ماء - Acqua.

di Fuecchan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. More than a slave ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


ماء
- Acqua -
Prologo.

Questa storia comincerà come una favola.
Una magnifica favola da “Mille ed una notte”.

Ma tutto ha, tranne che l’aria fiabesca. Quell’aria che sin da bambini ci trasmettono i nostri genitori. La magia, le storie d’amore, le ingiustizie vinte dai nostri eroi dell’infanzia, con cui sognavamo di scappare ed intraprendere mille avventure. Dove salvare popoli, scoprire tesori era all’ordine del giorno. Tutto era magico, appunto. Persino le immense di sabbia arabiche non erano tanto spaventose, in queste fiabe. Niente faceva paura. Tutto aveva un lieto fine.

Niente di tutto questo.

Questa è la storia di un grande, temuto, crudele signore. Di un Paşa. O Pascià. Un Pascià dalle potenti doti militari, dal grande carisma, dalla bellezza sconvolgente a cui nessuna sua concubina sapeva effettivamente rispondere. Ma insieme a queste qualità, come ogni essere umano, si trovavano affiancati dei difetti. L’assoluta crudeltà. La freddezza. La smania di potete e del controllo. Tutto quello che aveva sotto il suo dominio non doveva MAI sfuggire ai suoi controlli, altrimenti avrebbe potuto anche sgozzare cento bambini, pur di farlo ritornare secondo i suoi desideri.

Questa è la mia storia.

Rin Matsuoka, il pascià della mitica città di Ubar.

L’aria arida del deserto del RubAl-Khali, mi ha sempre fatto sentire come se fossi l’unico ad avere la forza di controllare tutto quello che c’era al suo interno. Per un semplice motivo. Quando ero più piccolo mio padre mi aveva portato ad esplorarlo, passando per le immense regioni dell Uman e dello Yemen.

Avendo visto quello che c’era dopo, a questo immenso deserto, dove le uniche risorse idriche, ovviamente sono le oasi, mi sentii padrone del mondo. ERO il padrone del mondo. Il padrone di una magnifica città fiorente per i suoi commerci, una città che non aveva niente da invidiare da alcuna città mediorientale o europea quale fosse.

Ma una cosa, invidiavano alla mia bella Ubar.

L’acqua.

Quasi nessuna città, o carovana, riusciva ad avere l’acqua. Beh, ovviamente, era mia. Ero riuscito ad incanalarla in centinaia di canali idrici sotto la sabbia, non ritrovabili da coloro che vi passavano vicino, o che entravano nella mia città, la quale vantava fontane magnifiche, con leoni scolpiti sopra, e acqua fresca e limpida che sgorgava dai bocchettoni.

Ovviamente, di nuovo, ogni passante, pellegrino, o qual si voglia persona , donna bambino o anziano che aveva bisogno di beveraggio, era giustamente tassato.

Dovevo proteggere la mia acqua.

Ma un giorno, un funesto giorno, in cui le temperature sembravano essere talmente alte, che nemmeno gli immensi ventagli di foglie di palpa e di banano riuscivano a rinfrescarmi – ovviamente sventolati dalle mie bellissime e fedelissime compagne – alcuni miei soldati, catturarono un giovane ragazzo di una carovana nomade che si era fermata vicino alla città da qualche settimana.

Non avevo avuto problemi con quella tribù, sino a quanto non mi si presentò davanti la figura di una ragazzo vestito di abiti completamente zuppi di polvere ed altre porcherie. Beh, in confronto ai bellissimi abiti di lino e seta, adornati con fili d’oro che portavo io ogni giorno, di un colore rosso cremisi, il colore dei potenti, degli dei, non poteva di certo reggere il confronto.

Quando fu portato al mio cospetto, quel ragazzo, sembrava avere i capelli neri, gli occhi azzurri nascosti da veli bianchi macchiati dallo sporco e dalle tempeste di sabbia, non disse una parola. Per tutto il tempo rimase in silenzio. Odiavo questi topini di fogna che credevano di farla franca con me, il suo signore e padrone.

-Sentiamo, piccolo scarto della società  … Credevi seriamente di fregarmi tentando di rubare, a me, la mia acqua. Nessuno la fa franca contro di me, soprattutto voi piccolo pezzenti morti di fame…-

Sussurrai in modo malvagio, e non me ne pentii minimamente.

Ogni abuso, ogni infrazione doveva essere punita o con la pena capitale o con la schiavitù. E quel ragazzo, per il comportamento oltraggioso che stava avendo al mio regale e nobile cospetto, avrebbe dovuto meritar la pena capitale seduta stante. Non aveva nemmeno provato a supplicarmi, a pregarmi, di lasciarlo andare. Almeno, mi sarei ammansito, avrei potuto provare compassione, pietà, per un povero straccione come lui.

-L’acqua, non è solo sua, mio signore, ma è un bene di tutti, soprattutto di chi viaggia.-

Mi rispose in modo impassibile, il ragazzo di cui non conoscevo nemmeno il nome. Ma non che avesse grande importanza in quel momento, in cui era entrato ufficialmente nella mia lista nera per quella frase così patriottica. Dio. Odio i ratti di fogna come lui. Erano una specie particolarmente fastidiosa per il mio regime, non c’era che dire.

Sospirai.

-Oh beh, piccolo straccione impenitente, l’hai voluta tu. Scegli: o la schiavitù o la morte.-

 

Lo sharkando spazio dell’autrice.

Buona sera piccole sharkine mie, ecco che vi propongo qualcosa di DIFFERENTE, diciamo che è tutto nato da una role, ma quasi niente di quello che ho scritto corrisponde con quello che ho ruolato, che è nato con la mia Haruka . L’idea era: Ma una bella AU come tema l’ending di free? Ed eccola qui. Ovviamente RinHaru, perché le sharkando devono vincere ASSOLUTAMENTE. No scherzo, apprezzo la MakoHaru per quanto io abbia donato la mia vita alla RinHaru – e verginità, come le suore.
Spero che possiate apprezzare questo piccolo prologo, a presto col PRIMO capitolo di questo delirio.
p.s.: tutti i nomi di regioni arabe, il deserto, non sono di mia invenzione, nemmeno la fantastica  e super-scomparsa citta di Ubar tecnicamente sono veri, e il titolo? Non è altri che la parola Acqua in arabo, bella fantasia vero? C: Vi amo fatemi sapere che ne pensate <3

 

 

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Capitolo 2
*** 1. More than a slave ***


ماء

-Acqua-
Capitolo uno.
–More than a slave- (-Più di uno schiavo-)

 

Vino rosso. Come il sangue. I greci avevano un dio per questa squisitezza offri taci dalla terra. Bacco.
Un gran bel dio, a mio parere, il quale può contare più di qualsiasi vita qui, a Ubar.

Adoravo berne su calici, lasciarmi trasportare dalla sua scia. Come se si trattasse di una seducente danzatrice del ventre, che ti trascina con la sua sciarpa rossa, in un mondo di assuefazioni e di sesso, per la maggior parte delle volte.

In pochi, uomini con gusti raffinati, come me, possono comprendere la dolcezza dell’ebbrezza, la meraviglia del suo stato confusionario che ti porta a un benessere col mondo intero, con tutto ciò che ci circonda.
Sì, posso affermare con precisione che il vino sia la più grande invenzione del mondo, come chi ha inventato la donna.

Non voglio dilungarmi ancora sui piaceri alcolici e di quanto giovamento si possa trarre da esso.

La nostra, la mia, storia da “Mille e Una Notte” deve andare avanti.

Era passata una notte da quando, quell’infimo pezzente patriota, era stato rinchiuso nelle segrete del palazzo – il mio – reale di Ubar.
Avevo l’imbarazzo della scelta su cosa fargli passare per il suo impudente gesto, un gesto che solitamente, alla gente di carovane e altre popolazioni, sarebbe costato la decapitazione immediata.

 Mi sentii magnanimo in quel momento. Forse perché accanto a me c’erano forse le più belle ragazze del circondario, a servirmi e riverirmi come una divinità. Questa era la vita che mi spettava, essendo erede di una grande personalità come mio padre. E come tale, col pugno di ferro, dovevo mantenere l’ordine e fare sì che niente andasse a rotoli sotto le mie grinfie.

Sì. Sapevo perfettamente di essere non proprio il miglior signore del mondo, ma se non avessi agito così, episodi come quello del giorno precedente, si sarebbero verificati dal sorgere del sole al calare del tramonto.

Non lo avrei permesso.

Feci cenno a una mia guardia di portare qui lo sciatto prigioniero, e così fu fatto in poco meno di cinque minuti.
Era ancora vestito con quegli stracci addosso, tranne il fatto che gli avevano tolto la stoffa bianca dalla testa che lo aiutava a combattere il sole durante le giornate più afose, evidentemente. Ma per quanto mi riguardava, tipi come lui potevano anche morire bolliti sotto i cocenti raggi del sole.

Un sorriso beffardo mi si dipinse sul viso, mentre lo vedevo entrare alla mia regale, e maestosa corte, in catene.
Appena lo portarono al mio magnifico cospetto, una guardia gli diede un calcio dietro le ginocchia, facendolo atterrare su di esse. Il capo chino. Il viso completamente intriso di sangue.

Ah, dimenticavo. Lo avevo fatto volutamente picchiare, così, tanto per dargli un piccolo assaggio di cosa succedeva a infrangere le regole della mia Ubar.

Feci un cenno alle mie amabili ancelle, divine, di allontanarsi, sentendo tintinnare i bracciali che avevo, i quali erano di finissimo oro lavorato in Siria, fatti importare apposta per me da mio padre, prima che io occupassi posto al governo, come se avesse fatto in modo che alla sua morte anche il mio aspetto fosse regale, come la sua città.

Anche quella volta piccolo straccione non proferì parola. Evidentemente si stava purificando dal suo peccato contro la mia realissima persona. Era davvero una grandissima soddisfazione vederlo in quelle condizioni ancora in miserabili di quelle in cui versava prima.

Sorrisi beffardo mentre vedevo i rivoli di sangue uscire da quel candido visino. Probabilmente si trattava di qualche popolazione che era, sapevo per certo, stata esiliata in precedenza. Era troppo pallido. Quasi effimero. Alzai un sopracciglio, notando che fosse un bel ragazzo, per essere uno straccione.

-Ascolta infimo ladruncolo da quattro soldi. Ho deciso di essere magnanimo con te…-

Cominciai a parlare delicatamente. Non avevo la minima intenzione di spaventarlo, già lo avevo fatto alla fine, e per avere un buon servitore, non serviva solamente la paura, ma anche , a piccole dosi, la bontà. Come in quel caso.

Lui mi osservava rimanendo sempre in silenzio. La pelle un po’ abbronzata, sudatissima, un po’ sudicio ma un buon bagno, sarebbe diventato il migliore dei miei fiorellini. Era un po’ che non possedevo un ragazzo tra le mie ancelle, da quando quel tipo, un piccolo ratto di fogna lecca piedi, Nitori se non ricordo male. Comunque sia era davvero una spina nel fianco. Santi Dei, non dava nemmeno il tempo di farmi sbrigare i miei… Bisogni reali.

E comunque ero davvero entusiasta di aver scelto la mia prossima preda maschile, sarebbe stato pane per i miei denti.

Dato che con la mia frase non andai avanti, vidi il moro guardarmi dritto negli occhi, con i suoi blu, oltremare, serissimo, ma sempre mantenendo un totale rispetto, e di questo gli devo dare assoluto adito, ma proferì parola.

-Avete deciso di farmi fuori definitivamente invece che una sofferenza lunga e dolorosa?-

Chiese in modo, ormai come sempre, sfacciatissimo. Non mi alterai, anzi, risi, ma non perché la cosa mi avesse divertito, semplicemente l’unica cosa che mi faceva ridere era sbeffeggiare i tipetti fuggiaschi come lui.

-Oh no, mio caro, entri a far parte della mia corte… Dimmi se questa non è magnanimità…-

Mi alzai lentamente dalla mia distesa immensa di cuscini, avvicinandomi con cautela a lui. Rimase immobile – non poteva fare altro dato che se avesse mosso un solo muscolo, le mie guardie lo avrebbero stordito a suo di bastonate nelle meningi – a fissarmi.

Gli catturai il viso tra le mani, guardandolo dritto negli occhi. Il suo viso così delicato e privo d’imperfezioni, a parte la sporcizia, era tutto per me.
Ghignai.

-Tienitela stretta, questa vita.-

Sussurrai prima di vedere che il ragazzino scostò la testa dalle mie mani, con violenza abbassando lo sguardo. Almeno aveva avuto la decenza di non sfidarmi con lo sguardo – per quanto mi piacesse il colore dei suoi occhi.

-Bravo così.-

Ancora un sussurro, emise la mia regale bocca, e poi mi alzai in piedi, poiché mi ero dovuto chinare per poterlo guardare seriamente in faccia. Feci un segno con uno schiocco di dita, e le mie guardie, per i polsi, lo portarono nelle stanze adiacenti per poterlo far lavare e cambiare. Le mie “dame” di compagnia dovevano avere tutte, profumi delicati, come delle rose, e pelli bianchissime da sembrare quasi statue di porcellana, ed allietare la mia dura vita di pascià.

Passai tutto il pomeriggio accompagnato dai miei fidatissimi leoni, addestrati e delle mie bellissime danzatrici, ma arrivò in fretta la sera, l’ora di cena. Il momento che preferisco.

I balli s’interrompono, come l’immancabile fermarsi del tempo, nel mio cervello, e i servitori facevano entrare la cena.

Immense leccornie da tutto il mondo, fichi freschi ed essiccati, cocchi trasportati dai nuovi mondi, le spezie profumatissime che insieme alle candele davano un che di tremendamente speziato a tutto l’ambiente.

Inalai a fondo quel profumo. Casa mia. Mia.

Una delle portate fu condotta al mio cospetto dal mio nuovo “acquisto”, e ne fui lieto che lo avevano fatto vestire come adornavano le mie bellissime ancelle. Mi crogiolai di quella visione quasi paradisiaca, decidendo che, sì, quella notte sarebbe stato alle mie dipendenze.

Mi morsi un labbro, anche a discapito di farmi male con i denti taglienti e acuminati che mi ritrovavo, mentre lo vedevo piegarsi per porgermi il vassoio, e poi offrimi un leggero saluto.

Lo tirai da un polso, senza troppi preamboli, facendolo sedere accanto a me. Mi avrebbe servito direttamente quella sera. Ahn, che bello, qualcosa di nuovo con cui giocare. Non vedevo assolutamente l’ora di qualche cambiamento, alla mia corte.

-Oggi avrai l’onore di servirmi-

Dissi, conciso, mentre vidi un leggerissimo cambiamento d’espressione negli occhi dell’altro, notando che la sorpresa pervase il suo viso per una frazione di secondo, troppo breve da fargli presente, ma non troppo affinché io me ne accorgessi.

-Oh… C’è quell’uva che adoro…-

Il moro si allungo, prendendo quello che gli chiesi e me la porse, come se dovessi mangiarlo da solo.
Ah, povero stolto inetto, le ancelle non mi servono solo per bellezza e ad allietare la mia vista, sono utili anche per riverirmi e viziarmi, cioè rinfrescare la mia regale persona e soprattutto imboccarmi.

Gli presi delicatamente il polso, potando la mano col grappolo accanto alle mie labbra. Diedi un morso deciso, sogghignando. Lui mi fissò, non sembrava aver cambiato espressione ma nei suoi occhi brillava una luce di chi è seriamente interdetto per quello che ha visto. Presi un altro morso, poi non resistessi e andai ad appoggiare le labbra contro il suo polso, sorridendosi sopra. Schiusi le labbra passandoci la punta della lingua. Il servetto per tutta risposta ritirò il polso verso di sé. Me lo aspettavo. Insomma, altrimenti non sarebbe stato pane per i miei denti alla fine.

Fortunatamente, sempre con me, tenevo una sorpresa. Una piccola polverina, afrodisiaca, che usavo sempre su quelle ancelle che non avevano intenzione di allietare il mio corpo con il loro. Insomma, non posso che ripetermi nel dire che se volevo qualcosa, ero disposto a tutto pur di far sì che fosse mia.
E questa ne era la prova decisiva.

Si trattava di un piccolo afrodisiaco, di cui ora sfortunatamente per il mio racconto, non ricordo il nome. Ne conosco solo la provenienza, un piccolo coleottero che, essiccato e ridotto in polvere, forse era il più potente afrodisiaco in circolazione. Se non si stava attenti alle dosi, si rischiava un infarto, ed io non ne volevo sapere di avere un morto sulla coscienza. Per questo mi ero fatto insegnare, dai miei scienziati di corte, come e quanto usarne.

Dopo quel piccolo teatrino, dove la mia preda si era dimostrata restia alle mie attenzioni, decisi in un lampo di usufruire del quel piccolo colpo di fortuna che mi avevano fornito i miei fedeli servitori. Feci segno a una delle mie ancelle, di portare due calici puliti e del buon vino, il più corposo e forte che avessero, insomma, volevo fargli credere che si trattassero degli effetti dell’alcool e non di un afrodisiaco.

I calici arrivarono, lucenti e pulitissimi. Splendidi.

Il ragazzo mi guardò un po’ perplesso, si leggeva perfettamente in faccia che non aveva la minima idea di quello che sarebbe successo da quel momento in poi. Versai prima il suo bicchiere, passandoglielo. Mi guardò ancora.

-A cosa devo tanta gentilezza, signore?-

Parlava lentamente, con voce calma, quasi atona, ma nella curvatura delle sopracciglia si leggeva un velo di preoccupazione. Io sorrisi appena, tentando di nascondere la soddisfazione del mio atto.

-Oh, beh prendilo come un piccolo regalo di benvenuto, per festeggiare la tua entrata alla mia corte, non credi?-

Riempii il mio di calice, alzandolo appena. La cosa di cui il ragazzo non si accorse, era che riuscii a mettere la suddetta polvere afrodisiaca nascondendo il piccolo sacchetto in cui la tenevo, dietro alla brocca di vino. Appena passato il bicchiere al moro, lo ficcai nella manica, larghissima. Il misfatto era stato compiuto. Ottimo, ora bastava aspettare i risultati.

Alzai il calice in segno di brindisi. Mi stava guardando come se lo stessi prendendo in giro. La realtà era quella, ma come potevo convincerlo se non con una scusa di quel genere. Sospirò, alzando anche lui, appena un po’ il calice.

-Non vedo cosa ci sia da festeggiare, ma lei è il padrone, non posso dissentire…-

Sussurrò semplicemente, toccando poi il bordo del mio bicchiere con il suo, e fece un unico sorso. Già era stato stupido a prendere uno dei miei vini più forti, come se fosse acqua fresca. Infatti, quando tolse il bicchiere dalla bocca, dopo esserselo scolato tutto, assunse un’espressione di disgusto.

Risi e presi il suo bicchiere e lo poggiai accanto ad un’infinità di piatti ormai vuoti.

Lanciai un’occhiata ai miei servitori, alle ancelle dicendo di lasciarmi in colloquio privato con il novellino. Colloquio. Certo.

Il moro, infatti, si chiese per quale arcano motivo, forse anche oscuro agli dei, ora fossero tutti scomparsi tranne me e lui, soli, in un’immensa stanza di un rosso porpora, nella soffusa luce delle candele, e quei profumi inebrianti, dolcissimi ma alcuni un po’ piccanti per il naso.

Non parlammo molto. Io finii di consumare alcune portate del mio abbondante e delizioso pasto, mentre osservavo le reazioni dell’altro. Si era fatto rosso in viso, aveva cominciato togliendosi il foulard di colore porpora che le guardie gli avevano costretto a mettere. E, diavolo, se non era tremendamente invitante.

Scostai l’ultimo piatto col piede, facendo tintinnare la cavigliera d’oro che avevo. Mi avvicinai a lui lentamente premendogli una mano sulla fronte.

-Non stai bene?-

Lui scosse la testa, e gli indicai la distesa immensa di cuscini per riposarsi. Lui non se lo fece ripetere due volte e si stese di essi, sentendolo sprofondare nel confort e nella loro immensa morbidezza.

Lo seguii io a ruota, mettendomi accanto a lui, con un gomito poggiato sui cuscini e la mano contro la faccia. Lo osservavo, era davvero bellissimo, cavolo, il miglior topo di fogna che avessi mai avuto tra le grinfie.

Allungai una mano lentamente, scostandogli i capelli dal viso sudatissimo. Assottigliai gli occhi. Era normale che stesse così, l’alcool buttato giù così, senza aver mangiato e l’afrodisiaco.

-Come va?-

Chiesi inizialmente stendendomi del tutto e tornando ad accarezzargli una guancia. Perfetto, tutto secondo i miei piani, come sempre, dopotutto.

-Non bene, signore. Non bene…-

Ammise debolmente socchiudendo gli occhi e beandosi delle mie carezze. Calma Rin. Sospira delicatamente avvicinandomi ancora di più a lui, con la fronte su quella del moro. Sussultai. Era caldissimo. Chissà dove altro era caldo. Febbre non era, sapevo gli effetti di quel mix. Lentamente premetti poi il naso dopo, su quello dell’altro.

-Come ti chiami?-

Ecco una cosa che non gli avevo ancora chiesto. Fino a che non compresi che sarebbe diventato un perfetto concubino, non mi era mai premuto di chiedere il nome. Ma ora sì. Socchiusi gli occhi osservando le sue labbra, poi gli alzai per perdermi nei suoi occhi.

-Haruka…-

Sospirò accaldatissimo. Non resistetti e chiusi il suo labbro inferiore tra le mie, schioccando un tenue bacio, lento, morbido come dell’argilla. Le carni si fusero per quel millisecondo, e fu il paradiso all’istante. Non aveva reagito, anzi aveva avvicinato ancora di più il viso per godersi il contatto. Sospirai piano, proferendo poi.

-Mi piace.-

Mi stagliai sopra di lui. La luce soffusa lo rendeva assolutamente perfetto. La pelle scoperta ancora un po’ adornata dai veli di seta e i foulard di lino, era come vedere la pelle di una pesca bagnata di sudore. Accarezzai il suo viso, al che, come risposta, lo vidi socchiudere gli occhi e allungare le mani sul mio viso. L’afrodisiaco fece subito effetto. Tra l’alcool insieme non sapeva sicuramente controllarsi, i suoi freni inibitori erano andati via, disciogliendosi in quel turbine di passione e di piacere.

Fu mio.
Tutta la notte.
Gridò il mio nome, per tutto quel tempo.

La luna di sicuro sarà arrossita, ma come potevo notarlo, ero completamente concentrato su Haruka.

 

 

 Lo spazio sharkoso dell’autrice.

Buongiorno care amiche da casa. Anche questa settimana una puntata di Free è andata e i miei feels RinHaru diventano sempre più grandi. Quindi, per mia magnanima concessione, ho deciso di pubblicare il primo ed ufficiale capitolo della storia, dato che quello dell’altra volta era solo un mero prologo.
Spero abbiate gradito, grazie del sostegno dei commenti e di tutto quanto.
Continuate così!

Fue~

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