro da dichiarare?

Chiede l’agente che fino a pochi minuti prima ha parlato con Andrew e con me, chiedendoci le cose più disparate.

-Nulla. Come ho già detto è stata la prima volta in cui abbiamo visto quell’uomo.

L’agente continua a prendere appunti e a scribacchiare sul suo quadernino. La sua espressione è indecifrabile, non un momento durante il colloquio si è mostrato convinto o insospettito riguardo alle nostre dichiarazioni. Di certo, però, non ha tralasciato neanche una parola.

-Dal momento in cui non ci sono prove nei vostri confronti, direi che siete liberi di andare. Ad ogni modo i sospetti su di voi, giusto perché lo sappiate, erano davvero minimi.

Conclude, alla fine, posando il blocco sulla scrivania.  Si alza e tende la mano verso Andrew, facendogli quindi cenno di alzarsi a sua volta e di andare. Andrew immediatamente balza in piedi e così faccio io, salutando allo stesso modo l’agente.

Percorriamo la rampa di scale che porta dall’ufficetto nel quale abbiamo trascorso quasi due ore all’ingresso dello stabile, senza dire una parola.

-Aspetta, dimenticavo l’ombrello!

Sobbalza Andrew, poco prima di abbandonare l’edificio. Io annuisco col capo e, nel frattempo, decido di iniziare ad uscire. Quel piccolo ufficio buio mi ha lasciato un terribile senso di oppressione. Per fortuna l’ingresso è previsto di tettoia e anche uscendo non dovrei bagnarmi. Una volta uscita dall'edificio, con mia grande sorpresa, noto che la pioggia è cessata.

-Jen, potevi aspettarmi dentro!

Esclama Andrew, quasi con il fiatone. Evidentemente deve aver fatto le scale di corsa.

-Non piove più!

Esclamo con un grande sorriso che pare spiazzare Andrew, dal momento che abbassa lo sguardo, quasi timoroso.

-Non mi sembra vero che abbia smesso finalmente di piovere!

Esclamo, correndo in maniera poco educata nel parcheggio. Distendo le braccia e quasi mi sento sollevata dal non sentire neanche una sola goccia di pioggia sulla pelle. Andrew mi raggiunge e rimane per qualche secondo ad osservarmi incuriosito.

-Il cielo è ancora piuttosto grigio, aspetterei a cantare: “vittoria”,  se fossi in te.

Io scuoto il capo.

-Sento che adesso tornerà il sole! Un bel sole caldo, come quelli che tutti conosciamo in California!

Mi sento un po’ bambina nelle mie reazioni e nella mia sproporzionata felicità. Credo che anche Andrew sia rimasto sorpreso dal mio comportamento ma gli sguardi che mi rivolge sembrano quasi teneri. Probabilmente chiunque avesse visto una ragazza della mia età saltellare e girare su se stessa in un parcheggio avrebbe, come minimo, storto il naso. Lui, al contrario, sembra servirsi della mia felicità.

--- Eccomi con il quarto capitolo. Ad essere sincera questa sarebbe stata l'ultima parte del primo capitolo ma ho deciso di dividerlo in più parti per "comodità". Ringrazio nuovamente Opale nero per il commento: sì, Jen è piccola ma tosta. Tutta la sua forza emergerà andando avanti con la storia :)

Alla prossima! ---

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


Capitolo 5

Mi alzo quasi con impazienza. Balzo dal letto con la stessa rapidità di un gatto e mi precipito ad aprire la finestra. Ecco che il sole, che tanto si è fatto desiderare, avvolgere il mio viso con tutto il suo calore. Rimango appoggiata al davanzale della finestra della mia stanza ad occhi chiusi, respirando la brezza mattutina e lasciando che il calore pervada tutto il mio corpo. Sebbene voglia rimanere ancora qualche minuto in muta contemplazione decido di darmi una mossa e inizio quindi a prepararmi per andare a lavoro. In una giornata come questa presentarmi in ufficio sarebbe di sicuro l’ultima cosa che vorrei fare, per quanto mi piaccia il mio lavoro. Oltretutto il giorno precedente Andrew era stato così gentile da lasciarmi di nuovo la giornata libera, non appena tornati dalla centrale di polizia. L’avevo visto più sollevato, quasi più sereno.

Scendo le scale con il sorriso sulle labbra, saltellando di gradino in gradino. Il gatto mi aspetta già davanti alla porta, invitandomi ad aprirgli per permettergli di fare la sua quotidiana passeggiata.

-Buongiorno Hiram!

Mi chino e lo accarezzo affettuosamente. Lui subito si stiracchia ed inizia a fare le fusa. Non ho trovato nessun altro segno sul suo corpicino dopo quella sera. Ancora mi chiedo cosa possa essere stato, tuttavia decido di smettere di preoccuparmi. Apro la porta e mi dirigo verso la cucina per prepararmi la colazione.

La cucina è la stanza più esposta al sole di tutta la casa, fa sempre un gran caldo e quando ci si siede al tavolo durante il giorno è necessario il più delle volte socchiudere gli occhi per via dei raggi che pervadono l'ambiente. Ho deciso di indossare un vestitino di lino bianco, con dei decori in pizzo. È tipicamente estivo e particolarmente adatto alla giornata attuale. Mi siedo al tavolo in cucina e strofino con la guancia la mia spalla calda e seminuda, in pura estasi. Non volendo far tardi bevo di corsa il mio latte di soia e poi vado subito a chiamare il gatto per farlo rientrare.

Non ho bisogno di chiamarlo questa mattina, perché è disteso lungo l’ultimo gradino dell’ingresso e si sta stiracchiando. Non appena mi vede mi raggiunge e in modo molto diligente rientra in casa, strusciandosi contro le mie gambe.

 

Dopo aver chiuso con attenzione porte e finestre di casa raccolgo la mia borsa, indosso un paio di occhiali da sole e mi preparo ad uscire. Lo sguardo mi porta ad osservare la casa di fronte. Il cartello “Vendesi” comparso il giorno precedente non c’è più. Al contrario la casa ora sembra essere abitata. Tutte le persiane sono aperte e, nonostante la distanza, i vetri sembrano splendentii; come appena lavati. Ad ogni modo non ho tempo di osservare la casa, la mia contemplazione nei al sole mi ha quasi fatto ritardare, per cui mi dirigo verso la macchina senza ulteriori indugi. Mi accorgo di aver lasciato le chiavi in fondo alla borsa e mentre frugo tra portafogli, cosmetici vari e fazzoletti vengo nuovamente interrotta da un brivido, dalla stessa intensità di quelli di un paio di giorni prima. Mi blocco per qualche istante, stringendomi nella spalle. Forse ho semplicemente esagerato con l’abbigliamento estivo. Torno a cercare le chiavi che mi capitano subito tra le dita e salgo in macchina.

Arrivata in ufficio vengo fermata da Katherine, una delle segretarie.

-Jennifer, il capo ha chiesto di mandarti subito nel suo ufficio.

Afferma, senza quasi guardarmi in viso. Non ho idea di cosa possa avere bisogno con urgenza Andrew, così senza farmi troppe domande o rimuginarci troppo mi dirigo verso il suo ufficio. Busso e lui è seduto ad aspettarmi.

-Eccoti! Ti ha già detto qualcosa Katherine?

Chiede. Scuoto il capo.

-Beh, entra. Non stare sulla porta, dai.

Annuisco ed entro nell’ufficio, socchiudendo la porta alle mie spalle. Mi siedo su una delle poltroncine davanti alla scrivania di Andrew e lui sospira. Non lo vedo come un buon segno.

-La faccio breve: sta già arrivando il nuovo avvocato.

Sorrido nervosamente. Non ci avevo ancora pensato ma era pressoché ovvio.

-Quando?

Mi limito a chiedere.

-Tra… una ventina di minuti circa.

Spalanco gli occhi. L’arrivo del nuovo avvocato mi coglie impreparata. Cerco di riformulare i pensieri, prima di parlare con Andrew. Non voglio essere sgarbata.

-Sappiamo già il nome?

Lui scuote il capo.

-Brancoliamo nel buio questa volta, Jen.

Abbasso lo sguardo ed inizio a mordermi nervosamente il labbro. Dovrei alzarmi e andare nel mio ufficetto ma la notizia che mi è stata appena data mi ha spiazzata. Rimango, nella speranza che dalla bocca di Andrew possa uscire qualche dato utile per non farmi trovare del tutto impreparata. Senza pensare che non ho più avuto occasione di chiamare Margareth, la madre del bambino sotto servizi sociali. Non l’ho nemmeno avvisata della precoce dipartita dell’avvocato appena assegnato.

-Forse il destino ci ha aiutati.

Esclamo, riscoprendo in me un’inaspettata ventata di ottimismo. Andrew aggrotta la fronte e mi guarda confuso, invitandomi di spiegarmi meglio.

-Non è molto bello da dire ma… forse la morte dell’avvocato Becks non sarà del tutto negativa.

Non riesco a capire se l’espressione sul viso di Andrew è disgustata o imbarazzata. Ad ogni modo non parla, costringendomi a continuare il discorso.

-Non mi fraintendere Andrew. Di certo non mi felicito della morte di una persona, mai e poi mai lo farei. Dico solo che magari il prossimo avvocato sarà più clemente con noi.

Osservo il  mio capo con occhi supplicanti, cercando quasi di sfruttare al meglio la naturale ingenuità del mio sguardo. Credo che mia tattica funzioni, perché sulle labbra di Andrew compare un evidente sorriso.

-Sei incredibile, Jen. Fino a ieri una notizia del genere ti avrebbe quasi portata alle lacrime. Oggi invece sorridi tanto che il tuo faccino minuto a stento riesce a contenerti.

Scoppio una risata alquanto rumorosa che pare divertire Andrew.

-Ti piace davvero tanto il sole, eh?

Annuisco.

-Confesso!

Mi batto una mano sul petto in segno di giuramento e anche Andrew scoppia a ridere.

 

Mancano giusto dieci minuti all’arrivo del nuovo avvocato. Per fare buona impressione decido di andare a prendere del caffè da Starbucks, che si trova a poco meno di cento metri dall’ufficio. Osservo per sicurezza l’orologio del mio cellulare, per essere certa di essere ancora in tempo. Uscita dall’ufficio, però, vengo colta nuovamente da un brivido.

Rimango bloccata cercando di calmarmi ed inizio a sfregarmi energicamente le braccia per riscaldarle. Non posso dire di avere freddo ma al tempo stesso la sensazione spiacevole provocata da quel genere di brividio è estremamente fastidiosa. Ricorda un misto tra una scossa elettrica e una secchiata di acqua gelida gettata sulla schiena.

-Un po’ di esposizione al sole è il rimedio migliore.

Afferma una voce, proveniente alla mia destra. Mi giro e riesco appena a scorgere una figura. Si tratta di un uomo in completo piuttosto elegante, grigio forse, che sparisce all’interno dell’edificio. Estraggo nuovamente il cellulare dalla mia borsa per controllare l’orario, con il sospetto che quella figura appartenga proprio al nuovo avvocato. C’è ancora del tempo. 

Sempre più convinta della mia visita a Starbucks attraverso la strada. Sono le 10.50, generalmente i tempi di attesa a quest’ora sono piuttosto brevi. Davanti all’entrata  esito. Inizio ad essere quasi sicura che l’uomo incrociato poco prima sia il nuovo avvocato. Certo, nel palazzo sono compresi altri uffici e altre strutture, tuttavia deve per forza trattarsi di lui.

“Ormai sono qui. Meglio presentarsi in ritardo con una buona scusa, che a mani vuote.” Penso, decisa ad entrare. Davanti a me alla cassa ci sono solo un paio di persone. Non appena arrivato il mio turno ordino, senza pensarci troppo, tre caffè semplici. Scatto poi in ufficio, riuscendo ad arrivare in perfetto orario.

-Andrew si trova già nella saletta con l’avvocato, fai presto.

Esclama Katherine non appena mi vede. Come immaginavo, l’avvocato era proprio la persona che mi è passata accanto pochi minuti prima. Arrivata alla saletta faccio un respiro profondo e busso alla porta che è già stata chiusa. Un “avanti” di Andrew mi permette di entrare. Ovviamente, quando ho comprato tre bicchieri giganti da Starbucks, non avevo fatto conto del mio essere maldestra, ragion per cui faccio notevole fatica ad aprire la porta.

-Eccomi, spero di essere in orario.

Annuncio, mentre ancora solo una parte del mio corpo è entrata ufficialmente nella stanza. Per non far cadere nulla apro la porta facendo pressione sulla maniglia con il gomito e spingendo con la spalla libera (nell’altra ho la mia borsa, piuttosto ingombrante) la porta. Vedendomi in difficoltà uno dei due uomini si alza, non riesco a capire immediatamente di chi si tratti ma poi, al primo sguardo, noto che non si tratta di Andrew.

Vengo colta da un altro di quei brividi, che quasi mi porta a far cadere i bicchieri di caffè. Prontamente l’uomo che etichetto come “l’avvocato” recupera i bicchieri, senza che una sola goccia finisca a terra.

-Grazie.

Esclamo, imbarazzata.

Dopodiché appoggio il tutto sul tavolo e mi siedo accanto ad Andrew, che non osservo per paura di incappare in uno dei suo sguardi di disapprovazione.

-Dunque avvocato, come le ho annunciato, questa è Jennifer Ricci: mia collaboratrice.

L’avvocato mi tende la mano e io alzo lo sguardo, facendo altrettanto.

-Hiram O’Dowell, piacere.

Gli stringo la mano e lo guardo. Non è assolutamente il tipo di viso che mi aspettavo di osservare, è quanto di più diverso abbia mai visto in un avvocato penalista. Rimango quasi paralizzata e ho il sospetto di aver stretto la mano troppo a lungo o di aver aperto eccessivamente la bocca, per lo stupore.

Abbasso nuovamente lo sguardo. Temo che Andrew si sia accorto della mia reazione inappropriata poiché si schiarisce la voce, come per imbarazzo.

-Presumo che lei si sia già informato sul caso, avvocato.

Prosegue. Io prendo coraggio e torno ad osservare l’uomo che mi sta seduto davanti che, per fortuna, non sembra accorgersi del mio scrutare. A primo impatto mi trovo costretta ad affermare di non aver mai visto in carne ed ossa un uomo di tale bellezza. Alto e di statura robusta, dall’incarnato chiaro ma luminoso, capelli castano scuro, quasi tendenti al nero,  lineamenti simmetrici.

Si accorge di me e mi rivolge di nuovo un’occhiata fugace e mi pietrifica, anzi, mi congela.

Occhi di ghiaccio quasi trasparenti, che mi provocano praticamente il medesimo effetto di quei brividi che tanto mi infastidiscono da due giorni a questa parte. A differenza di quelli, però, potrei osservare quegli occhi per tempo interminabile, rischiando quasi di arrivare a congelarmi, di certo non mi lamenterei.

 Terminato quello stadio terribile e alquanto infantile di paralisi, vengo colta da un flash. Ha detto di chiamarsi “Hiram”, come il mio gatto. Non avevo mai conosciuto una persona che si chiamasse come il mio gatto e penso che da questo momento in poi mi sembrerà strano chiamarlo per dargli da mangiare o per fargli qualche carezza.

-Hai da aggiungere qualcosa, Jennifer?

Mi chiede Andrew, cogliendomi totalmente impreparata. Non ho ascoltato una parola di ciò che ha detto. Mi sembra di colpo di essere tornata alle superiori quando il professore, accortosi del mio momento di distrazione, mi faceva una domanda sull’argomento del quale stava parlando, lasciandomi incapace di rispondere.

-No, niente.

Dico, cercando di essere diplomatica. Ovviamente il trucco non funzionerà con Andrew, ma spero che l’avvocato non gli dia troppo peso. Non vorrei mai che quel mio piccolo momento di leggerezza mandasse in frantumi tutto il lavoro che ho fatto finora sul caso.

In pieno nervosismo afferro uno dei tre bicchieroni di Starbucks e ne bevo un sorso, cercando di schiarirmi le idee.

-Posso prenderne uno?

Chiede gentilmente l’avvocato

Io annuisco. Non riesco a parlare perché sto ancora bevendo il mio caffè e il bicchiere mi copre metà viso.

-Li ho portati per voi.

Esclamo rapida, trangugiando sgraziatamente il caffè che, essendo ancora bollente, rischia di ustionarmi lo stomaco.

-Molto gentile.

Ringrazia l’avvocato, con un’eleganza a dir poco atipica. Anche Andrew forse per non sentirsi escluso, prende una tazza dalla quale beve un piccolo sorso e poi torna a parlare.

-Mi rendo conto che le sembrerà inappropriato avvocato ma prima di proseguire oltre voglio essere diretto con lei: favorevole o sfavorevole?

La franchezza di Andrew mi spiazza. Di solito è più diplomatico ed è di sua consuetudine girare attorno agli argomenti, senza arrivare mai a dire chiaramente ciò che vuole sapere.

-Se per favorevole intende dare la custodia esclusiva alla madre, direi favorevole.

La risposta coglie entrambi di sorpresa. In tutti quei mesi non una sola carica che avesse realmente peso ai fini dell’udienza si era rivelata concorde con il nostro operato. Andrew pare essere forse più incredulo di me, al punto di dover fare altre domande per ottenere un’ulteriore conferma.

-Quindi per lei la madre è mentalmente stabile per potersi occupare del figlio?

L’avvocato non esita un secondo a dare la sua risposta.

-Per quanto mi concerne: credo che non ci sia nessuno più adatto della madre, per occuparsi del ragazzo. Ritengo, leggendo i referti, che le sue condizioni siano più che buone e che certamente ottenere la custodia esclusiva non farà che migliorare la situazione.

-Bene, molto bene.

Andrew quasi balbetta. Io mi limito a sorridere in maniera decisamente ebete. Anche volendo dire qualcosa, non riuscirei. La persona davanti a me ha appena espresso il pensiero che io e il capo cerchiamo di portare avanti da mesi, l’idea di poter vedere finalmente la luce in fondo al tunnel mi lascia a senza parole.

-Naturalmente ho bisogno di un confronto con la madre, prima dell’udienza. Se per voi può andare bene farei domani, nel pomeriggio.

Andrew si limita ad annuire.

-Dovrei prima avvisare la signora Goldman.

Annuncio io,  risvegliandomi dalla catalessi.

-Naturalmente, Jen. Non ci saranno problemi avvocato.

Ribadisce Andrew, liquidandomi in modo indegno.

-Perfetto. Se le cose stanno così direi di congedarsi.

L’avvocato si alza e, come prima cosa, porge la mano ad Andrew come cenno di saluto. Io rimango seduta, senza accorgermi della mia maleducazione. Non appena dà cenno di voler salutare anche me mi alzo, probabilmente arrossendo.

Andrew accompagna l’avvocato fuori dall’ufficio, mentre io mi limito a stare seduta, origliando la discussione in disparte.

-Vogliate perdonare la mia fretta, purtroppo mi sono da poco trasferito in città e ho ancora delle faccende da sbrigare.

Afferma l’avvocato, la cui voce sembra essere sempre più lontana.

-Nessun problema, avvocato. Avremo modo domani per approfondire meglio il caso. Abita nelle vicinanze?

Decido di alzarmi, fingendo di sistemare la sedie, per non perdere una sola parola del dialogo.

-Si, a poco meno di una ventina di minuti da qui.

 

Dopo aver salutato l’avvocato Andrew torna da me.  Chiude la porta e poggia entrambi i palmi delle mani sul tavolo.

-Ti avrei uccisa Jen, lo sai?

Sospira.

-Non ero in ritardo, è stato lui ad arrivare in anticipo.

Cerco invano di difendermi ma mi rendo perfettamente conto di essere poco credibile, al punto che il mio tono di voce va’ pian piano sfumando.

-Gli ho detto che stavo aspettando la mia collaboratrice e lui m’ha detto di aver visto una ragazza bionda uscire dall’ufficio…

Mi mordo il labbro nervosamente e abbasso lo sguardo, non so come replicare e provo un certo imbarazzo.

-Sei fortunata, dopo questo incontro sono di buon umore e te la faccio passare!

Andrew si china per cercare il mio sguardo, che al momento è rivolto alle piastrelle in linoleum dell’ufficio.

-Sorridi, dai!

Esclama.

-Credi davvero che andrà tutto bene?

Chiedo, colta improvvisamente da una terribile sensazione.

-Potrei giurarci. Mi ha fatto una buonissima impressione l’avvocato. Quando l’ho visto entrare non pensavo fosse lui, sembrava un modello di Abercrombie!

Trattengo a stento una risatina, portando la mano alla bocca.

-Non l’avevo notato.

Esclamo sarcastica.

-Certo, ti credo. Ad ogni modo, facciamo un accordo, ti va?

Chiede Andrew, sorprendendomi.

-Che tipo di accordo?

Lui sospira. Prima di continuare a parlare dà uno sguardo alla porta, forse per accertarsi che sia realmente chiusa.

-Se tutto andrà a finire bene ti offro una cena, dove vuoi tu.

Rimango per un attimo a bocca spalancata.

-Non ti va?

Chiede lui, quasi insicuro.

-Beh mi farebbe piacere, certo. Ma… non devi disturbarti tanto.

Andrew mi sorride. Si toglie gli occhiali,  li piega e li infila nel taschino della camicia.

-Non è un disturbo e comunque te lo devo. Sei venuta con me alla centrale ieri e stai lavorando su questo caso in modo instancabile da fin troppo tempo. Non posso darti un aumento purtroppo, visto il periodo economico non esattamente favorevole. Tuttavia una cena posso ancora offrirtela, sempre che ti faccia piacere.

Annuisco.

-In questo caso molto volentieri, ti ringrazio.

 

--Ed eccomi con il quinto capitolo. Ho scoperto che da adesso (da quando??) è possibile rispondere alle recensioni. Ma io credo farò alla vecchia maniera, ringraziando in questo caso TeenAngels. 

Non credo di riuscire a pubblicare domani il sesto capitolo, quindi inizio a darvi appuntamento a lunedì. Buona domenica a tutti e... a presto :) ---

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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***


Capitolo 6

 

-Lo sapevo, lo sapevo!

Urla Ellie, saltellando sulla sedia. Siamo in pausa pranzo, in una piccola caffetteria poco distante dal nostro ufficio e le ho appena comunicato dell’invito a cena di Andrew.

-Sapevo che non avrei dovuto dirtelo…

Mi pento di quanto le ho appena raccontato.

-Te l’ho detto l’altro giorno, cavolo, mi sento una veggente!

Esclama, mentre un pezzetto della foglia di insalata che sta mangiando le sporge poco aggraziatamente dalla bocca.

-Attenta a non ingozzarti!

Ellie è troppo agitata e trangugia una forchettata di insalata dopo l’altra, riempiendosi le guance come un criceto. Non credevo che tale notizia potesse sconvolgerla al tal punto. Sorrido nel vederla così allegra. Personalmente non mi sono fatta nessuna particolare idea riguardo all’invito di Andrew. La nostra relazione è sempre stata puramente professionale, non nego di aver stretto una sorta di amicizia o per meglio dire simpatia, tuttavia non abbiamo mai avuto occasione di incontrarci al di fuori dell’ufficio e sono ben poche le volte nelle quali i nostri discorsi non abbiano toccato il lavoro o la quotidianità. La stessa questione spinosa del suo divorzio non era mai stata argomento di discussione tra di noi. L’intera faccenda è passata in ufficio come voce di corridoio e credo che Andrew abbia accettato quel tipo di divulgazione senza farsi problemi, dando quindi per scontato che tutti quanti siano a conoscenza della situazione spiacevole nella quale si trova da diversi mesi a questa parte.

-Cambiando discorso, sei poi andata dal medico?

Chiede Ellie, cambiando espressione. Lì per lì vengo colta alla sprovvista e mi pare quasi spontaneo chiederle a cosa si riferisca, salvo poi ricordarmi di averle parlato di quei miei fastidiosi e improvvisi brividi. 

-Oh… no, non ho ancora avuto tempo.

Rispondo, sorseggiando poi un po’ del mio smoothie di verdure. Ellie finge di essere una patita del cibo sano e biologico, per cui tutti i nostri pranzi insieme sono a base degli alimenti più improponibili: triple insalate, vellutate di qualsiasi verdura esistente sulla faccia della terra e strane torte salate preparate con farine o cereali delle quali, per quanto mi sforzi, non ricorderò mai il nome. Anche a me piace mangiare sano e sto attenta a non esagerare con il cibo spazzatura, tuttavia credo che anche un coniglio si rifiuterebbe di ingurigitare buona parte dei nostri pranzi. Circa un sei mesi fa, stanca di mangiare alimenti decisamente troppo sani, pensai di invitare Ellie in una steak-house o comunque un piccolo ristorantino a conduzione familiare, di quelli che si trovano nelle viette secondarie. Come al solito sottovalutai l’entusiasmo di Ellie che apprezzò quel nuovo punto di ristoro in maniera a dir poco eccessiva, facendolo diventare il luogo di ogni nostro pranzo per all’incirca tre mesi e portando entrambe a mettere su la bellezza di tre chili. Su Ellie, stangona statuaria, qualche chiletto in più non aveva che giovato mentre su di me avevano creato quel terribile effetto salsicciotto-salvagente sui fianchi che ero riuscita ad eliminare in un paio di mesi a forza di diete affamanti, litri d’acqua e assidui massaggi con le più improponibili creme rassodanti esistenti in commercio. Da allora ho deciso di lasciarmi portare dai lei nei soliti posti da hipster new age, popolato da personaggi il cui amore per lo stile di vita “sano” e il cibo biologico risulta essere finto come le mostruose Louis Vuitton contraffatte che sventolano con molta nonchalance. 

-Sai, stamattina è arrivato il nuovo avvocato.

Esordisco, cercando di intavolare un nuovo argomento. Ellie rimane in silenzio per qualche minuto, prima di formulare una risposta.

-Ah! Già arrivato? Credevo ci volesse del tempo prima che ne designassero un altro, sai l’omicidio e tutto quanto.

La parola “omicidio” pronunciata da Ellie con estrema naturalezza fa girare immediatamente le persone circostanti. Io imbarazzata distolgo lo sguardo mentre Ellie si limita a pronunciare un sommesso “ops” quasi sottovoce.

-Credevo anche io ci sarebbe voluto del tempo invece è già arrivato e forse siamo a cavallo!

Esclamo, mostrando il più vigoroso dei miei sorrisi. Ellie spalanca la bocca stupita.

-Vi appoggerà?

Annuisco.

-Fantastico! Vedi? Anche i “manichini”, come li chiami tu, hanno un anima!

Involontariamente aggrotto le sopracciglia, gesto di cui Ellie si accorge subito.

-Cos’altro c’è?

Chiede, quasi snervata. Credo di aver parlato fin troppo con lei di quel caso negli ultimi mesi, evidentemente non vede l’ora che si risolva.

-Nulla.

Rispondo rapidamente, afferrando ciò che resta del mio smoothie e cercando di tenere la bocca occupata il più possibile. Immediatamente sul viso di Ellie spunta un’espressione quasi inquietante, i suoi occhi si allargano e inizia a sorridere, un sorriso plastico, compatto e artificiale come quello di una Barbie. Deve aver realizzato qualcosa o meglio crede di aver fatto una gran scoperta, che non esita ad espormi.

-Lui.

Esclama, ridacchiando.

-Chi?

Ribatto io, guardandomi attorno, fingendo di non aver capito dove voglia arrivare.

-Non è il solito manichino, non è vero?

Scoppio a ridere. Sono stata io, inconsciamente, a tirare fuori l’argomento, me ne rendo conto in questo momento. Fingo di non volerne parlare e che non me ne importi ma la verità è che dovevo assolutamente parlarne con Ellie, con chi altri sennò?

-Proprio no.

Ellie diventa sempre più curiosa, al punto di scostare e abbandonare totalmente la sua insalata in un angolo, abbandonando anche quel suo finto senso di appagamento.  Appoggia entrambi e gomiti sul tavolo e avvicina di più verso il centro, quasi volesse confidarmi un segreto o sussurrarmi in un orecchio.

-Dimmi tutto!

Scuoto il capo.

-Nulla di che, è solo un bell’uomo. Questa è la differenza.

La mia risposta smorza immediatamente il suo entusiasmo, glielo leggo negli occhi. Sospirando ritorna composta anzi, raccoglie la sua borsa e si alza.

-Ho capito, vuoi fare la misteriosa. Va bene, va bene…

Deduce, quasi amareggiata. I suoi comportamenti infantili a volte sono irritanti e assurdi, altre volte (come in questo caso) mi inducono uno smisurato senso di tenerezza. Mi alzo a mia volta e le poggio una mano sulla spalla.

-Domani pomeriggio tornerà in ufficio, verso le quattro circa. Scendi casualmente le scale, mi saprai dire.

Questa mia risposta le solleva immediatamente il morale, annuisce e batte le mani delicatamente, per esprimere la sua soddisfazione per ciò che le ho appena detto.

 

 

Anche questo pomeriggio Andrew mi dà la possibilità di tornare a casa prima, ovviamente non dopo aver telefonato a Margareth, la madre del bambino dell’affido. Questa volta la telefonata dura qualche minuto in più e al termine mi lascia una piacevole sensazione nel cuore. Appoggiando la cornetta sulla base tiro un respiro di sollievo. Mi tocco il petto, all’altezza del cuore, che batte all’impazzata, data l’estrema soddisfazione che sto provando in questo momento. Ho quasi paura che balzi fuori.

Scendo le scale, saluto le segretarie ed esco. Sono felice al punto di aver guidato fino a casa in assoluta tranquillità, senza preoccuparmi di automobilisti schiamazzanti, di gente che mi taglia la strada o quant’altro. Parcheggio nel vialetto e scendo. Immediatamente sento il miagolio di un gatto, probabilmente il mio gatto. Mi giro ma non lo vedo. In effetti non mi era parso di sentirlo da vicino. Osservando meglio noto che si trova dall’altro lato della strada, davanti alla porta della casa precedentemente messa in vendita.

Lo chiamo, sperando di attirare la sua attenzione. Il gatto mi guarda ma torna a fissare la porta di quella casa. Cerco di scrutare con attenzione le finestre di entrambi i piani, prima di scattare a riprendermi il gatto. Non vorrei che una volta arrivata davanti alla porta comparisse qualcuno, accusandomi di essere una ladra o una guardona.

Facendomi coraggio attraverso la strada. Prima di avvicinarmi all’ingresso cerco di richiamare il gatto dal marciapiede ma questi non vuole sentire ragione, al contrario si avvicina di più alla porta, iniziando a grattarla per farsi aprire. Immediatamente scatto e lo afferro, correndo il rischio di essere graffiata da uno dei sui artigli.

-Hiram! Sciocco di un gatto! Cosa ti salta in testa?

Lo rimprovero, prendendolo sottobraccio. Il micio miagola e mi osserva con uno sguardo vacuo e indecifrabile che ovviamente non mi aspetto di comprendere.  Mi dirigo immediatamente verso casa quando però i miei timori si concretizzano e sento la porta d’ingresso aprirsi alle mie spalle. Strizzo gli occhi e non mi giro poiché sono certa che la persona alle mie spalle, chiunque sia, richiamerà la mia attenzione a breve.

-Ha bisogno di qualcosa?

Deglutisco e mi giro, con il gatto ancora in braccio.

-Ehm… no, è che il mio gatto-

Mi blocco e non riesco più a parlare. Non ho mai creduto nelle coincidenze e non voglio iniziare a crederci ora, tuttavia potrei dare a tutto il sistema una possibilità.

-Signorina Ricci, non è vero?

Annuisco. La persona che mi trovo davanti è l’avvocato, conosciuto solo poche ore prima.

-Esatto. Mi scusi avvocato, sono semplicemente venuta a recuperare il mio gatto.

Alla parola “gatto”, il suddetto mi sfugge dalle braccia e corre verso l’avvocato.

-Hiram!

Esclamo infastidita, salvo ricordarmi che la persona che mi trovo davanti e il mio gatto condividono lo stesso nome. Piena di vergogna mi porto una mano alla bocca.

-E così ti chiami come me…

Commenta lui, semplicemente, chinandosi ad accarezzare il gatto che nel frattempo si sta strusciando contro i suoi stinchi.

-Mi dispiace.

Confesso, non sapendo che altro dire. Lui mi guarda con aria quasi rassicurante, poi indirizza le sue attenzioni verso il gatto, si china quanto basta per poter allungare il braccio e carezzarne la testa. Il gatto sembra essersi affezionato a lui, al punto che inizia a fare le fusa e strusciare il musetto sul dorso della sua mano.

-Non c’è motivo di cui dispiacersi, per un gatto così bello poi…

Risponde, continuando a coccolare il gatto.

-Quindi… lei abita qui?

Chiedo, tentando disperatamente di cambiare discorso e nel tentativo di sviare l’imbarazzo.

-Mi sono trasferito da un paio di giorni. Anche lei è di questo quartiere?

Chiede, smettendo di accarezzare il gatto e tornando a guardarmi negli occhi.

-Abito proprio difronte.

Allungo il braccio e indico la mia casa, colta di nuovo da una ventata di imbarazzo quasi immotivato.

-Curiosa coincidenza.

Ribatte lui, sorridendo. Inizio ad osservarlo più da vicino: è vestito e pettinato in modo differente rispetto a poche ora prima, senza dubbio più informale. Quando l’ho visto stamattina i suoi capelli erano perfettamente pettinati all’indietro, mentre al momento sono lasciati al naturale e risultano essere più mossi e leggermente scompigliati. Il completo grigio e la camicia color perla sono stati rimpiazzati da un paio di jeans chiari slavati e una maglietta semplice, bianca, senza loghi né tessiture particolare e i ai piedi… nulla.

-Si, odio le scarpe.

Commenta lui, probabilmente accortosi del mio sguardo sui suoi piedi. Inizia anche a battere le dita sul pavimento, quasi in modo scherzoso. Cerco di simulare un sorrisetto disinvolto, per fingere di non essere stata beccata imbambolata a scrutarlo.

-Le sue devono anche essere piuttosto scomode, o sbaglio?

Si riferisce sicuramente all’altezza del tacco. Le scarpe che indosso sono tra le mie preferite per tutti i giorni: un paio di decolleté bianche con decorazioni sui lati in pizzo di un tono più scuro, dal tacco mediamente sottile e alte poco più di dieci centimetri.

Mi osservo il tacco quasi per confermare o smentire la sua teoria, come se non sapessi dare una risposta certa, pur possedendo questo paio di scarpe da circa un anno e avendolo indossato nelle ultime dieci ore.

-Ne ho di peggiori.

Concludo alla fine. Non so perché ma ho un irrefrenabile voglia di afferrare il mio gatto, che non fa che strusciarsi attorno agli stinchi dell’avvocato, per poi filare dritta in casa. Sicuramente mi trovo davanti ad un uomo estremamente affascinante, da un aspetto così gradevole da volerci passare ore e ore, anche portando avanti discorsi circostanziali e senza senso, come in questo momento. Eppure allo stesso tempo mi inquieta.

Cerco di guardare con più attenzione i suoi occhi, provando questa volta di non farmi notare. Tentativo miseramente fallito perché lui accortosi della mia insistenza inclina il capo e socchiude gli occhi, rivolgendomi uno sguardo che pare dire: “Beh? Che altro vuoi?”. Quel breve istante in cui riesco ad osservare i suoi occhi ecco riapparire in me quel brivido che mi accompagna da giorni, d’intensità minore. Immediatamente distolgo lo sguardo e mi chiudo nelle spalle.

-Si sente bene?

Chiede lui. Io fingo che sia tutto a posto e decido di approfittare della situazione per andare via.

-Si, grazie. Se vuole scusarmi ora andrei. Hir- ehm, micio, andiamo a casa.

Mi autocorreggo, dimenticandomi di nuovo dell’omonimia tra l’uomo e il gatto. Quest’ultimo finalmente mi dà retta e si avvicina permettendomi di portarlo a casa. Disinvolta e più naturale possibile mi dirigo verso casa, arrivo alla porta e mi chino lasciando andare il gatto, per riuscire ad avere accesso alla borsa e recuperare le chiavi.

Quasi istintivamente mi giro, il mio nuovo vicino è ancora sulla porta e mi sta osservando. Improvviso un sorriso e faccio timido cenno di saluto, immediatamente ricambiato, entro poi in casa e chiudo la porta senza fare attenzione e correndo il rischio di decapitare il mio gatto, che fa appena in tempo ad infilarsi in casa.

Tiro un sospiro di sollievo. Finalmente a casa, finalmente dentro casa. Tutta quella situazione mi ha messa in estremo imbarazzo e non sono ancora in grado di spiegarmi il perché. Rimango qualche istante con la schiena contro la porta, il respiro affannoso e la testa in pieno stato confusionale, prima di riprendermi e decidermi a fare qualcosa.

L’istinto mi porta a girarmi di nuovo per vedere se è possibile scorgere l’altro lato della strada attraverso inserti in vetro della porta di ingresso. Mi faccio coraggio e mi sporgo quanto basta. Il mio vicino è già rientrato in casa, per mio sollievo o disappunto; non riesco a capire quale delle due emozioni prevalga.  

-- Di ritorno con il nuovo capitolo, come avevo annunciato. Ho visto che la mia storia è stata letta e, con sincerità, mi spiace non aver ricevuto un parere, buono o cattivo che sia.  Per una storia è importante avere dei feedback per poter andare avanti. Inutile dirlo ma anche quelli NEGATIVI (che non siano però insulti, sia chiaro) son d'aiuto. Spero di aver più successo, nei prossimi capitoli. Arriverò fino al decimo e poi valuterò se continuare a pubblicarla qui o migrare verso altri lidi... Alla prossima! ---

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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo ***


Capitolo 7

 

-Jennifer assicurami che non sto sognando, ti prego.

Mi chiede Margareth, afferrandomi le mani in una stretta forte e calda. Mi supplica, osservandomi con i suoi dolci occhi castani che ad osservarli bene sarebbero perfettamente in grado di rivelare ciò che ha passato e ciò che ancora sta passando.

-Se è un sogno non sei  sola Margareth, ci sono anche io.

Le rispondo, cercando anche di strapparle un seppur debole sorriso. Siamo sedute nell’ufficio di Andrew, aspettando che questi ci chiami per andare a parlare con l’avvocato. Margareth non riesce a stare seduta. Da quando è arrivata, circa mezz’ora fa, non ha passato più di cinque minuti sulla sedia. La vedo camminare nervosamente avanti e indietro in questo piccolo spazietto chiuso.

Io, al contrario, rimango seduta e non posso fare a meno che osservarla. Mi ricordo il primo giorno in cui ho potuto parlare con lei.

Era da poco uscita dalla clinica, aveva un’aria spaesata ma si era presentata e aveva raccontato la sua vicenda in maniera composta.

-Mio marito ha tentato di uccidermi, non avendone il coraggio ha cambiato bersaglio:  se stesso.

Queste sono le esatte parole che aveva pronunciato davanti a me e Andrew, quel giorno. Non ero riuscita a contenere  le mie reazioni: spalancando la bocca in modo decisamente poco appropriato. Andrew non era stato da meno, commentando con un ancor più prevedibile: “Dio Mio”.

Parlando fra di noi ci scoprimmo entrambi sorpresi dalla compostezza e la fermezza che quella donna avesse dimostrato, raccontando la sua terribile storia e cercando esporci i motivi per i quali intendeva rivendicare ciò che le spettava di diritto: suo figlio. Tuttavia, col passare del tempo e dei mesi dopo udienze rimandate, litigi in tribunale, ispezioni sul lavoro, visite mediche, colloqui con psichiatri, psicologi e pedagoghi  di mezza California, la maschera che la signora Goldman, da allora poi divenuta semplicemente Margareth, iniziò ad incrinarsi rivelando tutti i demoni e i mali di ciò che aveva passato.

Dopo l’ennesimo rifiuto e la minaccia di abbandonare il caso del procuratore, minaccia che si realizzò nel giro di poche settimane, la vera natura di Margareth iniziò ad emergere. Fu in casa sua, un pomeriggio, che iniziai a conoscerla davvero e provare empatia con lei, al punto di tenere alla sua vicenda come se l’avessi vissuta io stessa.

Seduta sulla sua poltrona dai braccioli in legno mi raccontò per filo e per segno, con voce meno salda, l’incubo che si era trovata a vivere. Riuscii a vedere gli occhi vuoti del marito mentre le puntava il fucile da caccia sulla tempia e sentire la sensazione di gelo di quest’ultima, sulla pelle. Mentre il discorso diventava sempre più ricco e carico di particolari il mio cuore iniziava a battere e si fermava, quasi la paura e lo stupore di quella disgrazia si stessero ripresentando  a me personalmente.

Fu infine quando si alzò per prendere da un cassetto una foto di Tyler, che reggeva in mano come il più prezioso dei tesori, che mi convinse a fare tutto ciò che fosse mio potere fare per riunire ciò che restava di quella famiglia. Nessun figlio meriterebbe di essere portato via dai propri genitori. Nessuno al mondo dovrebbe arrogarsi il diritto di privare una madre dell’affetto, l’amore e la presenza dei propri figli.

Essendo cresciuta con i miei nonni, pur avendo avuto comunque due figure adulte forti, ho potuto sperimentare sulla mia pelle il dolore provocato dalla lontananza dei genitori. Ho potuto vedere anche io con i miei occhi da bambina quanto il mondo fosse più buio, solo e confusionario senza una madre un padre accanto. 

Non potrei mai permettere ad un altro bambino di trovarsi in una situazione simile, specialmente se c’è una via d’uscita, se c’è una scelta.

-Jennifer, Margareth: è arrivato.

Avvisa Andrew, facendo capolino in ufficio e invitandoci a scendere. Immediatamente mi alzo. Noto l’imbarazzo di Margareth, che mi aspetta prima di seguire Andrew. Le rivolgo un sorriso e poggiandole una mano sulla spalla in modo affettuoso le sussurro un “Coraggio!” .

Arrivati nella sala di incontri noto che l’avvocato è già seduto. Evito di guardarlo, preferisco concentrarmi su Margareth. Non posso assolutamente permettermi distrazioni o imbarazzi, in un  momento così importante. Dopo questo colloquio verranno decise le linee guida da presentare in tribunale. Se l’avvocato confermerà quanto ci ha detto il giorno precedente tutto questo incubo sarebbe ad un passo dalla fine.

Margareth si siede di fronte all’avvocato, mentre Andrew ed io ci posizioniamo rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra. 

-Signora Goldman, vorrei presentarle l’avvocato O’Dowell.

Annuncia Adrew, rompendo il silenzio. Immediatamente l’avvocato allunga il braccio per presentarsi alla donna.

-Ho finalmente il piacere di conoscerla, signora Goldman.

Commenta l’avvocato. Mi lascio sfuggire uno sguardo, immediatamente catturato dall’avvocato.

-Buongiorno anche a lei, signorina Ricci.

Annuisco col capo, senza proferire parola.

-Signora Goldman, Margareth, ha qualcosa che vorrebbe puntualizzare con l’avvocato?

Domanda Andrew, ponendo una sue solite domande di rito.

-Non saprei proprio cos’altro dire, a questo punto.

Le parole di Margareth mi spezzano il cuore. Vorrei tanto rincuorarla in questo momento ma so di non dovermi esporre eccessivamente davanti all’avvocato.

Margareth inizia a giocherellare nervosamente con le mani, tamburellandole le dita sul tavolo. Sorprendentemente l’avvocato allunga una mano per poi posarla su quelle della donna, in modo quasi rassicuratore.

-Margareth, posso chiamarla per nome?

Chiede, con un tono di voce profondo e rilassante. La donna alza lo sguardo, fino a quel momento fisso sul tavolo ed annuisce.

-Mi ascolti: non ho bisogno che mi dica altro. Ho letto tutti i documenti e sono in possesso di tutto il materiale prodotto fino ad ora. Sono dalla sua parte, senza ombra di dubbio.

Margareth rimane probabilmente sconvolta, poiché non fa altro se non fissare l’avvocato, temendo forse che da un momento all’altro cambierà idea, nel caso distogliesse lo sguardo o smettesse di prestare attenzione.

-Ora voglio solo che lei si tranquillizzi. Le prometto che andrà tutto bene questa volta, mi deve credere.

Margareth annuisce, senza però fiatare.

-Hai sentito Margareth? Non è un sogno!

Commento io, cercando di farle prendere contatto con la realtà.

-Io… non so proprio che dire.

Queste sono le uniche parole che Margareth riesce a pronunciare.

-L’avvocato ha spiazzato un po’ tutti, credo.

Commenta Andrew, anche lui visibilmente scosso.

 

Dopo aver concordato la data dell’udienza definitiva Margareth Goldman esce dallo studio, per la prima volta sorridendo. Io la accompagno alla porta e ritorno poi nella saletta delle riunioni dove Andrew sta ancora parlando con l’avvocato.

-La signora Goldman è andata via, credo di non averla mai vista così felice.

Commento, rivolgendomi ad Andrew.

-Ne stavo giusto parlando con l’avvocato, chiedendogli anche dove fosse stato nascosto fino ad ora. Se l’avessimo trovato prima ci saremmo risparmiati tutti questi mesi di agonia, non credi?

Mi limito ad annuire, non avendo null’altro da aggiungere. Ancora una volta mi sento in soggezione di fronte a quell’uomo. Nonostante ritenga le parole di Andrew veritiere continuo a nutrire sospetti su di lui e il fatto che sia mio vicino di casa non può che peggiorare la mia inquietudine

-Bene, a questo punto credo di doverci congedare fino al prossimo martedì, il giorno dell’udienza.

Afferma l’avvocato, porgendo la mano ad Andrew che immediatamente la stringe con entusiasmo. Al contrario di me sembra trovarsi a suo agio con quell’uomo e sorride, quasi fosse un amico e non un estraneo conosciuto poco più di ventiquattro ore prima.

-Credo che noi ci si vedrà ancora presto, signorina Ricci.

Inizialmente le sue parole mi colgono alla sprovvista e, non appena riesco a coglierne il significato, improvviso un sorriso, sempre senza aprir bocca.

-Mi sono perso qualcosa?

Chiede Andrew, guardandomi incuriosito.

-Io e la signorina Ricci abbiamo scoperto di essere vicini di casa.

Ribatte l’avvocato, battendomi sul tempo. Andrew spalanca gli occhi sorpreso e sogghigna.

-Davvero? Che coincidenza!

Commenta poi.

-Lo è davvero! Ora se volete scusarmi, andrei.

Andrew annuisce e lascia passare l’avvocato.

Uscendo dalla stanza mi accorgo di Ellie che finge di sistemare dei fogli su una delle scrivanie delle segretarie. So con certezza che sta fingendo poiché il suo sguardo continua ad alzarsi per osservare alternatamente, quasi stesse seguendo una partita a tennis, me e l’avvocato. Cerco di non darle troppa importanza, so già che sarà lei stessa ad espormi le sue impressioni, senza bisogno che le si chieda nulla.

-Ti ho vista piuttosto silenziosa, Jen. Tutto bene?

Chiede Andrew, ancora girato di spalle e intento a chiudere a chiave la saletta.

-Sì, forse sono ancora un po’ frastornata per tutto quello che sta succedendo.

Commento, cercando di fornire una spiegazione che nemmeno io mi so dare.

Andrew si gira e mi rivolge uno dei suoi sguardi compassionevoli. Mi appoggia una mano sulla spalla che accarezza, in modo affettuoso.

-Sì, sta succedendo tutto così in fretta ma avevi ragione tu: siamo stati graziati questa volta.

Sorrido. Andrew è felice e lo sono anche io, vedendolo.

-Direi che dopo questo possiamo anche andarcene a casa, ce lo siamo meritati.

Si ferma un attimo e allunga il collo, in direzione delle scrivanie delle segretarie.

-Vale anche per te e Adam, Ellie!

Esclama, alzando la voce e facendo sobbalzare Ellie, probabilmente convinta di essere in qualche modo invisibile.

-Ricevuto, capo!

Risponde, con il capo chino per l’imbarazzo. Aspetto che Andrew si diriga verso il suo ufficio e poi raggiungo Ellie.

-Spero che diventare un investigatore privato non fosse uno dei tuoi sogni perché, cara mia, non fa proprio per te.

Commento, appoggiandomi alla scrivania. Ellie scoppia a ridere. Non riesco a capire se la sua sia una risata imbarazzata o divertita.

-Me l’hai detto tu di essere casualmente presente.

Ribatte.

-Sì ma speravo lo facessi con più discrezione!

Commento, ancora ridacchiando. Il bell’aspetto di Ellie proprio non si addice, il più delle volte, alla natura ingenua e pasticciona dei suoi gesti.

-Non ha importanza, quel che importa è: ti rendi conto di quanto sia mozzafiato quel tipo?

Alla parola “mozzafiato” le pupille di Ellie si allargano, quasi volesse dare ulteriore enfasi a ciò che ha appena detto.

-Ti giuro che se non fossi fidanzata…

Si interrompe, merito probabilmente del mio sguardo fulmineo.

-Ehi, calma! Ho detto “se”. È tutto tuo tesoro, te lo meriti!

Conclude, saltellando come una scolaretta. Ancora una volta mi rivolge uno di quei suoi terrificanti sorrisi da Barbie.

-Che sia un bell’uomo credo nessuno lo metterebbe mai in dubbio. Tuttavia…

Quel momento di svago e di risate quasi adolescenziale viene presto rimpiazzato dalle mie sensazioni, non del tutto positive, circa quell’uomo. Probabilmente il mio viso deve essersi fatto cupo e serio, perché Ellie inclina il capo e aggrotta la fronte con preoccupazione, prima di rivolgermi parola.

-Qualcosa che non va?

Non riesco a formulare un discorso. Forse perché quello che provo sono solo un mucchio di emozioni e sensazioni poco definite, per le quali non sono in grado di fornire una descrizione.

-Non lo so Ellie, c’è qualcosa che mi frena davanti a questa persona.

Ellie scuote il capo, chiaramente non riesce a capire cosa voglia dire.

-Non lo conosco e di lui non so nulla eppure ha qualcosa di strano. Non riesco a spiegartelo ma non mi sento tranquilla.

Ellie inizia a preoccuparsi, glielo leggo negli occhi.

-Che ne dici se parliamo più liberamente, fuori di qui?

Annuisco.

-Va’ pure di sopra a prendere le tue cose, ti aspetto al bar qui in fondo alla strada per un aperitivo.

Afferma, mettendosi in spalla la borsa.

 

 

--- Eccomi di nuovo. Spero che la storia vi sia piacendo. Vi chiedo ancora una volta, per favore, di lasciare un segno del vostro passaggio con i vostri pareri, mi farebbe molto piacere e mi invoglierebbe a proseguire qui la storia. Per il resto vi auguro una buona giornata e vi do appuntamento a giovedì, questa volta. Purtroppo domani sarò fuori casa e non potrò pubblicare. Alla prossima. --

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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo ***


Capitolo 8

Il locale scelto da Ellie per il nostro aperitivo è piuttosto elegante e particolare, di stile etnico lo definirei. Nell’aria si sente un forte profumo di incenso e sulle pareti circostanti sono accese un numero spropositato di candele; ogni qual volta cerchi di contarle mentalmente e confermarne il numero ecco che subito ne scorgo un’altra. I tavolini disposti lungo la sala sono di stili diversi l’uno con l’altro, io ed Ellie ci troviamo su un tavolo basso che in effetti sembra più un tavolino da caffè e siamo sedute su dei cuscini piuttosto bizzarri viola e arancioni, mentre accanto a noi una coppia è intenta a sorseggiare mojitos ad un tavolo ricavato da una botte in legno.

Mi sono sentita leggermente a disagio al mio ingresso nel locale, poiché il mio abbigliamento non è assolutamente uniforme a quello dei presenti. Questa mattina per l’incontro con Margareth e l’avvocato avevo deciso di darmi un tono più sofisticato, decidendo di indossare un paio di pantaloni gessati neri e una camicetta classica ma con qualche rouche sul decolté, dal colore lilla e ai piedi indosso un paio di open toe nere in vernice lucida, che riprendono lo stile della mia borsa. La maggior parte delle donne presenti indossa svolazzanti e leggeri vestiti dai colori estivi, con sandali dai toni della terra e gioielli dorati.  

Anche Ellie, che avevo faticato a trovare nel locale essendo le luci decisamente troppo soffuse, è vestita fuori luogo ma sembra non badarsene.

-Mi sono permessa di ordinare un long island anche per te!

Esclama, non appena il cameriere ci porta la consumazione.

-Può portare anche qualcosina da stuzzicare, patatine, tramezzini…?

Chiede Ellie, senza alcun timore. Ovviamente il cameriere non sa resistere al suo fascino e annuisce, tornando poco dopo con almeno quattro ciotole piene di salatini e un piatto con qualche tramezzino.

-Grazie, troppo gentile!

Commenta lei, regalandogli un sorriso smagliante che crea nel cameriere non poco imbarazzo. Ellie è fatta così: è sfrontata e non ha peli sulla lingua. Io probabilmente non avrei chiesto nulla al cameriere e avrei aspettato che mi portasse lui qualche stuzzichino, in quantità decisamente inferiori rispetto al banchetto davanti ai miei occhi in questo  momento. 

-Prima di iniziare, cin-cin!

Esclama Ellie, alzando il bicchiere.

-Cin!

Ribatto io, aspettando però a sorseggiare il drink. 

-Allora, dimmi cosa ti preoccupa.

Invita Ellie, dopo aver bevuto d’un sorso poco meno di metà bicchiere.

-Non è che abbia nulla da dire, a dirti la verità. Ti ripeto: sono solo mie sensazioni, terribili sensazioni.

Mi decido a dare il primo sorso del mio drink. Non sono una grande consumatrice di alcolici ma sono dell’idea che qualche goccia di alcool non faccia male, se il risultato è avere per qualche ora la mente più leggera.

-La vera notizia però è che… è il mio nuovo vicino di casa.

Ellie quasi si ingozza, cercando di ribattere, mentre ha ancora la bocca piena.

-Cosa?!

Borbotta., in modo incomprensibile. Mastica e deglutisce, prima di aggiungere altro.

-Ne sei sicura?

Annuisco, prendendo una manciata di patatine.

-L’altro giorno ho avuto modo di parlare con lui. Il mio gatto per non so quale motivo era intenzionato a fare irruzione in casa sua, sono andata a recuperarlo e ci siamo incrociati…

Mi fermo un secondo, giusto il tempo di bere un altro sorso di long island. Apprezzo particolarmente questo tipo di bevanda, benché sia considerato uno dei superalcolici più forti risulta essere molto dolce e piacevole al gusto. Sento a malapena bruciare la gola quando lo bevo e questo può rivelarsi un problema poiché sarei in grado di berne almeno due bicchieri di fila, ritrovandomi senza nemmeno esserne consapevole, in stati fisici e mentali a dir poco impietosi.

-Ho avuto modo di parlare con lui di… nulla, praticamente. Eppure, benché volessi passare altro tempo in sua compagnia, mi sentivo estremamente a disagio e non vedevo l’ora di tornarmene in casa. Non riesco a capirne il motivo.

Commento, sempre più confusa, giocherellando con la cannuccia del mio drink.

-Ti ha per caso detto qualcosa di strano? O ha piuttosto fatto qualcosa di sospetto o insolito?

Scuoto il capo.

-No, ha solo accarezzato il gatto.

Per qualche minuto regna il silenzio, è Ellie a parlare per prima.

-Il fatto che siate vicini di casa è a dir poco surreale. Quante possibilità c’erano che una cosa del genere accadesse?

Faccio spallucce, per confermare di non essere in grado di dare una risposta.

-Anche quando l’ho visto per la prima volta, è stato tutto così strano! Sono quasi rimasta pietrificata. Inizialmente pensavo che fosse per il suo aspetto fisico.

Ellie trattiene a stento un risolino, che cerca di nascondere ingurgitando cibo.

-Ma non posso essere così sciocca da imbambolarmi davanti ad un uomo avvenente! Infatti quando l’ho incontrato di nuovo nel pomeriggio, ho capito che si trattava di qualcosa di più. I suoi occhi…

Mi interrompo, cercando le parole adatte. Nella mia mente intanto si fanno spazio quelle due splendide e al tempo stesso terrificanti iridi cerulee.

-Azzurri ma… non come i tuoi. Sono forse più chiari, quasi glaciali…

Mi arrendo, non sapendo dare con esattezza una descrizione.

-Insomma, sembrano quasi esser fatti di ghiaccio! Ed è proprio quella la sensazione che mi danno.

Ellie è sempre più confusa; strizza gli occhi, mostrando di non aver capito nulla di ciò che le sto dicendo.

-Ti ricordi quando ti ho parlato di quei brividi, dai quali vengo colta spesso ultimamente?

Ellie annuisce.

-Ecco, guardandolo negli occhi provo la stessa sensazione, lo stesso tipo di freddo gelido, pungente e paralizzante.

Termina di bere il suo drink e poi scuote il capo.

-Stento a credere che una cosa del genere possa anche essere possibile.

Commenta. In effetti anche io trovo ciò che ho appena detto un’assurdità e se, a ruoli invertiti, fosse stata Ellie a dirmi la stessa cosa con le stesse parole, probabilmente le avrei rivolto il medesimo sguardo scettico che lei ha indirizzato a me.

-Oh, mi sono dimenticata di dirti che si chiama Hiram…

Ellie spalanca gli occhi.

-Come il tuo gatto!

Annuisco, sorseggiando le ultime gocce del mio long island.

-Oddio! Immaginatelo dopo il bagnetto, tutto bagnato che si struscia contro di te… come il micio!

Ellie scoppia a ridere e io la osservo divertita ma imbarazzata!

-Ellie! Ti prego!

Probabilmente l’alcool inizia a sortire il suo effetto, dal momento che quella battuta ne innesca altre, coinvolgendoci entrambe in un momento assolutamente ilare. Tutta la tensione e l’atmosfera cupa che fino a questo momento avevano caratterizzato la nostra discussione spariscono, lasciando posto a battutine nonsense e dal gusto pressoché dubbio.

 

Verso le sette circa Adam raggiunge Ellie per accompagnarla a casa. Vedendo entrambe piuttosto scomposte e arrossate in viso, intuisce subito che risvolto possa aver preso il nostro aperitivo e con grande gentilezza e premura mi chiede se ho bisogno di essere accompagnata a casa.

-Jen, sei sicura di farcela?

Mi chiede, dopo il mio rifiuto.

-Tranquillo, abbiamo bevuto solo un bicchierino. Sto bene!

Rispondo, cercando di mostrarmi più lucida possibile. Tuttavia Adam non è convinto, forse perché Ellie si è già seduta in auto e si trova in uno strano stato di catalessi. Dà infatti un’occhiata alla sua ragazza, con uno sguardo misto tra la preoccupazione e il disappunto.

Adam, al contrario di Ellie, è totalmente astemio. Per di più non è un tipo che ama i locali, ad una birra in un pub preferisce una serata tranquilla al cinema. È il classico bravo ragazzo, con gli occhi dolci, la faccia da angelo e un cuore tenero e gentile che nessuno al mondo sarebbe in grado di disprezzare.

-Aaaadaaaam vieeeeeniii!

Esclama Ellie in tono malizioso, ridacchiando.

-Solo un bicchierino, ne sei sicura?

Trattengo una risata e osservo il pavimento mordicchiandomi un labbro, per non farmi notare.

-Forse lei ne ha bevuti un paio…

Confesso poi. Adam sospira. Non ha mai detto nulla ad Ellie apertamente, né ha mai criticato la sua indole festaiola, eppure è evidente che certi atteggiamenti lo infastidiscano.

-Lascia almeno che ti sposti la macchina, te la parcheggio in direzione della strada per casa tua così non devi far fatica, ti va?

Lo osservo e quasi mi sento in imbarazzo per tanta gentilezza. Mi osserva in modo tenero, quasi sia lui stesso ad aver bisogno di offrirmi aiuto. Lo sguardo di Adam è irresistibile, non sensuale come può esserlo quello dell’avvocato, è però piuttosto tenero: i suoi occhi sono scuri, quasi neri, al punto che pupilla e iride al buio sembrino tutt’uno.

-Se non ti dà fastidio…

Rispondo, alla fine, non volendo essere sgarbata. Lui immediatamente estrae dalla tasca dei pantaloni, un paio pantaloni classici beige, il mazzo di scorta delle mie chiavi. Mi sorprende il fatto che le porti sempre con sé e non le lasci semplicemente in un cassetto della scrivania in ufficio, come io gli avevo consigliato.

-Faresti compagnia ad Ellie?

Annuisco. Mentre Adam si allontana di corsa per raggiungere la mia auto inizio seriamente ad osservarlo. Ora, non so se sia per colpa dell’alcool o se questo sia uno dei miei soliti momenti di riflessione ma inizio a pensare a quanto sia bello e straordinario Adam e a quanto sia fortunata Ellie ad averlo al suo fianco. Una vocina maligna nel mio cervello mi porta a chiedermi: “Se lo meriterà?”. Vocina alla quale non voglio assolutamente dare ascolto. Tuttavia non riesco proprio a distogliere lo sguardo da lui. È un ragazzo carino, forse ordinario ma comunque carino. Altri pensieri affollano la mia mente, tra questi anche il rimorso per essermi lasciata scappare una perla tanto rara. Dubito a credere che al mondo e specialmente al giorno d’oggi, esistano molte persone come lui. Adam è forse l’unica persona che io conosca, compresa me stessa, che provi seriamente piacere nell’aiutare gli altri e le cui gentilezze, ormai considerate straordinarie, per lui non siano proprio nulla.

Quando Adam definitivamente sparisce dalla visuale raggiungo Ellie alla macchina.

-Forse ho un po’ esagerato.

Commenta, probabilmente recuperando buona parte delle sue facoltà mentali.

-Forse!

Ribatto io, sarcastica. Nel frattempo vedo comparire Adam, con la mia macchina. Accosta quanto basta per permettermi di cavarmela in una manovra e poi scende.

-Ecco fatto. Devi mettere in marcia e partire.

Spiega, infilando di nuovo le chiavi in tasca.

-Grazie davvero, a domani! Ciao Ellie!

Ellie si limita a farmi un cenno con la mano, mentre Adam mi sorride.

 

Sulla strada di casa i pensieri indotti dall'alcool non fanno che torturarmi. Una dopo l’altra nella mia testa si susseguono in sequenze esatte tutti i ricordi delle occasioni che mi sono lasciata scappare con Adam. Dal primo giorno in cui mi mostrò l’ufficio, a quando mi si ruppe un tacco e mi portò in braccio fino alla macchina (probabilmente uno dei gesti più teneri che qualcuno mi abbia rivolto) e tanti altri piccoli sorrisi, sguardi. Questo fino ad arrivare al giorno in cui Ellie mise piede in ufficio, indossando un vestitino con la gonna ampia, color corallo. Bellissima, sorridente e sfrontata e fu così che tutte le mie timidezze e tutte le mie esitazioni rimasero state punite con il loro giusto prezzo.

Senza nemmeno accorgermene arrivo a casa. Parcheggio nel vialetto ma non scendo, non riesco. Improvvisamente, quasi senza controllo, un fiume di lacrime inizia a scorrermi sul viso. Continuo a dare la colpa all’alcool per questa mia improvvisa emotività, anche se so bene che questo stato d’animo, questo mio rimpianto, sia continuamente presente nella mia testa e che forse per la prima volta abbia avuto il coraggio di concretizzarsi. Mi rattristo perché non è la prima volta, in vita mia, che qualche ingiustificato e insensato timore mi precluda dall’ottenere qualcosa di veramente bello e prezioso. Penso che se avessi dato più ascolto al mio cuore probabilmente non mi troverei sola in una vecchia casa vuota, con la sola compagnia di un gatto. Probabilmente ora in questa macchina al mio posto sarebbe seduto Adam e le mie lacrime sarebbero teneri sorrisi.

Il mio pianto si fa disperato, da farmi quasi mancare il respiro. Mi osservo di sfuggita nello specchietto retrovisore e quasi mi spavento. Il trucco sul mio viso è ovunque, fuorché dove dovrebbe realmente essere. Cerco di fare un respiro profondo e di calmarmi, prima di uscire dall’auto. Mi allungo verso la borsa, abbandonata sul sedile del passeggero, per recuperare un pacchetto di fazzoletti. Solo dopo aver rimosso, per quanto sia possibile, le tracce di trucco sciolto scendo dall’auto.

-Buonasera!

Mi giro. Si tratta chiaramente del mio nuovo vicino, l’avvocato, intento a gettare un sacco dell’immondizia nel bidone di fronte a casa sua.

-Buonasera.

Ribatto io, corredando il saluto ad un breve cenno con la mano. Mi accorgo che l’avvocato non entra subito in casa, probabilmente vuole rivolgermi qualche parola. Non sono dell’umore adatto e, pur passando per maleducata, decido di entrarmene subito in casa, senza rivolgergli ulteriori sguardi.

--- Eccomi tornata, come avevo promesso. Per prima cosa ringrazio alberodellefarfalle per il commento. Sì, Hiram è un personaggio curioso e sicuramente non è quello che sembra ;) 

Voglio inoltre chiedere se fa piacere avere un capitolo al giorno o se preferireste un giorno sì e uno no o addirittura un capitolo a settimana. Io sto cercando di pubblicare tutti i giorni (tranne la domenica) poiché noto che le storie nella categoria "Romantica" sono molte e avere la visibilità in prima pagina è molto difficile! Chi legge la storia, per favore, mi scriva cosa preferirebbe. In alternativa, finché avrò materiale, continuerò a postare tutti i giorni in un orario tra le 14 e le 14.30.

Aspetto, come sempre, dei feedback, sempre ben accetti. Alla prossima :) ---

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Capitolo 9
*** Capitolo Nono ***


Capitolo 9

Adoro il sabato e credo resterà per sempre la mia giornata preferita. Presumo comunque sia la giornata preferita di chiunque, poiché generalmente di sabato non si lavora. Avrei voluto alzarmi un pochino tardi e godermi qualche piacevole istante d’ozio ma il mio gatto ha deciso che le nove erano abbastanza, svegliandomi a suon di fusa e miagolii per convincermi ad aprirgli la porta per uscire.

Dopo aver assecondato il gatto decido di preparare la colazione. Non riesco mai a godermi una colazione come si deve. Purtroppo sono una grande ritardataria e non ho mai tempo per consumare una colazione degna di tale nome. Solitamente mi verso in un pentolino due dita di latte di soia che lascio scaldare mentre mi metto le scarpe o ritocco il trucco, lo bevo al volo, metto la tazza nel lavandino e via, a lavoro. Nel weekend ne approfitto per cucinare qualcosa di buono.

Preparare gli impasti mi rilassa molto. Questa mattina ho deciso di infornare qualche biscotto, senza contare che la pastafrolla è uno dei miei pezzi forti. Dopo aver modellato per bene una bella palla di impasto inizio a stenderla e, per l’occasione, rispolvero dei vecchi stampini dalle varie forme: coniglietti, stelle, fiori: un po’ di tutto! Mi sbizzarrisco finché ogni centimetro di pasta viene utilizzato dopodiché setto il timer, la temperatura e inforno.

Nella ventina di minuti di cottura decido di andare a farmi una bella doccia. Anche oggi è una giornata piuttosto calda, ragion per cui il mio abbigliamento sarà decisamente estivo. Faccio passare tra le dita tutte le grucce dei miei abiti, finché non mi fermo su quello prescelto: un delizioso abitino da giorno bianco con un motivo particolare: delle piccole ciliegie rosso fuoco. Mi ricordo di aver comprato con Ellie questo vestito, la scorsa estate. Secondo Ellie  è troppo fuori moda e fino all’ultimo aveva cercato di farmi desistere dal comprarlo ma io non ho saputo resistere al fascino di questo abitino. Ha qualcosa di romantico, di vintage e ricorda un po’ quei vecchi sceneggiati televisivi anni cinquanta, dove le donne erano belle, perfette con le loro collane di perle al collo e l’impeccabile rossetto rosso che non si sbavava mai. Dopo aver ammirato per forse la ventesima volta il vestitino lo indosso e mi osservo allo specchio. Ha una gonna a ruota piuttosto vaporosa e uno scollo all’americana. Giro su me stessa come una bambina, finché non avverto uno strano senso di vertigine.

Il profumo dei biscotti mi fa ricordare di dover correre a spegnere il forno. Per fortuna sono stata in grado di calcolare i tempi in modo adeguato e la mia infornata risulta essere perfetta. Spegno il forno, abbasso la temperatura e li lascio ancora qualche istante, per evitare che si guastino. Nel frattempo chiudo gli occhi, lasciando che i ricordi abbiano il sopravvento.

È stata mia nonna, ovviamente, ad insegnarmi anche questa ricetta ed è stato uno dei primissimi dolci che abbia imparato a cucinare. Mia nonna infornava una teglia di biscotti ogni domenica mattina. Quasi mi commuovo ripensando a quando da bambina scendendo le scale sentivo il profumo intensificarsi, di passo in passo. Entravo di soppiatto in cucina e mia nonna era là, girata di spalle, con uno dei suoi grembiuli bianchi con i fronzoli che sfornava i biscotti, canticchiando. Non ho mai capito esattamente cosa cantasse, probabilmente qualche canzone di quando era ragazza. Mi ricordo solo una strofa: “Ricordo un angolo di cielo, dove ti stavo ad aspettar. Ricordo il volto tanto amato e la tua bocca da baciar.”.

 Non credo di aver mai sentito altro perché mia nonna tendeva a canticchiare, più che a cantare. Capitava, specialmente quando ero già cresciuta al punto di apprezzare una scena così tenera, che mi fermassi sulla porta ad osservarla, cercando di fare meno rumore possibile pur di non interromperla.

Ha infornato biscotti fino alla domenica prima di lasciarmi per sempre, la mia cara nonna.  Deglutisco e cerco, in qualche modo, di mandare via quel nodo in gola, indottomi da una sproporzionata dose di nostalgia. Dopodiché estraggo i biscotti e appoggio la teglia sui fornelli, per lasciarli riposare.

Il colore dei biscotti è perfetto, sono deliziosamente dorati e il profumo di vanillina e zucchero che emanano è estatico. Non appena i biscotti si sono raffreddati li tolgo dalla carta forno e li posiziono in un cestino.

Vengo interrotta da dei rumori provenienti dalla porta, sicuramente il gatto che vuole rientrare. Raggiungo quindi l’ingresso e gli permetto di entrare.

-Buongiorno!

Alzo lo sguardo e ovviamente si tratta del vicino, l’avvocato. Probabilmente deve essere di rientro da una sessione di corsa, poiché è vestito in modo sportivo e sembra essere sudato.

-Buongiorno!

Rispondo, abbassando però subito lo sguardo, intenzionata a rientrare subito in casa.

-Bellissima giornata, non crede?

Domanda, impedendomi di rientrare.

-Sì, deliziosa. Arrivederci!

Rispondo, alquanto fulminea. Una volta in casa continuo a sistemare i miei biscotti. Posizionando l’ultimo inizio a riflettere circa il mio comportamento con il vicino. Comincio a pensare di essere stata piuttosto maleducata, poco fa, avendogli praticamente sbattuto la porta in faccia. So che non dovrei basarmi su impressioni del tutto prive di fondamento ma non riesco a fare a meno di nutrire dei sospetti nei confronti di quella persona. Oltre ad essere un collega è il mio nuovo vicino di casa e dovrei essere gentile o cercare di mostrarmi tale, tuttalpiù. Arrendendomi all’idea decido di farmi coraggio, preparando un piatto di biscotti da portargli come ammenda, diciamo. In ogni caso non riuscirei a mangiarli tutti quanti da sola e con il passare dei giorni si guasterebbero.

Riesco a recuperare un cestino di vimini dai mobiletti pensili della cucina e dispongo un tovagliolo sul quale adagio qualche biscotto. Dopo aver preparato il pacchetto mi blocco: “E se non abitasse da solo?” inizio a pensare tra me e me. Non mi sembra di aver visto nessuno all’infuori di lui nei pressi dell’abitazione ma potrebbe essere sposato o convivere con qualcuno. Nel dubbio decido di aggiungere altri biscotti, per non sembrare avida.  

Arrivata davanti alla porta, con il cestino di biscotti  in mano, mi faccio coraggio e suono il campanello. Aspetto e non si presenta nessuno. Non essendo del tutto convinta di ciò che sto facendo esito prima di suonare un’altra volta. Tuttavia faccio respiro profondo e ignorando i miei timori suono di nuovo. Questa volta, dopo circa una trentina di secondi, sento aprirsi la porta, di fronte a me ed ecco comparire lui: torso nudo, capelli bagnati, pantaloncini da ginnastica e, ancora una volta, piedi scalzi.

-Oh! Mi perdoni di averla disturbata.

Esclamo, rendendomi conto che probabilmente è appena uscito dalla doccia. Non avevo pensato che essendo andato a fare sport, probabilmente, avrebbe fatto una doccia poco dopo. Come ogni normale essere umano, ovviamente.

-Nessun problema, mi stavo solo asciugando. Aveva bisogno di qualcosa?

Risponde lui, passandosi una mano tra i capelli ancora bagnati, forse con l’intento di sistemarli.

-Io avrei portato dei biscotti.

Porgo in avanti il cestino con i biscotti, che l’avvocato subito scruta, interessato.

-Hanno un profumo davvero delizioso.

Commenta, prendendo il cestino.

-Andiamo dentro, va bene?

Chiede, indicandomi di entrare. Io inizialmente esito poi annuisco ed entro in casa.

-Permesso…

Chiedo. Subito l’avvocato chiude la porta alle mie spalle. Il mio cuore inizia a battere all’impazzata.

-Le dispiace se le chiedo di aspettarmi in salotto, mentre mi metto qualcosa di… presentabile?

Chiede indicando la sua tenuta decisamente molto “comoda”.

Annuisco, senza aprire bocca.

-Da questa parte, allora.

Mi indica di seguirlo. Mi conduce verso una stanza che  stilisticamente ricorda il salotto di casa mia. In effetti lo stile dell’intera casa è simile, devono essere state costruite nello stesso periodo.

L’avvocato appoggia il cestino di biscotti su un tavolino da caffè, davanti al grosso divano beige che fa da padrone nel salotto.

-Si sieda pure, arrivo subito.

Assecondo l’avvocato e mi siedo su quel divano beige, continuando però a scrutare con sospetto l’intera stanza. L’ambiente è pulito e ordinato e tutto l’arredamento è coordinato in modo perfetto. Lo stile lo definirei  georgiano, con qualche elemento più moderno come il divano scamosciato su cui sono seduta e chiaramente tutti gli apparecchi elettronici presenti nella stanza. Davanti a me noto subito un camino bianco, praticamente identico a quello di casa mia ma probabilmente non funzionante, dal momento che nel punto del focolare è posizionato un vaso con dei fiori secchi. Sopra il camino c’è un’imponente televisore a muro, quasi mostruoso per la sua grandezza.

Dopo aver constato di trovarmi in un ambiente decisamente curato e di classe, inizio a scrutare per trovare dettagli e particolari di natura personale, per scoprire qualcosa di più sull’avvocato, delle foto, magari. Tuttavia con mio disappunto non trovo nulla. Non noto inoltre nessun segno che potrebbe suggerire la presenza di una donna in casa, per cui continuo a pensare che abiti solo. Probabilmente l’intero ammobilio deve essere stato lasciato dal precedente inquilino poiché non ricordo di aver visto nessun furgoncino dei trasporti davanti alla casa. Non ritengo possibile che in due giorni sia riuscito a sistemare e a portare tutti quei mobili in questa casa, senza essere notato.

D’accordo, non trascorro generalmente molto tempo a casa eppure sono rincasata presto nei pomeriggi precedenti e non una volta ho visto qualcuno introdurre qualcosa in questa casa. Il pensiero stesso mi inquieta, mi chiedo come sia possibile che una persona che si trasferisca in una casa nuova non abbia oggetti personali da portare con sé. Una casa asettica e priva di tocco personale decisamente non fa per me. Forse perché la mia casa è una casa di famiglia e ogni mobile, quadro, segno sul muro o graffio sul parquet porta con sé una sua personalissima storia. Come i segni sullo stipite della porta in lavanderia, le mie misurazioni di altezza dai quattro ai diciassette anni (quando ho smesso di crescere, con mio gran disappunto) oppure quella chiazza scura del parquet in camera mia, quella volta nella quale mi cadde un’intera boccetta di smalto sul pavimento e tentai di toglierla con un intero flacone di solvente, peggiorando la situazione.

La casa in cui mi trovo ora non mi trasmette assolutamente nulla. Quasi non fosse mai stata abitata, quasi i precedenti inquilini fossero solo di passaggio, fermatisi in tempi così brevi da non lasciarsi alle spalle neanche un briciolo di storia.

-Mi scusi se l’ho fatta aspettare.

Esclama l’avvocato, apparendo sulla porta del salone. I capelli ora sono quasi asciutti e indossa un paio di jeans scuri e una maglietta verde, a maniche corte.

 -Immagino che i biscotti siano deliziosi. Con cosa gradirebbe accompagnarli? Del the, magari?

Il modo di parlare dell’uomo che mi trovo davanti è alquanto singolare. È vestito da ragazzo e credo, a giudicare dall’aspetto, che non abbia più trent’anni eppure ha una parlata d’altri tempi, quasi avesse frequentato una scuola privata o un corso di buone maniere. Anche il suo accento è decisamente insolito, non è americano, questo è certo.

-Va bene anche dell’acqua, non si disturbi.

Rispondo io.

-Dell’acqua? Ne è sicura?

Annuisco. L’avvocato sparisce per qualche minuto e riappare poco dopo con una bottiglia d’acqua sottobraccio e un paio di bicchieri di cristallo in mano. I bicchieri sembrano essere molto antichi e preziosi, nella parte inferiore hanno un decoro trapuntato in rilievo.

-Non ho mai usato questi bicchieri, ne vuole degli altri?

Commenta, versando l’acqua. Sobbalzo, sorpresa e quasi preoccupata da come sia stato in grado di decifrare il mio sguardo.

-No, sono molto belli. Forse troppo belli, per l’occasione. È a questo che stavo pensando…

L’avvocato sorride. Ha un sorriso davvero particolare, ogni volta che inarca le labbra una piccola fossetta piuttosto profonda compare su entrambe le guance. Prende un biscotto e poi si siede alla mia destra, su una poltrona, probabilmente appartenente allo stesso set del divano.

-Sono appena stati sfornati.

Commento, ancor prima che assaggi. L’avvocato annuisce e dà subito un morso al biscotto. Lo osservo mentre mastica, in modo lento, quasi stia cercando di assaporare o ancor più di capire quali siano gli ingredienti.

-I miei complimenti, sono davvero deliziosi!

Arrossisco quasi, dopodiché prendo anche io un biscotto. Nonostante li abbia cucinati non ne ho ancora provato uno, se non altro per sapere se il complimento dell’avvocato sia semplice gentilezza.

-Grazie. Non sono esattamente tra i miei migliori ma… sono gustosi.

Commento con modestia, dopo aver assaggiato un biscotto.

-È stata davvero gentile ad offrirmeli, non avrebbe dovuto disturbarsi.

Esclama, con tono quasi serio.

-Oh… nessun disturbo! Volevo scusarmi per essere stata maleducata, ultimamente.

Rispondo, in tutta sincerità. L’avvocato aggrotta la fronte.

-Siamo vicini di casa e ancora non ho trovato un momento per presentarci, in maniera adeguata.

Spiego, poi.

L’avvocato si sporge verso il tavolino e afferra un altro biscotto.

-In tutta onestà l’ho vista molto fredda nei miei confronti, signorina.

Rimango a bocca aperta. Non posso negare ciò che ha appena detto, eppure non riesco a credere di averlo dato a vedere in modo così evidente.

-Non era mia intenzion. Se le è sembrato così le chiedo perdono.

Ribatto, con tono quasi timoroso. L’avvocato termina il biscotto che ha in mano e beve un sorso d’acqua, prima di rispondere.

-No intendevo rimproverarla. Posso ben comprendere la sua diffidenza.

Lo osservo, quasi intimorita. Il suo sguardo è serio, quasi cupo. I suoi occhi di ghiaccio sembrano ancora più rigidi.

-Mi sono trasferito in questa casa praticamente di notte. Non conosco nessuno nel quartiere né in città. La gente dei paesini lungo la costa, come questo, mormora. Se non c’è materiale su cui basarsi sorgono i sospetti.

Il discorso dell’avvocato non fa che alimentare i miei timori nei suoi confronti. Il suo tono è decisamente troppo serio. Benché mi abbia detto che il suo non è un rimprovero, stento a crederlo. Ancora una volta vorrei alzarmi e scappare via ma allo stesso tempo sento come se fossi incapace di farlo.

-È buona cosa smentirli questi sospetti, se non si ha nulla da nascondere.

Ribatto, sfoderando un inaspettato coraggio. Stento a credere che quelle parole siano uscite dalla mia bocca.

-Certamente.

Risponde lui, abbozzando un mezzo sorriso.

-Mia nonna mi ha insegnato che c’è sempre un fondo di verità, anche nelle malelingue. Non che ne abbia sentite su di lei.

Proseguo. Improvvisamente ho una gran voglia di vederci chiaro in tutta la faccenda. L’avvocato pare quasi stupito dalla mia intraprendenza. Sicuramente si era fatto un’idea sbagliata su di me, vedendomi il più delle volte impacciata e silenziosa.

-Sua nonna?

Si limita a chiedere, ignorando completamente la mia provocazione.

-Sì, è lei che mi ha cresciuta.

Rispondo, con fierezza.

-Le ha insegnato lei a fare i biscotti? 

Chiede, prendendone un altro.

-Veramente sì. Come lo sa?

Domando. In questo caso sorpresa della sua supposizione.

-Non lo sapevo, ho tirato ad indovinare.

Spiega, di nuovo sorridendo. Un sorriso strano, che difficilmente riesco a decifrare. Per qualche istante regna il silenzio poi, l’avvocato, inizia a canticchiare, sottovoce. Una melodia che mi sembra di ricordare, che conosco.

Mi blocco. Non è possibile, non può esserlo.

-Qualcosa non va’?

Chiede l’avvocato, interrompendosi. Io rimango paralizzata.

-La canzone…

Riesco solo a commentare. Improvvisamente il mio cuore inizia a battere sempre più forte, quasi togliendomi il respiro. Si tratta della stessa canzone che canticchiava mia nonna cucinando i biscotti, una canzone vecchia e nemmeno americana. Non riesco a credere che possa conoscerla.

-Mi perdoni. Mi capita spesso di canticchiare.

Il desiderio di scappare in questo momento aumenta. Inizio seriamente a guardare la porta del salone e l’ingresso.  Mi alzo dal divano, cercando di nascondere la mia paura.

-Credo… di dover tornare a casa! Mi ha fatto piacere questa chiacchierata.

L’avvocato si alza a sua volta.

-L’ho in qualche modo infastidita? Mi perdoni, mi capita spesso di canticchiare in solitudine. Non sono abituato alla compagnia.

Scuoto il capo, cercando di uscire da quella casa al più presto possibile.

-Oh, no. Non c’è nessun problema. Semplicemente ho delle cose da fare a casa e…

L’avvocato mi afferra un braccio e mi blocco. Mi osserva con quei suoi occhi di vetro. Questa volta però non avverto nessun brivido, nessuna sensazione spiacevole, tuttavia non riesco a muovermi. Nella mia mente vorrei dimenarmi e scappare via, correre. Eppure mi fermo, rimango immobile e per un breve istante le mie paure si mitigano, il mio sconcerto sparisce.

-Mi perdoni, Jennifer, non volevo.

Annuisco.

-Va bene.

Rispondo, quasi automatica. Dopodiché mi libera il braccio e mi permette di tornare a casa. Attraverso la strada in piena tranquillità. Tutta l’agitazione e la preoccupazione che fino a poco prima avevano regnato su di me sono come sparite. Entro in casa, chiudo la porta ma vengo colta da uno strano malessere. La mia vista inizia ad appannarsi e una potentissima ventata di caldo parte dal mio petto fino ad arrivarmi alla testa.

Riesco a stento a raggiungere il divano in salotto, poiché le mie gambe cedono. Faccio un respiro profondo, tentando di calmarmi ma non riesco. Non appena la mia vista inizia a migliorare mi allungo in direzione del tavolino accanto al divano, dove è posizionato il telefono cordless. Senza pensarci troppo compongo il numero di telefono di Ellie.

Suona.

Suona di nuovo.

“Ti prego Ellie, rispondi.”

Penso. Ogni squillo a vuoto è come uno spillo, conficcato nel mio cuore.

-Pronto?

-Ellie, sono io.

-Jen! Dimmi.

-Io… credo di non sentirmi affatto bene.

-Che è successo?

-Non lo so, io…

 

Non so rispondere, per fortuna Ellie mi precede.

-Arrivo subito. Mi spiegherai quando sarò lì, non muoverti.  


-- Inizio ringraziando Iwannagofast, mi fa piacere che tu ritenga la storia molto bella. Come tu stessa hai detto ci tengo molto e credo che pian piano diventi sempre più interessante e movimentata, ovviamente sono di parte :P

Come ho annunciato pubblicherò ogni giorno eccetto la domenica (e giorni in cui sarò fuori casa, che comunicherò in seguito) tra le 14 e le 14.30

Devo però fare un'eccezione per DOMANI, pubblicherò o attorno alle 13 o dopo le 17. Quindi se non volete farvi scappare il nuovo capitolo, aggiungetela nelle "storie seguite" oppure se non avete un account o non volete farmi sapere del vostro passaggio, mettetela nei preferiti del vostro browser.

Come al solito vi invito a lasciarmi correzioni/impressioni/pareri e vi saluto.

Alla prossima! ---

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Capitolo 10
*** Capitolo Decimo ***


Capitolo 10

 

-Jen sto entrando, c’è anche Adam.

Esclama Ellie, aprendo la porta d’ingresso.

-Si, venite. Sono in salotto.

Rispondo, cercando anche di darmi una sistemata, per quanto sia possibile. Ellie e Adam entrano immediatamente nel salone. Ellie si precipita sul divano, al mio fianco.

-Che cosa ti è successo?

Chiede, con aria preoccupata. Probabilmente erano entrambi in casa perché Ellie indossa un paio di pantaloni della tuta e una maglietta semplice, così come Adam.

-Non lo so, sono stata dal vicino e…

Ellie spalanca gli occhi.

-Dell’avvocato intendi?

Adam ha un’espressione confusa sul viso, probabilmente Ellie non gli ha detto nulla circa dove abita.

-Abita qui di fronte.

Spiego.

Adam sembra molto sorpreso ma al tempo stesso preoccupato. Si siede sulla punta del tavolino da caffè, di fronte a me, azione chi gli causa un immediato rimprovero da parte di Ellie.

-Adam! Esistono i divani!

Lui tuttavia, dopo averla guardata storto, torna a rivolgere la sua attenzione verso di me. In questo momento inizio a sentirmi meglio, ho recuperato quasi totalmente la vista salvo un leggero offuscamento, anche i giramenti di testa sembrano essersene definitivamente andati.

-Come ti senti adesso?

Chiede Ellie, accarezzandomi un braccio in modo affettuoso.

-Bene. Decisamente meglio. Scusatemi se vi ho disturbato ma ho creduto seriamente di non farcela. So che può sembrare esagerato, eppure…

Mi scuso, sentendomi un po’ in colpa per averli praticamente costretti a venire da me. Non è colpa loro se abito sola, se non ho un fidanzato o altri amici al di fuori di loro. Avrei dovuto cavarmela da sola, nel peggiore dei casi avrei potuto chiamare un medico. Dovrei seriamente imparare a cavarmela per conto mio, senza dipendere da nessuno, iniziandomi ad arrendermi all’idea che quella di rimanere da sola potrebbe essere una delle mie opzioni future.

-Figurati, stavamo solo andando a fare jogging! 

Commenta Adam, regalandomi uno dei suoi sguardi teneri.

-Piuttosto, hai detto di essere andata a casa dell’avvocato, perché?

Chiede Ellie, in tono serio.

-Ti ho già parlato dei miei sospetti, probabilmente infondati, su di lui.

Ellie annuisce e mi fa cenno di proseguire.

-L’ho sempre evitato, tutte le volte che mi è capitato di vederlo davanti casa sua o nel suo giardino. Stamattina in modo particolarmente brusco, oltretutto. Ragion per cui ho deciso di porgergli un’offerta di pace, portandogli qualche biscotto.

Rispondo, cercando di far sembrare il mio discorso meno sciocco possibile. Mi rendo conto, spiegandomi, che tutto ciò che ho fatto è stato estremamente infantile. Insomma, sono entrata in casa di un perfetto sconosciuto sul quale già nutrivo non pochi sospetti e non contenta ho deciso di portargli dei biscotti e di fermarmi a consumarli, con lui. Avrei potuto semplicemente lasciarglieli e andare via, sarebbe stato comunque un gesto cortese. Probabilmente il mio agire è stato dettato da quel dualismo di emozioni che provo verso quella persona. Tutt’ora mentre parlo con Ellie e Adam di quello che mi è successo cerco di pesare le parole, tentando di non farlo sembrare un personaggio ambiguo o peggio pericoloso.

-Ti ha fatto entrare? Ti ha offerto qualcosa?

Chiede Adam, facendosi più serio. I due si osservano, quasi complicità. Ellie ad un certo punto annuisce, facendo apparire un'espressione dura sul viso di Adam.

-Non ti avrà drogata, spero?

Chiede infine, esponendo quelli che probabilmente sono i sospetti condivisi da entrambi dal momento che Ellie non lo smentisce, continuando a guardarmi con apprensione. Io ovviamente nego. Non credo di essere stata drogata, l’avvocato mi ha offerto della semplice acqua, versata da una bottiglia sigillata. Inoltre ho bevuto giusto un sorso.

-No, davvero. Non credo sia nulla di tutto questo, tranquilli.

Adam rimane in silenzio e si mette a fissare il pavimento per qualche istante.

-Ti ha per caso minacciata? Ha detto qualcosa di strano?

Prosegue Ellie. Io scuoto il capo.

-Non mi ha minacciata, però…

Mi soffermo a pensare alla piccola discussione avuta con lui. Mi ricordo di essermi spaventata per qualcosa che ha detto ma esattamente non riesco a ricordarmi che cosa fosse. Rimango in silenzio, con lo sguardo fisso nel vuoto cercando di pensare a ciò che la mia mente vorrebbe dire, probabilmente per troppo tempo perché Ellie mi tocca una spalla, scuotendomi.

-Cosa? Cosa c’è?

Mi chiede. Il suo tono di voce ha delle note cariche di terrore. Nel frattempo Adam si è alzato. Si trova davanti alla finestra, probabilmente sta cercando di scorgere il mio vicino al di là della strada.

-Non mi ricordo. Davvero, non ne ho memoria. Credo abbia detto qualcosa, un particolare che non avrebbe dovuto sapere.

Adam si gira di scatto verso di me ed Ellie mostra un’espressione tutt’al più confusa.

-Non credo fosse nulla di grave o di serio. Forse un nome o un dato. Davvero, per quanto mi sforzi non me lo ricord, non deve essere importante.

Ellie fa un sospiro lungo, quasi sconfortato. Io le prendo le mani e le sorrido.

-Siete stati entrambi davvero carini ad essere venuti qui. Grazie davvero ma ora potete andare, sto bene.

Ellie scuote il capo.

-No, almeno stanotte non ti lasciamo.

Commenta Adam, ricevendo l’approvazione di Ellie, che subito aggiunge qualcosa.

-Sì, dormirò con te. Adam potrà sistemarsi sul divano.

Quest’ultimo annuisce. Io rimango spiazzata. Da un lato non penso che la faccenda sia così seria da dover necessitare di essere tenuta sotto controllo, dall’altro sono quasi imbarazzata dalla gentilezza e la disponibilità di Adam ed Ellie.

-Tranquilli, starò bene. Magari è stato solo un calo di zuccheri, mangerò qualche biscotto per rimediare.

 

Dopo un paio d’ore Adam ed Ellie tornano a casa, dopo aver tentato di convincermi a farli restare almeno una decina di volte. Cerco di mostrare, anche e forse soprattutto a me stessa, di stare bene. Probabilmente ciò che ho detto ad Ellie ed Adam è vero, potrebbe essersi trattato di un malore passeggero. Ad ogni modo, per precauzione, chiudo con ben due mandate la porta di casa e per le restanti ore del giorno non oso mettere piede in giardino.

Decido di passare la giornata all’insegna delle cure di bellezza. Mi piace molto prendermi cura del mio viso e del mio corpo, tuttavia il più delle volte non ho tempo, principalmente per gli impegni lavorativi che figurano oltre al lavoro d’ufficio anche le udienze in tribunale e i colloqui personali con i miei assistiti. Mi osservo le mani e noto che il mio smalto rosso, applicato poco più di una settimana fa, inizia a sbeccarsi sulle punte delle dita, ragion per cui la prima coccola che mi concederò sarà la manicure.

Dopo aver attentamente limato le unghie, rimosso le cuticole e lucidato la superfice ungueale alla perfezione, rimango qualche minuto incantata davanti al cestino contenente i miei smalti, indecisa su quale colore applicare. Avrò all’incirca una cinquantina di smalti e mi rendo perfettamente conto che a una persona normale, per quanto amante delle mani curate, ne basterebbero anche poco meno della metà. Tante boccette di smalto sono praticamente identiche, variano di una sola sfumatura, che risulta visibile attraverso il vetro del flacone ma assolutamente insignificante una volta stesa sull’unghia. Inizialmente decido di applicare di nuovo lo smalto rosso, salvo poi pensare di averlo già messo almeno per tre settimane di fila nell’ultimo periodo. A cosa serve avere più smalti di un centro estetico, se poi applico sempre il medesimo colore? Inizio applicando la base trasparente, per temporeggiare.

Pur scegliendo, alla fine, di utilizzare un lilla rimango indecisa fino all’ultimo per il rosso. Il rosso è decisamente il colore più comune per la manicure, nonché quello classico utilizzato da buona parte delle donne. Per me ha anche un significato speciale, poiché mi riporta alla mente uno dei pochi ricordi legati a mia madre.  

Non penso quasi mai a mia madre. Sembra qualcosa di davvero terribile e sconveniente da dire ma avendo passato così poco tempo con lei, con gli anni ho iniziato a considerarla una zia più di una mamma. Credo di aver versato molte più lacrime al funerale di nonna Angela, rispetto a quando la polizia si è presentata davanti alla porta di casa, comunicando la triste notizia che i miei genitori da quel momento in poi sarebbero stati considerati dispersi. Ad ogni modo lo smalto rosso è uno dei pochi particolari che ricordo di lei. Non le assomiglio particolarmente, mia madre aveva capelli e occhi scuri, come mio nonno. Non assomiglio neanche a mio padre, a dir la verità. Ricordo, guardando le foto di mia nonna da giovane, di essermi ritenuta molto più simile a lei fisicamente, benché gli occhi di mia nonna fossero color del cielo e i miei nocciola o verde scuro, come lei insisteva descriverli.  

Ripongo lo smalto rosso nel contenitore, soffermandomi a guardare la boccetta. Ho iniziato da bambina a dipingermi le unghie di questo colore, forse proprio per emulare in qualche modo mia madre.

Dopo aver dipinto le unghie preparo una maschera per nutrire i capelli a base di miele e yogurt greco e, subito dopo, ne applico una alla menta sul viso. In questo modo la giornata scorre veloce, al punto di arrivare all’orario di cena, senza che me ne accorga. Credo che se Hiram non avesse iniziato a strusciarsi contro le mie gambe e miagolare, implorandomi praticamente di dargli del cibo, mi sarei dimenticata di cenare io stessa.

 

Dopo cena ricevo una telefonata da parte di Ellie, per accertarsi che stia bene e che non mi sia successo nient’altro nel frattempo. Non conoscevo questo lato così materno e apprensivo di Ellie, non me lo sarei aspettato da lei. Forse la sua relazione con Adam l’ha responsabilizzata rispetto ai primi periodi nei quali era tutta locali, discoteche e null’altro. Terminata la telefonata con Ellie, durata all’incirca mezz’ora, decido di prepararmi per andare a letto. I miei timori di dover passare una notte insonne sono molti ,decido quindi di prepararmi una bella tisana per calmare in nervi e la mente.

Non so se sia merito dell’effetto placebo o se effettivamente i miei nervi si siano calmati, tuttavia dopo aver bevuto una tazza intera di tisana alla valeriana mi sento immediatamente meglio. Mi metto a letto e giusto il tempo di dare una carezza al gatto e spegnere la luce che i miei occhi si chiudono e cado in un sonno profondo.

Inizio a sognare.

Mi ritrovo nella stessa stanza nella quale sono ora ma sembra diversa. A giudicare dalla carta da parati rosa e dai pupazzi della Disney sul letto riconosco l’arredamento che avevo da bambina. Alla mia destra non c’è ancora il vanity table dove ora tengo i miei trucchi, bensì una gigantesca casetta rosa e lilla di Barbie a forma di castello, in compagnia della quale ho passato buona parte dei pomeriggi della mia infanzia. Proprio là nell’angolo mi rivedo, da bambina: capelli più chiari, sciolti e spettinati, vestitino a quadretti rosa e un peluche tra le mani, un cagnolino. Non si tratta di un semplice cagnolino, bensì del pupazzo che porto con me sino dalla culla e che ancora a quasi trent’anni conservo gelosamente sul mio comodino, anche se gli anni l’hanno ridotto ad uno straccio.

“Amico” è il nome del mio pupazzo, l’ho chiamato io stessa da bambina in questo modo e per anni, purtroppo, è rimasto l’unico amico che avessi al mondo. Per me è sempre stato difficile stringere amicizia e soprattutto portare avanti delle amicizie per lungo tempo. Questo probabilmente per la mia situazione familiare particolare e perché essendo le disponibilità finanziarie scarse, non ho mai potuto avere tutto quello che le altre bambine mie coetanee avevano, benché mia nonna avesse fatto il possibile per non farmi mancare nulla.

La scena che mi trovo ad osservare dall’alto, come se fossi un fantasma o comunque un’entità invisibile, mi ricorda qualcosa. Certo, buona parte dei miei pomeriggi li trascorrevo in camera, con i miei giocattoli e la mia spropositata fantasia eppure mi sembra di averla vissuta quella particolare scena. La piccola Jenny si alza di scatto dopo qualche minuto, senza però abbandonare Amico, tenuto stretto vicino al cuore. Si è spaventata perché ha sentito la nonna alzare la voce in sala, probabilmente con il nonno, anche se a giudicare dall’età di Jenny, il nonno dovrebbe potrebbe già essere venuto a mancare.

La piccola Jenny apre piano piano la porta, in modo da lasciarne aperto uno spiraglio solamente. Si siede sul pavimento e tiene l’orecchio testo contro lo stipite, per cercare di origliare. Ha quasi paura a respirare, per il timore di essere sentita e probabilmente sgridata.

-Non puoi fare questo, non a Jenny!

Anche se così lontana, così confusa e disturbata, è la voce della nonna. La piccola Jenny sussulta, quando sente pronunciare con chiarezza il suo o meglio il nostro nome.

-Non l’avevo previsto ma non posso evitarlo.

Questa è la risposta dell’altra voce, una voce probabilmente maschile che non mi sembra di riconoscere.

-Devi! Non farle quello che hai fatto a me, ti prego! Lei non se lo merita. Non la mia piccola Jenny! Ne ha già passate tante, troppe.

La voce della nonna diventa sempre più acuta e quasi dolorosa da sentire. La piccola Jenny smette di ascoltare, stringe ancora più forte il suo pupazzo e nasconde il viso tra le ginocchia, in procinto di piangere. Dopo qualche istante la porta accanto a lei si apre. Una mano grande, una mano maschile troppo giovane per appartenere al nonno e troppo dolce per appartenere a papà, che per anni ho creduto avesse sviluppato un’allergia nei miei confronti, non avendomi mai fatto una carezza, si posa sulla testolina delicata della piccola Jenny, che subito alza lo sguardo. Questa persona, quest’uomo, si inginocchia davanti alla bambina e le prende il viso tra le mani. La piccola Jenny lo guarda e lui le sorride.

-Perdonami Jenny, non vorrei.

D’un colpo la figura oscura assume un’identità, un volto e un nome.

Il sogno si tramuta in incubo e mi sveglio di soprassalto, mettendomi a sedere, con la rapidità di una molla.

-Hiram O’Dowell.

Bisbiglio, con il fiato corto e il cuore che batte all’impazzata.

 

-- Pubblicato al volo. Spero sia piaciuto, ringrazio alberodellefarfalle per la recensione.

Come sempre aspetto pareri.

Buona Domenica a tutti, a presto! --- 

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Capitolo 11
*** Capitolo Undicesimo ***


Capitolo 11

 

Il giorno fissato per l’udienza definitiva arriva piuttosto velocemente, nonostante abbia trascorso buona parte delle notti precedenti insonne. Dopo quell’incubo del quale non sono in grado di darmi una spiegazione, anche il sol pensiero di sdraiarmi e chiudere gli occhi mi provoca seri attacchi di panico.

Non ho voluto parlare con nessuno del sogno, né delle mie paure e le volte nelle quali Ellie mi ha fatto domande o mi ha chiesto se tutto si fosse risolto e se tutto andasse bene, ho sempre risposto in maniera positiva, sforzandomi il più possibile per sembrare sincera e rilassata. Si è trattata comunque di un’impresa dura dal momento che le grosse occhiaie sotto i miei occhi, malamente celate con strati sempre più spessi di correttore, parlano da sole.

Mi trovo già in tribunale, sono arrivata per prima e subito dopo mi ha raggiunta Andrew. Lo vedo molto tranquillo e sorridente, non so se questo sia da attribuirsi alle sue sicurezze circa il caso Goldman oppure per qualcosa di piacevole accadutogli di recente. Cercando di pensare il meno possibile alle mie ansie, decido di fare un po’ di conversazione con lui. Durante il weekend, chiaramente, non ci siamo visti e ieri è stato tutto il tempo al telefono.

-Ti vedo parecchio tranquillo, Andrew.

Esordisco, attirando la sua attenzione. Siamo seduti su una panchina all’interno del tribunale, appena fuori dall’aula nella quale si terrà a breve l’udienza, Margareth dovrebbe arrivare tra circa una decina di minuti.

-Sì! Sono felice perché finalmente potremmo archiviare tutto quanto e dedicarci ad altro!

Esclama, in maniera sincera.

-Quindi non hai neanche un piccolo dubbio, questa volta?

Chiedo, decisamente sorpresa dalla sua tranquillità. Generalmente  in modo nervoso avanti e indietro, fissando ogni orologio presente nella stanza. Questo rito l’ha applicato anche in casi sui quali eravamo praticamente certi di avere la meglio. Per questo motivo mi sorprende non notare neanche un briciolo di preoccupazione nei suoi gesti o sul suo viso.

-Quindi sei così rilassato soltanto per il processo?

Credo mi ritenga eccessivamente insistente, dal momento che mi rivolge un’occhiata di sconcerto.

-Ma certo! Tu hai qualche dubbio?

Scuoto il capo. I miei dubbi sono perlopiù relativi all’identità e alla personalità dell’avvocato. Ovviamente non posso parlare con Andrew, dovrei mettermi a spiegargli ogni cosa e non sono certa che il nostro livello di conoscenza gli permetterebbe di capirmi, come invece potrebbero fare Ellie e Adam.

-No. Solo tu sei sempre così agitato e preoccupato. Mi fa piacere vedere e sapere che stai bene, per una volta!

Il nostro discorso viene interrotto da Margareth, che finalmente ci raggiunge. Oggi è un forma a dir poco splendida. I suoi capelli sono raccolti in una coda molto elegante, il trucco sul suo viso è leggero e impeccabile e indossa un tailleur color rosa antico che le conferisce oltre ad un’innata eleganza anche un certo senso di rispettabilità.

-Margareth, stai benissimo!

Esclamo, alzandomi a salutarla. Le stringo la mano e le do un affettuoso buffetto sulla spalla, lei mi sorride. Anche il suo viso è riposato e sereno.

-Siamo pronti?

Chiede Andrew, avvicinandosi anche lui a salutare Margareth. Dopodiché entriamo definitivamente nella sala. Essendo il nostro  un processo che tratterà di affido non ci sono spettatori, gli unici presenti siamo noi tre, il giudice, la dattilografa e l’opposizione composta da un avvocato e i suoceri della signora Goldman.

-Pensavo che l’avvocato fosse già arrivato.

Commenta Andrew, battendomi sul tempo. Non mi ero accorta della sua assenza e questo è un fatto che mi preoccupa parecchio. Riesco a scorgere anche sul viso di Margareth una nota di sconcerto, immediatamente mi avvicino a lei, cercando di rassicurarla.

-Sarà bloccato nel traffico, tranquilla.

Le dico, benché io stessa sia ben poco tranquilla. Quell’uomo non mi piace e mi spaventa, tuttavia non credo sarebbe mai capace di fare una cosa tanto meschina come non presentarsi ad un’udienza, non dopo le belle parole e i sorrisi rassicuranti che aveva elargito a tutti quanti noi. Continuo a fissare la porta, già chiusa da una delle guardie giurate,  augurandomi che si apra da un momento all’altro. Andrew nel frattempo sta parlando con il giudice, un uomo piuttosto in là con gli anni, con il quale non abbiamo mai avuto modo di lavorare e che quindi non conosciamo sotto il punto di vista operativo.

Mi accorgo che i suoceri della signora Goldman sono parecchio agitati. Bisbigliano qualcosa con il loro avvocato e, dal momento che il loro sguardo e fisso sulla porta d’ingresso, sono certa che si stiano lamentando dell’assenza del nostro avvocato. Non sapendo cosa fare invito Margareth a sedersi, poiché al momento è ancora in piedi, quasi pietrificata ai lati della panca destinata a noi.

Mentre Margareth si siede sento dei passi provenire dal corridoio, passi veloci. Poco dopo ecco la porta del tribunale aprirsi e l’avvocato O’Dowell entra, quasi correndo, in direzione di Andrew, sventolando la sua valigetta.

-Perdonatemi il ritardo. Immagino conosciate le condizioni del traffico a mezzogiorno. Possiamo iniziare?

Chiede, questa volta rivolgendosi al giudice che gli fa cenno di sì col capo.

-Signora Goldman, mi auguro che non abbia temuto il peggio.

Esclama, appoggiandole una mano sulla spalla. Quest’ultima gli sorride, senza però dire nulla. Per quanto riguarda me avrei voluto continuare a guardare in avanti, fingendo che quell’uomo non fosse mai entrato tuttavia, come temevo, è lui stesso a rivolgermi la parola. Per non destare sospetti devo, obbligatoriamente, prestargli attenzione.

-Buongiorno signorina Ricci.

Mi porge la mano, che stringo fugacemente. Dopo aver ritratto la mia mano mi blocco. A differenza delle volte precedenti le sue dita sono fredde, quasi ghiacciate. Il palmo della mano è piuttosto caldo, mentre le dita sembrano due pezzi di ghiaccio.

Mi chiedo se fuori faccia già veramente così freddo, da sentirlo sulla pelle. Purtroppo le temperature si sono abbassate ma comunque si tratta di una giornata di fine estate. Il mio abbigliamento è leggero, benché abbia preferito indossare una camicetta con la manica lunga, più  per decoro a dire la verità. Inizio a pensare che magari semplicemente si senta poco bene, ragion per cui è arrivato in tribunale in ritardo, nonostante abbia attribuito la colpa al traffico.

Ad ogni modo l’udienza inizia nel giro di pochi istanti. Il giudice fa una specie di riassunto del caso, quasi stesse introducendo la nuova puntata di un telefilm. Subito dopo intervengono gli avvocati, il primo a parlare è quello dei suoceri della signora Goldman, successivamente il turno passa a noi. Mi fermo ad osservare l’avvocato, per l’ennesima volta. È vestito di blu. Un completo blu scuro e una camicia azzurra, che risalta in modo perfetto il coloro dei suoi occhi, nonché il riflesso dei suoi capelli.

Scuoto il capo. Non riesco a capire come sia possibile che sia fisicamente attratta da lui, quasi dal punto di voler continuamente incontrare il suo sguardo e al tempo stesso esserne irrimediabilmente terrorizzata. Quest’uomo in un modo o nell’altro è entrato nella mia testa e non riesco a farlo uscire, in nessun modo. Il sogno terribile della notte precedente oltre ad avermi spaventata e sconvolta, mi ha lasciato un sacco di punti interrogativi in testa.

Mi è quasi sembrato che tutto il sogno fosse invece un ricordo. Mi ricordo di aver sentito mia nonna urlare, mi ricordo di essermi preoccupata per qualcosa che le avevo sentito dire eppure non saprei con esattezza ricordarne il momento né l’occasione e di certo la presenza dell’avvocato O’Dowell nel bel mezzo del sogno, non ha fatto che rendere l’intera situazione confusa e incerta. Mi è capitato altre volte di sognare qualcosa e pensare di avere vissuto determinate situazioni, quando invece tutto era il semplice frutto della mia fantasia o, come sarebbe più corretto dire, si è trattato di episodi di déjà-vu. Per quanto riguarda quest’ultimo mio sogno benché tutti i dettagli sembrino suggerirmi che si tratti di immaginazione, fervida immaginazione, non riesco ad esserne sicura.

Non riesco inoltre a ricordare il motivo che mi ha spinta a scappare dalla casa dell’avvocato, lo scorso sabato. Continuo a pensarci e sono sicura che sia stato per qualche parola di troppo. Ad ogni modo, col passare del giorno i ricordi si fanno sempre più offuscati, portandomi quasi a pensare di essermi inventata tutto quanto.

-…riteniamo quindi di affidare la custodia esclusiva alla signora Margareth Goldman. Il caso è chiuso.

I miei pensieri vengono interrotti dal verdetto del giudice, finalmente positivo. Immediatamente mi giro verso Margareth che nasconde il viso tra le mani, per l’emozione. Piange. Un pianto liberatorio, un pianto di gioia.

-Ce l’abbiamo fatta!

Esclamo, rivolgendomi verso di lei. Andrew tira un sospiro di sollievo e subito dopo stringe entusiasta la mano dell’avvocato.

-I miei complimenti, davvero!

Commenta, con un sorriso a dir poco travolgente. L’avvocato subito si gira verso di me, aspettandosi probabilmente qualche complimento. Mi limito a sorridere e annuire.

Usciti dallo studio mi fermo a salutare Margareth, mentre Andrew e l’avvocato rimangono in disparte.

-E così… è finita!

Esclama Margareth, probabilmente ancora incredula.

-Sì, ora puoi finalmente tornare a vivere Margareth.

Commento, genuinamente felice per l’epilogo positivo.

-Non so veramente cosa dire.

Margareth scuote il capo. Mi sembra quasi imbarazzata. Sicuramente dopo così tanti mesi di fatica e di disperazione si sentirà un po’ scossa e inizialmente incapace di agire.

-Non devi proprio dire nulla. Semplicemente sorridi, respira e corri subito ad abbracciare tuo figlio!

Margareth annuisce poi improvvisamente si avvicina di più a me, abbracciandomi.

-Grazie davvero, Jennifer. Sei stata un’amica, prima di tutto.

Il suo abbraccio mi ha colto di sorpresa.

-Non devi ringraziare me, solo te stessa e la tua forza!

Ribatto, un poco in imbarazzo per tanta gratitudine. Poco dopo Margareth scioglie l’abbraccio.

-Non esitare a chiamarmi per qualsiasi cosa tu abbia bisogno, Margareth. In bocca al lupo.

 

Poco dopo Margareth mi saluta e se ne va. Io dopo un sospiro di sollievo mi avvicino ad Andrew, che sta ancora parlando con l’avvocato.

-Oh Jen! Stavamo giusto parlando di te.

Esclama Andrew, non appena mi vede comparire.

-Di me?

Chiedo, in tono misto tra la preoccupazione e la sorpresa.

-Sì, l’avvocato mi ha chiesto se siamo disposti a collaborare con lui, nelle prossime occasioni.

Non so cosa ribattere, mi limito ad annuire.

-Andrew voleva sapere se anche a lei stava bene, signorina Ricci.

“Andrew”. Storco il naso per l’inaspettata confidenza instauratasi tra il mio capo e l’avvocato. Nonostante io ci abbia lavorato per mesi fianco a fianco c’è voluto parecchio tempo prima che mi chiedesse di abbattere ogni formalità e di chiamarlo per nome. Mi meraviglio di come Andrew si sia avvicinato in fretta a quell’uomo. Generalmente è un tipo piuttosto riservato e serioso.

-Non sono io la proprietaria della Greene Social. Quello che va bene ad Andrew, va bene a me.

Rispondo, mettendo particolare enfasi sulla parola “Andrew”.

-Non essere così modesta Jen, lo sai che per me la tua opinione è importante.

Ribatte Andrew, appoggiandomi una mano sulla spalla.

-Avremo modo di riparlarne.

Conclude l’avvocato, probabilmente accortosi della mia indifferenza.

-Sicuramente! A questo proposito, sempre se tu sei d’accordo Jen, vorrei invitarti alla nostra cena di festeggiamento.

La cena di festeggiamento è generalmente una cena che teniamo noi dello studio dopo la riuscita di casi particolarmente complessi, come quello di Margareth, appunto. Benché si tratti di una tradizione, fino a questo momento non era ancora stata nominata, né ne sono state decisi i particolari. Tuttavia, ultimamente, la festa è stata organizzata a casa mia. Io stessa mi sono offerta nelle ultime occasioni di cucinare per tutti quanti, essendo appunto la cucina una delle mie grandi passioni.

-Oh, ne sarei davvero onorato.

Mi rendo conto solo in questo momento che ciò che Andrew mi chiede è di invitare a casa mia anche l’avvocato. Vista la mia diffidenza nei suoi confronti esito a rispondere. L’idea che possa entrare in casa mia, francamente, non mi alletta.

-Non vorrei essere maleducato Jen, te lo chiedo perché negli ultimi due anni sei stata tu ad ospitarci e cucinare per tutti noi. Se ti dà problemi questa cosa possiamo andare al ristorante, come eravamo soliti fare.

Scuoto il capo.

-Ma no Andrew, non è giusto che tu ci inviti e offra a tutti quanti, sai come la penso!

Ribatto.

-Sei sempre troppo gentile e forse me ne approfitto, perdonami.

Mi rendo conto di dover accettare. Tuttavia prima che possa aprire bocca interviene l’avvocato.

-Potremmo tenerla a casa la mia cena.

Io e Andrew lo guardiamo, stupiti.

-Io e la signorina Ricci abitiamo a due passi. Può cucinare a casa sua se lo preferisce e poi portare tutto quanto da me, se lo desidera.

Andrew prima di rispondere all’avvocato mi guarda, in attesa della mia approvazione.

-Va bene.

Mi limito a dire, senza mostrare particolare entusiasmo. Dopodiché l’avvocato ci saluta e se ne va, lasciandoci soli.

-Sei sempre un tesoro.

Commenta Andrew, rompendo immediatamente il silenzio creatisi tra di noi negli ultimi istanti.

-Figurati, per così poco.

Rispondo, benché tutta l’intera faccenda mi soddisfi poco, anche con l’opzione suggerita dall’avvocato.

-Ah, naturalmente non mi sono dimenticato della cena che ti ho offerto. Ne parleremo nei prossimi giorni, promesso!



--- Eccomi tornata con il capitolo nuovo. Spero vi piaccia, questa volta si tratta di una capitolo di "transizione". Il prossimo sarà più movimentato, ve lo prometto. Vi avviso però che probabilmente domani pubblicherò tra le 14.30 e le 15.  Aspetto come sempre i vostri commenti e... alla prossima! --


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