Anime morte

di Saya chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Presentazione di Gà ***
Capitolo 2: *** Presentazione di Ale ***
Capitolo 3: *** Mondo del cazzo ***
Capitolo 4: *** Frammentari e nostalgici ricordi ***



Capitolo 1
*** Presentazione di Gà ***


Presentazione

Presentazione

Gabriele

 

Mi chiamo Gabriele Giuliani, ho diciassette anni, e vivo in uno dei tanti paesini del cazzo che fanno da intermedio tra Terni e Perugia. Frequento il Liceo Artistico, sono al quarto anno della sezione di arte e composizione visiva, altresì detta grafica pubblicitaria. Mi guardo allo specchio e vedo una checca isterica, come direbbero i miei amici. Sono emo, ma non vuole necessariamente dire che mi taglio le vene: solo che preferisco un certo tipo di musica rispetto ad altre. E si, sono un fan dei Bullet From My Valentine e dei My Chemical Romance, ma non disdegno gli altri gruppi, anzi! Sono un fanatico della musica anni ’70-’80, nonché ossessionato dai The Cure. Ho i capelli neri con la classica frangetta, e sono un tantino troppo alto, forse: sfioro il metro e novanta, anche se peso solo sessantaquattro chili. Eh, bè, si, sono smilzo, modestamente ho un bel figurino, nonostante Jill mi ripeta in continuazione che il mio sedere è inesistente. Oggi è un sabato mattina, uno qualunque. Nella mia casa disastrata, sono il primo a svegliarmi. Mia madre aspetterà ancora cinque minuti, come sempre, per svegliare se stessa e poi quella dormigliona di mia sorella. Non è un segreto che sia Martina la preferita in famiglia: è la più piccola, nonché straviziata e coccolata da tutti. Lei ha due anni meno di me, ed è una piattola immensa. E’ quella tutta ordinata e precisa, che fa il liceo classico, studia con passione e dedizione, ama ballare e suonare il pianoforte, non fuma nemmeno mezza sigaretta, lei e i suoi boccoli scuri, lei e i suoi grandi occhi castani che attirano dietro sè uno stormo di poveri deficienti. Secondo me, uno dei due è stato adottato: non ci assomigliamo in niente. Mio papà come al solito invece russa profondamente. Il sabato per lui vuol dire giorno di risposo. Nella casa ancora addormentata, si sente il suo russare energico. Non c’è ancora luce, siamo a novembre, è il sole a sorgere ci metterà ancora un  bel po’. Fa un freddo cane, i riscaldamenti non sono stati ancora accesi. Mi stringo nel pigiama e tiro dritto verso il bagno. A ogni passo mi viene in mente “dead souls” dei Joy Division. Mi sento anche io così: un’anima morta, svuotata di tutto, priva di sentimenti, atona, apatica, immersa fino al collo nella solita routine quotidiana. Mi lavo, mi vesto, faccio la borsa, e nel frattempo intorno a me la piccola porzione di mondo che mi riguarda comincia a vivere. Mia madre si è già vestita, Martina sorseggia il latte. Le trovo tutte e due davanti allo specchio quando vado a pettinarmi.

Le donne allo specchio la mattina sono una cosa letteralmente assurda.

Mia madre e Martina hanno tra di loro una trentina di anni di differenza, eppure sono unite in quel misterioso rito mattutino. La mamma passa la matita sulle labbra, tracciando una righina color carne. Martina tiene sollevate le ciglia, mentre si passa il mascara. Profumano tutte e due di fard, hanno addosso l’odore della cipria. Non sembrano nemmeno le figure fantasmagoriche che si aggirano per casa la sera prima di andare a dormire.

“Io allora vado!” dico, appoggiando la spazzola. Persino la posizione della spazzola non cambia: sempre sul lato sinistro della mensola sopra la vasca. Mia madre biascica un “Buona giornata tesoro” Martina dice qualcosa a metà tra un ciao e una blasfemia. E dopo qualche minuto, sono giù per le scale. Non ho bisogno di prendere il pullman la mattina, la scuola e ha cinque minuti da qui. Infilo il compact disc e la prima canzone che mi capita è “I Dont Wanna Miss A Thing” degli Aerosmith. Mi rilassa la voce di Stevie la mattina mentre, passo dopo passo, mi avvio verso la mia camera di tortura a fuoco lento. Ed eccomi davanti al liceo. Saranno passati cinque minuti, ma a me sembrano cinque secondi. Stamani sono all’aula 20, devo farmi quattro rampe di scale di prima mattina, e sinceramente l’idea non mi attrae nemmeno un po’. La bidella sbraita che sono in ritardo, ma non l’ascolto nemmeno. E’ la grassona brutta, quella con la voce da rospo e l’orrenda tinta rossa. L’abbiamo ribattezzata la Umbridge, vista la sua somiglianza grosso modo inquietante con la professoressa di Harry Potter. Insomma, gracida qualcosa, ma nemmeno la sto a sentire. La canzone nell Mp3 si spegne. Una ragazza mi oltrepassa, saltellando. Credo stia contando gli scalini, apre la bocca a tempo. Ha una buffa codina che rimbalza ad ogni passo, saltella su un paio di All Star piuttosto consunte. La rampa dopo è sparita, chissà che fine ha fatto. Sarà persa nei meandri di questa gigantesca scuola. Mi infilo in classe. Eccola qua, la 4°A. All’ultimo banco, la cresta rossa di Marco, che stamani ha la felpa dei sex pistols sotto il giacchetto di pelle. C’è quella zecca di Stella, una delle mie migliori amiche, coi capelli tinti di rosso e i calzoni praticamente per terra. Giacomo non è meglio di lei. Ma Giacomo è un bastardo, lo odio con tutto me stesso. Giacomo non è capace ad affrontare la realtà, si ferma davanti alla possibilità di affezionarsi alle persone. Giacomo che non è disposto ad ammettere a se stesso che almeno un po’ gli piaccio. Per ironia della sorte, è il miglior amico delle due dark lesbiche, Sara e Miriam. Loro si tengono per mano, anche stamattina, e si guardano sorridendo. C’è poi Raffaele, il nostro illustre rappresentante di istituto, con la kefia attorno al collo e i capelli biondi legati, pacifista che non è altro. Le tre sgallettate occupano il banco centrale, tutte e tre biondissime e con gli occhiali da sole grandi di Armani, anche se di fuori il cielo minaccia di spaccarsi da quanto è bianco. Poi ci stanno quei tre o quattro pariolini di qui non cito il nemmeno il nome, in quattro anni ci avrò parlato una volta. Non vedo la testolina blu di Jill fare capolino tra le altre: con ogni probabilità, stamani si è sentita poco bene.

“Oh, Giuliani, buongiorno!”

Riconoscerei la sua voce in culo alla luna con tutte le sue stelle. Ma non positivamente, illudiamoci. Io quella donna la odio. La mia prof di matematica è la cosa più insulsa del mondo: una sfigata fallita che ha fatto dell’insegnamento il suo unico scopo di vita, senza risultati. E’ bruttissima, porta calze velate su due gambe simili a stecchini, maglioni a collo alto sul suo busto rinsecchito. Ha un naso troppo grande, i capelli rigidi come fossero parte di uno scopettone, tinti di rosso scuro, ma che è sbiadito sulle radici, e ora stanno diventando arancioni. Io la odio e lei mi odia.

Ha fatto di tutto per rovinarmi le superiori. Mi ha sempre messo quattro nonostante l’impegno. Non so perché ce l’abbia così tanto per me. Mi ha sempre guardato con quella sua aria di netta superiorità, con quel suo viso preciso e odioso. Puttana degenerata. Simpatica quanto un gatto attaccato ai coglioni. E mi tocca pure sorriderle. Fa parte della mia recita quotidiana. Ecco, per l’appunto, sorrido. E c’è proprio tutto, nella mia personale routine. Persino il solito “Buongiorno a lei, professoressa Sappada!”.

Più falsi di così non si può.

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Capitolo 2
*** Presentazione di Ale ***


Presentazione

Presentazione

 

Alessandro

 

Una cosa mala.

Vit sostiene che dovrei definire la mia vita così.

Una cosa mala.

In fondo, come dargli torto?

Una cosa mala perché la mia è una vita abbastanza insipida.

Ho diciassette anni e mezzo, vivo in questa misera città chiamata Padova. I turisti appena sentono pronunciare il suo nome esclamano tutti all’unisono “Sant’Antonio!”.

Cristo, non esiste solo questo qui!

E’ il classico luogo comune che la gente si autoinculca nella mente, come a trasmettersi sicurezza: come per Venezia si dice San Marco, per Padova si dice Sant’Antonio. Ma questa città non è fatta di una chiesa colossale e basta. Prato Della Valle, chi ci fa mai caso? Eppure, è la seconda piazza più grande d’Europa dopo Piazza Rossa a Mosca. Ma non voglio stare qui ad annoiarvi con una dettagliata descrizione sulle “meraviglie” che rendono così caratteristica Padova.

Dunque, torniamo a noi, anzi, a me.

Mi chiamo Alessandro, il cognome non lo sto a scrivere, probabilmente verrà fuori in seguito, ed anche se non sarà così, tanto meglio. Frequento il Liceo Classico Tito Livio.

Oh, il Tito Livio!

Ci terrei ad aprire una parentesi.

Non faccio a tempo ad aprire la bocca per dire la scuola che faccio, che tutti storcono il naso, i miei coetanei si mettono a guardarmi con disprezzo misto a scherno; per la cronaca, il Tito Livio di Padova è come il Giulio cesare di Roma: il Liceo per antonomasia, con la L maiuscola, quello che sono destinati a frequentare i figli di papà. Beh, si dà il caso che io provenga da una famiglia benestante, mio padre non è di certo un medico o un notaio, ma viviamo comunque.

Quindi, felicemente fanculo.

In mezzo ai truzzetti, ai no global, ai finti alternativi, io occupo il mio modesto posto. Partecipo attivamente al giornalino scolastico, mi dedico allo spazio poesia. Scrivo di tutto quello che mi passa per la testa. Anna, la caporedattrice, afferma che io sia un neo Baudelaire, che oltretutto è il mio poeta prediletto. Nei momenti di sconforto, apro il libro ormai consunto de “I Fiori del Male”, e mi immergo nella lettura, anche per molte ore consecutive.

Amo leggere, ed anche le materie umanistiche. Di conseguenza, odio quelle scientifiche. Ma questo è un altro discorso.

Inoltre, mi cimento molto volentieri nell’hobby della fotografia: prediligo i paesaggi più strani e nascosti, anche se non mi lamento di certo a catturare lo sguardo un po’ svampito di una bella ragazza.

Ah, per la cronaca, sono gay.

Spero che non vi metterete a fare battutine stupide, oppure a pensare che sia stato contagiato dalla moda del momento, sarebbe altamente patetico.

Semplicemente, nutro una naturale predisposizione verso i maschi, piuttosto che verso le femmine.

Il sabato mi concedo il mio meritato pomeriggio in piazza.

La piazza è uno spazio di terreno che si trova tra il Municipio e l’Università “Il Bo’”, dove ogni settimana si riuniscono tutti gli “Alternativi” a godersi il loro benamato cazzeggio.

La piazza è un po’ come la mia casa, poiché non posso definire quella natia un vero e proprio “nido familiare”.

In piazza ci stanno Leo, uno dei miei migliori amici, Jayden e la sua ragazza Greta, Jejè, Giada, Fra, Debby, Carletto, la Zazza, Vero, Ricca, Pelo, Luca, Mel, la Ceci, Jake, Bastian, e chi più ne ha più ne metta. Voglio a loro un bene dell’anima.

Noi e le nostre cicche, noi e le nostre birre, noi e le nostre cagate… ci divertiamo troppo. Loro non mi guardano storto, non mi giudicano, pur sapendo che sono omosessuale. Mi accettano per quello che sono. E di questo gli sono immensamente grato. Sono sinceri, così come io lo sono con loro.

Posso definirmi una persona abbastanza pacata, anche se ogni tanto ho degli improvvisi scatti d’ira. Ma questa è una prerogativa ereditata da mio padre, che a sua volta ha ricevuto in dono da mia nonna.

Sono uno pseudo-dark.

Mi piace molto ascoltare black e gothic metal, ma non disdegno nemmeno gli altri generi. Anzi, provo un grande piacere nell’abbandonarmi al ritmo dei pilastri del rock come Pink Floyd e Led Zeppelin. Mi interesso anche alla musica classica, in particolare a Chopin, mio compositore preferito. Di lui amo assaporare il virtuosismo delle scale musicali, che mi fanno tornare alla memoria la mia infanzia da pianista provetto. Tuttavia, come re indiscussi del mio cuore rimarranno sempre i Deftones.

Mi vesto rigorosamente di nero, come il mio stile richiede, ma ogni tanto mi concedo anche qualche altra tonalità, purchè rimanga spenta e scura.

Per Pippo, il mio vicino di banco, sono “il vassallo del metallo”.

Ahahah.

Mi fa morire dal ridere, con le sue bestemmie improponibili.

Sono alto circa 185 centimetri, e peso settanta chili. Nella norma, insomma. Da questo punto di vista non ho mai avuto problemi, fortunatamente, anzi. Mia madre sbraita in continuazione che mangio come un’idrovora, eppure il peso rimane sempre quello. Dev’essere preoccupata perché da piccolo, una volta, dopo aver mangiato in fretta come al solito, dovette portarmi all’ospedale per dei crampi assurdi di cui soffrivo.

E va bene, non vi tedio oltre con la storia della mia vita!

Concludo in breve. Finisco di descrivermi e poi levo le tende.

Ho i capelli marrone scuro, lisci, sempre sparati per aria.

Sia benedetto Dio per aver inventato il gel!

La mia carnagione è abbastanza chiara, e ho una leggera allergia al sole, sicchè non esco quasi mai di casa.

Ciò mi conferisce un’aria spettrale a chi mi vede per la prima volta. E hanno paura.

Ma non sono cattivo, figuriamoci.

Magari un po’ superbo e cinico, ma cattivo proprio no.

Bene, ho terminato la mia prefazione.

Meglio se vado a cena, qui mia sorella scassa amabilmente il cazzo (di lei ne parlerò, FORSE, in futuro).

Hasta luego.

 

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Capitolo 3
*** Mondo del cazzo ***


# 1

# 1

Mondo del cazzo.

 

Stesso sabato, solo che siamo a sera. Non vi annoierò raccontandovi la mia insulsa giornata nei suoi insulsi particolari. Vi dico solo che sono fuori da quanto sono fatto. Ho fumato di brutto stasera, Sara aveva il fumo. Aveva bisogno di farsi di marijuana, ha detto. Questo settimana lei e Miriam non possono vedersi, e allora aveva bisogno dell’ “Illusione” per essere felici. Abbiamo partecipato tutti, per amicizia e per gusto personale, ovviamente. Non sarò così ipocrita da dire che le canne mi fanno schifo: solo, farei volentieri a meno di tornare a casa fischiettando qualche canzone stonata e mettendomi a ridere a ogni scalino. A ogni modo, quando torno a casa mia madre è ancora in piedi. Martina è accovacciata sul divano, è tornata da poco anche lei. Nessuna delle due mi saluta: guardano la televisione con ardore quasi sentimentale. Mia madre, anzi, quando gli passo davanti, commenta con un “togliti di mezzo!” sibilato a mezza bocca. E io eseguo, non ho nessunissima fretta di mettermi a discutere con loro. In camera mia, butto la kefia sulla sedia davanti alla scrivania, e la mollo li. Sono tentato di togliermi anche la felpa, ma un attacco di risarella sovviene all’improvviso. Così finisco per buttarmi sul letto a quattro di bastoni. Quasi quasi mi sparo i The Cure. O magari i Beatles. Quando sei fatto, sono la cosa meglio: danno la sensazione di essere ancora più fuori.  Il poster di David Bowie mi guarda da sopra il mio letto. E mi viene in mente che, nello stato in cui sono, posso benissimo aggiornare il blog, con una qualche mia immensa sega mentale dovuta al momento. Non per niente, il mio nickname è Ziggy_Stardust. Conquistato con gloria e fatica. Ma si, lo aggiorno và. Così sento anche la musica. Alzarsi mi costa una fatica immensa. Resto ancora un po’ davanti al poster. Poi mi tiro su. Prima che possa arrivare al computer, mia madre è già entrata nella mia stanza.

“Tesoro, io vado a dormire. Non fare tardi. Commenta, vedendomi in direzione del portatile. Cara, vecchia despota. Viene li a baciarmi sulla fronte. E’ un attimo, uno solo, quando mi sfiora. Il suo profumo sottile mi accarezza. Cipria, forse fard, misto al suo aroma dolce, quello della sua pelle. Mi ricordo quand’ero bambino, le favole che mi raccontava la sera, prima di andare a dormire. Stretto tra le sue braccia, la presenza di quel profumo era così immensamente vivida…  e c’è ancora, in ogni suo oggetto. Tra i suoi maglioni, nel suo armadio, nelle stanze dov’è. Anche se ha il viso stanco e le occhiaie profonde, quel profumo non l’abbandona mai. E allora mi viene l’illuminazione. Scriverò di lei sul blog stasera. Mi incanto a guardare la schermata blu di windows che si sta caricando. Poi afferro il mouse, e trascino il cursore sull’icona fatta a “e” di internet explorer. La pagina si apre, e, dai preferiti, accedo al mio blog. Eccolo li, Ziggy_Stardust – The Black Jungle Of My Think. Sotto parte “The Garden Of Everything” di Steve Conte. Mi salta all’occhio un mio vecchio post.

 

e mi ricorderò sempre io e te, sotto la stessa pioggia, camminare con le mani in tasca verso due direzioni differenti. Il tuo sguardo dritto davanti a te, le spalle incurvate che tanto amo. Quella camminata da bradipo, si, sembravi un’animale. Mi ricorderò sempre la sensazione che ho avuto, la bocca dello stomaco chiusa all’improvviso. Forse era già quella la fine, Giacomo, solo che non me ne sono voluto rendere conto. Non l’ho capito nemmeno quando ho visto una ragazza guardarmi dall’aula a vetri con gli occhi sgranati, e nel mio riflesso ho capito che il nero che avevo sulle guance non erano goccie di pioggia, ma solo il mio mascara, sciolto dalle lacrime. No, l’ho capito dopo. Solo quando è arrivata Lei. L’ho capito quando l’hai abbracciata. Ed è strambo pensare che quel giorno ha nevicato. Qui, dove la neve non cade mai. Qui, dove la neve è un miracolo, e io e te non lo stavamo vivendo assieme.

 

Mi ripiglia la malinconia. L’intervento è datato un paio di settimane fa. La neve fuori stagione. La pioggia. Sento una fitta nel cuore, e apro la pagina per scrivere. Voglio scordarmi tutto, svuotare il mio cervello di tutte le sensazioni. E così scrivo questo fottutissimo post.

 

[…] Riconoscerei l’odore di mia madre ovunque. E’un profumo unico e delicato. Lei lo imprime ovunque, senza rendersene conto. La sua pelle ha quell’odore. Ecco, il profumo della pelle di mia madre è qualcosa di così sottile e stupendo. Anche io vorrei un profumo simile. Solo che io invece non ho odore. Sono come Grenouille, quello di Profumo, storia di un assassino. Pazzo, e senza un mio odore. Pazzo, pazzo, pazzo, p a z z o ..[…]

 

Forse scemo lo sto diventando davvero. Fra poco arriverà qualcuno a legarmi con una camicia di forza. L’orologio sul desktop segna le tre di notte, e mi sembra impossibile che io ci abbia messo tutto questo tempo a scrivere quattro cazzate fatte male, tra l’altro. E sto ancora ascoltando la musica, tra l’altro. Mi meraviglia che i miei vicini non si lamentino. Ma che dico, quelli a quest’ora staranno scopando come conigli. Come quest’estate, quando avevo le finestre aperte e ho sentito tutto.  Non ci ho fatto nemmeno apposta: ricordo che, non so per quale assurda ragione, stavo sognando una scatola di aspirine. Poi ho sentito i gemiti soffocati di lei. Mi sono alzato per chiudere la finestra, incazzato come una belva. Insomma, felicitazioni a loro. Ma a me non me ne frega niente di quello che fanno, in tutta sincerità. Possono farsi la loro vita, basta che fanno piano. Dopotutto, il volume della musica è a livelli decenti. Così, mentre i metallica mi urlano nelle orecchie, do un occhiata agli ultimi blog aggiornati. Insomma, clicca qua, clicca la, vado a finire su un blog. Non capitolo sugli scritti, ma sulla foto che c’è all’inizio. Mi colpisce. Come una mattonata nello stomaco. E’ stupenda. Un gatto con gli occhi azzurri, che guarda lontano dall’obbiettivo. Sono gli occhi del gatto: chi ha fatto la foto, li ha messi molto in risalto. Sono così grandi e così blu, che sembrano contenere il mondo. Il gatto ha la testa spostata un po’ verso l’alto, i baffi si disegnano, diritti, vicino al suo musetto, che sembra quasi arricciato, come se stesse facendo una buffa smorfia. Guarda lontano, cerca oceani e orizzonti inarrivabili. Le sue orecchie sono diritte, una curva sottile, rosate con qualche ciuffo di peli bianchi dentro. E’ posato come se fosse un principe, con la coda davanti alle zampine, su una sedia di legno, di quelle vecchie, con il legno che si intreccia. E’… stupendo. L’autore è un tale Alexander_The_Goth_Alchemist. Di solito non lascio mia commenti, tracce di me sui blog. Mi scoccia enormemente, che poi la gente torni a cercarmi. Ma questa volta, le dita vanno da se. Scrivo un commento, di fretta, cercando di ficcarci dentro le mie sensazioni riguardo a quella foto. Qualche parola spiccia, scritta rapidamente, e poi invio.

In fondo, alla fine, cosa può cambiarmi nella vita, se faccio i complimenti a uno conosciuto per la rete?

Non è cambiato niente finora. Perché il mondo dovrebbe decidere di cambiare oggi? E’ paradossale, nonché impossibile. Spengo il computer. Ho sonno. L’effetto del fumo sta svanendo, e fra poco saranno le cinque. Tra l’altro, domani devo andare da mia nonna a pranzo. Che palle. Mi ficco nel letto tutto vestito, e…

 

…il rumore del risveglio è la voce soave di mia madre che strilla sopra Martina, che sta ascoltando i Tokio Hotel. Cristo, che sorella degenerata. Mi chiedo che ho fatto di male per meritarmi una cosa simile. In sottofondo c’è l’aspirapolvere. Caramella, la mia gatta, si è strategicamente rifugiata nella mia stanza. Spostando le gambe, la sento balzare per aria. Mio padre suppongo starà in bagno, rifugio esistenziale per questo genere di guerre. Strizzo gli occhi e cerco di premermi il cuscino sulle orecchie, ma è inutile: quelle due strillano come aquile. E va a finire che tocca alzarmi, che palle. In un primo momento, non mi ricordo il punto dolente della giornata. Poi, la parola “pranzo in famiglia” mi colpisce come un fulmine. Mia madre la butta li come per caso, sputandola di fretta. Sa che odio queste genere di occasioni. Ma sono costretto ad andarci. Avete presente i mafiosi? Ecco, i miei hanno lo stesso valore della famiglia. Quasi ossessionante. Mamma  mia. E così, una buona oretta dopo, passate tutte le vicissitudini del cavolo della domenica mattina, tirati a lucido, io, i miei e mia sorella siamo davanti alla porta della nonna. Si da il caso che la nonna viva in un castello, nella torre più alta, nella stanza più remota… si, insomma, tocca fare un bordello di scale per arrivare al suo appartamento. Quando mia nonna apre la porta, nessuna adorabile vecchietta con la vestaglia a fiori, ma una ss. Mia nonna è sempre stata rigida con se stessa. Ha settant’anni, è ancora magrissima, ha ancora i capelli perennemente ordinati, va ogni settimana dalla parrucchiera, e i suoi occhi azzurri, con l’età, sono diventati ancora più belli. Si, mia nonna è bella. Ma è anche una stronza della Madonna. Entra mia madre, con il dolce sulle mani, la bacia sulle guance e fa lo stesso con mio padre, poi fa un passo indietro, perché entra Martina: “Oh, la mia bellissima nipote!Il mio raggio di sole! Un dipinto, un dipinto!” Martina raccoglie il complimento con un sorriso e, da lecchina qual è, le da due baci sulle guance. Arrivati a me, mia nonna arriccia il naso: “Sempre troppo secco. Con questi capelli davanti alla faccia. Ma guardati, questi attorno al polso cosa sono? Chiodi?” prima stoccata della giornata, e già vorrei tirarle qualcosa in faccia. Ma il peggio deve venire. E il peggio arriva, o, si, arriva veloce come il vento, cinque minuti dopo di noi. Eccoli li, i miei cugini: il bell’Antonio e la principessina Giada. La nonna li copre di saluti mielosi, anche se il top rimane sempre Martina. E quando ci sediamo a pranzo, cominciano ad arrivare i commenti più simpatici “Ma perché non prendi esempio da loro, Gabriele? Guarda tuo cugino! E’all’università e prende trenta e lode in ogni esame. E Giada? Non ha un voto sotto al nove. Poi guarda come sono ben vestiti!” Loro gufano. Come se non avessi mai visto Giada spararsi dei cannoni grandi quanto un cocomero. E il suo adorabile fratellone vomitare ubriaco in un cesso a una festa. Che squallore. Fingono di essere una famiglia perfetta, ma in realtà hanno più crepe loro che noi. E parlo dal punto di vista di uno che nella sua famiglia ha casini ambulanti. All’improvviso, mi viene in mente la foto del gatto, che guardava il cielo. E anche io guardo il cielo fuori dalla finestra. Pensando che è lo stesso, ma è così lontano, così irraggiungibile. E volare è così maledettamente difficile … Basta, forse sto diventando pazzo. O scemo. O tutte e due le cose contemporaneamente.  Fatto sta che non lo so, vorrei accendere il pc e vedere se quel ragazzo mi ha risposto. Ma non posso. Così dopo pranzo mi metto sul balcone a fumarmi una sigaretta. Martina mi raggiunge poco dopo. Si appoggia alla ringhiera, e mi guarda. “Non te la prendere dai: oramai sai come è fatta quella vecchia arpia.” Mi giro di scatto. Detto da lei, mi lascia di stucco. Guarda l’orizzonte pensierosa. Vedere mia sorella così seria è inquietante: di solito ride sempre, a bocca larga. Mi verrebbe da domandarle se è successo qualcosa, ma lei mi manderebbe a quel paese. Non mi ha mai raccontato granché dei fatti suoi. E a me non è mai fregato nulla, tutto sommato. Quindi, evito di domandarle. “Vattene via, Marti. Non è il caso di stare qui a rompere le palle, tu che sei la cocca di casa” Lei arriccia il naso, voltandomi le spalle. “Peggio per te” e rientra dentro. Butto la sigaretta dal balcone, poi rientro pure io. La giornata è grossomodo spocchiosa, che par di palle immense. Mi annoio, mi annoio, mi annoio da morire. Non vorrei mai dover vivere in eterno: credo che mi farei due palle come una casa. Il sole muore, è l’ora della sera, c’è il cenone e mia nonna qui smette di tartassarmi. Quando c’era mio nonno, la cena era un po’ folle, con lui che aveva le guance rosse per il troppo vino. Lui si che mi difendeva: per lui eravamo tutti i nipotini uguali. Solo forse aveva un po’ a cuore Antonio, poiché il primo nipote maschio. Adesso mia nonna, ha capotavola, ci guarda algida ma tutto sommato contenta. Ma finalmente ce ne possiamo andare. Saluti e baci, la domenica è passata. Tiro fuori il telefonino e vedo uno squillo di Stella, uno di Marco e un messaggio. Lo apro, curioso, e scopro che è di Jill, che si lamenta perché si è appena fatto vivo un suo ex. Scoppio a ridere in macchina per il tono del messaggio e, quando siamo a casa, accendo il pc, per andare su msn. Lei è li, che tira giù frasi di ogni tipo, assurde e contrastanti, imitando un accento tedesco. All’improvviso, mi torna in mente la foto. Chissà se quel ragazzo mi ha risposto…  e così, vado a ficcanasare. E la risposta c’è. Mi sento così… allegro, all’improvviso. Mi ringrazia, e ha commentato qualche post del mio blog. Dice che lo ha incuriosito il mio nickname, che lo fa pensare a David Bowie. E che gli piacciono i miei post. Decido di tornare a commentare il suo blog, scoprendo altre foto ancora. Cavolo, questo ragazzo ha talento sul serio. Ne cerco qualcuna di lui, ma non le trovo. Così, un po’ deluso, stacco il pc e me ne vado a dormire.

 

La mattina dopo a scuola è l’ennesima mattonata nelle palle. Inutile a dirsi che con Giacomo non ci siamo nemmeno salutati. Io me ne sto tranquillamente sbracato sulla sedia, abbiamo disegno geometrico le prime tre ore, il prof è facilmente raggirabile. Ho i piedi buttati sul banco, la testa un po’ all’indietro, la musica a mille. C’è Stella qui vicino che disegna,  muovendo la testa a ritmo di musica. Dalle sue mani vedo snodarsi un teschio ben strutturato, che con l’assonometria che dovevamo fare non ha nulla a che vedere. Non riesco a smettere di pensare a quelle foto. Mi hanno colpito. In ognuna di loro riuscivo a ritrovare il mio stato d’animo attuale. E’..bizzarro. Cerco di immaginarmi il suo viso, le sue mani. Chissà com’è il suo sorriso, se la sua voce è calda e rassicurante. Visi e corpi si fondono nella mia testa. Mi mordicchio il labbro inferiore. Cosa mi sta succedendo? Stella percepisce, non so come, la mia inquietudine. Ha sempre avuto queste facoltà speciali. Le sue “antennine” captano il mio umore alla perfezione. Mi si avvicina, tranquilla, e mi chiede “Cosa c’è, Lele?” con quella sua vocina paradossalmente bassa. Io gli racconto un po’ tutto quello che mi passa per la testa, cercando di dare un ordine preciso ai miei pensieri. Col risultato che finisco per fare una scenetta da checca isterica, raccontando delle foto, di questo ragazzo che me lo ritrovo ovunque. Stella sorride e mi fa l’occhiolino. “Se può servire a toglierti dalla testa quello stronzo di Giacomo, dacci dentro, stronzetto!”

Arrivato a casa, manco a dirlo, accendo il pc. Sto diventando maniacale. Per mangiare ci ho messo tre secondi. Mi chiedo cosa mi passi per la testa. Non mi sembro nemmeno io. Lo trovo online, e ne approfitto, in mezzo secondo, per chiedergli il contatto msn. Da qualche remoto angolo della mia testolina bacata, spunta una voce, che mi chiede cosa sto facendo. Ma la sua risposta esce prima. Ha accettato, mi ha passato il suo contatto. Lo aggiungo al listino dei contatti, e cominciamo a parlare. Così scopro che si chiama Alessandro, ha la mia età vive a Padova, è uno pseudo dark, ascolta più o meno i miei stessi gruppi. Mi piace anche solo come scrive. E’ semplice, non usa un milione e mezzo di faccine. Cominciamo a parlare e non lo so, mi sento euforico. Sarà che ancora non ho smaltito bene la canna dell’altra sera, secondo me. Ma non riesco a togliermelo dalla testa. Ci penso spesso, e non so… mi da una sensazione strana. Mentre parlo con lui .. bah. E’ ufficiale, sto diventando matto. Nell’avatar c’è una foto, mi ha detto che è lui. Ha dei capelli assurdi, sparati per aria come quelli degli anime giapponesi. Sta appoggiato un albero e come il gatto, guarda il cielo. Mi piace pensare che stiamo guardando lo stesso cielo, dopotutto. Anche se da due angoli diversi. Anche con tutte le distanze, il sole, la luna, sono sempre le stesse. Mi piace pensare a questo ragazzo. E il giorno dopo, quando vedo Giacomo, riesco anche a sorridergli. Perché mi sembra di meno, non lo so. Lui il cielo non lo vede, vede solo quelle poche cose stupide e superficiali che preferisce. Io voglio qualcuno che guardi oltre. Qualcuno che mi prenda per mano, e che mi mostri le meraviglie del mondo.

E all’improvviso, mi viene da ringraziare Alessandro.

Perché mi sento, per la prima volta dopo tanto tempo, un po’ più libero.

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Capitolo 4
*** Frammentari e nostalgici ricordi ***


Frammentari e nostalgici ricordi

Frammentari e nostalgici ricordi

 

E’ un qualsiasi pomeriggio di fine novembre. Domencia mi pare di ricordare. Oh, quante belle cose accadranno tra meno di un mese! Il Natale, i regali, si è tutti più buoni…

Stronzate.

Ricordo, ricordo Lucrezia, non posso dimenticare ciò che mi hai fatto.

Non posso scordare con quanta cattiveria mi hai abbandonato sul lastrico.

Eppure, quando ripenso a te, è il ricordo più dolce ed amaro che possa custodire nel mio cuore.

“Il mio cuore è in pena per amor tuo: non posso nè odiarti nè amarti e capisco com`è difficile odiare quando c`è un vincolo d`affetto, ma com`è difficile amare chi rifiuta.”

Caro, vecchio beato Teognide.

Questa frase la rileggo proprio ora nel mio diario dell’anno scorso, in un mesto ed insopportabile febbraio, passato a compiangermi, a lamentarmi della tua folle ed improvvisa ritirata nei miei confronti.

Anche ora, non capisco davvero cosa ti ho fatto. Eravamo una coppia affiatata, te lo ricordi? Eppure a te non importava, tu ti preoccupavi della distanza, ti seccava di non potermi scopare ogni volta che volevi.

Dopo aver passato in rassegna un po’ di insulse canzoni nell’ I-pod – alcune le dovrò cancellare a breve – mi fermo su una in particolare. Resto ad ascoltarla per qualche istante, rileggo titolo ed autore più e più volte.

“If I was your vampire”, Marilyn Manson.

Non che mi faccia impazzire questo cantante, però la canzone mi era piaciuta fin da subito, fin dalla prima volta che l’avevo sentita, che me l’avevi passata via MSN.

Cosi delicato e tragico,
come un mattatoio.
Spingi il coltello contro il tuo cuore
e dici ‘Ti amo cosi tanto che mi devi uccidere ora’”

Me lo dicesti, una mattina di settembre, ero ancora a casa, mancavano pochi giorni che rientrassi a scuola.

Me lo sussurrasti al telefono, con quella tua voce stupenda, con quel tono suadente ed orgasmico, da far accapponare la pelle.

Mi hai rubato la passione, Lucrezia, mi hai rubato i sentimenti, mi hai tolto la vitalità. Hai risucchiato tutto di me, crudelmente, hai divorato il mio cuore e poi l’hai gettato via come un oggetto consumato.

Se fossi il tuo vampiro.
Inevitabile come la Luna.
Invece di ammazzare il tempo,
avremmo l'un l'altra fino all'alba”

E questo pezzo? Te lo dissi io invece. Sul letto della camera dei tuoi, quel sabato mattina, il giorno in cui dovevo partire, tornare a casa, dopo una delle mie innumerevoli visite a Milano. Ti baciai la guancia, e ti donai la mia esistenza. Tu sorridevi, eri felice di sentirtelo dire. Eppure, eppure…

E’ finita, ormai, e non ci voglio più pensare.

Sei stata l’unica storia seria, l’unico vero amore che abbia mai provato per una ragazza. E poi, l’oblio.

Decido di staccare un po’ dalla monotonia delle pallosissime orazioni di Demostene, rifugiandomi nel freddo e virtuale mondo di internet. Accedo al mio blog, e, tra i vari complimenti che incasinano la mia galleria, ne noto uno che mi colpisce particolarmente. Liquido tutti gli altri con un misero “Grazie”, o una faccina altrettanto idiota, e subito mi soffermo su ciò che è stato scritto da un certo Ziggy_Stardust, alle quattro di notte.

Porca miseria, certo che certa gente non c’ha di meglio da fare a certe ore. ( tengo il polpitoto, chissene)

Ad ogni modo, mi sorprende la sincerità con cui ha espresso il suo parere. Commentandomi la foto del gatto, quello che guarda in alto, coi baffi ritti ed argentei, una foto che ho scattato di sfuggita quest’estate, mi viene quasi una stretta allo stomaco. Il commento non è molto lungo, però racchiude in sé un qualcosa che mi sconvolge.

“Sembra un animale libero, fiero della sua natura, un animale che guarda con fiducia al futuro. Eppure, allo stesso tempo sembra pensare al suo passato, ad una nostalgia lontana che lo opprime ancora adesso.

Non so quanto ciò possa azzeccare con la foto, ma sentivo di scrivere questo.”

Spalanco la bocca e gli occhi contemporaneamente. Resto imbambolato a riflettere sulle sue parole. Accidenti, c’ha beccato in pieno, altrochè. E’ la prima volta che mi capita una cosa del genere, di sentirmi dire da un altro quello che anch’io in fondo penso.

Una sensazione comune, una fugace empatia c’ha legati nella stessa maniera.

Un po’ incerto, rispondo al suo commento, tentando di mantenere un tono serio e meditante. Viene fuori una schifo di replica, ma per ora è il meglio che il mio cervello riesce a produrre.

Di conseguenza, sempre più incuriosito, vado a sbirciare sul suo di blog, scoprendo qualcosa in più su di lui. Leggo i vari post che ha lasciato, riconoscendo così un ragazzo abbastanza malinconico ed insoddisfatto, che s’è rotto le scatole del mondo che lo circonda. I suoi sono argomenti profondi, non come i soliti tizi che si mettono a scrivere cagate o copiaincollano stupidissimi test del cazzo.

Lui riversa in maniera originale ed aggressiva le sue emozioni, schietto e spontaneo come non mai. Mi fa piacere leggergli l’anima, quello che gli passa per la testa.

E così, decido di aggiungere il mio contributo ai commenti già abbondanti. Inoltre, commento con una certa simpatia il nickname che s’è scelto, essendosi piacevolmente rifatto a David Bowie, musicista che apprezzo molto.

Poi, ripenso al dovere che mi chiama, a quelle sette righe di versione greca che mi attendono. Quindi spengo in fretta e furia il computer, ritornando a tradurre. Tuttavia non sono più concentrato come prima, e cerco nel vocabolario parole e strutture grammaticali a caso.

Quel ragazzo ha risvegliato in me qualcosa che s’era sopito da tempo ormai, ma non saprei ancora precisare di cosa si tratta.

La serata passa tranquilla. Di solito mamma si diletta a tirare fuori pizzette surgelate e a rimpinzarle di ingredienti assurdi, ma che tutto sommato fanno risultare qualcosa di commestibile come cena. Anche oggi è così. Mia sorella è fuori col suo ragazzo, persona che ai miei non va molto giù. Dicono che non fa al caso suo, che sono troppo diversi. Io non commento mai, sebbene me lo richiedano spesso.

Alle nove, come regolarmente accade ogni benedetta domenica, mi chiama Angelica, a scaricarmi addosso i suoi nuovi, entusiasmanti (si fa per dire ovviamente) problemi amorosi. Angelica è la mia migliore amica: ci conosciamo da quando avevamo sei anni, avendo frequentato assieme le stesse scuole elementari e medie. Ora lei va al liceo scientifico, ma tuttavia non abbiamo perso i contatti, e ciò mi fa molto piacere. Mi tira su di morale quando sono depresso. Ormai siamo come due anime gemelle, ci raccontiamo tutto, ed amiamo sparlare degli altri; proprio due vecchie decrepite comari. Mi saluta tutta agitata, parlandomi mezza in russo e mezza in italiano, con quel suo accento moscovita che mi fa sempre sorridere. Poi prosegue con una serie di parolacce, maledicendo continuamente Andrea, il tipo che s’è fatta sabato sera, e che subito dopo è andato a pomiciare con un’altra. Tra le varie imprecazioni, emergono i fatti successivi a quello principale, ossia un fitto scambio di messaggi tra sabato notte fino a poco prima. Nel frattempo che lei mi racconta tutto questo, tra uno sbadiglio ed un altro accendo il computer, collegandomi a messenger. Lo stato di Angelica è “Al telefono”, ahah, chissà perché. Ci stanno altri amici in linea, tra cui anche Leonardo. Lo contatto, gli mando un trillo e lui mi risponde subito tutto entrusiasta, inizia a parlarmi della scopata megagalattica fatta con la sua fidanzata oggi, descrivendomi pure i particolari, sui quali io tronco immediatamente. Mentre ascolto e non ascolto Angelica sbraitare, mi collego al mio blog, provando quasi una sorta di apprensione; chissà se quel ragazzo ha scritto qualcos’altro. Accedo alla mia galleria, il cuore mi batte leggermente più veloce. Guardo: ci sono altri suoi commenti. Li leggo con avidità, me ne nutro desideroso ed affamato. Ma non per riempirmi la testa di autostima e vanità, come mi succede con gli altri commentatori, quando per verificare se, ancora una volta, è riuscito ad esprimere ciò che era già intriso nel mio cuore, l’idea o la sensazione primordiali che ho cercato di trasmettere in ogni scatto, nel mio muto linguaggio, e che molte persone non hanno mai, purtroppo, saputo cogliere. Angelica non si ferma nella sua tiritera; eppure io non la sento più. Appoggio la cornetta del telefono sul tavolo accanto al computer, lasciando la mia amica parlare a vanvera, non mi interessa.

“Mi ricorda la poesia ‘Mattino’ di Ungaretti. Chi guarda quest’alba viene colpito anzitutto dai colori vivaci che l’abbelliscono, e subito dopo si accorge della luce che il sole emana, che a me pare quasi divina, un miracolo mandato a rischiarare questo mondo morto”.

Serro le labbra, rimango immobile per qualche istante. Cerco un modo per distrarmi, e torno a controllare Messenger: Angelica mi ha inviato una marea di trilli, chiedendomi inoltre che fine abbia fatto. Allora afferro la cornetta, ma lei ha già riattaccato. C’era da aspettarselo, data la sua impazienza congenita. Le rispondo, mi invento una bugia. Lei mi fa delle faccine imbronciate, ma alla fine accetta la mia giustificazione. Così, la liquido con un’altra scusa, preso dalla morbosa voglia di rispondere ai commenti che quel ragazzo ha lasciato. Imposto lo stato su “Non al computer”, iniziando a riflettere su una possibile replica. Per concentrarmi, metto su un po’ di musica, “Dead Souls”, ma rifatta dai Nine Inch Nails. La voce calda e sensuale di Trent mi rilassa sempre, anche nei momenti di maggior nervosismo e frustrazione. E le dita vanno da sé, autonomamente paiono congiungersi al pensiero espresso da quelle altrui. Come un giunco. E’ difficile da descrivere, ora come ora, ma mi viene subito in mente quell’immagine, come un fulmine. Quindi, mi cimento in un insolito virtuosismo linguistico, prodigandomi al massimo a comunicargli la mia grande sorpresa nel constatare che esiste qualcun altro a questo mondo che la pensa come me. Sono già le dieci e mezza. Diamine, non credevo che fosse passato tutto questo tempo. Soddisfatto della mia risposta, mando la buonanotte ad Angelica e Leonardo, e poi mi disconnetto da Messenger, spegnendo infine il computer. Da tecnologia a tecnologia, salto dal PC al cellulare. Toh, un messaggio. Apro, e scopro che è Jejè: “Ho voglia di scopare”. Ma che novità. Non le rispondo, non ne ho la minima voglia. Lancio poi un’occhiata al libro di storia, e mi viene un senso di forte nausea. La storia può aspettare, dopotutto, la storia si ripete. Cosa serve dunque studiarne le date? Sebbene sia altamente probabile che il giorno dopo mi interroghi quel caro professore, che, con quella sua faccia giovane e gioviale non promette comunque nulla di buono, al posto della solita ansia si sostituisce una specie di calma piatta, quasi non me ne importasse più nulla, quasi volessi momentaneamente tralasciare tutto il resto. Preparo di malavoglia lo zaino, ci ficco dentro libri e quaderni a caso, senza pensarci troppo su. Mi spoglio, mi infilo il pigiama: insomma, compio i soliti gesti quotidiani della sera. E poi, adorato letto, mi ci butto a capofitto, nel vero senso della parola. Dovrei finire di leggere “I fratelli Karamàzov”, in fondo mancano poche pagine per concludere il primo libro. Invece sospiro, e m’addormento come un sasso. Il giorno dopo mi sveglio a fatica e con un grande senso di stanchezza addosso, ho un sonno bestia. Strano, eppure ho dormito continuativamente e per molte ore. Faccio colazione, mi lavo, mi vesto, piglio lo zaino ed esco di casa, che è ancora deserta, la mia famiglia dorme. Beati loro. Fuori fa un freddo cane, ma il mio cappotto nero e lungo riesce in qualche modo a riscaldarmi. Prendo per un soffio l’autobus, arrivo dopo un quarto d’ora a scuola. Entro in classe, mi sdraio sulla sedia con la testa all’indietro. Pippo subito mi squadra da capo a piedi, nota la mia cera particolarmente pallida, l’espressione da drogato cronico. Ma, stranamente, non commenta. Probabilmente tira una bestemmia tra sé e sé, sapendomi ridotto a questo stato d’apatia e rincoglionimento totali. La prima e la seconda ora passano abbastanza in fretta, arte ed inglese sono sempre molto tranquilli, ed oltretutto sono già stato interrogato in entrambi. La terza ora è quella fatidica di storia. Falduti entra in classe, con quel suo solito sorrisino arrogante, da professore carogna. Fortunatamente però questa volta ha deciso di non interrogare, ed anzi, più calmo che mai si mette a spiegare il nuovo capitolo. Io ovviamente non l’ascolto: trovandomi all’ultimo banco, passo le giornate a schiacciare pisolini a manetta. Tuttavia questa volta non riesco a riposarmi, nonostante abbia così tanto sonno. Ripenso a quel ragazzo, non riesco a farne a meno. Mi verrebbe voglia di conoscerlo meglio, di farci amicizia, mi piacerebbe molto scambiare altre opinioni e pareri, anche solo per sapere se siamo affini in altri campi. Pippo, con la sua delicatezza di sempre, mi strattona il braccio, portandomi al mondo della realtà. Vuole giocare a tris. E sia.

Dopo due estenuanti ore di educazione fisica me ne torno finalmente a casa. Sono da solo, mia madre ha il tempo pieno coi bambini fino alle quattro, mia sorella lavora via come impiegata, mio padre tornerà la sera tardi. Accendo il computer di camera mia – poiché ne esiste un altro, ma di famiglia, in taverna – mi connetto a Messenger ed accedo anche al blog, in un riflesso incondizionato. Chissà se… mi preparo da mangiare, gli avanzi di uno, due giorni prima. Ma a me va bene così. Dopo aver tranquillamente pranzato, abbandonandomi alla musica commerciale che trasmettono per la radio, sparecchio la tavola, e mi appolipo al PC. Trovo con piacere un commento da parte di Ziggy_Stardust, e poi un suo messaggio privato: mi chiede il contatto MSN. Sgrano gli occhi, un po’ incredulo, ma in fondo compiaciuto. E’ come se il desiderio di stamane si fosse improvvisamente avverato. Glielo passo, e ad un certo punto s’attiva la finestrella di un nuovo contatto che desidera aggiungermi. Accetto la richiesta, ed è lui a cercarmi per primo. Così, cominciamo a presentarci, e scopro che si chiama Gabriele, abita “in uno dei tanti paesini del cazzo che fanno da intermedio tra Perugia e Terni”, non ha voluto specificarmi dove, e io non indago oltre. E’ un emo, ma si giustifica subito dicendomi che gli piace lo stile musicale e della moda, non di certo la mentalità. Parliamo un po’; è divertente ridere, scherzare e scambiare opinioni con un ragazzo che abita nella parte quasi diametralmente opposta alla mia. Nel frattempo, metto su un po’ di Vision Bleak, del sano black metal. Lui mi chiede chi siano, che genere fanno: decido di passargli qualche canzone. Li apprezza, dice che sono aggressivi e malinconici allo stesso tempo, e che ci farà su un pensierino a scaricarseli da Emule. Sono contento di aver conosciuto questo Gabriele, mi pare un tipo con la testa a posto, talmente semplice e genuino che io non devo usare termini troppo altolocati con lui. Mi ci posso sfogare tranquillamente, pur mantenendo un certo distacco, quello che mi caratterizza. Con lui ritrovo una strana serenità: ed è inconsueto, poiché è la prima volta che ci parlo. Non so cosa mi succeda, solo che non riesco a staccarmi da quella maledetta finestra di conversazione. Ci parlerei ininterrottamente. Eppure, non è il caso di abbandonarmi a questi sentimentalismi. Per adesso, voglio restargli un semplice amico occasionale, anche se la tentazione di conoscerlo meglio è forte. Forse, la cosa in futuro si evolverà con più intensità. Non voglio illudermi, non voglio rischiare di soffrire un’altra volta ed in maniera così straziante. Lo saluto rapidamente, spengo quest’aggeggio elettronico e dannatamente ammaliante. E decido, con rammarico e riluttanza, di buttarmi sul divano, a guardare la tv. Per non pensarlo più, o almeno, provare a farlo.

 

 

 

 

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