The forgotten.

di someeonelikeu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cassandra. ***
Capitolo 2: *** Killian. ***
Capitolo 3: *** Evangeline. ***
Capitolo 4: *** We must fight to survive. ***
Capitolo 5: *** One day you'll understand why ***



Capitolo 1
*** Cassandra. ***


Cassandra.


A Cassandra quella grande stanza dalle pareti bianche sembrava la sala d’attesa di un ospedale, solo meno frenetica, senza medici in camice bianco che correvano da un paziente all’altro; l’odore, poi, non era quello sgradevole di medicinali misto a candeggina, ma quello delicato della lavanda.
La sala era piena di gente, tutte famiglie come quella di Cassandra: due genitori dagli abiti eleganti con un figlio di sedici anni. La sua stessa età. 
Tutti gli adulti nella stanza erano in lacrime, il marito abbracciava la moglie ed entrambi abbracciavano il proprio figlio; i ragazzi, invece, si guardavano intorno spaesati: sembrava di essere in fila dal dentista, ma togliere una carie o inserire l’apparecchio per i denti di certo non faceva piangere delle persone in quel modo.
Le famiglie della città erano tutte formate da tre persone, perché a nessuno era permesso di avere più di un figlio – come tutto il resto anche il parto era programmato, e i bambini nascevano nello stesso giorno dello stesso mese dello stesso anno; quando capitavano dei gemelli si poteva decidere di abortire o, una volta nati i bambini, dare i rimanenti in adozione ad una famiglia che non poteva procreare.
“Che ci facciamo qui? Cosa devono fare?” chiese alla madre, la quale continuò a singhiozzare senza rispondere. Provò con suo padre, ma ottenne lo stesso risultato.
Cassandra sospirò indispettita da quel mutismo, ma si consolò nel sapere che non era la sola: tutti i ragazzi continuavano a fare domande su dove fossero e cosa stesse per succedere, ma non avevano mai una risposta: c’erano degli uomini vestiti di nero che passeggiavano tra le famiglie e facevano sì che nessuno dei genitori aprisse bocca.
La tristezza che regnava stava cominciando ad angosciarla.
Adesso lei e i suoi genitori erano i primi della fila. Cassandra fissava la porta bianca davanti a sé, sino a quando non si spalancò di botto. 
I tre entrarono in una camera dalle pareti e il pavimento bianchi, senza finestre. Tutto questo bianco le dava noia.
I genitori di Cassandra si gettarono verso di lei cingendola forte con le braccia; la madre continuava a spostare i capelli biondi dal viso e a baciarle le guance e il padre, che lei non aveva mai visto piangere prima di quel giorno, le diceva che tutto sarebbe andato bene.
Improvvisamente arrivarono due uomini dalle tute bianche e allontanarono la ragazza dai genitori come si strappa un frutto dall’albero: con violenza e poca delicatezza. 
Tenendola strettamente ognuno per un braccio, i due portarono Cassandra in una camera bianca. Tutto sembrava monocolore in quel posto. Al centro della stanza c’era un’elaborata scrivania, dietro alla quale sedeva un uomo in sovrappeso che rivolse alla ragazza un sorriso gentile.
Gli uomini dalla tuta bianca spinsero Cassandra sulla sedia al lato opposto della scrivania e uscirono dalla stanza.
Si guardò le braccia e vi trovò delle striature rosse, proprio dove gli uomini l’avevano stretta.
L’uomo si schiarì la gola e Cassandra tornò a concentrarsi su di lui: il suo sguardo però era attirato dalla pancia prominente, stretta in una camicia bianca e un panciotto con bottoni dorati che davano l’impressione di saltar via a momenti. Il pensiero le provocò un sorriso che represse subito: in quel momento tutto la inquietava. L’uomo iniziò a leggere con voce roca:
«Cassandra Agatha Laughlin,16 anni,nata e cresciuta a Pierre, Nord, figlia di Maybelle e Deagelo Laughlin.
Capelli biondi, occhi azzurri, statura 1.72 cm» 

L’uomo seduto dall’altro lato della scrivania spostò lo sguardo dalla cartella che conteneva tutte le sue informazioni alla ragazza, come per controllare che tutti i dati fossero giusti.
Lei continuava a guardarsi in giro, per nulla a suo agio. Tutta quella situazione la innervosiva e in più non riusciva a capire perché quell’uomo le stesse dicendo cose che lei sapeva già fin troppo bene.
« Piacere Cassandra,sono August Hopkins. »
August Hopkins si portò educatamente una mano davanti alle labbra secche e tossì in modo quasi silenzioso.
Si aggiustò il colletto già perfetto della camicia bianca e, poggiati i gomiti sulla scrivania, tornò a fissare Cassandra.
« A tutti i ragazzi, una volta compiuti i sedici anni, che siano del Nord, del Sud, dell’Est o dell’Ovest, lo stato cancella la memoria. Non mi è permesso spiegarne i motivi.
Per questo non è permesso avere più di un figlio e per questo facciamo nascere tutti i bambini nello stesso giorno, nessuno deve venire a conoscenza di questa procedura. »
 Il silenzio calò di nuovo nella stanza per un po’.
Il discorso che August Hopkins aveva appena fatto sembrava a Cassandra una registrazione, tanto il discorso era perfetto e fluido.
Cassandra sbatté le palpebre più volte, confusa. August Hopkins non si scompose, probabilmente aveva affrontato questo discorso e visto questa reazione fin troppe volte.
« Noi vogliamo solo il meglio per i nostri cittadini, e speriamo che questi siano capaci di crearsi una propria vita ed essere produttivi per lo Stato senza l’aiuto dei genitori.
Adesso tu attraverserai quella porta in fondo al corridoio e ti verrà cancellata la memoria in modo assolutamente indolore, e poi sarai condotta nella tua nuova casa in un’altra città.
Sai, Cassandra, vogliamo sempre migliorarci, rinnovarci, ecco perché sarete tutti mandati via: in modo che le persone più anziane possano avere una dolce morte, mentre le vecchie città vengono distrutte per far spazio alle nuove.
Nel giro di un mese la tua città sarà distrutta, ma tu non ricorderai nulla di tutto questo.»

Detto ciò, August Hopkins schioccò le dita e i due uomini riapparvero dal nulla, prendendo Cassandra per le braccia e conducendola, non troppo delicatamente, nella stanza in fondo al corridoio.
Inizialmente la ragazza era come stordita, doveva ancora metabolizzare ciò che l’uomo le aveva appena detto perché le sembrava tutto così assurdo: i ricordi della sua vecchia vita sarebbero stati cancellati per dar spazio ai ricordi della nuova, la sua città rasa al suolo insieme ai suoi abitanti più anziani per costruirne sopra una più innovativa, non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori perché sarebbero morti.  Forse li avevano già uccisi.
Cominciò improvvisamente ad urlare e a dibattersi tra le braccia degli uomini dalla tuta bianca, ma non ottenne nessuna reazione né la presa dolorosamente ferrea si allentò, e riuscirono a trascinarla comunque nella stanza. Fu posta in una sorta di doccia rotonda senza rubinetti dalle pareti di vetro. Si ritrovò completamente immobilizzata.
La ragazza si guardò intorno. A parte lei e la cabina non c’era nient’altro. Era sola in mezzo al silenzio. Silenzio che fu poco dopo rotto da un insopportabile rumore metallico che le provocò delle fitte terribili alla testa. Pochi istanti dopo arrivarono i soliti due uomini dalle tute bianche, che la fecero uscire e posizionare in un’altra cabina trasparente in una stanza adiacente, mettendole in mano dei documenti e un mazzo di chiavi.

« Il tuo nome è Amberlee Everlark, hai sedici anni e abiti al numero 12.»

All’improvviso la sala bianca sparì, e al suo posto comparve un grande soggiorno sconosciuto dai divani crema. Era la sua nuova casa, ma quella non era casa.
Cercò uno specchio e si controllò. Aveva ancora il suo aspetto, per fortuna. Guardò i documenti, documenti freschi di stampa con la sua foto associata ad un nome che non era il suo.
Lei non era Amberlee Everlark.
Lei era Cassandra Agatha Laughlin, figlia di Maybelle e Deangelo Laughlin, nata e cresciuta nel Nord.
La sua memoria era ancora intatta, i suoi ricordi non erano stati cancellati.

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Capitolo 2
*** Killian. ***


Killian

Killian si chiuse violentemente alle spalle la porta della sua finta nuova casa e uscì dall’appartamento.
Non sopportava di stare chiuso in quella stanza dalle pareti bianche. Le odiava, odiava tutto di quel posto, odiava la sua nuova vita.
Il ricordo più vivo del ragazzo era il momento in cui gli uomini dalla tuta rossa , tipica degli abitanti del Sud, gli avevano consegnato in mano dei falsi documenti e un mazzo di chiavi.
Da quel momento in poi il suo nome sarebbe stato Vincent Johnson, ma lui si ricordava benissimo di essere Killian Cavendish.
Avrebbe solamente voluto sputare sul viso di quegli uomini, scappare dalla stanza e avvisare tutta la popolazione di quello che sarebbe successo, fare una rivoluzione e impedire che altre famiglie fossero rovinate e altre persone innocenti uccise.
Non lo fece, era sicuro che se avesse fatto capire che l’esperimento su di lui non aveva funzionato, lo stato avrebbe organizzato qualcosa di più grosso e poi, se i suoi ricordi erano ancora vivi, allora forse lo erano anche quelli di altre persone.
Tutte le sue convinzioni erano state distrutte quando si era ritrovato solo in una città completamente sconosciuta, quando molti lo avevano definito “pazzo” e allora la polizia si era insospettita, quando aveva festeggiato il suo compleanno di diciassette anni in completa solitudine; nessuno si era avvicinato a lui, era “un tipo pericoloso, emotivamente instabile”, come lo avevano definito le forze dell’ordine, e per un periodo Killian aveva anche pensato di esserlo, ma era riuscito ad evitare di essere chiuso in ospedale. Da quel momento, per far cessare tutte le attenzioni su di lui, decise di comportarsi normalmente, come se non esistesse.
Il ragazzo continuò a camminare per la strada, diretto da nessuna parte precisa, aveva solo bisogno di stare fuori da quelle mura bianche. Non gli piaceva rimanere in casa, ma se in quel momento avesse avuto l’opportunità di rimanere chiuso nella sua vera dimora con i suoi genitori, allora lo avrebbe fatto senza pensarci due volte.
I suoi genitori erano un punto debole per lui: per tutta la sua vita “precedente” aveva disprezzato le persone che gli avevano donato la vita, trattandoli con sufficienza e procurandogli spesso grandi dolori, come quando era stato arrestato per aver partecipato ad una rissa nella metropolitana. In fondo, tuttavia, li aveva sempre amati e adesso il pensiero che sarebbero stati uccisi senza sapere che il proprio figlio non li odiava per davvero lo uccideva. Era passato un anno dal giorno in cui lo avevano portato via, e fino all’ultimo secondo lui era stato freddo, distante. Non aveva neanche chiesto il motivo per il quale dagli occhi della madre continuavano a cadere lacrime. Ora lo sapeva, e se avesse avuto la possibilità di tornare indietro, allora avrebbe tenuto tra le sue braccia entrambi i genitori.
Parecchie domande  tormentavano la mente di Killian. Perché nessuno si era mai ribellato a quella procedura? Da quanto i genitori sapevano che gli sarebbero stati portati via i figli? Quale sarebbe stato il modo in cui avrebbero portato al termine la vita di tutte quelle persone innocenti?
Domande a cui Killian non aveva e non avrebbe mai avuto una risposta. 
Era passato un anno e il ragazzo ancora non si era creato una nuova vita, come voleva lo Stato, forse perché aveva un rifiuto verso la società e non voleva accontentare quegli uomini che tanto disprezzava.
Di andare a scuola non se ne parlava proprio, non era quel tipo di persona.
Aveva provato a cercare qualche lavoro, ma il suo carattere irascibile non gli aveva permesso di far carriera; non che non fosse bravo in qualcosa, riusciva a fare un po’ di tutto, ma odiava impegnarsi e, soprattutto, non sopportava l’idea di dover stare agli ordini di sedicenti “superiori” in qualsiasi campo. 
Killian camminava senza una meta precisa, prendendo a calci gli oggetti che trovava gettati sui marciapiedi; la sua vittima, in quel momento, era una lattina di birra da due soldi. 
Non aveva praticamente alzato lo sguardo per tutto il tragitto: aveva preferito fissare la strada piuttosto che gli sguardi vacui delle altre persone.
Solo quando si trovò un muro davanti ai piedi allora Killian decise che era il momento di alzare gli occhi e guardarsi intorno. Non si sentiva alcun rumore, forse era capitato in una zona disabitata o popolata da persone molto silenziose.
Era circondato da dei muri di mattoni rosso vivo, puliti, senza graffiti.
Killian alzò il capo verso il cielo e, proprio in quel momento, qualcosa gli si gettò addosso, facendolo rovinare su dei sacchi di immondizia. Vetro, a giudicare dalle proteste della sua schiena.
Riprese coscienza del momento, notando che la cosa che gli era caduta addosso era una ragazza, adesso si trovava sopra di lui e tremava come una foglia.
 In quel momento, si sentì di fronte ad uno specchio: lei aveva uno sguardo che lui non avrebbe mai dimenticato, uno sguardo che ormai il ragazzo non vedeva più da un anno, dal primo giorno in cui si era guardato allo specchio in quel mondo di falsità.
Come se lei avesse colto qualcosa nell’espressione di Killian, con il pianto rotto in gola e un grido d’aiuto intrappolato negli occhi verdi, a pochi centimetri dalle labbra del ragazzo, la ragazza gli provocò un misto di euforia e angoscia.  
« Io ricordo tutto. »La voce che ruppe il silenzio era sottile come un filo di cotone, eppure alle orecchie di Killian quelle parole sembrarono emesse attraverso un megafono. 
Il cuore cominciò a battergli velocemente, sembrava volesseuscire perforandogli ilpetto.
Poi i due sentirono dei passiche si facevano pian piano più vicini,la ragazza strinse il polso di Killian e, per la seconda volta in pochi minuti, senza pronunciare parole, gli chiese aiuto.  

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Capitolo 3
*** Evangeline. ***


Evangeline

Evangeline probabilmente non aveva ancora realizzato ciò che era successo pochi secondi prima, eppure le immagini le scorrevano in mente come un fiume in piena corsa; i momenti si ripetevano veloci, come se la ragazza li continuasse vivere ancora e ancora.
Lo sguardo di Evangeline era rivolto verso la propria immagine, riflessa in uno specchio talmente pulito da non sembrare vero: il suoi occhi erano rimasti dello stesso colore, i suoi capelli anche, continuava ad essere Evangeline Blackmood.
Ad un certo punto, come se avesse realizzato ciò che aveva appena vissuto, la ragazza strinse il mazzo di chiavi tra le mani, tanto forte da bucarle la pelle. 
Aprì d’istinto la mano ferita, le chiavi caddero a terra con un sonoro tintinnio.
Si guardò allo specchio e cominciò ad urlare talmente forte, un grido tagliente come ghiaccio, che poté giurare di aver visto lo specchio rompersi e mille schegge frantumarsi sul pavimento, ma la ragazza non ne ebbe mai la certezza.
Prima che potesse succedere altro, le sue gambe si mossero automaticamente in direzione dell’uscita di casa.
Evangeline cominciò a correre per le scale del palazzo, come se stesse scappando da qualcosa o da qualcuno: cercava di scappare dalla realtà che l’aveva appena investita in pieno.
Uscita dall’edificio la ragazza sentì il fiato mancare, l’ aria non arrivava ai suoi polmoni, si sentiva in trappola. Ma le sue gambe non si fermavano.
La sua le sembrava una corsa contro il tempo, una corsa inutile, una fatica che si sarebbe potuta risparmiare, eppure non avrebbe mai smesso di correre.
La ragazza non si fermò né fece troppo caso agli sguardi della gente, ad un’anziana che aveva urtato per sbaglio, vedeva gli occhi delle persone vuoti, sguardi silenziosi.
Non pensava a niente: la mente non era proiettata verso un pensiero specifico, ma mille voci e immagini correvano con lei nella sua mente: il discorso che le aveva fatto il magro, anziano signore prima che due uomini dalle tute gialle la prendessero e la chiudessero in una cabina di vetro, i nuovi dati che aveva ricevuto. 
Tutto, adesso, le sembrava meno chiaro, più confuso.
Le sue orecchie sentivano il vociare della gente - “aiuto, è pazza”-“perché corre, cosa avrà fatto?”-“ ma cosa sta succedendo?”-“chiamate la polizia” – ma il suo cervello non registrava nulla. Continuava a correre, senza curarsi di niente e di nessuno.
Delle voci più alte e autoritarie si unirono al coro e, in qualche modo, riuscì a capire di essere inseguita.
L’affanno cominciò a farsi sentire, ma la ragazza sapeva che non era quello il momento di crollare, sentiva che, se avesse continuato a scappare, prima o poi ci sarebbe stata un’ancora di salvezza per lei. 
Non si girò mai indietro per vedere chi la stava inseguendo, ma aveva ben chiaro nella mente il suono dei passi di quegli uomini perché, evidentemente, si doveva essere allontanata dalla folla, dato che l’unico rumore che rompeva il silenzio era quello delle scarpe sull’asfalto.
Accelerò la corsa e, sentendo di aver seminato tutti i suoi inseguitori, si gettò in un vicolo alla sua sinistra.
Per la prima volta la ragazza si voltò indietro, non trovando nessuno.
Avrebbe fatto bene a guardare ancora avanti, però, dato che andò a sbattere contro qualcuno e, in poco tempo, si ritrovò distesa a fissare due occhi azzurri che, a differenza di tutti gli altri, sembravano parlare e dicevano esattamente ciò che Evangeline avrebbe voluto gridare al mondo intero.  .
« io ricordo tutto. » sussurrò, ancora con il fiatone per la lunga corsa.
Riuscì a vedere una luce passare per una frazione di secondo nelle iridi azzurre del ragazzo: ciò che aveva percepito, Evangeline lo aveva percepito in maniera corretta: lui era come lei.
Improvvisamente tornarono i passi sull’asfalto.
Prima di poter pensare a qualcosa Evangeline si ritrovò in piedi con le dita intrecciate a quelle dell’estraneo che stava scappando con lei.
Il ragazzo, con un salto che non poteva essere definito umano, riuscì a scavalcare il muro del vicolo portandola con sé; Evangeline quasi si stupì per essere riuscita a fare quell’azione.
La ragazza ricominciò a correre. Era più veloce di prima perché adesso stava scappando da qualcosa di concreto, non più da una realtà che non poteva evitare. 
I due corsero senza meta, mano nella mano, senza rivolgersi neanche una parola; Evangeline però sentiva che, se l’avesse lasciata, il mondo le sarebbe crollato addosso. 
Le immagini passavano davanti al viso della ragazza come tante diapositive proiettate senza pausa, erano veloci, non riusciva a ricordarsi tutti i dettagli. 
Davanti ai suoi occhi, come se fosse spuntato dal nulla, apparve un edificio dall’aria antica. Un castello.
Evangeline si sentiva stanca, avrebbe voluto riposare e bere; il castello le dava una sensazione di sicurezza e, in poco tempo, forse avrebbe avuto quello che desiderava.
Intanto i passi degli inseguitori cominciavano ad affievolirsi; i due dovevano essere davvero veloci o gli inseguitori dovevano ormai essersi scoraggiati.
Arrivati davanti al castello, che era più grande e imponente di quello che sembrava da lontano, i due fuggiaschi bussarono violentemente alla porta, fino a che questa non si aprì.
Evangeline non vide nulla, ma sentì una mano stringere la sua e venne trascinata nel buio.
« Ne manca uno. »
Riuscì a sentire qualche altra parola confusa prima di perdere completamente i sensi.

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Capitolo 4
*** We must fight to survive. ***


Vorrei ringraziare Apathy_ per aver betato i miei capitoli.

We must fight to survive.


L’aria fuori era fredda, gelata.
Cassandra si maledisse per non aver portato con se una giacca più pesante: ad ogni folata di vento, si stringeva inutilmente nelle braccia.
A dire la verità non era molto lontana da casa: se lo avesse voluto sarebbe tranquillamente potuta tornare indietro e prendere qualcosa di più pesante. Se lo avesse voluto. Il punto era proprio la volontà di Cassandra: la ragazza aveva esaminato bene ogni angolo della casa, rendendosi conto di quanto fosse perfetta, pulita e in ordine; sembrava che fosse pronta per lei da anni.
C’erano anche vestiti della sua taglia e altri oggetti scelti secondo il suo gusto personale. Altre ragazze avrebbero descritto quel posto come “paradiso”, per lei era l’inferno.
Tutta quella perfezione, quella finzione, l’avevano costretta ad allontanarsi da quel posto e a non volerci più tornare - anche se era inevitabile, dato che non aveva altri posti in cui stare. Adesso si ritrovava a camminare in una strada sconosciuta, tra persone dallo sguardo vuoto che le passavano accanto senza neanche notarla.
La cosa che la faceva sentire ancora più sola era che, tra tutti i visi spenti che aveva guardato, ne aveva anche riconosciuto qualcuno di familiare; aveva represso l’istinto di andarci a parlare perché sapeva che non avrebbe portato a nulla, non essendo loro in grado di riconoscerla.
I capelli biondi le svolazzavano davanti al viso e, se non avessero fatto da schermo contro il freddo, Cassandra se li sarebbe portati dietro le orecchie.
Non aveva una meta precisa, si lasciava condurre dalle proprie gambe.
A un certo punto alzò lo sguardo e notò un grande schermo appeso a un palazzo, su cui venivano riprodotte, una dopo l’altra, le immagini di una ragazza castana dagli occhi verdi e di un ragazzo dai lineamenti duri e gli occhi chiari. Sopra queste immagini, a lettere cubitali, lampeggiava la scritta RICERCATI.
Ma perché i ragazzi erano ricercati? Non era specificato, anche in fondo sapeva piuttosto bene il motivo.
La ragazza scosse la testa, la vita le sembrava già abbastanza complicata, non aveva bisogno di interessarsi di questioni che non la riguardavano.
Continuò a camminare finché non si decise a guardarsi intorno, almeno per vedere in che posto era finita: non sapeva per quanto aveva camminato. Intorno a lei si estendevano palazzoni moderni, luci e strade, niente di particolare. Le sembrava tutto uguale.
Cassandra si girò verso sinistra, poi verso destra e qualcosa attirò la sua attenzione.
La ragazza sentii il cuore accelerare e spalancò gli occhi.
Non poteva crederci. Non aver visto per davvero casa sua, in lontananza.
Era impossibile, eppure le sembrava così reale. Cominciò a pizzicarsi, a chiudere e riaprire gli occhi, ma la casa continuava a rimanere lì, immobile, e adesso riusciva quasi a sentire l’odore dei pancakes appena fatti di suo padre.
Cominciò a correre senza fermarsi. Non aveva mai corso così velocemente, ma non sentiva la stanchezza.
La casa si avvicinava sempre di più e, lentamente, si trasformava in qualcosa di più grande, di diverso.
Cassandra non riusciva a spiegarsi in che modo l’immagine che aveva davanti agli occhi cambiasse forma, eppure non poteva fermarsi, anche se quella davanti a lei non era più casa sua, ma era un… castello? Più si avvicinava, più la ragazza avvertiva la fatica della corsa e arrivata alla porta sentì il fiato venirle a mancare.
Bussò con tre colpi secchi alla porta, per poi venire trascinata dentro le mura.

[…]

Killian aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia e si teneva la testa tra le mani mentre Quentin, il ragazzo davanti a lui, che doveva essere di cinque o sei anni più grande, continuava a dire cose che solo per metà sembravano avere senso.
In qualche modo il fatto di sapere di non essere solo in quella città, che non era anormale, lo rassicurava.
Il divano su cui era seduto era di pelle morbida, comodo al punto giusto. Si massaggiò per qualche secondo le tempie decidendo di non ascoltare più, era troppo complicato.
Lanciò uno sguardo alle sue ragazze sedute affianco a lui: la bruna dagli occhi verdi che diceva di chiamarsi Evangeline, con la quale era arrivato al castello, e Cassandra, la bionda dagli occhi chiari che era arrivata poco dopo.
Entrambe avevano lo sguardo attento e sembravano, almeno dalla loro espressione e dal modo in cui entrambe annuivano con la testa, seguire per filo e per segno la spiegazione. «Quindi, Quentin, stai dicendo che lo stato cancella la memoria a tutti i ragazzi sedicenni perché bisogna “uccidere il vecchio per dar spazio al nuovo senza provocare rivolte”? Ma che senso ha? Perché devono uccidere persone innocenti ? E perché noi ricordiamo ancora tutto?»
Fortuna che Evangeline era intervenuta, rendendogli comprensibile quella prolissa spiegazione.
“Uccidere il vecchio per dar spazio al nuovo”, come aveva detto Quentin, era il motto dello Stato e, in un certo senso, il ragazzo lo condivideva, anche se si sarebbe potuto mettere in atto in modo diverso.
Killian cercò di ascoltare la risposta di Quentin, ma ormai qualunque cosa dicesse per lui era incomprensibile. Alla fine si arrese, sbuffò e si lasciò cadere sul divano, mentre gli altri tre discutevano tra di loro.
«Ciò significa tre cose: noi adesso rappresentiamo una minaccia per lo Stato, prima o poi verranno a cercarci, e siamo costretti a combattere per sopravvivere.»
Quentin terminò così il suo discorso e per Killian quella fu l’unica cosa sensata che disse.

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Capitolo 5
*** One day you'll understand why ***


One day you’ll understand why 



La luce del mattino attraversò le tende bianche della camera di Cassandra e la ragazza, completamente sveglia, continuava a rigirarsi nel proprio letto.
La sera prima, dopo aver discusso a lungo con Evangeline e Quentin di quella questione - che ancora le sembrava tra il surreale e l’assurdo - la ragazza ci aveva messo un po’ di tempo a prendere sonno, disturbata dalle voci forse un po’ troppo alte di Quentin e Killian che disputavano nella stanza accanto sul fatto che l’attenzione del ragazzo, durante la spiegazione, fosse stata troppo bassa.
Ed era vero,  il ragazzo dagli occhi chiari aveva deciso di non ascoltare le parole di colui che ne sapeva di più, per strafottenza o altro, e Cassandra lo aveva notato, anche perché, per quanto si sforzasse, non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
Sbadigliò, e in quell’esatto istante sentì un colpetto alla porta. 
Si alzò controvoglia per andare a vedere, ma trovò solamente due grandi scatoloni con un bigliettino attaccato sopra: Stanotte sono andato nelle vostre case a prendervi dei vestiti puliti, quando scende il buio anche gli occhi delle guardie si appannano.
Il tutto era firmato con una “Q”, che stava per Quentin.
Cassandra immaginò Quentin, con i capelli scuri come la notte, mentre si aggirava di soppiatto per la città, carico dei loro vestiti.; aveva rischiato la vita solo per prendere degli abiti puliti a dei perfetti sconosciuti a cui aveva offerto riparo.
Il corridoio era ancora silenzioso, ma la giovane riuscì a sentire delle voci provenire da destra: riconobbe quella profonda di Quentin e la parlantina di Evangeline. 
Cassandra prese gli scatoloni e li portò dentro la sua stanza, aprendo solo il primo da cui estrasse tutti gli indumenti che le servivano; gettò tutto sul letto e si diresse verso la doccia. 

[…]

«Ti sto dicendo che la nostra vita è in pericolo, Killian!»

Killian non potè evitare di guardare divertito il turbinio dei capelli scuri di Evangeline, provocato dalla veemenza con cui parlava la ragazza. La sua voce squillante, che aggrediva i suoi timpani di primo mattino, gli urtava i nervi, ma allo stesso tempo tutta la volontà che Evangeline stava mettendo per convincerlo a interessarsi a qualcosa che comunque lo riguardava, lo intrigava parecchio.
Quentin, intanto, seduto in silenzio a capo tavola, alternava lo sguardo tra i due come se stesse guardando una partita di tennis, con  i capelli lunghi fino alle orecchie perfettamente in ordine. La giovane sbattè un pugno sul tavolo, accompagnando il rumore con un verso di sconfitta.
In quei pochi secondi in cui era riuscito a vedere la mano della ragazza alzarsi, Killian era stato convinto che  il pugno sarebbe arrivato dritto sulla sua testa e, infatti,  quando aveva visto la mano ricadere sul legno del tavolo,  aveva sussultato non solo per il rumore, ma anche per la sorpresa. 
Lo sguardo gli cadde prima sulla mano, che si stava arrossando a vista d’occhio, e poi sul viso della ragazza: gli occhi verdi stavano diventando sempre più lucidi e i denti erano stretti, probabilmente per far evitare che le lacrime fuoriuscissero; con i suoi modi da strafottente, era riuscito a farla innervosire  a tal punto da farle venir voglia da piangere. 
Staccò gli occhi dai suoi quando, facendo rumore con i piedi, la ragazza attraversò la porta d’uscita velocemente.
Killian guardò Quentin che non fece altro che ricambiare lo sguardo silenziosamente, alzando leggermente le spalle.
Il giovane si passò una mano nei capelli e si girò di scatto verso dietro quando un’altra voce femminile attirò la sua attenzione.

«Mi sono persa qualcosa?»

Cassandra, che non era stata degnata neanche di uno sguardo da Evangeline quando le era passata nervosamente affianco, entrò nella stanza e si sedette nel posto precedentemente occupato dall’altra. 
Prese un pezzo di pane e cominciò a mangiarlo, cercando nello sguardo di Killian e di Quentin una risposta alla sua domanda. Invano.
«Vado anche io.» disse Killian sfrecciando via dalla stanza.
Cassandra si girò nuovamente verso Quentin: il ragazzo, ancora una volta, si limitò ad alzare leggermente le spalle, in silenzio.



«Uno… due… tre… quattro…»

Era la quinta stanza? O forse l’ottava?
Killian era ormai arrivato nella zona delle camere da letto, ma non si era degnato di prestare attenzione neanche quando Quentin aveva assegnato le rispettive stanze.
Adesso stava contando il numero delle porte tutte uguali, sperando che improvvisamente gli venisse in mente quale fosse quella di Evangeline. 
Sbuffò per l’ennesima volta e si appoggiò con la schiena a una delle tante porte, con le braccia che gli ricadevano lungo i fianchi.
Chiuse gli occhi, stringendo le palpebre, ma fu costretto a riaprirli quando sentì l’appoggio dietro la schiena venirgli meno e per poco non cadde.
Si girò e si ritrovò davanti agli occhi la figura minuta di Evangeline, con i capelli castani legati in una coda di cavallo e delle tracce di trucco un po’ sbavato sotto gli occhi.
La guardò per un attimo, finchè non ritenne che fosse giusto cominciare a parlare, ma lei lo precedette.
«Ho sentito dei tonfi sulla mia porta.» disse semplicemente e poi abbassò lo sguardo, facendo per chiudere la porta; Killian però bloccò prontamente la porta con un piede.

«Mi dispiace per quello che è successo prima, in sala pranzo.»

Leggeva nel viso di Evangeline che ciò che aveva detto non era abbastanza, ma non sapeva cos’altro aggiungere.
Provò a pensare ad altro da dire, ma  già ammettere che era dispiaciuto per qualcosa gli era risultato difficile, molto difficile.
Si guardò intorno, non riuscendo a reggere il peso dello sguardo di rimprovero della ragazza.
Fece un cenno con la testa e si girò, dirigendosi verso la propria camera.

 

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