La ragazza sulla spiaggia

di Yellow Canadair
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo schianto dell'Enki ***
Capitolo 2: *** Notturno con il naufrago ***
Capitolo 3: *** La lunga corsa di Rea ***
Capitolo 4: *** L'alba di Viral ***



Capitolo 1
*** Lo schianto dell'Enki ***


Ciao a tutti! Grazie per aver aperto la mia storia! Si tratta della mia prima FF su Gurren Lagann, spero di non aver creato troppi pasticci con la trama originale. Per favore lasciate un commento se vi è piaciuta (ma anche se vi ha fatto schifo!), le critiche sono molto ben accette! :) all'inizio di alcuni capitoli c'è un suggerimento per la canzone di sottofondo, non mia ma presa in prestito da You Tube.

buona lettura,
Yellow Canadair

 

Capitolo Primo: Lo schianto dell'Enki

*Mark Keali'i Ho'moalu - He Mele No Lilo*


Era mezzogiorno e il sole era alto. Scaldava la terra dopo un inverno gelido e una primavera tiepida, e ora splendeva impietoso, facendo crepitare l’aria e arroventando gli scogli. Il mare, sotto, luccicava e si muoveva piano lungo tutta la costa, da cobalto al largo diventava blu, poi turchese, poi verde vicino agli scogli e acquamarina quando le onde raggiungevano la spiaggia solitaria e si allungavano a danzare sulla sabbia umida. La sabbia chiara e fine era costellata da impronte di gabbiani e, sulle dune in fondo, da gigli di mare, fiori con sei lunghi petali bianchi, che crescevano lungo tutto il golfo e dando ristoro a nugoli di vespe e di api. Conchiglie e scheletri di crostacei formavano linee sinuose lì dove le onde del mare in tempesta le avevano trascinate diverse settimane prima, a un tiro di sasso dalla battigia ora tranquilla. Solo sabbia, su quel litorale. Sabbia, e un cumulo di scogli che sembravano messi lì per caso, caduti dalla mano di un dio nella notte dei tempi, che coprivano la vista della spiaggia per alcuni metri e che offrivano riparo ai gabbiani quando il mare volgeva al brutto. Potevano con facilità essere scalati però, e avventurandosi tra le pieghe rocciose si poteva scoprire che in realtà gli scogli erano due, o uno solo rotto nel mezzo, e che c’era una piccola grotta, scavata dal mare e profonda un paio di metri, dove potersi sedere tranquillamente e guardare il mare, se non si aveva troppa paura delle tonnellate e tonnellate di roccia che sovrastavano la testa dello spettatore.
Oltre la spiaggia si estendeva una foresta di poco fitta di lecci e di pini marittimi, e arbusti bassi dai fiori rosa e gialli adatti a sopportare quel clima secco.
Una figuretta schizzò di corsa fuori dalla foresta e si fermò a guardare il mare a pochi metri dall’acqua: era una ragazza, magra e abbronzata. I piedi erano piccoli, le caviglie sottili, le gambe avevano l’aria robusta ed erano sporche di polvere. Indossava un paio di pantaloncini corti, consumati e sfilacciati, e il seno piccolo era coperto da un costume che, nei suoi colori turchesi e rosa che facevano spiccare i kalakaua hawaiiani disegnati di bianco, contrastava stranamente con il pantaloncino liso. Anche le braccia erano muscolose, e quasi a sottolineare il deltoide, una lucertola era stata tatuata lì, e con la coda cingeva tutto il braccio. I capelli, corti e mossi dal vento e dal sale, le facevano una testa da gorgone. Il viso era minuto, le guance rosse per la corsa. Guardava il mare e sorrideva, con una fila di denti bianchissimi. Posizionò sugli occhi una maschera subacquea, si sfilò il pantaloncino che rimase lì riverso, rivelando anche il pezzo inferiore del bikini e si tuffò. Nuotò sott’acqua e riemerse ad alcuni metri dalla riva; prese fiato e si rituffò, nuotando verso nord-ovest.
Un cavallo grigio chiaro, senza sella ma con delle redini improvvisate, in corda, avanzò pigramente sulla spiaggia, sgranocchiando qualche arbusto che cresceva tra i gigli di mare. Invece di dirigersi, come suo solito, verso il pantaloncino abbandonato dalla padrona però, decise di fare una passeggiata dall’altra parte dello scoglio, per cercare qualche alga portata dal mare. Poi c’era un odore che non aveva mai sentito, da quella parte. Era curioso. Non si avvicinò però, a quegli strani oggetti chiari e voluminosi: non somigliavano a nulla che avesse mai visto nei suoi sette anni; anzi, c’erano oggetti chiari e voluminosi, e altri piccoli e scuri, sparsi senza ordine, e che non si muovevano. Non odoravano di vita. C’era un piccolo odore di vita, e un altro odore che conosceva bene, odore di sangue. C’era qualcosa che respirava tra quegli oggetti sconosciuti, e che poteva essere letale per lui; non ci teneva a porre fine a quei sette anni, parte dei quali trascorsi nutrito e curato da quella strana padrona che gli saltava addosso sì, ma lo sfamava senza che facesse altro, e poi quella corda che gli metteva in bocca e con la quale comunicava dove volesse essere spostata. No, no, non avrebbe finito. Trotterellò via, verso il pantaloncino che lo aspettava dall’altra parte degli scogli.
Nuotando, un po’ sott’acqua e un po’ no, la ragazza si stava stancando. Decise di allungarsi oltre i grandi scogli, poi sarebbe tornata a casa, perché aveva anche fame. Arrivata sul limite degli scogli, tornò in apnea. Conosceva bene quei fondali, quindi cos’erano tutti quei pezzi sulle rocce del fondo? Sembravano i poveri resti di un naufragio. C’erano eliche, pezzi di motore, ferraglia. Eppure il mare non era stato in tempesta, pensò. Riemerse per prendere aria e guardò verso la riva, sulla spiaggia dall’altra parte degli scogli invisibile dal luogo dove s’era immersa: c’erano i frantumi di un robot da combattimento, arenati come cetacei.
Rimase per un attimo impietrita nell’acqua: invasori. Qualcuno profanava la sua casa, la sua terra. Poteva essere un pericolo per lei. Ma ci ripensò: quello era un naufragio. Un invasore non si sarebbe certo schiantato, evitando tra l’altro per meno di un metro lo scoglio. L’aveva davvero evitato? E il pilota? Era riuscito a catapultarsi fuori dal suo arnese prima dell’impatto con l’acqua? O era ancora lì, nelle lamiere accartocciate? Ma mentre pensava queste cose, aveva già percorso i metri che la separavano dalla riva, facendo un largo giro come per circoscrivere quella nuova scoperta. Uscì dal mare e intravide una forma umana, immobile nell’acqua che andava e veniva. Si avvicinò con cautela, con il terrore di trovarsi di fronte un volto orrendamente deformato dalla morte e dall’acqua salmastra.
Era un uomo. Uno solo. Steso a pancia in giù. Alto, più di lei, molto magro, pallido, biondo. Aveva uno strano vestito rosso cupo, più da valletto che da pilota. Aveva problemi alla spalla sinistra, e alla testa, probabilmente aveva sbattuto nell’urto. Le vesti erano sporche di sangue, ma la sabbia attorno, pulita e ricambiata tante volte dal mare, no. Era vivo? Si avvicinò dal lato e gli diede qualche colpo leggero sotto le suole col suo piede nudo, ma non ottenne risposte.
-Ehi… sei vivo?- azzardò la ragazza. E se era morto? Come lo toglieva di lì? -No ti prego, non puoi essere morto.- lo supplicò la ragazza al pensiero di avere un cadavere in decomposizione sulla sua spiaggia. Quanto tempo ci metteva un cadavere a scomparire? Ma che schifo! Decise quindi di tastargli il polso per capire se era vivo: ma non erano mani normali, erano grosse, da animale, avevano le unghie lunghe e spesse. Troppo spesse, erano degli artigli! “Un uomo-bestia.” Pensò preoccupata. Non era gente di cui fidarsi. Gente del genere voleva che le persone vivessero sotto terra, dove erano rimasti i suoi amici e i suoi familiari, e lo volevano per amore o per forza, non in riva al mare, sotto il sole, dove era scappata lei. Ma era ferito. Aveva fatto naufragio. Non poteva lasciarlo lì, ammesso che non fosse morto. Lo girò a fatica sulla schiena e gli tolse i capelli dal volto: aveva sembianze umane. Non sapendo esattamente se al polso avrebbe sentito qualcosa, gli mise le mani sul collo: era tiepido, forse era vivo. Forse. Però non respirava. Corrucciò la fronte, tesa, non aveva mai fatto niente del genere, e aprì imbarazzata la tuta sul petto. Prese fiato due, tre volte, poi tappò il naso con due dita al tizio e serrò le sue labbra contro le sue, soffiando forte dentro.
-Uno, due, tre, quattro!- gridò premendo le mani sul suo petto, in un massaggio cardiaco. Poi serrò di nuovo il naso, soffiò. Soffiò. -Uno, due, tre, quattro!- Soffia. Soffia. -Uno, due, tre, quattro!- l’uomo ebbe uno spasmo, la ragazza saltò via spaventata, lui si girò su un fianco, cominciò a vomitare qualcosa, a sputare acqua, cadde sulla spalla ferita, guardò la ragazza, aveva gli occhi dorati e brillanti, e svenne. 

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Capitolo 2
*** Notturno con il naufrago ***


Eccoci al secondo appuntamento de "La ragazza sulla spiaggia"! Ringrazio di cuore i 18 lettori che hanno aperto questa Fic, spero di non deluderli con il secondo capitolo... pronti al risveglio dell'Uomo-bestia? Sono curiosa di sentire le vostre opinioni sulla storia, per favore lasciate pure le vostre impressioni nei commenti! Buona lettura! Yellow Canadair


Notturno con il naufrago


Era scesa la notte sul mare, sulla spiaggia e sulla foresta. Lo straniero dormiva nel piccolo letto della ragazza, sdraiato in diagonale perché entrasse in tutta la sua altezza. La sua uniforme era stata appesa a un filo che correva da un pino all’altro, davanti alla casa di legno e mattoni nel mezzo della foresta, e asciugava dopo essere stata lavata con l’acqua del torrente che scorreva lì vicino. La porta della casa era stata sbarrata per la notte, e sulla destra dell’unica stanza un camino, acceso eccezionalmente nonostante non facesse freddo, illuminava l’ambiente e lo rendeva più accogliente. Davanti al camino riposava un collie dal pelo lungo bianco e nero, che teneva gli occhi fissi sullo straniero, nel letto della sua padroncina dall’altra parte della stanza quadrata. La ragazza aveva con fatica portato il naufrago in casa, aiutata dal cavallo, l’aveva svestito e l’aveva adagiato nel suo stesso letto, visto che non ce n’era un altro, e non c’erano nemmeno divani. Gli aveva ricucito con pazienza le ferite e asciugato i capelli, e la probabilità che nella migliore delle ipotesi quello fosse un assassino le attanagliava lo stomaco e le faceva tirare lunghi sospiri pensierosi. Che poteva fare del resto? Lasciare che morisse lì sulla sua spiaggia? Almeno rimettendolo in piedi poteva far sì che se ne andasse via sulle sue gambe, sempre che non l’avesse ammazzata ovviamente. Le sue precauzioni le aveva prese: aveva una pistola con sé, senza contare che Lancillotto, il fido cagnolone, l’avrebbe difesa se lo straniero avesse alzato un dito contro di lei.

Le faceva un po’ pena, era così misero in quel povero letto; non era molto muscoloso, era piuttosto alto e molto magro. Rea non aveva un animo vendicativo, e nonostante fosse a conoscenza della potenziale pericolosità dell’ospite, lo aveva trattato con dolcezza. Però aveva sonno, però non poteva lasciare che lo straniero si svegliasse mentre lei dormiva: e se le avesse tagliato la gola con uno dei coltelli della cucina? E se l’avesse violentata?

A mezzanotte passata lo straniero cominciò a muoversi un po’. La giovane lo osservava, stanca e preoccupata. A mezzanotte e mezza Lancillotto si alzò sulle quattro zampe, attento e vigile e lo straniero spalancò gli occhi, piantandoli sulla giovane.

Cercò di levarsi con uno scatto, puntando le mani sul materasso, ma Rea fu più rapida e gli mise una mano sulla spalla fasciata; la sua forza era certamente inferiore a quella dello straniero, ma riuscì comunque a non farlo alzare. -Calmo.- gli disse con tono fermo. Il cane ringhiava contro il nuovo nemico.

Poi lo strano personaggio arricciò le labbra, scoprendo i denti aguzzi. Sembrava minaccioso. Serrò i pugni stringendo le lenzuola, e Rea si alzò a sedere sul letto, con le mani aperte davanti a sé come ad arginare l’ira dell’ospite e difendersi allo stesso tempo.

-Calmo.- lo implorò la padrona di casa, cercando lei stessa di non dare cenni di nervosismo. -Calmo. Sei al sicuro, non ti farò niente di male.-

-Chi sei?- ringhiò lo sconosciuto.

-Mi chiamo Rea. Hai avuto un incidente, ricordi?- poi dette uno schiaffo a Lancillotto, che non la smetteva di minacciare il naufrago, e allora lui rimase guardingo e immobile. Non doveva essere molto rassicurante svegliarsi con un cane che ti ringhia contro, le venne in mente. Lui annuì con il capo. Parla la mia lingua, pensò Rea. Un problema in meno. L’uomo-bestia si toccò le fasciature; forse cercava di rendersi conto delle sue condizioni. Rea lo lasciò fare. Poi squadrò lei da capo a piedi, soffermandosi sulle mani, sul tatuaggio, sulle braccia. -I miei vestiti…- sibilò. Aveva la voce roca, graffiante. I vestiti gli erano stati tolti. Tutti. Rea non voleva bagnare il suo letto, né poteva far raffreddare l’uomo con degli abiti bagnati. Però non aveva potuto rivestirlo con altro, quindi gli aveva messo delle lenzuola addosso e aveva scaldato un po’ la casa accendendo il camino. -Erano bagnati, li ho messi ad asciugare.- spiegò Rea, cercando di mantenere un tono tranquillo, anche se sentiva la paura crescerle in petto. Infatti il naufrago la gelò all’istante:-Sei una schifosa umana.- disse digrignando i denti.

-Tu, bastardo...- Si alzò di scatto e con freddezza gli puntò la pistola contro. -Così come ti ho ricucito di posso anche fare a pezzi.-

-Dove mi hai portato?- continuò il naufrago ancora iracondo, fissandola glaciale.

-Fai una mossa falsa e sparo. Questa è casa mia. Dovevo lasciarti a decomporre lì sulla spiaggia?- rispose aggressiva Rea. Il naufrago, come rendendosi conto della situazione creata, distolse lo sguardo e si rilassò, e Rea abbassò la pistola. Ma che razza di maleducato, cafone, ingrato, mangiapane, arrogante aveva salvato?

-No, certo…- sibilò l’uomo-bestia.

I due notarono che una delle fasce sulla spalla del naufrago si andavano arrossando. Rea cercò di richiamare a sé tutta la pazienza di cui era capace. Salvarlo, si ripeteva, non sbatterlo con la testa nel muro fino a creare un’uscita secondaria. -Non devi- disse, forzatamente calma -Fare movimenti così bruschi. Non ho voglia di ricucirti ogni giorno.-

-Nessuno te l’ha chiesto, scimmia. Che ci fai in superficie?

-E tu che ci fai sulla mia spiaggia? Sai quanto mi ci vorrà a togliere i tuoi stupidi rottami? Pensi che soccorra stronzi per sport?- gridò ad un pelo dal naso del tipo. Poi sospirò, che ancora bruciava di rabbia. Perché gli aveva fatto tanta pena? Non era certo persona da meritare compassione. Prese una scatola di latta che comparve come per magia da sotto il letto, e disse: -Adesso vedi di stare fermo e non metterti a frignare.-

Svolse le fasce, mettendo a nudo un taglio profondo che correva dall’estremità della clavicola fin quasi all’omero. Era stato suturato con perizia, però all’altezza del deltoide i punti avevano ceduto ovviamente, visto che lei non li aveva suturati col fil di ferro, e che da un ferito ci si aspetterebbe che se ne stesse buono e fermo.

Prese un ago, e con un fiammifero lo disinfettò.

Prese il filo.

Cominciò a lavorare, sotto gli occhi freddi dell’uomo-bestia.

Quando finì, disse:- Cerca di non muoverti. Non faccio miracoli.-

Si alzò in piedi e si diresse verso un bacile con l’acqua che c’era lì vicino; era sporca di sangue fino ai gomiti.

Il rabbioso ospite si infilò sotto le coperte, meditabondo. Poi si voltò dall’altra parte e mormorò tra i denti qualcosa di simile a un “grazie”.

-Cosa, scusa?- chiese Rea voltandosi, dal lato opposto della stanza, pur avendo capito perfettamente.

-Grazie.- latrò lo straniero ad alta voce, guardandola male. Comunque, Rea era soddisfatta, ma intanto si chiedeva: come avrebbe fatto a dormire con quel tipo in casa? L’unica cosa che non la preoccupava era un furto, perché a parte qualche coperta e qualche pentola, non c’era proprio niente da rubare.

-Avrai fame.- azzardò la ragazza senza lasciare la pistola. -Ho del latte con il pane.- propose al suo ospite mettendogli vicino una scodella mezza piena e una pagnotta intera. Sapeva che non era molto, ma non poteva permettersi di più, doveva mangiare anche lei e non aveva intenzione di togliersi altro cibo di bocca per quel tipaccio. L’uomo-bestia cercò di alzare un po’ il torso appoggiandosi al muro che faceva da spalliera, prese quel cibo senza una parola e cominciò a mordere avidamente il pane.

-E tu non mangi?- la domanda fece sobbalzare Rea, che aveva approfittato di quel momento di relativa calma per tirare un respiro di sollievo: il suo ospite non voleva (ancora) ucciderla. Se mangio adesso, non avrò niente domani mattina, pensò lei. Mentì:- No, ho mangiato prima.- lo straniero la guardò per alcuni istanti. Poi riprese a mangiare. Però cominciò a strappare il pane con le mani, e non dalla pagnotta, e ne lasciò un pezzetto.

Rea intanto spegneva il caminetto, e accendeva due candele. Tornò vicino al letto, prese con delicatezza il vassoio che il suo ospite aveva deposto per terra e ripose la pagnotta avanzata nella piccola credenza, e lavò con l’acqua la scodella. Il naufrago intanto aveva tentato di mettersi a sedere, ma decise che per quella sera poteva accontentarsi di essere vivo e al sicuro. Poteva andargli peggio: per come era stato ridotto dal combattimento prima, e dal naufragio poi, se non avesse incontrato l’umana avrebbe rischiato di morire sulla spiaggia, tra i suoi rottami, e se fosse finito nelle mani di un superstite di qualche sua missione probabilmente sarebbe stato linciato. Invece, difficilmente sarebbe stato ucciso o consegnato a qualcun altro dalla sua ospite, dopo essere stato curato e sfamato, non avrebbe avuto senso. Forse non sapeva chi fosse. E chissà dov’era; era ancora in estremo oriente?

Il suo compito, del resto, era uccidere gli umani che uscivano dal sottosuolo. Però se quella ragazza non fosse stata sotto al sole al momento giusto, lui sarebbe morto. Era un’umana. Perché si comportava così? Perché lo aiutava? Possibile che non avesse mai sentito parlare degli uomini-bestia, che terrorizzavano villaggi e paesi? Se i suoi vestiti erano stati zuppi, sicuramente aveva avuto anche i capelli bagnati… ma adesso erano asciutti, anche se rigidi di sale. Perché l’umana l’aveva salvato? Tra l’altro, gli era bastato uno sguardo per capire che lei non era ricca, e stentava a tirare avanti anche solo per sé stessa. La casa sembrava costruita bene, aveva una zoccolatura in pietra che arrivava a circa un metro da terra e poi era fatta di legno, con il tetto piano e le grosse travi bene in vista che lo solcavano da un lato all’altro. Le finestre avevano i vetri ed erano schermate dall’esterno con le gelosie, e dall’interno con delle tendine a fiori. C’era un tavolo in mezzo alla stanza, ma non era di legno, o di vetro: era costituito da un unico blocco di pietra, praticamente uno scoglio, livellato in modo che avesse un piano perfettamente liscio e parallelo al pavimento; le due sedie attorno erano tronchi d’albero cilindrici. Non c’erano altri letti, non c’erano tappeti, né tende preziose e nemmeno pesanti coppe come le aveva il suo generale supremo, pace all’anima sua. Invece c’era un oggetto ricurvo e panciuto con un manico, che non aveva mai visto, e una tavola lunga che arrivava fino al tetto, ovale ma con la punta, anch’essa sconosciuta. Nonostante tutto però, la casa era accogliente: appesi alle pareti c’erano alcuni quadri che raffiguravano barche di pescatori, case di contadini con tanti bambini, danzatrici. Sulle mensole c’erano quelli che dovevano essere piccoli tesori portati dal mare, come conchiglie piuttosto grosse, boccali scheggiati che ospitavano fiori variopinti, scrigni dai quali traboccavano pietre bianche.

Si adagiò di nuovo sotto le lenzuola, aggrottando le sopracciglia mentre assaporava suo malgrado il calore di quella casa.

-Come ti chiami?- gli chiese all’improvviso l’umana, che si era seduta lontana da lui, dall’altra parte della stanza, su uno stuoino sul pavimento, assieme al cane.

Per un attimo allo straniero venne naturale dare un nome falso, poi pensò che era inutile. - Viral.- disse. -Mi chiamo Viral.- poi chiuse gli occhi e si addormentò. Rea ne approfittò, e decise di recuperare un po’ di sonno mentre lo straniero, di cui non si fidava affatto, dormiva.

Lo straniero doveva avere una tempra morale incredibilmente solida: al contrario di molti uomini, che da atei convinti chiedono i sacramenti ogni volta che prendono un raffreddore, quello lì non diceva una parola: non si lamentava, non chiedeva da bere e nemmeno da mangiare. La ragazza doveva pregarlo per accettare un po’ di pane e un po’ di pesce, e gli mise un secchio d’acqua vicino perché si servisse da bere da solo, senza l’incombenza di chiedere a lei ogni volta. Stava nel letto e quando non dormiva osservava i suoi movimenti in giro per la stanza. Quando Rea, sospettosa, si chinò vicino a lui per toccargli la fronte, a controllare se avesse febbre, cercò di spostarsi, di non farsi toccare; ma l’avveduta Rea aveva già capito dagli occhi lucidi che l’ospite si sentiva meno bene di quanto volesse dare a vedere...


Dietro le quinte della storia: 

Il titolo del capitolo, "Notturno con il naufrago", strizza l'occhio al libro "Don Camillo" di Giovannino Guareschi, che ha un capitolo intitolato "Notturno con campane". Non c'entra granché con la trama della mia storia, anche se sia Don Camillo che Rea si trovano a tu per tu dentro casa propria con un pendaglio da forca; quello guareschiano però è ben più pernicioso da trattare, infatti finisce con lo sbattere la faccia contro i pugni del gracile pretino.

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Capitolo 3
*** La lunga corsa di Rea ***


Ciao a tutti! Grazie ai miei lettori silenziosi che continuano a leggere questa FF! Ehi, ehi... la situazione si fa grave... Viral deve aver preso una botta bella forte durante il naufragio... Ce la farà Rea a fronteggiare la situazione? Mi farebbe davvero molto piacere un commento... cosa ne pensate della storia? E del personaggio di Rea? Anche le critiche sono ben accette!!


Capitolo 3 - La lunga corsa di Rea

Theme song:  "Blue jeans and Rosary" performed by Kid Rock!


Dal capitolo precedente: "Quando Rea, sospettosa, si chinò vicino a lui per toccargli la fronte, a controllare se avesse febbre, cercò di spostarsi, di non farsi toccare; ma l’avveduta Rea aveva già capito dagli occhi lucidi che l’ospite si sentiva meno bene di quanto volesse dare a vedere..."

-Non è il caso di essere scontroso.- l’ammonì appoggiando le dita fresche e abbronzate sulla fronte dell’uomo-bestia, che guardava altrove con lo sguardo rabbioso. La febbre stava salendo.

Rea aveva scelto di vivere in superficie meno di un anno prima, quando si era resa conto di non poter vivere sotto terra; era scappata e aveva trovato quella casa diroccata, e vi si era insediata. Tuttavia, soffriva moltissimo la solitudine e la sola e unica cosa che avrebbe desiderato da quel naufrago era un po’ di calore. Ma si rese conto da subito che non c’era da chiedergli nemmeno un “per favore”. Rea non ci aveva messo molto ad abituarsi al carattere duro, scontroso e arrogante del suo ospite: le sarebbe stato più semplice e piacevole prendersi cura di un soggetto che non emanasse una simile carica negativa, ma non era tipo da farsi problemi oltre a quelli che c’erano già; come un elastico, si era adattata a quel modo di fare così rude e rispondeva con gentilezza, anche se avrebbe preferito spaccargli qualcosa in testa.

Il problema era un altro, molto più grave del caratteraccio dell’ospite. La povera Rea non sapeva cosa fare: da un lato, doveva aiutare quello sventurato naufrago. Dall’altro, lo sventurato naufrago era un assassino e un razziatore, che in un contesto diverso da quello l’avrebbe uccisa o condotta in schiavitù senza nessuna remora. Ma poteva lasciarlo morire per questo? E poi se la febbre fosse salita ancora, lei non aveva medicine abbastanza potenti: quello che aveva in casa erano preparati blandi, che potevano far sentire meglio lei quando in inverno si prendeva un’infreddatura stagionale, ma non un uomo-bestia, più robusto di una ragazzina, ferito, e con una febbre che certo non dipendeva dalla temperatura esterna; quindi sarebbe dovuta andare al villaggio più vicino, ad almeno tre ore di galoppo ventre a terra e chiedere del dottore: ma questo voleva dire denunciare lo straniero di nome Viral, e consegnarlo a un villaggio che l’avrebbe come minimo impiccato. Poteva raggiungere il villaggio solo a notte fatta, sperando che nessuno si accorgesse del suo arrivo col favore delle tenebre, ma a quel punto il dottore avrebbe tenuto per sé quel segreto? Non lo conosceva così tanto da potersi fidare ciecamente di lui, anche se negli anni passati l’aveva aiutata. Teoricamente i dottori prestavano giuramento di non uccidere nessuno, ma era tutta teoria. Magari quell’uomo-bestia aveva ucciso qualcuno della zona, e il dottore si sarebbe ricordato del suo volto.

Arrivò il pomeriggio, nella foresta, e la febbre non si decideva a scendere. Rea era spaventata e non sapeva cosa fare; decise per un ultimo tentativo: prese il lenzuolo più vecchio che aveva e lo tagliò in tanti fazzoletti. Prese un bacile di terracotta e ci versò dell’acqua dentro per un dito di altezza; trascinò sotto la credenza una delle sedie, vi si arrampicò su e prese, dal ripiano più alto, una bottiglia di whisky.

-Che succede?- chiese lo straniero dal suo angolo, incuriosito da quel trambusto.

-Devo farti scendere la febbre.- rispose la ragazza, versando quasi tutto il contenuto alcolico della bottiglia nel contenitore con l’acqua. Era un peccato sprecarlo così, ma non aveva altro alcool in casa. Mescolò un pochino, poi buttò nella miscela tutti i fazzoletti ricavati dal lenzuolo. Scoprì il petto del naufrago, che teneva una mano sugli occhi, frastornato, e gli mise su i pezzi del lenzuolo imbevuti e puzzolenti di alcool. Era un antico rimedio per far scendere la temperatura in caso di febbre, ultima spiaggia per Rea che sapeva che raggiungere il villaggio nel minor tempo possibile voleva dire mettere a rischio il suo stesso cavallo, e poi voleva dire denunciare Viral. E rischiare di essere accusata dall’intero villaggio di essere in combutta con il nemico, e linciata ella stessa.

Cambiava i fazzoletti e li immergeva di nuovo nell’alcool. Lo straniero non diceva una parola, neanche per lamentarsi, e la febbre non calava. Rimase accanto a lui tutto il giorno, senza una parola, cambiando fasciature e fazzoletti. Il naufrago era così stordito che la ragazza non riusciva nemmeno a capire se dormisse o no; sapeva solo che era vivo perché respirava a fatica, con la bocca aperta. Ma non poteva andare avanti in quel modo.

A sera, Rea decise di uscire cinque minuti dalla casa. Doveva cambiare aria, le sembrava di impazzire. Provava una pena infinita, ma la provava per un maledetto assassino, che non avrebbe mai dovuto soccorrere. L’aria fresca della foresta nella notte estiva le accarezzò la pelle, sotto la camicia bianca e leggera che indossava sopra al costume. Andò sul retro della casa, dove sotto una tettoia alloggiava il cavallo, e riponeva alcuni utensili; prese un secchio, andò al torrente che scorreva a pochi passi e lo riempì, poi tornò verso casa. Allungò la mano per girare la maniglia della porta e rimase impietrita ad ascoltare: dall’interno della casa, arrivava una voce. Una voce fioca, ma per lei che era abituata a non sentire nient’altro lì attorno se non i rumori della foresta e i suoi, quella voce risultava chiara come se venisse dalla radio. Che diavolo stava succedendo? Aprì di scatto la porta e corse dentro: il cane le corse incontro preoccupato, mentre lo straniero, nel letto, contorceva il lenzuolo fra le mani e con gli occhi spalancati guardava il soffitto della stanza, e diceva nomi, implorava, minacciava, a volte gridando, altre sibilando.

Stava delirando; Rea gli corse vicino gridando il suo nome, spaventata, pose il secchio d’acqua fredda vicino al letto, si bagnò le mani e cominciò a bagnare la fronte a Viral. Sembrò calmarsi per qualche istante, afferrò con le grosse mani quelle piccole e bagnate di Rea e se le premette al capo.

Rea gli si avvicinò, stringendo i denti per non scoppiare in lacrime per la paura e per l’angoscia. -Mi senti, Viral?- non ottenne risposta; lo straniero tremava, e tremava anche lei. -Io vado a cercare un medico. Non ti devi allontanare, non ti devi alzare, hai capito Viral?- lui lasciò andare le mani di lei, che però non scivolarono via, ma rimasero sul suo volto bollente.

-Andrà tutto bene. Tornerò presto.-

Galoppò nella notte verso il villaggio; la luna era alta, ma non era nemmeno a metà: Rea doveva fare affidamento alla sua memoria per gli ostacoli e per la strada, perché se il cavallo si azzoppava a metà strada era nei guai, non sarebbe arrivata al villaggio nemmeno il mattino seguente.

Galoppò nelle praterie, andò al passo sui sentieri di montagna, scese a piedi lungo le pietraie: arrivò dopo più di tre ore vedere i primi tetti del villaggio, con il cavallo tutto sudato e ansante. Lo spronò ancora e quando arrivò alla porta della casa del dottore, l’animale era quasi esausto: respirava a fatica e sembrava stesse per cadere; come lei, del resto. Bussò alla porta di legno con foga. Dopo alcuni minuti le fu aperto. Era il dottore in persona.

Era un uomo alto, sulla cinquantina inoltrata, magrissimo. Rea doveva alzare la testa per guardarlo in volto; aveva i capelli corti, tagliati a spazzola, e due mustacchi dello stesso colore. Il volto era scarno e assonnato, ma rassegnato: in fondo, il mestiere del medico prevedeva anche le emergenze notturne.

-Rea.- le disse a mo’ di saluto. Era un tipo un po’ scorbutico. -Che è successo?- aveva già capito che doveva essere successo qualcosa di fuori dal comune: sapeva che Rea viveva sola, e se era lì voleva dire che a stare male non era lei.

-Dottore la prego… la prego deve.. deve venire con me…- ansimò la ragazza.

Da dietro al dottore fece capolino un ragazzetto. Il dottore la interruppe con un cenno. -Ragazzo.- ordinò. -Sella due cavalli, e porta nella nostra stalla quello là.-

Rea era sollevata: il dottore l’avrebbe aiutata. Però prima doveva dirgli di cosa si trattava. -Dottore aspetti.- lo pregò. -Le devo prima fare una… una premessa.-

-Entri un attimo.- le disse brusco.

-Non posso perdere tempo, glielo dico per strada.

-Dobbiamo aspettare due minuti che Johnny selli i cavalli, e mi devo mettere un pantalone, venga dentro.- le intimò.

Rea fu condotta in un salottino illuminato da due candele, mentre il dottore scomparve per alcuni secondi nella sua stanza, per riemergerne pochi secondi dopo con un pantalone da giorno.

-Chi è, Rea?

-Dottore, due giorni fa ho raccolto un naufrago…

-Perché hai aspettato tanto a chiamarmi?- la rimproverò alzandosi e prendendo la valigetta che teneva sempre pronta per le emergenze.

-Dottore!- esortò buttandosi a terra. -Io devo avere la sua parola che non consegnerà il naufrago.

Il dottore si fece attento, e aggrottò le sopracciglia. -Io sono un medico.- le disse severo l’uomo, strappando di mano alla ragazza il lembo di pantalone che aveva afferrato. -Il mio compito è curare, non giudicare.-

-Non è il medico che temo.- rispose Rea, alzandosi e sbarrandogli il passo. -Temo l’essere umano, che è scappato alle profondità della terra per abitare in superficie.-

Il dottore rimase immobile alcuni istanti.

-Tu, Rea.- tuonò. -Hai dato ospitalità a un uomo-bestia.

-Sì dottore. Io non lo voglio convertire o roba simile, ma l’ho trovato sulla mia spiaggia, stava morendo, adesso è a casa mia, sta delirando per la febbre, cosa devo fare?

-Basta chiacchierare di te, Rea.- l’ammonì il dottore serio. -Andiamo adesso.-

John, che era il figlio del medico, aveva portato davanti alla casa due grandi cavalli, dall’aria robusta e scattante. Rea saltò su quello leggermente più basso.

Coprirono in altre tre ore la distanza che li separava dalla casa di Rea, e quando smontarono era quasi l’alba, e il cielo si stava tingendo di rosa. La ragazza saltò giù dal suo morello e spalancò la porta di casa: dentro si sentiva fortissimo l’odore dell’alcool, il cane le corse in braccio abbaiando, ma lo straniero non era nel letto: era caduto, o era sceso, comunque era per terra a qualche passo dal giaciglio; qualche ferita si era riaperta e aveva ripreso a buttare sangue, macchiando le bende e il pavimento.

-Mio Dio, Viral!- chiamò forte precipitandosi vicino allo straniero.

Il dottore le corse dietro. Rea lo girò sulla schiena, mettendogli la testa sulle sue gambe. -Mi senti? Svegliati!!- gli spostò i capelli biondi e sudati dal volto, lo chiamò per nome, ma la febbre non era scesa. Il dottore intanto stava svolgendo le fasce, per rendersi conto di quanto grave fosse la situazione. Lo straniero aprì gli occhi di scatto, guardò l’uomo e cercò di alzarsi, ma ricadde tra le braccia di Rea, che lo tenne a viva forza, inchiodandogli le spalle alle sue cosce. Era bollente, toccarlo era come scottarsi. -È un medico. Ti vuole aiutare.- gli sussurrò all’orecchio.

 

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Capitolo 4
*** L'alba di Viral ***


Capitolo 4: L'alba di Viral

Il sole era sorto da parecchio, l’aria andava scaldandosi dopo la frescura della notte. Lo straniero aprì gli occhi: era strano. Si sentiva la testa fresca, aveva anche un po’ fame. Capì che la febbre era scesa, e se ne rallegrò. Cercò di muovere il braccio che dava sulla parte esterna del letto, ma era bloccato da qualcosa di duro e caldo: la testa di Rea, che dormiva esausta inginocchiata al letto. Voleva tirare via la mano con disprezzo, ma la ragazzina ci si era addormentata sopra e per di più la stringeva con entrambe le sue mani. Sapeva che se la ragazza era lì, era perché aveva passato tutta la notte al suo capezzale, e non riusciva a capire tutta quella gentilezza. Quando falliva una missione e tornava al quartier generale malconcio, tutt’al più riceveva anche il resto: botte, insulti. E ora che era l’unico superstite, non voleva altro che disprezzo dagli altri, perché lui stesso si disprezzava in quel momento. Ma adesso con lui c’era una ragazza che infrangeva qualsiasi regola, e nonostante avesse perso tutte le ultime battaglie veniva trattato con riguardo e curato con dolcezza, cosa che non aveva mai sperimentato prima.

Poi alzò gli occhi, e uno sguardo freddo e duro lo congelò. Era il dottore. Viral scattò a sedere, sulla difensiva.

-Buongiorno.- disse serio l’uomo, seduto su uno degli sgabelli che contornavano il tavolo di pietra.

L’uomo-bestia non rispose; cercava con lo sguardo un’arma in quella stanza.

-Si rilassi, non ho intenzione di ucciderla. Adesso.- lo avvertì il medico. -E ringrazi quella donna, appena di sveglia. È vivo solo grazie a lei.

I due continuavano a fissarsi torvi.

-Rimarrò qui finchè non si sveglierà da sola. Non la lascerò così inerme nelle mani di un uomo-bestia.- continuò il dottore.

-Allora la sveglierò io. Vada via.- ringhiò Viral.

-Sono il medico che stanotte Rea, pur di farla sopravvivere, è corsa a chiamare a costo di un viaggio di sei ore che poteva costarle il cavallo e la vita. È rimasta in piedi tutta la notte e tutta la mattina ad asciugarle il sudore e a cercare di calmarla quando dava i numeri. Lo sa?- disse il dottore, calmissimo, ma ogni parola era pesata per colpire come un coltello. Lo straniero scoprì i denti, lo sguardo gli cadde sulla ragazza che dormiva stretta alla sua mano di assassino. Sei ore di cavallo? Per… per non lasciarlo morire?

Rea si svegliò un paio di ore dopo, scusandosi col dottore per essersi addormentata e ringraziandolo regalandogli un pesce che aveva pescato apposta per lui e una grossa conchiglia che stava al centro della tavola di pietra. Gli promise che in settimana gli avrebbe riportato il cavallo.

Lo invitò anche a pranzo, ma il dottore rifiutò cortesemente: sapeva che mantenere un ospite doveva costarle molta fatica, e non voleva arrecargliene altra. Salutò il paziente con un cenno del capo, montò in sella e andò via.

Viral cercò di alzarsi dal letto. Rea non si aspettava ringraziamenti, o meglio non voleva aspettarseli. Semplicemente gli buttò i suoi pantaloni asciutti e disse brusca: - Se vuoi uscire, metti questi.- lei si avviò in spiaggia. Non aveva nessuna voglia di farsi trattare male adesso che era stanca e abbattuta; decise di immergersi nelle profondità marine, dove sicuramente nessuno avrebbe avuto per lei parole arroganti e taglienti.

Quando riemerse dal mare, trovò lo straniero seduto sulla sabbia, col capo reclinato all’indietro a godere il sole più forte della giornata. Rea pensò che pallido com’era rischiava di scottarsi, ma non disse niente: non era mica sua madre.

Lo superò con noncuranza, grondando acqua e raggiungendo l’asciugamani; ma appena fu oltre, Viral parlò:-È stata dura stanotte?- il tono non era di scherno. Sembrava triste.

-Certo che no.- rispose con superiorità lei, avvolgendosi nell’asciugamano. Ripensò a quando era arrivata davanti casa del dottore, così stanca che si sentiva svenire, con il cavallo vivo per miracolo. Adesso le facevano male le gambe, e aveva avuto un sacco di crampi.

-Ho detto qualcosa?- chiese lui fingendo indifferenza. Sapeva di aver delirato, e sperava di non aver detto qualcosa di compromettente.

Rea si sedette a un paio di metri da lui, per asciugarsi al sole. Si stringeva nell’asciugamano. -Qualcosina.- rimase vaga. -Cercavi un certo generale supremo. Dicevi che era in pericolo. Poi…- ebbe un fremito. Quando l’aveva sentito, si era spaventata. -Poi hai detto che avresti ucciso tutti gli esseri umani.- poi aveva fatto un sacco di nomi, che lei aveva provveduto a scrivere su un foglio che aveva nascosto per bene; meglio far finta di niente, se il suo ospite aveva messo nella “lista delle cose da fare” lo sterminio degli umani.

Viral non rispondeva. Teneva lo sguardo fisso sui rottami della sua vettura, che il mare non era ancora riuscito a riprendersi e che nessuno aveva portato via.

-Ucciderai anche me?- chiese all’improvviso Rea. Ma aveva paura della risposta.

Lo straniero lesse quella paura. -No. Ho un debito con te.- le disse.

Rea si sentì molto sollevata. -Ucciderai i miei animali?- chiese ancora.

-No.

-Distruggerai la mia casa?

-No.

Poi a Rea venne in mente un’altra ipotesi. Ne era terrorizzata. La sua schiena fu scossa da un tremito, sbarrò gli occhi. -Mi riporterai sottoterra?-

Viral non rispose subito. Sembrò pensarci su. Stava contravvenendo agli ordini che gli erano stati dati: uccidere tutti gli esseri umani che avesse sorpreso in superficie. A lui però era stato affidato solo l’Estremo Oriente, doveva ucciderla lo stesso?

La ragazza rabbrividì, aprì la bocca per dire qualcosa, ma lui la precedette:- No.-

Rimasero per qualche momento seduti sulla spiaggia; Rea si tolse l’asciugamano di dosso e si lasciò scaldare dal sole.

-La radio funziona ancora.- le disse Viral. Rea sapeva a che radio si riferisse: quella di bordo. -Domani mattina mi verranno a prendere.- concluse.

Erano stati giorni difficili, però avere in casa qualcuno non era malissimo, anche se non riusciva a sfamarsi, pensò Rea. Ma non avere più un assassino nel letto, anche quello non era male.

-Dove ti porteranno?- gli chiese la ragazza.

-Non sei autorizzata a saperlo.- tagliò corto l’uomo-bestia.

Ma tratta tutti così male?, si disse la ragazza. E sì che lei l’aveva trattato fin troppo bene!

-Ti preparerò dell’acqua per il viaggio di ritorno.- propose allora.

-Non devi preparare niente.- ordinò l’uomo bestia, aggressivo. Rea ci rimase male, quindi si alzò e fece per andarsene. Ma la grossa mano artigliata del naufrago la trattenne; senza girarsi, e senza costringerla a risedersi, Viral spiegò: -Non devono sapere che vivi su questa spiaggia. Ti ucciderebbero. O ti porterebbero via.-

Rea fece cenno di sì con la testa, anche se sapeva di non essere vista. -Va bene.- disse a voce alta. -Non farò niente. Ora lasciami.- e l’uomo-bestia allentò la presa fino a far scivolare via il polso sottile.

Rea tornò a casa, chiuse la porta, mise la testa nel cuscino e si fece un bel pianto.

L’alba successiva si mise d’accordo con lo straniero. -Torna in paese, riprenditi il cavallo. È la cosa più sicura.-

-E come faccio a sapere che non distruggerai la mia casa?- chiese la ragazza con impeto.

-O ti fidi o vieni uccisa.- le rispose spiccio. Si mise addosso la giubba della tuta, senza infilare le maniche, e pensò di andare il più velocemente possibile verso la spiaggia. Ma non era un ingrato; sapeva di dovere qualcosa a quella donna, fosse anche solo una parola per quello che aveva fatto negli ultimi giorni. Guardò Rea, intenta a mettere le redini al cavallo del dottore.

-Umana…?- attirò la sua attenzione. Rea si voltò. -È stato… bello stare qui. Addio.- disse senza guardarla in volto. Maledetta umana.

Rea lo guardò allontanarsi con l’aria truce che l’aveva contraddistinto. Non le aveva detto grazie, non l’aveva abbracciata. Si sentiva stupida. Spronò il cavallo e si allontanò al galoppo. 


Tre giorni dopo, al cospetto del suo Lord, Viral stava in ginocchio come un crociato, ascoltando le parole di biasimo del suo signore. Aveva fallito miseramente la missione, e come un meschino aveva fatto naufragio. Doveva essere punito per questo. Tuttavia, ebbe il coraggio di alzare la testa verso l’imponente Lord, che sedeva in alto su uno scranno enorme, e chiedere:- Signore, che cosa sono in realtà gli umani?- 

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