Amaryllis

di GiuUndergroundNOH8
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Copriti, rimani nell'ombra ***
Capitolo 3: *** Sorprese Inaspettate (sul serio) ***
Capitolo 4: *** Questo momento prima o poi doveva arrivare ( o così dicono) ***
Capitolo 5: *** Odio quando la verità non è a mio favore ***
Capitolo 6: *** Quando si chiude una porta... ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
U. Foscolo, A Zacinto.

 

Mi chiamo Kim Jong-dae, ma ormai nessuno mi chiama più così. Anzi, da un po’, nessuno mi chiama più. Un tempo ero famoso ed apprezzato da migliaia di fan sparse in tutto il mondo, ma il Destino o Dio ha voluto che la mia vita prendesse una piega del tutto inaspettata. 7 anni fa è iniziato tutto. E’ iniziata la mia fine.
Sono stato processato in contumacia. Da allora sono esule e giro il mondo in cerca di una seconda casa. Vivo con pochi spiccioli al giorno. Da giovane ero riuscito a raggruppare un piccolo gruzzoletto che ora dovrò farmi bastare fino alla fine dei miei giorni. Non vedo questo traguardo molto lontano. Ho meditato a lungo sul fatto di farla finita. Morire giovane nascosto nell’ombra, senza lacrime da parte di nessuno.
Una mano invisibile ha sempre vanificato i miei progetti. Una forza che non so descrivere mi ha sempre messo i bastoni fra le ruote. Alcuni la chiamano vigliaccheria, altri istinto primordiale di sopravvivenza.
Non ho più un nome. Un tempo ero conosciuto come Chen, il main vocalist di una pop band coreana, gli EXO. Oggi sono Williams, Gustav, Karim, Leo, Samir, Matt ma mai, mai Chen o Kim Jong-dae. Loro sono morti.
Sepolti in Corea con una parte di me che mi è stata strappata di dosso senza il mio consenso. All’inizio mi sono sentito un fantasma.
Mi avevano tolto il mio nome. Per molte culture se si conosce il nome di una persona, si può conoscere la persona stessa. Come se fosse una parte di noi, una parte che non si può trascendere.
Condannato e auto-esiliato. Sono innocente.
Sono 7 anni che vago per il mondo. Ho conosciuto tantissime culture diverse fra di loro, tutte mi sono rimaste nel cuore. Niente è come casa, ma non posso tornarci. Ho cercato di farmi una seconda vita.
Non me ne sono fatta solo una seconda. Ma decine.

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Capitolo 2
*** Copriti, rimani nell'ombra ***


Copriti, rimani nell'ombra
 

Sapevo di essere indagato e che presto mi avrebbero reputato colpevole. Non persi tempo a crogiolarmi nella speranza che un miracolo ascendesse su di me e mi assolvesse al processo. Grazie ad un mio contatto fidato, mi procurai una nuova identità, nonché un nuovo passaporto.
Nella mi seconda vita, ero un ventenne di Seoul di nome Han Shin. Shin significa ‘fede’. Trovai la cosa come uno scherzo della natura. Ormai non credevo più a nulla. Né in Dio (non ci avevo mai creduto granché nemmeno prima) né nelle istituzioni (mai neppure saputo quale fosse il loro fine).
Presi il primo biglietto più economico che trovai. Per precauzione decisi di abbandonare l’Asia. Non ero certo che una volta arrivato in Cina sarei stato al sicuro. E se poi una volta arrivato là, mi riconsegnano alle autorità coreane? Quel pensiero non mi faceva dormire la notte. Se anche la Cina avesse un mandato di cattura? Poteva essere, no?
Comunque pensai, meglio andare il più lontano possibile. La prudenza non è mai abbastanza. Inoltre sapere casa così vicino mi avrebbe gettato nello sconforto più totale.
Sapere di essere relativamente vicini a casa ma di non poterci più tornare.. Non penso ci sia cosa peggiore al mondo da sopportare.
Partii con solo uno zainetto. Non avevo avuto tempo di prendere tutte le mie cose, dovevo fuggire da Seoul il prima possibile.
Non ebbi nemmeno modo di salutare la mia famiglia. Lasciai un messaggio in segreteria.
Addio, vi voglio bene.
4 parole e poi il silenzio. Silenzio che dura da 7 anni. Silenzio che rode le loro viscere come i tarli dei mobili in legno. Cosa penseranno di me i miei genitori? Che sono un assassino o innocente? Sapranno che voglio loro un gran bene e che mi mancano da morire? Una parte di me pensa che li abbia delusi così tanto da indurli a dimenticare di avere un figlio minore. Da lasciarli credere di avere un solo figlio.
Quando ci penso la stomaco mi fa un male cane. Come se qualcuno prendesse delle cesoie e me lo tagliasse in due.
Mamma, papà, Jong-deok. Buffo come un avvenimento possa stravolgere la tua vita. Tutti parlano di ‘rivoluzionare la propria esistenza’, di cambiarla in positivo perché al momento stanno passando dei momenti di merda. Nessuno si rende conto di quanto sia felice la loro vita prima di averla persa. Puff. Basta un cadavere, un po’ di droga e ti ritrovi una vita da esule.
Mi tinsi i capelli biondo platino prima di partire e mi feci un tatuaggio sul collo. Un leone, abbastanza grosso, prendeva tutta la spalla destra. Era così realistico che sembrava vero.
Durò un mese, poi l’acqua lo portò via. Lo distrusse sciogliendolo lentamente, fino a quando quel leone non sbiadì del tutto e finì nel tubo di scarico di Parigi.
Sparito. Come Kim Jond-dae, come Chen.
Han Shin era una persona che non dava fiducia a nessuno né la nutriva nei confronti di qualcuno. Nemmeno nei confronti della commessa gentile con una spolverata di lentiggini sul naso e gli occhi da cerbiatta, caratteristiche che ad una prima occhiata possono ben disporre.
Non parlava con nessuno, dato che non conosceva una parola di francese.
All’inizio viveva in un sudicio motel alla periferia di Parigi. Costava poco e anche se le compagnie più gradevoli erano scarafaggi e tarme, non si lamentava mai.
La vita è cara a Parigi. Pensò ad un certo punto di trovarsi persino un lavoro.
Peccato che non sapesse spiccicare una parola di francese.
La verità è che non aveva voglia di vedere gente. Han Shin era sfiduciato nel genere umano. Un errore così grossolano lo aveva considerato responsabile di un crimine atroce. Un errore così patetico lo aveva allontanato per sempre dalla sua famiglia, dai suoi amici.
Era solo.
Ho sempre sentito dire che quando si è in procinto di morire si ricerca la solitudine. Han Shin pensò davvero che fosse arrivato il suo momento. Aveva passato due settimane in un Motel dal nome impronunciabile, due settimane senza parlare con nessuno se non a gesti con qualche venditore ambulante.
Si teneva tutto dentro. Il suo dolore che avrebbe voluto urlare all’universo, la sua rabbia, il suo sconforto, la sua paura.
Sfogati, gli diceva sempre sua madre, ti sentirai meglio.
Già ma con chi?
Continuò a tingersi i capelli. Il leone era ormai sparito. Ebbe a volte timore che qualcuno potesse riconoscerlo. Che potesse scorgere nel profondo dei suoi occhi un rimasuglio della sua vita passata.
Scoprì che accanto al Motel c’era un ristorante cinese e giapponese. Mikaku.
Pensò che avrebbe potuto chiedere loro un lavoro. C’era un problema. Non era in regola con il visto. L’amico fidato era rimasto in Corea, c’erano delle possibilità che sarebbe riuscito a contattarlo e chiedergli di mandargli un visto fasullo?
Una delle cameriere mostrò subito interesse per il giovane asiatico che cercava disperatamente lavoro. Lei lo avrebbe accolto immediatamente nel locale e tra le sue braccia, ma il proprietario era di tutt’altro avviso..
Ritornò al motel sfiduciato. Per la rabbia ruppe una finestra che fu costretto a ripagare.
Il vetro non fu l’unica cosa che ruppe.
Una sera si imbatté in un gruppo di occidentali davvero poco amichevoli. Han Shin sapeva che lo stavano insultando pesantemente. Solo non sapeva cosa gli stessero dicendo e francamente non è che gli interessasse poi così tanto. Continuò per la sua strada, ma i giovani sembravano non volerlo lasciare andare, come un cane che ha trovato un osso da sgranocchiare dopo un giorno di digiuno.
Tra una spintonata ed un’altra, la maglietta si macchiò di sangue, il labbro inferiore si spaccò ed il naso scricchiolò.
Al pronto soccorso provvederono a lui. All’inizio non voleva nemmeno andarci, temeva che i medici si accorgessero che non era in regola. Invece nessun controllo.
Fu la cameriera premurosa ed invaghita di Han Shin dal primo sguardo che si offrì di scortarlo fino all’ospedale. Lui la ringraziò, ma non come forse lei si aspettava.
Non la strinse tra le sue braccia e non la baciò fino a fargli mancare il respiro.
Pensò che fosse un altro scherzo della Natura quello di trovarsi a Parigi, la città dell’amore, e rifiutare delle attenzioni da parte di una esile e graziosa cameriera cinese.
Qualcosa di buono però arrivò. La ragazza fu così impietosita da quanto successo al povero Han Shin che convinse il datore di lavoro, nonché suo padre, ad accettare tra le fila dei suoi indipendenti anche il giovane coreano.
Il problema stava dove metterlo. Non poteva fare il cameriere perché non parlava francese. Nemmeno un aiuto cuoco dato che non sapeva dove mettere le mani per cucinare anche solo del semplice riso cotto al vapore. Han Shin avrebbe voluto tanto cantare ed intrattenere gli ospiti del locale. Ma non poteva farlo.
Se qualcuno riconosce la mia voce? Si chiese se per caso non si desse troppe arie e non si considerasse più famoso di quanto non fosse. Però la prudenza viene prima di tutto.
Così il ragazzo divenne uno sguattero. Lavorò per poco tempo, meno di un mese. Si fece dare la paga che si meritava e la sera aveva già un biglietto di sola andata per Berlino.
Qualche giorno prima si era fatto recapitare un documento falso. E’ così facile cambiare identità, vestire i panni di una persona che crediamo non ci appartenga..
La mattina dopo era in viaggio su un treno per la capitale tedesca.
La cameriera non vide più la sua cotta al lavoro, né ebbe più sue notizie. Chissà se fu triste. Chissà, forse ci teneva un po’ a me.
Han Shin sparì, subissato da Gustav Schmit.

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Capitolo 3
*** Sorprese Inaspettate (sul serio) ***


Sorprese inaspettate (sul serio)

Non trovai Berlino così tanto bella. Grandi spazi vuoti, edifici che sembrano dei casermoni. Davvero poco ospitale a primo impatto.
Appena misi piede sul suolo tedesco, mi immaginai come un diario segreto appena comprato, con le pagine bianche e candide che odorano di libro nuovo.
Era tempo di ricominciare una nuova vita. Ancora.
Per prima cosa, dovevo trovarmi un luogo per la notte. I ponti e le panchine all’aperto non mi hanno mai attratto più di tanto, anche se sono completamente gratuiti. Sarebbe stato un vantaggio quello di risparmiare un po’ di soldi, certo, ma non potevo dormire all’addiaccio sotto i flebili raggi lunari con il rischio di essere preso di mira da qualche occidentale scapestrato. Che fare, ripiegare ancora su qualche hotel a basso prezzo?
Ero a tutti gli effetti un clandestino.
Mi dissi che non avevo molta scelta. Prenotai una camera e mi tinsi i capelli rosso rame.
Gustav era un rosso (ovviamente, finto). Parlava coreano perché aveva vissuto tutta la vita in corea. Padre coreano, madre tedesca. Ovviamente lui sapeva solo il coreano. Era inutile a Busan conoscere anche il tedesco. Così lui non si era mai dato la pena di impararlo. Ora era tornato a Berlino per rivedere i suoi nonni materni. Era tanto tempo che non li vedeva più, sentiva la loro mancanza. Come anche di una zia e di un paio di cuginetti. Rifilò questa storia ad una barista flaccida dell’hotel in cui soggiornavo. La ragazza era tedesca ma studiava cinese all’università. Muoveva la testa su e giù. Gustav ebbe l’impressione che a volte non capisse cosa stesse dicendo. Comunque Zoe non gli chiese mai di ripetere, così lui non lo fece.
Gustav era diverso da Han Shin. Era un tipo più alla mano che parlava di sé (di Gustav Schmitz) quando qualcuno glielo chiedeva. Zoe sembrava ogni volta contenta di vedere il suo amico asiatico. Così parlava con lui ed esercitava il suo cinese. Aveva una pronuncia terribile. Le gutturali erano troppo calzate ed aspirava l’acca con così forza che temevo si sarebbe strozzata un giorno o l’altro. Non che mi sarebbe importato.
Se c’è una cosa che ho appreso nei miei anni di vagabondaggio è l’essere distaccato da tutti. In fin dei conti impersonavo una parte, non ero io. Io, Kim Jong-dae, Chen, tutti morti. Chi ero quindi? Ero una semplice immagine che rifletteva storie inventate. Forse sotto sotto uno di quei personaggi rispecchiava una parte di me. Io ho succhiato come un sanguisuga le loro vite per farle mie. Ma io non ero loro né loro me.
Questo mi è sempre stato molto chiaro. Io impersonavo loro, ma il vero io non c’era. Era un cumulo di cenere dentro un vaso funebre.
Una semplice maschera dove dietro si celava il vuoto.
Mi accorsi presto che le mie finanze stavano scemando. Abbandonai il motel e mi ritrovai a dormire sotto i ponti o su qualche panchina.
A parte il freddo terribile, non patii altri problemi. Se non per una notte che mi ricordo come se fosse ieri. Stavo dormendo su una panchina, sotto dei giornali trovati nel bidone della carta a mo’ di coperta, quando fui svegliato da un rumore perentorio che solo dopo molto tempo capii si trattasse di un cane che mi stava ringhiando contro.
Quando mi resi conto della situazione, rimasi paralizzato. Il bestione era uno dei quei cani magri con le orecchie a punta e il muso allampanato, una razza orrenda. Mi stava guardando e mi ringhiava. Sbavava. Temetti mi volesse mangiare, forse era da un po’ che era a digiuno come me. Muovevo solo gli occhi per non infastidire il cane e per scongiurare un assalto che mi avrebbe visto sgozzato e sbranato. Dietro di me c’era un cancello abbastanza alto, ma saltando dalla panchina sarei stato in grado si scavalcarlo. Il problema stava nell’agire. Se avessi mosso anche solo un muscolo quel diavolo mi avrebbe azzannato la gola.
Rimasi per un po’ immobile come una statua. Sentivo i suoi occhi pesarmi come due macigni mentre il cuore minacciava di uscirmi dal petto.
Ma fui fortunato. Un rumore lontano distolse il cane dalla sua mira, cioè io, così potei balzare in piedi e arrampicarmi sul cancello.
Il cane tuttavia si ridestò immediatamente e mi addentò una gamba. Io allora lo calciai con l’altra libera e quello mugolò, insieme a me, dato che quella bestiaccia mi aveva fatto male. Fui in grado comunque di scavalcare il cancello e di gettarmi dall’altro lato, atterrando su una siepe che sfasciai.
Mi ritrovai in una villa. Attraversai il giardino e scavalcai nuovamente il muricciolo.
La gamba azzannata mi stava sanguinando, così mi appostai sotto una farmacia e aspettai l’indomani che aprisse.
Mi feci capire a gesti con la commessa. Volevo un cerotto, ma non sapevo e tutt’ora non so, come si dica in tedesco. Alla fine la donna capì, pagai (con i pochi denari che mi erano rimasti) e me ne andai.
Mi stancai subito di Berlino e di Gustav Schmitz. Volevo un luogo più caldo e poi Gustav è un nome orrendo, uno dei più brutti che abbia mai sentito.
Presi il treno e finii ad Innsbruck. Ero in Austria con una multa salatissima per non aver pagato il biglietto. La stracciai. Gironzolai per il paese, le montagne tutt’attorno mi facevano sentire stretto e mi sentivo quasi asfissiato.
Gustav Schmitz adorava bere Red Bull. Così ne comprai un paio e le sorseggiai lentamente ad un bar, distogliendo l’attenzione dalle alte montagne che mi facevano sentire oppresso. Gustav Schmitz si sentì subito meglio.
Mi chiesi se dovessi cambiare nome un’altra volta. Ci rimuginai su per un po’, arrivando poi alla conclusione che non ce ne era bisogno. In fin dei conti era come se mi trovassi ancora in Germania, attorniato da crucchi dalla pelle abbacinante per la loro bianchezza, e dalle iridi slavate che nuotavano in quegli occhietti porcini.
Innsbruck è piccola, ma graziosa. C’è un arco di trionfo piantato lì in mezzo alla strada, non ne comprendo il motivo. In Europa sono pieni di questi cimeli decadenti, gettati alla rinfusa in mezzo alla città senza una logica.
Abbandonai le mie elucubrazioni sull’arte e sulla sua giusta collocazione. Dovevo trovarmi un posto per dormire. Il punto era, con quali soldi? Quelle montagne colme di neve non mi ispiravano alcuna fiducia e mi scoraggiavano a passare un’altra notte all’addiaccio. Per di più la traumatica esperienza di qualche giorno prima mi ordinava di dormire al riparo. La mia mente corse alle stazioni dei treni o della metro. Niente metro ad Innsbruck, quindi non ebbi scelta.
Mi accoccolai verso le undici di sera su una panchina, la più isolata che riuscissi a trovare. Tentai di prendere sonno, ma accadde una cosa che non mi capitava da tempo.
Ripensai a casa, a Seoul, alla vita che mi ero lasciato indietro. Non riuscii a ricacciare indietro le lacrime. Avevo cercato di prendere con ironia la mia nuova vita per non lasciare che la depressione si impossessasse di me, per non avere come compagno di vita il rancore, per provare a costruirmi una nuova esistenza che potesse dirsi tale e non mera sopravvivenza. In quel momento sembrò che tutto il dolore che avevo soffocato fosse riemerso all’improvviso, travolgendomi e imbrigliandomi nelle sue spire appiccicose e inarrestabili. Come un vulcano che dopo secoli di silenzio erutta. E si sa che la prima eruzione dopo secoli di quiescenza è la più terribile.
Il mio pianto attirò l’attenzione di alcuni passanti. Mi scrutavano di sguincio, io nascondevo la testa sotto le braccia, affondando il volto nella maglia per non mostrarmi a quello stato, ma non riuscivo a consolarmi.
Una guardia mi si fece vicina. Mi abbaiò qualcosa in tedesco, non lo compresi, mesi in quei territori crucchi e ancora dovevo imparare una (sottolineo una) parola.
Mi tirò su e gli vidi il volto. Raggrinzito, con la barbetta di pochi giorni, lo sguardo di chi starebbe meglio se tu non ci fossi.
Mi vergogno a ripercorrere quei momenti. Lo farò molto velocemente.
Io che piango come un fontana. Lo scorbutico che mi trascina di peso in commissariato. Io che supplico (tra le lacrime) di lasciarmi in pace.
Sbattuto sulla sedia di un ufficio alquanto spartano, attendo il mio destino.
Il poliziotto entra, sbiascica in quella lingua incomprensibile. Taccio. Taccio tutto il tempo. Un secondino mi piglia per una spalla, mi ammanetta e a calci in culo (letteralmente) mi sbatte in cella.  


Angolo Autrice: In primis, ringrazio chi ha recensito questa fanfic, coloro che mi seguono o hanno inserito questa  storia tra le preferite! In secundis, voglio scusarmi (è d'obbligo) per la lentezza con cui procede questo racconto. Il problema è che NON HO TEMPO! AHAH, certo non vale la scusa che sono sotto maturità, potrei ritagliarmi dei piccoli momenti per dedicarmi a scrivere, ma sono sempre pienissima di impegni. Avevo addirittura pensato di sospendere questa storia, poi oggi, non avendo voglia di studiare, l'ho continuata. Prometto che mi sforzerò a rinnovarla ogni settimana! 
Detto ciò, grazie per aver dedicato del tempo a questo racconto senza senso! 

 

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Capitolo 4
*** Questo momento prima o poi doveva arrivare ( o così dicono) ***


Questo momento prima o poi doveva arrivare (o così dicono)


Passo alcuni giorni rannicchiato in un cantuccio della prigione, seduto, con le gambe al petto. Ho indosso dei vestiti logori, sporchi di acqua di pozzanghere credo, più sudore e lacrime. Ogni volta che passava il secondino sbattevo le mie lunghe ciglia, ammiccavo, storcevo il labbruccio, come una diva che vuole mostrare al mondo intero la propria vulnerabilità. Davvero patetico, lo ammetto. Ma cosa potevo fare? In quel momento di disperazione l’unica cosa in cui si poteva sperare era che il secondino fosse gay e gli piacessero gli asiatici. Certo un pensiero contorto e fantasioso, ma la paura fa fare anche di peggio. Fatto sta che poi mi liberano –in fin dei conti ero innocente- , mi cacciano fuori dal commissariato, consigliandomi di rientrare in patria insieme ai miei amici cinesi.
Gli europei non fanno distinzione tra cinesi, giapponesi, coreani, tibetani, indonesiani. Tutti uguali siamo per loro! Non si rendono conto che per noi sono loro ad essere tutti uguali!
Sbattuto fuori di cella, dovevo pensare a che cosa fare. Innsbruck è un buco di città, mi son detto. Meglio svignarsela da qui.
Così me ne sono andata in Italia. Non mi ero accorto di aver passato il confine inizialmente, perché anche qui parlano il tedesco. Continuavo a ripetere ‘Italia, Italia’ al carrozziere del treno, non capendo un tubo di quello che cercava di dirmi.
Siamo già in Italia, cinese di merda. Sicuro avrà detto questo.
Arrivo poi a Milano. La città eraimmersa nella nebbia, un alone grigio gravitava sui palazzi e sulle piazze. La prima cosa che mi venne in mente era che dovevo cercami un altro nome.
Ricordo che vagavo tra le vie e viuzze della città, quando mi prese fame di pizza.
Non faticai molto a trovare il primo chiostro che ne vendesse. Mi feci servire al tavolino, poi scappai senza pagare. Ricordo le urla del proprietario e qualcuno che mi insegue. Fatto sta che mi salvo entrando in un posto chiamato Spaccio Aziendale.
Per ricordarmi di questo luogo che mi ha salvato da un’altra notte in carcere, decido di chiamarmi Spaccio di nome e Aziendale di cognome. Non ricordo già più cosa significhino queste parole, eccetto che per Spaccio, la situazione è davvero comica.
La pizza era buona, mi lasciò un languorino insoddisfatto, ne volevo dell’altra ma non potevo permettermelo. Si stava già facendo buio. Ebbi la bislacca idea di dormire in una chiesa. Almeno tentai, perché venni scoperto dalla perpetua che chiamò immediatamente il prete.
La chiesa era piccola, una sola navata, il tetto era sorretto da dei triangoli in legno.
Il prete, un omaccione vestito tutto di nero, con due grosse sopracciglia folte e i capelli radi, sulla cinquantina credo, si rivelò molto gentile.
Mi chiese chi ero, da dove venivo, cosa ci facevo lì.
«What’s your name?»
«Spakkio.. Ascéndale.»
Gli dissi che ero solo, che non avevo soldi, che ero appena arrivato a Milano. Mi feci capire con il mio inglese stentato, a gesti. Il prete disse di chiamarsi Don Silvestro.
Mi portò a casa sua, mi offrì un piatto di polenta poi mi condusse in una struttura, il San Francesco, dove internano i nullatenenti. Inizialmente accettai di buon grado il gesto di Don Silvestro, mi aveva trovato un tetto sotto cui dormire. Ma il San Francesco è un manicomio di poveri. La gente puzza, è scorbutica, guardinga.
Non c’erano più letti, così dormii per terra, una coperta e un cuscino fu tutto ciò che ricevetti. Un ragazzo giovane, invecchiato prima del tempo, con la barba lunga e crespa, gli occhi tondi come due soli, mi si accostò. Parlò, parlò e continuò a farlo per ore. Cercai di fargli intendere che non capivo una mazza di quello che stesse dicendo, poi rinunciai. O non capì o non volle capire. Si chiamava Luka. Tutto ciò che compresi fu il suo nome.
Mi addormentai, credo, che ancora parlava. Mi svegliai e lui (fortunatamente) non c’era più.
Ricordo bene quella notte. Sognai quella povera ragazza, stesa in una posizione innaturale. La schiena arcuata, le gambe divaricate, il collo storto. I capelli neri, setosi in un grumo di sangue. Mi svegliai di soprassalto, sudato, il cuore che martellava nel petto.
Andai in bagno e mi diedi una rinfrescata, poi tornai a dormire.
Il giorno dopo lo passai con un groppo alla gola. Ero suscettibile, nervoso, agitato.
Mangiai il mio rancio in silenzio, senza degnare nessuno di uno sguardo.
Non riuscivo a scacciare via l’odore del sangue, la paura della morte, il senso di vulnerabilità. Era come se fossi ritornato a quel momento, l’inizio della mia catastrofe. Quel sogno aveva riesumato tutte le mie incertezze.  
Ero così nervoso, che mi sporcai le mani con la polpa di pomodoro, ma il mio cervello, mi disse che era sangue. Rovesciai il piatto a terra, insozzando il pavimento e attirando l’attenzione di tutti i commensali su di me. Gridai, No! Non sono stato io! Ma nessuno poté capirmi, dato che nessuno (almeno credo) parlava coreano.  
Giunsero delle donne, mi presero per le braccia, Keep calm continuavano a ripetere. Dopo alcuni minuti realizzai cosa stava succedendo. Stavo impazzendo.
Non so perché dopo tutto questo tempo, proprio allora il mio cervello avesse cominciato ad inondarmi di ricordi per aiutarmi a superare il trauma. Di fatto stavo meglio prima, quando faticavo a ricollegare i pezzi di quanto successo.
Quando il mio respiro tornò regolare, mi accompagnarono in infermeria. Ma ripresi ad agitarmi appena percepii l’odore di disinfettante ed anestetico.
«Forza Chen! Corri!»
Quelle parole mi rimbombarono in testa. Mi dimenai, come un bestia che non vuole essere addomesticata. Scappai dall’infermeria, trovai la via d’uscita dal San Francesco.
Corsi a perdifiato, quando trovai una panchina liberi e mi ci sedetti.
Fino a quel momento ero sicuro che il delitto si fosse svolto a Gennaio (allora era Novembre). Ero certo che io non avevo ucciso la ragazza, che qualcun altro l’avesse fatto e avesse addossato la colpa su di me. Non sapevo chi fosse quel qualcun altro, ero convinto di qualcuno che non conoscessi. Eppure.. «Forza Chen! Corri!» A pronunciare quelle parole era stato LuHan. 

Angolo Autrice: Grazie a chi commenta e a chi segue anche se silenziosamente questa storia! Ho scritto il capitolo di getto, avevo voglia di rinnovare il racconto. Spero che la lettura sia fluida e che errori che non ho visto, non la rendano stentata. 

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Capitolo 5
*** Odio quando la verità non è a mio favore ***


Odio quando la verità non è a mio favore

Arrivarono le infermiere a prendermi. Mi riportarono dentro il San Francesco. Io ero imbambolato, non riuscivo ad oppormi anche se avrei voluto. Ero piombato d’un tratto in uno stato catatonico, dove le informazioni provenienti dall’esterno non riuscivano a raggiungermi. I suoni erano ovattati, le immagini sfocate. Solo quelle parole di LuHan mi rimbombavano nella mente. Cercavo di ricordare quel momento, perché LuHan mi avesse gridato di scappare. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a ripescare dalla mia memoria neanche un’immagine. Solo quella della ragazza stesa a terra.
Le infermiere mi fecero accomodare in una stanza completamente bianca. Non solo le pareti, ma ogni oggetto, dal letto sul quale mi stesero, dalle siringhe, i flaconi, i camici, era di una gradazione del bianco. Bianco sporco, panna, color crema..
Certo in quel momento non notati tutti questi dettagli. Recentemente sono ritornato al San Francesco e ho potuto vedere con chiarezza quella sala.
Sala 18. E’ stata il mio martirio, ma anche il mio inizio. Appena mi ci ficcarono dentro, ebbi uno spasmo d’ansia. Mi sembrava di venire inghiottito dal bianco, che in quel momento, mi appariva di un’unica gradazione. Ripresi ad agitarmi, fino a quando piombai in un sonno pesante, senza sogni.
Mi risvegliai sdraiato su un letto, legato da cinghie di cuoio. Mi fu puntata all’istante un luce sugli occhi che presero a bruciarmi, come se mi avessero infilzato le pupille con degli stuzzicadenti.
Il dottore disse qualcosa. Un’infermiera orientale mi consigliò di stare calmo. Parlava cinese. Capii dopo di un po’, che lei stava traducendo ciò che il dottore diceva.
Mi fu chiesto il nome, l’età, da dove venivo, cosa ci facevo in Italia.
«Spakkio Ascéndale, 23, Pechino, viaggio studio.»
L’unico cosa su cui non mentii fu sulla mia età. La dottoressa corrugò la fronte a sentire il mio nome. Mi sentii un cretino per aver deciso di chiamarmi come un negozio, senza sapere poi cosa significassero quelle parole.
Mi chiesero perché non avevo documenti. «Derubato.» Perché non mi fossi recato in questura. «Non so una parola di Italiano, né di Inglese.»
«Ma avrebbero chiamato l’ambasciata cinese».
«Io questo non lo sapevo.»
Era chiaro come il cielo che non mi credevano. Tuttavia il dottore cominciò con la visita. Mi mise di fronte degli scarabocchi, dove sembrava che l’inchiostro fosse caduto accidentalmente sulla carta.
«Cosa vedi?»
«Una farfalla, due eschimesi che giocano, un albero con due bambine che leggono libri.»
Ogni foglio conteneva uno scarabocchio e io dovevo dire che cosa ci vedessi.
Il dottore mi puntò poi una matita davanti agli occhi e mi disse di guardare in alto, in basso, a destra, a sinistra.
Io ero calmo, ma comunque nessuno mi slegò. L’ultimo esercizio (che mi devastò) consisteva nel pronunciare la prima parola che mi venisse in mente, di risposta ad una parola che mi diceva il dottore.
Quindi. Casa. «Corea.» (qui, dottore ed infermiera si scambiarono uno sguardo perplesso, avevo detto poco prima di essere di Pechino). Musica. «Passione.» Amore. «Rosso.» Amicizia.. Qui traballai. Un tremore cominciò dalle mani per poi diffondersi a macchia d’olio su tutto il corpo. Era una reazione inaspettata e non riuscivo a contrastarla. Mi salirono le lacrime agli occhi e feci del mio meglio per non piangere. Il dottore vedendomi in quello stato mi sedò.
Quando rinvenni ero sempre nella sala 18. Il dottore mi puntò nuovamente la luce sugli occhi. Poi prese una collana e la fece oscillare di fronte ai miei occhi. L’infermiera cinese parlò: «Il dottore utilizzerà l’ipnosi per far riemergere ricordi rimossi. Concentrati sul diadema della collana. Fa’ finta che ci sia solo quello al mondo. Fissalo mentre oscilla, avanti e indietro, avanti e indietro. Rilassati. Distendi la muscolatura, libera la mente. Concentrati sul diadema e lasciati cullare dal suono della mia voce. Conterò fino a 5 poi chiuderai gli occhi. 1… 2… 3… 4… 5…
Spakkio, hai rimosso un’esperienza del tuo passato che ti ha condizionato, ha sconvolto e ribaltato la tua vita. Voglio che tu ora rivada con la mente a quel momento. Cosa vedi?»
L’atmosfera era confusa. Si materializzò improvvisamente una donna, sulla cinquantina. Aveva lunghi capelli setosi, più bassa di me di almeno due spanne.
Mi stava sistemando l’abito. Accomodò prima il colletto della giacca, poi mi mise attorno al collo una cravatta e fece un nodo piccolo e saldo. Non disse nulla se non «sei splendido questa sera.» Avevo già visto quella donna da qualche parte, era una mia conoscente.
Il clima degenerò. L’atmosfera divenne così pesante che era quasi possibile toccarla. Udii dei rumori sinistri. Scalpiccio di stivali, oggetti che si infrangevano a terra, gemiti, minacce. Sgusciarono fuori dalla porta 3 o 4 uomini incappucciati, armati. La donna si voltò verso di loro, dandomi le spalle.
«Sapevo che prima o poi sarebbe successo.» Disse. Non c’era paura nella sua voce. Solo rassegnazione. Gli incappucciati fecero fuoco.
«Forza, Chen! Corri!» LuHan era alla mia destra. Non mi ero accorto di lui fino a quando non mi incitò a correre, tirandomi per la manica.
La donna mi era caduta addosso. La spinsi a terra e nell’attimo prima che toccasse il suolo, torcendosi l’osso del collo, incrociai i suoi occhi.
Mi supplicavano. Urlavano cosa hai fatto?! Io sono ancora viva!
L’ultima immagine del mio viaggio ipnotico è della donna stesa a terra, in una posizione innaturale.
«E’ colpa mia» gemetti, «l’ho uccisa io.»

Angolo AutriceIntanto mi scuso tantissimo per avervi fatto aspettare così tanto! Ho perso la cognizione del tempo, le giornate passavano senza che me ne rendessi conto (ho scoperto ieri che Giovedì sarà il mio compleanno). Sarà il caldo. Bo'. Comunque questa fanfiction sta per volgere a termine. Non voglio portarla avanti troppo a lungo, sarebbe solo noiosa. Spero vi sia piaciuto il capitolo! Al prossimo :D

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Capitolo 6
*** Quando si chiude una porta... ***


Quando si chiude una porta..


Le cose andarono così.
So-yon era una stilista sudcoreana che in breve tempo riuscì a distinguersi tra il panorama della moda di Seoul e a diffondere in città il proprio marchio.
Era riuscita ad unire qualità e prezzi abbordabili. Si rifaceva all’alta moda italiana e dal momento che a Seoul tutti i borghesi apprezzano i capi del Bel Paese, la donna procedette assai rapidamente nella sua scalata verso la vetta del successo.
La SM aveva deciso di acquistare i capi di So-yon, sia per aiutare una nuova imprenditrice, sia perché quegli abiti ci avrebbero dato un aspetto molto più occidentale che fa impazzire le teenager asiatiche e non.
Insomma, in poco tempo, So-yon avrebbe creato un impero della moda dalle ceneri. La mafia sudcoreana annusando ghiotti affari, decise di acquistare delle azioni del marchio. Per di più arrivò a patti con la donna, ossia che i proprio imprenditori (sottopagati, in nero) sarebbero riusciti a produrre 2 capi a 25 euro l’uno al mese, contro gli altri piccoli sarti che al massimo potevano arrivare a 2 capi al mese a 40 euro ciascuno. A So-yon sarebbe dovuto venire il dubbio. Fatto sta che accettò.
Poi la polizia scoprì tutto. Venne a galla che quei sarti erano in realtà al soldo della mafia. Vennero arrestati quei poveri lavoratori in nero e qualche amministratore che aveva coordinato le relazioni per i capi mafiosi tra So-yon e i sarti.
I giornali il giorno successivo avevano titoli come: Fermati i giochi sporchi della mafia o Duro colpo alle organizzazioni criminali.
I boss erano ancora là fuori. Si erano messi in testa di ottenere il marchio di So-yon, ad ogni costo. La poverina era molto turbata dopo lo scandalo. Aveva paura che adesso il suo brand subisse un calo delle vendite, ma fortunatamente non andò proprio così.
La mafia le chiese il pizzo, ma lei dignitosamente denunciò. I boss vedevano nel marchio di So-yon un espediente per arrivare ad infiltrarsi nei commerci dell’abbigliamento occidentali. Le dichiararono morte.
Mi stava cucendo l’abito addosso, ero insieme a LuHan quando dei sicari arrivarono. Avevano il passamontagna, ma erano dei ragazzi. Almeno questa è l’impressione che ho avuto. Le spararono, ma non a morte. Erano inesperti, per copiare i boss mafiosi del cinema impugnarono in modo scorretto la pistola, di modo che quando spararono i colpi non la uccisero ma la ferirono dolorosamente (questo è quello che ho letto sui giornali.)
Lei mi cadde addosso. Io non seppi cosa fare, LuHan mi gridò di correre, di non starmene lì impalato e la gettai a terra. I killer intanto erano spariti, impauriti come me.
Nella frenesia feci cadere del disinfettante. Vidi la bottiglia mezza piena, pensai di prenderla e di correre da So-yon per aiutarla, ma non lo feci. Non sapevo ancora che fosse morta, per me c’era ancora un ultimo tentativo che si poteva fare.
Uscii dall’edificio insieme a LuHan. Denunciammo il fatto, arrivò la polizia.
Ci furono indagini, perquisizioni.
Il mandato di arresto cadde sulla testa mia e di LuHan. Non so come, sicuramente le mafia si sarà infiltrata tra gli alti livelli della politica.
Decidemmo di scappare.
Non so perché, ma questa storia me la dimenticai e se non fosse stato per quel medico sarebbe rimasta sepolta nei recessi della mia mente.
Il resto della storia la sapete.
Dopo essere scappato dal San Francesco, decisi che era giunto il momento di riscattarmi, di raccontare la mia storia. Incontrai una giornalista scapestrata ed in erba. Lei mi riconobbe, riconobbe il Chen cantante degli EXO. Il report fece il giro del mondo, le accuse a mio carico decaddero.
 
Posso ritornare in Corea, ma non credo che lo farò. La mia vita di prima è morta e non c’è modo di riprendersela. Ho deciso di continuare questa mia nuova vita. Cammino per le cittadine europee da solo, cantando di tanto in tanto quando mi invitano a degli show televisivi o a feste di paese.
Ogni mattina però mi alzo molto presto per vedere l’alba, perché lì, da dove sorge il sole, io sento il profumo di casa.

Angolo Autrice: finisce così questa storia! Non sono brava a tirarle troppo per le lunghe, più che altro è che mi stanco! AHAH Ho troppe idee per la testa e per seguirle tutte finisce che non concludo mai niente! Così ho deciso di mettermi giù (per una buona volta) e di completare questa storia anche se significava tagliare diversi capitoli. Va be', alla fine non mi sarebbe piaciuto scrivere, scrivere, scrivere e non raccontare niente...
Spero la storia vi sia piaciuta! Recensite garzie!

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