I'm Afraid That I'll Be Alone, So Just Hold Me

di Angie Mars Halen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Grace ***
Capitolo 2: *** Nikki ***
Capitolo 3: *** Grace ***
Capitolo 4: *** Nikki ***
Capitolo 5: *** Grace ***
Capitolo 6: *** Nikki ***
Capitolo 7: *** Grace ***
Capitolo 8: *** Nikki ***
Capitolo 9: *** Grace ***
Capitolo 10: *** Nikki ***
Capitolo 11: *** Grace ***
Capitolo 12: *** Nikki ***
Capitolo 13: *** Grace ***
Capitolo 14: *** Nikki ***
Capitolo 15: *** Grace ***
Capitolo 16: *** Grace ***
Capitolo 17: *** Vince ***
Capitolo 18: *** Grace ***
Capitolo 19: *** Nikki ***
Capitolo 20: *** Grace ***
Capitolo 21: *** Sikki ***
Capitolo 22: *** Grace ***
Capitolo 23: *** Vince ***
Capitolo 24: *** Grace ***
Capitolo 25: *** Nikki ***
Capitolo 26: *** Grace ***
Capitolo 27: *** Vince ***
Capitolo 28: *** Nikki ***
Capitolo 29: *** Grace ***
Capitolo 30: *** Tommy ***
Capitolo 31: *** Vince ***
Capitolo 32: *** Grace ***



Capitolo 1
*** Grace ***


Disclaimer: I Mötley Crüe non mi appartengono e tutti gli altri personaggi sono fittizi. Questa storia è frutto della mia fantasia e non è stata scritta a scopo di lucro.
N.D’A.: Salve a tutti! =) Questo non è il primo racconto a più capitoli che scrivo, però è il primo che posto in un sito simile. L’ispirazione per scriverlo è nata durante la lettura di The Heroin Diaries: a Year In the Life of a Shattered Rock Star di Nikki Sixx. Ho deciso di inventarmi una storia basandomi su quanto raccontato in tale libro (e anche un po’ in The Dirt), ma non è assolutamente nelle mie intenzioni plagiare Nikki Sixx, criticarlo o sminuirlo. Se vi dovesse sembrare che lo abbia fatto – così come se vi sembrasse che il racconto sfoci nel patetico/ridicolo/maleducato – fermatemi in tempo, ditemelo e provvederò a correggere e/o, nel peggiore dei casi, a rimuoverlo. Vi chiedo anche di segnalarmi eventuali orrori grammaticali affinché possa correggerli, rendendo così la lettura più piacevole.
Leggendo vi accorgerete che le parti narrate con tempi diversi sono i pensieri dei personaggi.
Un’altra cosa che ci tengo a precisare è che la storia ruota intorno a Nikki e Grace, ma ciò non significa che ritenga il resto della band inutile. Abbiate pazienza e tutti i Mötley avranno il loro momento di gloria! Gli altri tre sono fondamentali nella trama. Sempre riguardo i personaggi, ho cercato di rendere tutti (Nikki in particolare) il più vicini alla realtà possibile.
Il titolo è una frase tratta dal testo della canzone Hold on to My Heart degli W.A.S.P.. Mi sembrava perfetta e l’ho isolata dal contesto della canzone (e dell’album intero), anche se qualche punto in comune ce l’hanno. È una canzone triste ma meravigliosa, vi consiglio di ascoltarla nel caso non l’abbiate mai sentita.
Con questo è tutto, non vi secco più e mi scuso per queste righe, ma ho preferito metterle qui in modo che possiate leggerle prima di dedicarvi alla storia. Ci si rivede in fondo alla pagina!
Buona lettura!
Angie Mars :)






I’m Afraid That I’ll Be Alone, So Just Hold Me




1) GRACE

Van Nuys, CA, ottobre 1987

Una sera fresca a Van Nuys, forse la prima di un’estate torrida che era durata fino a ottobre. Gli abitanti di L.A. erano usciti dalle proprie abitazioni per godere della temperatura e il Sunset Boulevard, giù a Hollywood, sembrava un fiume in piena tanto era gremito di gente.

Ma a Van Nuys, nella San Fernando Valley, sul Valley Vista Boulevard, c’era una casa grande e tetra. Oltre il cancello alto, si estendeva un oscuro mondo parallelo che nessuno conosceva, fatta eccezione per il suo unico abitante. Se entravi dalla porta principale avresti potuto dire che lì dentro non ci fosse anima viva – o meglio, avresti potuto affermare che era appena passata un’orda di vandali che aveva devastato tutto. Appena varcavi la soglia, ti avvolgeva una nuvola densa di odore di chiuso e marcio così forte che ti sembrava che ti si appiccicasse addosso. Tutto era appiccicoso, lì dentro. Quando sollevavi un piede dal pavimento, sentivi qualcosa di colloso attaccarsi sotto la suola. Quando lo riappoggiavi, schiacciavi qualcosa che scricchiolava. E via così per tutto il salone. Passavi in mezzo a bottiglie, fazzoletti appallottolati gettati ovunque, vestiti e avanzi di cibo. Dovevi stare molto attento, perché se calpestavi qualcosa, chissà cosa ti prendevi. Io in quella casa ci ero entrata, ma me ne andai dopo aver attraversato la sala, sotto lo sguardo di pietra dei gargoyle che erano stati sistemati sulle mensole e sui ripiani della libreria.

Basta, pensai in un momento di lucidità che arrivò nel momento in cui urtai lo spigolo di una cassettiera con il fianco, Quei due hanno perso la scommessa.

Disgustata da ciò che avevo intorno, schizzai fuori alla velocità della luce e attraversai il salotto rischiando di inciampare in una sedia sdraiata per terra. Il rumore della sua struttura di legno che strisciava sul pavimento, uno stridio acuto che mi fece rabbrividire, mi esortò ad accelerare. Uscii passando attraverso il portone principale che avevo trovato già aperto, corsi per il giardino abbandonato a se stesso in cui l’unico particolare che dava una sensazione di ordine e pulito era un’automobile sportiva nera e lucida, infine spalancai il cancelletto in ferro battuto nero che, credetemi, lo si può trovare giusto nei film gotici. Anche quello, ovviamente, l’avevo trovato aperto, come se qualcuno prima di me fosse scappato come stavo facendo io e senza preoccuparsi di chiuderlo.

Una volta di nuovo in strada, sogghignai impettita davanti agli altri, ancora traballante per la corsa e qualche bicchiere di troppo.

“L’hai fatto per davvero!” esclamò stupito il mio amico Grant prima di porgermi la bottiglia di Budweiser che gli avevo lasciato prima di tentare l’impresa. Lo conoscevo da una vita, ma il nostro rapporto si stava rinforzando solo allora, a vent’anni, dopo molto tempo.

Elisabeth, la sua fidanzata, scosse il capo. “Davvero credevi che Grace Murray non l’avrebbe fatto? Ormai dovresti conoscerla.”

Esultai, fiera di me: poco prima Grand ed Elisabeth avevano insinuato che non avrei mai osato entrare in quella casa perché neanche i tipi tosti dell’università ne avevano il coraggio, ma io l’avevo fatto lo stesso. I miei amici avevano perso la scommessa ed ero troppo contenta di aver stupito Grant.

Tutto era nato mezz’ora prima, quando eravamo passati davanti a quella villa dopo essere stati a bere in un pub sulla strada. Chi abitava nei paraggi sapeva che era abitata da un qualcuno sul quale circolavano strane dicerie. Nessuno aveva idea di cosa accadesse oltre quelle mura né si sapeva chi ci abitasse esattamente, ma gli adulti vietavano ai bambini di sostare troppo con i loro musini bloccati tra le sbarre verticali del cancello, intenti a osservare il giardino. “Guai a te se vai alla villa! Guarda che poi esce il lupo cattivo e ti mangia, capito, James?” diceva sempre mia nonna a mio fratello di sette anni visto che, dopo una passeggiata che li aveva portati là davanti, James aveva cominciato a dimostrare un certo interesse per la casa. Mio fratello, rigorosamente con la bocca piena – quando eravamo dalla nonna mangiava sempre – annuiva energicamente e i capelli biondi ondeggiavano nel loro taglio a scodella. Di James, però, non c’era da preoccuparsi: sette anni e una fifa tremenda dei piccioni, l’idea di toccare il cancello di quella villa non gli sarebbe nemmeno passata per l’anticamera del cervello. Era a noi studenti che avrebbero fatto meglio a pensare. Siccome nessuno si prendeva l’impegno di controllare gli universitari, che in teoria erano abbastanza grandi per prendersi le proprie responsabilità, nelle sere d’estate questi si radunavano per qualche birra fresca e, sotto i primi, leggeri effetti dell’alcol, finivano per lanciare sfide temerarie per dimostrare la propria forza, o più semplicemente per ammazzare la noia. Io non avevo mai preso parte a queste gare perché non frequentavo certe compagnie. Quella sera, però, passammo davanti a quella casa e ci accorgemmo che qualcuno aveva lasciato il cancelletto aperto, e a Grant venne la brillante idea di iniziare a stuzzicarmi. “Tu non hai nemmeno il coraggio ti toccarlo, quel cancello!” aveva esclamato indicando quello che sembrava più una grata blindata di Alcatraz. Senza pensarci due volte, gli avevo affidato in custodia la mia birra e decisi che gli avrei dimostrato che si sbagliava. Ho raccolot tutto il coraggio di cui disponevo in quel momento, ho spinto il cancelletto e ho varcato la soglia. Dopo aver fatto ciò, sono entrata anche in casa, mi sono guardata intorno nel silenzio tombale e sono scappata via.

Ero la prima ragazza di Van Nuys ad aver messo piede nella Villa, la prima ad aver avuto il coraggio di entrare nella tana del lupo cattivo, come la chiamavano certe persone per intimorire i propri figli. Tutti gli altri ne avevano paura. La gente ci passava davanti e lanciava occhiate furtive oltre il cancello con la speranza di scorgere qualche anomalia, poi acceleravano il passo una volta che l’avevano superato, come se non avessero voluto farsi vedere dal padrone di casa. I vicini raccontavano di sentire dei rumori strani e di aver visto movimenti sospetti che li avevano portati a telefonare alla polizia, ma per qualche motivo non volevano scendere nei dettagli e dicevano di non avere idea di chi ci abitasse.

Stavo ancora fissando il cancello e il cortile buio quando Grant mi afferrò per una spalla. “Andiamocene. Ci siamo già divertiti abbastanza con questa stronzata.”

“E in ogni caso, è meglio starne alla larga,” continuò Elisabeth. “Non vorrei che accadessero cose strane.”

“Aspettatemi!” esclamai puntando i piedi per terra. “Voglio vedere se si vede qualcosa.”

Grant sbuffò e mi tirò per un braccio. “Smettila, abbiamo di meglio da fare.”

Non feci in tempo a ribattere che loro se ne stavano già andando. Prima di seguirli lanciai un’ultima occhiata nel giardino e sospirai, poi appoggiai la fronte a una sbarra del cancello e tenni gli occhi fissi su una finestra aperta al secondo piano. Tutte le luci erano spente.

Quando tornai a casa, trovai mia madre in piedi sulla soglia che mi aspettava. Batteva un piede sul pavimento e si tormentava una pellicina del pollice con l’indice. La salutai con un cenno della mano, consapevole di essere in ritardo mostruoso. “Ero con Grant” era una scusa sempre ben accettata, e dal momento che in quel caso era vero, fu la prima cosa che le dissi dopo averla salutata. Finché c’era lui con me, allora mi era permesso andare ovunque, ma era chiaro che la Villa degli Orrori fosse l’unica enorme eccezione. Nonostante tra me e mia madre vigesse questo patto mai esplicitato, io ci avevo fatto un giro lo stesso. Filai dritta in camera mia e mi lasciai cadere sul letto, esausta dopo aver camminato a lungo. Il Valley Vista Boulevard non distava molto da casa mia, ma dopo la mia visita alla villa avevamo deciso di restare ancora un po’ in giro. Eravamo anche andati al chiosco dei burrito vicino alla scuola per mangiare qualcosa, e da lì avevamo continuato a camminare.

Ripensai alla Villa e provai a immaginare come sarebbe stata camera mia se fosse stata una sua stanza: i vestiti fuori dall’armadio con uno specchio appeso sull’anta, il letto disfatto, i cuscini buttati sul pavimento, la sedia della scrivania ribaltata e le tende strappate. Mi domandai se ci fosse veramente qualcuno che ci abitava e cosa c’entrasse la macchina sportiva e scintillante con lo schifo che c’era all’interno, allora pensai che la villa appartenesse a qualcuno che in realtà abitava da un’altra parte e la usava solo per qualche traffico strano.

Scossi il capo come per allontanare tutti quei pensieri inutili e accesi la radio, alla quale stavano trasmettendo Jamie’s Cryin’ dei Van Halen. Mi tolsi le scarpe, le lanciai lontano e cominciai a cantare sottovoce.

Oh, oh, oh, Jamie’s Cryin’!

La Villa... ma come cazzo mi era saltato in mente di entrarci?

Oh, oh, oh, Jamie’s Cryin’!

Che poi, ci abita veramente qualcuno in pianta stabile?

Oh, oh, oh, Jamie’s Cryin’!

Secondo me sì.

Oh, oh, oh, Jamie’s Cryin’!

Volsi lo sguardo verso il poster dei Van Halen che avevo appeso al muro, proprio sopra la mia chitarra elettrica, una Fender taroccata da quattro soldi che non stava mai accordata ma che in fin dei conti suonava in modo decente. Non appena avessi guadagnato qualche spicciolo, me ne sarei comprata una migliore. Sorrisi al poster, in particolare a quel mito di Eddie, poi tornai a guardare fuori dalla finestra, ancora ornata con delle belle tendine rosa pallido con i ricami fucsia che aveva scelto mia madre quando avevo otto anni. Erano su da più di dieci.

“Lo so che ci sei,” affermai sottovoce nel silenzio della mia camera dopo aver spendo la radio.

Nonostante ce la stessi mettendo tutta per dimenticarmi la Villa, l’immagine del salone era chiara e vivida nei miei ricordi. Mi aveva quasi turbata, ma mi aveva anche incuriosita. Ho sempre creduto che ci sia un perché dietro ogni azione, quindi doveva per forza essercene uno anche a tutta quella confusione. Non credevo affatto a chi diceva che la casa era abitata da un demone, né tantomeno mi fidavo di quelli che raccontavano in giro che era infestata dagli spiriti.

“Lo so che sei lì dentro,” ripetei sottovoce come una cantilena, gli occhi chiusi e le braccia dietro il capo.

Lo sapevo, io, che c’era qualcuno, perché avevo sentito dei lamenti provenire dal piano superiore proprio mentre scappavo fuori.




Mars’s Corner: Con questo per oggi è tutto... ovviamente la vicenda si svilupperà presto! E Grace, che può sembrare un po’ troppo ingenua e sciocca, cambierà nel corso della storia.
Spero che questo capitolo non sia troppo corto... la maggior parte sono più o meno come questo, ma alcuni sono molto più lunghi.
Spero che come inizio vi piaccia!
Il seguito arriverà domenica. Cercherò di non far mai passare più di una settimana tra un aggiornamento e l’altro.
Grazie a chi è arrivato fin qui! :)

Angie


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Capitolo 2
*** Nikki ***


2) NIKKI

Mocciosi di merda. Sempre a rompere, voi, eh? “Uuuh, il lupo cattivo!”. Ma fatela finita, ché io a quindici anni non andavo a tormentare la gente in questo modo. O forse sì? Boh, non ricordo più niente di quegli anni. A momenti mi sono dimenticato anche in quale decennio siamo.

Quella sera, dopo aver passato il pomeriggio in trance sul divano a guardare MTV senza prestare attenzione e mentre giravo per casa pensando solo a farmi una pista, sentii uno scalpiccio nel giardino, poi dei passi felpati nel salotto mentre stavo salendo le scale. Stavo andando in camera a cercare un po’ di cocaina, il che significava che non ero ancora fatto e che, di conseguenza, ero abbastanza lucido da rendermi conto che stavolta non c’erano nani messicani né poliziotti che mi cercavano, come credevo quando ero su di giri e mi venivano le allucinazioni. C’era una persona vera e chissà quali intenzioni aveva. Cominciai a strofinarmi le mani per il panico. Se era venuta per rubare, c’era una sola cosa che potevo fare, ed era una sorta di procedura di sicurezza che avevo stabilito e che rispettavo rigorosamente tutte le volte che era necessario. Anche quella notte non tentennai e la misi in atto: arrancai su per le scale e mi fiondai nella cabina armadio della mia camera, dove custodivo il fucile a doppia canna di mio nonno. Lì nessuno avrebbe potuto trovarmi perché era il mio bunker segreto. Mi sembrava che avesse le pareti spesse un metro in cemento armato e la porta a tenuta stagna, ma in realtà era una normalissima cabina armadio troppo piccola per uno della mia stazza e straripante di cocaina, eroina e alcolici.

Mi abbracciai le ginocchia tenendo una mano sul pavimento, accanto al fucile per raggiungerlo in fretta non appena ne avessi avuto bisogno. Avevo paura di essere aggredito e patire dolore. Forse, però, se fossi morto avrei smesso di soffrire per colpa delle mie stesse maledettissime mani. Pensavo spesso questo genere di cose, ma in realtà non volevo morire, non lì nella San Fernando Valley, non in quella casa di merda a Van Nuys.

I passi si fermarono e con essi anche il mio respiro. Lo trattenni per tutto il tempo possibile per ascoltare ancora meglio i rumori circostanti, ma non riconobbi nemmeno quello dei passi di poco prima. A quanto pareva, l’intruso si era appostato da qualche parte per tendermi un agguato e io ero costretto a stare chiuso in quel buco in eterno, perché se fossi uscito mi avrebbe aggredito, proprio come i fottutissimi nani messicani che si abbarbicavano sugli alberi del giardino per tendermi le imboscate.

Nascosi il viso tra le ginocchia e mi portai le mani nei capelli, accorgendomi che erano talmente sfibrati e ingarbugliati che non riuscivo nemmeno a passarci le dita in mezzo senza strapparli. Sentii qualcosa di caldo e appiccicoso bagnarmi le ginocchia e un attimo dopo mi resi conto che stavo piangendo.

Sollevai il capo quando bastava per vedere la luce, la poca che filtrava dallo spiraglio sotto la porta, poi cominciai a fare un riepilogo mentale delle cose presenti nella cabina armadio nel caso fossi stato costretto a starci dentro in eterno. Giunsi all’amara conclusione che avevo lasciato fuori sia la chitarra che il mio diario.

I passi ripresero e fu tutta questione di un attimo: attraversarono il salone e sentii il rumore sferragliante del cancelletto che veniva chiuso con un colpo, poi di nuovo il silenzio totale. Buttai indietro la testa, urtando il muro alle mie spalle. Inveii e mi alzai goffamente dal pavimento, deciso a tornare al piano terra per controllare se ci fosse ancora la mia chitarra. Era un’acustica che avevo pagato un sacco di soldi, e forse il ladro l’aveva capito e me l’aveva rubata.

Lasciai che le gambe mi portassero giù. Ormai andavano per conto loro, come del resto ogni altra parte del mio corpo. Le gambe, le braccia, la testa – tutto per contro proprio, senza considerare quello che comandava il mio cervello.

Una volta raggiunto il salotto, potei constatare che tutto era come l’avevo lasciato, p almeno così sembrava. C’era talmente tanta confusione che più che in una sala mi sembrava di essere in una discarica. Alzai le spalle e mi lasciai cadere sul divano, esausto e bagnato come se fossi appena tornato a casa dopo aver corso sotto il sole cocente, con la sola differenza che l’umidiccio che mi sentivo addosso erano lacrime e non sudore. Quando piangevo mi asciugavo la faccia con le dita, poi andavo a sfregarmi un braccio, i capelli o una gamba e, a lungo andare, mi ritrovavo con la pelle di tutto il corpo che tirava come quella delle guance dopo che le lacrime si sono seccato.

Stavo pensando se fosse il caso di accendere la televisione o lo stereo quando il campanello suonò, facendomi trasalire. Balzai in piedi e mi avvicinai al citofono quatto come un gatto, poi sollevai il ricevitore con estrema cautela e domandai chi fosse. Rispose una voce allegra e familiare, nonchP l’unica che avevo bisogno di sentire.

“Ciao, bro, sono Tommy!” annunciò il mio migliore amico quasi cantando. “Sono passato a trovarti. Lo so che è tardi, ma da quando siamo tornati dal tour non ho mai un cazzo da fare. Posso entrare?”

Senza nemmeno degnarmi di rispondergli, appoggiai pesantemente una mano sull’apparecchio per premere il bottone che apriva il cancelletto e colpii la porta con la punta del piede. Chissà poi perché li avevo lasciati aperti? Boh. Facevo tanti gesti assurdi dei quali non mi ricordavo mai e, sinceramente, non me ne fregava nemmeno. Avevo altro a cui pensare.

Mi appoggiai allo stipite con tutto il corpo per sorreggermi e osservai T-Bone percorrere il vialetto. Era una comica e riuscì persino a strapparmi un sorriso: camminava con le mani nelle tasche del giubbotto di pelle, faceva passi lunghissimi con le sue gambe magre, e ondeggiava da una parte all’altra come se il vento lo stesse spingendo, il tutto mentre si guardava intorno con fare curioso. Appena mi vide ghignò e accelerò il passo.

“Ehi, Sixxter, cosa ci fai lì fuori in mutande? Stai dando spettacolo?” mi domandò. Quando parlava sembrava sempre allegro come un marmocchio, mentre io volevo solo sprofondare in un buco nero e restarci. Spesso mi domandavo se a uno come Tommy facesse bene stare con una persona che sprigionava negatività da tutti i pori come me.

Alzai le spalle e mi passai una mano sul viso. “Da fuori non si vede l’ingresso principale.”

Tommy raggiunse la porta e mi fece da parte con una lieve e giocosa spallata poi entrò in casa, sempre con quella sua andatura dinoccolata e le mani pesantemente cacciate nelle tasche del chiodo.

“Che puzza, qui dentro,” borbottò tappandosi il naso con le dita. “Le apri mai le finestre?”

Lasciai che si sedesse sul divano, prestando la massima attenzione a scegliere il punto in cui era più pulito. “Oggi ho dimenticato la porta aperta, quindi dovrebbe esserci un po’ meno odore.”

Tommy fece una smorfia per farmi capire che il tanfo non era andato via.

Rimanemmo immobili nelle nostre posizioni senza parlarci per un minuto buono, durante il quale ci studiammo a vicenda come se avessimo trascorso mesi senza vederci. All’improvviso mi ricordai di ciò che era accaduto poco prima e corsi a sedermi accanto a lui, prendendolo per un polso ossuto per costringerlo ad ascoltarmi. “T-Bone, devo raccontarti una cosa.”

Lui mi passò un braccio intorno alle spalle e sospirò, forse convinto che fossi nel bel mezzo di una delle mie crisi. Era il suo modo per dirmi che potevo cominciare a parlare oltre che, chiaramente, farmi capire che a volte ero davvero assillante.

“Prima qui c’era qualcuno,” gli sussurrai nell’orecchio, ma Tommy, come previsto, alzò gli occhi al cielo e sospirò.

“È tutto frutto della tua immaginazione, Sixx, lo sai.”

“No!” esclamai, stavolta più alterato. “L’ho sentito! Avevo lasciato il cancelletto aperto ed è entrato in giardino, poi è entrato in sala, poi è uscito di nuovo.”

Tommy si limitò ad afferrarmi le braccia per controllare se avessi dei buchi freschi. Gli ultimi risalivano al giorno precedente e prudevano da morire perché si stavano già cicatrizzando, allora mi chiese se avessi bevuto o sniffato.

Mi alzai in piedi con uno scatto e gli puntai contro un dito. “Perché pensi che io sia sempre fatto?”

Tommy mi prese gentilmente per una mano e mi costrinse a sedermi di nuovo, come fanno i medici con i pazienti che sbottano all’improvviso e senza motivo. Lo avevo visto comportarsi così solo con me, il che non mi andava affatto bene dal momento che mi faceva sentire più anormale di quanto non fossi già.

“Nikki,” disse cercando di mantenere la calma, “lo sai che quando sei fatto vedi cose che non ci sono e–”

“Sì, ma questo non era un nano o uno sbirro.”

“Bene!” esclamò sarcastico, allargando le braccia e roteando gli occhi. “Abbiamo aggiunto un nuovo personaggio al cast!”

Diedi un pugno alla parete rischiando di farmi male. “Ti dico che non è così. Stavolta ho sentito anche il rumore del cancello. C’era davvero qualcuno là fuori.”

Tommy si alzò dal divano e si avvicinò a me, puntò gli occhi dei miei e sillabò ogni singola parola. “Tu. Devi. Farti. Aiutare.”

“Ma–”

“Non puoi andare avanti così. Fidati di me, se non ti volessi bene non te lo direi,” mi interruppe, stavolta alzando la voce. Odiavo sentirlo gridare e quando succedeva ci rimanevo male perché non volevo che si arrabbiasse a causa mia.

“Nessuno sa cosa sto passando, T-Bone,” volevo piangere, ma non potevo farlo davanti a lui perché non volevo che pensasse che fossi debole.

“Hai ragione, non lo sa nessuno, però là fuori, nel mondo, oltre questo fottuto castello oscuro in cui vivi, c’è qualcuno che sa come fare per tirare fuori dai casini quelli come te,” tuonò, il braccio teso e il dito che puntava fuori dalla finestra e poi oltre il muro di cinta. “Se vuoi farti aiutare, raccogli le tue cose e andiamo. Ti accompagno volentieri, anche domattina stessa.”

Sentii la rabbia bruciare nelle vene e raggiungere le mani, che chiusi a pugno. “Non mi serve l’aiuto di nessuno, okay? Non c’è una sola persona che possa capirmi e io non ne posso più di vivere così. Spero di creparci presto, in questa casa.”

“Ti rendi conto di quello che dici?” stavolta la voce di Tommy era più pacata e avrei anche potuto giurare che stava tremando. Tutto d’un tratto divenne più severa, poi arrabbiata. “Ti rendi conto che non ne vale la pena e che al mondo ci sono cose peggiori? Ogni volta che passo da casa tua spero di riuscire a strapparti un sorriso, invece no, tutte le volte spari le stesse stronzate. Mi sono stancato di questa solfa, stai facendo deprimere anche me.”

Raccolsi dal pavimento ciò che restava di una rivista e gliela lanciai contro, mancandolo. “Allora che cazzo ci fai ancora qui? Vattene! Se non vuoi ascoltarmi un po’ allora sparisci, lasciami da solo come hanno fatto tutti.”

Tommy calciò di lato il numero di Playboy risalente a tre mesi prima che avevo utilizzato per colpirlo e subito dopo girò sui tacchi in direzione della porta. “Ora capisco perché Vince e Mick non passano mai a trovarti. Io me ne torno a casa, ma comunque ricordati che quando hai bisogno di me puoi chiamarmi, anche quando pensi di disturbarmi. Buonanotte.”

Se ne andò sbattendo prima la porta poi il cancelletto esterno. Aspettai con l’orecchio appoggiato contro il vetro sporco della finestra finché non sentii il rombo della sua motocicletta scomparire in fondo al viale, poi mi lasciai scivolare per terra, strisciando il viso sulla vetrata sudicia e una mano sull’intonaco color ocra del muro. Adesso neanche T-Bone mi voleva più. Mi sentii un peso in gola e cominciai a tremare mentre un forte desiderio di spaccare tutto stava iniziando a impossessarsi di me. Utilizzai le ultime forze che avevo per arrancare fino al telefono, sollevai il ricevitore e composi un numero, l’unico che mi ricordavo a memoria e che avevo anche scritto su un foglietto appeso sopra la cornetta nel caso me lo fossi dimenticato – con tutte quelle crisi che mi prendevano, non si poteva mai sapere. Mi sedetti sul divano e mi misi l’apparecchio in grembo.

“Pronto?” rispose una voce assonnata dall’altra parte.

“Jason, sono Sixx,” biascicai mentre mi mordicchiavo le pellicine intorno alle unghie.

Jason borbottò qualcosa di incomprensibile che mi fece fumare il cervello nonostante non avessi afferrato una sola parola. “Arrivo tra un’ora, tu intanto prepara i soldi.”

“Non un’ora. Mezz’ora,” lo corressi prontamente.

“Un’ora,” insisté lui. “Ho da fare.”

“Farai dopo.”

E gli riattaccai in faccia, certo che avrebbe obbedito ai miei ordini.




N.d’A.: Salve a tutti! :) Innanzitutto ringrazio tantissimo chi ha lasciato una recensione e ha inserito la storia tra le preferite e, se ci sono, anche i lettori silenziosi!
Come potete notare, ogni capitolo ha una voce narrante diversa (saranno quasi sempre Grace e Nikki, anche se non mancherà qualche eccezione).
Spero che questo secondo capitolo sia di vostro gradimento, e se così fosse (o non fosse), mi piacerebbe sapere il vostro parere.
Il prossimo capitolo arriverà venerdì. Cercherò di essere il più puntuale possibile visto che mi è venuta la grande idea di cominciare a pubblicare una storia proprio nel momento in cui riprende la scuola. Ma non temete! Se dovesse prendervi (?), è già stata scritta tutta!
Grazie ancora!

Angie

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Capitolo 3
*** Grace ***


3) GRACE

Salutai Grant mentre svoltava in fondo alla strada a bordo della sua auto. Accanto a lui e per metà sporta dal finestrino, Elisabeth mi mandò un bacio. Non appena li vidi sparire dietro l’angolo, ripresi a camminare con la bretella della borsa che mi stava distruggendo una spalla. Dopo una pesantissima giornata di lezioni, una spalla indolenzita era l’ultima cosa di cui avevo bisogno, mentre la prima era una passeggiata per scaricare la tensione che avevo accumulato durante il monologo di un professore che sembrava divertirsi a fare terrorismo sull’esame di spagnolo. Sferrai un calcio a una lattina abbandonata sul marciapiede e la osservai rotolare dall’altra parte della strada, producendo un fastidioso rumore metallico, l’unico udibile in tutto il vicinato. Mi domandavo come avrei fatto a superare quell’esame, perché chi lo aveva già sostenuto diceva che, nonostante avessero studiato a lungo e non avessero saltato mai la lezione, il massimo a cui si poteva aspirare era il voto minimo. Presa dai miei pensieri e preoccupata per la mia sorte accademica, non mi accorsi del palo di un segnale stradale e lo centrai in pieno con la fronte come una perfetta imbranata. Incenerii il palo con un’occhiataccia, poi il mio sguardo salì fino al cartello, che riportava in lettere maiuscole VALLEY VISTA BLVD. Nella mia testa il collegamento con la Villa degli Orrori fu immediato e involontario, tanto che cominciai a guardarmi intorno finché non realizzai che si trovava un centinaio di metri più lontano. Dal momento che ero da sola, mi incamminai verso di essa con fare disinteressato, passando davanti a delle altre splendide case con prati all’inglese adornati da aiuole colorate. Il cancello della Villa era l’unico a essere stato attaccato dall’edera e il fogliame degli alberi lo toccava, creando una sorta di tunnel vegetale. Avvolsi una mano intorno a una delle sbarre di metallo ruvido e cercai di vedere oltre l’ombra del giardino, anch’essa creata dalle chiome verdeggianti. L’erba era alta e le aiuole incolte, e i fiori volgari del tarassaco erano cresciuti ovunque, persino in mezzo alle pietre quadrate del viottolo. In un angolo era ammassata una piccola catasta di legna nascosta da un telo di plastica coperto da chiazze di muschio secco, e più in là, in mezzo a quel posto trascurato, era ancora parcheggiata l’automobile sportiva che avevo visto la volta precedente. Sembrava che il proprietario l’avesse parcheggiata lì per nasconderla, come se l’avesse rubata o come se fosse coinvolto in qualcosa di losco. Eppure, anche stavolta, le luci erano spente e le finestre chiuse nonostante le temperature piacevoli.

Dal momento che la curiosità mi stava divorando e Grant ed Elisabeth non erano con me, decisi di sfidare il destino e scoprire qualcosa di più su quel posto. Mi infilai nella stradina che costeggiava l’altro lato del giardino, lasciai la borsa nascosta dietro un bidone della spazzatura e salii su di esso per scavalcare il muro. Mi ricordava quando, da piccola, provavo a salire al contrario sulle giostre del parco giochi. Adesso stavo facendo qualcosa di ancora più trasgressivo che salire su una giostra arrampicandomi per lo scivolo anziché usare la scaletta: stavo entrando in un giardino che non era il mio e questo avrebbe potuto portarmi dei grossi guai se qualcuno mi avesse vista.

Cercai di scivolare lungo la parete ruvida del muro per non fare rumore poi, una volta giù, deglutii a vuoto e avanzai lentamente lungo il viottolo finché non raggiunsi la porta, che anche quel pomeriggio era stata lasciata aperta. A quanto pareva, nessuno era più tornato. Se fosse successo, se ne sarebbero accorti e l’avrebbero chiusa.

La situazione che trovai nel salotto era la stessa di una settimana prima: la confusione regnava sovrana e la puzza non era svanita. Mi fermai al centro della sala dopo aver accostato la porta principale e osservai l’arredamento macabro: velluto rosso e nero, mobili antichi restaurati e gargoyles. Questi mi facevano davvero paura: sembravano pronti a prendere vita da un momento all’altro per saltarmi addosso e mangiarmi con i loro denti di pietra grigia. Sul pavimento, in mezzo alle tante altre cose sparse, c’erano delle copie di riviste di musica, le stesse che leggevo io. Sulla copertina di una c’era la fotografia di Steven Tyler, sulla cui faccia era stato scritto qualcosa con l’indelebile che non riuscii a decifrare. Era una calligrafia caratterizzata da lettere tonde e larghe, dalle quali partivano schizzi di inchiostro come se chi aveva scritto avesse avuto la mano che tremava, il che mi fece dedurre che appartenesse a qualcuno che andava di fretta o che era molto agitato. Un divano di pelle con una coperta bianca occupava la parte del salone adibita a soggiorno, mentre quella adibita a sala da pranzo era irriconoscibile: non c’era una sola sedia che non fosse stata sbattuta per terra, proprio come l’ultima volta. Sul divano mi sembrò persino di vedere una chitarra, ma quando feci per avvicinarmi dovetti fermarmi.

Fu allora che sentii un lamento sommesso provenire dal piano superiore. Trattenni il respiro e mi concentrai. Sembrava che qualcuno stesse piangendo, ma non riuscivo a capire se si trattasse di un adulto o di un bambino, di un uomo o una donna. Non avevo idea di cosa stesse succedendo in quella casa, ma avevo l’impressione che la persona che si stava lamentando, chiunque fosse, non avesse modo di spostarsi da dove si trovava. Memore delle tante notizie di persone scomparse che sentivo alla televisione e di cui si discuteva all’università, mi domandai se quella casa fosse il covo di qualche gang di rapitori e se la persona che sentivo piangere fosse prigioniera. Forse avrei fatto meglio a farmi gli affari miei e andarmene, ma non potevo correre dalla polizia e dire che pensavo che qualcuno avesse nascosto una persona in quella casa perché avrei dovuto giustificare il mio sospetto ammettendo di aver commesso una violazione di domicilio. In altre parole, se veramente là dentro c’era qualcuno che aveva bisogno di aiuto, quella era la sua unica occasione per riceverne, così decisi che sarei andata a controllare di persona.

Mi diressi verso le scale e cominciai a salirle in punta di piedi. Le suole di gomma delle mie Converse cigolavano a contatto con il cotto degli scalini e i lamenti erano sempre più udibili. Giunsi su un pianerottolo nelle stesse condizioni del pianoterra e mi diressi verso la porta della stanza dalla quale mi sembrava di sentir provenire la voce, constatando che si trattava una camera messa ancora peggio del resto della casa. Il letto era disfatto, le lenzuola macchiate di ogni cosa possibile, e un posacenere straripante era stato appoggiato sul comodino invaso da bottiglie, che si trovavano anche sulla scrivania e sul pavimento. C’era buio, gli scuri erano chiusi e la luce filtrava dalla porta aperta e anche da sotto la porta di quella che probabilmente era la cabina armadio ma che sembrava proprio il punto da cui proveniva il pianto. Più mi avvicinavo, più sentivo che i lamenti erano vicini. Scavalcai un cumulo di vestiti maleodoranti e ne spostai uno con la punta del piede, notando che si trattava di una T-shirt nera con su stampato un complesso disegno di teschi e scritte. Era sporca di vomito. La cacciai via col tallone e continuai ad avvicinarmi alla porticina di soppiatto. Sentivo uno strano tintinnio ritmato e il rumore di qualcuno che strisciava sul pavimento, poi dei colpi di tosse che attribuii a un adulto. A quanto pareva, almeno non era un bambino. Allungai la mano verso il pomello e, mentre lo facevo, ripassavo mentalmente da quale parte sarei dovuta andare se avessi avuto bisogno di scappare. Quando sentii il click della serratura aperta, spalancai la porta.

Quello che trovai mi spaventò. Nel buio di quella che, proprio come avevo pensato, era una cabina armadio, c’era una persona rannicchiata contro il muro e circondata da oggetti che non riuscivo a distinguere. Teneva le ginocchia raccolte contro il petto, abbracciate, e la testa china su di esse. Per un attimo pensai che avesse perso i sensi, poi lo vidi muoversi a scatti per i singhiozzi. Era vestito solo con un paio di pantaloni scuri e si confondeva nel buio, ma la pelle diafana delle braccia risaltava illuminata dalla poca luce presente. Quando sollevò il capo, gli occhi scintillarono e io ero ancora immobile sulla soglia, paralizzata dalla paura perché se da una parte quello aveva l’aria di una persona che era stata rapita e abbandonata a se stessa in un luogo ostile, non lo era di certo, altrimenti la porta della cabina armadio sarebbe stata chiusa a chiave. Chiunque fosse, l’uomo si alzò all’improvviso, probabilmente per saltarmi addosso, ma non riusciva a stare in piedi e con una mano si sorreggeva alla parete.

“Vai via!” tuonò. La voce rimbombò tra le pareti della cabina armadio.

In una frazione di secondo ero già fuori dalla camera e lui, l’uomo di cui i vicini non volevano rivelare l’identità e che sembrava proprio vivere in quel posto, mi inseguiva attaccandosi a tutto ciò che trovava per non cadere. Quando si aggrappava alle maniglie scivolava per terra perché le porte si aprivano e perdeva il sostegno, mentre altre volte cercava di appoggiarsi al corrimano.

“Cosa vuoi da me? Dovete smetterla di tormentarmi!” urlò.

Non mi voltai indietro per guardarlo nemmeno una volta, quindi non avevo idea di che aspetto avesse. Sapevo solo che era alto e aveva i capelli neri come la pece. In quel momento mi interessava solo uscire da quella villa che trasudava morte da ogni singola crepa.

Tutto d’un tratto non lo sentii più. Pensai che fosse caduto e avesse sbattuto la testa, e se così fosse stato avrei dovuto fare qualcosa, come provare a soccorrerlo o chiamare un’ambulanza, ma non mi importava più nulla di lui. Volevo uscire, e se gli fosse successo qualcosa, sarebbero stati affari suoi.

Schizzai in giardino e mi ritrovai in strada. Ero stata talmente veloce che non mi ero nemmeno resa conto di quando avevo scavalcato il muro. Raccattai la borsa dal marciapiede e ripresi a correre per poi fermarmi solo dopo aver girato l’angolo. Mi lasciai cadere su un muretto, lanciai la borsa per terra e mi passai le mani tra i capelli, ripensando a quanto fossi stata stupida a pensare che in quella casa ci potesse essere qualcuno tenuto prigioniero in attesa di un riscatto. Se le cose fossero andate in maniera leggermente diversa e quel tizio fosse scivolato qualche volta in meno, avrei potuto fare una brutta fine.

Feci scivolare le mani lungo le tempie e poi sulle orecchie, e fu allora che mi resi conto che avevo perso un orecchino. Borbottai qualche imprecazione e cominciai a cercarlo nel colletto della maglia e nei capelli senza alcun risultato. Sbuffai rumorosamente e battei un palmo per terra perché quegli orecchini li avevo fatti a mano con dei cristalli che avevo comprato da una bancarella hippie durante una festa di quartiere. Evidentemente l’avevo perso mentre correvo fuori dalla Villa, quando ero troppo concentrata a scappare per rendermi conto che uno degli orecchini dell’unico paio che mi degnavo di mettere si era sfilato dal buco.

Sbuffai, mi caricai in spalla la borsa pesante e mi incamminai verso casa, ancora tremante per la paura. Mentre procedevo giurai che non avrei mai raccontato a Grant ed Elisabeth quello che era successo quel pomeriggio perché sapevo che mi avrebbero sicuramente rimproverata, e con tutte le ragioni.




N.d’A. : Salve a tutti! :D
Come al solito Grace non demorde e si caccia nei guai... e questo è il suo peggior difetto...
Ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno commentato e aggiunto la storia alle preferite perché mi hanno fatto davvero piacere!
Spero che anche questo terzo capitolo possa essere di vostro gradimento.
Ci si rilegge mercoledì prossimo.

Angie

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Capitolo 4
*** Nikki ***


4) NIKKI

Un pomeriggio, mentre girovagavo per il salotto al buio totale e con gli effetti dell’ultima dose che cominciavano a sciamare, vidi una sagoma saltare il muro e attraversare il giardino. Convinto che si trattasse di una delle mie allucinazioni, corsi a rintanarmi nella cabina armadio e capii che era reale solo quando aprì la porta e la vidi impallidire dalla paura.

L’avevo terrorizzata a morte. Non volevo. O meglio, volevo solo difendermi da una persona che credevo fosse venuta lì per farmi fuori o per portarmi via la roba. Mi sentii in colpa per quello che avevo fatto, ma finii presto col darmi del cretino perché mi ero reso conto che mi stavo preoccupando troppo per una persona che non conoscevo nemmeno. A un primo sguardo, avrei potuto dire che si trattava una mocciosa. Era bassa e doveva avere quindici o sedici anni, la stessa età che avevano i ragazzini a cui piaceva citofonare e fare versi strani quando rispondevo. Avevo smesso di gridarle di andare via solo dopo aver colto in lei la stessa paura che aveva assalito me, e solo allora avevo smesso di correre e avevo aspettato che scavalcasse il muro prima di proseguire giù per le scale ed entrare in salotto. Passai tutta l’ora successiva a darmi del cretino per averla terrorizzata e solo in seguito mi accorsi che mentre scappava aveva perso un orecchino, che trovai sul parquet vicino alle scale. Sapevo che era suo perché io non ne possedevo di simili, e nemmeno Vanity, la tipa che veniva sempre a casa mia a incasinarmi il cervello. Siccome mi piaceva il cristallo con cui era stato fatto, lo appuntai sulla mia giacca di pelle e andai in giro per una settimana con quell’affare che pendeva da sotto una tasca del chiodo, insieme a tanti altri fronzoli.

Dopo aver raccolto quel piccolo ricordo che mi rimaneva della mocciosa impavida, andai a riguardare i filmati delle telecamere e constatai che era la stessa persona che era entrata la settimana prima. Forse cercava qualcosa, oppure era una dei tanti ragazzini che mi sfottevano e si divertivano a suonarmi il campanello e a lanciare rifiuti nel giardino.

Il giorno dopo, nonostante lo spavento che mi ero preso, l’avevo già dimenticata. Avevo visto bene la sua faccia ma non mi tornava mai in mente, come invece succedeva spesso per altri episodi a cui avevo assistito e che in qualche modo mi avevano segnato. La cosa strana è che i momenti belli che volevo che accadessero di nuovo li ricordavo perfettamente e li rivivevo solo nei sogni, però non mi capitavano più, così mi angustiavo e rimpiangevo l’innocenza della mia infanzia e i pomeriggi indimenticabili passati con Tommy a fare cazzate in giro per West Hollywood quando non avevamo un soldo e vivevamo insieme a Vince dietro al Whisky a Go-Go. I momenti brutti, invece, li dimenticavo subito, ma tornavano sempre a tormentarmi, e a volte sembravano dirmi “siamo qui, non ti libererai facilmente di noi”. Una volta provai persino a spiegare questa teoria a Tommy, ma lui rimase a guardarmi per un minuto buono, imbambolato, la testa inclinata e le labbra piegate in una smorfia strana. Non aveva capito un cazzo del mio ragionamento. Gli dissi di lasciare perdere perché nessuno capiva mai i miei pensieri e, di conseguenza, non pretendevo che lui fosse il primo a riuscirci.

Accadde la stessa cosa con quella ragazzina: credevo di averla dimenticata, di aver fatto sparire dalla mia mente sovraffollata il ricordo di lei che entrava in casa mia e di me che piangevo dalla paura, invece la rividi in pieno giorno in un negozio di dischi. Ultimamente non avevo mai voglia di uscire di casa e lo facevo solo quando dovevo lavorare o non trovavo qualcuno disposto a sbrigare le commissioni per me, ma quel pomeriggio volli uscire per respirare un po’ d’aria fresca dopo aver passato la giornata lontano dalla droga. Sarebbe stato sufficiente che restassi a casa per un quarto d’ora in più perché le nostre strade non si incrociassero.

Uscii di casa senza una meta precisa e quando vidi quel negozio di disci al lato della strada decisi di entrare solo per dare un’occhiata come se fossi stato a una mostra d’arte o in un museo. Mi è sempre piaciuto guardarli, ma adesso che avevo le tasche piene di soldi ne compravo sempre uno e non c’era più gusto nell’attesa di avere una libreria piena. Camminavo tra gli scaffali con le mani in tasca e il capo chino, temendo che qualcuno mi riconoscesse e mi saltasse addosso per chiedermi di autografargli una copia del nostro album, e sbirciavo la merce esposta con lo stesso disinteresse con cui si guardano i cespi di insalata del reparto ortofrutta del supermercato.

Fu allora che la vidi: stava rigirando tra le mani un disco che tornò a mettere al suo posto, sospirando. L’avrei riconosciuta tra mille. Il ricordo tornò vivido nella mia mente, il cuore cominciò a battermi troppo forte e sentivo le vene del collo pulsare. Non si accorse di me mentre la osservavo e studiavo ogni suo minimo particolare: aveva i capelli lisci e dorati, lunghi fino a metà schiena, e dal viso potei constatare che l’altezza mi aveva ingannato e che era ben più grande di una quindicenne. Aveva l’aspetto di una normale ragazza dei quartieri benestanti ma, tutto sommato, era anche carina. Dal lobo sinistro pendeva un orecchino identico a quello che avevo attaccato alla mia giacca e se prima avevo qualche dubbio, ora non ne avevo più: era proprio lei.

Fui tentato a dileguarmi in silenzio per evitare che mi vedesse, ma sapevo che non mi avrebbe mai riconosciuto. Mi ero fatto una doccia dopo una settimana che non toccavo l’acqua e la pelle sembrava aver cambiato colore, poi mi ero pettinato, rasato e avevo indossato dei vestiti puliti. Presi così in mano il primo disco che mi capitò e, mentre fingevo di leggere i titoli delle tracce, la studiavo attentamente. Faceva sempre gli stessi gesti: prendeva un vinile, leggeva i titoli, sospirava e lo rimetteva al suo posto. Probabilmente non poteva permetterselo e io, che sapevo quanto un amante della musica possa desiderare un disco, decisi che gliene avrei comprato uno io. L’avrei semplicemente chiamata e le avrei detto che avrei pagato per lei. Sarebbe stato il mio modo segreto per chiederle scusa per la settimana precedente e sentirmi a posto con la mia coscienza.

Mi avvicinai silenziosamente e, quando attirai la sua attenzione con un colpo di tosse, sobbalzò.

“Cosa stavi guardando?” le chiesi. I suoi grandi occhi azzurri si spalancarono appena mi videro.

“Stavo solo dando un’occhiata,” rispose, visibilmente imbarazzata.

Presi il disco che aveva in mano e lessi il titolo. “Ti piacciono i Van Halen?”

La ragazza annuì con un impercettibile cenno del capo.

Abbozzai un sorriso furbo, prevedendo la risposta alla domanda che stavo per porle. “Perché non lo compri?”

Fece spallucce. “Non ho abbastanza soldi con me.”

“Ti piacciono molto?” le domandai.

“Suono la chitarra e Eddie è il mio idolo, quindi sì, mi piacciono molto,” spiegò annuendo. Sembrava molto in imbarazzo, ma non mi importava.

Le porsi il vinile. “Te lo prendo io. Consideralo un regalo.”

“Stai scherzando?” esclamò sbalordita. “Non posso accettare. Davvero, apprezzo il tuo gesto, però domani tornerò con i soldi e me lo comprerò da sola.”

La guardai divertito. “E se volessi farti un regalo?”

“Cosa?” esclamò con gli occhi ancora strabuzzati per la sorpresa. “Mi dispiace, ma non posso accettare. Non ti conosco nemmeno.”

Le presi il disco dalle mani e mi avviai verso la cassa, lo pagai e glielo tornai a dare, il tutto mentre lei mi fissava incredula da immobile nella corsia dove l’avevo lasciata.

“Adesso è tuo,” annunciai con un sorriso soddisfatto.

La ragazza mi guardò come se avesse appena visto un 45 giri quadrato. “Be’, non dovevi… però grazie lo stesso.”

Scrollai le spalle. “Di niente.”

Non appena ebbi terminato di parlare, lei si girò dall’altra parte e si incamminò verso l’uscita con il disco stretto al petto.

“Aspetta, dove vai?” la chiamai.

La ragazza si voltò lentamente e per un attimo pensai che mi avesse riconosciuto, però sapevo che era impossibile. Del resto, casa mia era troppo buia perché fosse riuscita a vedermi in faccia e, soprattutto, non ricordavo di averla vista voltarsi mentre la rincorrevo.

“Che altro c’è adesso?” chiese sospirando.

“Sto andando a prendermi una birra. Vuoi venire con me?”

Mi guardò stranita e il suo viso fu appena illuminato da un sorriso. Mi fece cenno di raggiungerla sulla soglia e io obbedii, dandomi mentalmente dell’idiota per aver pensato per una frazione di secondo che provarci con lei sarebbe stata una buona idea. Mi sarebbe bastato farle credere che fossi interessato poi, non appena ci fossimo separati, non mi sarei più fatto vivo e avrei avuto la coscienza a posto.

Le dissi che conoscevo un posto dove avremmo potuto bere, ma in realtà ne scelsi uno in cui non ero mai entrato. Non avrei mai scelto di portarla in un locale che ero solito frequentare, rischiando di trovare qualche giornalista appostato e pronto a scattarmi una foto in compagnia di quella sconosciuta.

Lei annuì e, sempre avvinghiata al suo vinile dei Van Halen, mi seguì senza staccarmi gli occhi da addosso come se fossi stato un raro esemplare di qualche specie in via d’estinzione.

“Perché mi guardi così?” le domandai, stavolta fingendo tono più amichevole.

Scosse il capo con un movimento lieve. “Scusa, non volevo infastidirti. Mi stavo solo chiedendo se ci fossimo già visti da qualche parte.”

Ci fermammo in un bar in una laterale del viale e prendemmo posto al tavolo più defilato di tutti, in mezzo a un paio di vasi di cemento con dentro delle piante abbastanza grandi da nasconderci.

“Cosa prendi?” le domandai una volta che la cameriera ci ebbe raggiunti.

“Per me un tè freddo alla pesca,” rispose con una compostezza quasi impressionante.

“Tè alla pesca? Hai dei gusti strani, tu,” ripetei divertito, poi mi rivolsi alla cameriera. “Per me una pinta di Guinness.”

La cameriera prese l’ordine e sparì dietro il bancone senza fiatare. Forse lei mi aveva riconosciuto e chissà cosa aveva pensato quando mi ha visto in compagnia. Quando tornò notai che le tremavano le mani mentre appoggiava i bicchieri sul tavolo, poi se ne andò con un sorriso imbambolato. Intanto la ragazza continuava a guardare ovunque tranne che nella mia direzione, forse già pentita di avermi seguito.

Spero di non aver fatto una cazzata, pensai mentre mi avvicinavo il boccale alle labbra, continuando a osservare i suoi lineamenti delicati.




N.d’A.: Ave, gente! =)
Eheh, qui cominciano i “guai”... spero che questo capitolo (un po’ corto) sia stato di vostro gradimento.
Il prossimo arriverà mercoledì prossimo. Devo allungare i tempi tra un capitolo e l’altro a causa degli impegni, tuttavia cercherò di essere puntuale.
Grazie di cuore a tutti coloro che recensiscono e ai lettori silenziosi!
Angie

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Capitolo 5
*** Grace ***


5) GRACE

Quel tipo era parecchio strano. Comprandomi il disco e offrendomi da bere mi aveva messa fin troppo in imbarazzo, e io quando mi vergogno divento rossa, innescando un circolo vizioso di rossore perché più arrossisco, più mi vergogno, causando altro rossore. Se poi si tiene conto che quel ragazzo non era niente male, allora si può capire facilmente che la situazione era critica. Aveva anche qualcosa di familiare, ma dal momento che allora mezza America portava i capelli lunghi e la giacca di pelle, soprattutto nella zona di Los Angeles, non riuscivo a capire dove l’avessi già visto. Col cervello che andava a mille nell’attesa di un colpo di genio, bevvi il mio tè in un attimo sperando che quel pomeriggio finisse in fretta, ma il tipo continuava a sorseggiare lentamente la sua birra e mi studiava con lo sguardo magnetico.

“Lo sai che sei carina? Come ti chiami?” mi chiese appoggiando il mento sulle mani chiuse a pugno.

Non mi piaceva ricevere complimenti del genere da ragazzi con cui non avevo mai scambiato più di due parole, e questo contribuì a rendere la situazione ancora più imbarazzante.

“Grace,” risposi.

“‘Grace’ e poi?” insisté il tizio.

Un’altra cosa che non apprezzavo particolarmente era dare informazioni più specifiche del mio nome a quelli che ci provavano con me, ma la stupidità del tempo mi portò a farlo lo stesso. “Grace Murray.”

ll ragazzo sogghignò. “‘Murray’ come il personaggio di Dracula?”

Inarcai un sopracciglio, divertita. “Da uno come te mi aspettavo un’osservazione del tipo ‘Murray, come il chitarrista degli Iron Maiden?’.”

Il tipo alzò gli occhi al cielo e sorrise. “Hai ragione, ma mi è venuto in mente prima Dracula. Non ho pensato che a una che suona la chitarra avrebbe potuto far piacere l’altra osservazione.”

“Tu, invece, come ti chiami?” mi sentivo come i bambini del parco che vogliono fare amicizia, con la sola differenza che in quel momento non mi interessava affatto diventare amica di quel tizio in giacca di pelle.

“Nikki,” scandì, poi il suo sguardo si fece più intenso da dietro la frangia corvina e decise di lanciare la bomba H. “ Nikki Sixx.”

Ci mancò poco che mi strozzassi con l’ultimo sorso di tè. Conoscevo quel nome e conoscevo la sua band, ma non essendo una loro fan accanita come certi miei coetanei, non l’avevo riconosciuto subito. Come ho già detto, del resto, le band di Hollywood si somigliavano tutte, e i giovani rocker pure perché non facevano altro che emularle.

“Oh, merda, quel Nikki Sixx? Dio, non ti avevo riconosciuto. Non sapevo che abitassi a Van Nuys,” esclamai, imbarazzata per essere caduta dal pero in quel modo.

Nikki Sixx, però, non sembrava minimamente scosso dal fatto che non lo avessi riconosciuto, come forse si aspettava. Tuttavia, si affrettò a correggere una cosa sbagliata che avevo detto. “Infatti vivo a Hollywood. Sono venuto qui solo per fare un giro.”

Mi sembrava irrequieto e, non riuscendo a capirne il perché, provai a parlare ancora un po’, buttandomi su un argomento diverso. Gli raccontai che suonavo la chitarra elettrica da poco più di un paio di anni e scoprii che anche lui sapeva suonarla, ma ovviamente preferiva il basso, che a me non è mai piaciuto più di tanto.

“Cosa stavi cercando nel negozio di dischi?” domandai curiosa.

Nikki appoggiò i gomiti sul tavolo di granito e diede una scossa al capo per spostarsi i capelli dalla fronte. Solo allora potei vedere meglio i suoi splendidi occhi verdi, che però erano contornati da occhiaie profonde ed evidenti che ne riducevano la luminosità.

“Niente in particolare. Mi piace girare per le corsie e guardare i dischi,” confessò. A quanto pareva, era più umano di quanto credessi.

“Anche a me. Immagino di averli tutti nella mia stanza, ma alla fine non ne compro mai. È bello vederli tutti messi in ordine alfabetico e pensare che un giorno molti li avrò anch’io.”

Nikki accennò un sorriso sghembo. Non l’avevo ancora visto fare un sorriso largo e aspettavo che me lo facesse – dopotutto, pensavo che il motivo per cui mi aveva invitata fosse un vago interesse nei miei confronti – invece non arrivò mai.

Passammo un po’ di tempo senza dirci nulla, io a girare la cannuccia nel bicchiere pieno di cubetti di ghiaccio e lui a tormentare un tappo con la punta di una chiave. Il silenzio stava diventando fastidioso quando Nikki mi chiese se volessi tornare a casa. Si offrì persino di darmi un passaggio, ma sapevo che mia madre non sarebbe stata contenta di vedermi tornare a casa con uno sconosciuto, soprattutto se questo indossava una giacca di pelle e aveva i capelli lunghi. Se poi avesse scoperto che era famoso, allora gli avrebbe tirato il collo con le sue stesse mani. Nikki mi distrasse dai miei pensieri facendo schizzare il tappo oltre il bordo del tavolo, poi si alzò dalla sedia per accompagnarmi all’uscita del locale. Mentre si stiracchiava ebbi modo di dare un’occhiata a tutte le spille che aveva appuntate sulla giacca di pelle. Tra esse notai che c’era un ciondolo uguale a quello che avevo utilizzato per costruire i miei orecchini, allora mi sporsi in avanti per studiarlo meglio e capii che si trattava proprio del mio cristallo, lo stesso che avevo perso mentre scappavo dalla Villa.

“Dove hai trovato quella spilla?” domandai bruscamente a Nikki, che sobbalzò appena sentì le mie parole. Senza che specificassi di quale spilla stessi parlando, portò automaticamente la mano sul cristallo e lo indicò con il dito tremante, come a chiedermi conferma se stessi parlando di esso.

“Sì, proprio quello,” confermai, poi mi scostai i capelli da sopra l’orecchio per mostrargli l’altro.

Nikki abbozzò un sorriso. “L’ho comprato qui a Van Nuys tanto tempo fa.”

“Non è possibile. Ce ne sono solo due in circolazione perché li ho fatti io. Uno ce l’ho indosso e l’altro ce l’hai tu.”

Diventò più pallido di quanto non fosse già, confermando quanto sospettavo: Nikki Sixx e la Villa erano collegati.

“Sembra proprio che ne abbiano fatti degli altri,” si giustificò, ma era chiaro che si stesse arrampicando sugli specchi. Lo guardai di sbieco e, non sapendo più cosa dire, cominciò ad allontanarsi camminando lentamente all’indietro senza sapere dove andare, come una lepre accerchiata dai segugi. Mi guardava con gli occhi spalancati e terrorizzati come se lo stessi minacciando con un’arma, poi interruppe il nostro contatto visivo facendo un lieve cenno del mento in direzione del tavolo. “I soldi del conto li ho lasciati lì. Addio, Grace.”

“Aspetta!” lo chiamai. “Cosa vuoi da me?”

“Cosa vuoi tu, semmai!” ribatté Nikki, ora piuttosto alterato. “Sei tu che sei entrata in casa mia, costringendomi a cacciarti. Per la miseria, credevo fossi un ladro! Dovresti essere tu a darmi delle spiegazioni, ma non mi interessano. L’unica cosa che voglio è che tu sparisca. Prendi il tuo disco e vattene. Grazie per il pomeriggio, ma adesso è finito. A mai più.”

Lo seguii di corsa fino al parcheggio del negozio in cui ci eravamo incontrati e riuscii a stargli dietro finché non balzò in macchina, la stessa Corvette nera e lucida che avevo visto parcheggiata nel giardino della Villa. Mise in moto e sparì con un rombo e con il mio orecchino ancora attaccato alla giacca.

Non riuscivo a capire perché mi avesse regalato quel disco dopo che ero entrata in casa sua di nascosto, allora iniziai a pensare che lo avesse fatto per rimorchiarmi. Lui, però, aveva già capito chi ero, e questo mi fece rimangiare l’osservazione. In ogni modo, non ci tenevo ad avere a che fare con lui, almeno per ora.

Tornai a casa nascondendo il disco dietro la schiena e corsi a chiudermi in camera, l’unico posto in cui nessuno avrebbe osato disturbarmi. Nel giro di poco sarebbe arrivata Elisabeth e sentivo un fortissimo bisogno di raccontare a qualcuno di quell’esperienza assurda, ma sapevo anche che avrei fatto meglio a tenere la bocca chiusa dato che lei lo avrebbe sicuramente riferito a Grant, che non l’avrebbe presa bene.

La cosa che non capivo era perché Nikki si fosse comportato in quel modo. Quando mi aveva vista a casa sua mi aveva quasi mangiata viva, mentre quel pomeriggio mi aveva persino offerto da bere. Per non parlare della casa in cui viveva! C’era qualcosa di strano che non riuscivo a capire, qualcosa che non andava. Se pensavo a Nikki come il tizio che mi aveva urlato dietro nella Villa mi veniva voglia di mandarlo a quel paese e lasciarlo perdere, ma se pensavo a lui come quello che mi aveva regalato un disco senza sapere chi fossi poi mi aveva invitata a bere, allora credevo che la cosa migliore da fare fosse cercare di capirlo. Mi sedetti sul letto a gambe incrociate e abbracciai il vinile. Non appena avessi avuto tempo, sarei tornata alla Villa e stavolta avrei suonato il campanello come fanno le persone civili.

Il suono di quello di casa mia, però, mi distolse dai miei pensieri e saltai a sedere quando riconobbi la voce trillante di Elisabeth nell’ingresso. Ascoltai i suoi passi allegri lungo il corridoio finché non si fermarono davanti alla porta della mia camera, alla quale bussò.

Chiusi gli occhi e sospirai per calmarmi. “Entra pure, Beth.”

“Ehi, Grace, devo raccontarti una cosa interessantissima che ho scoperto oggi!” esordì gesticolando in maniera così veloce che a momenti mi si incorniciavano gli occhi mentre cercavano di seguire le sue mani. Smise di agitarsi all’improvviso e puntò un dito contro il disco dei Van Halen che tenevo stretto tra le braccia.

“È nuovo?”

Feci spallucce. “No, ce l’ho da un po’.”

“Perché non me l’hai mai detto? Lo sai che è il mio preferito.”

Trasalii e cercai di inventarmi la scusa più credibile, ma io non sono mai stata brava a inventarne né tantomeno a raccontarle.

“Beth, dopo che mi avrai raccontato la cosa interessantissima che hai scoperto oggi, anche io vorrei dirti qualcosa, se non ti dispiace,” borbottai con la voce impastata.

Lei mi porse una mano. “Allora alzati, non ho intenzione di passare la serata in casa tua. Andiamo fuori, là potremo parlare in pace senza fratellini e genitori che sentano.”

Presi la sua mano ma non mi mossi dal letto. “Però mi prometti che non lo dirai a nessuno?”

Beth alzò gli occhi al cielo e si portò una mano all’altezza del cuore con fare teatrale. “Lo prometto.”

Aggrottai la fronte.“Neanche a Grant?”

Stavolta Beth sobbalzò. “Mi stai nascondendo qualcosa? Che accidenti hai combinato stavolta?”

“Te lo dirò non appena saremo lontane da qui,” sussurrai, poi la presi per mano e la condussi fuori da casa mia.




N.d’A.: Buonasera a tutti! =)
Questa non ci voleva, eh? Ma non demordete, Grace non è un tipo che si lascia abbattere facilmente dalle circostanze!
Grazie a tutti voi, come sempre. Spero che il capitolo vi sia piaciuto. =D
See ya next Wednesday!
Un abbraccio,

Angie

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Capitolo 6
*** Nikki ***


6) NIKKI

“Così non va!” sbraitò Vince con quel suo fastidioso modo di fare da diva spocchiosa, sbattendo ripetutamente sul tavolo il palmo della mano avvolta in un paio di guanti di pelle nera. “Dobbiamo farci venire delle idee per questo maledetto album, o è la volta buona che ci fanno chiudere baracca.”

Tommy stava guardando dentro una bottiglia di Jack alla disperata ricerca di qualche residuo. “Tu ne hai qualcuna, Barbie?”

Vince spalancò gli occhi di fronte a quel soprannome e Doc, il nostro manager, si passò una mano sulla faccia con fare sconsolato.

“Ripetilo un’altra volta se ne hai le palle,” sibilò Vince avanzando a passi lenti verso Tommy, che continuava a tenere un occhio puntato dentro la bottiglia. T-Bone non gli rispose e si limitò a strizzare di più l’occhio a contatto con il vetro per mettere meglio a fuoco il fondo. Vince scosse il capo e tornò a sedersi al suo posto mentre tutt’intorno taceva, fatta eccezione per la penna che Doc stava battendo a tempo sul tavolino nell’attesa che la situazione si calmasse.

“E così anche oggi avete zero proposte per il nuovo album?” domandò poi guardando dritto verso di me come se fossi stato l’unico da cui dipendeva la situazione.

“Sotto zero,” confermai scrollando le spalle.

Mick Mars, di fianco a me, sembrava completamente su un altro pianeta. Era caduto in catalessi nascosto dietro le lenti scure degli occhiali da sole, il capo gli pendeva di lato e teneva le mani intrecciate abbandonate sul grembo. Per un attimo pensai che stesse dormendo e, irritato dal fatto che avrebbe veramente potuto esserlo, gli rifilai una gomitata e si ricompose all’istante.

Doc gli schioccò le dita davanti agli occhi. “Tutto bene, Mick?”

“Eh? Sì, be’... ho avuto una nottata insonne,” si giustificò Mick sollevando gli occhiali sul capo. Le occhiaie violacee che avevano celato fino a quel momento erano la prova che non solo non aveva dormito, ma aveva anche passato ore a piangere e ubriacarsi, come faceva spesso.

Doc raccolse alcuni fogli sparsi sul tavolo e sul pavimento, li ripose ordinatamente in una cartellina e si soffermò a osservare la scena: Mick, stanco morto, condivideva il divano con me, che avevo preso la maggior parte dello spazio. Tommy continuava a guardare dentro la bottiglia con aria preoccupata come se fosse stata l’ultima disponibile sul mercato, e Vince si contemplava l’estremità di una ciocca di capelli, strappando via le doppie punte con fare maniacale. Secondo me a volte gli prendeva lo sconforto, al povero Doc, e gli veniva voglia di piantarci tutti e quattro, poi però si ricordava che eravamo il mezzo più potente per riempirgli le tasche di quattrini e si rimangiava tutto.

“Forza, ragazzi, tornate a casa e cercate di riprendervi. Dopodomani vi rivoglio qui alle sette del mattino.”

“Alle sette?” saltò su Vince con ancora la ciocca tra le dita.

Doc annuì. “Tenendo conto delle vostre consuete due ore di ritardo, per le nove dovreste essere arrivati, e allora avremo cominciato in tempo. E poi, non credo che sarà un disastro se per una volta andrai a letto prima anziché perderti a fare bagordi in giro.”

Detto questo sparì, lasciandoci soli nello studio di registrazione, ognuno di noi intento a portare avanti la propria attività. Era una scena triste persino per me, che ero quello che faceva più pena di tutti, così mi alzai a fatica, diedi un colpetto sulla spalla di Tommy e gli feci cenno di seguirmi. Sfrecciammo a bordo della sua auto fino a un piccolo locale sul Sunset, dove ci fermammo per una birra in santa pace e, soprattutto, senza gli altri che commentavano e giudicavano.

Bro, devo raccontarti una cosa,” mormorai non appena ci fummo seduti a uno dei tavolini nella veranda sul retro.

Tommy si mise comodo e appoggiò i gomiti sui braccioli della sedia di ferro battuto. “Spara.”

“Hai presente la ragazza che era entrata in casa mia, quella di cui ti ho parlato l’altra volta?” azzardai.

Tommy roteò gli occhi. “Credevo che dopo un’altra settimana avessi smesso con questa fissazione del cazzo, Sixx, ma a quanto pare non è così.”

“Ieri l’ho incontrata in un negozio di dischi a Van Nuys.”

T-Bone trasalì. “E cos’è successo?”

Trascinai la sedia di fianco a lui per essere sicuro che nessuno potesse sentirci. “Stava guardando un disco e mi ha detto che non poteva permetterselo, allora gliel’ho comprato io, poi siamo andati in un bar e le ho offerto da bere. Mentre ce ne stavamo andando, ha visto che avevo con me un ciondolo uguale a quello che aveva perso mentre scappava dalla mia casa, e così ha capito chi sono.”

“Aspetta, bello, frena,” mi interruppe Tommy. “Stai cercando di dirmi che la tipa ha scoperto che Nikki Sixx dei Mötley Crüe caccia la gente da casa sua spaventandola a morte?”

“No! Cioè, sì, però fammi finire prima di preoccuparti per queste stronzate,” sbottai attirando l’attenzione di qualche altro cliente, ma me ne fregai e ripresi a parlare a bassa voce. “Si è spaventata ed è scappata.”

Tommy si passò nervosamente una mano tra i capelli. “E ci credo! Dopo quello che le hai fatto, non poteva certo riconoscerti e saltarti al collo per ringraziarti per averle fatto perdere dieci anni di vita.”

“Mi sono sentito un mostro,” confessai torcendomi le dita.

Tommy appoggiò gentilmente la sua mano sul mio avambraccio e lo strinse per trasmettermi il suo calore. “Amico, tu non sei un mostro. Se però la smettessi con tutta quella droga sarebbe meglio, perché a volte diventi proprio strano.”

Smetterla con la droga, ripetei nella mia mente. Certo, per Tommy era facile: si sballava sempre a forza di Jack e cocaina, ma non si era ridotto come me. Su di me la droga aveva un effetto disastroso che non aveva su di lui, e questo era un pensiero che mi assillava. Mi serviva più dell’ossigeno, ma mi stava uccidendo, e sapevo che se avessi smesso sarei morto comunque perché pensavo che non sarei stato in grado di sopportare le conseguenze della sobrietà.

Mi alzai dal tavolo senza finire la mia birra e lasciai i soldi sotto bottiglia mezza vuota. “Avanti, T-Bone, riportami a casa.”

Tommy sospirò e obbedì senza fare storie. Ripartimmo diretti verso casa mia e, quando scesi dalla macchina, lo invitai a entrare per passare il pomeriggio con me. Di solito ci stravaccavano sul divano a guardare MTV con qualche drink, fumavamo come ciminiere e sparavamo idiozie a mitraglia. In sé non era un passatempo divertente, ma a noi bastava essere insieme per far diventare spassoso anche il pomeriggio più afoso. Purtroppo, però, ultimamente Tommy rifiutava spesso i miei inviti o cercava di convincermi ad andare fuori, forse perché non ne poteva più dello stile di vita che gli proponevo.

“Mi piacerebbe restare, ma ho una commissione urgente da sbrigare,” rispose dispiaciuto, confermando i miei sospetti.

Feci spallucce e accennai un sorriso sforzato. “Non importa, sarà per la prossima volta.”

Tommy sorrise e mi salutò mentre alzava il finestrino. “Adesso devo scappare. Tu però fai il bravo.”

Ricambiai il saluto senza rispondere ed entrai in casa non appena ripartì. Oltrepassai la soglia controvoglia e mi sembrò di essere piombato in un universo parallelo. Chiusi gli occhi: Tommy non c’era ed ero solo. Gli avevo chiesto se voleva entrare così non avrei passato il resto della giornata a disperarmi, quindi nella mia richiesta c’era un messaggio d’aiuto nascosto, ma lui non l’aveva colto. O, più semplicemente, l’aveva capito ma non se la sentiva di starmi vicino. Quando ero solo in quella casa grande e vuota e c’era silenzio, tutto tornava a galla: la mia vita passata, i miei errori, la nostalgia delle poche cose belle che non avrei mai vissuto di nuovo... e tutti quei pensieri mi incasinavano il cervello. Quando invece avevo gente in giro, che si trattasse di Tommy sul divano o di più invitati, tutto sembrava un po’ più sopportabile.

Mi accasciai sul divano come se mi avessero improvvisamente privato delle ossa e aspettai di riacquistare abbastanza forze prima di salire al piano di sopra. Là c’era il mio armamentario e tutto ciò di cui avevo bisogno per placare il dolore. La busta con la polvere bianca che mi avrebbe salvato era già pronta sul comodino e ormai i gesti per disporre la pista su un piano mi venivano spontanei. Pochi minuti dopo ero già perso nel mio paradiso artificiale e non sentivo più nessun dolore né il peso dei pensieri, ma gli effetti collaterali non tardarono ad arrivare, portando con loro i nani messicani. Li sentivo ridere ovunque: le loro voci provenivano da dentro il muro, dal tetto, e sapevo che erano sugli alberi del giardino. Le fronde toccavano quasi i vetri, e se avessero voluto entrare ci sarebbero riusciti perché un balzo sarebbe stato loro sufficiente per raggiungere il davanzale.

“Andate via, stronzi!” gridai. La mia stessa voce che rimbombò tra le pareti non fece altro che peggiorare la situazione. Avevo bisogno di silenzio e non volevo nessuno intorno a casa, soprattutto strani esseri chiassosi che volevano uccidermi.

Mi avvolsi nel lenzuolo, che era così sporco che a contatto con la pelle mi sembrava umido e freddo, nascosi la testa sotto il cuscino e lo premetti sulle orecchie senza riuscire a far sparire quelle voci. Mi girai e mi rigirai nel letto finché il lenzuolo puzzolente non mi impedì più nessun movimento, allora mi alzai a sedere con uno scatto e con la testa che girava all’impazzata. Mi veniva da vomitare e lo feci, centrando in pieno il tappeto persiano ai piedi del letto, poi annaspai fino alla cabina armadio cercando di evitare la pozza che avevo lasciato per terra. Una volta dentro chiusi la porta a chiave, dimenticandomi di accendere la luce. Da seduto non riuscivo ad arrivare all’interruttore ed ero troppo debole per alzarmi, quindi restai al buio ripetendo ininterrottamente dei sommessi “andate via” come se fossero stati una formula magica. Passai una buona mezz’ora dentro quello stanzino in attesa che l’incubo finisse, poi mi addormentai, esausto, con la testa appoggiata alla parete e una gamba contro la porta, come l’avevo messa prima per impedire ai nani di aprirla.

Un po’ di tempo dopo, che per quel che mi riguardava poteva essere un’ora così come un giorno intero, fui svegliato dal suono del campanello. Quando lo sentii sobbalzai e il cuore cominciò a battermi all’impazzata, poi mi resi conto che c’era qualcuno fuori dalla porta che mi stava cercando e che sarebbe stato meglio rispondere, o almeno provare a farlo. Pensai che fosse Tommy che aveva terminato le sue commissioni ed era venuto a trovarmi, e se così fosse stato ne sarei stato davvero felice perché quando c’era lui stavo molto meglio.




N. d’A.: Salve a tutti!
Finalmente ha fatto capolino anche il resto dei Crüe! Si sono fatti un po’ attendere e finalmente sono arrivati tutti e quattro, e ovviamente saranno tutti fondamentali nel corso della storia.
Spero che questo capitolo vi piaccia.
Grazie a tutti e un abbraccio,

Angie

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Capitolo 7
*** Grace ***


7) GRACE

Avevo raccontato a Elisabeth di quello che mi era accaduto e lei, proprio come mi aspettavo, mi aveva dato dell’incosciente, quindi non dissi nulla in mia difesa perché sapevo che aveva ragione. Mi aveva giurato che non ne avrebbe parlato con nessuno, a patto che non tornassi mai più in quella che ora sapevamo entrambe essere la casa di Nikki Sixx, e le avevo dato la mia parola, consapevole del fatto che non l’avrei mantenuta. Non appena ero tornata a casa e mi ero ritrovata da sola con il disco nuovo, infatti, avevo cominciato a pormi delle domande. Secondo le voci che circolavano nel vicinato, la persona che abitava nella Villa era una specie di demone ma, per quanto un’accusa del genere potesse essere assurda, sicuramente uno che vive in quelle condizioni nasconde qualcosa di sospetto. Siccome ho sempre creduto che per capire bene le persone bisogna sapersi mettere nei loro panni, provai a fare lo stesso con Nikki, giungendo alla conclusione che, se la sera in cui gli ero piombata in casa fossi stata al suo posto, avrei reagito allo stesso modo. Non potevo aspettarmi che mi accogliesse e mi offrisse una birra dopo che mi ero intrufolata in casa sua, pensando che qualcuno ci avesse nascosto dentro una persona rapita. Pensai che anche Nikki si fosse reso conto di aver spaventato qualcuno e che aveva provato a farsi perdonare regalandomi il disco, il che significava che non aveva affatto cercato di provarci con me come avevo creduto, ma voleva solo sentirsi a posto con la sua coscienza. Tuttavia, in tutto questo c’era una cosa alla quale non riuscivo a trovare una spiegazione, e si trattava della confusione che regnava in casa sua. Era assurdo, soprattutto se viveva là in pianta stabile, perché nessuno avrebbe potuto sopportare di vivere in quelle condizioni. Dato che volevo arrivare in fondo alla questione, ritenni opportuno passare a trovare il famigerato Nikki Sixx con la scusa che doveva ancora restituirmi il mio orecchino. Forse, se avessi suonato e avessi detto che ero io, le cose sarebbero andate meglio, così un sabato pomeriggio in cui non avevo niente da fare uscii di casa con la scusa che avevo voglia di fare una passeggiata per i fatti miei. Mentre camminavo per strada, mi guardavo costantemente intorno per paura che Elisabeth e Grant potessero passare e scoprire quello che stavo per fare, e intanto mi maledicevo per non aver mantenuto fede alla promessa che avevo fatto a Beth.

Mi fermai davanti al cancello nero e presi fiato, ma quando suonai nessuno rispose. Aspettai un po’ e provai per la seconda volta, che si rivelò quella buona: dal citofono provenne infatti un sibilo fastidioso seguito da una voce bassa e stanca.

“Chi è?” biascicò la voce. Sembrava che si fosse appena svegliato.

“Grace Murray,” mi annunciai cercando di mantenere un tono neutro.

Ci fu un attimo di silenzio durante il quale pensai che Nikki mi avrebbe riattaccato in faccia mandandomi a farmi fottere, ma alla fine rispose con un sospiro seccato e mi invitò a entrare. Mi chiusi il cancelletto alle spalle e, quando passai davanti alla sua auto parcheggiata, mi specchiai contro i vetri perfetti, poi mi fermai davanti alla porta principale ancora sbarrata. Avrei potuto bussare di nuovo o controllare che non fosse aperta, ma aspettai finché non sentii dei passi e non vidi aprirsi uno spiraglio.

“Ciao. Perché sei qui?” domandò Nikki tutto d’un fiato e senza mostrarsi.

“Volevo riavere il mio orecchino, poi volevo ringraziarti per il disco e chiederti scusa. Mi dispiace essere entrata in casa tua in quel modo. La gente dice un sacco di cose su questo posto e noi, pensando che non ci fosse nessuno, abbiamo deciso di divertirci un po’.”

Chinai il capo e, quando lo rialzai, vidi che Nikki aveva aperto la porta del tutto. Se ne stava immobile sulla soglia a guardarmi, con addosso una maglietta stropicciata e i capelli che puntavano in ogni direzione come se qualcuno lo avesse buttato giù dal letto contro la sua volontà.

“Stavi dormendo?” gli domandai.

“Sì, e credo anche di aver dormito per un bel po’. Meno male mi hai svegliato, o avrei continuato a dormire,” rispose atono, poi si affrettò a cambiare argomento. “Se vuoi puoi entrare. Non che casa mia sia un posto accogliente, però almeno lì dentro è sicuro dalle orecchie lunghe dei vicini.”

“Lo so che non lo è. Però sì, entro volentieri.”

Nikki si fece da parte per lasciarmi passare e misi finalmente piede in casa sua senza sentirmi una ladra o una stupida. Il disordine era peggiorato dall’ultima volta, ma lui sembrava non farci nemmeno caso. Mi lasciò fare un giro di perlustrazione del salotto ed ebbi modo di notare che la rivista con il faccione di Steven Tyler era ancora per terra. La raccolsi e, mentre la sfogliavo, sentii dell’umido sulle punte delle dita. Dall’odore riconobbi che si trattava di whisky. Nikki mi invitò ad accomodarmi sul divano e io, in un momento in cui era distratto, spostai la coperta macchiata che c’era sopra e mi sedetti direttamente sulla pelle nera, certamente più pulita.

“Di’ un po’, Grace, cosa ti ha portato fin qui quella volta?” mi chiese Nikki con tono autoritario. La sua voce risuonò cupa nel salotto decorato come la stanza di un castello gotico.

Mi strinsi nelle spalle. “Una cazzata. Te l’ho detto cosa si dice in giro, no?”

“Cristo santo, la gente viene denunciata per violazione di domicilio per cose del genere,” esclamò lui.

Sbuffai. “Lo so, ma ero con dei miei amici e avevamo bevuto un po’.”

Nikki roteò gli occhi e alzò le mani in segno di resa, piuttosto seccato. “E va bene, ci siamo passati tutti. Scuse accettate. Tu però hai accettato le mie? Nemmeno io volevo spaventarti, ma come potevo sapere che non si trattava di un ladro o un malintenzionato? Non hai idea di cosa farebbe certa gente pur di intrufolarsi in casa mia e rubarmi oggetti personali solo perché appartengono alla loro rockstar preferita.”

“Il disco è stato più che sufficiente,” mormorai.

A quelle parole giurai di avergli visto gli occhi brillare. “A proposito, hai detto che ti piace la musica, vero?”

Annuii impercettibilmente e dissi che sapevo suonare a malapena la chitarra, ma se avessi avuto più tempo avrei potuto imparare meglio. Nikki si alzò goffamente dal divano e prese una chitarra acustica dal pavimento dietro di lui. Era incredibile come si potessero tirare fuori oggetti di qualsiasi tipo da ogni cantone di quella villa.

“Che musica ti piace?” mi chiese mentre strimpellava una melodia improvvisata.

“I miei preferiti sono i Van Halen, gli Aerosmith e i Judas Priest.”

Sollevò il capo e mi puntò addosso gli occhi chiari. “Che ne dici dei Sex Pistols?”

Alzai le spalle. “Preferisco i Clash.”

“Ti piacerebbe avere un gruppo?” continuò mentre girava una chiavetta per accordare una delle corde.

“Mi stai facendo il terzo grado. Quand’è il mio turno per fare domande?” ribattei.

Nikki si lasciò sfuggire un sorriso e zittì le corde dell’acustica con il palmo della mano pallida. “D’accordo, spara.”

“Tu e la tua band state veramente lavorando su un nuovo album?”

Sogghignò. “Sì, ma non posso dirti molto perché per ora è ancora riservato. Piuttosto, che ne pensi dei nostri altri dischi? Immagino tu conosca qualcosa, no?”

Pensai a Grant e alla fila di cassette che aveva sulla cassettiera di camera sua. “Un mio amico è un vostro fan accanito. Conosco le canzoni principali perché le ascolto con lui, ma non possiedo nessun disco, anche se mi piacerebbe scoprire qualcosa di più. Perché non mi suggerisci qualcosa tu?”

Nikki annuì e si alzò per prendere un disco dalla sua libreria. “Questo è Shout at the Devil, il nostro secondo album. Portalo a casa e ascoltalo, e non preoccuparti di restituirmelo. Di questi posso averne quanti me ne pare.”

“Ma così mi regali un altro disco,” gli feci notare mentre passavo la mano sulla copertina nera con le scritte rosse e un enorme pentacolo lucido stampato al centro. Quello sì che era da nascondere dalla vista di tutti per non sentire ramanzine, non il disco dei Van Halen.

“Appunto, dovresti esserne felice,” rispose. Se il suo tono voleva essere ironico aveva fallito perché era risuonato decisamente falso e arrogante.

Annuii e appoggiai il disco accanto alla mia borsa per ricordarmi di portarlo con me quando fossi uscita, poi indicai il mobile da cui l’aveva estratto. “Hai anche gli Aerosmith là in mezzo?”

Nikki si grattò la nuca. “Un sacco di roba, in effetti, ma adesso ho un’altra idea. Mi hai detto che sai suonare e voglio sentirti.”

Appena mi mise in braccio la sua chitarra acustica, desiderai essere inghiottita da un tubo invisibile e portata lontano da quel salotto. I pochi pezzi che sapevo suonare erano sull’elettrica e con l’acustica ero fuori allenamento da molti anni. Tuttavia, finii per cedere e optai per una delle prime canzoni che avevo imparato, sentendomi una perfetta idiota a suonare di fronte a uno che aveva un gruppo famoso e che era senza dubbio molto più capace di me. Nikki però se ne stava immobile davanti a me, dondolando appena il capo per seguire la melodia e battendo a tempo la punta del piede, e non canticchiò né disse niente finché non ebbi terminato. Quando mi fermai, mi sentivo il collo sudato come se avessi suonato per ore sotto i riflettori di un palco e lui si alzò.

“Per essere una che suona poco te la cavi, però c’è un pezzo di questa canzone che non ti riesce ancora bene,” mi fece notare con tono critico.

“È sempre stato così,” ammisi imbarazzata.

“Te lo faccio sentire io visto che lo conosco bene, e poi è semplice. Non serve Mars per spiegarlo.”

“Chi sarebbe?”

“Mick Mars, il nostro chitarrista. Ascolta il nostro disco e prendi esempio da lui,” disse in fretta, poi si posizionò alle mie spalle e si chinò per suonare la chitarra mentre era ancora tra le mie braccia. Improvvisamente cominciai a sentire caldo e mi resi conto che, anziché cercare di capire come stava suonando la canzone, gli stavo osservando le mani. La pelle era molto chiara e portava lo smalto nero. Le guardavo spostarsi sulla tastiera con una grazia che non credevo possedesse e che mi stava iniziando a piacere più del dovuto. Il caldo cominciava a diventare insopportabile, stavo per iniziare a sudare e sapevo di avere le guance bollenti. Avrei voluto portarmi una mano sul viso per raffreddarle, ma non potevo perché avevo le braccia bloccate sotto quelle di Nikki. Quando le punte dei suoi capelli mi sfiorarono la pelle del viso, il mio respiro sembrò bloccarsi all’improvviso per poi lasciare spazio a un momento di lucidità.

“Okay, grazie,” dissi tutto d’un fiato, liberandomi appena della sensazione di calore. “Adesso penso di aver capito come devo suonarla. A casa la proverò con la chitarra elettrica, così forse verrà meglio.”

Nikki però continuava a suonare e io non avevo possibilità di movimento. Quando mormorò qualcosa per approvare quello che avevo detto, percepii il suo fiato caldo sul collo. Quando mi voltai appena e incontrai i suoi occhi verdi per metà nascosti dalla frangia, deglutii a vuoto perché credevo che sarei esplosa. Dopo alcuni secondi che parvero un’eternità, Nikki smise di suonare e mi liberò, allora mi alzai subito in piedi e adagiai la chitarra sul divano.

“Grazie di tutto, Nikki, ma adesso devo andare,” dissi mentre mi affrettavo a raccattare la borsa e il disco.

Lui mi seguì fino alla porta e prima di aprirla ci si parò davanti per impedirmi di passare prima che potesse dire la sua. “A proposito, Grace, non rivuoi il tuo orecchino? Ci metto un attimo a correre di sopra a prenderlo.”

“Non fa niente, te lo regalo,” risposi, ed era vero. Non mi era mai importato nulla di quel cristallo e quella che avevo messo in scena era tutta una scusa per rivederlo. Solo in quel momento capii la vera ragione delle mie stesse azioni e mi domandai se anche lui l’avesse capito.

Nikki sollevò una mano in segno di saluto. “D’accordo. Allora grazie, Grace.”

“Di niente,” mormorai con la voce strozzata. Quel tipo pronunciava sia il suo nome che il mio in un modo estremamente piacevole e magnetico.

Sembrava pronto ad aprire la porta, ma si girò verso di me e mi puntò addosso uno sguardo serioso. “Un’ultima cosa prima che tu esca.”

“Certo,” biascicai dopo aver deglutito a vuoto.

Nikki si abbassò alla mia altezza e mi guardò dritta negli occhi. “Vederti mi ha fatto piacere. È bello avere compagnia ogni tanto, però ti prego di non tornare mai più.”

“Ti ho infastidito? Io non–”

“No,” mi interruppe, “non mi hai disturbato. Lo dico per te. Questa casa è uno schifo. Io sono uno schifo, e vorrei che non tornassi più, se non ti dispiace.”

Annuii e subito dopo Nikki aprì la porta e mi fece cenno di uscire. La chiuse non appena fui fuori senza rispondere al mio ultimo saluto, poi aprì il cancelletto da dentro. Quando mi ritrovai in strada, ebbi come l’impressione di essere appena uscita da un mondo parallelo di cui tutti ignoravano l’esistenza.

Presi una grossa boccata d’aria fresca e mi aggiustai la spallina della borsa sul braccio guardandomi intorno in modo distratto. Avevo appurato che Nikki non era perfido come si diceva in giro e che nessuno era stato rapito e nascosto in casa sua, ma per il resto nulla mi era chiaro se non che quella non sarebbe stata la mia ultima visita a casa sua. C’erano troppe cose che non quadravano perché potessi ignorarle.




N. d’A.: Ciao a tutti e scusate per il ritardo, ma lo studio non risparmia nessuno, ahimè...
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento. Grazie a tutti voi che leggete, recensite e seguite/preferite! =)
A mercoledì prossimo!
Un abbraccio,

Angie

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Capitolo 8
*** Nikki ***


8) NIKKI

Stupida ragazza. Oppure sarebbe stato più corretto dire “stupido Sixx”? Non lo sapevo. Allora non sapevo un cazzo di niente, se è per questo. L’unica cosa che avevo capito era che Grace mi stava mandando in fumo il cervello perché mi faceva pensare troppo. Fin dal primo momento in cui l’avevo vista al negozio di dischi, avevo capito che mi avrebbe dato da pensare, ma ancora non sapevo se in positivo o negativo.

Adesso, però, facciamo il punto della situazione.

Nonostante avessi visto di molto meglio, Grace era una bella ragazza. Sembrava simpatica e forse non aveva afferrato cosa stesse succedendo in casa mia ma per me, che mi sentivo terribilmente solo e avevo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di me e di cui prendermi cura a mia volta, era più che interessante. Dall’altra parte, però, mi rendevo conto che, a differenza delle sue coetanee che avevo avuto modo di conoscere e che venivano tutte da situazioni difficili che le avevano portate a compiere scelte sbagliate proprio come era successo a me, Grace frequentava regolarmente l’università, probabilmente aveva una bella famiglia di persone oneste che abitavano in una di quelle case a due piani con la bandiera americana fuori, e non si meritava di avere a che fare con uno come me. Questo era proprio il motivo per cui le avevo detto di non farsi più vedere a casa mia. Sapevo che se l’avessi incontrata un’altra volta mentre ero fatto ci avrei provato, quindi pensavo che sarebbe stato meglio allontanarla prima che mi fissassi con lei come avevo fatto con Vanity, la cui situazione, già critica di per sé, era precipitata da quando avevamo iniziato a frequentarci, portandola sempre più vicina al limite.

Mentre mi arrovellavo su questi pensieri, consapevole del fatto che avrei fatto meglio a lasciar perdere, ricevetti una telefonata proprio da parte di Vanity, che mi annunciò cantando che stava arrivando. Non dissi niente se non un biascicato “sì, va bene”. Detestavo quella donna perché era completamente pazza e spesso si presentava a casa mia sbraitando quando avevo altri ospiti, se non addirittura allo studio di registrazione. Mi impegnavo per sembrare il più normale possibile di fronte a Doc e ai miei compagni di band, poi arrivava lei e rendeva vano ogni mio sforzo con la sua incontrollabile follia dettata da una dose di troppo. Cominciava a fare robe assurde, a gridare, a predicare cose in cui nessuno di noi credeva e a saltarmi addosso, mentre io pregavo mentalmente che, così come era arrivata, sparisse. Stavo bene con lei solo quando eravamo da soli nella mia villa perché tra tossici ci si capisce sempre, o quasi.

Quella sera arrivò saltellante e con una scorta di cocaina che aveva comprato per tirare avanti per più giorni, dimenticandosi che gliel’avrei fatta fuori in un attimo. Accendemmo la televisione perennemente sintonizzata su MTV e ci sedemmo sul divano, lei a rigirarsi tra le mani il sacchetto e io a guardare la polvere che conteneva mescolarsi.

“Allora, Nikki, cosa vuoi fare oggi?” domandò. Aveva un modo di parlare fastidioso: teneva le vocali lunghissime e il tono acuto mi perforava i timpani.

Alzai le spalle. “Cos’hai lì?”

Fece saltare il sacchetto sul suo palmo. “Un regalino per te, tesoro.”

“Perché non lo apriamo?” proposi malizioso mentre mi stiracchiavo.

Vanity sghignazzò e si affrettò a disporre un paio di piste sul tavolino dopo averlo liberato dalle bottiglie vuote e dai posaceneri straripanti. Estrasse poi una banconota dal portafoglio e l’arrotolò, infine me la porse con un gesto teatrale.

“A te l’onore!” esclamò levando le braccia in aria.

Mi chinai sul tavolino e aspirai tutta la striscia, incurante del naso in fiamme. Vanity era stata furba e me ne aveva preparata poca, così quando feci per avvicinarmi anche alla seconda pista lei mi allontanò spingendomi con rabbia.

“Non toccare, quella è mia!” gridò famelica.

La scansai con un braccio. “Preparatene un’altra.”

Vanity mi strappò dalle mani la banconota arrotolata, la accartocciò e la scagliò lontano nel salotto. “Ti ho detto che quella è mia.”

“Ne hai un sacco pieno, non fare storie.”

“Ti ho detto che non devi toccarla!” strillò, e stavolta sembrò trasformarsi in un’altra persona. Spalancò gli occhi, avanzò verso di me strisciando sul divano e mi lanciò contro una lattina vuota.

“Sei impazzita?” sbottai non appena la lattina mi colpì su una tempia. “Sei appena arrivata e hai già superato il mio limite di sopportazione. Puoi anche tornare a casa.”

“No!” sbraitò Vanity balzando in piedi. Aveva i muscoli delle gambe così in tensione che sembravano quelli di una lottatrice. “Sono venuta fin qui per te e adesso tu mi fai restare!”

Raccolsi il suo armamentario dal tavolino e glielo cacciai tra le braccia. “Scordatelo. Riprenditi la roba e sparisci prima che mi arrabbi.”

Improvvisamente smise di fissarmi con astio, rilassò i muscoli e mi rivolse un sorriso largo e sciocco che metteva in evidenza i denti bianchi. Mi puntò addosso lo sguardo allucinato e appoggiò la testa alla mia spalla più per sorreggersi che per manifestare il suo affetto.

“Ma sono la tua fidanzata, non puoi cacciarmi via così,” piagnucolò mentre cercava di stare in piedi. Fui costretto a sostenerla per evitare che scivolasse per terra in malo modo facendosi male perché, in fin dei conti, anche se la detestavo non volevo che succedesse.

“La tua fidanzata... sono la tua fidanzata...” continuava a ripetere, lo sguardo sempre più assente e il sorriso sempre più sforzato.

“No, non lo sei,” la corressi, ma non ne ero molto convinto perché non sapevo nemmeno io cosa fosse per me.

Vanity appoggiò il sacchetto sul tavolino e mi abbracciò. “Sì che lo sono, e ti voglio tanto, tanto, tanto bene.”

Era riuscita nel suo intento, come accadeva ogni volta: faceva un po’ di moine, piagnucolava, e alla fine riusciva sempre a ottenere ciò che voleva. Se però tra noi due c’era un fesso, quello ero io, e non perché mi fossi lasciato intenerire da Vanity, ma perché mi ero fatto corrompere dalla droga che mi portava. Il sacchetto di cocaina apparteneva a Vanity e sapevo che se l’avessi lasciata andare se lo sarebbe portato via con sé. Avrei sicuramente potuto chiamare Jason per comprarne dell’altra, ma avvicinarmi al telefono, comporre il numero e parlare erano fatiche inutili che per me, date le mie condizioni, erano ancora più dure. Dunque lasciai che Vanity si tornasse a sedere sul divano a gambe incrociate e finisse quello che aveva cominciato, dopodiché passammo il resto del tempo sospesi nel nostro paradiso artificiale.

Quando la mattina seguente mi svegliai, Vanity non era più lì, ma aveva lasciato un bigliettino con su scritto qualcosa di indecifrabile che non mi sforzai nemmeno di capire. Lo strappai in mille pezzi e li guardai imbambolato mentre scivolavano dalla mia mano fin sul pavimento. Cadevano lenti come fiocchi di neve e a osservarli mi sembrava che tutto intorno a me, il tempo compreso, andasse alla loro stessa velocità. Una volta che furono caduti tutti, l’effetto ralenti terminò. Passai sopra di essi calpestandoli per bene e il telefono squillò prima che potessi pensare a cosa avrei potuto fare quel giorno. Alzai la cornetta con una voglia tremenda di mandare a quel paese chiunque mi avesse chiamato e mi schiarii la voce. “Sì, pronto?”

“Ehi, sono Mick. Doc e io vorremmo sapere che fine hai fatto,” rispose il mio chitarrista con voce stanca e monotona. Era strano che mi avesse telefonato, e se lo aveva fatto, allora doveva essere molto importante.

“Non ho fatto nessuna fine. Anzi, purtroppo la fine non l’ho ancora raggiunta,” bofonchiai mentre mi stiracchiavo sul divano, ancora stordito dalla sera precedente.

“Non dire stronzate, Sixx,” mi rimproverò Mick. “Siamo agli studi di registrazione e manchi solo tu. Dovresti alzare il culo e venire anche tu.”

“Ma Mars, cazzo, è l’alba!” mi lagnai stropicciandomi con foga gli occhi ancora impiastricciati di matita nera.

“No, sono le dieci e mezza del mattino e avresti dovuto farti trovare qui davanti un’ora e un quarto fa, come eravamo d’accordo.”

Avevo paura di guardare l’orologio, ma mi sforzai di farlo: erano le dieci e mezza, proprio come aveva detto Mick, e io mi ero di nuovo dimenticato dei miei impegni perché ero troppo preso nelle mie faccende personali.

Mi passai una mano sul viso imprecando sottovoce. “E va bene, arrivo subito. Aspettatemi lì.”

“No, Nikki, noi per oggi abbiamo già finito e abbiamo altri impegni,” rispose Mick. “Domani però fatti vedere, okay?”

“Sì, ci proverò.”

“Tommy sta passando da te. A domani, Sixx, e vedi di ricordarti.”

Non aggiunsi altro e gli riattaccai in faccia. Come accidenti faceva Mick Mars ad aver voglia di sapere se fossi ancora vivo dopo tutto quello che io e Tommy gli stavamo facendo passare? La risposta balenò nella mia mente malata: se io mi fossi ammazzato, lui sarebbe rimasto senza bassista, di conseguenza aveva fatto quella telefonata non perché fosse preoccupato per me e mi voleva bene, ma perché voleva accertarsi che fossi ancora vivo. Avrei voluto morire in quel preciso istante solo per vedere la faccia che avrebbe fatto.

Allontanai l’apparecchio del telefono con una spinta e sferrai un pugno sul divano. Perché tutti mi stavano vicino e mi cercavano solo perché ero famoso o facevo loro comodo? Chissà se anche Tommy stava arrivando solo per assicurarsi di avere ancora un bassista nella band? In preda all’hangover, decisi che era senz’altro così e che per ripicca non gli avrei aperto. Infatti, non appena suonò il campanello, sollevai il capo con gli occhi iniettati di rabbia, determinato a sopportare diversi squilli finché non avesse pensato che stessi male. Credevo che si sarebbe arreso e sarebbe andato via, invece lo sentii scavalcare il cancello e battere i pugni contro la porta.

“Sixx, cazzo, rispondi! Lo so che sei lì dentro, apri!” gridò.

“Non ora, T-Bone. Tornatene a casa e lasciami in pace,” risposi, ancora sdraiato sul divano e con un avambraccio sopra gli occhi per ripararmi dalla poca luce.

“Va tutto bene? Hai bisogno di qualcosa?” domandò.

“Non ho bisogno di niente.”

“Sei fatto?”

Premetti ancora di più il braccio sul viso. “Uffa, ti ho detto di no! Ci vediamo domani, adesso sparisci.”

“Non voglio sentirti così,” stavolta la sua voce era diversa, persino più triste, e aveva smesso di gridare e di battere contro la porta.

Mi diedi dell’idiota per averlo cacciato via in quel modo sgarbato. Non potevo certo cambiare idea all’improvviso e dirgli che poteva restare, perciò fui costretto a invitarlo ad andarsene, ricordandogli che ci saremmo visti l’indomani. Ci misi cinque minuti buoni per convincerlo a lasciarmi da solo, ma quando sentii il rombo della sua motocicletta allontanarsi mi pentii immediatamente della mia scelta. Appoggiai la testa al divano, fissai il soffitto e sospirai. Avevo bisogno della mia roba ed era al piano di sopra, quindi dovevo alzarmi e salire le scale con le gambe che mi tremavano. Volevo farmi e non farmi più allo stesso tempo, ero sospeso in un limbo e aspettavo di cadere da una delle due parti. Volevo solo che tutto finisse. Avrei voluto chiudere gli occhi, riaprirli e ritrovarmi in una casa pulita, illuminata, con Tommy seduto di fianco a me che sparava barzellette a non finire, lo stereo acceso, le finestre aperte e neanche un granello di coca entro il perimetro di casa mia. Forse quello che stavo vivendo era davvero un brutto sogno, allora provai a chiudere e riaprire gli occhi, ma ovviamente trovai tutto come prima. Battei un pugno sul divano, sferrai un calcio al tavolino da caffè facendo traballare le bottiglie vuote appoggiate sul ripiano di vetro e mi venne voglia di piangere.

Perché doveva essere così? Era colpa mia? Cosa c’era che non andava in me?




N. d’A.: Salve a tutti! =)
Vanity ha fatto la sua comparsa... ma in compenso anche gli altri Crüe, pian piano, si stanno facendo vivi.
Per stavolta è tutto e spero che sia di vostro gradimento. Ringrazio chi legge e recensisce!
A mercoledì prossimo!
Un abbraccio,

Angie

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Capitolo 9
*** Grace ***


9) GRACE

Avevo ascoltato più volte il disco dei Mötley Crüe che mi aveva dato Nikki e mi era piaciuto così tanto che ero corsa a comprarmi anche Theatre of Pain. Avevano una carica a dir poco fantastica e quel chitarrista spaccava davvero! Del secondo album ero pazza di Red Hot, mentre del terzo mi ero fissata con Louder Than Hell, e avevo costretto Grant, che con la chitarra ci sapeva fare, a trascrivermi le tablature perché volevo imparare a suonarla. Non si spiegava per quale motivo mi fossi convertita radicalmente a quel gruppo, lo stesso che lui aveva cercato di farmi piacere per mesi, ma non aveva fatto molte domande. Elisabeth, che una volta in cui ne parlammo era con noi, mantenne un’espressione seria e attese in silenzio che cambiassimo argomento prima di tornare a parlare con noi.

Volevo che Nikki sapesse che con i loro album era stato amore a prima vista, e speravo che portasse i miei complimenti a quel geniaccio di Mick Mars, così un pomeriggio, con le dita prive di sensibilità per aver suonato troppo, andai a casa sua. Ero talmente eccitata dall’idea di fargli sapere cosa pensavo dei suoi dischi che decisi addirittura di prendere la macchina per percorrere una distanza che normalmente avrei potuto fare a piedi. Anche stavolta dovetti suonare un paio di volte prima che si degnasse di rispondere, però quando sentii la sua voce notai subito che c’era qualcosa che non andava. Forse aveva litigato con qualcuno e io gli ero piombata in mezzo ai piedi, ma ora che avevo suonato e lui aveva aperto non potevo certamente girarmi dall’altra parte e andarmene. Mi aspettava dietro la porta socchiusa e guardava fuori con fare sospettoso, scrutando ogni angolo del giardino con occhi freddi e diffidenti.

“Nikki!” esclamai non appena vidi la sua sagoma nell’ombra. “Sai che ho ascoltato due dei vostri album e mi sono piaciuti così tanto che–”

“Ti avevo detto di non tornare,” mi interruppe bruscamente. Il suo tono era così duro che tutta la mia eccitazione sparì in un secondo. Mi sentii così poco benvenuta che avrei voluto sparire anch’io.

“Volevo solo farti sapere che mi siete piaciuti,” dissi.

“E va bene,” rispose Nikki, rassegnato, poi sbuffò. “Entra, così ci sediamo.”

In casa era buio e quando accese la luce dovette ripararsi gli occhi con le mani come se avesse passato le ultime ore al buio. Le allontanò solo dopo essersi abituato e solo allora vidi che le sue guance erano solcate da righe nere e verticali che colavano dagli occhi fino al mento. Sembrava trucco sbavato dopo un pianto e questo, visto su di lui, mi fece una certa impressione perché, sebbene fossi consapevole che tutti piangiamo, non riuscivo a immaginarlo mentre lo faceva.

“Nikki, ma… hai pianto?” domandai timidamente mimando sulle mie guance delle righe di trucco con la punta del dito.

Lui volse lo sguardo da un’altra parte e si pulì alla meglio le guance con il palmo della mano. “Se sei venuta fin qui solo per dirmi che ti piacciono i nostri dischi, allora direi che hai fatto quello che dovevi fare. Puoi anche tornartene a casa.”

Non mi risultava che l’ultima volta fosse stato così freddo con me e, poiché mi ero convinta di averlo disturbato, non mi restava che andare via. Probabilmente aveva altre cose a cui pensare che erano molto più interessanti e urgenti di una sconosciuta che ti bussa alla porta per parlare dei tuoi dischi.

“D’accordo,” dissi fissando il muro per non incappare nel suo sguardo assente. “Io vado, allora. A presto.”

Stavo giurando mentalmente che quella sarebbe stata veramente l’ultima volta in cui avrei messo piede nella sua casa quando, poco prima che oltrepassassi la soglia, la mano di Nikki mi strinse delicatamente un braccio, costringendomi a voltarmi e a guardarlo negli occhi.

“Anzi, aspetta,” disse sottovoce. “Rimani qui ancora un po’.”

Aumentò di poco la morsa e io, ancora influenzata dalle leggende di quartiere, per un attimo pensai che mi avrebbe strattonata, invece continuò a guardarmi dritto negli occhi, e la presa sul mio braccio era troppo debole e incerta per trattenermi nel caso avessi opposto resistenza.

“Non capisco, Nikki. È successo qualcosa?” domandai seriamente preoccupata.

Lasciò andare il mio braccio con un gesto lento e delicato e tornò a passarsi una mano sulla faccia per liberarsi dai capelli che gli pungevano la pelle. “Non sforzarti, nessuno è in grado di capirmi.”

Inarcai un sopracciglio. “Scusa se mi sono presentata in un momento poco opportuno, ma se c’è qualcosa che posso fare per te, volentieri.”

“Non fa niente,” biascicò Nikki, poi spostò le mani dal viso e le portò sui fianchi. “Solo io so quello che sto vivendo e nessuno può fare nulla per tirarmi fuori da qui, per cui no, non c’è niente che tu possa fare.”

“Oh... be’, non so cosa stai vivendo, ma se hai bisogno anche solo di parlare con qualcuno, fammelo sapere.”

Per tutta la risposta Nikki mi abbracciò e mi ritrovai serrata nella sua stretta con il viso premuto contro il suo petto, ormai incurante della pelle appiccicosa delle sue braccia che si attaccava alla mia.

“Nikki?” chiamai, e lui sembrò disincantarsi. Mi lasciò andare all’improvviso cercando di nascondere l’imbarazzo, forse pensando che avrei potuto ritenerlo un rammollito per avermi abbracciata senza motivo.

Si sistemò nervosamente in capelli senza ottenere un gran risultato e fece un respiro profondo. “Vieni, siediti dove ti pare, per terra, sul divano... vuoi qualcosa da bere? Una birra? Non ho acqua in casa a parte quella del rubinetto.”

Annuii mentre prendevo posto sul divano, lontano dalla coperta sudicia, e accettai la birra. Nikki corse in cucina e sentii prima il rumore delle pentole che venivano spostate con poca delicatezza, poi lui che imprecava perché non riusciva a trovare il cavatappi. Mentre era ancora impegnato nella ricerca di un qualsiasi oggetto utile per aprire la bottiglia, sentii qualcosa di duro sotto un piede e mi sporsi per guardare di cosa si trattasse. Mi ero abituata alle bottiglie sparse ovunque, ma non mi aspettavo di trovare una siringa incrostata di una sospetta sostanza ambrata. Provai immediatamente una sensazione di ribrezzo poi tutto divenne chiaro: Nikki non era una specie di demone solitario come dicevano tutti. Nikki era un tossico, e io ero in casa sua. Se lo avessero saputo i miei genitori, mi avrebbero reclusa nella mia stanza per l’eternità nonostante fossi maggiorenne e mi ritenessero ormai responsabile di me stessa.

Quando Nikki uscì dalla cucina, aveva con sé un paio di bottiglie di birra, che appoggiò sul tavolino da caffè prima di sedersi vicino a me.

“Cos’è quella?” domandai con un dito puntato contro la siringa.

Nikki si incupì e sembrò incantarsi per qualche attimo, forse alla ricerca delle parole giuste. Quando le trovò, si tirò indietro i capelli prima di parlare. “La mia rovina e la mia salvezza allo stesso tempo.”

“Quella è roba pesante. Hai mai pensato di smettere?”

Nonostante gli avessi detto quelle parole con un tono calmo e pacato, Nikki schizzò in piedi e mi fissò con gli occhi iniettati spalancati come se lo avessi offeso.

“Grazie tante, certo che ci ho pensato!” tuonò nel silenzio della casa. “E smettetela tutti di dirmi che devo ripulirmi perché tanto lo sapete che non lo farò. Non riesco più a farne a meno.”

Restai impietrita dall’ansia e dallo stupore mentre si lasciava cadere scompostamente sul divano come un castello gonfiabile a cui hanno spento la pompa dell’aria.

“Lo dicevo per te, ma non volevo offenderti,” mormorai con l’intento di giustificarmi.

Nikki sferrò un calcio a una lattina che rotolò con un rumore sordo fin contro il muro poi buttò giù un sorso di birra. “Lo so solo io quello che è giusto per me, non Tommy, non Vince, e soprattutto non tu.”

Sapevo che Tommy e Vince erano rispettivamente il suo batterista e il suo cantante perché lo avevo letto su uno dei dischi e, a quanto pareva, anche loro stavano provando a far uscire Nikki dalle sue dipendenze senza alcun risultato. Per quel che ne sapevo, sicuramente nemmeno loro erano dei santi sotto questo punto di vista.

Nikki aveva smesso di parlare ed era rimasto immobile sul divano, le mani abbandonate in grembo e la sua solita faccia inespressiva. Provai a pensare di trovarmi al suo posto ed essere una tossica disperata, e tentai di comprendere anche solo un po’ la sua situazione, ma potevo farlo solo fino a un certo punto. Nikki era caduto dritto dentro quello schifo con i piedi e anche con le mani, e adesso la melma lo stava sommergendo e sarebbe salita lentamente verso la testa fino a soffocarlo. Avrebbe dovuto smettere, ma far ragionare una persona nelle sue condizioni è più difficile che parlare con un muro e pretendere che ti risponda. Io, però, volevo provarci perché non ero abituata a mollare nemmeno quando mi rendevo conto che era ora di farlo, e quella volta non lo avrei certo abbandonato nel momento del bisogno. Non sapevo quanto la mia presenza potesse essergli d’aiuto ma decisi che, se avesse avuto bisogno di qualcuno, io ci sarei stata.

Presi un fazzoletto dalla tasca, lo umidificai con un po’ della mia birra e mi avvicinai a Nikki per cancellare le tracce di trucco sbavato dal suo viso.

“Cosa ci fai ancora qui?” domandò con tono piatto.

“Sei stato tu a chiedermi di restare,” gli ricordai mentre continuavo il mio lavoro.

“Giusto...”

“Ti rompe se resto?”

“No.”

“Perfetto.”

Aprì appena gli occhi, sospirai, ma non con rassegnazione: avevo capito che con quel suo sguardo stanco mi stava chiedendo di non lasciarlo da solo in quella casa orribile. Forse gli bastava avere qualcuno che gli facesse un po’ compagnia o che lo ascoltasse e, finché fossi stata in grado di farlo, lo avrei aiutato.




N. d’A.: Ciao a tutti! Scusatemi per il ritardo, ma è stato per una buona causa...
La mia vena melodrammatica si fa sentire! Spero che vi piaccia.
Grazie mille a chi segue e recensisce la storia! Mi fa davvero molto piacere.
A mercoledì. =D

Angie

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Capitolo 10
*** Nikki ***


10) NIKKI

Non volevo ripetere con Grace lo stesso errore che avevo commesso con Tommy pochi giorni prima. Non volevo mandarla via per poi pentirmene nel momento in cui avrei cominciato a sentire la solitudine e tutte le sue conseguenze. Quando mi aveva guardato dritto in faccia con quei suoi occhi così buoni, avevo sentito un forte bisogno di abbracciarla perché erano anni che non abbracciavo qualcuno. Credevo che sarebbe scappata via urlando, spaventata dalla mia forza, dal mio comportamento assurdo e dalla puzza che facevo dopo giorni che non mi lavavo, invece era rimasta con me nella casa più merdosa di tutta la Valle. Avevamo passato un’ora intera a guardare video idioti su MTV e lei era rimasta seduta accanto a me, le scarpe appoggiate sul tavolino e la bottiglia vuota tra le mani mentre commentavamo i cantanti.

Grace sarà anche stata una giovane figlia di papà con casa e università pagate, però non era stupida né tantomeno superficiale. Anzi, le cose le capiva fin troppo bene. Si stava sforzando di comprendere persino me e sapevo che non ci sarebbe riuscita, tuttavia apprezzavo il suo sforzo e mi piaceva credere che lo facesse perché in fondo le stessi simpatico e non che stesse recitando per poter dire in giro di aver avuto l’onore di entrare in casa di Nikki Sixx. Speravo che fosse così anche se, in fin dei conti, sentivo che non lo era, però la presenza di qualcuno che non fossero le creature che la mia mente partoriva quando mi facevo di freebase era più che gradita. Mi aveva promesso che sarebbe tornata e pregavo che accadesse nei momenti in cui ero sobrio. Non si sapeva mai cosa sarebbe potuto accadere se fosse arrivata quando ero su di giri – con quell’arma da fuoco chiusa nella cabina armadio, non avrei dovuto fidarmi nemmeno di me stesso.

A distrarmi dai miei pensieri ci pensò il campanello e io, certo che si trattasse di Tommy che era venuto a fare il suo giro di ronda mattutina per assicurarsi di avere ancora un bassista, mi trascinai fino alla porta per rispondere. Notai con mia grande sorpresa che non si trattava del mio amico, bensì di Jason, il mio spacciatore. Fui tentato di chiudergli la porta in faccia perché non sopportavo di vederlo, ma stava già attraversando il vialetto.

“Sixx, amico mio, come stai?” cantilenò allargando le braccia.

‘Fanculo, noi non siamo amici, pensai, ma mi limitai a rispondere con un grugnito. Come voleva che stessi? Eravamo entrambi nella stessa situazione, ovvero nella merda fino al collo, devastati, sciupati e depressi. Lui, poi, sarebbe anche stato un bel ragazzo, ma l’eroina l’aveva rovinato e adesso era flaccido e scheletrico, proprio come me. In compenso aveva una fidanzata, odiosa a mio parere, però almeno aveva qualcuno, mentre io vivevo solo come un cane in una casa troppo grande. Ma non importava: credevo che non sarei mai riuscito ad amare qualcuno visto che nessuno mi aveva mai insegnato come si faceva.

“Perché sei qui?” gli domandai, innervosito dal fatto che con lui ci fosse anche la sua ragazza. “Non mi risulta di averti chiamato.”

La tipa lo prese per mano e mi squadrò dalla testa ai piedi con un certo disgusto. “Siamo passati a prendere i soldi. L’ultima volta che è venuto gli hai detto di fare un salto oggi perché non avevi più contanti in casa.”

Cazzo, la ragazza aveva ragione.

Sbuffai e feci loro cenno di accomodarsi, godendomi la scena della tipa che borbottava indignata di fronte al disordine che regnava in casa mia. Mi promisi che la prossima volta che sarebbe venuta gliene avrei fatto trovare il doppio, così forse avrebbe deciso di non presentarsi più.

“Vi offrirei qualcosa da bere se non avessi finito le scorte," mentii, consapevole di avere abbastanza birra da andare avanti per altri tre giorni.

“Non importa,” rispose Jason, a cui l’unica cosa che interessava in quel momento era la grana. Gli dovevo ben novecento dollari e li avevo preparati in un cassetto del salotto, allora li presi e glieli consegnai ancora chiusi nella busta della banca. La sua ragazza la aprì attentamente, li contò per ben tre volte e, non appena si fu accertata che non mancasse neanche un centesimo, mi rivolse un sorriso ruffiano e porse la busta a Jason con un gesto teatrale.

“Sai, Sixx, che ieri ti ho visto a Hollywood?” saltò su Jason mentre si girava una sigaretta con estrema calma.

Feci spallucce. “È probabile, io a Hollywood ci lavoro. Là ci sono gli studi di registrazione.”

“Eri in motocicletta sul Santa Monica,” precisò, poi appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse verso di me con occhi sognanti. “Mi piace la tua bestia, bello.”

Finsi di lustrarmi le unghie sulla maglietta sudicia. “Lo immagino.”

“Ne hai di soldi se ti sei comprato una cosa del genere! Anche a me piacerebbe avere una motocicletta.”

Venne in discorso che il suo sogno più grande era possedere una Harley Davidson rombante con cui poter solcare il Sunset, e ciò mi ricordò Tommy perché lui ne aveva una e quando andavamo in giro insieme per lo Strip ci sentivamo vere e proprie divinità su due ruote. Jason però non se la poteva permettere, almeno finché non avesse racimolato abbastanza soldi con lo spaccio.

Li riaccompagnai alla porta non appena lui ebbe finito di fumare e, una volta che mi fui liberato di loro, saltai in sella alla mia motocicletta e andai dritto in una concessionaria a Ventura. Là, esposta in vetrina in tutta la sua lucentezza e con le parti in metallo che rispecchiavano la luce del sole che tramontava, c’era il sogno di Jason. Ci impiegai un attimo a parcheggiare, entrare e firmare un contratto d’acquisto, poi tornai a casa per lasciare la mia moto in garage e mi feci accompagnare di nuovo alla concessionaria da T-Bone. Quando mi chiese perché avevo comprato un’altra motocicletta non volli rispondergli. Gli dissi semplicemente che era una lunga storia e mi presi dello spendaccione, poi aggiunse che ultimamente gli sembrava che stessi facendo troppe cose senza rendermene conto. Io, però, ero perfettamente cosciente nel momento in cui avevo messo la mia firma sotto il contratto.

Mi feci scaricare nel parcheggio della concessionaria e potei finalmente balzare in sella al mio nuovo gioiellino. Partii a tutta velocità diretto verso la casa di Jason, ghignando per il piano diabolico che avevo in mente e, appena ci fui davanti, sgassai come un forsennato finché non si affacciò alla finestra. Godei in maniera colossale per l’espressione che fece non appena mi vide in sella alla moto dei suoi sogni. Più Jason si sorprendeva, più io sentivo un’insana felicità crescermi dentro. Mi sentivo ignobilmente potente, come se mi stessi limonando quella cretina della sua tipa sotto i suoi occhi. Salutai Jason agitando una mano in aria e lui, ancora stupito dal mio arrivo a bordo di quella Harley, non ricambiò nemmeno, poi guizzai via cercando di fare il più rumore possibile per ostentare il mio nuovo acquisto.

Jason e io ci odiavamo a vicenda, ma allo stesso tempo uno non poteva vivere senza l’altro. Eravamo entrambi nella stessa merdosissima situazione. Lui mi portava la droga, io sganciavo qualche centinaio di dollari in contanti, lui se li intascava e si andava a comprare dell’altra roba per sé. Una parte di me, però, sentiva che Jason mi stava uccidendo e sapevo bene che quell’uomo si arricchiva a scapito delle vite altrui. Faceva soldi a palate prendendoli dalle mani di gente disperata che non aveva idea di come fare a uscire dalle proprie dipendenze – gente come me. Inoltre, Jason mi disprezzava quanto io disprezzavo lui perché mi vedeva come una rockstar ricca e viziata che poteva avere tutto quello che voleva. Ma la cosa per cui mi odiava di più in assoluto era perché io, con i miei guadagni decisamente superiori ai suoi, potevo avere droga in abbondanza, mentre lui se la doveva sudare. Morivamo entrambi allo stesso modo dalla voglia di farci, ma io potevo permettermi di sollevare una cornetta e ordinare ciò di cui avevo bisogno come se fosse stata una pizza, mentre lui doveva prima rischiare la vita per trovare la grana. Mettetevi nei suoi panni: fate finta di essere nel bel mezzo del deserto con un’altra persona e avete finito le scorte d’acqua quando una fonte limpida appare a pochi metri da voi. Il vostro compagno di viaggio però ha ancora abbastanza forze e riesce a raggiungere l’acqua e a berla, mentre voi, con la gola secca e la vista annebbiata, non ci siete riusciti e siete costretti a guardarlo mentre si scola l’acqua fresca sotto i vostri occhi senza offrirvene nemmeno una goccia. Scommetto che lo odiereste così tanto da augurargli il peggio. Per noi era più o meno la stessa cosa, e io ero quello che beveva dalla fonte sotto gli occhi di Jason.

Quel pomeriggio tornai a casa soddisfatto e, mentre parcheggiavo la mia nuova motocicletta nel garage accanto all’altra, mi domandai come avrebbe reagito Grace se le avessi proposto di fare un giro. Decisi che un giorno ce l’avrei portata anche se non c’era un motivo ben preciso, ma adesso non avevo tempo per inventarmi una scusa da rifilarle perché avevo faccende più importanti da sbrigare. Dopotutto, c’era una ragione per cui pagavo Jason così tanto.




N. d’A.: Salve a tutti! Capitolo di passaggio che potrebbe benissimo essere una OS... lo so, ma è fondamentale per il resto del racconto. Spero che sia stato di vostro gradimento!
Come al solito, un megagrazie a chi recensisce e legge!
See ya on Wednesday!

Un abbraccio,

Angie

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Capitolo 11
*** Grace ***


11) GRACE

Non sapevo come definire con precisione lo strano rapporto che c’era tra me e Nikki, e forse non c’era nemmeno bisogno di dargli un nome. Nonostante mi sembrasse strano perché pensavo che le persone famose avessero centinaia di amici, Nikki mi era sembrato un tipo molto solo, così tornai a trovarlo per vedere come se la stava cavando. Approfittai della bella giornata per uscire a piedi con il mio walkman e andai fino a casa sua. Peccato che, proprio un attimo prima che potessi suonare il campanello, una voce cupa richiamò la mia attenzione.

“Tu saresti...?” disse qualcuno alle mie spalle con tono per niente affabile.

Ritrassi lentamente il dito e mi voltai, trovandomi di fronte un tizio non tanto alto e dall’aspetto un po’ strano: scarpe da ginnastica logore, jeans blu attillati con frange di pelle nera che penzolavano dalla cintura e capelli scuri lunghi fino ai gomiti. Se ne stava immobile con le braccia incrociate sul petto in attesa che sparissi, ma ero troppo impegnata a studiare ogni suo particolare per reagire. Quando si accorse che non reagivo, sollevò i grandi occhiali da sole sulla testa e mostrò le iridi glaciali. “Ti ho fatto una domanda.”

“Cercavo la persona che abita qui,” risposi indicando il giardino.

Il tizio si limitò a sollevare le sopracciglia. “Sembri una tipa troppo a posto per essere una di quelle che bazzicano da queste parti. Lavori in qualche locale?”

“No, vado all’università. Perché?”

“Oh, dio…” biascicò il tipo passandosi entrambe le mani sul viso pallido. “Adesso Sixx se la fa anche con le studentesse? Giuro che non so più cosa fare... ho già troppe cose a cui pensare, non posso mettermi a badare anche lui, che cazzo.”

“Ci tengo a precisare che in realtà Nikki e io siamo meno che amici. Ci siamo incontrati per caso e ogni tanto passo per salutarlo, niente di più,” dissi cercando di assumere un tono che sembrasse abbastanza degno di rispetto.

Il tizio si scoprì il volto e si grattò vigorosamente i capelli palesemente tinti. “Se le cose stanno veramente così, allora mi sento meglio.”

“Scusa, ma tu chi sei?”

Lui smise improvvisamente di parlare e si fermò restando con le mani sospese a mezz’aria, la bocca socchiusa e gli occhi fissi su di me come se lo avessi appena insultato.

“Il chitarrista della sua band,” rispose sottovoce e con una certa fierezza.

Sobbalzai. Mi trovavo davanti a Mick Mars e non l’avevo neanche riconosciuto. Fui tentata di dirgli quello che pensavo di lui e del suo modo aggressivo di suonare la chitarra, ma la mia parte razionale ebbe la decenza di prevalere e mi fece tenere la bocca chiusa.

“Ti hanno mangiato la lingua?” fece Mick, le braccia ora di nuovo incrociate e sulla difensiva. “Ti consiglio di passare in un altro momento. Sono venuto fin qui per parlare con il tuo amico di cose molto importanti senza nemmeno averne voglia, per cui non ho intenzione di lasciarti passare, aspettare come un deficiente che facciate i vostri comodi e poi entrare.”

Sbuffai e mi allontanai rassegnata dal cancelletto. “D’accordo, come vuoi. Mi dispiace solo aver camminato mezz’ora per arrivare qui, ma non ha importanza.”

Ormai rassegnata alla mia sorte, tornai a indossare le cuffie del walkman, premetti play e mi rimisi in cammino verso casa. Dopo aver fatto un paio di passi, cominciarono a cadere delle gocce di pioggia, e io non avevo né un ombrello né il cappuccio, così mi portai la borsa sopra la testa per non bagnarmi troppo.

“Ehi,” chiamò Mick da sotto la tettoia del cancello con tono vagamente dispiaciuto. “Piove. Vuoi un passaggio?”

Agitai una mano in aria e accelerai il passo. “No, grazie.”

Non volevo far scomodare Mick Mars in quel modo, ma mi convinsi ad accettare solo dopo aver centrato una pozzanghera piena di melma con una scarpa, ritrovandomi con il piede destro completamente bagnato e la tela della mia Converse ricoperta di fango e chiazze d’acqua sporca. Feci dietrofront, spensi il walkman e implorai Mick Mars di darmi uno strappo fino a casa. Lui sogghignò, contento di averla avuta vinta, e mi fece cenno di seguirlo fino alla sua macchina, una Corvette rossa decapottabile che non sarebbe passata inosservata agli occhi dei miei vicini. Presi posto sul sedile del passeggero e Mick mi squadrò dalla testa ai piedi, soffermandosi sulle mie Converse un tempo color panna con un cipiglio severo.

“Con quelle cazzo di scarpe infangate mi insudicerai tutta la macchina,” brontolò mentre metteva in moto. “È una Corvette del ‘76, questa, e non merita certo di essere trattata come una jeep da safari.”

“Vuoi che viaggi con il piede fuori dal finestrino?”

“Dovresti, ma non ti chiedo di farlo perché sono una brava persona.”

“Oh, grazie!” esclamai sarcastica.

“Di niente... com’è che ti chiami?”

“Grace.”

“Bene. Senti un po’, Grace, che ne dici di indicarmi la strada prima che continui ad andare dove mi dice l’istinto?”

Mi alzai appena per puntare un dito verso la fine del viale. “Laggiù gira a sinistra, poi a destra, e alla fine lasciami al secondo parcheggio che trovi.”

Mick annuì e premette il piede sull’acceleratore, costringendomi a tornare seduta e ad aggrapparmi alla maniglia della portiera.

“Paura, eh?” disse con tono piatto, lo stesso che utilizzava sia per le battute che per lamentarsi delle mie scarpe sporche. Sarà anche stato un grande musicista, ma non mi sembrava poi così simpatico.

Lo fulminai con un’occhiataccia. “Non me l’aspettavo.”

Mick sghignazzò in una maniera strampalata e soffocata poi abbassò gli occhiali da sole sul naso. “Hai paura di una macchina che fa gli ottanta chilometri orari ma non di entrare in casa di Nikki Sixx? Sei strana.”

“Da che pulpito!” esclamai sottovoce, ma Mick riuscì a sentirmi nonostante il rombo del motore mi stesse impedendo di cogliere con precisione ciò che diceva.

Si voltò di scatto verso di me e mi incenerì con lo sguardo. “Vacci piano con le risposte. Da quel che mi sembra di capire, devo avere almeno il doppio dei tuoi anni.”

Avrà anche avuto il doppio dei miei anni, o forse qualcosa in meno, però non se li portava molto bene. Nonostante i vestiti cazzuti, i capelli lunghi e neri, e gli occhiali da sole, la stanchezza e gli eccessi erano ben visibili sul suo viso e nei suoi movimenti lenti e pacati.

Mick si tornò a voltare verso di me ridacchiando in quella sua maniera strana e diede una leggera botta sul volante rosso dell’auto. “Sai che tutti dicono che dimostro più anni di quelli che ho?”

Mi finsi stupita per non fargli capire che era esattamente quello che avevo pensato, poi non dissi più nulla finché non arrivammo vicino alla mia destinazione e dovetti indicargli il parcheggio. Mick si fermò e mi disse di scendere, accompagnando le parole con un gesto teatrale che voleva essere più una presa in giro che un atto di cortesia.

“Grazie, Mick,” dissi acida. Il chitarrista abbozzò un sorriso divertito ma allo stesso tempo amaro.

“È stato un piacere. Spero di non trovarti mai più a casa sua.”

“Perché dici così?”

Mick appoggiò un gomito al finestrino e si portò gli occhiali da sole sulla punta del naso per guardarmi da sopra la montatura nera. “Nikki non è una brutta persona, però sta attraversando un momentaccio. Nemmeno io vado spesso a trovarlo a casa. Anzi, in realtà, oggi è la prima volta che lo faccio.”

“Credo che un po’ di compagnia non gli dispiaccia,” ribattei scrollando le spalle, ma in realtà nemmeno io sapevo cosa piacesse a Nikki con esattezza perché a volte avevo l’impressione che, per quanto dicesse di sentirsi solo, mi accogliesse in casa sua controvoglia.

Mick fece una smorfia. “Quel tipo di compagnia non gli dispiacerebbe neanche se fosse sano.”

“Smettila di insinuare che ci sia qualcosa tra me e lui,” il mio tono suonò arrogante e me ne pentii subito, anche perché Mick se n’era accorto. “Non so nemmeno se vogliamo diventare amici.”

“Non serve essere amici per certe cose,” continuò senza abbandonare quell’odiosa vena di sarcasmo. “Senti, fa’ quello che vuoi, ma vedi di non cacciarti nei guai. Lo dico per te. Se dovessi aver bisogno di qualcosa, per favore faccelo sapere”

“A chi dovrei dirlo, scusa?”

“A me, o a uno di noi,” rispose Mick con tono ovvio, neanche ci telefonassimo tutti i giorni.

“Della vostra band conosco solo Nikki.”

Mick annuì e accese il motore. “Allora, visto che qualcosa mi dice che ci vedremo ancora, dillo a me. Ciao, bella! Guarda dove metti i piedi e attenta alle pozzanghere.”

Ripartì senza nemmeno darmi il tempo di rispondere, lasciandomi da sola in mezzo al parcheggio deserto che distava un centinaio di metri da casa mia. Aveva smesso di piovere e stava tornando il bel tempo, e l’umidità si sollevava dall’asfalto insinuandosi ovunque, sotto i vestiti e tra i capelli rendendo la pelle appiccicosa. Mi misi in cammino per tornare a casa, ma appena girai l’angolo mi ritrovai di fronte Elisabeth, le mani sui fianchi e un’espressione tutt’altro che rilassata. Deglutii a vuoto perché avevo già intuito il motivo della sua rabbia.

“Scommetto che quello che ti ha accompagnata fino a qui era il tipo della Villa,” esclamò a bassa voce per non farsi sentire da chi era nei paraggi. Quantomeno si era degnata di non fare il nome di Nikki.

“Era un suo amico, ma non–”

“Adesso conosci ed esci anche con i suoi amici?” continuò lei, interrompendomi. “Grace, quella è gente strana. Dico, lo hai visto quello che era in quella macchina?”

“Sì, Beth, l’ho visto!” ribattei con stizza. “Quello che mi ha accompagnato è uno di loro. È un po’ acido, ma è stato gentile con me. Credo sia una brava persona.”

Lei alzò gli occhi al cielo. “È quel ‘credo’ che non mi convince. Santo cielo, Grace, cosa ti ha preso ultimamente? Sono tua amica e ti voglio troppo bene per vederti in giro con quelle persone.”

“Smettila con questi pregiudizi. Non puoi giudicare la gente senza conoscerla e, per favore, evita di essere così tragica.”

Feci per scansarla e passare, ma lei mi afferrò per le braccia. “Sei tu che devi smetterla di essere così testarda. Non so cosa ti porti ad andare a casa di quel tipo, ma sono convinta che non è necessario che tu lo faccia.”

“Forse non è necessario, ma credo di star facendo la cosa giusta,” ribattei, poi ripresi a camminare verso casa incurante di Elisabeth che continuava a parlare mentre mi seguiva. Sapevo già cos’avrei fatto quel pomeriggio: avrei aspettato un paio d’ore poi sarei andata a trovare Nikki, sperando di non ritrovarmi davanti Mick Mars per la seconda volta.




N. d’A.: Buonasera!
Avete visto che è arrivato Mick? Il resto della band sta cominciando a comparire anche se lentamente... spero che la mia versione di Mars vi sia piaciuta; sono stata ispirata da un video che ho trovato, girato nell’Ottantasei, in cui Mick veniva intervistato a bordo di una Corvette rossa. Poi è così che lo immagino: un tipo bizzarro, un po’ flippato (a quei tempi, poi...), ma non lo vedo assolutamente come una cattiva persona, tant’è che nella storia, seppure non comparirà in ogni capitolo, ha un ruolo abbastanza importante.
Mi auguro di aver fatto un buon lavoro! Se avete qualcosa da dire, ne sarei molto felice! :)
Grazie a tutti e viva Mick! ;)
A glam kiss in stile Vince,

Angie

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Capitolo 12
*** Nikki ***


12) NIKKI

Accompagnai Mick alla porta e gli indicai prontamente il cancelletto, invitandolo a sparire dalla mia vista per il resto delle prossime ventiquattro ore. Lui obbedì in silenzio, rassegnato come un cane maltrattato, e se ne andò col capo chino insieme alla sua chitarra. Sembrava che lo avessi appena messo in punizione ma, nonostante questo, non provavo alcun rimorso.

Avevo in programma di accasciarmi sul divano a guardare la televisione in mancanza di passatempi migliori, ma non feci nemmeno in tempo ad accenderla perché Grace si presentò a casa mia. Si fece trovare davanti alla porta con la sua solita faccia sorridente e io ero troppo stanco anche solo per ricambiare quel sorriso meraviglioso che mi aveva appena rivolto. Era bello vederla là fuori che aspettava che le aprissi, ma allo stesso tempo volevo restare da solo. Tommy, però, diceva sempre che avevo bisogno di contatti umani che non fossero le ragazze che lui e i nostri amici mi portavano a casa dai locali di Hollywood per fare baldoria, così decisi che avrei provato a socializzare un po’. Dopotutto, parlare con Grace era piacevole. Mentre pregustavo il momento in cui ci saremmo seduti sul divano a chiacchierare, aprii il cancelletto e la osservai attraversare il giardino.

“Prima ho conosciuto Mick,” disse mentre entrava in casa. “Era qui davanti e mi ha chiesto di passare più tardi perché dovevate parlare di affari, o robe del genere.”

Sbuffai. Cosa importava a Mars di lei? Avrebbe dovuto suonare il campanello e lasciare che fossi io a decidere a chi di loro dare la precedenza e, siccome sapevo già per quale motivo Mick si era scomodato per venire fino a casa mia, avrei fatto entrare Grace e avrei lasciato fuori lui, invitandolo a non muoversi finché Grace non fosse andata via.

“È un tipo strano,” asserì dopo un po’. Non saprei dire se fosse divertita o confusa.

Non risposi e lasciai che finisse il suo consueto giro di perlustrazione del salotto, domandandomi perché dovesse farlo ogni volta. Si soffermava sulle copie delle riviste musicali, le raccoglieva e le sfogliava, poi le appoggiava sul tavolo e ne prendeva delle altre. La lasciavo fare perché ormai non mi importava più niente di quei giornali: erano lì da settimane e li avevo letti diverse volte perché mi rifiutavo di uscire per andare a comprarne degli altri, anche se a volte incaricavo qualcuno di farlo visto che avevo bisogno di sapere le ultime news. Quel giorno era una settimana e mezzo che non commissionavo compere: avevo il frigo vuoto, le scorte di alcolici stavano finendo e non avevo la carta igienica in casa da ormai troppo tempo. Di sicuro casa mia non era il posto migliore per trascorrere i miei pomeriggi di chiacchiere con Grace e, ora che ci pensavo, avevo appena comprato una motocicletta nuova che non meritava di rimanere chiusa in garage. Proposi a Grace di farci un giro e inizialmente non mi sembrò molto convinta – non era mai salita su un gioiellino come quello prima d’ora e le faceva un po’ paura – poi riuscii a convincerla e mi seguì fino al garage. Attese che portassi la motocicletta in giardino e non salì finché non fu certa che mi stessi assicurando che fosse stabile.

Prese posto dietro di me e tastò il sedile con atteggiamento critico. “Sembra morbido. Con tutta questa comodità si può viaggiare a lungo.”

Mi preoccupai di indossare un casco per il solo timore di essere riconosciuto e ne porsi uno anche a lei. “È vero, ma faremo solo un giretto veloce.”

“Hai già pensato a dove potremmo andare?”

Mi presi qualche secondo per ragionare e le dissi che avevo una vaga idea, anche se in realtà avevo già programmato tutto: c’era un posto sulle Hollywood Hills in cui un tempo, preso dalla cosiddetta “depressione del ragazzo di città”, mi recavo per allontanarmi dal casino urbano. L’ultima volta che ci ero stato risaliva a un anno prima, poi avevo trovato altri passatempi e non riuscivo più a godere nemmeno di quel silenzio magico. Da là si vedeva tutta Hollywood e c’era abbastanza pace da poterci andare con Tommy a fumare qualche canna in tranquillità senza preoccuparsi degli occhi indiscreti.

Ingranai la marcia e, appena la motocicletta si mosse, sentii Grace sussultare sul sedile.

“Ti conviene tenerti stretta se non vuoi volare via,” le suggerii, poi mi infilai gli occhiali da sole che tenevo appesi al collo del chiodo e mi aggiustai il bandana.

Grace annuì e si aggrappò a me mentre uscivamo nel viale. A giudicare dal modo in cui mi stringeva, sembrava molto tesa. Probabilmente aveva paura che qualcuno la vedesse con me e questo non mi andava per niente bene, allora cominciai a sgassare a più non posso per annunciare a tutto il mondo che stavamo arrivando, perché nessuno deve vergognarsi di essere in compagnia di Nikki Sixx.

Scendemmo verso Hollywood e ci immettemmo sul Sunset Boulevard, dove mi accorsi di essere già a secco e che era necessario fermarsi per fare rifornimento, a meno che non avessimo desiderato restare a piedi in mezzo all’autostrada. Svoltai a destra per entrare nel piazzale del distributore e, vista la coda che si era formata alle pompe della benzina, fui tentato a rinunciare. Grace sbuffò, smontò dalla moto e volle sapere quanto tempo avremmo dovuto aspettare prima di ripartire. A occhio e croce, ci sarebbe toccato attendere una decina di minuti o forse qualcosa di più, cosa che non era ben vista da nessuno di noi due. Lei decise di ingannare l’attesa entrando in un negozio di souvenir a pochi passi e io mi appoggiai alla motocicletta con ancora il casco in testa ad aspettare il mio turno. Mi servirono dopo un quarto d’ora passato a guardare per aria, dopodiché mi toccò anche andare a cercare Grace che, nonostante mi avesse promesso che sarebbe uscita non appena si fosse accorta che mi stavano servendo, era ancora immersa tra gli scaffali polverosi di quel vecchio negozio. La trovai intenta a leggere la trama di un romanzo di seconda mano, con il mio casco allacciato all’avambraccio e i capelli ancora scompigliati dal vento. Teneva lo sguardo corrucciato e si imbronciava sempre di più man mano che proseguiva nella lettura.

“Vuoi farlo questo giro in moto oppure no?” domandai quando le fui vicino. L’avevo colta di sorpresa e il libro le scivolò dalle mani, cadendo per terra con un rumore soffice.

“Non mi ero accorta che fossi già pronto per ripartire,” si scusò.

Le dissi di non preoccuparsi e mi chinai per raccogliere il libro che le era caduto, notando con mia grande sorpresa che non si trattava di uno di quei romanzi inglesi dell’Ottocento di cui vanno pazze le ragazze delle superiori.

Le restituii il libro senza staccare gli occhi dalla copertina. “Niente Orgoglio e pregiudizio o roba simile, oggi?”

“Ho letto parecchie cose di quel genere e, sebbene abbiano fatto la storia della letteratura, non fanno per me. Io sono più per l’avventura, mi piace vedere i paesaggi che cambiano,” spiegò mentre puliva la copertina dalla polvere del pavimento prima di riporre il libro sullo scaffale.

Inarcai entrambe le sopracciglia per la sorpresa di fronte al suo gesto. “Non lo vuoi più prendere?”

Grace fece spallucce, disinteressata. “Non credo che mi piacerà.”

“Dire che credi che Big Sur non ti piacerà è un insulto,” esclamai, poi ripresi il libro dallo scaffale. “È una delle cose più avvincenti che abbia mai letto. Lo so che sembro un tipo ignorante che non legge mai, però posso assicurarti che è uno dei miei libri preferiti. Non credo che si possa scrivere una trama per questo romanzo senza essere riduttivi.”

Grace mi guardò da sopra gli occhiali da sole. “Penso proprio che valga per tutti i libri.”

“Oh, sì, lo so,” ribattei imitando il suo tono di voce altezzoso. “Però per questo vale in particolare. Compratelo e leggitelo, non te ne pentirai. Però fa’ in fretta perché è quasi sera e devo riportarti a casa prima che faccia buio, o almeno così suppongo.”

Grace mi fece cenno di seguirla fino alla cassa. “Non ho scritto ‘Cenerentola’ sulla fronte, sai?”

“Vorrei anche vedere! È una storia abbastanza crudele.”

Si cacciò in tasca il resto in moneta e mi guardò con la fronte aggrottata. “Era una delle mie fiabe preferite quando ero bambina, vedi di non distruggermela.”

“Immagino, però se ci pensi è abbastanza triste perché lei, per farsi invitare a ballare da quel coglione del principe, deve farsi confezionare il vestito da una fata,” spiegai mentre la spingevo fuori dal negozio, che mi stava facendo venire la claustrofobia.

Grace continuava a guardarmi come se la stessi insultando. “E con questo?”

“Con questo intendo dire che lui non l’avrebbe mai scelta se si fosse presentata vestita di stracci. L’ha giudicata da come è apparsa.”

“Ma fammi il piacere! Alla fine ha scoperto che era una sguattera e l’ha sposata lo stesso.”

“Intanto però l’ha scelta in base all’apparenza. La gente al giorno d’oggi ti giudica in base a come appari, senza nemmeno preoccuparsi di sapere cos’hai dentro. Spesso sotto un aspetto non del tutto convincente si nasconde una bella persona.”

Grace fece una smorfia seccata. “Hai appena ucciso un mito della mia infanzia.”

“Però ho ragione, giusto?”

“Giusto,” confermò lei, e io mi sentii soddisfatto.

Ci tornammo a infilare i caschi e salimmo sulla motocicletta. Un attimo dopo eravamo di nuovo in corsa sul Sunset, riscaldati dai raggi arancioni del tramonto. Impiegammo parecchi minuti prima di uscire dalla confusione cittadina e imboccare una via stretta e in salita, ma alla fine ci riuscimmo. Ci arrampicammo lungo la strada costeggiata prima da palme e piante rigogliose di oleandro, poi da arbusti sempre più secchi, finché l’asfaltò non finì per lasciare spazio alla strada sterrata e selvaggia. La polvere si depositava sulla vernice brillante della mia Harley e sui nostri vestiti, tanto che fui costretto a rallentare per non creare una nuvola che avrebbe diminuito la visibilità.

Il sole era quasi calato del tutto quando raggiungemmo lo spiazzo dove ero solito trovare la tanto agognata quiete e, con mio grande stupore, notai che tutto era rimasto come un anno prima. Era sempre il solito posto immerso nella polvere della California e nel silenzio. Spensi il motore e balzai giù stiracchiandomi vistosamente.

“Siamo arrivati al capolinea, scendi pure,” annunciai.

Grace si tolse il casco e lo lasciò sulla sella. “Dove siamo esattamente? Ci siamo solo noi e dei cespugli rinsecchiti, non mi sembra tutta questa meraviglia.”

Le indicai un punto più lontano da noi dietro qualche arbusto con tono furbesco. “Va’ oltre quei cespugli e ti assicuro che cambierai idea. Fidati.”




N. d’A.: Hi everybody!
Dopo aver ucciso un mito della nostra infanzia, aspetto la bombardata di pomodori. Usate quelli marci, però, ché si deve fare economia... scherzi a parte, il mito me lo sono ucciso da sola, ma ho dovuto inserire un discorso alla Nikki Sixx per rendere il tutto più credibile. Spero che ci stia...
Restando in tema di libri, Jack Kerouac è uno dei miei scrittori preferiti. Lo so che i miei gusti c’entrano poco, però dovevo dirlo!
Il capitolo è un po’ corto, però almeno Nikki è riuscito a convincerla a fare un giro sulla motocicletta nuova. Ci penserà Grace nel prossimo capitolo a concludere il racconto di questa strana serata.
Spero che sia stato di vostro gradimento e che ci siano pochi errori di grammatica (se così fosse, segnalatemeli così li correggo!).
Grazie a tutti quelli che commentano, preferiscono, seguono e seguono in silenzio! ♥
Un abbraccio,

Angie

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Capitolo 13
*** Grace ***


13) GRACE

Nikki mi aveva portata in un luogo buio e isolato dal resto del mondo che, francamente, non mi ispirava molta fiducia. All’inizio mi ero pentita di essere salita in moto con lui, poi avevo seguito il suo consiglio di andare a guardare cosa c’era oltre i cespugli e avevo cambiato completamente idea. Da lì avevo una vista suggestiva di tutta Hollywood: le luci tremolavano in silenzio nell’atmosfera come un campo di lucciole, e i viali principali, come il Sunset, l’Hollywood e il Santa Monica, sembravano fiumi luminosi che scorrevano nella pianura. Mi appoggiai al guardrail e inspirai l’aria fragrante di oleandro e arbusti, provando un inebriante senso di libertà. La mia casa distava solo pochi chilometri da quel posto in cima al mondo, ma a me sembrava di essere lontana anni luce da tutto e tutti. Non riuscivo a concepire l’idea che quell’angolo di paradiso si trovasse vicino a una metropoli rumorosa e affollata come Los Angeles, che ora stava brulicando sotto di me senza che ne sentissi i rumori. Ebbi la sensazione di essere sorda. Sentii la mano di Nikki appoggiarsi appena sulla mia spalla e mi voltai di colpo, accorgendomi solo in seguito che stava sorridendo, soddisfatto di avermi colta di sorpresa un’altra volta.

“Hai visto che posto figo?” domandò.

“Sì, è proprio bello. Pensa alla confusione che c’è là sotto e alla pace che c’è qui. Non è assurdo?”

Nikki annuì e puntò un dito verso un ammasso di luci davanti a noi. “Laggiù c’è lo studio di registrazione in cui lavoro. Là, invece, vicino al Sunset, c’era la casa in cui abitavamo prima.”

“Abitavate tutti insieme?”

“Tutti tranne Mick, ma te ne parlerò in un altro momento,” precisò, poi riprese a indicare. “E per finire, circa là, c’è il benzinaio da cui siamo partiti.”

“Abbiamo fatto un sacco di strada,” constatai stupita.

Nikki prese posto accanto a me sul guardrail. “Non sembri una abituata a spostarsi molto da Van Nuys.”

“In effetti, no,” ammisi. “Senza contare Long Beach e San Diego, il massimo che ho visto è stata San Francisco. Per il resto non sono mai uscita dalla California. Ho fatto qui tutte le mie vacanze perché i miei dicono che abbiamo il mare e quindi non ha senso andare altrove.”

“Da stasera potrai dire che hai visto Hollywood dall’alto,” esclamò Nikki, ed era proprio così.

“Tra quanto ripartiamo?” domandai all’improvviso, pentendomi subito dopo di aver rovinato la magia di quell’attimo.

Nikki aggrottò le sopracciglia. “Siamo appena arrivati e vuoi già andare via? Aspetta almeno che mi riposi prima di tornare a guidare fino a Van Nuys!”

“No, però a casa ho una famiglia che mi aspetta,” ribattei con l’agitazione che cominciava a salire al solo pensiero della ramanzina che mi avrebbero fatto per il ritardo che stavo accumulando. E se poi, preoccupati, i miei genitori avessero chiamato Elisabeth per chiederle se fossi da lei? E se Beth, tragica com’era, temendo che potesse essermi successo qualcosa, avesse raccontato loro che ero entrata nella Villa e che mi aveva vista tornare a casa con uno strano individuo dalla faccia poco raccomandabile?

Nikki allungò un braccio per strappare un filo d’erba verde che cresceva miracolosamente sotto il guardrail. “Appunto, tu hai una famiglia, mentre io sono da solo. Resta un po’ di più qui con me.”

Era triste che non avesse nessuno e che si fosse ridotto a chiedere a me, che conosceva da poco, di restare a fargli compagnia, ma mi sembrava assurdo dal momento che era una persona famosa. Quando gli chiesi che fine avessero fatto i suoi compagni di band e i suoi amici, lanciò il filo d’erba giù dal fianco della collina con un movimento secco del polso.

“Quei tre che suonano con me hanno i fatti loro da sbrigare. Per quanto riguarda gli amici, non ne ho molti. Tutti vengono da me perché sono chi sono, ho i soldi e la roba che gira in casa,” disse tutto d’un fiato, gli occhi strizzati per lo sforzo. Sembrava che si fosse appena liberato di un peso opprimente.

“Io non vengo da te solo perché sei famoso,” gli ricordai. Volevo fargli sapere che, per quanto strano, tenevo al nostro rapporto, ma appena sentì quelle parole vidi i suoi occhi brillare.

Si avvicinò a me strisciando sul guardrail impolverato, quasi arrancando. “Tendo a non fidarmi molto della gente perché ho imparato che bisogna fare così, quindi non prendertela se un po’ stento a crederci. Se però è tutto vero, ti ringrazio.”

“Ti assicuro che non ti sto prendendo in giro.”

Lo vidi avvicinarsi ancora, sempre di più, e non sembrava avere intenzione di fermarsi. Fui tentata ad allontanarmi ma non feci in tempo perché Nikki fu più veloce di me e mi fermò prendendomi delicatamente per un braccio. Mi fece sedere di nuovo sul guardrail e, senza che me lo aspettassi, mi baciò. Fu un bacio lento al quale mi abbandonai senza muovere un muscolo. Il tempo si era fermato di nuovo, stavolta su una collina sopra Hollywood, immersi nel silenzio e in un mondo parallelo a quello reale. Non riuscivo ancora a credere che fosse vero, ma pensai che se lo fosse stato non avrei saputo se restare o scappare. Nikki mi abbracciò e appoggiò una guancia sulla mia testa, e intanto io continuavo a pensare a come reagire perché non sapevo se esserne felice o interrompere tutto bruscamente. Come se avesse percepito la confusione che avevo in testa in quel momento, Nikki sciolse l’abbraccio all’improvviso e si alzò di fretta dal guardrail pulendosi i pantaloni dalla polvere.

“È già ora di tornare a casa?” domandai con una punta di delusione nella voce.

Nikki annuì. “Non eri tu quella che voleva ripartire subito?”

“Prima, ma adesso...” mi morsi l’interno di una guancia, incapace di trovare un seguito alla mia frase.

Nikki si avviò verso la moto. “Se vuoi puoi venire da me.”

“Non penso sia una buona idea.”

“No, forse non lo è,” ripeté tra sé mentre mi porgeva il casco, poi spalancò gli occhi e sorrise come se avesse appena avuto un’illuminazione. “Sai cosa facciamo? Ti porto in un posto che ti piacerà. Ci stai?”

“Dove?”

Ripescò la chiave dalla tasca e la inserì nella toppa. “La nostra sala prove. Ti piacerà, vedrai.”

Mise in moto e partimmo con un rombo, e stavolta riuscii a trovare la sicurezza di tenermi stretta a lui senza dovermi aggrappare alle maniglie sotto il sedile. Tornammo a Hollywood ma, anziché svoltare per raggiungere Van Nuys, Nikki tirò dritto lungo il Sunset e, tagliando per delle strade laterali, mi portò davanti a un edificio basso che aveva tutta l’aria di essere un garage o un’officina chiusa. Nikki scese dalla motocicletta, si guardò intorno con circospezione ed estrasse dalla tasca un mazzo di chiavi con le quali aprì una piccola porta di lamiera, a sua volta inserita in un portone più grande dipinto di un grigio-azzurro opaco. Lo seguii e mi ritrovai in un piccolo ingresso abbellito alla meglio con una pianta da interni sofferente e un tavolino con un paio di sedie. Un’altra porta, stavolta più spessa di quella principale, conduceva a una stanza enorme che scoprii essere la sala prove e il magazzino del gruppo. C’erano bauli ammucchiati ovunque, impilati senza criterio e molto pericolosamente, e più in là c’erano una batteria e, sul piedistallo e coperta da un telo nero, una chitarra o un basso. Nikki mi spiegò che era lì che a volte si trovavano per suonare, e che per questo motivo quel magazzino era diventato come una seconda casa. A prova di ciò che aveva appena detto, c’era anche un divano a quadri abbandonato in un angolo con tutti i cuscini ribaltati, un tavolino con dei posacenere e un plaid appallottolato.

“Opera di Tommy,” precisò mentre si affrettava a piegare la coperta. “Avrai modo di conoscerlo.”

Non ci tenevo molto a fare la conoscenza anche degli altri due, tuttavia sapevo che, se avessimo continuato a frequentarci, prima o poi sarebbe successo.

Nikki raggiunse a grandi passi un mobiletto privo di un’anta e ci infilò una mano dentro per prendere una bottiglia. “Vuoi qualcosa da bere? Dovremmo avere della birra da qualche parte.”

“Ho bisogno di qualcosa di leggero. Sei sicuro di non avere della soda o qualcosa di simile?”

“Che gusti noiosi!” mi apostrofò divertito, poi tornò a cacciare la mano nel mobiletto. “Forse posso trovarti una delle tisane che si prepara Vince quando ha mal di gola. Sai, a volte si sveglia la mattina mezzo afono e viene qui a lamentarsi con noi quando dovrebbe prendersela solo con se stesso. Non è colpa nostra se va a fare bagordi nei locali, sbraita fino alla mattina presto e poi torna a casa raffreddato.”

Completai la frase, divertita. “Allora si prepara una tisana emolliente.”

“Proprio così. Fanno una puzza insopportabile. Mi chiedo come faccia a scolarsi una tazza di infuso di non so quali erbe tutte le volte,” borbottò Nikki, poi estrasse una scatolina di cartone dal mobile, ci guardò dentro e la lanciò via fingendosi dispiaciuto. “Peccato, niente soda e niente tisane di merda.”

Sbuffai e mi lasciai cadere in un angolo del divano impolverato. “Non importa, morirò di sete.”

Nikki si stappò una Budweiser, ne bevve un sorso e mi porse la bottiglia che io, pur di non sentire più la gola secca, accettai. Si era seduto accanto a me e mi osservava mentre bevevo con una strana espressione furba stampata in faccia.

“Cosa c’è?” gli domandai all’improvviso, incuriosita dalla sua insistenza.

Scrollò le spalle. “Niente, stavo solo guardando. Ti dà fastidio?”

“No, ma ti sarei grata se lo facessi con meno insistenza.”

“Scusa,” rispose mentre si rimpossessava della sua bottiglia.

“Posso farti una domanda, Nikki?”

Annuì e allungò una gamba sul tavolino davanti al divano. “Spara.”

Non sapevo come avrebbe reagito ma sentivo che dovevo chiederglielo, così raccolsi tutto il mio coraggio e sparai. “Cosa ci fa una rockstar come te con una come me?”

Nikki fece una smorfia divertita e allo stesso tempo seccata. “Perché, tu come sei?”

“Una tizia qualunque che hai baciato in un posto carino sopra Hollywood.”

Non disse nulla e si limitò a sollevare appena le sopracciglia prima di parlare. “Quello non è un posto carino, almeno non per me.”

“Quello che mi domando è perché, con tutte quelle che hai intorno, sei venuto a cercare proprio me.”

“Ho intorno delle donne interessate al mio portafoglio e alla mia scorta di droghe, non delle amiche.”

“E tu baci le amiche così a caso?”

“Dio, Grace, per me non aveva un significato così profondo. Quando voglio fare una cosa la faccio, punto e basta.”

Buttai indietro la testa, esasperata. “Nemmeno per me, se è per questo, però perché ora sei qui con me?”

Nikki appoggiò la bottiglia sul pavimento con un gesto lento. “Perché mi piace stare con te. Chiacchieriamo, ci facciamo compagnia e guardiamo la tv. Sono cose normali che non riesco mai a fare con nessuno.”

“Sempre per la faccende del portafoglio e delle scorte di droga?”

Un angolo della bocca di Nikki schizzò in una specie di sorriso-lampo molto sarcastico. “Sì. È difficile trovare persone che provano emozioni genuine perché c’è sempre sotto qualcosa. Con te è diverso, e spero che anche a te faccia piacere chiacchierare con uno come me, anche se a volte sono un po’ noioso.”

Ghignai e gli rifilai un colpetto innocuo sulla spalla. “Sì, a volte sei un po’ noioso, ma hai anche delle storie interessanti da raccontare, tipo quella di Mick che viene arrestato al posto di Tommy da qualche parte durante il tour.”

Nikki non batté ciglio quando ricevette il colpo. “Allora ti va di restare qui con me? Possiamo guardare le chitarre di Mick e provare la batteria di Tommy. Ogni tanto lo faccio quando non ci sono, però non glielo dire, soprattutto a Mars.”

“Affare fatto, Nikki,” approvai, poi indicai la porta con un cenno del mento. “Pensa se entrasse qualcuno. Potrebbero pensare che io sia minorenne, come succede tutte le cazzo di volte che entro da qualche parte, e potrebbero arrestarti.”

“Però non lo sei, quindi non sto facendo né ho fatto niente di illegale,” precisò mantenendo la calma, poi si rivolse a me e mi puntò un dito sulla fronte. “E comunque, io non lo sono mai stato, legale.”

“Su questo non avevo dubbi, Sixx.”




N. d’A.: Salve a tutti!
Ebbene sì, questo è un capitolo importante per la storia... ma attenzione a non farsi troppi trip mentali, perché, ricordate, nulla è come sembra.
Spero che sia stato di vostro gradimento. =)
Grazie infinite a tutti quanti! Grazie! ♥
A mercoledì prossimo. Un bacione Glam,

Angie

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Capitolo 14
*** Nikki ***


14) NIKKI

Lo sapevo, io, che Grace si sarebbe montata la testa, ma nonostante questo me n’ero fregato e lei aveva finito col farsi mille viaggi mentali. Era vero che mi piaceva, ma solo come amica. Non ero uno dei suoi compagni dell’università con cui andare in giro manina nella manina, a sbaciucchiarsi quando a casa non c’era nessuno e a dire scemenze sdolcinate. Per la miseria, non ero uno di quelli che pongono fine all’idillio il giorno dopo, scatenando pianti, attacchi isterici e sceneggiate greche. Io della fidanzata non me ne sarei fatto niente, anzi, avevo a malapena la forza emotiva di avere a che fare con le tipe a caso che rimorchiavo alle feste a cui mi sforzavo di andare o nei backstage delle band che andavo a vedere. Ovviamente Grace era un’eccezione alla regola perché veniva a trovarmi spesso, un po’ come faceva Vanity, con la sola differenza che con lei potevo avere una conversazione normale. Adesso era seduta sul divano a guardarsi intorno, incuriosita da tutti gli strumenti della band e in particolar modo dalle chitarre di Mick. Avrei voluto fargliene provare una e vedere se le sarebbe piaciuto suonare con il volume al massimo, ma in quel momento cominciai a sentire i primi sintomi dell’astinenza. Ero riuscito a restare pulito per ben trenta ore, ma sembrava proprio che il mio corpo avesse di nuovo bisogno di una dose. Mi venne un gran mal di testa accompagnato da un prurito insopportabile e non riuscivo più a sopportare niente, nemmeno la voce di Grace che mi chiedeva se poteva provare la batteria. Tastai la pelle dura degli stivali per accertarmi che il mio armamentario fosse ancora lì nascosto e sospirai quando mi ricordai che la porta dell’ufficio si poteva chiudere a chiave. Si può fare, pensai.

“È un problema se prendo quella chitarra laggiù e la suono?” domandò Grace puntando un dito contro la Kramer con la stampa della cover di Theatre of Pain.

“Fai pure, però trattala bene,” mi raccomantai mentre mi alzavo in fretta e furia.

Grace mi guardò delusa. “Dove stai andando? Non resti qui a suonare con me?”

“Devo fare una telefonata importantissima nell’ufficio là in fondo,” buttai lì come scusa. “Temo che durerà a lungo. Oggi avrei dovuto chiamare questo tizio per il tour ma mi sono dimenticato. Visto che abbiamo una scadenza domani, sono anche abbastanza sicuro di prendermi una bella lavata di testa. Tu intanto suona e guardati pure intorno, però per favore non interrompermi mentre sono al telefono perché è veramente vitale.”

Grace restò immobile a guardarmi mentre correvo verso una porticina dall’altra parte del magazzino, poi la sentii dire che mi avrebbe aspettato mentre si alzava per andare a prendere la chitarra. Mi fiondai nell’ufficio, chiusi la porta a chiave e, ancora non contento, ci spostai contro una cassettiera di metallo, poi mi accucciai in un angolo della stanza e sfilai dagli stivali tutta la roba necessaria. Ci misi un attimo a preparare la mia dose – a forza di farlo, ero diventato esperto nel maneggiarla – e, mentre aspettavo che facesse effetto, ascoltavo Grace suonare la chitarra dall’altra parte del capannone. Stava provando a eseguire Louder Than Hell, una delle sue preferite, e suonò solo quella per tutto il tempo in cui rimasi barricato nell’ufficio a godere della botta che l’eroina mi aveva dato. Ero troppo su di giri per rendermi conto di quanto ci misi a fare quella che lei credeva fosse un’urgentissima telefonata di lavoro poi, finito il trip nel mio paradiso artificiale, raccolsi i residui che avevo lasciato in giro e li cacciai nel cestino sotto la scrivania, in bella vista come se fossero stati normalissimi fogli accartocciati gettati nella spazzatura. Spostai il cestino ancora più indietro con la punta del piede e uscii dalla stanza, barcollante e un po’ rintontito dalla piacevole batosta.

“Alla buon’ora, Nikki!” esclamò Grace sarcastica, interrompendo la canzone all’improvviso. “Avevo perso le speranze.”

Abbozzai un sorriso e mi lasciai cadere sul divano accanto a lei, stanco morto. “Invece sono qui. Tu, piuttosto, come va con la chitarra di Mars?”

Lucidò una parte dello strumento con la manica della camicia di jeans, soddisfatta. “È un’emozione unica poter suonare una delle canzoni che preferisco riuscendo a riprodurre alla perfezione gli effetti originali.”

“È merito dell’equipaggiamento di Mick.”

“Lo so, ma a casa devo arrangiarmi con quello che ho. È stato veramente bello, mi è sembrato di suonare meglio del solito,” raccontò mentre riponeva la chitarra sul tavolo. Si voltò poi verso di me e mi guardò attentamente, evidentemente insospettita dalla mia pessima cera. “Tutto bene? Sembri stanco.”

Sobbalzai e mi misi a sedere il più composto possibile, chiedendole perché avesse dubitato delle mie condizioni di salute. Lei rispose che le sembravo pallido e che avevo gli occhi lucidi come se mi stesse salendo la febbre.

“Sì, in effetti sono molto stanco. Oggi ho lavorato molto e aver avuto a che fare con quel promoter è stata la botta finale,” biascicai come scusa.

Grace si tornò a sedere sul divano e si tolse le scarpe, che allontanò con un calcio. “Vuoi dormire? Possiamo farlo, tanto qui ci stiamo tutti e due, poi ho già fatto le telefonate di dovere e ho inventato una buona scusa per stare fuori. Sai com’è, a casa si preoccupano per tutto.”

Annuii anche se, no, non lo sapevo. Non avevo avuto la fortuna di avere una madre e un padre che si preoccupassero per me quando scomparivo nel nulla. Anzi, erano loro a farlo per primi. L’unica che si fosse mai veramente preoccupata per me è stata mia nonna, ma finché avevo abitato con lei, non le avevo mai creato troppi problemi. Quando avevo vicino qualcuno che mi voleva bene e che ricambiavo, non sentivo il bisogno di scappare con gli amici fino a notte fonda.

Sospirai, ancora perso nei ricordi, poi mi ricordai che il telefono era sempre stato nell’ingresso, dove Grace lo aveva trovato, mentre nell’ufficio non c’era niente a parte una scrivania e qualche mobile che ci avevamo trovato dentro al momento dell’affitto. Forse se n’era anche accorta e stava facendo finta di non aver capito che la mia fosse una scusa.

Mi misi comodo anch’io, pensando che probabilmente in quel momento Vanity era già davanti alla porta di casa mia a gridare come un’ossessa perché non rispondevo, e lei era l’unico motivo per cui quella sera avevo preferito restare a Hollywood. Sapevo di averle promesso una serata insieme e avevo sperato che sarei riuscito a stare alla larga dalla droga se solo non ce l’avessi avuta intorno, invece avevo fallito. Intanto Grace si era accovacciata nell’angolo opposto del divano e si era stretta nella sua giacca di jeans, unendone i lembi con le mani.

“Non avrai intenzione di passare tutta la notte rintanata in un angolo?” esclamai. “Visto che siamo amici, o almeno così abbiamo detto prima, vieni più vicino.”

Grace strisciò sul divano finché non mi raggiunse, poi appoggiò la testa sulla mia spalla.

“Cos’è questo odore strano?” domandò con gli occhi già chiusi e la voce assonnata.

Mi domandai se per caso mi fosse schizzata della roba sui vestiti mentre mi preparavo la mia dose, e notai un’inconfondibile macchiolina sulla mia maglia proprio all’altezza del petto, vicino al viso di Grace. Lei non l’avrebbe mai riconosciuta e forse nemmeno vista, per cui decisi che non mi sarei preoccupato.

“Ogni tanto si sente qua dentro,” inventai mentre sentivo le palpebre diventare sempre più pesanti. “Forse è l’umidità, o la plastica dell’attrezzatura.”

Le cinsi le spalle con un braccio mentre stava già prendendo sonno, mi arrotolai una ciocca dei suoi capelli dorati intorno all’indice e pensai che in fondo potevamo veramente essere amici, e nessuno doveva azzardarsi a portarmela via. Volevo che stesse con me e in quel momento il mio cervello fottuto dallo schifo che mi ero appena calato decise avrei fatto il possibile affinché restassimo amici per sempre. Appoggiai la guancia contro la sua testa, accorgendomi che i suoi capelli profumavano di vaniglia, e anch’io mi addormentai nella solitudine del magazzino, con davanti le maschere di Theatre of Pain stampate sulla Kramer di Mick che mi guardavano e sembravano deridermi con le loro facce slavate e canzonatorie.

La mattina seguente fui il primo a svegliarmi, e non certo perché ne avevo voglia. A strapparmi dal sonno, l’unico sereno che avevo fatto nell’ultimo mese, fu il rumore di una chiave che girava nella toppa e delle voci familiari: attribuii immediatamente la prima, acuta e veloce, a Vince, mentre l’altra, più seria e pacata, non poteva appartenere a nessuno se non a Mick. Scossi dolcemente Grace per svegliarla, ma appena aprì gli occhi la porta del magazzino si spalancò con uno spiacevole suono metallico.

“...che poi nessuno ha chiesto il tuo parer– ehi, guarda, Mick, c’è Sixx!” esclamò il Vince, giulivo come se avesse appena scovato il suo gattino da sotto il letto.

Merda, pensai mordendomi il labbro inferiore mentre cercavo di pensare sul da farsi.

Riconobbi la sagoma non tanto alta di Mick entrare svogliatamente e chiedere dove fossi. Intanto Grace stava cominciando a rendersi conto della situazione e io mi irrigidii, determinato a non permettere loro di dirle nulla di spiacevole.

Vince mi chiese cosa ci facessi tutto solo nel capannone a quell’ora del mattino mentre passava in mezzo alle casse e agli scatoloni ammassati. Si avvicinava sempre di più e, appena arrivò davanti al divano, gli fu impossibile ignorare il fatto che non fossi da solo.

“C’è stato un festino, qui? Perché non mi hai invitato, razza di stronzo?” domandò maliziosamente indicando Grace. Lei aggrottò la fronte e si nascose dietro me, visibilmente infastidita dal comportamento di Vince, che chissà che razza di intenzioni aveva in testa.

“Non c’è stato nessun fottuto festino a cui non sei stato invitato,” sibilai. “Adesso porta fuori quel tuo bel culo prima che lo prenda a calci.”

“Ehi, datti una calmata!” esclamò Vince quasi ridendo, poi tornò a fissare Grace con il suo consueto sguardo da volpone. “Se ci tieni me ne vado, ma non prima di aver saputo il nome della tua amica.”

A quel punto, dopo varie imprecazioni la cui causa era sconosciuta a tutti, la testa arruffata di Mick Mars fece capolino da dietro una pila di scatoloni vuoti. I suoi occhi glaciali, dapprima socchiusi per la stanchezza e da una probabile sbronza presa durante la notte, si spalancarono all’unisono con quelli dei Grace.

“Tu...” ringhiò rivolto a me, il dito teso al massimo per accusarmi. “Come hai potuto farlo?”

“Guarda che non è come pensi,” mi difesi.

Vince guardò prima me poi Mick, evidentemente confuso. “Eh?”

Mick raccolse la chitarra con estrema delicatezza e la sistemò sul piedistallo. “Riportala subito a casa e vedi di lasciarla in pace. Sei pieno di ragazze e puoi averne quante di pare, perché devi importunare proprio lei?”

“Guarda che non mi ha importunata!” saltò su Grace.

“Eh?” continuò Vince, sempre più confuso, finché non esplose. “Qualcuno vuole dirmi cosa sta succedendo? Voglio sapere chi è questa ragazza, cosa c’entra con voi, e qual è il problema se adesso si trova seduta accanto a Sixx.”

Mick prese in mano la situazione e, prima che potessi anche solo mettere insieme le parole per rispondere, sbottò e spiegò che era una che aveva incontrato davanti al cancello della mia villa e che aveva dovuto riportare a casa perché pretendeva di vedermi nel momento stesso in cui lui avrebbe dovuto vedere me. Ovviamente a Vince non fregava niente del motivo per cui Grace si trovava nel nostro magazzino insieme a me e cambiò argomento, ricordandomi che dovevo recarmi immediatamente allo studio di registrazione per una riunione con Doc, possibilmente senza fare storie. Risposi che avrei dovuto prima accompagnare Grace a casa e nella mia mente aggiunsi anche che dovevo fare un salto alla mia villa per fare approvvigionamento di roba, senza la quale non sarei stato in grado di affrontare l’ennesima discussione in cui il nostro manager ci faceva le solite paternali. Vince sbottò e cominciò a ripetere che ero troppo in ritardo per farlo, ma ci volle la calma di Mick per convincermi ad andare agli studi mentre uno di loro avrebbe riportato Grace a casa. Mi accompagnò pazientemente fino alla motocicletta parcheggiata in cortile e mi disse, senza alcun giro di parole, che quella ragazza non meritava che uno stronzo come me le spezzasse il cuore con lo stesso tono di un fratello maggiore che vuole difendere la propria sorella. Non gli diedi ascolto e schizzai via rombando. Nessuno doveva permettersi di dirmi cosa dovevo fare, soprattutto adesso.




N. d’A.: Ebbene, Angie Mars colpisce con un giorno d’anticipo dal momento che sa già che per un bel po’ non riuscirà ad accedere...
Visto che anche Vince ha preso del tutto parte alla storia? Ci manca solo Tommy, ma è questione di pochi capitoli. Ad ogni modo, spero che questo sia stato di vostro gradimento.
Ci si legge mercoledì prossimo, che è anche il compleanno del caro Sixx. Ho qualcosina in serbo anche per questo avvenimento, purtroppo per voi. ;)
See ya!

Angie

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Capitolo 15
*** Grace ***


15) GRACE

Quel tizio con i capelli biondo pulcino non la piantava di squadrarmi dalla testa ai piedi, e più lo faceva, più il suo sorriso astuto si allargava sul suo viso abbronzato. Non appena Mick e Nikki si furono allontanati, cominciò a osservarmi con insistenza mentre mi allacciavo le scarpe, poi si avvicinò tenendo le braccia conserte e assunse un atteggiamento ancora più sfacciato.

“Come ti chiami?” mi domandò fissandomi con gli occhi nocciola e con quel sorrisetto furbo che la raccontava lunga sul suo conto.

“Grace, piacere di conoscerti,” risposi con sufficienza e senza nemmeno guardarlo in faccia.

“Bel nome! Be’, io credo di non aver bisogno di presentazioni.”

Sollevai lentamente lo sguardo cercando di farlo il più truce possibile e mentii. “Credo di sì. Non ho idea di chi tu sia.”

Vince sobbalzò e, per quel che ne sapevo, avrebbe anche potuto pestare i piedi. “Sei seria? Esci col bassista del mio gruppo e non sai chi sono?”

“No,” continuai da brava finta innocente. Vedergli fumare il cervello in quel modo era fottutamente divertente oltre che sadico.

Si grattò la chioma folta e si sedette accanto a me. “Se le cose sono veramente così allora piacere, sono Vince Neil, il cantante del gruppo e–”

“E principale attrazione,” lo interruppi fingendo una voce acuta e petulante.

Vince si sentì lusingato e si inorgoglì ulteriormente, anche se non era quello l’effetto che avevo sperato di creare. “Stavo per dire che sono il frontman, ma anche quello che hai detto tu è assolutamente giusto.”

“Ma fottiti...” borbottai scuotendo il capo di fronte a tutta quelle arie che si dava.

Vince non ebbe il tempo per ribattere perché Mick mi chiamò dal fondo del magazzino. “Datti una mossa, ragazzina. Ti riporto a casa io. E non dire a Vince queste cose, ché potrebbe prenderle per un buon augurio.”

“Avanti, Mars, non fare l’invidioso,” si difese il cantante senza essere minimamente considerato dall’altro, che uscì bofonchiando parole incomprensibili.

Raccolsi la mia borsa dal pavimento e mi diressi verso la porta con dietro Vince che stava ben attento a non perdermi di vista o, per dirla tutta, per non perdere di vista il mio fondoschiena. Ebbe addirittura il coraggio di invitarmi a una festa in un locale di Hollywood a cui sarebbe andato la settimana successiva ma gli risposi che non ero una groupie, facendo attenzione a farmi sentire bene da Mick, che si voltò all’istante e folgorò l’altro con un’occhiataccia.

“È ora di andare via da qui,” mi disse mentre apriva la portiera della sua Corvette rossa.

Quando anche Vince fece per tirare la maniglia, si accorse che era stata bloccata dall’interno. “Che ne dici di aprirmi, Mars?”

Mick lo fissava da dietro il vetro, impassibile. “Tu resti giù, ci penso io a lei. Tornatene pure agli studi.”

“A piedi?” ripeté Vince incredulo. Ci mancò poco che si mettesse a piagnucolare. “Ma sono lontani!”

“Se non vuoi aspettarmi qui, puoi sempre farti una sana passeggiata,” gli rispose Mick mentre metteva in moto, poi lo guardò per l’ultima volta da sopra gli occhiali da sole. “Altrimenti fa’ il bravo, non scappare dal cortile e non abbaiare.”

Vince disse qualcosa in sua difesa mentre stavamo già partendo e purtroppo non riuscii a sentirlo, in compenso lo vidi accasciarsi sconsolato contro il muro, da bravo cucciolo che guarda il padrone allontanarsi, e accendersi una paglia. Una volta fuori dal cortile, tornai a chinare lo sguardo, accorgendomi che avevo le scarpe ancora sporche di fango secco e polvere dalla sera precedente. Abbassai il vetro del finestrino e ci appoggiai sopra un piede, incrociando le braccia.

“Che diamine stai facendo?” indagò Mick, perplesso.

“Abbiamo davanti un lungo viaggio e la tua Corvette del Pleistocene Superiore non merita di essere insudiciata dalle mie scarpe infangate,” risposi imitando il tono di voce che il chitarrista aveva assunto il giorno prima.

“Tira dentro quella gamba,” mi ordinò tutto d’un fiato mentre guidava con la testa insaccata nelle spalle, temendo che qualcuno sul Sunset lo riconoscesse. Se non si fossero accorti che era lui dal tizio che guidava l’auto, avrebbero sicuramente riconosciuto la Corvette rossa, a mio parere certamente più vistosa di un paio di gambe appoggiate al finestrino aperto. Dopo un po’, mentre eravamo fermi a un incrocio fuori Hollywood, Mick aprì la capote dell’auto.

“Poi la mia auto è del ’76,” mi corresse. “Mi chiedo come faccia Sixx a stare con una come te.”

“Perché, cos’ho che non va?”

Mick fece spallucce e accese una sigaretta. “Hai sempre qualcosa da ridire su tutto. Ne vuoi una?”

“Non mi va,” risposi acida, volgendo lo sguardo da un’altra parte.

Mick cacciò il pacchetto in un portaoggetti sotto la leva del cambio e proseguimmo dritto fino a Van Nuys senza dirci una parola, fatta eccezione per qualche melodia a me del tutto sconosciuta che ogni tanto prendeva a canticchiare. Mi feci scaricare nel solito parcheggio nella zona residenziale in cui abitavo e, prima di scendere, ringraziai Mick per il secondo passaggio. Lui fece la sua risata strana e inquietante. “Figurati, bella. Se domattina vuoi che venga da Hollywood per accompagnarti a lezione basta una telefonata.”

“Non farmi venire strane idee perché potresti veramente ricevere una chiamata alle sette e mezza del mattino, e le mie scarpe saranno appositamente sporche di fango, polvere e qualsiasi altra cosa possa insozzarti i tappetini della Corvette,” ribattei acida.

Mick si lasciò sfuggire un sorriso ma tornò subito serio come se si fosse accorto che sorridere era sbagliato, poi appoggiò un gomito sul volante e mi fece cenno di avvicinarmi. “Senti, forse ieri non sono stato abbastanza chiaro. Fai attenzione con Nikki.”

Alzai gli occhi al cielo. “Ancora con questa storia? Non hai di che preoccuparti, perché siamo amici e basta.”

“Ho capito, però continuo a stare in pensiero lo stesso per entrambi,” confessò incupito, ma un attimo dopo stava già ridendo alla sua folle maniera. “A proposito, almeno al magazzino vi siete divertiti?”

“Posso dire di aver dormito bene,” risposi con estrema calma.

“Perfetto. Allora a mai più, ragazzina!”

E guizzò via a bordo della sua macchina rossa. Lo guardai correre fino in fondo alla strada, inchiodare e ripartire, e sentii lo stridio degli pneumatici alla curva successiva. Mi avviai verso casa, pensando a quanto fosse strano quell’individuo, e proprio dopo aver girato l’angolo incontrai l’unica persona che poteva avermi fatto la posta in quel luogo, ovvero Elisabeth. L’unica differenza dal giorno precedente era che non me la ritrovai davanti con i pugni stretti e gli occhi iniettati di rabbia, ma se ne stava seduta sul muretto, mogia come non l’avevo mai vista. Sobbalzò quando si accorse della mia presenza e si scusò per non avermi notata subito.

“Qualcosa non va Beth? Sei strana,” le domandai mentre la osservavo starsene immobile a guardare un punto indefinito davanti a lei.

“Sì, cioè... sono un po’ confusa,” disse con tono piatto. “Sono in crisi con Grant da un paio di giorni. Molto in crisi.”

Strabuzzai gli occhi. Come potevano essere in crisi proprio loro, che a mio avviso erano la coppia perfetta? Quando glielo chiesi non seppe darmi una risposta e si limitò a dire che insieme non stavano più bene come prima, e che secondo lei era giunta l’ora di farla finita.

“Poi ieri sera ho conosciuto un tipo,” raccontò sottovoce e senza più piangere – e finalmente si spiegava quasi tutto. La sera precedente, infatti, era uscita con una nostra amica, e io avevo detto a mia madre che sarei andata con loro.

“E con Grant?” non mi andava a genio che prendesse e mollasse il mio migliore amico, ma non potevo nemmeno immischiarmi troppo nei loro affari sentimentali.

Elisabeth si dondolò mentre pensava. “Credo che sia giunta l’ora di chiudere, anzi, forse lo abbiamo già fatto. Lui ha bisogno di un’altra che non sia come me e viceversa. Avrò un bel ricordo dei nostri giorni passati insieme.”

“Spero che non l’abbia presa troppo male,” esclamai, già pronta a telefonargli non appena fossi tornata a casa.

Beth fece spallucce. “Ci è rimasto male come ci sono rimasta io, ma non ci metterà molto a trovare un’altra.”

“Lo so, è un bel ragazzo e sicuramente non sarà un’impresa difficile,” dissi, poi mi ricordai di un’altra cosa importante da chiedere. “Cosa dicevi a proposito del tipo di ieri sera?”

Elisabeth mi afferrò per un polso e mi costrinse a sedermi accanto a lei per parlare ancora più piano. Si guardò intorno con fare sospettoso poi mi cinse le spalle con un braccio. “Ieri sono stata a Hollywood con Anne del corso di portoghese e siamo andate a fare quattro salti al Whisky a Go-Go, ovviamente all’insaputa di mia madre. Anne conosceva una delle ragazze della band che ha aperto, così ci siamo fatte un giro nel backstage. Là ho incontrato questo ragazzo che ha insistito per offrirmi da bere, e abbiamo chiacchierato a lungo. Mi ha detto che se sabato prossimo tornerò al Whisky ci sarà anche lui.”

Soffocai una risata portandomi una mano sulle labbra. “Porca miseria, Beth, ti sei appena lasciata e hai già trovato qualcun altro? Raccontami di lui. Almeno è bello?”

Elisabeth annuì soddisfatta e con l’aria sognante degna di una dodicenne innamorata. “Molto. Se sabato vieni con me al Whisky, te lo faccio vedere. Ieri l’ho visto bazzicare con dei ragazzi carini, e magari ne possiamo conoscere un po’.”

“Non vorrei fare da terzo incomodo.”

“Non accadrà, te lo prometto. Poi non posso di certo andarci da sola.”

Se c’è una cosa a cui non ho mai saputo resistere sono proprio gli occhi dolci di Beth, ai quali quella volta aggiunse anche un sorriso sfavillante.

“D’accordo, sarò il tuo terzo incomodo, ma ti avverto subito che se dovessi sentirmi di troppo me ne andrò,” misi in chiaro.

Beth esultò e mi saltò al collo per stringermi in un abbraccio affettuoso. “Grazie, ti devo un favore!”

Afferrai l’occasione al volo. “Mi basta che tu non dica a nessuno che mi hai vista scendere dalla macchina di quel tipo che, per la cronaca, è un collega del ragazzo della Villa ed è molto preoccupato per le sue condizioni.”

Beth fece un sospiro di sollievo. “Quindi mi assicuri che è una brava persona?”

“Non è uno stinco di santo, ma credo che sotto ci sia del buono,” risposi con un sospiro, poi aggiunsi. “Suona in una band con i controcoglioni, ma non credo che sia uno stronzo.”

Beth si alzò dal muretto con un salto e si stiracchiò, poi mi fece cenno di seguirla. “Cosa c’entra che suona in una band? Anche il ragazzo di ieri sera ha detto du avere un gruppo ed è un po’ strano. Non so nemmeno se sabato lo troverò per davvero. Probabilmente ha parlato solo per dare aria ai denti e quando lo vedrò avrà già rimorchiato un’altra, ma tentar non nuoce. Ma al di là del tipo, ho proprio bisogno di un’altra serata al Whisky.”




N. d’A.: Buonasera!
Elisabeth e le sue lagne tornano a colpire, ma sta già cambiando idea. A voi i film mentali!
Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento!
Prima di salutarvi, però, è bene che scriva un ultimo appunto: AUGURI SIXX!!
Quel vecchio... :’) Ho anche una cosuccia per lui, ma quella è tutta un’altra storia.
Grazie di tutto e a mercoledì prossimo!

Angie

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Capitolo 16
*** Grace ***


16) GRACE

Quando Elisabeth e io andavamo in giro insieme sembravamo sorelle, e puntualmente lei veniva scambiata per quella maggiore. Era alta, slanciata, e aveva stile. Nonostante fossimo coetanee, lei dimostrava almeno cinque o sei anni in più mentre io, bassa e perennemente in jeans e scarpe da ginnastica, passavo per la sorella minore che era costretta a tirarsi dietro ovunque per non lasciarla a casa da sola. Anche se quella sera mi ero agghindata a dovere, pronta a solcare il Sunset Strip insieme a lei, con le calze a rete e i tacchi, sembravo sempre la sorella più piccola, tanto che la gente che ci fermava aveva la faccia tosta di chiederle se nostra madre sapeva che mi aveva portata con sé in giro per i locali.

Il Whisky a Go-Go, uno dei locali più in voga di West Hollywood, era gremito di gente e il pubblico stava cominciando ad accalcarsi sotto il palco, sul quale avrebbero presto suonato i Guns N’ Roses. Avrei preferito buttarmi in mezzo alla mischia e andare fuori di testa con gli assolo di Slash, ma Elisabeth mi costrinse ad appollaiarmi su uno degli sgabelli nello stesso punto del bancone al quale aveva bevuto insieme al tipo qualche sera prima, ancora convinta che lo avrebbe rivisto.

“Dovrebbe essere qui da qualche parte,” disse mentre si guardava intorno speranzosa, poi sembrò tornare con i piedi per terra per un istante. “Sempre ammesso che sia venuto.”

“Se non dovesse esserci?” domandai.

Beth fece spallucce. “Peggio per lui. Ci guarderemo quelli che suonano.”

Trascorse mezz’ora prima dell’inizio del live e per tutto il tempo fui costretta ad ascoltare Beth che mi ripeteva a macchinetta la fisionomia del ragazzo affinché potessi darle una mano a scorgerlo. Avrei voluto aiutarla con tutta me stessa, ma la descrizione “alto, magro, castano e con i capelli ricci” corrispondeva a troppe persone lì dentro.

A un certo punto indicai il palco, fingendo di aver avuto l’illuminazione. “Ce l’ho! È il chitarrista?”

Elisabeth sbuffò. “Più alto, castano e non così riccio.”

Era già qualche dettaglio in più. Tornai quindi ad appoggiare il gomito sul bancone e a sorseggiare il mio drink, rassegnata al fatto che questo fantomatico ragazzo non sarebbe mai arrivato e, soprattutto, rassegnata al fatto che quella era una serata persa ad aspettare un cascamorto qualunque anziché a divertirsi. Stava per perdere le speranze anche Beth quando la vidi schizzare in piedi, gli occhi che le brillavano e un astuto sorriso scarlatto che partiva da un orecchio e arrivava fino all’altro. Cominciò a darmi dei colpetti sul braccio per annunciarmi l’arrivo del tanto atteso tipo e io, non appena girai il capo per guardare che faccia avesse questo tizio, trasalii. Mi aspettavo di tutto, ma non lui. Non Tommy Lee.

Lo guardammo entrare e prendersi le pacche amichevoli di tutti quelli che lo conoscevano, poi ci notò nel momento in cui smise di parlare con una ragazza che lo aveva fermato. Nonostante la tipa stesse ancora parlando, Tommy se ne sbarazzò con un gesto veloce e si avvicinò a noi sfoggiando un meraviglioso sorriso soddisfatto, poi si fermò accanto a Elisabeth, stupito che fosse veramente lì. “Guarda un po’ chi c’è! Sei qui anche stasera, dolcezza?”

Beth cominciò ad arricciarsi una ciocca di capelli e ad ammiccare, assumendo un tono smielato. “Sei stato tu a chiedermi se sarei tornata, ricordi?”

Tommy si prese un po’ di tempo per ritornare al sabato sera della settimana precedente poi annuì, fingendo palesemente di ricordare tutto. “Sì, sì, certo! Sei l’ultima tipa con cui ho parlato.”

E non voleva lasciare l’opera incompiuta, pensai alzando gli occhi al cielo. Se fossi stata in Elisabeth, vista la situazione e modestamente parlando, mi sarei sbrigata ad approfittarmene.

“Lei è Grace, una mia amica. Siamo venute qui insieme per divertirci, ma non mi aspettavo di trovarti per davvero.”

Tommy si sedette su uno degli sgabelli del bancone e sogghignò quando si accorse che, nonostante il tacco non indifferente delle scarpe, non toccavo nemmeno il poggiapiedi. Mi sentivo una bambola appoggiata su uno scaffale della cameretta di una mocciosa.

“Non preoccuparti,” mi disse poi strizzando l’occhio. “Non resterai da sola perché anch’io ho portato un amico.”

Urlò qualcosa nella confusione generale e fece un gestaccio a qualcuno poi, tra il fumo che si addensava sempre di più contro il soffitto scorsi, in tutto il suo scintillio e in tutta la sua strafottenza, niente meno che Vince Neil. Quest’ultimo avanzò altezzosamente e squadrando Elisabeth dalla testa ai piedi con il suo sguardo killer che, anziché farmi cadere ai suoi piedi, mi fece innervosire. Nonostante ciò, devo ammettere di aver visto mille altri occhi schizzare fuori dalle teste cotonate delle ragazze e rotolare sul pavimento come biglie mentre si avvicinava al bancone con la sua camminata spavalda.

“Chi è questa bella ragazza, T-Bone?” domandò a Tommy e da appoggiato al bancone.

“Piacere, Elisabeth. Sai che credo di averti già visto da qualche parte?” cinguettò la mia amica mentre scendeva dallo sgabello, facendo ben attenzione che la gonna si scostasse un po’ più del dovuto. In questo modo lasciò libera la visuale dello sgabello dietro il suo e l’espressione di Vince diventò improvvisamente sorpresa. Non sapendo come comportarmi, mi limitai a salutarlo con un cenno della mano e un sorriso molto vago. Vince sembrava così sconvolto che non ricambiò neanche il saluto di Beth, né le fece notare che sì, probabilmente lo aveva visto su qualche rivista o sulla copertina di uno dei dischi del suo ex fidanzato.

Tu?” domandò Vince incredulo, poi diede uno schiaffo sul braccio di Tommy per attirare la sua attenzione. “Lo sai che questa è la ragazza che l’altra mattina abbiamo trovato in magazzino in compagnia di Sixx?”

Notai che Elisabeth aggrottò la fronte come se stesse cercando di ragionare più in fretta nonostante il drink, e a giudicare dall’espressione stupita che fece poco dopo, capii che stava cominciando a mettere insieme i pezzi del puzzle. Tommy, invece, strabuzzò gli occhi e ci mancò poco che si strozzasse con un sorso di Jack e Cola. “Sei davvero la tipa rompicoglioni di cui mi parlava Mick? Quella che ha dovuto portare a casa per ben due volte?”

“In persona,” confermai sarcastica. “Però ti assicuro che non sapevo che Beth ti conoscesse, perché se l’avessi saputo non sarei venuta.”

“Li conosci?” saltò su Beth, incurante del tono stridulo che le era uscito.

“Be’, certo che lo conosco!” esclamai puntando il dito verso Vince. “Sono nella stessa band di Nikki Sixx, quello che abita a Van Nuys.”

Beth spalancò gli occhi e fissò Tommy come se l’avesse appena insultata pesantemente e sono sicura che se avesse potuto, gli avrebbe dato un ceffone. “Grace sta scherzando, vero? Perché non me l’hai detto?”

La risposta che Tommy avrebbe voluto e dovuto darle era più che nota a tutti, però si limitò a grattarsi la nuca e a sorridere in modo imbarazzato. “Veramente te l’ho detto che ho una band, ma tu non mi hai chiesto come ci chiamiamo, allora ho pensato che avessi capito chi fossi. In foto sono veramente così diverso dalla realtà?”

Vince, che era stato zitto fino ad ora, sogghignò indicando l’amico. “In foto sembra più bello, non è vero?”

Tommy lo zittì con una gomitata pesante e gli piazzò un braccio intorno alle spalle, pronto a stritolarlo se avesse fatto un’altra delle sue uscite idiote. “Senti, Elisabeth, possiamo offrirvi un drink anche se siamo più belli dal vivo?”

Beth sfarfallò le sopracciglia. “Figurati! In realtà Grace, qui, è una vostra fan, ma credo lo sappiate già.”

“Allora ti dispiace se ordino qualcosa per te?” domandò Tommy gongolate, poi fece subito un cenno al barista non appena Elisabeth annuì. “Ehi, due mojito con tanta menta!”

Elisabeth si spostò su uno sgabello libero vicino a Tommy, e iniziarono a parlare fitto prima ancora che i drink fossero pronti. Dato che la troppa confusione e la distanza mi impedivano di partecipare alla conversazione, mi voltai dall’altra parte, sperando di vedere qualcosa di più interessante, ma mi ritrovai faccia a faccia con Vince e feci roteare gli occhi. “Che palle di serata!”

Vince scoppiò a ridere e ordinò due Coca e Malibu. “Lo sai che sei divertente?”

“Non ci siamo mai parlati, ma va bene,” bofonchiai atona.

“Oltre che bella, ovviamente,” aggiunse cambiando il suo tono di voce divertito in uno più serio e grave. “A quanto pare, Sixx è molto più furbo di quanto pensassi.”

“Non abbiamo fatto niente, ficcatelo in testa,” precisai seccata. “È tutto un viaggio mentale tuo e di Mars, e ve ne sarei grata se la piantaste.”

Vince alzò le mani in segno di resa. “E va bene, come vuoi. Adesso però lasciamo perdere Nikki e Mars e pensiamo piuttosto a far passare questa serata.”

Mi voltai alla ricerca di Elisabeth, la cui presenza mi rassicurava, ma non era più lì e non c’era neanche Tommy. Sembrava che il fumo stagnante del Whisky li avesse inghiottiti e la massa di persone che saltava a ritmo della musica mi impediva di scorgerli.

“Allora?” disse Vince non appena tornai a girarmi verso di lui. “Se non vuoi bere il drink, ci penso io.”

Sollevai il bicchiere dal ripiano di marmo nero del bancone e lo rigirai tra le dita, osservando il liquido al suo interno. “Non ha un aspetto invitante, sai? Sembra allungato con l’acqua.”

“Sono Vince Neil. Nessuno si permetterebbe mai di vendermi un drink annacquato,” precisò austero, poi butto giù tutto d’un fiato il contenuto del suo. Scossi il capo di fronte alla sua ennesima manifestazione di grandezza e lui sghignazzò di nuovo in quel suo modo sfacciato che mi faceva innervosire: sembrava che fosse sempre pronto a prendermi in giro.

“Non vuoi nemmeno assaggiarlo?” mi esortò.

Bevvi un sorso di quella robaccia solo per farlo contento e constatai che in fin dei conti non era poi così male ma, dal momento che non ero solita consumare quel genere di drink molto spesso, ci impiegai cinque minuti buoni per svuotare metà del bicchiere nonostante fosse piuttosto leggero.

“Scusa, vado un attimo in bagno,” dissi mentre scendevo dallo sgabello.

Vince sollevò lo sguardo dalle mani e annuì con fare annoiato. “Ti aspetto qui, tanto questa serata sta andando di merda.”

“A chi lo dici!” esclamai stizzita mentre mi allontanavo, incespicando nei tacchi per la fretta. Andai fino ai servizi cercando di reprimere il nervosismo e continuando a darmi dell’idiota. Sapevo che se quel tipo che Elisabeth sperava di vedere fosse arrivato lei mi avrebbe lasciata da sola, così come sapevo che avrei ricoperto il ruolo del terzo incomodo, eppure l’avevo accompagnata, e per giunta mi ero ritrovata in compagnia di quel rompiscatole di Vince Neil che aveva in testa una sola cosa che doveva ottenere a tutti i costi, obbligatoriamente da me, nonostante quel locale fosse pieno di ragazze. Il perché lo sapeva solo lui.

Aprii la porta del bagno con uno spintone e mi fermai sotto la finestra aperta per prendere un po’ d’aria, poi cercai una toilette che non fosse occupata. Afferrai con forza la maniglia dell’unica porta che non era stata chiusa a chiave e spinsi con forza, accorgendomi solo in seguito che qualcosa mi impediva di farlo fino in fondo. Mi fu sufficiente aprirla solo fino a metà per vedere che dietro di essa, in piedi su una poltiglia di carta igienica e appoggiata alla parete sudicia e ricoperta di disegni osceni, Elisabeth mi guardava con un’espressione a metà tra il sorpreso e l’imbarazzato, rossa in viso e avvinghiata a Tommy Lee, il quale, sebbene qualcuno avesse appena aperto la porta, aveva tranquillamente continuato a far scivolare la mano sotto la gonna di Beth fino ad afferrare l’elastico dei collant. In una frazione di secondo pensai a quanto schifo mi facesse vederla chiusa in quel cesso del Whisky col primo che passava, e a quanto mi avesse criticata perché frequentavo persone a sua detta poco raccomandabili per poi finire con una di loro in quella dannata toilette.

“Grace...” tentò di giustificarsi con la voce rotta dalla vergogna, come se mi avesse appena letto nel pensiero.

“Non ti preoccupare, non importa!” mormorai piena di imbarazzo e indietreggiando lentamente finché non urtai il bordo umido di un lavandino. “Scusate, non volevo interrompervi, non vi stavo neanche cercando. Me ne vado all’istante.”

Corsi fuori dal bagno senza preoccuparmi di richiudere la porta dietro la quale si erano rintanati. Ero così imbarazzata e infastidita che avrei potuto saltare al collo di chiunque per sfogare il nervosismo prendendolo a pugni, e fu una vera fatica non mettermi a urlare mentre raggiungevo lo sgabello sulla quale Elisabeth mi aveva parcheggiata a inizio serata, forse con l’intenzione di venirmi a riprendere dopo aver sbrigato i suoi comodi con quello che avevamo poi scoperto essere Tommy.

Vince mi guardò di sbieco mentre lo raggiungevo a passo spedito, con i pugni serrati lungo i fianchi e gli occhi spalancati come se avessi appena visto un’attività paranormale. “Tutto okay, dolcezza?”

Battei pesantemente una mano sul bancone per sfogare la tensione, ma il chiasso del locale lo sovrastò senza fatica, poi fissai Vince dritto negli occhi e gli dissi che volevo andare a casa. Lui sbuffò per tutta la risposta. “Tu non mi stai rovinando la serata, oh, no! Tu mi stai peggiorando una serata già pessima, perché io con Tommy non ci volevo neanche uscire, stasera.”

“Non me ne frega un cazzo di come credi che sia questa serata. Voglio andare a casa e tu mi ci porti subito,” ripetei a pochi centimetri dal suo viso. Mi sentivo decisamente di troppo.

Vince scese dallo sgabello con calma estenuante e si stiracchiò, poi mi circondò le spalle con un braccio per condurmi all’uscita.

“Non mi toccare,” sibilai acida sottraendomi al contatto.

“Cos’è successo? Non eri così fino a cinque minuti fa,” sbottò Vince. “In bagno hai incontrato quella compagna del liceo che odiavi tanto e adesso sei incazzata perché siete nello stesso locale a respirare la stessa aria?”

Mi fermai all’improvviso costringendolo a fare lo stesso. “Ho trovato Elisabeth con il tuo amico.”

“Ah, volevi fartelo tu?” domandò mentre mi trascinava verso un’uscita secondaria. “Prima Nikki poi Tommy? Devo ammettere che non sei molto furba. Hai davanti me e, anziché approfittarne, mi stai trattando come se ti facessi schifo.”

“Non mi fai schifo, ma se non fossi così irritante potrei anche pensarci su,” ribattei. “A ogni modo, se fossi in te non ci conterei troppo. Anzi, non ci conterei proprio.”




N. d’A.: Ciao a tutti! =D
Innanzitutto, mi scuso per il ritardo, ma sono stata trattenuta da cause di forza maggiore... spero che questo capitolo, di nuovo narrato da Grace, sia stato di vostro gradimento – è anche arrivato Tommy! In una maniera un po’ turbolenta e in perfetto stile Crüe, ma è arrivato!
Il prossimo capitolo arriverà a gennaio dal momento che, come ho già scritto nell’aggiornamento di quello precedente, mi prendo le vacanze di Natale per revisionare il racconto e aggiustarlo un po’. Per ora vi anticipo che ci sarà un narratore d’eccezione!
Grazie a tutti quanti coloro che recensiscono e leggono! Siete mitici! ♥
Per concludere, vi auguro un Buon Natale, un Felice Anno Nuovo e di trascorrere delle buone vacanze!

Angie

P.S. Beccatevi anche la cartolina di Natale che ho trovato l’altro giorno!

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Capitolo 17
*** Vince ***


17) VINCE

Mi chiedevo chi me l’avesse fatto fare di portare a casa quella ragazza. Avrei potuto dirle di arrangiarsi e aspettare che la sua amica finisse il suo trip sulle stelle con Tommy, o di prendere un taxi, invece l’avevo caricata in macchina e mi ero offerto di darle uno strappo fino a casa. L’avevo fatta salire sulla mia auto nuova di zecca, lucida e con le rifiniture dei sedili di stoffa leopardata e quella cos’ha fatto? Si è seduta e ha cominciato a guardare fuori dal finestrino, assorta nei suoi pensieri. Chiunque avrebbe provato ad attaccare discorso con me, invece lei faceva finta che non ci fossi. Per un attimo pensai che si trattasse di semplice e innocente timidezza, poi mi ricredetti quando mi ricordai che quella era la stessa tipa che era entrata in casa di Nikki scavalcando il muro. Le credevo quando mi diceva che tra loro non c’era niente, però era troppo divertente insinuare che se la facessero solo per farla arrabbiare.

Il Sunset era gremito di gente che sbraitava e correva a tutta velocità sulle motociclette. Molti ci superavano e, appena ci passavano davanti, ci si poteva accorgere che nei cassoni dei pick-up si erano stipati anche sei o sette ragazzi alla volta, tutti urlanti e flippati, pronti a spostarsi in un altro locale per sbronzarsi. Accesi la radio per non sentire più gli schiamazzi e farmi venire la nostalgia delle altre serate passate a fare lo stesso – ah, i vecchi tempi!

“Lascia questa canzone,” saltò su Grace. “E alza il volume.”

“Ti piacciono i Van Halen?” le chiesi mentre premevo il tasto del volume. Un attimo dopo le note di I’ll Wait riempirono l’auto e lei cominciò a far dondolare la testa da una parte all’altra. Lo presi come un sì.

Accelerai appena ebbi superato il tratto dello Strip e decisi che era ora che quella ragazza parlasse un po’. Non potevo sopportare di averla in macchina con me, intenta a guardare le luci al neon delle insegne come se fossero state visioni celesti. Erano tutte uguali – tutte verdi, rosa o blu, che lampeggiavano ininterrottamente riflettendosi sull’asfalto sudicio, sulle vetrate e sui vestiti luccicanti dei passanti festaioli.

“Così anche a te piacciono i Van Halen,” dichiarai. “E di noi cosa pensi?”

“Che facciate schifo,” rispose continuando a guardare fuori, poi si voltò all’improvviso e mi scoppiò a ridere in faccia. “Non è vero, sto scherzando. Siete veramente forti.”

“Figo.”

“Non sono mai stata una vostra fan, poi Nikki mi ha suggerito alcuni titoli e può essere che mi stia convertendo. Sto addirittura imparando a suonare Louder Than Hell, ma Mick Mars è troppo bravo per essere eguagliato persino da un esperto, figurati da me!” esclamò.

Annuii soddisfatto e le domandai a che punto fosse arrivata con il suo studio.

“All’assolo. Se avessi un po’ più di tempo per studiarlo potrei impararlo tutto,” raccontò con una punta di rabbia nelle sue parole, poi si addolcì quando aggiunse che Nikki la stava aiutando nella sua impresa musicale.

Agitai una mano in modo confuso come per scacciare una mosca che mi ronzava intorno alla testa. “Possiamo lasciare Sixx fuori dai nostri discorsi? Ne ho abbastanza di lui.”

Domandò il motivo per cui parlassi così di quello che doveva essere mio amico e notai che quando chiedeva il perché di qualcosa assumeva subito un’espressione arrogante.

“Sta già combinando abbastanza casini,” risposi prima di voltare verso Van Nuys. “Fa sempre di testa sua, specialmente mentre si lavora. Ma parlando d’altro, perché sinceramente non ho per niente voglia di parlare di Nikki, tu cosa mi racconti?”

Grace alzò le spalle e si imbronciò, lasciandosi scivolare più in basso contro il sedile. “Elisabeth mi aveva promesso che stasera non mi avrebbe lasciata da sola.”

Ecco, ci siamo! Le solite cretinate da femmine. “La mia amica è una stronza”, “non le parlerò mai più”, “mi ha fregato il fidanzato” e via dicendo. Ne avevo sentite tante parlare di storie del genere – succede quando si conoscono tante ragazze – e io le lasciavo dire. Parlavano tanto, erano buone di ciarlare per ore se non le si fermava, e io avevo adottato la conosciutissima tecnica “annuisci e fai l’indignato”, buttando lì un “che stronza” di tanto in tanto, riferito all’amica alla quale stavano parlando alle spalle. E loro “capisci? Ma ti rendi conto??” e io ad annuire e a fingermi afflitto per la situazione. Appena se ne andavano mi ero già dimenticato tutto quello che avevano detto. Avevo altre cose a cui pensare, io…

Chiaramente anche in quel caso decisi di utilizzare la stessa tecnica. “Davvero? Che stupida.”

“No!” esclamò Grace attirando la mia attenzione. “Elisabeth è stata più furba di me, invece.”

“Ah, sì?” la cosa stava diventando interessante perfino per me.

“Sì, perché è stata abbastanza abile da sfruttarmi senza che me ne accorgessi. Le sono andata a genio come amica dal momento in cui l’ho aiutata a provarci con un tipo fino a quando lo ha mollato, e durante tutto questo tempo ha finto di starmi vicina per non farmi destare sospetti su quello che intanto faceva,” spiegò, poi sferrò un pugno al sedile.

Sentii male io per loro e le rifiniture leopardate. “Ehi, vacci piano, quella è vera pelle!”

“Non me ne frega un cazzo della pelle dei tuoi sedili,” sibilò Grace massaggiandosi il lato della mano con cui li aveva colpiti.

“Tornando all’amica stronza, non mi hai detto cosa faceva nel frattempo.”

“Comincio ad avere dei dubbi che tradisse il suo ragazzo, che è un mio amico di vecchia data. Ma questi sono affari loro.”

“Finché non hai le prove, non puoi dire nulla contro di lei.”

Grace mi guardò con estrema sufficienza. “Lo so, però intanto posso avere dei sospetti?”

“Certo, come no,” approvai bofonchiando.

“In conclusione,” riprese Grace con la stessa enfasi di prima e ignorando del tutto le mie parole, “ora mi sento persa.”

Per la prima volta la guardai provando un po’ di compassione. “Capita di sentirsi messi da parte. Vedrai che tutto tornerà come prima. Magari ti stai sbagliando.”

“Io non mi sbaglio mai,” borbottò con le braccia incrociate.

Ecco, un Sixx numero due! Ne avevo già abbastanza di uno, adesso avevo trovato anche l’equivalente femminile. Quando glielo dissi, Grace mi mostrò il terzo dito e mi tornò a ridere in faccia, confermando la mia teoria.

“Perché ridi? Sfottermi è così divertente?” domandai, poi vidi il segnale stradale che indicava il confine con Van Nuys e dovetti cambiare argomento. “Dove ti devo portare?”

A quelle parole Grace si incupì e prese a mordicchiarsi un labbro. “Non saprei... a casa? Sì, facciamo che mi porti a casa. Avevo detto che avrei dormito da Elisabeth, però non credo proprio che questa sera abbia ancora in programma di stare con me.”

“Se non vuoi tornare a casa tua posso sempre ospitarti io.”

Grace fece un salto sul sedile e mi guardò con gli occhi fuori dalle orbite e stavolta fui io a riderle in faccia.

“Non dicevo per davvero. È meglio che ti riporti a casa.”

Appena finii di pronunciare queste parole, mi resi conto che avevo perso interesse nell’idea di portarla a casa mia per davvero. Non riuscivo a figurarmela come una di quelle che entravano e uscivano dalla mia porta come api da un alveare. Dopotutto, Grace non ci aveva nemmeno provato con me. Forse non le interessavo e basta, e questi erano solo viaggi mentali che mi stavo facendo per trovare una spiegazione a questo rarissimo fenomeno – eppure non ne ero del tutto convinto.

Grace mi indicò la strada e mi fece accostare in un parcheggio deserto circondato da alberi alti che ormai stavano cominciando a perdere le foglie. Era già autunno anche se faceva ancora caldo, e constatai che il tempo era volato: sembrava ieri che vivevamo nella decadente Mötley House, con le bottiglie che ci impedivano di muoverci liberamente, Bullwinkle che si lasciava prendere dai suoi scatti d’ira e Liz che saltava addosso a Tommy, avvolgendolo in tutto quel lardo molliccio.

Grace scese dalla macchina con grazia nonostante la stanchezza. “Scusa per averti fatto venire fin quassù, ma non avevo altra scelta.”

Alzai le spalle: non importava, in fin dei conti mi aveva quasi fatto piacere stare con lei piuttosto che al Whisky con Tommy. Mi sporsi dal finestrino e fischiai per richiamare la sua attenzione. “Aspetta, devo dirti una cosa.”

“Vuoi dirmi anche tu di non tornare più da Nikki?”

“Voglio solo chiederti perché ci vai.”

Grace osservò distrattamente la punta della scarpa mentre la faceva aderire nervosamente all’asfalto. “L’ho conosciuto per caso. Da quel giorno non sono più riuscita a togliermelo dalla testa e non perché mi piaccia, come tu e Mick vi divertite a sostenere, ma perché sento che ha bisogno di qualcuno. Ho visto le condizioni in cui vive e mi è sembrato che quando c’è qualcun altro insieme a lui, sia più motivato a non fare stronzate. Poi ormai siamo diventati amici, credo. Ogni tanto lo vado a trovare, dice che gli fa piacere parlare con me.”

Mi lasciai sfuggire un sorriso. “Ha avuto fortuna a trovare una persona come te.”

Grace ricambiò. “Tu dici?”

“Sì, e non nel senso che te la fai con lui. È stato fortunato ad averti trovata come... amica,” dissi con sincerità. “Non sei come quell’altra tipa che gli gira per casa e gli manda lettere false per farlo ingelosire. Tu sei gentile ed empatica.”

“Non esagerare!” disse imbarazzata e volgendo gli occhi verso il vielo buio.

Le feci un cenno di saluto e la osservai essere inghiottita dall’oscurità del viale, dopodiché mi avviai verso casa. Grace era davvero una ragazza sveglia. Speravo stesse attenta a Nikki e alle sue follie come lo era a guardare dentro le persone e a scovare i loro problemi peggiori. Aveva capito che quello di Nikki era un vuoto nell’anima che fino a ora aveva provato a colmare con la droga, conciandosi in quello stato pietoso. Aveva finito per sentirsi ancora più vuoto e nessuno sapeva più cosa fare per aiutarlo perché ormai era per metà dall’altra parte. Anch’io avevo provato a fare la mia parte, ma ci avevo rinunciato da tempo dal momento che qualsiasi cosa consigliassi non andava bene e Nikki finiva per urlarmi di farmi i fattacci miei. Inoltre, il rapporto tra noi due non era mai stato roseo, il che non mi motivava a sacrificarmi per fare qualcosa che avrebbe sicuramente rifiutato. Mick, poi, aveva troppe cose a cui pensare per stare dietro anche a un’altra persona. Infine, c’era T-Bone, il suo gemello terribile. Senza di lui sono certo che non ce l’avrebbe fatta a resistere, e li invidio da morire.




N. d’A.: Buon Anno a tutti!
Come promesso, è gennaio e ho ripreso a caricare il racconto.
Come potete notare, in questo capitolo abbiamo un narratore d’eccezione, ossia Vince. A partire da ora, ci saranno un paio di voci narranti in più, ma la maggior parte dei capitoli saranno raccontati in prima persona da Grace o Nikki, com’è stato fino ad ora. A proposito, suppongo vi stiate chiedendo che fine abbia fatto Sixx... tornerà presto, ovviamente a modo suo.
Stay tuned!
Ci si rilegge mercoledì prossimo!
Grazie a tutti, un bacio,

Angie

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Capitolo 18
*** Grace ***


18) GRACE

Mi appostai dietro l’angolo e attesi che Vince sparisse a bordo della sua auto prima di mettermi in cammino per la villa. Nikki mi aveva detto diverse volte che per lui la notte era diventata un incubo, allora pensai che la presenza di qualcuno di cui si fidava avrebbe potuto aiutarlo. Camminai spedita fino a casa sua con un groppo in gola come se avessi potuto sentire il suo dolore da lontano, e svanì solo quando mi ritrovai davanti al cancello. Stavo per suonare il campanello quando scorsi una sagoma che si muoveva barcollando nel buio del giardino, allora strizzai gli occhi per metterla a fuoco meglio. Dalla statura e dai capelli riconobbi che si trattava proprio di Nikki. Provai a chiamarlo, ma sembrò spaventarsi: lasciò cadere per terra il bastone che teneva ben saldo con entrambe le mani e mi disse di scappare perché in casa c’era qualcuno di molto pericoloso.

“Che cavolo stai dicendo?” sbottai. “Hai un impianto di allarmi che batte quello di Alcatraz, come fa a esserci qualcuno? Vieni ad aprirmi, piuttosto.”

“No!” esclamò con la voce incrinata dalla paura. “Corri a casa, mettiti in salvo! Loro mi vogliono morto e uccideranno anche te!”

Era palese che si fosse tornato a imbottire di droga e non avevo intenzione di lasciare che continuasse a vagare per il giardino come uno zombie, soprattutto ora che le luci della villa di fianco erano ancora accese, perciò mi arrampicai sul muro come avevo già fatto ed entrai nel cortile. Nikki si era spostato sotto una luce e, ora che potevo vedere le sue condizioni, capii che la mia ipotesi di poco prima era più che azzeccata. Stava girovagando senza avere idea di cosa stesse facendo, vestito solo con un paio di pantaloni di pelle sgualcita e una canottiera ricavata da una t-shirt a cui avevano tagliato le maniche e il colletto. I capelli scompigliati e ancora impiastricciati di lacca creavano una nuvola nera intorno al viso dalla pelle giallastra, e tutto il suo corpo aveva assunto un simile colorito insano. Gli corsi incontro e feci appena in tempo a raggiungerlo per sorreggerlo prima che perdesse l’equilibrio rischiando di cadere per terra a peso morto. Era grande e grosso, però feci il possibile per sostenerlo. Continuava a dire che non dovevamo entrare in casa, ma non gli diedi ascolto e lo portai fino in salotto, dove lo aiutai a sedersi sul divano.

“Grace, tu che puoi, scappa,” mormorò portandosi le mani sulle orecchie, dondolandosi avanti e indietro in un lento moto straziante.

“Da cosa?”

“Sono qui per me, ma se ti troveranno ti uccideranno.”

Era ovvio che fosse in preda alle allucinazioni dopo una dose. Quando gli dissi che non c’era nessuno, insinuò che fossi un’alleata di quei nani misteriosi che vedeva in giro, poi si alzò barcollando e si diresse di corsa al piano superiore, sempre tenendo le mani premute contro le orecchie. Salii le scale anch’io, ma lo trovai accovacciato sul pianerottolo, nascosto dietro un vaso con una pianta sofferente e uno scatolone. Si teneva strette le ginocchia come un ragazzino spaventato e l’immagine di quel bambino alto un metro e ottantacinque che tremava come una foglia mi spezzò il cuore. Gli tesi una mano per aiutarlo a rialzarsi e lui la fissò terrorizzato, come se stessi impugnando un’arma.

“Andiamo,” lo invitai con voce pacata.

Nikki mi guardava da sotto la frangia corvina. “Dove? A morire?”

“No, da qualche altra parte che non sia il pianerottolo delle tue scale. Tu dove vorresti andare?”

Si prese la testa tra le mani e si accartocciò ancora di più su se stesso. “Vorrei andare in camera mia, ma è piena di nani del cazzo.”

Mi inginocchiai di fronte a lui e feci passare una mano nello spazio tra i suoi capelli e il braccio per raggiungere la guancia, ora appiccicosa per le lacrime. “Non c’è nessuno, te lo giuro. Adesso entro e te lo dimostro, va bene?”

Incurante di Nikki che mi ordinava di tornare indietro, entrai nella sua stanza. C’erano vestiti sparsi ovunque e le coperte emanavano un fastidioso odore di stantio e sporco, allora aprii l’armadio alla ricerca di lenzuola. Tolsi quelle impregnate di sudore per sostituirle con quelle pulite che, a giudicare dal forte aroma di legno, dovevano essere state chiuse nell’armadio per mesi senza mai essere utilizzate. Lanciai le lenzuola sporche in un angolo della stanza e uscii nuovamente per chiamare Nikki, che si trovava ancora rannicchiato nel pianerottolo. Lo convinsi a seguirmi e lui prese a camminarmi dietro, come se io che ero la metà di lui avessi potuto difenderlo da eventuali intrusi. Si guardò intorno con sospetto e si lasciò cadere sul letto, nascondendo il viso contro un cuscino.

“Ha un odore diverso,” biascicò.

“Per forza. Ho cambiato tutto,” confessai. Nikki sollevò appena lo sguardo come per ringraziarmi, poi disse che avevo fatto una cosa senza senso dal momento che avrebbe tornato a sporcare tutto come prima.

“Non importa,” dissi mentre mi sedevo accanto a lui. “Siccome ho intenzione di farti compagnia qui, non ci tenevo a stare in mezzo a tutta quella roba maleodorante.”

Scosse il capo. “Qua dentro è tutto sporco, e lo sono anche io.”

“Allora fatti un bagno.”

“Non ha senso se poi devo tornarmi a sporcare.”

“Allora resta sporco. Io rimarrò lo stesso.”

Nikki appoggiò la testa sulle mie ginocchia e mi abbracciò le gambe. “Saresti la prima persona a farlo dopo T-Bone. Ti faccio così tanta pena?”

“No, ti voglio bene e basta.”

Mi fulminò con lo sguardo poi sembrò pentirsene. Si accucciò meglio e sbuffò. “È impossibile, nessuno me ne vuole.”

“Oh, no che non lo è.”

“Mi stai facendo fumare il cervello,” brontolò. “Adesso me ne vado nel mio sgabuzzino. Almeno lì non mi rompe le palle nessuno.”

Mi chinai su di lui prima che potesse alzarsi. “Non farlo.”

“Non puoi impedirmelo,” ribatté apatico.

Lo abbracciai per quanto potei. Strinsi a me quell’enorme massa di vestiti pregni di sudore e pelle umida e appoggiai la guancia contro la sua spalla. “Adesso ti tengo io e non puoi più scappare.”

Sbuffò. “E cosa dovrei fare?”

Premetti il viso contro la sua pelle. “Niente. Dormi. Se non vuoi dormire puoi parlarmi, oppure posso parlarti io. Basta che tu stia qui.”

“Mi va bene dormire, però non andartene. Anzi, ti dispiace se restiamo un po’ qui?”

Si spostò per appoggiare la testa sul cuscino e io rimasi seduta ad aspettare. Passai un quarto d’ora a guardarlo mentre si contorceva in una pozza di sudore, chiamando dei nomi che non conoscevo e menzionando cose che ignoravo. A volte mi afferrava la mano e mi diceva di non andarmene, ma io non potevo fare molto a parte accarezzargli il capo e sperare che si calmasse. Non mi ero mai trovata in una situazione simile e non sapevo come comportarmi, però ero stata io stessa a cacciarmi in quel casino. Conoscevo Nikki da poco ma sentivo che eravamo uniti da un legame che poteva essere già definito amicizia, e gli amici non si abbandonano.

Nikki si addormentò avvinghiato al cuscino e tenendo stretta la mia mano come se fossero stati la sua ancora di salvezza, allora gli scostai una ciocca di capelli dal viso e liberai la mano che mi aveva preso facendo attenzione a non svegliarlo. Sapevo che avrebbe dormito per un po’, così decisi di approfittarne per riordinare casa sua dal momento che anche il sonno era andato a farsi fottere. Non sarei riuscita a riposarmi in nessun modo perché l’immagine di Nikki che barcollava nel giardino di casa sua come se si fosse trovato in un luogo oscuro e sconosciuto non mi aiutava a rilassarmi. Raccattai le lenzuola sporche e scesi le scale in punta di piedi, poi andai dritta in garage, certa che là avrei trovato una lavatrice. Fortunatamente c’era per davvero e non dovetti girare la casa in lungo e in largo per cercarla. Ci stipai dentro le lenzuola e tutte le altre cose che mi capitarono in mano e che riuscii a farci stare, impostai la temperatura al massimo e la feci partire. Mentre aspettavo che il bucato fosse pronto, decisi di sistemare un po’ anche la sala. Trovai residui del suo armamentario ovunque e mi domandai cosa avrei dovuto farne. Se fosse stato per me, avrei riempito un sacco e avrei sbattuto tutto via nonostante sapessi che Nikki ci avrebbe messo un attimo per rifornirsi, poi pensai che aveva così tanti soldi che per lui non sarebbe stato un problema spenderne altri, allora strappai un sacco nero per i rifiuti dal rotolo e ci cacciai dentro tutto quello che trovai. Terminai buona parte del mio lavoro alle quattro e mezza, e ci sarebbe stato ancora tanto altro da fare. Considerando che avevo ancora qualche ora a disposizione, decisi di utilizzarla per riposarmi e tornai al piano superiore, dove Nikki stava ancora dormendo, o almeno così credevo. Quando mi sdraiai mi abbracciò e mi tirò a sé, gli occhi ancora chiusi. Aveva decisamente un cattivo odore, acre e pungente. Affondò il viso nei miei capelli, ancora leggermente cotonati per la serata fallita, e sospirò. Io intanto pensavo che a quell’ora avrei dovuto essere a dormire a casa di Elisabeth dopo aver saltato al Whisky a Go-Go. Se a casa avessero saputo che cos’avevo fatto veramente, come minimo mi avrebbero impedito di uscire fino al mio quarantesimo compleanno. Probabilmente nemmeno Beth era rientrata e mi domandai che tipo di scusa si fosse inventata per andare via con Tommy. E chissà se aveva coperto anche me?




N. d’A.: ‘Sera!
Devo ammettere di essere molto affezionata a questo capitolo. È così con tutti quelli un po’ drammatici in cui il protagonista è Nikki... spero che sia piaciuto anche a voi. =)
Ad ogni modo, credo di aver fatto contente le Sixx-dipendenti visto che, come promesso, il bassista dei nostri sogni è tornato in pieno stile Sikki...
Come al solito, grazie di ♥ a tutti quanti!
A mercoledì, dudes!

Angie

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Capitolo 19
*** Nikki ***


19) NIKKI

Mi svegliai verso le nove di mattina, che per me corrispondevano all’alba, e fui subito colto da un mal di testa lancinante. Mi girai a pancia in giù per premere il viso contro il cuscino e sentii che aveva un odore diverso, più pulito e fresco. Quando alzai il capo, mi accorsi che la federa era grigia e non bianca come quelle che ricordavo di avere, e lo stesso si poteva dire delle lenzuola. Inoltre, alla mia sinistra, ai piedi della parete, era sparito il cumulo di vestiti sporchi che si era creato nelle ultime settimane, e il tappeto era ben steso sul pavimento e non più buttato da una parte, tutto appallottolato. Ma la sorpresa più sgradita la trovai alla mia destra: accanto a me, avvolta in una coperta che non era quella che ricordavo di aver usato fino al giorno prima, c’era Grace. Siccome mi ero reso perfettamente conto di essere reduce di una botta colossale, certamente seguita da un attacco di allucinazioni, pensai di averle fatto qualcosa di spiacevole e mi sentii un verme. Strisciai verso di lei con il cuore che batteva all’impazzata, maledicendomi mentalmente senza nemmeno essere sicuro di essere colpevole. Non appena fui abbastanza vicino, le passai una mano sulla guancia e pregai che tutto fosse a posto.

“Grace, ti prego, svegliati,” la implorai quasi tremando. “Cos’è successo stanotte?”

Lei aprì appena gli occhi e si girò lentamente verso di me, stiracchiandosi e sorridendomi. “Ehi, Nikki, ti senti meglio?”

“Perché sei qui?” domandai mentre mi guardavo intorno e vedevo che tutto era pulito. “Cosa ci fai nel mio letto? Abbiamo fatto qualcosa?”

Grace sospirò e si lasciò cadere sul materasso, producendo un suono soffice e ovattato. “Oh, no, sta’ tranqillo. Sei tu che mi hai chiesto di non lasciarti da solo.”

“Cos’è che ho fatto, io?”

“Mi hai chiesto di restare” ripeté. “Sono arrivata qui ieri notte mentre giravi a vuoto nel giardino dicendo che c’era qualcuno in casa. Ti ho convinto ad andare a dormire e tu mi hai chiesto di rimanere qui a farti compagnia. Io però non avevo sonno e, mentre ti riposavi, ne ho approfittato per rendere questa casa un po’ più vivibile.”

Mi alzai in piedi e uscii dalla camera per dare un’occhiata al suo operato con lei che mi seguiva. Nel pianerottolo c’erano ancora gli scatoloni, però erano stati ordinatamente impilati contro il muro; non c’era più un singolo indumento sporco abbandonato a se stesso; in salotto c’era una pila ordinata di riviste accanto al camino – non credevo di averne così tante perché quando erano sparse per la stanza sembravano la metà – e le chiazze di vomito che costellavano il pavimento erano sparite. Sarebbe stato tutto perfetto se non avessi cominciato ad agitarmi perché non c’era più traccia del mio armamentario, ma scoprii subito che Grace aveva raccolto tutto in un sacco che aveva lasciato fuori dalla porta affinché lo buttassi. Obbedii solo perché dentro non c’era niente di riutilizzabile anche se, ovviamente, sapevamo entrambi che avrei riacquistato tutto da Jason non appena ne avessi avuto il tempo.

“Cos’hai intenzione di fare adesso?” domandai a Grace. “Se avessi qualcosa da offrirti per colazione ti chiederei di restare, ma ho il frigo vuoto da una settimana.”

“Davvero?” chiese incredula mentre si infilava le scarpe. “E fino a oggi cos’hai mangiato, l’aria?”

“Non ho mai fame e non mangio mai molto a parte quando Tommy mi viene a prendere per uscire,” confessai.

Sorrise. “Sono contenta che ogni tanto venga a stanarti. Non puoi vivere la tua vita chiuso in questa villa così tetra.”

Aveva ragione: non potevo continuare a rimanere chiuso lì dentro, però era l’unico posto in cui me la sentissi di stare. Nonostante fossi convinto che i nani messicani mi invadessero il giardino e che ci fossero delle presenze oscure che mi parlavano, sapevo che quella casa dall’aria spettrale era l’unico luogo in cui sarei dovuto rimanere. Se fossi uscito tutti avrebbero visto come mi ero ridotto negli ultimi mesi, poi odiavo la luce troppo forte, e non c’era posto migliore di una villa buia per una creatura oscura come me.

“Nessuno è mai stato qui a farmi compagnia,” dissi, consapevole che in realtà una persona che a volte rimaneva con me c’era. Si trattava di Vanity, ma quando arrivava portava solo guai.

Grace spalancò gli scuri della finestra della sala. “Ho molto da fare, ma questa settimana cercherò di passarti a trovare. Vuoi che ti porti qualcosa?”

“No, ho già qualcuno che va a fare compere per me.”

Più che altro non volevo che si disturbasse tanto per me. Aveva già fatto troppo pulendomi il salotto senza tirarsi indietro nemmeno di fronte ai particolari più disgustosi, e non me la sentivo di chiederle altro.

Grace sorrise di nuovo e si mise la piccola borsa a tracolla. “Come vuoi. Adesso devo andare, ci vediamo presto.”

“Prestissimo,” mi lasciai sfuggire mentre la salutavo.

Quando fui di nuovo da solo mi sentii perso. Dentro di me c’era un vuoto enorme che, per quando mi sforzassi, non riuscivo mai a colmare. Avevo provato con la droga, ma avevo finito per cacciarmi in un guaio troppo grande. L’unico che era riuscito a rimediare era Tommy, ma avevo l’impressione che ultimamente mi stesse trascurando perché aveva cose migliori da fare. Poi, quando credevo che non ci fossero più speranze, era arrivata Grace: quando eravamo insieme questo vuoto scompariva improvvisamente e mi sentivo completo. Mi sembrava di avere tutto e di essere una persona come le altre, ma sapevo che non potevo contare su qualcun altro per stare bene. Adesso però ero solo e avevo bisogno di distrazioni, allora sollevai la cornetta per chiamare T-Bone, che arrivò a Van Nuys in pochissimo tempo. Lo osservai attraversare il cortile con quel suo modo dinoccolato di camminare e sorridermi calorosamente.

“Ciao, bro!” esclamò quasi cantando e con le braccia spalancate. “Sono davvero felice di rivederti, sai? Mi sembra che sia passata un’eternità.”

“Hai ragione,” ammisi, poi stavo per proporgli di andare a fare un giro quando lui mi interruppe con un grido di stupore.

“Woah! Cazzo, ma cos’è successo in questa casa?” domandò mentre girava su se stesso al centro del salotto. “Dov’è tutta quella merda che spargi ovunque?”

Cercai di cambiare argomento, ma Tommy non desisteva, allora mi trovai costretto a confessare tutta la verità su Grace e su quanto era accaduto quella notte.

Tommy prese posto sul divano e si stravaccò. “Chi, quella ragazza bassa e bionda con la risposta sempre pronta?”

Aggrottai la fronte, incuriosito. “Suppongo che te l’abbia raccontato Mick visto che io e lui siamo gli unici ad averla conosciuta.”

Tommy cominciò a guardare dentro tutte le bottiglie sul tavolino alla ricerca di qualche rimasuglio. “Ti sbagli. Io e Vince l’abbiamo incontrata ieri sera al Whisky a Go-Go mentre si trovava con una sua amica. Aspetta, vecchio, siediti, mettiti comodo così ti racconto tutto.”

Cominciai a pregare che non le avessero rotto troppo le scatole e mi sedetti in punta al divano, piuttosto agitato. Tommy borbottò qualcosa riguardo la penuria di alcol in casa mia quella mattina e si accese una sigaretta. “Ti ricordi di quella ragazza che avevo incontrato al Whisky sabato scorso? Si chiama Elisabeth e ieri sera l’ho incontrata di nuovo. Con lei c’era Grace, ma ho saputo chi era solo quando lei mi ha riconosciuto e si è presentata. Poveretta, quando io ed Elisabeth ci siamo imboscati lei è andata in bagno e, tra tutte le porte che c’erano, ha scelto quella della toilette dove ci eravamo nascosti. Avresti dovuto vedere la sua faccia! È corsa fuori quasi urlando per l’imbarazzo. Ha dovuto riportarmi a casa Elisabeth, e già che c’era ha pensato di rimanere visto che Grace era scappata via con Vince perché–”

“Come, scusa?” saltai su. Grace e Vince erano gli ultimi due nomi che avrei voluto sentir pronunciare insieme all’interno della stessa frase.

“Che la tua amica si è fatta accompagnare a casa da Vinnie,” ripeté Tommy. “Adesso però non mi chiedere i particolari perché non ho idea di cosa sia successo dopo.”

“Un cazzo di niente, T-Bone, perché quando è arrivata qui era ancora presto,” risposi acido mentre girovagavo in tondo per la sala. Grace era una mia amica, l’unica che avessi e che sembrava non avere intenzione di abbandonarmi, e nessuno doveva azzardarsi a sfiorarla o a portarmela via. Sentii crescere dentro di me una gelosia che mi stava divorando. Sapevo con chi avevo a che fare: Vince, il sultano indiscusso della gozzoviglia che in casa aveva un harem tre volte più grande di quello dello sceicco di non so quale paese lontano, non poteva non averci provato spudoratamente con una ragazza carina come lei. Grace non era di certo stupida e forse era la persona più intelligente che avessi conosciuto fino a quel momento, però Vince sapeva come abbindolare le donne. Sarebbe stata capace di farsi dei viaggi mentali su quel cretino e di illudersi, poi lui l’avrebbe fregata e io me la sarei ritrovata a piagnucolare in casa mia per colpa di Vince. Non mi era mai importato delle ragazze alle quali Vince aveva spezzato il cuore, ma se solo avesse fatto soffrire Grace non gliel’avrei fatta passare liscia. Avrei avvertito Neil prima che avesse il tempo di fare una delle sue solite mosse con la speranza che mi ascoltasse, pur sapendo che la mia richiesta sarebbe stata per lui un motivo in più per provarci. Noi due litigavamo già abbastanza, e non volevo discutere anche per Grace. Non volevo che l’equivalenza fighe = guai fosse valida anche per lei. Grace era speciale e nessuno doveva azzardarsi a farle del male.




N. d’A.: Hi, dudes!
Tommy è un pettegolo da paura, però intanto qui marca male, soprattutto per Vince...
Anyway... volevo chiedervi una cosa: sarei curiosa di sapere come vi immaginate esteticamente i personaggi creati da me come Grace ed Elisabeth. Li avete associati a qualcuno di famoso oppure vi siete fatti un’idea vostra? Se vi va, potete dirmelo, perché sono più curiosa di una comare. ;)
Ciò detto, vi mando un bacione virtuale da glamster impiastricciato di rossetto fucsia e vi ringrazio.
Ci si rilegge mercoledì prossimo!

Angie

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Capitolo 20
*** Grace ***


20) GRACE

In poco tempo riuscii a smaltire l’imbarazzo che avevo accumulato nei confronti di Elisabeth dopo averla colta in flagrante in compagnia di Tommy. Ora eravamo entrambe a conoscenza di un segreto dell’altra che doveva essere assolutamente mantenuto tale, tanto che adesso Beth aveva iniziato a uscire con Tommy, consapevole del fatto che l’unica persona che lo sapeva se ne sarebbe ben guardata dall’andare a spifferarlo in giro. Sapevamo entrambe che questa storia sarebbe durata poco e che tutti e due avevano più corna di un cervo, ma lei aveva deciso, con tutto il mio appoggio, di cogliere l’occasione al volo per non doverla rimpiangere in futuro. Per fortuna, ora che frequentava un compagno di band di Nikki, nonché il suo temuto e contemporaneamente venerato Terror Twin, aveva avuto modo di sapere dettagliatamente la pessima situazione in cui si trovava quello che lei aveva considerato un mostro fino a pochi giorni prima. Ora era persino convinta che potesse uscire da quell’abisso, tuttavia continuava con le sue solite raccomandazioni ipocrite, ma io la ignoravo e andavo regolarmente a trovare Nikki.

Un pomeriggio andai a Hollywood a fare compere con Elisabeth e, mentre eravamo sedute al tavolo di un bar sul Sunset, incrociammo l’ultima persona che avrei voluto incontrare. Lo vidi entrare raggiante come sempre, lanciare un sorriso a una cameriera e appoggiarsi al bancone con quella sua insopportabile aria da star quale, effettivamente, era.

“Vorrei sapere come accidenti fa ad avere dei capelli così perfetti,” bofonchiò Beth da chinata sul suo martini.

Io, che stavo invece sorseggiando un tè ghiacciato alla pesca, scossi il capo. “Lascia perdere. Un simile lusso non è concesso a noi comuni mortali.”

Vince Neil lasciò una banconota sul ripiano di granito del bancone e, mentre si stava dirigendo verso l’uscita con un caffè, si accorse di noi. Fece uno smagliante sorriso da ruffiano e si avvicinò al nostro tavolo togliendosi gli occhiali da sole con un gesto lento e provocante degno della scena di un film.

“Ragazze, anche voi qui?” domandò, poi spostò una sedia aiutandosi con la punta di uno stivale e ci si lasciò cadere sopra. “Elisabeth, Tommy mi racconta spesso di te, e da come parla direi che ve la passiate benissimo. E tu, Grace, sei l’unico argomento di cui Nikki parla se si escludono le ragazze e la musica.”

Sollevai le sopracciglia con aria interrogativa. “Non rientro nella categoria delle ragazze?”

Vince sogghignò e appoggiò i gomiti sul tavolino, sorreggendosi il volto con i palmi. “No, tu rientri in quella delle ragazze normali. Sai, Sixx ha l’abitudine di frequentare tipe scoppiate, a volte anche più di quanto lo sia lui, ma tu sei uno strappo alla regola. Chissà che non riporterai un po’ di ordine in quel suo cervello svitato?”

“Lo sai che sta passando un momentaccio, perché non la pianti di parlare di lui in questo modo?” ribattei. Sapevo che tra Vince e Nikki non scorreva buon sangue, però non accettavo di sentirlo parlare così alle sue spalle.

“Scherzavo,” rispose Vince sollevandomi il mento con l’indice, costringendomi a fissarlo negli occhi. Erano di uno splendido color nocciola, però c’era qualcosa che mancava. Sembrava che appartenessero a una persona che aveva perso tutto da tanto erano spenti. Vince doveva essere abile a mascherare i suoi veri sentimenti di fronte alla gente, un vero attore la cui bravura era dovuta a qualcosa di spiacevole di cui si rifiutava di parlare. Se gli occhi di Nikki erano stanchi, questi erano malinconici. Eppure bastava scendere un po’ con lo sguardo per notare che un sorriso smagliante gli illuminava il volto.

“Ora che ci hai salutate puoi tornare sui tuoi passi,” il mio tono suonò fin troppo scortese. “Ci si vede in giro.”

Vince però non sembrava avere alcuna intenzione di schiodare dal nostro tavolo.

Elisabeth diede un’occhiata all’orologio e mi chiese se avessi voglia di accompagnarla negli ultimi quattro negozi che non avevamo ancora passato in rassegna. Se si tiene conto che non sono mai stata un’amante dello shopping troppo prolungato e che quel giorno avevamo girato per ore, è facile immaginare la mia reazione: mi opposi con tutte le mie forze. Lei però doveva assolutamente andare a controllare che non fosse arrivato qualche capo nuovo nel suo negozio preferito e io, volente o nolente, dato che ero in macchina con lei, mi sarei dovuta sacrificare.

“Non lasciare che gli altri ti dicano quello che devi fare!” esclamò Vince con atteggiamento melodrammatico. “Ci penso io a riaccompagnarti a casa, così Elisabeth potrà finire i suoi giri e tu non ti stancherai troppo, sua piccolezza reale.”

“Gentile da parte tua,” bofonchiai irritata dall’appellativo riferito alla mia statura.

“Ottima idea!” esclamò Beth. “Tu torni a casa con lui e io vado a fare un ultimo giro. Ci vediamo lunedì a lezione!”

Non mi lasciò nemmeno il tempo di ribattere: si alzò e scappò via di corsa, sovraeccitata al solo pensiero di riuscire a trovare un vestito che stava cercando da settimane senza alcun risultato.

Mentre Elisabeth esaudiva il suo desiderio più grande, io me ne stavo seduta a fissare Vince di sbieco, sperando che il mio sguardo truce lo facesse pentire della sua ultima proposta. Avrei dovuto sapere che non lo avrebbe fatto ma che, al contrario, avrebbe prolungato la mia sofferenza dilungandosi in discorsi sconclusionati per prendere tempo.

A un certo punto, stanca di sentirlo blaterare, mi alzai di scatto. “Senti, ho promesso a Nikki che sarei andata da lui. Credi di poter scollare le chiappe da quella sedia, salire in macchina e guidare fino a casa sua senza farmi perdere altro tempo?”

Vince fischiò ammirato. “Fantastico, Grace, vedo che il caratteraccio di Sixx ti sta influenzando.”

“Rispondi alla mia domanda,” insistei con determinazione.

Vince si stiracchiò e, facendo molta attenzione a essere tutt’altro che svelto, si alzò e si avviò verso l’uscita. “Ci proverò. Ho parcheggiato di fronte alla nostra vecchia casa, dietro al Whisky a Go-Go. È un po’ lontano, ma stai per avere l’occasione di vedere in che bel posticino abbiamo vissuto.”

“Sai che fortuna...” borbottai mentre lo seguivo.

Mi toccò camminare per un quarto d’ora prima di raggiungere la sua macchina parcheggiata lungo North Clark Street, davanti a una palazzina color ocra e decadente. Vince avrebbe voluto raccontarmi tanti aneddoti riguardo quella casa, ma gli feci capire che non avevo intenzione di stare ad ascoltarlo salendo sull’auto e invitandolo a muoversi. Lui alzò gli occhi al cielo e si mise alla guida, rassegnato.

“Quand’è che la pianterai di farti scorrazzare da noi?” domandò.

“Sei stato tu a offrirmi un passaggio,” risposi, irritata dal fatto che riuscisse sempre a farmi fumare il cervello.

“Lo so. È possibile che tu non abbia neanche un briciolo di senso dell’ironia?”

“Vedo che scherzare con le ragazze ti piace molto.”

Sul suo viso spuntò un sorriso beato. “Dipende in che modo.”

“Be’, questo è chiaro!”

Mi picchiettò l’indice sulla spalla per esortarmi a girarmi e guardarlo in faccia, poi volle sapere dove doveva scaricarmi.

“Te l’ho detto prima: a casa di Nikki.”

Vince sbuffò e sollevò gli occhiali da sole sul capo, tirando indietro la frangia lunga. “Vai ancora a casa di Sixx per fargli da balia?”

“E tu sei così rompipalle anche con Elisabeth quando va a casa di Tommy?” ribattei prontamente.

“Loro due escono insieme, o per lo meno non si vedono per qualche ragione tragica,” rispose, e stavolta la sua voce era seria.

“Io e Nikki siamo amici. Direi che ci sia ancora meno di cui preoccuparsi.”

“Vuoi dirmi che non ci ha mai provato? Se così fosse, allora vuol dire che lo abbiamo perso del tutto, e la cosa non mi piace,” esclamò ad alta voce e battendo un pugno sul volante per caricare la risata argentina che seguì la frase. Mentre continuava a parlare, la mia mente volò alla sera in cui mi aveva portata su quello spiazzo tra le Hollywood Hills e mi aveva baciata, saltando poi fuori con una scusa assurda per giustificare il gesto. Per quel che ne sapevo, sì, una volta ci aveva provato.

“Se anche ci avesse provato?” chiesi con tono di sfida.

Vince mi fissò per un attimo con lo sguardo corrucciato, poi scoppiò nuovamente a ridere e riprese a battere il pugno, stavolta sul sedile. “Lo sapevo che ci aveva provato! Lo sapevo! Dài, cos’è successo?”

“Piantala, hai rotto i coglioni,” sbottai. “Se anche fosse, qual è il problema?”

“Nessuno,” mormorò senza aggiungere altro, poi tornò a concentrarsi sulla guida.

Quando si fermò davanti al cancello della villa di Nikki sospirò e scosse il capo, facendo un commento riguardo il timore che incuteva quel posto macabro.

“Spero vivamente che metta la testa a posto,” disse con lo sguardo fisso sulle chiome scure degli alberi nel giardino.

“Non sarò certo io quella che farà il miracolo, dipende solo ed esclusivamente da Nikki. L’unica cosa che possiamo fare è non lasciarlo da solo.”

Vince annuì. “Se non fosse così insopportabile, farei qualcosa di più anch’io... adesso però è ora che vada. A presto, Grace, e vedi di non combinare casini.”

Per tutta la risposta sfoggiai un sorriso sarcastico e aspettai che se ne andasse prima di suonare il campanello. Nikki era affacciato alla finestra e mi stava aspettando, forse convinto che non lo avessi visto che mi osservava da dietro le tende pesanti. Mentre attraversavo il giardino, continuavo a pensare alla sera sulle Hollywood Hills, convincendomi che quel bacio, in fin dei conti, fosse stato solo un gesto che Nikki aveva compiuto in un momento di debolezza. Non poteva trovare qualcosa di interessante in una come me e non c’era assolutamente nulla che potesse esserlo, non per una rockstar del suo calibro.




N. d’A.: Buonasera!
Questo ventesimo capitolo è stato un po’ di passaggio, tuttavia spero che vi sia piaciuto lo stesso. Nel caso non fosse così, sono sicura che il prossimo vi piacerà di più perché vedremo l’entrata in scena di un narratore “nuovo”, se così posso definirlo... o, meglio, lo conosciamo bene e ha già fatto indirettamente la sua comparsa nel corso della storia, ma la prossima volta avremo, ahinoi, l’onore di sentirlo parlare in prima persona.
Stay tuned, ci si rilegge il prossimo mercoledì! :D
Adesso la Mars torna ad immergersi nel suo lago di fazzoletti a starnutire... bye!

Angie

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Capitolo 21
*** Sikki ***


21) SIKKI

Grace, finalmente sei qui. Ti ho aspettata per ore e adesso sei qui con me. Siamo seduti sul divano e tu ti guardi intorno, sempre un po’ incuriosita come se fosse la prima volta che entri nel mio salotto. Sei così bella quando osservi tutte le stranezze di questa casa con lo sguardo corrucciato e il tuo volto assume un’espressione più seria. Dici che i gargoyle che ho fatto mettere sulle mensole non ti piacciono, ma io sono una creatura della notte, sono il figlio delle tenebre, e questo è il mio regno. Pochi giorni fa ho anche chiamato una ditta per far montare degli scuri perché entrava troppa luce dalle finestre, e la luce mi fa male agli occhi. Io odio uscire di giorno, il sole mi fa impazzire, mi punta dritto nelle pupille e mi abbaglia.

Ti abbraccio e ti stringo forte a me perché non voglio che tu te ne vada. Se te ne andassi proprio adesso io... non lo so che cosa faccio. Ho bisogno di te, della tua presenza, mi piace avere la certezza che ci sia qualcuno accanto a me, e so che tu non mi abbandonerai mai.

Grace, sei così buona e mi vuoi tanto bene. Se potessi tenerti con me per sempre lo farei, ma non posso, ed è così frustrante che non riesco a sopportarlo. Tu sei mia amica, sei dolce, e nessuno potrà mai portarti via perché tu sei mia.

Però, Gracie, c’è una cosa che vorrei chiederti: perché sei qui con me? Tutti sono scappati e mi hanno lasciato da solo a soffrire e a marcire dentro questa casa come un vecchio pezzo di ferro arrugginito abbandonato in balìa delle intemperie, invece tu mi sei rimasta accanto e adesso siamo abbracciati nel mio salone freddo ad ascoltare il silenzio intorno a noi. A me fa piacere averti qui, mi basta sentire il tuo calore mentre ti accovacci contro di me, ma tu, Grace, perché rimani? Cos’è che ti fa restare?

I tuoi capelli profumano di vaniglia, sono morbidi come seta e ricadono sulle tue spalle come una leggera e soffice coperta. Il loro colore dorato riflette la poca luce che entra e sembri così angelica mentre io, deperito e trascurato, non sono che un povero diavolo.

Lo so che mi vuoi bene, lo so che ti sforzi di capire cosa mi passa per la testa, ma non potrai mai comprendermi perché solo io so cosa sto passando. Un vero amico, Grace, non abbandona l’altro nei momenti difficili come hanno fatto Tommy, Vince e Mick. Tu sei qui con me, il tuo corpo appoggiato con delicatezza a quello disfatto che mi ritrovo, e mi sento così bene che vorrei che non finisse mai.

Però c’è una piccola cosa che potresti fare per me: raggiungimi nel mio mondo, Grace, perché solo in questo modo potrai capire esattamente come vivo. Prova, amica mia, prova una sola volta.

No?

Perché no?

Hai paura?

Non vuoi conciarti come me, vero? Allora ti faccio schifo? Lo sapevo che in fin dei conti per me provi solo pena e compassione.

Lasciami solo, Grace, tornatene a casa.

Anzi, sai cosa faccio? Voglio vedere come lavora su di te questa roba. Ma tu sei troppo furba, hai già capito tutto e te ne guardi bene da bere qualunque cosa ti offra. Hai capito come lavora il mio fottuto cervello, sei ancora più sveglia di quanto pensassi. E io sono matto, vero? Sono completamente fuori di testa. Dillo, avanti! Dillo che faccio schifo, che sono un fallito di merda e che non vuoi più vedermi.

Fai bene ad alzarti e uscire, perché nemmeno io mi sopporterei in questi momenti. Però, Gracie, così mi lasci solo. Se sai che quando sono solo soffro, perché te ne stai andando? Ti ho spaventata così tanto? Non volevo farti paura, volevo solo provare. Io ti voglio bene, perché scappi? Ti volevo solo con me.

Sbatti la porta, il rumore rimbomba nella sala, corre su per le scale e riecheggia al piano di sopra. Sembra che siano le pareti di questa casa che ti supplicano di restare. Davvero, non volevo spaventarti, ma sei arrivata nel momento peggiore. E poi te ne sei andata via, abbandonandomi alla solita agonia.

Sono solo, fottuto e incompreso. Solo perché non ci sei più tu; fottuto perché sento che se non mi calo la mia dose quotidiana finirò per impazzire e a lungo andare finirò anche di vivere; incompreso perché nessuno mi crederebbe se dicessi che sento delle voci uscire dalle pareti e dei passi in giardino e sopra il tetto. Corro in camera mia e mi butto a capofitto sul letto pensando che se ci fossi tu, Grace, mi abbracceresti forte e mi parleresti con la tua voce dolce finché non passa tutto. Adesso l’unico rumore che sento è quello del freddo vento di novembre che si insinua dalle finestre nel corridoio e nelle stanze. È un rumore spaventoso, come un sussurro malvagio nel buio. Sembra che ci sia davvero qualcuno. Grace, torna da me, ho tanta paura.

No, no, Nikki, è tutta un’allucinazione...

Invece sì, c’è qualcuno che è venuto apposta per farmi del male, e più il vento si alza, più il rumore diventa intenso, più questo qualcuno è vicino. Mi alzo di scatto dal letto e barcollo fino al corridoio, poi faccio il giro di tutte le stanze con il cuore in gola per assicurarmi che siano davvero vuote, ma appena sfioro una maniglia sembra che questa sia mossa da una mano che la afferra dalla parte opposta. Torno in camera di corsa e mi sdraio sul letto disfatto, affondando il viso in uno dei cuscini. È quello che usi sempre tu, Grace, e il profumo dei tuoi capelli è rimasto attaccato alla stoffa. Mi sembra che tu sia ancora qui e vorrei che fosse davvero così, perché significherebbe che non ti ho mai fatta andare via con il mio comportamento di merda.

Chissà se hai ancora fiducia in me?

Dopo quello che è successo, dubito che tornerai a trovarmi. Chissà che non sia meglio così?

Adesso però voglio sapere dov’è finito quel fottuto telefono. L’ho spostato dal suo solito posto e non riesco più a trovarlo. Ah, eccolo qui, era sul pavimento perché l’ultima telefonata che ho effettuato l’ho fatta stando seduto per terra. Del resto, ha un cavo, non poteva essere andato tanto lontano, ma non l’avevo capito subito. Digito il numero di quel parassita di Jason e gli ordino dell’eroina. Tra una decina di minuti sarà qui e avrà con sé ciò che gli ho chiesto. Ne ho bisogno. Se mi vedessi mentre mi preparo la dose, forse capiresti che per me non c’è via di scampo. I cristalli dorati si sciolgono troppo lentamente e là fuori c’è la polizia che vuole entrare. Se non farò sparire questa roba sotto la mia pelle la troveranno, e allora sarò nei guai fino al collo.

Andatevene via, cazzo!

Via...


Quando mi svegliai avevo un mal di testa perforante e lo stomaco sembrava essersi attorcigliato su se stesso. Avevo dormito pesantemente per due ore, sdraiato al centro del letto e a pancia in su, come se fossi stato morto. In quei momenti stavo così male che avrei voluto esserlo per davvero, ed ero arrivato a un punto di disperazione tale che, prima di chiudere gli occhi per dormire, pregavo Dio che facesse in modo che non li riaprissi mai più. Era già buio ed ero convinto che Grace fosse ancora con me, ma quando alzai lo sguardo per cercarla e non la vidi, cominciai a correre per tutta la casa, chiamandola ad alta voce. Solo quando mi ritrovai seduto sul divano di pelle appiccicosa mi ricordai che poco tempo prima eravamo stati lì, abbracciati, e io ero talmente fuori che le avevo chiesto di farsi una dose con me. Mi portai subito le mani al viso e mi sentii uno schifo. Mi diedi uno schiaffo da solo: come avevo potuto chiedere una cosa del genere all’unica persona che mi voleva bene nonostante fossi un cazzone completo? Temevo di averla persa per sempre e non riuscivo ad ammettere che se non l’avessi più vista sarebbe stata tutta colpa mia.

Era tutta colpa di quello stronzo di Sikki, ovvero la parte malaticcia e perversa di me, quella che voleva sopraffare il vero Nikki e prendere il controllo della situazione. Ci stava riuscendo bene, soprattutto quando ero fatto, in astinenza o nel bel mezzo di una crisi. Appena si accorgeva che ero troppo debole per lottare, subentrava lui, quella spregevole creatura, e ne combinava una delle sue. Però Sikki ero sempre io, che lo volessi o meno. Qualsiasi sua azione era colpa mia perché alla fine non eravamo che la stessa persona. Grace avrebbe dovuto temerlo, ma era troppo fissata sul Nikki solo e spaventato per farlo, allora mi promisi che, se mai ci fossimo incontrati ancora, l’avrei pregata di non farsi vedere mai più per evitare conseguenze spiacevoli per entrambi, soprattutto per lei. Avrebbe fatto male, però era un passo che andava fatto.

Mi alzai dal divano. Avevo male dappertutto, l’incavo del gomito sinistro mi pulsava come se fosse stato sul punto di esplodere, e il mal di testa che mi tormentava da quando mi ero svegliato non accennava a migliorare, e in casa non era rimasta neanche una pastiglia di antidolorifico. A dire il vero, non era rimasto più nulla se non si contano le riviste di musica sparse per il salotto e qualche residuo del mio armamentario incrostato.

Mi trascinai svogliatamente fino alla finestra, appoggiai la fronte al vetro sporco e guardai il mio giardino incolto e abbandonato a se stesso, esattamente come il suo proprietario.

Chissà dov’era Grace adesso?




N. d’A.: Bella domanda, Sixx: dov’è Grace adesso?
Questo capitolo è un po’ corto, però ho cercato di metterci più pathos possibile. Spero che vi piaccia, è uno dei miei preferiti! Ah, e so che la parte in corsivo presenta parecchie imperfezioni nella forma, ma vi posso assicurare che sono tutte state inserite appositamente al fine di ricreare il discorso – è anche al presente per rendere meglio l’idea – di un Sikki completamente fuori di sé.
Ciò detto... ci si rilegge mercoledì prossimo! =D
Un abbraccio forte forte a tutti voi, soprattutto ora che, dopo l’annuncio dell’ultimo tour dei Crüe, ne abbiamo tutti bisogno. Però se è questo quello che vogliono, che sia... i Mötley sono leggenda, e le leggende sono eterne. ♥
Per concludere... ho in serbo una chicca demenziale per il compleanno del biondo. Sono mesi che l’ idea mi ronza per la testa, e a quanto pare ho fatto appena in tempo a buttarla giù! Spero di riuscire a pubblicarla sabato, altrimenti sarà un qualche altro giorno lì intorno!
A rock and roll kiss,

Angie

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Capitolo 22
*** Grace ***


22) GRACE

Stavo camminando a passo spedito lungo il Valley Vista Boulevard quando un’automobile rallentò per procedere a passo d’uomo e seguirmi. Per un attimo contemplai l’idea di mettermi a correre, ma mi fu sufficiente notarne il colore scintillante per capire all’istante a chi appartenesse.

“Chi si vede!” esclamò Vince sbucando dal finestrino, gli occhiali da sole calati sul naso come se a quell’ora ce ne fosse stato veramente bisogno. “Credevo che fossi a casa di Nikki.”

“Infatti ci sono stata fino ad ora,” risposi mentre mi avvicinavo all’auto.

“Dove stai andando?” domandò dopo aver sollevato gli occhiali sul capo.

“Da Elisabeth, sempre ammesso che sia a casa.”

Vince scosse il capo fingendosi dispiaciuto. “Non per rovinarti la serata, ma è appena andata a trovare Tommy.”

Alzai gli occhi al cielo: qualcosa mi diceva che da quel giorno io e Beth ci saremmo viste sempre meno, e non la biasimavo.

Vince si offrì di darmi il secondo passaggio della giornata, ma io non avevo affatto voglia di tornare a casa. Dopo quello che era successo con Nikki avrei preferito fare una passeggiata per distrarmi e smaltire la rabbia.

“Cos’hai intenzione di fare ora?” mi chiese Vince mentre mi seguiva piano con la macchina. Stava cominciando a seccarmi con tutte le sue domande da terzo grado e, soprattutto, con il suo ghigno da finto innocente interessato alla mia situazione.

Feci spallucce. “Non ho idea di dove andare, ma credo che aspetterò che sia passata l’ora di cena prima di rientrare. Avevo detto che sarei andata a mangiare fuori perché avevo in programma di restare da Nikki a fargli compagnia visto che me l’aveva chiesto, però stasera mi è sembrato troppo su di giri e ho preferito andare via.”

Vince sobbalzò e inchiodò. “Per caso è successo qualcosa?.”

“Mi ha offerto una dose, ma non l’ho accettata,” risposi. Vince continuava a guardarmi senza proferire parola, poi vidi un sorriso spavaldo spuntare sul suo viso che non prometteva nulla di buono, almeno non per me.

“Quindi ti manca solo qualcuno con cui andare a cena, giusto?” azzardò.

Sbuffai. “Già. Credo che prenderò un burrito al baracchino vicino alle scuole.”

Vince fece una smorfia di disappunto. “Che cosa triste. Io avrei un’idea migliore visto che stasera non sei l’unica ad essere stata abbandonata da tutti.”

“Non mi ha abbandonata proprio nessuno,” ribattei stizzita.

“Be’, però a me sì,” rispose Vince, poi fece un sorriso sornione. “Però hai ragione: io non ti ho abbandonata come ha fatto quell’ingrata di Elisabeth con te e quello stronzo di T-Bone con me.”

Mi strinsi nelle spalle, rassegnata. “Quale sarebbe la tua idea?”

Vince appoggiò un braccio sul finestrino abbassato e cominciò a gesticolare. “Sono a casa da solo e non ho niente da fare, e tu anche. A casa mia c’è un sacco di spazio e siamo al sicuro da eventuali occhi indiscreti. Il massimo che posso offrirti è una pizza visto che il mio pizzaiolo di fiducia me la porta sempre a casa, ma posso assicurarti che la fa veramente buona.”

Aggrottai le sopracciglia senza però riuscire a nascondere un sorriso divertito. “Dici davvero?”

“Certo. È il migliore di tutta Los Angeles. Me lo sono scelto bene, io,” spiegò con fare da saputello.

“Se fossi sicura che casa tua non fosse un bordello internazionale verrei volentieri.”

A quelle parole Vince prese ad agitare le mani come se avesse voluto ricacciarmi in gola la frase che avevo appena proferito. “No! Scherzi? Cioè, forse sì, a volte esagero con le feste, ma ultimamente non più tanto.”

“Oh, mi dispiace,” dissi con tono melodrammatico mentre facevo il giro della macchina, poi bussai al finestrino della portiera opposta per farmi aprire perché aveva inserito la sicura. Forse anche lui, proprio come me, aveva paura che gli piombassero in macchina mentre era fermo in coda sui viali. Oppure, più facilmente, nel suo caso avrebbero provato a scattargli una foto o a saltargli addosso piuttosto che tentare di rapinarlo.

Vince spostò una pila di fogli dal sedile del passeggero per farmi spazio. “Come vedi, anche se non sembra, i Crüe stanno provando a lavorare per sfornare un eventuale album. Questi sono abbozzi di testi e scartoffie varie che mi tocca portare a casa.”

“Dove abiti esattamente?”

“Sopra Hollywood, un po’ in alto. Dal mio giardino si ha una splendida visuale del paesaggio.”

Il panorama lo avevo visto anche dalle Hollywood Hills con Nikki. Chissà che cosa avrebbe pensato se mi avesse vista salire in macchina con il suo cantante? Ero certa che si sarebbe arrabbiato parecchio perché sapevo quanto fosse geloso di me come amica, però non poteva pretendere che avessi attenzioni solo per lui. E poi, cosa ancora più importante, che cosa avrebbe pensato la mia famiglia? Solo in quel momento, mentre andavamo verso Hollywood, realizzai che, in effetti, nessuno sapeva con chi avevo stretto amicizia negli ultimi tempi. Se i miei genitori ne fossero venuti a conoscenza, mi avrebbero fatto una ramanzina infinita e tragica, mentre se lo avesse saputo mia nonna come minimo mi avrebbe attaccato una collana d’agli al collo visto che era convinta che la villa di Nikki fosse abitata da un vampiro o da qualche altro essere simile. Nessuno di loro avrebbe capito.

E io che cosa pensavo di me stessa?

Rabbrividii non appena sentii parlare la mia coscienza, che sembrava ripetermi di continuo la parola “groupie”. Una vocina dentro di me non la piantava di mettermi in guardia dal possibile giudizio altrui se si fosse saputo che non solo ero diventata la confidente di una rockstar, ma che adesso stavo anche andando a casa del cantante della sua band su suo invito. Sbuffai sonoramente e Vince se ne accorse.

“Tutto bene?” domandò.

“Stavo solo pensando.”

Appoggiai la testa al sedile e osservai il ben poco ridente paesaggio urbano fatto di abitazioni decadenti e attività al pian terreno lasciare il posto a case indipendenti con prati curati. Le sorpassammo tutte finché non giungemmo davanti a un cancello nero ed elegante che dava su un giardino verdeggiante, ornato da palme altissime e attraversato da un vialetto di pietre che conduceva a una casa su due piani.

“Davvero vivi qui?” domandai con il naso appoggiato al vetro.

Vince annuì e premette il pulsante del telecomando del cancello. “Sì. È un po’ grande per me da solo, ma mi trovo bene.”

“È un posto enorme.”

“Ti farò fare un giro, abbiamo ancora molto tempo.”

Parcheggiò davanti al garage e scesi, tenendo lo sguardo fisso sullo splendido giardino che sembrava più un parco, nonché il mio sogno da quando ero bambina. C’erano cespugli di rose di diversi colori, palme e siepi perfette che inglobavano la rete metallica della recinzione, mentre dei lampioncini bassi creavano aloni di luce calda sulla stradina di pietra. Vince mi fece cenno di seguirlo in casa e mi spiegò che si era trasferito in quella sorta di Eden sulla Terra da qualche mese per stare lontano dal traffico cittadino e, soprattutto, per sfuggire agli obiettivi dei giornalisti. Spinse poi un portone di legno massiccio e mi ritrovai in un salotto enorme e in perfetto ordine, un vero e proprio paradiso in confronto a quello di Nikki: non c’era neanche un velo di polvere sui ripiani di vetro di una grande libreria occupata da dischi, e le uniche bottiglie presenti erano sistemate in ordine su un carrellino dorato insieme ad alcuni bicchieri capovolti sul ripiano di marmo. Se Vince avesse voluto farmi fare veramente il tour di quella casa ne sarei uscita il giorno dopo tanto era spaziosa, tuttavia lo seguii mentre saliva le scale con passo deciso per mostrarmi anche il piano superiore. C’erano quattro camere, due delle quali erano completamente vuote e, mentre mi guardavo intorno a bocca aperta, mi domandavo per quale motivo abitasse da solo in una villa del genere. Tutte le luci erano accese e da questo dedussi che, probabilmente, il fatto di essere l’unica anima viva nella casa lo intimorisse. Mentre io facevo i miei ragionamenti e le mie ipotesi, Vince parlava velocissimo e puntava il dito dappertutto per indicare le cose che nominava come un bimbo emozionato che ti parla della sua cameretta nuova.

“È un peccato che sia buio, mi sarebbe piaciuto vedere il giardino alla luce del sole,” confessai mentre scendevamo le scale.

Vince sogghignò. “La parte sul retro è più illuminata di quella sul davanti visto che è quella che preferisco, poi di notte è più suggestiva perché, come ti dicevo, si affaccia su Hollywood.”

Mi accompagnò nuovamente in salotto e aprì una grande portafinestra che conduceva alla parte restante del giardino. Uscii sotto la tettoia e notai che la recinzione coperta dalla siepe aveva lasciato il posto a una cancellata in ferro battuto rivolta verso la città, della quale si potevano vedere tutte le luci e riconoscere gli edifici principali dello skyline di Downtown. Infine, in mezzo al prato, illuminata da luci gialle e soffuse, c’era una piscina.

“Vedo che non ti fai mancare proprio niente,” esclamai indicandola.

“Se solo avessi tempo la utilizzerei più spesso,” rispose Vince divertito, poi richiamò la mia attenzione toccandomi una spalla con la punta dell’indice. “Vuoi fare un bagno?”

Sobbalzai di fronte a quella richiesta bizzarra. “Stai scherzando? Siamo in novembre, non è più tempo da bagno in piscina.”

Vince si abbassò per sussurrarm iin un orecchio. “Stai forse insinuando che la mia piscina non sia riscaldata?”

Ma ti pare, Grace? Come hai fatto a non arrivarci subito?, pensai sarcastica. Però io, anche se mi sarebbe piaciuto, non avevo la minima intenzione di fare un bagno visto che non ero affatto capace di nuotare. Il massimo che ero in grado di fare era stare attaccata al bordo e avanzare di qualche metro, agitando le braccia e le gambe in modo scoordinato e imbarazzante. Va da sé che non avevo per niente voglia di fare una figuraccia con i miei movimenti goffi di fronte a Vince.

“Sei sicuro che sia abbastanza calda?” domandai per temporeggiare.

Vince mi invitò a provarlo di persona e mi avvicinai al bordo per immergere una mano nell’acqua che, effettivamente, era alla temperatura perfetta per fare un bagno. A quel punto estrassi la mano e sbuffai. “Non ho un costume.”

“Per quello non c’è problema,” saltò su Vince. Cominciai a preoccuparmi per le parole che avrebbero seguito quell’esclamazione perché prevedevo una battuta di pessimo gusto. “Te lo presto io. Dovrei averne uno in giro.”

Certo, e chissà a chi era appartenuto...

Lasciai cadere pesantemente le braccia lungo i fianchi. “Quindi non ho scampo?”

Vince scosse il capo fingendosi dispiaciuto, ma il suo tono lasciò intendere l’esatto contrario. “Se proprio non vuoi possiamo lasciare perdere, ma sappi che una nuotata in tua compagnia mi farebbe comunque piacere.”

Se non avessi voluto accettare la sua proposta mi sarei rifiutata senza farmi troppi problemi, ma siccome l’idea di un bagno caldo in piscina in pieno novembre con vista Los Angeles stava cominciando a incuriosirmi, decisi di accettare. Del resto, nessuno sarebbe venuto a conoscenza di quella mia piccola follia, che altro non era che un “bagno nella piscina della villa da nababbo di Vince Neil”. Vince corse dentro a cercare il famigerato costume, probabilmente dimenticato da una delle tante tipe che gironzolavano per casa sua e, quando lo sentii esultare dal piano superiore per averlo trovato, pregai che il pezzo di sopra non fosse troppo largo e quello sotto troppo piccolo. Entrai in bagno ciondolando e ne uscii avvolta in un telo, poi raggiunsi Vince a bordo vasca.

“Tu cosa pensi di fare mentre io mi crogiolo nel tepore della tua piscina?” domandai mentre immergevo le gambe nell’acqua tiepida.

Vince alzò le spalle. “Credo che resterò qui a guardare.”

“Mi dispiace per te, ma non c’è proprio niente da vedere,” ribattei, poi sollevai una manciata d’acqua e gliela lanciai.

“Questo lo dici tu,” rispose mentre si toglieva le goccioline dalla chioma bionda con gesti svelti della mano.

Lasciai scivolare il telo sul prato dietro di me e mi raccolsi i capelli in uno chignon improvvisato, dopodiché entrai cautamente in acqua. Il calore mi avvolse il corpo e i brividi che avevo provato mentre attraversavo il giardino lasciarono spazio a una piacevole sensazione di relax. Per un attimo mi dimenticai addirittura di essere nel bel mezzo dell’autunno. Intanto Vince se ne stava seduto su una sedia di paglia a bordo vasca a rigirare una bottiglia vuota sulla superficie di un tavolino, sbirciandomi di tanto in tanto. Se pensava di aver trovato l’ennesima ragazza disposta a stare in ammollo nella sua piscina per la pura gioia dei suoi occhi, si stava sbagliando di grosso, allora mi avvicinai al bordo e mi misi in punta di piedi per appoggiare bene le braccia. “Mi hai chiesto di venire qui perché eravamo entrambi soli, ma tu non sei di molta compagnia.”

“Non sono un amante delle chiacchiere,” si giustificò fissando la punta ardente della sigaretta.

“Io però sì,” ribattei, poi tesi una mano verso di lui. “E poi avevi detto che una nuotata in mia compagnia ti avrebbe fatto piacere.”

Mi guardò di sbieco, sogghignando, poi si alzò dalla sedia di paglia e lasciò la giacca di jeans sullo schienale. “Visto che ci tieni tanto, allora vengo anch’io.”

“Non è che ci tengo, è che me lo avevi promesso,” lo interruppi.

Fece roteare gli occhi. “E infatti sto arrivando.”

A un certo punto vidi le sue dita avvicinarsi ai bottoni dei jeans e mi portai istintivamente le mani davanti agli occhi. “Ehi, aspetta un momento!”

Vince aggrottò la fronte senza fermarsi. “Cosa c’è? Adesso non si può neanche più fare un bagno in mutande nella piscina di casa propria?”

Spostai appena le mani dal viso. “In... mutande? Voglio dire... tu porti le–”

“Credevi che non le avessi?” chiese divertito.

Mi immersi nell’acqua fino al mento, imbarazzata per la figuraccia che avevo appena fatto, e annuii, scatenando una sua risata che presto contagiò anche me. Non era colpa mia se durante uno dei nostri discorsi per passare il tempo Nikki mi aveva svelato questo particolare che, viste le persone con le quali avevo a che fare, era più che intuibile.

“Che idee ti ronzano per la testa? Mick ha il suo bel da dire quando dice a Nikki che deve stare lontano dalle brave ragazze.”

Riemersi. “Cos’è che ha detto Mars?”

“Niente,” disse Vince prima di calciare via i jeans da vicino i suoi piedi e senza smettere di ridacchiare tra sé. “Ritornando al discorso di prima, se proprio la vista di un paio di mutande ti dà così fastidio, posso sempre farle sparire.”

Mi passai un palmo sul viso. “Credo che sopporterò le mutande.”

Vince indugiò un po’ a bordo vasca poi si tuffò all’improvviso, e il suono dell’acqua interruppe il silenzio circostante. Tornò a galla dopo qualche secondo, per poi immergersi nuovamente, guadagnare qualche metro e riemergere davanti a me. Mi fissò con i grandi occhi scuri e le labbra carnose si piegarono in un caldo sorriso. Ero abituata a vederlo strizzato nello spandex e ricoperto di glitter e avevo sempre pensato che gente come Nikki o altre band lo battessero dieci a zero. Ora che però non c’era traccia dei costumi e del trucco di scena, lo ritenevo di gran lunga più provocante, forse anche più di quanto avrei dovuto.

Spostai lo sguardo sui tatuaggi che aveva sulle braccia e ne indicai uno. “Anche a me piacerebbe averne uno.”

Vince si mostrò molto compiaciuto. “Cosa vorresti farti?”

“Pensavo a un falco,” risposi con estrema convinzione. “È il mio animale preferito. Forse ti può sembrare una sciocchezza, però per me significa molto.”

Vince appoggiò un gomito sul bordo e si sorresse il capo con la mano, dondolandosi appena nella penombra. “Non è vero, invece. Rappresenta la forza e, soprattutto, la libertà. Sei uno spirito libero, Grace. Dove lo vorresti?”

“Devo ancora deciderlo.”

“Se la mia opinione può interessarti, credo che starebbe bene qui,” suggerì sfiorandomi una spalla con la punta del dito, poi pian piano fece aderire l’intera mano per accarezzarmi la schiena e fui immediatamente scossa da dei brividi bollenti. Mi voltai, forse troppo velocemente e con gli occhi spalancati, facendogli intendere alla perfezione quale fosse stata la mia reazione a quel leggero contatto. Vince però non disse niente né si lasciò scappare una delle sue battute a sproposito, come credevo avrebbe fatto, ma continuò a guardarmi fisso negli occhi. Pensai che se non avesse smesso subito, avrei finito per non rispondere più delle mie azioni per non esplodere. L’ultima volta che avevo provato qualcosa di simile era stato a casa di Nikki, per l’esattezza quando mi era venuto vicino per spiegarmi come suonare un pezzo alla chitarra, ma in quel caso lui non aveva intenzioni particolari e io avevo provato solo molto imbarazzo di fronte a una persona che non conoscevo ancora abbastanza. Quella sera, invece, Vince aveva sicuramente qualche idea che gli vagabondava nella mente da chissà quanto tempo e io, anziché imbarazzata o a disagio come era successo con Nikki, ero fortemente attratta. Non riuscivo a fare a meno di studiare ogni suo minimo particolare e imprimermelo nella mente, e lo fissai finché non portò una mano dietro la mia testa per sciogliere lo chignon. I miei capelli mi ricaddero sulle spalle, galleggiando sul pelo dell’acqua come tanti raggi di sole.

“Così stai meglio,” disse Vince, poi lanciò l’elastico fuori dalla piscina.

Avrei preferito non bagnarli, ma ero certa che un tipo come lui fosse attrezzato e avesse un asciugacapelli da qualche parte nella sua casa enorme.

“Adesso cosa si fa?” domandai guardando il cielo terso dominato da un timido quarto di luna che, con la sua luce tenue, donava alla nostra pelle un colore argenteo.

Vince alzò gli occhi verso l’alto per guardare nella mia stessa direzione. “Di solito mi metto a osservare Hollywood, però tu mi hai fatto venire in mente che esiste anche il cielo. Sai, non è che abbia molto tempo per guardare attentamente ciò che mi circonda.”

Colsi una vena di malinconia nella sua ultima frase e mi avvicinai un po’. Proprio come mi aveva detto Nikki, essere una rockstar che è perennemente in tour non deve essere certo una passeggiata.

“Avete dei concerti in programma?” domandai per rompere il silenzio.

Vince alzò le spalle. “Oh, sì, tanti. Siamo spesso fuori città. Adesso però lasciamo perdere il tour, non voglio che pensi che stai parlando con il cantante figo di una delle band più casiniste e conosciute di tutti gli Stati Uniti. Voglio che pensi che stai parlando con Vince e basta.”

“Vince e basta...” ripetei a bassa voce, come se avessi voluto convincermi, poi lui mi circondò le spalle con un braccio e mi fece cenno di non parlare più.

“Ascolta,” mormorò con le labbra così vicine al mio orecchio che potevo sentirle sfiorarlo appena.

“Che cosa?” chiesi con il suo stesso tono di voce.

“I grilli. Io lo faccio sempre, penso che sia rilassante.”

Chiusi gli occhi e ascoltai il loro frinire. Il giardino ne era pieno e il loro flebile verso sembrava essere direttamente generato dal buio dei punti più oscuri. Mentre ero assorta nell’ascolto, lasciai scivolare distrattamente il capo di lato, finendo per appoggiarlo sulla spalla di Vince. Normalmente mi sarei data della stupida per essere stata così sbadata e aver rischiato di infastidirlo, ma quella volta non lo feci né mi spostai.




N. d’A.: Ave, gente!
Ecco svelato il mistero su dove fosse finita Grace!
Apparentemente la situazione sembra essersi calmata, ma state tranquilli, i casini stanno tornando, e anche in fretta.
Mercoledì prossimo arriverà il prossimo capitolo, a meno che i libri di filosofia non abbiano divorato la Mars – me misera! Ma sono certa che sopravvivrò!
Un bacio a tutti quanti e un grazie grande come una casa a tutti coloro che recensiscono, seguono e leggono in silenzio! ♥♥

Angie

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Capitolo 23
*** Vince ***


23) VINCE

I grilli... ma cosa mi era saltato in mente? Non ne avevo idea e continuai a domandarmelo mentre lasciavo che Grace restasse con la testa appoggiata alla mia spalla. Per arrivare a mettersi in quella posizione doveva alzarsi sulle punte dei piedi, ma il fatto che fosse bassa non significava che non fosse bella o che non mi sentissi attratto da lei. Anzi, a me piaceva, forse anche più del dovuto, e mi ero accorto della sua bellezza fin dal primo momento in cui l’avevo vista. Inizialmente avevo in mente solo di farmela e basta, incurante della sua amicizia con Nikki, poi però avevamo parlato un paio di volte e avevo capito di non aver a che fare con l’ennesima groupie di turno che vuole cancellare un nome dalla lista delle rockstar con cui sperava di andare. Grace era simpatica, intelligente e comprensiva e, a quanto pareva, non ero l’unico a essermene accorto: Nikki ne parlava come se fosse stata la sorella comprensiva che non aveva mai avuto, Tommy ci riportava solo cose positive sul suo conto basandosi su ciò che gli raccontava Elisabeth, e Mick, che era il vecchio della situazione, non faceva altro che ripeterci che non dovevamo azzardarci ad andarle vicino – non avevo ben capito cosa gli fosse preso, sembrava quasi che volesse proteggerla come se fosse stata sua cugina o qualcosa del genere. Poi c’ero io, quello che passava sempre per l’arrapato di turno – e in effetti era vero – però a nessuno sovveniva mai che forse anche il re dello stravizio avesse un cuore. A volte era un po’ bastardo, è vero, ma era pur sempre un cuore che provava dei sentimenti. Era in grado di provarne di forti quando si rendeva conto di aver trovato qualcuno per cui valesse la pena sforzarsi di voler bene, e lo faceva volentieri. Adesso avevo trovato Grace: era bella, dolce e forse non conosceva l’ambiente a cui appartenevo, però era interessante. Mi sentivo peggio di un moccioso delle scuole medie alle prese con la prima cotta, forse perché era uno dei pochi veri sentimenti che avessi vissuto fino a quel momento. Gli altri erano andati tutti a farsi fottere e, poiché non potevo predire le sorti di quello che stavo vivendo – e che non sapevo nemmeno se fosse ricambiato – pensai che sarebbe stato meglio cogliere l’attimo per non avere rimpianti in futuro.

Grace sollevò il capo dalla mia spalla e riaprì gli occhi. “Comincia a fare freddo. Credo che sia meglio rientrare,” si avvicinò poi al bordo e allungò una mano verso il telo. “Ne abbiamo uno solo, prendilo tu.”

“Così dopo ti prendi il raffreddore? Nah, neanche per sogno,” ribattei ironico.

“Non vorrai prenderti il mal di gola e perdere la voce?” esclamò divertita, poi uscì dall’acqua e corse fino dentro casa stringendosi nelle spalle, la pelle bagnata che brillava sotto la luce della luna.

Presi l’asciugamano che aveva abbandonato vicino al bordo vasca, me lo buttai addosso e rientrai. Mentre attraversavo il salotto, Grace sbucò da una delle porte, ancora bagnata e tremante, e mi chiese se poteva avere un altro telo. Ci misi un po’ prima di risponderle perché mi soffermai a osservarla perché il costume bianco che avevo ripescato da uno dei cassetti lasciava intravedere più cose di quando avrebbe dovuto.

“Allora?” esclamò Grace, stanca di aspettare.

Buono, Vince, a cuccia, mi ripetevo mentalmente mentre tenevo gli occhi fissi laddove la stoffa era più trasparente.

“Mi hai sentita?” continuò Grace. “Sto congelando. Posso avere un asciugamano o me lo devo cercare da sola?”

Mi scansai di scatto dal bordo del tavolo al quale mi ero appoggiato e la raggiunsi con un paio di passi per poi fermarmi davanti a lei e guardarla dritto negli occhi.

“Ce ne dovrebbe essere uno nella seconda stanza a sinistra, dentro l’armadio,” risposi tutto d’un fiato. Grace mi ringraziò e corse al piano superiore, e nel frattempo io mi maledicevo per non aver fatto qualcosa per non farla allontanare. Dov’era finito il vecchio Vince che conoscevo, quello che aveva sempre la risposta pronta e non si lasciava intimorire da niente?

Mandai a ‘fanculo tutto quanto e corsi anch’io di sopra, dove trovai Grace in punta di piedi nella speranza di riuscire a raggiungere uno degli asciugamani che la domestica aveva sistemato nei ripiani più alti. Era evidente che le servisse aiuto, allora mi avvicinai per aiutarla. Le appoggiai una mano sul fianco per invitarla a spostarsi e intanto cercavo di raggiungere il lembo di uno dei teli per prenderlo giù, sfiorandole appositamente la schiena umida col corpo. Dal momento che erano stati tutti stipati in un solo ripiano, erano così stretti che fu sufficiente che ne tirassi uno per spostare anche gli altri. Una decina di asciugamani bianchi volò giù dallo scaffale dell’armadio e Grace tentò di schivarli, ma nel voltarsi di scatto mi prese contro e finimmo tutti e due sul pavimento, sepolti da una valanga di asciugamani come due perfetti cretini. Me la ritrovai sopra, con gli occhi fissi nei miei, e un telo bianco aperto sulle spalle a fare ombra su di noi. Da dietro il suo collo spuntava un laccetto del costume ed ero fortemente tentato a tirarlo finché il nodo non si fosse sciolto. Avrei potuto approfittare del momento, ma avrei dovuto aver capito già da un po’ che tutto era partito nel modo più errato in assoluto. Più semplicemente, avrei dovuto dare ascolto ai cattivi presagi, o almeno così credevo.

Grace si alzò da terra e si affrettò a raggiungere la porta, stretta nel suo asciugamano. “Scusa, ma non ci arrivavo.”

“Scherzi?” risposi fingendomi rilassato mentre la guardavo da ancora steso sul pavimento. “Non preoccuparti per gli asciugamani, se non mi fossi intromesso non sarebbe successo.”

Grace annuì e la sentii correre verso il bagno per poi chiudersi dentro a chiave. Sbuffai e lasciai cadere la testa sul pavimento, ancora invaso dai teli che erano volati giù, poi fui costretto ad alzarmi per cercare di rimediare alla meglio a quel casino, finendo per arrendermi e lasciare tutto com’era.

Che figura di merda e che scena patetica! Avrei preferito essere centrato in pieno da ventimila asciugamani alla volta ed essere schiacciato sotto il loro peso piuttosto che pensare a quel piccolo e stupido incidente. Il problema più grave era che non avevo neanche approfittato della situazione. Che cosa avevano disciolto nell’acqua della piscina, sonnifero? Oppure ero che mi ero rimbecillito? Scossi il capo e continuai a scuoterlo anche mentre aspettavo Grace in salotto, rassegnato a riportarla a casa e con davanti la sua immagine nel bikini bianco.

Scese mezz’ora dopo, con i capelli raccolti in una coda e il costume in mano. “Grazie per avermelo prestato e per gli asciugamani, anche se mi sarei accontentata di uno solo.”

Sospirai. Forse quell’immane cazzata non era stata poi così imbarazzante come avevo creduto visto che ci stava già ironizzando sopra.

“Tra una cosa e l’altra ci siamo dimenticati di mangiare,” constatò con amarezza, massaggiandosi il ventre all’altezza dello stomaco.

Mi grattai la nuca. “In effetti, anch’io ho un po’ fame. Vuoi che ordini le pizze? Se chiedo di portarmele subito obbediscono, tanto sanno che a volte vado di fretta.”

Più che altro, i pizzaioli erano consapevoli delle mance che elargico.

Grace scosse il capo. “Mi piacerebbe, ma è tardi, devo tornare a casa o... o penseranno giusto.”

Inarcai un sopracciglio. “Ovvero?”

“Che sono stata rapita da uno sconosciuto,” rispose accompagnando la frase con un occhiolino. Tirai un sospiro di sollievo perché credevo che ci aggiungesse qualcosa del tipo “uno sconosciuto pervertito che, pur di provarci con me, mi ha convinta a fare un bagno in una piscina riscaldata, ma ha fallito miseramente”.

“Ammettilo che è stato divertente,” ribattei per sdrammatizzare ma, soprattutto, per convincermi che fosse veramente così.

Grace rise. “Devo proprio ammettere che avevi ragione quando mi hai detto che sarebbe stato meglio venire a casa con te piuttosto che mangiare un burrito in solitudine al chiosco davanti alla mia vecchia scuola.”

Mi sentii molto soddisfatto. “Quindi puoi dire che, asciugamani a parte, la serata non sia stata del tutto spiacevole?”

Grace avanzò di qualche passo verso di me e sollevò appena il capo per potermi guardare in faccia. “Proprio così. Alla fine è stata una bella serata.”

Adesso era troppo vicina e non riuscivo a sopportare la vista di quella coda improvvisata, allora presi l’elastico e la sciolsi come avevo fatto poco tempo prima per la sola gioia di vedere i suoi capelli ricaderle sulle spalle. Stavolta non mi guardò stranita e si lasciò sfuggire un’occhiata fin troppo lasciva.

Avanti, Vince! Non vedi come ti guarda? mi dissi. Fa’ qualcosa prima che sia troppo tardi. Ne va della tua stima di te stesso e, se proprio vogliamo essere puntigliosi, anche dei tuoi sentimenti. Metti da parte la morale, se mai ne hai avuto anche solo un briciolo, e agisci.

Non ero solito ascoltare la maledetta vocina della mia coscienza che mi ronzava nella testa, ma quella volta lo feci: passai una mano tra i capelli di Grace e la tirai a me per far aderire le nostre labbra. Credevo che mi avrebbe respinto perché mi riteneva solo uno sfigato che voleva provarci, invece non accadde. Restò subito immobile, poi prese coraggio e ricambiò il bacio con passione. Avevo capito che era davvero ora di andare e riportarla a Van Nuys, ma non riuscivo a staccarmi da lei e a smettere di mordicchiarla. Ero perso, totalmente e irrimediabilmente rapito da quell’intrigante attorcigliarsi di lingue. Volevo percorrere in quel modo ogni singolo centimetro dello stesso corpo morbido che avevo visto e continuavo a immaginare a malapena coperto dal costume bagnato e trasparente, avevo caldo e non vedevo l’ora di liberarmi e liberarla da tutti i vestiti. La mia stanza era al piano di sopra e ci avrei impiegato meno di dieci secondi a sollevarla e a portarcela, ma avevo così fretta che mi sarei accontentato del divano o addirittura della porzione di pavimento sulla quale ci trovavamo in quel preciso istante. Le passai un braccio intorno alla vita per trascinarla con me mentre scivolavo contro la parete, ma Grace oppose resistenza.

“No, Vince,” mi ammonì. “Non ora. Lo sai che non posso.”

Mi staccai dal muro e presi a parlarle sfiorandole il collo con le labbra. “Non ho intenzione di lasciarti andare via così.”

“Non sono una delle tue groupie, ficcatelo bene in testa,” la voce le tremava, segno inequivocabile che la mia piacevole tortura stava avendo effetto.

“È per questo che voglio che tu rimanga,” mormorai mentre mi spostavo sempre più in basso, indaffarato a sbottonarle la camicetta. “Se tu fossi una persona a caso ti avrei già mandata via, ma non lo sei. Tu mi piaci, Grace.”

Sentii il ritmo del suo respiro diventare più veloce mentre scendevo lungo il suo petto. “Piantala di dire cazzate. Lo so benissimo che ripeti la stessa roba a tutte.”

“Non puoi saperlo perché non mi conosci,” ribattei.

Stavo per scostare un lembo della camicia quando Grace mi prese delicatamente le guance tra le mani e mi costrinse a smettere per guardare il suo viso, ora serio.

“Non ti credo,” disse tutto d’un fiato. “Non può essere possibile. Se restassi qui tu mi attaccheresti al muro per sbattermi poi mi cacceresti fuori di casa come un usa e getta, quindi non ho intenzione di stare alle tue regole.”

La strinsi a me facendo aderire bene i nostri corpi mentre i suoi occhi mi fissavano con avidità e indecisione allo stesso tempo. “Se solo sapessi come sono, non diresti così. Non smetterò di ripeterti che mi piaci perché è la verità. Raccontare cazzate mi riesce bene, ma posso assicurarti che questa non lo è. Se vuoi tornare a casa, allora ti ci porto, ma sappi che con te non ho finito.”

La baciai nuovamente con lo stesso trasporto di prima, poi la condussi alla macchina tenendo un braccio intorno alle sue spalle. Grace si limitava a camminare a passo spedito e a guardare un punto fisso davanti a sé, poi salì sull’auto e aspettò che fossimo in strada per rivolgermi una domanda. “Posso sapere cosa c’entra uno come te con una come me? Tu sei famoso e sempre circondato da donne bellissime, mentre io sono letteralmente la prima che passa. Non ho mai parlato con gente come te e non sono mai stata a una delle vostre feste.”

“Gracie, siamo tutti delle persone e proviamo dei sentimenti,” cominciai mentre guidavo verso Hollywood per una strada buia. “Tutte quelle donne che ho sempre intorno sono una conseguenza della mia fama che non ho mai disprezzato, ma loro vengono da me perché cercano quattrini o vogliono poter raccontare di essere state con una persona famosa. A quelle non interessa dei sentimenti e, quando sono con loro, non importa nemmeno a me. Tu però non sei una di loro e, anche se ti conosco da poco e i nostri primi discorsi non sono stati poi così piacevoli, posso già dire che apprezzo tutto di te.”

Grace appoggiò la testa al sedile. “Hai detto bene, ci conosciamo da poco e, da quel che mi sembra, questa è la prima volta in cui ci parliamo senza punzecchiarci a vicenda.”

Ecco, lo sapevo. Bravo, Vinnie, bella mossa, come al solito. Accidenti a te, vecchia canaglia!

Era troppo presto per lanciarsi in certi discorsi e avrei dovuto saperlo, così come avrei dovuto capire che forse per Grace non era nemmeno il momento adatto. Era più giovane di me, era molto impegnata con l’università per costruirsi un futuro, ed era già abbastanza incasinata per via dei pensieri che le dava Nikki. Avrei fatto meglio a tacere o addirittura a lasciarla andare a mangiare quel burrito da sola davanti alla scuola. Che razza di stupido ero stato! Se lei era una che capiva al volo le altre persone, io ero un coglione che non l’aveva capita affatto, o meglio, l’aveva capita troppo tardi, mandando tutto a farsi friggere solo perché pensava sempre prima a se stesso.

Mi fermai nel solito parcheggio in un quartiere residenziale di Van Nuys e feci cenno a Grace di aspettare prima di scendere. Le sorrisi e scrissi il mio numero di telefono sul retro di un biglietto da visita di uno studio fotografico di cui non mi interessava e glielo diedi. “Così possiamo tenerci in contatto. Non perderlo, eh?”

Grace ripose attentamente il biglietto nella borsa e, prima di aprire la portiera, si sporse verso di me e mi baciò un’ultima volta, poi mi passò una mano tra i capelli. “La pazienza è una grande virtù, Vince.”

“Ma io non mollo mai,” risposi. La sua risata argentina riempì l’abitacolo, poi mi salutò e sparì nel buio della strada. Mi domandai se avremmo avuto di nuovo l’occasione di stare insieme. Al di là di questo, il fatto di essere andato in bianco non mi andava proprio giù, quindi pensai che un bicchierino me lo meritavo. A pensarci bene, forse anche due o tre, o direttamente mezza bottiglia.




N. d’A.: Buonasera!
Chiedo venia per la scena degli asciugamani... l’ho scritta ad agosto e in sei mesi non sono mai riuscita a trovarne una che potesse sostituirla. Anyway, un po’ di demenziale non guasta mai! ;)
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento.
Mercoledì prossimo arriverà il seguito. Stay tuned!
Un bacio enorme,

Angie

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Capitolo 24
*** Grace ***


24) GRACE

Una sola parola riecheggiava nella mia testa, rimbalzando da una parte all’altra del mio cervello come una mosca impazzita che si è ritrovata intrappolata sotto ad un bicchiere e cerca disperatamente di uscire sbattendo contro il vetro.

Che razza di stronza. Prima Nikki, poi Vince! Complimenti, tesoro! Se lo sapesse tua madre... se lo sapessero i tuoi colleghi dell’università, continuava a ripetere.

Mi accasciai sul marciapiede e chinai il viso sulle ginocchia, prendendomi la testa tra le mani con la speranza che i sensi di colpa si attenuassero. I capelli umidi avevano ancora l’odore del cloro perché me li ero lavati in fretta, e il collo, così come tutti gli altri punti in cui Vince mi aveva baciata, mi sembravano ancora bollenti e pulsanti. Il ricordo di quella serata era vivido nella mia mente e potevo ricordare bene le sensazioni che avevo provato mentre mi tuffavo nella piscina, il contatto della nostra pelle nel momento in cui ero finita addosso a Vince sotto una pioggia di asciugamani, e i baci che ci eravamo scambiati. Avrei voluto restare con lui fino alla mattina successiva, ma la mia famiglia si aspettava che tornassi dopo cena. Inoltre, la mia coscienza mi ripeteva all’infinito che non era il caso, almeno non quella volta, perché nella mente di quell’uomo non giravano idee del tutto innocenti.

All’improvviso sentii una mano appoggiarsi sulla mia spalla per farmi una carezza e sobbalzai, ritrovandomi di fronte Grant. Aveva passato un periodo preda dello sconforto dopo aver rotto con Elisabeth, che invece aveva trovato immediatamente una pezza per rattoppare lo strappo, ma ora sembrava essersi ripreso. Mi guardava con i suoi occhi grandi e verdi, nascosti sotto il ciuffo di capelli castani e arruffati come voleva la moda del tempo. Era un ragazzo estremamente dolce, una delle persone più buone che conoscessi, e gli volevo così tanto bene che quando lo vedevo non potevo fare a meno di sorridere anche se ero triste.

“Guarda un po’ chi c’è,” esclamò, sedendosi accanto a me sul marciapiede. “Che bello vederti, Gracie!”

Mi stropicciai gli occhi e sbadigliai. “Ciao, Grant. Come va?”

Lui storse un angolo della bocca. “Potrebbe andare meglio, ma ammetto di aver fatto dei miglioramenti perché mi sto cominciando a rassegnare che con Beth è finita, e forse è meglio così.”

“Sono fiera di te,” esclamai soddisfatta, battendo i palmi aperti sulle ginocchia.

Il suo tono si fece subito più severo. “Ho visto che ha già trovato qualcuno con cui sostituirmi. L’altra sera c’ero anch’io al Whisky e vi ho viste. Avrei voluto salutarti, ma eri così impegnata con quel biondo che ho preferito restare a godermi il concerto dei Guns N’ Roses.”

Trasalii. “Io non ero assolutamente impegnata con nessuno, al contrario di qualcun’altra.”

Grant annuì. “E pensare che poco tempo fa mi hai chiesto di aiutarti a imparare a suonare una canzone di quei ceffi.”

“Credevo ti piacessero,” gli feci presente aggrottando le sopracciglia.

“Infatti mi piacciono e credo che non appena ne avrò l’occasione, comprerò un biglietto per vederli. Poi ho anche scoperto dove abita il bassista,” mi agitò l’indice davanti al naso con fare accusatorio.

Mi lasciai sfuggire un sorriso di puro imbarazzo. “Siamo un po’ amici.”

“Stasera mi sembri giù di morale. Spero non sia colpa sua, altrimenti sai che potrei benissimo scavalcare quel cancello del cazzo e piombargli in casa anche se ho passato la giornata ad ascoltare le sue canzoni.”

Sollevai il capo di scatto. “Non ci crederei neanche se ti vedessi.”

Grant scoppiò a ridere battendosi un pugno sulla gamba. “E io non lo farei neanche se mi pagassero, però vorrei sapere se c’entra qualcosa con il muso che stai tenendo.”

Arricciai il naso e constatai che se gli avessi raccontato tutto, in quanto mio amico, Grant avrebbe tenuto la bocca chiusa. “Un po’ mi dispiace per Nikki. Vive in condizioni pietose e non sta per niente bene. A volte vado a trovarlo perché dice che la mia compagnia ha una buona influenza su di lui. Il mio problema di oggi è... cioè, sono... io. Io che ho accettato un invito a cena, se così si può dire, da parte del suo cantante e sono tornata adesso da casa sua, e–”

Non feci in tempo a finire la frase che Grant si lasciò sfuggire un suono di sorpresa che mi ammutolì all’istante. “Te la fai con quelli anche tu? Cosa vi è preso a te e a Beth?”

“Piantala!” sbottai. “Non me la faccio con nessuno!”

“Scusa, non volevo offenderti. Tu però non urlare, ché qui non si sa chi potrebbe sentirci,” rispose Grant con una mano sulla mia spalla. “Però adesso calmati e raccontami tutto quello che vuoi senza agitarti.”

Mi ricomposi e mi alzai a mia volta in piedi per potermi muovere mentre parlavo ed elencavo le cose contandole sulla punta delle dita. “Sono un’amica di Nikki, o almeno così credo. Vado a casa sua per fargli compagnia, nel senso che perdiamo delle ore a parlare di cose inutili così si distrae dallo schifo in cui vive. Non esserne geloso, ma per lui mi farei in due.”

“E per me?” domandò Grant con gli occhi che brillavano sotto la luce del lampione.

“Per te in cento, se è per questo, però adesso smettila di interrompermi,” risposi, poi ripresi il discorso da dove l’avevo lasciato. “Bazzicando a casa sua ho avuto modo di conoscere il resto della band: Tommy esce con Elisabeth, Mick è convinto che io sia sua sorella minore che deve assolutamente proteggere dalle grinfie degli altri tre, e poi c’è...” le parole mi morirono in gola; non riuscivo nemmeno a pronunciare il suo nome.

“...e poi c’è Vince Neil,” concluse Grant per me, con la voce in falsetto. “E dalla facilità con cui lo nomini posso intendere che siate grandi amici.”

Appoggiai una spalla al lampione e sbuffai. Come al solito, Grant aveva centrato in pieno il problema.

“Sono stata a casa sua fino a un’ora fa,” dissi a testa bassa come se avessi appena ammesso una colpa. “Ci ha provato spudoratamente per tutto il tempo ma io non sono stata al gioco e l’ho ignorato perché non mi andava di fare niente. Però quando è stata ora di andare mi ha baciata e ha detto che gli piace tutto di me. Ora, Grant, visto che siamo amici, dimmi cosa può esserci di interessante nella sottoscritta. Non sono una di quelle spilungone che si porta a casa, sono talmente bassa che non riuscivo nemmeno a prendere un asciugamano da un ripiano dell’armadio e ha dovuto aiutarmi. Alla fine se li è tirati tutti addosso e io, mentre mi giravo per schivarli, l’ho centrato in pieno e siamo caduti per terra come due idioti, in una posizione piuttosto equivoca.”

Grant fischiò. “Per farsi aiutare da lui a prendere qualcosa da uno scaffale bisogna essere proprio disperati.”

“‘Fanculo,” ribattei rifilandogli uno scappellotto sulla nuca. “Adesso sii serio e rispondi alla mia domanda.”

“In te c’è tanto di interessante, sei tu che non lo vedi, ma è normale. Sei carina, intelligente e gentile, non vedo perché dovresti dubitare di qualcuno che dice che gli piaci,” rispose, stavolta con tono più serio, poi riacquisì quello furbesco di sempre. “Però non mi hai raccontato com’è andata a finire dopo l’incidente degli asciugamani.”

“Non è successo niente. Mi sono alzata e sono andata a farmi la doccia.”

Grant si avvicinò appena. “Te ne sei pentita?”

Mi morsi l’interno della guancia: non lo sapevo nemmeno io. Da un lato sapevo di aver fatto la cosa giusta, mentre dall’altro mi davo della cretina.

“Non lo so,” dissi a bassa voce. “Ma il problema non è questo. Ha detto esplicitamente di provare qualcosa per me ma non so se credergli o no. Per la miseria, mi ha vista tre volte!”

Grant annuì comprensivo. “In effetti, visto il personaggio che abbiamo a mano, non è facile da capire, e servirà del tempo. Tu cosa faresti in quei due casi?”

Mi strinsi nelle spalle. “Se non fosse vero non accetterò mai più un suo invito a cena o cose simili perché non ne vedo il senso. Se invece fosse vero, forse una possibilità gliela darei.”

Grant mi puntò un dito contro e lo avvicinò fino a sfiorarmi la punta del naso. “Ah, lo sapevo!”

“Ti prego, abbassa quel dito. Mi sento accusata.”

Obbedì. “Non ti resta che appurarlo.”

Annuii e decisi che era giunta l’ora di sputare il rospo, così presi coraggio e lo dissi tutto d’un fiato. “Non avrei i sensi di colpa quando sono con lui se l’altra sera il suo bassista non mi avesse baciata.”

A quelle parole Grant fece roteare gli occhi e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Sei peggio di un personaggio di una di quelle soap opera che guarda mia madre.”

“L’ha fatto solo perché si è lasciato prendere dal momento. Eravamo da soli in un posto carino, lui ha pochissimi contatti umani, e non è uno che ci pensa due volte quando vuole qualcosa. Quel bacio non voleva dire niente e dopo un po’ tutto è tornato come prima,” specificai scuotendo il capo.

“Continuo a non capire dove sia il dramma.”

“Non c’è,” tagliai corto, staccandomi dal palo della luce. “Tu cosa faresti se fossi al mio posto?”

Grant mi passò un braccio intorno alle spalle e si portò una mano sul mento, fingendo di arrovellarsi.

“Se io fossi al tuo posto e Vince fosse una bella bionda...” si fermò, mi guardò di sottecchi e arricciò il naso con fare disgustato. “Probabilmente ne approfitterei. Un’esperienza di vita in più, se così possiamo chiamarla.”

Gli rifilai il secondo scappellotto della serata. “Seriamente parlando, che cosa ne pensi?”

“Dal momento che non puoi sapere come andrà a finire, credo che ti convenga provare. Tutti proviamo dei sentimenti, anche lui e anche tu. Se dovesse finire male, forse ci rimarremo tutti male, però poi potrai andare avanti. Guarda me,” indicò fieramente la sua persona. “Ho mollato Elisabeth, ogni tanto la penso ancora e mi incupisco, poi però mi rendo conto che non ha senso. Lei ha trovato un altro e io posso fare lo stesso. Se dovesse succederti lo affronterai, poi hai un amico come me che è sempre disposto a risollevarti il morale con le sue cazzate.”

Gli saltai al collo e lo abbracciai. “Grazie, non so come farei senza di te.”

Grant mi accompagnò fino a casa ed entrai cercando di fare il meno rumore possibile, ma mi sarei dovuta aspettare di trovare mia madre ancora sveglia, seduta sotto la luce della cucina a leggere un libro nell’attesa di vedermi rientrare. Indicò l’orologio appeso alla parete sopra la cappa della cucina e scosse il capo. “Sei in ritardo di un’ora e stavo cominciando a preoccuparmi.”

Impallidii poi mi sentii avvampare, tuttavia riuscii a non perdere il controllo della situazione. “Ero con Grant e ci siamo persi in chiacchiere.”

Mia madre si rilassò quando sentì il suo nome e posò il libro sul tavolo. “Per fortuna, non sai quanto sono stata in pensiero per te. Andiamo a letto, adesso: è tardi.”

Annuii e filai in camera pur di non parlarle più con il rischio che si accorgesse di qualcosa. Lasciai i vestiti sul tappeto per non dover tornare fuori per metterli nella cesta della biancheria da lavare e mi infilai sotto la coperta, domandandomi se Nikki fosse riuscito a dormire senza farsi una dose. Il fatto che mi stessi preoccupando per lui non significava che avessi dimenticato la sua proposta di provare a farmi della sua stessa roba, tuttavia decisi che avrei provato a sistemare la situazione non appena ne avessi avuto l’opportunità.




N. d’A.: *Riemerge dallo specchio tipo Vince in Smokin’ in the Boys Room e sogghigna spavalda in stile Tommy* Ave, popolo!
Vi chiedo scusa per il ritardo, ma quando i libri chiamano, non posso tirarmi indietro. Mi dispiace solo che il capitolo non sia un granché... è più che altro di passaggio, per capire meglio che cosa ronza nel cervello confuso di Grace, e devo ammettere che non mi sfagiolava nemmeno mentre lo scrivevo. Eh, sì... ogni storia ha il suo capitolo peggiore, o no?
Ad ogni modo... Nikki-dipendenti, aprite bene le orecchie e siate pronte perché il nostro eroe ricomparirà nel capitolo di mercoledì prossimo! E, ovviamente, i casini lo stanno aspettando dietro l’angolo... tenetevi forte e stay tuned!
Grazie di cuore a tutti coloro che leggono, seguono, preferiscono e recensiscono. ♥
Fuggo!

Angie

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Capitolo 25
*** Nikki ***


25) NIKKI

Riposi la penna e chiusi il diario dalle pagine ingiallite sbuffando. La testa mi scoppiava e avevo sonno, ma se avessi dormito gli incubi mi avrebbero brutalmente risvegliato. Appoggiai una guancia sul tavolo appiccicoso e chiusi gli occhi, sperando di riposarmi un po’. Avevo passato la notte insonne e alle dieci di mattina Vanity si era presentata a casa mia con tanta roba da far partire per un trip un intero esercito, per poi schiodare cinque ore dopo. Adesso mi trovavo immerso nel silenzio angosciante del salotto a guardare dritto negli occhi uno dei miei gargoyle come se quelle pietruzze rosse che aveva al posto delle iridi avessero potuto darmi la soluzione di tutti i miei problemi. Sembrava che con quella lingua biforcuta fatta di pietra che usciva da in mezzo i denti aguzzi volesse sfottermi. Gli sferrai contro la penna e voltai il capo dall’altra parte, verso il divano. Mi sembrava ancora di vedere Grace lì seduta e, se mi concentravo meglio, vedevo anche me stesso mentre le offrivo una dose. Mi veniva il voltastomaco.

Perché cazzo l’ho fatto? Che cosa mi è passato per la testa?

Diedi un colpo sul tavolo con la fronte e contemporaneamente qualcuno suonò al campanello facendomi sobbalzare. Era Tommy, che era venuto a prendermi per andare a cena fuori: diceva che era giunta l’ora che uscissi dalla mia tana e aveva insistito per provare un ristorante thailandese che aveva aperto a Ventura. Mi trascinai fino alla porta massaggiandomi la fronte laddove aveva urtato il tavolo, e gli aprii. Tommy entrò, sorridente come un moccioso come ogni altra volta, e mi abbracciò come era solito fare.

“Ciao, bro, che bello vederti!” esclamò mentre mi sbatacchiava da una parte all’altra, poi si fermò e mi guardò dritto negli occhi. “Stasera sono libero. Elisabeth non è in giro per casa mia e noi possiamo andare dove ci pare perché tanto non lo saprà mai.”

Sbadigliai e raccattai la mia maglietta da sopra lo schienale della sedia. “Potremmo andare a provare quel posto che hai suggerito tu e poi farci un giretto in qualche strip-club sul Sunset.”

“Lo so che avevo proposto il thailandese, ma ho scoperto oggi che la casa discografica ha organizzato una specie di festa in una villa e ci ha invitati. Immagino che non ne sapessi niente neanche tu, vero?” confessò grattandosi la nuca.

Roteai gli occhi: non ne sapevo niente e l’ultima cosa di cui avevo bisogno era un party della casa discografica piena di uomini di affari vestiti come pinguini, ma decisi che ci sarei andato solo per fare contento il nostro manager. Dopotutto, bisognava che qualche volta mi sacrificassi. Dovevo sforzarmi di comportarmi da persona normale, e le persone normali vanno alle feste quando sono invitate.

“Chi ci sarà?” domandai mentre gironzolavo per la sala alla ricerca dei miei camperos.

Tommy iniziò ad elencare le persone contandole sulla punta delle dita. “Noi ci siamo tutti e quattro, Mick compreso, poi hanno chiamato qualche altro gruppo di Hollywood. È una festicciola in onore di qualcosa che non so nemmeno io, però sono convinto che ci saranno un sacco di ragazze pronte a divertirsi con noi e tanto, tanto champagne.”

Si può fare, pensai, almeno sono tutte persone che conosco e con le quali posso parlare.

Annuii e salii in macchina con T-Bone per raggiungere la location misteriosa. La festa doveva essere qualcosa di davvero piccolo visto che le automobili parcheggiate lungo la via erano molte meno di quanto avessi previsto. La gente era tutta concentrata in giardino e nei pressi della piscina, e notammo subito Mick che gironzolava intorno al tavolo degli alcolici con una certa foga, come se fosse stato un calabrone nero e peloso che ronzava intorno a un vaso di miele dimenticato aperto.

“Quanto cazzo beve Mars?” esordì Tommy a bassa voce. “Ci scommetti che anche stasera lo troveremo addormentato da qualche parte?”

Alzai le spalle: quante volte durante il tour noi due avevamo fatto la stessa fine e avevano dovuto portarci in giro in sedia a rotelle o sui carrelli degli aeroporti perché non riuscivamo a reggerci in piedi da soli?

Ci avvicinammo alla piscina e ci rendemmo conto che due terzi di quella gente erano pallosissime persone che si accontentavano di sorseggiare il loro drink a bordo vasca, chiacchierando tra loro in abiti lussuosi ed elegantissimi.

Vince era accasciato su una sedia di paglia in attesa che Mick lo raggiungesse dopo aver passato in rassegna il tavolo degli alcolici, ed era così annoiato che per un attimo pensai che stesse male. Ovviamente con l’arrivo mio e del mio compare la festa si movimentò, anche perché Tommy fece fuori una bottiglia di prosecco tutto da solo e iniziò a ridere come un pazzo, contorcendosi su se stesso e battendo un pugno sul tavolo. I suoi colpi facevano sobbalzare tutto quello che ci era stato appoggiato sopra e nel giro di poco svariati bicchieri vuoti caddero sul prato insieme a un posacenere straripante, il cui contenuto si riversò tutto sull’erbetta verde e ben curata, scatenando ilarità in noi altri tre.

Doc ci guardava da un tavolo più in là e scuoteva il capo per l’imbarazzo. Intanto Vince si era attaccato a una bottiglia di champagne e, grazie al cielo, ora che aveva la bocca impegnata, aveva smesso di criticare l’organizzazione per non aver messo a disposizione degli invitati neanche un po’ di vodka o altri superalcolici. Mars, invece, era decisamente partito per Marte: si era accasciato sulla sedia e stava scivolando sempre più in basso, allora Tommy fece in modo, per quanto la sbronza glielo concedesse, di rimetterlo a sedere in maniera composta affinché dopo non ci toccasse sollevarlo da terra per trascinarlo via.

Tre ore dopo Mick era ancora stravaccato sulla sua sedia con la testa buttata indietro e la bocca semiaperta, in preda a una botta colossale, mentre noi barcollavamo come zombie per il giardino ormai vuoto. Il resto degli invitati aveva lasciato la villa da mezz’ora, dopo che la situazione aveva cominciato a degenerare a causa nostra e specialmente di Vince, che proprio non sapeva tenere quelle sue manacce al loro posto, ma doveva per forza infilarle sotto gli abiti di un gruppetto di figlie di papà, e proprio sotto gli occhi dei padri stessi. Avevamo anche dato fuoco a un arbusto, ma senza volerlo, costringendo la sicurezza a intervenire. Per concludere in bellezza, ci eravamo fatti cacciare fuori. Eravamo così ubriachi che Doc insisté per portarci a casa di persona, offrendosi anche di accompagnarci a recuperare le nostre macchine l’indomani stesso. Noi accettammo e salimmo tutti e quattro sulla sua auto. Per il nostro manager non si prospettava un buon viaggio di rientro: lui guidava sbuffando; Mick, seduto accanto a Doc, borbottava imbronciato; Vince si lamentava, strillando per il soffitto dell’auto a suo parere troppo basso; io continuavo a ripetergli di tenere la bocca chiusa, e Tommy puzzava di brutto. Il problema era che T-Bone, seduto in mezzo a noi, si era stravaccato con le braccia aperte, costringendoci a stare appiccicati ai finestrini. Io non mi lamentavo – oppure non avevo nemmeno le forze per ribellarmi –, ma Vince gli rifilava gomitate nei fianchi a tutto andare, scatenando così la sua ira sbronza. Mick, nel sedile anteriore, stufo di loro due che si punzecchiavano, cominciò a tuonare frasi come al solito incomprensibili. Immagino che Doc non vedesse l’ora di liberarsi di noi e, se solo avesse potuto, avrebbe accostato e ci avrebbe abbandonati in mezzo all’autostrada.

“Bashtaa!” berciò Vince accanendosi sul fianco scheletrico di Tommy con il gomito. “Non ti shopporto più! Sscendi da queshta cazzo di macchina!”

“No, smettila tu di urlare come una diva nevrotica. Hai rotto i coglioni!” si ribellò T-Bone, e io, in quanto ero l’altro Gemello Terribile, decisi di dare manforte al mio compare e, non chiedetemene il motivo, cominciai a ripetere a macchinetta miliardi di “taci” che non ebbero alcun effetto. Intanto Mick continuava a brontolare, guardando per terra con il suo solito cipiglio minaccioso, e nessuno capiva quello che diceva. L’unico ad aver capito qualcosa di tutto ciò era Doc, e quel qualcosa era il fatto che, come al solito, fossimo ubriachi oltre ogni limite e ingestibili. Accelerò e ci scaricò ognuno davanti alla propria casa. Ero talmente stanco, talmente rotto di tutto e tutti, che mi addormentai sul divano senza nemmeno farmi una dose, e ne fui felice. Quella sera era andata così per caso, ma sarebbe stato meglio se fosse accaduto tutte le altre volte.

Quando la mattina seguente mi svegliai, avevo un gran mal di testa, ma riuscii comunque a smaltire i postumi prima di recarmi agli studi di registrazione. Saltai in sella alla mia motocicletta e mi buttai sul Valley Vista Boulevard, sentendomi libero come non mai: niente merda nelle vene dalla sera precedente, niente rimorsi, niente di niente. Se avessi continuato per quella strada, non avrei potuto fare altro che migliorare, o almeno così credevo. Mi ero proposto tante volte di mettere da parte il mio armamentario e di impegnarmi a fondo per saltare fuori da quell’incubo, ma non ero ancora riuscito a farlo. Ero certo che quella sarebbe stata la volta buona. Salvo complicazioni, s’intende.

Arrivai agli studi in perfetto orario, tanto che trovai Doc che dormicchiava su una delle poltroncine della hall, convinto che saremmo arrivati tutti con mezz’ora di ritardo. Stranamente anche gli altri erano in orario, e presi questo fatto come un presagio positivo, convincendomi ancora di più che quella era la volta buona in cui sarei riuscito a uscire dalle sabbie mobili. Lavorammo sodo per tutta la mattina senza bisticciare nemmeno una volta e pensai che sarebbe stato bello se avessi proposto a tutti di andare a bere qualcosa insieme in qualche bel posto, ma stavamo per uscire quando la centralinista mi chiamò per informarmi che stava salendo una ragazza che mi cercava. Mi fu sufficiente sentire un cinguettato “Nikkiii” seguito da una risatina per capire di chi si trattasse. Quell’insolito ma piacevole clima di pace che si era creato tra noi quella mattina venne a meno in un attimo. L’arrivo di quella donna era stato come un’onda che distrugge un castello di sabbia costruito con tanta cura. Vanity fece il suo ingresso sbracciando e volteggiò diverse volte per la stanza prima di saltarmi al collo e abbracciarmi. “Eccoti, finalmente! Ti ho cercato dappertutto! Ieri sera sono passata anche da casa tua ma non c’eri, ma adesso ti ho trovato, amore mio!”

Mi schioccò un bacio appiccicoso su una guancia e mi si appese al collo. Non riusciva nemmeno a stare in piedi e i tacchi altissimi che portava non le erano per niente d’aiuto. La sua consueta espressione vuota e sorridente si era impossessata del suo volto scavato, gli occhi arrossati erano socchiusi e mi fissava con lo sguardo allucinato.

“Dove sei stato, eh? Dove? Ti ho cercato tanto!” chiese mentre mi sistemava i capelli stopposi con una mano.

Cercai di scollarmela da addosso, ma non ci riuscii. “Non ti riguarda. Adesso che ti ho risposto, puoi anche andartene.”

“Ma come, sono la tua fidanzata, perché mi cacci così?” piagnucolò Vanity, poi mi rifilò un innocuo schiaffetto sul braccio. “Ecco cosa ti meriti!”

“Lasciami andare e torna a casa. Come puoi vedere, sto uscendo con la mia band e tu non sei invitata,” dissi con tono freddo, ma lei continuava a starmi appiccicata addosso e non voleva lasciarmi andare.

“Vieni con me e lasciali da soli,” mi esortò.

Tommy roteò gli occhi e sbottò. “Scordatelo, bella. Vai via, non ci servi qui. Va’ a portare guai da un’altra parte.”

Gli occhi di Vanity si assottigliarono e mi lasciò andare per avvicinarsi a lui con fare minaccioso. “Nessuno ha chiesto il tuo parere, brutto idiota.”

Vidi Tommy avvampare per la rabbia e allontanai Vanity tirandola per un braccio. “Piantatela prima ancora di cominciare, non è il caso di–”

Vanity si divincolò dalla morsa come una belva, agitandosi tutta. “Hai sentito come mi ha trattata? Hai sentito?

Tornai ad acchiapparla e scesi per le scale, con dietro gli altri che non avevano capito che era una faccenda tra noi due e che gli spettatori non erano graditi. Mi fermai su uno dei pianerottoli e immobilizzai Vanity con le spalle al muro. Gli altri, invece, si fermarono lungo la rampa e presero a guardarci come se fossimo stati un film alla televisione.

“La devi piantare di venire a rompermi le palle mentre lavoro o sono con della gente, è chiaro?” tuonai, e la mia voce rimbombò per tutta la scala. Vanity chinò il capo, i capelli vaporosi le coprirono il volto come una coperta, e io la scossi con la speranza che reagisse. “Di’ qualcosa!”

“Io ti cercavo perché sono la tua fidanzata e tu mi mandi via così? Sei uno stronzo, Nikki,” gli occhi le si velarono di lacrime e a quel punto capii che stava per cominciare una delle sue solite scenate patetiche: prese infatti a pestare i piedi, a schiaffeggiarmi e a insultarmi ad alta voce, il tutto in mezzo alle scale e davanti agli occhi dei miei compagni di band e di qualche altra persona che era accorsa, credendo che ci fosse una rissa. Siccome non potevo stare zitto e farmi insultare davanti a tutti, fui costretto a rispondere a tono, mettendomi comunque in ridicolo e prendendo parte alla sceneggiata. Era incredibile come quella donna riuscisse sempre a rovinarmi la giornata. Mi ero svegliato convinto che quello fosse il giorno giusto per cominciare una vita da persona normale e forse stavo anche riuscendo nel mio intento, poi era arrivata lei con la sua voce stridula e aveva mandato tutto all’aria.

Gli altri aspettarono che si calmasse prima di scendere e raggiungermi per invitarmi a seguirli per andare a bere una birra, ma ero così abbattuto e infuriato che preferii tornare a casa. Questa fu la scusa che inventai per loro. In realtà avevo bisogno della dose che non avevo portato con me perché ero convinto che non mi sarebbe servita. Scesi il resto delle scale trascinandomi dietro una Vanity furiosa, incurante dei ragazzi che mi chiamavano per convincermi a rimanere con loro e di Doc che mi ricordava che avevo lasciato la macchina alla villa nella quale si era tenuta la festa la sera precedente e che dovevo andare a prenderla. Una volta in strada, lasciai andare Vanity, pregandola di non presentarsi mai più agli studi di registrazione, e saltai in sella alla mia motocicletta, diretto a Van Nuys. Nella cassetta della posta trovai un pacchetto che mi aveva lasciato Jason e mi ricordai che glielo avevo ordinato la mattina precedente. Buon per me. Non mi restava che chiudere la porta a tripla mandata ed entrare nel mio sgabuzzino, certo del fatto che stavolta non sarebbe arrivata Grace a consolarmi. Dopo quello che le avevo fatto, forse non mi avrebbe più voluto vedere, e me lo meritavo.

‘Fanculo. Non ci sono riuscito nemmeno stavolta, pensai mentre avvicinavo la fiamma dell’accendino al cucchiaio carico di eroina. Sono un fallimento.




N. d’A.: Bonsoir!
Come promesso, riecco Nikki – e non solo.
Come però sapete, Grace è (troppo) buona oltre che ingenua, quindi non è affatto capace di tenere il broncio a Sixx per molto, anche se stavolta ha ragione.
Il prossimo capitolo arriverà mercoledì prossimo, e a questo punto mi sento in dovere di dirvi una cosa: allacciate bene le cinture! ;) Sarà anche un po' più lungo del solito.
Grazie, as usual, e un bacio a tutti. ♥

Angie

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Capitolo 26
*** Grace ***


26) GRACE

Era passata una settimana dall’ultima volta in cui ero stata a casa di Nikki e adesso volevo tornarci per assicurarmi che stesse bene. Per fare in modo che tutto andasse secondo i piani, Beth e io avevamo inscenato la solita recita: tutti sapevano che saremmo andate in giro per i locali di Hollywood e che avremmo dormito a casa di Anne, un’amica in comune e nostra fedele alleata che viveva dall’altra parte di Van Nuys. Solo così Elisabeth avrebbe potuto sgattaiolare a casa della sua nuova fiamma e io da Nikki.

Quando Nikki mi aprì la porta, vidi il suo viso illuminarsi dalla gioia. Gli corsi incontro e, quando feci per abbracciarlo, mi ritrovai sollevata da terra.

“Da uno a dieci, quanto ti diverti a ricordarmi che sono più bassa della media?” gli domandai ironica, il volto premuto contro la sua spalla.

Nikki mi fece tornare con i piedi per terra e sogghignò. “Almeno venti. Tu però dimmi perché in sette giorni non ti sei fatta viva nemmeno una volta.”

“Ho avuto molto da fare,” spiegai, ma ero sicura che fosse consapevole della ragione per cui era successo. “Sono stata molto impegnata con lo studio ed Elisabeth non riusciva mai a coprirmi.”

“Non ti preoccupare, non si può sempre fare tutto,” rispose piano.

“Prima di entrare voglio chiederti una cosa. Perché sabato scorso mi hai chiesto di provare la tua roba quando sai benissimo che quel genere di cose non mi interessa?”

Nikki trasalì e diventò piuttosto nervoso. “Quando sei arrivata ero già partito per la tangente da un pezzo, e quando succede dico cose che non dovrei dire. In un momento come questo, non ci penserei nemmeno a chiederti se vuoi farti una sniffata. È colpa di quella merda, io non avrei voluto.”

“Lo sai che sei l’unico che può fare in modo che tutto questo finisca.”

Nikki si imbronciò e incrociò le braccia sul petto. “Sono due giorni che non mi faccio e sto fottutamente male. Ho paura di cedere.”

Gli mostrai la borsa di stoffa blu scuro che avevo portato con me. “Puoi essere certo che fino a domattina non accadrà perché sarai sotto la mia stretta sorveglianza. Mi sono attrezzata per restare qui.”

Nikki sollevò un sopracciglio con atteggiamento ironico. “Lo fai perché ti interessa veramente di me oppure perché Elisabeth deve uscire con Tommy e aveva bisogno che tu l’aiutassi nella vostra solita scusa?”

“Non scherzare,” lo rimproverai severa. “Sono qui esclusivamente per te. Nessuno mi obbliga ad aiutare Beth tutte le volte, e se non avessi voluto non lo avrei fatto.”

Nikki si fece da parte per farmi passare e abbozzò un sorriso. “Ti stavo solo prendendo in giro. Lo sai che sei sempre la benvenuta.”

Notai con dispiacere che il salotto era tornato un porcile e che i vestiti sporchi erano stati lanciati ovunque, così come i giornali, non più ordinatamente impilati come li avevo sistemati. Salii al piano superiore per lasciare la borsa nella camera degli ospiti e, quando tornai giù, trovai Nikki impegnato a prelevare due compresse da una confezione di antidolorifici. Mi spiegò che gli servivano per placare il dolore che l’astinenza gli causava, poi mi raggiunse in salotto. La televisione era sintonizzata su MTV, che in quel momento stava trasmettendo il video di una canzone dei Queen e, mentre ero concentrata a guardare la celebre scena di Freddie Mercury in minigonna che passa l’aspirapolvere nel salotto, Nikki si dava da fare per ripulire quell’angolo della casa da tutto lo schifo che aveva sparpagliato. Raccolse alla meglio le diverse copie di giornali, stipò delle bottiglie vuote in uno scatolone e cacciò qualcosa sotto al divano, probabilmente i resti del suo armamentario che, stando alle sue parole, non era stato utilizzato per un paio di giorni.

“Dopo dobbiamo per forza dormire?” domandò rompendo il silenzio. Mi ricordò Grant quando, da piccoli, passavo la notte a casa sua e pianificavamo di restare svegli tutto il tempo per raccontarci le storie di paura o giocare a carte, finendo poi per assopirci sul divano prima ancora che fosse veramente ora di andare a letto.

Scrollai le spalle più per distrarmi dai ricordi che per esprimere qualcosa. “Non è necessario. Se vuoi puoi stare sveglio e raccontarmi altri aneddoti interessanti del periodo in cui avete vissuto in North Clark Street.”

Si trattava per lo più di idiozie, festini all’insegna della trasgressione e guai seri che ascoltavo solo per fare in modo che si distraesse, ma ammetto che qualche volta saltava fuori qualcosa di divertente. Era capace di parlare per ore, divagando anche in altri argomenti che solo lui sapeva perché erano collegati a quello principale.

“Potrebbe essere un’idea,” approvò, poi mi abbracciò, cogliendomi di sorpresa. “Sai cosa, Grace? Mi fa molto piacere che tu sia qui, ma la cosa che mi fa più piacere in assoluto è che mi stai vicino perché tieni a me e non ai miei soldi o alla mia fama.”

Aveva ragione. A me del personaggio che si era creato non interessava. Gli volevo bene e basta, e non sapevo nemmeno se ci fosse un motivo specifico. Ricambiai l’abbraccio poi corsi a prendere la sua chitarra per cimentarmi in uno dei pochi pezzi che sapevo suonare.

“Se vuoi possiamo andare al magazzino e fregare un’elettrica a Mick, così ti diverti di più,” propose Nikki, e io saltai in piedi emozionata al solo pensiero di sfiorare un’altra volta le corde della chitarra con la cover di Theatre of Pain. Volai al piano superiore per prendere la borsa e un attimo dopo eravamo già in sella alla sua motocicletta, diretti a Hollywood. La Kramer mi aspettava sul suo solito piedistallo, coperta da un telo e abbandonata in un angolo come se fosse destinata a restare là per sempre.

“Perché non se la porta a casa? Lasciarla qui è un peccato,” domandai mentre la scoprivo. Nikki fece spallucce e bofonchiò qualcosa di incomprensibile su quanto a volte facesse fatica a capire Mick.

Collegai la chitarra a un amplificatore e tentai di regolarlo in modo tale da ricreare gli stessi effetti utilizzati nella canzone che volevo suonare, e nel frattempo Nikki continuava a gironzolare per il magazzino, guardandosi intorno. Mi raggiunse poco dopo e si sedette sul divano, pronto ad ascoltare qualsiasi cosa avessi proposto.

“Forza, Mick Mars Secondo, stupiscimi!” esclamò. “Chissà che tu non sia migliorata dall’ultima volta?”

Gli rivolsi un sorriso furbo, girai la rotella del volume e cominciai Louder Than Hell, estraniandomi totalmente da tutto ciò che mi circondava finché non suonai l’ultima nota

“Hai fatto notevoli progressi! Ormai questa canzone è tua,” si complimentò Nikki dopo essere riuscito a tacere per l’intero pezzo.

“Non pensavo di fare questo effetto.”

“Hai talento e, soprattutto, hai cuore. Conta molto, sai?” disse serio, poi si alzò dal divano e sparì dietro alcuni scatoloni. “Non ti resta che suonarla ancora, però stavolta ti accompagnerò col basso.”

A pensarci bene, nonostante ci conoscessimo da poco più di un mese, non mi era ancora capitato che mi accompagnasse col basso mentre suonavo la chitarra. Lo aspettai tutta contenta e, appena si avvicinò al suo amplificatore per premere il tasto dell’accensione, il rumore di qualcuno che batteva i pugni contro la porta principale attirò la nostra attenzione. Nikki mi disse di lasciar perdere perché probabilmente si trattava di qualche ragazzino di passaggio, ma ci fu sufficiente avvicinarci di più per sentire anche una voce femminile che strillava il suo nome. Feci una battuta sull’accanimento delle sue fan, convinta di essere divertente, ma Nikki continuava a fissare la porta con gli occhi spalancati, incredulo di quello che stava accadendo.

“Va tutto bene?” domandai preoccupata.

“Oh, merda, no, per niente,” disse sottovoce mentre indietreggiava. “Presto, Grace, stacca quella chitarra e spegni le luci. Dobbiamo fare finta che qui non ci sia nessuno.”

“È inutile. Chiunque sia, si è già accorta che c’è qualcuno,” obiettai ancora calma.

Nikki mi abbracciò all’improvviso, ma quello non era l’abbraccio affettuoso di poco prima, bensì uno protettivo, quasi terrorizzato. “Voglio che se ne vada, non deve farsi vedere quando ci sei tu.”

“Chi è, la tua ragazza?” domandai. “Non mi avevi detto che avevi una ragazza.”

“Non è la mia ragazza. Peggio,” ringhiò. “È la mia compagna di buco, se può interessarti. Non mi vede da tre giorni ed è furiosa.”

Sentii il sangue congelarsi nelle vene: se quella aveva intenzione di convincerlo a farsi un’altra volta ed era venuta lì per quello, allora non si sarebbe arresa facilmente.

I colpi si facevano sempre più forti e il portone di metallo vibrava, rimbombando all’interno del magazzino. “Nikki, lo so che sei lì. Ti prego, aprimi!”

Chiunque fosse, aveva una voce stridula e isterica.

Dopo dieci minuti di botte e grida, Nikki si decise ad alzarsi dal divano per aprire, ma solo dopo avermi detto di chiudermi nell’ufficio e di non fiatare per evitare di essere scoperta. Obbedii e mi accovacciai accanto alla porta per origliare più facilmente, nel buio di uno stanzino occupato da pochi mobili e da un cestino della spazzatura nel quale giaceva una siringa usata. Sembrava l’arma di un delitto nascosta dal colpevole. Appoggiai l’orecchio alla porta e trattenni il fiato nel tentativo di capire cosa si stessero dicendo. La donna sembrava veramente arrabbiata: gridava come un’ossessa perché sosteneva che Nikki si fosse rifiutato di risponderle al telefono e di aprirle quando andava a casa sua, e lui continuava a ripetere che stava cercando di uscire dalla situazione penosa in cui si trovavano entrambi e che non sarebbero mai riusciti a superare se avessero continuato a frequentarsi.

“Bastardo!” berciò la donna. “Se ti volevi inventare una scusa per lasciarmi, sappi che non ci sei riuscito.”

Allora stanno insieme per davvero?, mi domandai, poi rimossi delicatamente la chiave dalla serratura e vi premetti contro l’orecchio.

“Piantala, Vanity, lo sai benissimo che non sei la mia fidanzata.”

“Sì che lo sono!” ribatté.

Sembrava che la donna si chiamasse Vanity, e quel nome mi era fin troppo familiare. Se ricordavo bene, era lo stesso di una cantante pop del momento.

“Ti prego...” piagnucolò quella che, a quanto pareva, si chiamava Vanity. “Vieni a casa con me.”

“No, non posso,” si rifiutò Nikki, il tono abbattuto.

“Ti prego...”

Avevo capito che quando un tossico può rimediare un po’ di roba è disposto a mollare tutto e tutti per correre a prenderla e, siccome sapevo che questo era il punto debole di Nikki, temevo che potesse uscire dal magazzino per andare con lei, lasciandomi lì e fallendo nel suo intento. Raccolsi tutto il coraggio di cui disponevo, aprii di scatto la porta dell’ufficio e uscii fuori. Davanti a lui c’era una bellissima ragazza dalla carnagione olivastra e i capelli scuri e vaporosi, ma con gli occhi allucinati e un’espressione rintontita. Non avevo bisogno di presentazioni: era veramente la Vanity che avevo visto su MTV, solo che stavolta non sorrideva né ammiccava. Mi faceva paura e avevo anche intuito che probabilmente mi sarebbe saltata addosso.

“E quella chi è?” esclamò puntandomi contro un dito. “Una delle tue puttane?”

“Non ti azzardare mai più a parlare così di Grace,” sibilò Nikki con un tono minaccioso che intimorì persino me.

Vanity barcollò un po’ sui tacchi a spillo e si appoggiò al muro. “Così ti chiami Grace, eh? Be’, cara Grace, hai sbagliato posto. Lui è mio e non devi mai più provare a portarmelo via.”

“Smettila e sparisci,” tuonò Nikki.

Vanity pestò un piede e strillò ancora più forte di prima. “Dimmi immediatamente chi è questa dannata ragazza che ti sei portato in questo cazzo di magazzino!”

“Non sono cose che ti riguardano. Adesso fammi il piacere di sparire all’istante prima che sia costretto a usare la forza,” le ordinò Nikki mentre si avvicinava per prenderle un braccio, ma Vanity si divincolò e si diresse a grandi passi verso di me, i pugni serrati lungo i fianchi sottili, i capelli gonfi e gli occhi iniettati d’ira e capillari gonfi. Si fermò a pochi centimetri dal mio naso e io mi sentivo come se fossi stata pietrificata. Emanava effluvi di qualche profumo da centinaia di dollari misto ad alcol e tabacco.

“Tu...” biascicò puntandomi contro un dito tremante. “Piccola, maledetta puttana, non farti più vedere con il mio fidanzato. Non immagini neanche lontanamente quello che potrei farti!”

“Non sono qui per portartelo via,” mormorai con un filo di voce e attaccata alla parete fredda dietro di me. Quella donna faceva paura e pena allo stesso tempo.

Vanity strabuzzò gli occhi scuri come la notte, inspirò profondamente e mi assestò una sberla sulla guancia. Il viso prese a bruciarmi e sentii gli occhi gonfiarsi di lacrime. Per fortuna ero stata abbastanza forte da non farmi spintonare rischiando di sbattere contro il muro. Nikki schizzò verso di lei e la afferrò per un polso già alzato a mezz’aria prima che potesse colpirmi un’altra volta.

“Adesso basta!” gridò. “Muoviti ed esci subito da qui! Ogni volta che ti vedo porti solo dei casini.”

Vanity si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e aggiustò la minigonna di vernice nera. “Io mi sono fatta accompagnare qui apposta per te e tu cosa fai? Mi cacci? Sei proprio uno stronzo.”

“Chi ti ha accompagnata?”

“Il mio autista.”

Nikki le immobilizzò entrambe le braccia e la trascinò letteralmente verso l’uscita. Non lo avevo visto così furioso nemmeno il giorno in cui gli ero entrata in casa ed ero salita fino al piano di sopra, trovandolo nella sua cabina armadio.

“Muoviti, Vanity, non ho tempo per queste stronzate,” le ripeteva sgarbatamente Nikki mentre continuava a tirarla. “Adesso ti accompagno dal tuo autista e gli dico di portarti dritta a casa.”

“Sì, certo!” strillò lei. “Così tu e la puttanella non mi avrete tra i piedi, vero? Sei un bastardo e un bugiardo!”

Nikki aprì la porta di ferro con un calcio e si fermò sulla soglia. “Dov’è la tua fottuta macchina?”

Vanity tentò di divincolarsi agitando i capelli e il suo corpo filiforme e rovinato dal consumo eccessivo di droghe. “Mi sono fatta lasciare qui perché credevo che mi avresti portata con te, invece ti ho trovato con quella. Che poi, dove l’hai trovata? Sembra una mocciosa. Come puoi pensare che sia più bella e migliore di me?”

Nikki sbuffò e si passò una mano tra i capelli senza lasciare andare Vanity, poi si affacciò dalla seconda porta e attirò la mia attenzione con un fischio. Mi disse di aspettarlo nel magazzino mentre la accompagnava a casa, promettendo di impiegarci non più di un’ora. Annuii debolmente e mi accasciai sul divano mentre ascoltavo il rumore della sua motocicletta che si allontanava rombando. La guancia mi pulsava ancora per colpa della sberla e si arrossava sempre di più, allora decisi che avrei fatto meglio a provare a distrarmi. Imbracciai la chitarra di Mick e suonai per ingannare l’attesa, ma dopo due ore Nikki non era ancora tornato. Cominciarono ad assalirmi dei pensieri cupi e decisi di riporre gli strumenti al loro posto per concentrarmi su qualcos’altro, ma l’idea che Nikki si fosse lasciato sedurre dalle proposte di Vanity non mi abbandonava. Lasciai passare un po’ di tempo con la speranza di sentire la porta aprirsi, ma due ore e mezza dopo la sua partenza, Nikki non era ancora rientrato. Mi stavo agitando: ero in pensiero per lui e a questo punto cominciavo anche a chiedermi come avrei potuto fare per tornare a casa senza far cadere la mia copertura. Mi imposi di mantenere la calma e di ragionare senza farmi prendere dal panico, così tornai a sedermi e mi presi la testa tra le mani. Mi venne in mente che avrei potuto chiamare Anne, l’amica mia e di Elisabeth, per farmi venire a prendere, così corsi nell’ufficio dove tempo prima Nikki mi aveva detto che c’era un telefono, ma non lo trovai, poi mi ricordai che ce n’era uno dall’altra parte del magazzino, seppellito sotto fogli e riviste. Digitai il numero di Anne, che però non rispose, e al terzo tentativo sbattei la cornetta sull’apparecchio e abbracciai la borsa. Non sapevo chi chiamare: non potevo assolutamente contare sui miei genitori, Beth era a casa di Tommy, e Grant non aveva una macchina. Aprii la borsa per prendere un fazzoletto per asciugarmi le lacrime che stavano cominciando a rigarmi il viso e mi imbattei nel mio portafoglio, dentro il quale c’era il biglietto che mi aveva lasciato Vince una settimana prima. Non gli avevo ancora telefonato, ma ciò non significava che non avessi passato buona parte delle mie mattinate a lezione a ricordarmi della serata a casa sua. Decisi che lo avrei chiamato anche se sapevo già che non lo avrei trovato. Se fosse stato veramente così, allora avrei spulciato tra tutte quelle scartoffie finché non avessi trovato il numero di Mick. Lui non mi sembrava uno di quei tipi che passa tutta la notte a far baldoria con i suoi compagni, e forse – anche se probabilmente era più no che sì – avrebbe potuto aiutarmi. Composi il numero di Vince e mi sedetti sul pavimento, mordicchiandomi il polpastrello del pollice.

Dopo vari squilli, rispose la voce roca e seccata di qualcuno che è appena stato svegliato. “Pronto?! Chi è che chiama a quest’ora?”

“Sono Grace. Parlo con Vince?”

Ci fu un attimo di silenzio, poi riprese con voce sorpresa e totalmente diversa da quella con la quale mi aveva risposto. “Grace Murray?”

“Sì, proprio lei,” confermai sollevata dal fatto che Vince fosse in casa e che si fosse ricordato di me.

“Qual buon vento?” esordì sarcastico. “L’altro ieri ho chiamato a casa tua, ma mi ha risposto un bambino. Mi ha detto che stavi studiando e mi ha promesso che ti avrebbe informato della telefonata, però non ti ho più sentita. Volevi sbarazzarti di me?”

Sospirai e appoggiai la testa a una gamba del tavolo. “Era mio fratello James. Purtroppo è un tipo poco affidabile e non mi ha detto niente. Non te la prendere, ha solo sette anni.”

“Ci manca solo che me la prenda con un moccioso!” esclamò divertito.

Feci un respiro profondo e decisi di arrivare subito al sodo. “Scusa se ti disturbo a quest’ora, ma mi trovo a Hollywood, nel vostro magazzino, e non so come fare per tornare a casa. Sei l’unica persona che può portarmi indietro che sono riuscita a raggiungere. Apprezzerei se non mi lasciassi qui.”

“Una cosa alla volta,” disse Vince, piuttosto confuso. “Innanzitutto, voglio sapere cosa ci fai lì.”

“Ero venuta qui con Nikki perché volevamo suonare, poi si è presentata una tipa, una certa Vanity, e ha cominciato a fare scenate senza senso appena mi ha vista. Nikki l’ha riaccompagnata a casa e mi aveva detto che avrebbe fatto presto, ma sono passate quasi tre ore non e è ancora tornato.”

“Oh, dio, non ancora lei,” borbottò Vince, e anche se non potevo vederlo, immaginavo che stesse scuotendo la testa.

Decisi di giocare la carta della voce dolce. “Riusciresti a venirmi a prendere? Qui è tutto buio.”

“Quando una ragazza chiama, Vince arriva!” esclamò, poi si rese conto di aver fatto una battuta spropositata data la situazione e si ricompose. “Aspettami nel magazzino senza provare a scassinare porte. Cercherò di essere lì in tempo record.”

Riagganciai e mi andai a sedere vicino alla porta principale. Quaranta minuti dopo era già arrivato, raggiante come sempre. Mi rivolse un sorriso smagliante e mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi dal pavimento, dove mi ero seduta mentre parlavamo al telefono e dal quale non mi ero ancora spostata.

“Che fine avevi fatto?” domandò Vince mentre chiudeva a chiave la porta del magazzino. “Aspettavo una tua telefonata.”

“Troppi impegni,” mentii prontamente, ma lui mi sorrise ancora mentre salivo in macchina.

Mise in moto e uscì dal cortile con un rombo. “Solito parcheggio?”

Annuii debolmente e Vince si sporse per guardarmi in faccia, mostrandosi sorpreso quando notò la guancia arrossata.

“È stata Vanity,” spiegai.

“Non doveva azzardarsi,” disse con tono severo, poi posò un palmo sul mio viso, che diventò immediatamente rovente.

Mi appoggiai istintivamente alla sua mano. “Non sapevo niente di lei.”

“Pensavo che Nikki te lo avesse detto.”

“Credo che abbia evitato perché aveva paura che non andassi più a trovarlo,” Vince alzò le spalle senza sapere cosa dire in merito e io abbassai un parasole per osservarmi allo specchietto nella parte interna. “Spero che a casa non mi facciano domande, ma mi sembra impossibile. Mi tartasseranno abbastanza chiedendomi perché non sono rimasta a dormire da Anne. È un’amica mia e di Elisabeth e ci copre sempre sempre. Diciamo che andiamo da lei, poi Beth va da Tommy e io vado a trovare Nikki. Senza Anne saremmo spacciate.”

“Credevano che avresti dormito fuori?” domandò Vince mentre fissava la strada.

“Sì. Sai, speravo che la mia presenza avrebbe potuto essergli d’aiuto ma, a quanto pare, è stato tutto inutile.”

“Be’,” cominciò, “visto che hai fatto una promessa, mantienila. A casa mia c’è spazio.”

Scossi il capo. “Non vorrei essere di troppo.”

Naah... lo sai cosa penso di te. Non mi darai fastidio, anzi, sarei felice di ospitarti.”

Abbracciai la borsa che tenevo in grembo. Mi imposi mentalmente di non fare cazzate e mi dissi che, se ci fossi riuscita, avrei dimostrato a me stessa di avere un ottimo autocontrollo, fondamentale in molte occasioni, poi accettai. “D’accordo, però–”

Vince sollevò le mani in segno di resa e completò la frase al mio posto. “Però ti lascerò in pace. Promesso.”

Annuii e mi misi a guardare fuori dal finestrino, pensierosa. Nikki mi aveva sempre detto che loro quattro avevano la tendenza a non mantenere le promesse e a fare l’esatto contrario di ciò che veniva loro chiesto, e io non avevo alcun dubbio a riguardo.



N. d’A.: Ciao, gente!
Ebbene sì, questo capitolo è un pochino più lungo rispetto agli altri, e spero che non sia stato troppo pesante da leggere visto che sono accadute un po’ di cose.
Anyway... non perdetevi il prossimo perché ne vedremo di belle anche lì. Mi raccomando, non slacciate ancora le cinture di sicurezza perché siamo nel pieno della turbolenza – e dalla torre di controllo mi dicono che durerà a lungo.
Grazie a chi segue/recensisce/legge in silenzio! ♥♥♥
Un bacione glam con tanto di gloss fucsia alla ciliegia,

Angie

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Capitolo 27
*** Vince ***


27) VINCE

Grace entrò in casa mia ciondolando e ancora infuriata per la scenata che Vanity aveva fatto al magazzino. Girò un paio di volte intorno al divano poi ci si accasciò sopra dopo aver lasciato cadere la borsa sul pavimento. Intanto io pensavo a cosa avrei potuto fare per sollevarle il morale. Non sopportavo di vederla così arrabbiata per colpa di Nikki e Vanity. Se solo Sixx le avesse detto la verità su quella che andava in giro a dire di essere la sua ragazza, Grace avrebbe potuto quantomeno prepararsi, anche se pensavo che Nikki, consapevole dell’imprevedibilità delle reazioni di Vanity, avrebbe dovuto fare in modo che non si incontrassero mai. Forse un po’ di musica avrebbe aiutato Grace a sentirsi a suo agio e a dimenticare quell’incontro, così andai a riesumare Van Halen II da un mobile e misi il vinile sul piatto, appoggiando la puntina proprio all’altezza di Beautiful Girls. Grace, ancora immobile sul divano, cominciò a battere la punta del piede sul pavimento e mi sorrise appena.

“Ti piace questa canzone?” le chiesi.

Grace annuii mentre alzavo il volume poi mi sedetti accanto a lei e le circondai le spalle con un braccio. “Avevo promesso di starti lontano, quindi per stanotte dormirò qui. Il divano è una tortura per la mia schiena, ma per una volta posso sacrificarmi.”

Grace strabuzzò gli occhi. “Non se ne parla. L’ospite sono io e sul divano ci dormirò io.”

“Ti cedo il mio posto proprio perché sei mia ospite, chiaramente molto gradita.”

Lei iniziò a sfregarsi nervosamente le mani, nuovamente tesa come una corda di violino. “A proposito di ospiti graditi... quello che è successo sabato scorso l’hai già dimenticato, immagino.”

Colsi una vena di amarezza nella sua voce e rabbrividii. Era chiaro che fosse ancora convinta che avessi solo voluto prendermi gioco di lei e approfittarne, e ora toccava a me fare in modo che capisse che non era così.

“No,” risposi in fretta. “Lo penso ancora, sto solo aspettando di essere ricambiato. Se così non fosse, mi rassegnerò.”

Gli occhi di Grace brillarono sotto le luci del salotto, ma lei faceva il possibile per non lasciare trasparire l’emozione. Una qualunque altra ragazza mi sarebbe saltata addosso – o meglio, una qualunque altra ragazza mi sarebbe saltata addosso contenta di poter usufruire liberamente dei miei soldi e della mia fama. Lei invece mi guardava senza dire niente, evidentemente imbarazzata, poi appoggiò la testa sul mio petto. “A pensarci bene, quello che so di te l’ho letto sui giornali, e mi domando quanto siano affidabili.”

Su questo aveva ragione: non aveva idea di chi fossi e non poteva fare altro che associarmi al cantante viziato di una band di fama internazionale, motivo per cui decisi di raccontarle buona parte della mia storia che, come avevo previsto, non approvò del tutto. Ero consapevole di aver fatto parecchi sbagli, alcuni dei quali così grossi che me li sarei portati con me per il resto della mia vita, però adesso non volevo pensarci.

Il disco si fermò e all’improvviso in casa tutto tacque. Grace chiuse gli occhi e sospirò come per liberarsi dal peso della giornata carica di imprevisti.

“Oggi è stata una giornata davvero orribile, quindi credo che andrò a dormire. Dov'è la mia stanza?” mi informò dopo un lungo sbadiglio.

La accompagnai al piano di sopra, incurante del fatto che la mia camera fosse sottosopra dal momento che non la riordinavo da settimane, ma Grace sembrò non farci troppo caso e si chiuse in bagno, lasciandomi da solo in mezzo alla stanza a fissare la porta sbarrata come un cretino. Spostai lo sguardo e scossi il capo, brontolando cose incomprensibili persino per me stesso.

Che cazzo ti succede? mi domandai. Che cosa ti prende, vecchio? Tu non sei mai rimasto senza parole davanti a una donna, a meno che questa non fosse tua madre quando ti rimproverava ai tempi della scuola elementare.

Mi sembrava di avere un demonietto rompipalle appollaiato sulla spalla che mi rimproverava e mi diceva che cosa dovevo o non dovevo fare. Io però non sono mai stato abituato ad ascoltare nessuno, nemmeno la mia stessa coscienza, che in quel momento mi continuava a ripetere che dovevo approfittare della situazione e saltare addosso a Grace. Io però non volevo farlo perché sapevo che così avrei rovinato tutto. Ci avevo messo talmente tanto tempo per farmi apprezzare che non potevo mandare tutto all’aria in quel modo, come facevo sempre. Mi stropicciai gli occhi in un momento di sfinitezza, stupito di questo mio lato sentimentale che mi ero dimenticato di possedere.

Diedi un’ultima occhiata al mio riflesso sullo specchio per accertarmi di essere quantomeno presentabile prima di spalancare la finestra per far entrare un po’ di aria fresca. Appoggiai i gomiti sul davanzale e guardai fuori: le foglie degli alberi si muovevano delicatamente sospinte dal vento che si era alzato, mentre oltre la recinzione del mio cortile regnava il silenzio dell’area desertica abitata solo da cactus e arbusti. Chiusi gli occhi e godei dell’aria che mi colpiva in pieno viso, insinuandosi tra i miei capelli come la carezza di una grande mano. Fui distratto all’improvviso dal rumore della chiave che girava nella serratura e vidi Grace sulla soglia del bagno e con la borsa in mano, che appoggiò poi su una sedia. I capelli, ora non più raccolti dietro il capo e tenuti fermi per mezzo di un elastico di velluto, le ricadevano sulle spalle e sulla T-shirt blu notte con una grande stampa gialla del logo degli Aerosmith.

“Bella maglia,” le dissi con tono spavaldo per mascherare quell’odioso imbarazzo che si stava impossessando di me. Lei sorrise e mi raccontò che gliel’aveva regalata Nikki. A quanto pareva, quel cretino era uscito di casa apposta per andare a comprarla, e dovevo esserne felice. Fare quattro passi all’aria aperta era sicuramente meglio che stare barricato nella sua villa ad attendere l’arrivo di uno spacciatore o di quella guastafeste della sua pseudo-fidanzata.

“Era molto contento quando me l’ha consegnata,” continuò Grace. “Ha detto che una grande persona merita la maglia di un grande gruppo, o qualcosa su queste linee.”

Si infilò sotto la coperta e sprimacciò per bene il cuscino, infine si sedette e si guardò intorno abbozzando un sorriso quando si soffermò sulla mia poltrona leopardata, un pezzo d’arredamento del quale andavo molto fiero. Nessuno parlava e io avevo capito che, siccome anche quella sera non avrei concluso niente, tanto valeva che togliessi il disturbo e sparissi al piano di sotto. Presi una coperta da sopra la poltrona e l’altro cuscino del letto, poi lanciai la maglietta sopra una pila di vestiti che aspettavano di fare un giro in lavatrice alla massima temperatura da quando ero rientrato dall’ultimo concerto. Grace era già sdraiata con gli occhi chiusi, ma mi fu sufficiente vedere che stava giocherellando con un angolo del cuscino per accorgermi che era ancora sveglia. Mi avvicinai di soppiatto prima di inginocchiarmi alla sua altezza, appoggiando le braccia sul materasso, e lei aprì appena gli occhi nel momento in cui sentì il lieve spostamento dovuto al mio peso.

“Vado a dormire sul divano,” mormorai, rassegnato a passare la notte in bianco a spaccarmi la schiena, ma appena spensi la luce, Grace si alzò nel buio e mi prese un polso.

“No, aspetta,” mi fermò chiamandomi a bassa voce. “Resta qui.”

Mi tirò verso di sé per costringermi a sedermi sul letto, poi disse la stessa cosa che anche io stavo pensando: il fatto che non mi avesse considerato per una settimana non significava che non le interessassi o che non mi avesse mai pensato. Valeva anche per me, ma per qualche ragione preferii tacere e non dirglielo. Per una settimana non ero riuscito a togliermela dalla testa. Avevo persino provato a farmi una tipa che avevo rimorchiato in un locale, ma avevo finito per passare il tempo a chiedermi come sarebbe stato se al suo posto ci fosse stata Grace. Ero arrivato alla conclusione che, se non l’avessi rivista al più presto, sarei impazzito, e adesso ero lì tra le sue braccia ad ascoltare il rumore leggero del suo respiro. Mi lasciai scivolare lentamente da un lato e lei mi seguì. La guardai negli occhi, le iridi che scintillavano come zaffiri, e presi ad avvicinarmi sempre di più per vederle meglio, finché lei non decise di azzerare totalmente la distanza che ci separava appoggiando le labbra sulle mie. Ma quel lieve contatto non era sufficiente, almeno non per me. Quando ci separammo, restammo in silenzio ad ascoltare il rumore delle foglie mosse dal vento che proveniva dal giardino, poi Grace cominciò a giocherellare con una mia ciocca di capelli.

“Allora, resti o no?” domandò sorridendo e leggermente rossa sulle guance.

“Credo proprio che non mi muoverò da questa stanza.”

Grace appoggiò il capo al mio petto e le accarezzai i capelli morbidi. Mi faceva piacere che fosse lì con me e la sua sola presenza mi faceva sentire bene. Era strano a dirsi e sembrava uno scherzo, ma ormai me n’ero fatto una ragione: mi ero innamorato. Dopo tanto tempo, la rockstar spregiudicata, amante degli eccessi e vanitosa si era innamorata. Credevo di essermi dimenticato cosa volesse dire, ma lo avevo appena ricordato, e ne ero felice. Tuttavia, il mio carattere non poteva annullarsi del tutto e, sebbene conoscessi Grace da poco tempo, non potei fare a meno di provare a spingermi oltre, specialmente ora che sapevo con certezza che ci sarebbe stata. Eravamo solo abbracciati e sotto la mano che tenevo appoggiata sulla sua nuca sentivo che stava sudando come se fossimo stati in piena estate. Stava facendo fatica a trattenersi e lo stesso valeva anche per me.

Le sollevai il mento e la baciai di nuovo, ma stavolta non fu un bacio semplice e veloce come quello di poco prima. Grace dovette scansarmi quasi con forza per liberarsi di me e riprendere fiato. Mi fissava con occhi scintillanti, quasi con stupore, e io ricambiai con uno sguardo lascivo che le fece intendere alla perfezione le mie intenzioni. La strinsi forte a me e le chiesi se fosse sicura di quello che stava per fare. Un “sì” sussurrato giunse alle mie orecchie, allora la guardai dritto negli occhi mentre le accarezzavo la schiena da sotto la maglia. Il solo pensiero di quello che sarebbe accaduto nei prossimi minuti mi faceva sudare ed ero consapevole del fatto che non avrei resistito ancora per molto.

Le sollevai la T-shirt e lei si coprì istintivamente il petto con le braccia, allora la invitai a spostarle cercando di essere il più gentile possibile. Grace accettò e mi lasciò guardare i suoi seni sodi e morbidi al tatto. Mentre la accarezzavo, sentivo il suo cuore battere all’impazzata sotto i miei polpastrelli e il suo respiro diventava sempre più rapido e irregolare.

“Vince...” mi chiamò con la voce tremante e ora un po’ più profonda.

“Sì?” le risposi sussurrando.

“Non so se stiamo facendo la cosa giusta, forse dovremmo–”

La interruppi sfiorandole le labbra turgide e socchiuse con le mie. “Non vedo cosa ci sia di sbagliato in quello che vogliamo fare. Se non vuoi continuare possiamo fermarci, se invece vuoi continuare poi vuoi fermarti più tardi, allora ci fermiamo. Tu però rilassati, okay? Vedrai che andrà tutto bene.”

Grace annuì, ma il suo tentativo di rilassarsi fallì nel momento in cui le sfilai gli slip. Continuava a guardarmi con gli occhi spalancati come se avesse voluto sapere in anticipo ogni gesto che stavo per fare, soprattutto quando mi sbottonai i jeans, che adesso avevano iniziato ad andarmi stretti.

Fa’ che vada tutto bene, fa’ che le piaccia, fa’ che io faccia un lavoro decente... continuavo a pensare mordendomi il labbro inferiore, poi la rassicurai con una carezza sul viso perché in quel momento era ciò di cui avevo bisogno io per primo. Ero sempre più stupito del mio stesso comportamento: in una qualsiasi altra occasione e con qualsiasi altra donna a quel punto avrei già finito, invece quella notte ero ancora inginocchiato davanti a Grace, impegnato a rendere il tutto il meno traumatico possibile per entrambi – per lei che aveva deciso di dare una chance a uno come me, e per me perché erano mesi che non provavo altre emozioni oltre alla sola soddisfazione fisica. Le accarezzai una gamba e risalii con la mano ben aperta fino alla sua intimità.

“Dio, Vince,” mi pregò, ma il suo tono lascivo e lo sguardo carico di desiderio mi fecero capire che voleva che continuassi così. Come lei, nemmeno io riuscivo più a resistere, allora mi tolsi i jeans e li calciai via, rimanendo completamente svestito davanti a Grace, che tese una mano verso di me come per darmi il permesso di continuare. Mi posizionai sopra il suo corpo e lei mi circondò le spalle con le braccia, facendo aderire il suo seno al mio petto e permettendomi così di sentire ancora il suo cuore che batteva sotto lo sterno. La strinsi a me mentre le entravo dentro lentamente, e più affondavo, più le sue mani si stringevano sulla mia schiena. Mi morse una spalla nel vano tentativo di soffocare un lamento, ma un attimo dopo iniziò a muoversi meglio, il suo respiro prese un ritmo regolare e i nostri corpi si incastrarono perfettamente in una danza paradisiaca, mentre i nostri sospiri riempivano l’aria sovrastando il fruscio delle chiome degli alberi agitate dal vento. Ora non esisteva più niente al di fuori di noi due. Non c’era Vince, non c’era Grace, non c’era quella stanza, non c’era la mia casa, non c’era Los Angeles: c’era solo un’unica entità che comprendeva entrambi.

Appoggiai la mia fronte sudata a quella di Grace e intensificai il ritmo. “Cazzo, io... tu mi piaci così tanto.”

Grace inarcò la schiena e volse lo sguardo dritto nel mio. “Anche tu mi piaci, Vince. Mi piaci così come ti ho conosciuto io.”

Non potevo crederci! Le piacevo! E le piacevo io, non quel ragazzaccio pervertito di Vince Neil che i giornali decantavano come il re dello stravizio. A lei piaceva Vince e basta, quel tipo che le voleva bene e che, dopo tanto tempo, si era ricordato di avere un cuore.

“Oh, baby... continua così, Grace...” la chiamai mentre chiudevo le sue mani nelle mie. Lei mi sorrise e stava per rispondermi quando raggiunse l’apice. Lasciò cadere indietro la testa, si strinse a me e venne con un gemito, ritrovandosi improvvisamente destabilizzata dal piacere. Un attimo dopo giunse anche il mio momento: uscii da lei forse un po’ troppo bruscamente facendola lamentare e mi venni sul lenzuolo. Mi scostai poi i capelli sudati dalla fronte e dalle spalle e osservai Grace, che se ne stava sdraiata supina e con lo sguardo perso nel vuoto, ancora ansimante. Ormai senza forze, mi accasciai sul lenzuolo intriso del nostro sudore, poi la invitai ad avvicinarsi e Grace si accovacciò contro di me. Le accarezzai le spalle e appoggiai il mento sopra la sua testa mentre lei affondava il viso nel mio petto come se cercasse un senso di sicurezza, e mi domandai se sarei mai riuscito a farla sentire al sicuro come meritava. Ero veramente innamorato di Grace, però c’erano ancora parecchie cose che lei non sapeva di me. Forse, se le avesse sapute, sarebbe corsa via insultandomi perché nessuno vorrebbe vicino uno come me. Però adesso era lì, rannicchiata contro di me e con le mani aperte contro il mio petto, proprio all’altezza del cuore, come se il suo battito fosse stato rilassante. Era una ragazza piccola, così piccola che tra le mie braccia sembrava quasi una bambina. Sapeva essere estremamente forte, ma allo stesso tempo era anche fragile e doveva essere trattata con cura. Io però non trattavo mai nessuno con cura, e avevo paura di combinare qualche disastro per cui Grace mi avrebbe ricordato come quello che in una notte di novembre si era approfittato di un suo momento di debolezza per divertirsi a sue spese. Se avessi voluto ottenere ciò che volevo, allora avrei dovuto impegnarmi per dimostrare a Grace che aveva fatto la scelta giusta. Questo avrebbe comportato un sacco di lavoro, ma stavolta ne valeva così tanto la pena che tirarmi indietro non mi passò neanche per la testa.

“Ehi, Gracie?” la chiamai, ma lei non rispose. Stava già dormendo, e dal momento che la trovai una buona idea, tirai la coperta su entrambi e decisi che avrei provato a fare lo stesso.



N. d’A.: Buon pomeriggio a tutti e scusate per il ritardo – colpa della connessione capricciosa che mi ha impedito di caricare il ventisettesimo capitolo...
Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento e che sia ben riuscito.
A proposito: ho scoperto che c’è un modo per controllare quante visite riceve ogni capitolo di una storia e... wow, non mi aspettavo di trovarne così tanti! È stato un vero piacere, vuol dire che i lettori silenziosi ai quali mi appello ci sono per davvero. :’) Quindi, come sempre, GRAZIE a tutti voi che leggete! ♥
E, sì, be’, se volete lasciare una recensione per farmi sapere che cosa ne pensate, ne sarò più che lieta. =D
Un abbraccio e a mercoledì prossimo,

Angie

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Capitolo 28
*** Nikki ***


28) NIKKI

Avevo passato l’intera mattina e parte del pomeriggio in totale solitudine, seduto sul mio divano a pensare alla mia adorata e dolce Nona, ad ascoltare a loop un disco degli Who e a scrivere sul mio diario di quanto fossi stanco di essere stanco. Era stato decisamente palloso e io, come al solito, mi sentivo una merda inutile. Mi era sufficiente guardarmi allo specchio per provare ribrezzo. La mia pelle aveva assunto un colorito innaturale: era giallastra come se stesse assorbendo la roba che mi calavo ed ero così sudicio che la sporcizia era addirittura visibile. Ero un prigioniero della droga e della fama e, per mia sfortuna, mi vedevo fin troppo bene su quello specchio.

Un’altra cosa che avevo fatto era pensare a Grace. La sua espressione terrorizzata dopo aver ricevuto una sberla da parte di Vanity era ancora vivida nella mia mente, e mi sembrava quasi di averla ancora di fronte pur sapendo che, probabilmente, questa era la volta buona che avrebbe deciso di non tornare mai più. Vanity l’aveva spaventata così tanto che, per paura di incontrarla ancora, Grace non si sarebbe mai più fatta viva. Io lo sapevo, eppure non avevo fatto niente per sistemare la situazione a parte offrirmi di riaccompagnare a casa Vanity. Quello che combinai dopo, però, fu ancora peggio, perché restai da lei a rintontirmi nel nostro paradiso artificiale dell’eroina, incurante del fatto che Grace fosse ancora nel nostro magazzino, sola e al freddo. Chissà se era uscita? Sicuramente no perché sapevo che non c’era nessuno che potesse andare a prenderla, e forse aveva avuto anche un paura a stare da sola in un posto così tetro e grande.

Che cosa mi era passato per la testa? Che cosa c’era di sbagliato in me che mi portava a comportarmi in quel modo?

Mi presi la testa tra le mani e mi lamentai sommessamente per scacciare i pensieri e anche un altro rumore continuo e acuto, che poco dopo identificai come il suono del campanello. Non volevo vedere nessuno e volevo che tutti mi lasciassero in pace. Se si fossero azzardati a infastidirmi ancora, mi sarei presentato fuori armato di fucile per spaventarli e convincerli a levarsi dai piedi. Un attimo dopo sentii il rumore di qualcuno che si arrampicava sul muro esterno e lo scalpiccio veloce di qualcuno che attraversava il giardino, allora saltai giù dal divano per rintanarmi dietro di esso, emergendo appena da sopra un bracciolo per tenere d’occhio la porta. Qualcuno bussò e io scivolai giù per non farmi vedere, convinto che la mia mente mi stesse nuovamente giocando un brutto tiro.

“Nikki?” chiamò una voce pacata e familiare. “Sono Grace. Aprimi se sei in casa.”

Grace? Non poteva essere! Era uno scherzo. Un fottuto scherzo del cazzo, o peggio, un’allucinazione.

“Apri per favore,” continuò quasi implorandomi.

Mi sentii così sollevato che mi sembrava che mi avessero tolto un enorme masso da sopra le spalle. Mi abbandonai contro la parete sorridendo, poi scoppiai in una vera e propria risata perché la mia Grace era tornata. Mi sistemai i capelli per quanto potei dal momento che erano così impiastricciati di lacca che sembravano un unico groviglio, mi spolverai i pantaloni e corsi verso la porta per aprirle, barcollando da una parte all’altra. Me la ritrovai davanti che mi fissava, poi un attimo dopo esultò e mi strinse, circondandomi il busto con le braccia. Ricambiai e le passai una mano tremante tra i morbidi capelli dorati.

“Che bello vederti,” esclamò senza lasciarmi andare. “Credevo che non volessi più avere a che fare con me.”

“Cosa te lo ha fatto pensare?” risposi con un filo di voce. “Dovresti essere tu quella che non vuole più vedere me.”

Per tutta risposta mi abbracciò più forte e io mi sentii coccolato da un calore affettuoso che non provavo da quando ero bambino. Mi sembrò di tornare ad avere otto anni, quando mi aggrappavo alla vita di Nona dopo essere tornato a casa da scuola e aver subìto le derisioni dei miei compagni di classe.

“Si sta così bene così abbracciati...” dissi. Grace si allontanò per guardarmi e controllare che stessi davvero bene, poi sorrise e prese un sacchetto dalla borsa.

“Questi sono per te,” esordì tendendomi una busta di carta bianca e unta sul fondo. La aprii e ci trovai dentro delle paste. Grace disse che quando le aveva viste nella vetrina di una pasticceria le ero venuto in mente perché sapeva che mi piacevano le cose dolci, così me le aveva comprate. Nessuno si era mai preso cura di me in quel modo. Di solito la gente si aspettava che fossi io a dare loro qualcosa, ma nessuno aveva mai dato niente a me – nessuno a parte Nona, il cui ricordo stava tornando a tormentarmi dopo più di un anno dalla sua scomparsa.

“Devi mangiarli,” mi informò come se non fosse stato scontato. “Dopo ti sentirai un po’ meno senza forze.”

Non avevo tanta fame e forse quelle paste non le meritavo neanche, però ne addentai una e feci cenno a Grace di entrare. Si accomodò sul divano e mi sedetti accanto a lei, intento a divorare il mio cupcake ripieno di confettura di ciliegie.

“Mi dispiace per ieri sera,” biascicai con la bocca piena, sentendomi un perfetto animale. Dopo il primo morso mi era venuta così tanta fame che di quelle tortine avrei potuto divorarne a centinaia, incurante del mio stomaco indebolito.

Grace scrollò le spalle, ora seria. “Mi hai lasciata sola in quel posto enorme.”

Deglutii a fatica. “Non sai quanto mi dispiace.”

“E Vanity non doveva permettersi di picchiarmi,” aggiunse, colta da un brivido.

Le appoggiai una mano sulla spalla. “Non c’è niente da fare con lei. Pensa, è convinta di essere la mia fidanzata, ma io non vedo l’ora che esca dalla mia vita.”

“Spero tu riesca a mandarla via il prima possibile perché se continuerete per questa strada non farete altro che danneggiarvi a vicenda.”

“A proposito, come hai fatto a tornare a casa?”

Grace abbozzò un sorriso. “I miei amici erano tutti impegnati, così ho telefonato a Vince.”

Per un poco non rischiai di soffocarmi col boccone. “Vince chi, il nostro?”

“Conosco solo lui con questo nome,” rispose sarcastica. “Non sono riuscita a contattare nessun altro.”

“Con tutte le persone che potevano capitarti, hai trovato quella peggiore,” bofonchiai.

Grace si alzò dal divano in un attimo, come se si fosse ricordata solo ora di avere un impegno urgente, e si sistemò nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “È ora che torni a casa. Avevo detto che sarei rientrata subito ed è già troppo tempo che sono fuori. Mi piacerebbe restare, ma ora non posso proprio. Ci vediamo questa settimana non appena avrò un po’ di tempo libero, okay?”

Annuii mentre la seguivo verso l’uscita, poi la fermai per abbracciarla un’altra volta prima che varcasse la soglia. “Non vedo l’ora di rivederti.”

Grace sorrise e mi fece una carezza sulla guancia come se fossi stato un bambino. “Farò il possibile. Ciao, Nikki.”

La osservai mentre usciva dal cancelletto e girava a destra, dopodiché sentii il rumore di una portiera che veniva chiusa, e infine il rombo di un motore. Poi giuro di aver visto la macchina di Vince passare davanti al mio cancello. Scossi la testa e tornai dentro per telefonare a Tommy, sperando che fosse in casa. Volevo chiedergli di uscire a fare un giro dato che quel pomeriggio mi sentivo particolarmente euforico, ed era meglio approfittarne per mettere la testa fuori dal mio mausoleo. T-Bone arrivò poco dopo, baldanzoso come sempre e con un bandana blu legato intorno al capo e da sotto il quale partiva qualche ciocca ribelle che il vento aveva spostato mentre viaggiava in motocicletta.

“Ehi, Sixxter!” esclamò agitando un braccio magro in aria. “Dovrei essere da tutt’altra parte, ma credo proprio che questo pomeriggio mi dedicherò tutto al mio bro preferito.”

“Sarà meglio per te,” dissi con un ghigno mentre uscivo dal cortile con la moto, dopodiché ci lanciammo giù per il Valley Vista Boulevard. Ci fermammo in un locale lungo la strada che aveva una grande terrazza che si affacciava su Beverly Hills, prendemmo posto al tavolo più defilato e ordinammo un paio di birre.

“Poco fa Grace è venuta a trovarmi,” annunciai prima ancora di assaggiare la mia Guinness.

Tommy, invece, era già a metà pinta. “Immaginavo che sarebbe tornata.”

Feci un mezzo sorriso. “Tu pensi sempre positivo.”

T-Bone sogghignò e fece cenno alla cameriera di portargli un’altra birra, poi appoggiò i gomiti sul tavolo. “Che cosa ti ha detto?”

“Mi ha portato delle paste perché secondo lei ho bisogno di mangiare qualcosa che mi dia delle energie,” raccontai con tono piatto. “Era arrabbiata per lo schiaffo che si è presa da Vanity, però mi ha perdonato per averla lasciata da sola al magazzino. Ha anche detto che questa settimana tornerà a trovarmi anche se ha molto da fare.”

“Non ti ha raccontato altro?” chiese Tommy mentre cercava di tenere indietro i capelli che il vento gli faceva svolazzare davanti al viso.

Feci una smorfia. “Ha detto che si è fatta accompagnare a casa da Vince. Immagino che lui sia corso al magazzino come un razzo.”

Tommy inarcò un sopracciglio con fare sospettoso. “Ti ha raccontato solo questo?”

Avevo l’impressione che mi stesse nascondendo qualcosa e, siccome le sue domande mi sembravano un interrogatorio, sbottai e diedi una manata sul tavolo di metallo facendo tintinnare i bicchieri e il posacenere di vetro. “Cos’altro avrebbe dovuto raccontarmi di così importante, T-Bone? Avrebbe dovuto informarmi dell’ora a cui è arrivata a casa e della strada che ha percorso?”

Tommy si nascose dietro un paio di boccali vuoti come se così facendo si sentisse più sicuro. “È arrivata a casa stamattina, se ti interessa. È rimasta da Vince.”

A quelle parole smisi di agitare il mio boccale per osservare le ultime due dita di birra rigirare contro le pareti di vetro e lo guardai con gli occhi spalancati, incredulo. Tommy alzò le spalle come per dirmi “mica possiamo farci qualcosa!”.

“Poi lo sai com’è Vinnie,” riprese dopo aver appoggiato un piede su un vaso di cemento di fianco al tavolo. “Se non ci prova con tutte non è contento, e questa era già la seconda volta in cui Grace andava a casa sua.”

Scossi la testa come se avessi voluto scacciare le sue parole dalla mia memoria. “Com’è che tu lo sai e io no?”

“Oggi ho telefonato a Vince per chiedergli un paio di cose sul tour e ne ha approfittato per raccontarmi tutto, e sono sicuro che Elisabeth confermerà. Come vedi, i pettegolezzi volano a velocità supersonica. E comunque, bello, non te la prendere, ma Grace non deve per forza riferirti ogni particolare della sua vita privata!” esclamò.

Presi ad agitare il capo, sempre più sconvolto. “Che altro sai su questa storia?”

“Ieri quei due si sono dati parecchio da fare,” continuò Tommy senza togliersi dalla faccia quel suo sorrisetto astuto. “Stamattina Vince mi ha fatto perdere un quarto d’ora per raccontarmi tutti i particolari. Avresti dovuto sentirlo, bro! Credevo che avrebbe cominciato a darsi delle arie e basta, invece era la persona più felice del mondo! Grace di qua, Grace di là... cazzo, bello, quello è fusissimo!”

Mi scansai prima che Tommy potesse darmi una pacca sulla spalla e scattai in piedi, continuando a fissarlo quasi tremando. “Come ha potuto farlo, quello stronzo?”

Tommy mi guardò di sbieco. “Ci avrà anche provato, però Grace ci è stata. Direi che la cosa non ci riguarda, no?”

“No, no, no,” dissi tutto d’un fiato mentre mi passavo una mano tra i capelli. “Deve averla obbligata. Lei non lo avrebbe mai fatto, almeno non con Vince.”

T-Bone cercò di calmarmi, ma io non riuscivo a togliermi dalla mente l’immagine di Vince che metteva le mani addosso a Grace. Li vedevo seduti su quel divano di merda nel suo salotto, lei rannicchiata in un angolo e Neil che le si spalmava addosso infilandole le mani sotto i vestiti. Era inaccettabile. Lasciai una banconota da venti dollari sul tavolo, incurante che più della metà erano di resto, e corsi nel parcheggio del locale per prendere la motocicletta, con dietro Tommy che mi ordinava di fermarmi, sbracciando e sbraitando. Saltai in sella fregandomene delle urla del mio amico e un attimo dopo ero già per strada, diretto verso la nostra sala prove, dove sapevo che avrei trovato Vince. L’immagine di loro due insieme non spariva dal mio cervello. L’avevo visto all’opera parecchie volte, ma la sola idea di Grace al posto di una di quelle groupie mi mandava su tutte le furie. Se la stampa li avesse beccati insieme, le sue fotografie sarebbero finite su tutte quelle insulse riviste di gossip e lei, pur di essere lasciata in pace, avrebbe tagliato i contatti con Vince e sicuramente anche con me. E io l’avrei persa. Per colpa di chi, poi? Di uno che non sapeva tenere le mani in tasca.

Parcheggiai nel cortile del magazzino e balzai giù con un diavolo per capello e i pugni che fremevano dalla voglia di colpire quel cretino. Mi diressi a grandi passi verso la porta, che trovai chiusa, allora cominciai a percuoterla con entrambe le mani finché qualcuno non si degnò di aprirmi. Mi trovai davanti Mick che, a giudicare dal modo in cui mi guardava, doveva aver già capito che qualcosa era andato storto.

“Eccoti, finalmente,” disse a bassa voce e senza spostarsi dalla soglia. “Mi chiedevo se saresti venuto per davvero.”

“Dov’è Neil?” tuonai. Mick sollevò appena le sopracciglia e si grattò la testa, confuso, poi indicò l’interno del magazzino per informarmi che era con lui. Mi fiondai dentro, scesi le scale rischiando di inciampare e intanto cercavo quel disgraziato in tutti i cantoni dell’edificio. Poco dopo lo vidi in piedi mentre accordava una chitarra e a quel punto persi il controllo.

“Tu!” urlai, ma Vince mi salutò come se niente fosse e ripose la chitarra sul piedistallo. “Pezzo di merda, come hai potuto farlo?”

Vince si morse l’interno della guancia senza capire, rimanendo immobile. “Non so di cosa stai parlando, Nikki.”

Non appena gli fui vicino, lo afferrai per i lembi del giubbotto di jeans e lo costrinsi a guardarmi dritto negli occhi. “Razza di canaglia, come hai potuto farle del male?”

Vince iniziò a dimenarsi per sfuggire dalla mia presa, ma io ero abbastanza forte e arrabbiato da riuscire a tenerlo fermo. “Che razza di storia è questa, eh? Ti sei di nuovo fatto pesante, non è vero?”

Il riferimento alle mie abitudini tossiche mi fece infervorare ancora di più e lo scossi di nuovo come un panno impolverato. “Sono così lucido che riesco a vedere alla perfezione la faccia da stronzo che ti ritrovi. Che cos’hai fatto a Grace ieri notte? Come hai potuto?”

Nel frattempo Mick si era avvicinato in silenzio come un fantasma e si era relegato in un angolino a guardare la scena senza capire cosa stesse succedendo. Non provò nemmeno ad intervenire perché ci conosceva abbastanza da sapere che sarebbe stato inutile. Intanto Vince aveva smesso di dimenarsi e sul suo viso era spuntato un sorriso sardonico. “Ti sfugge un particolare molto importante, Sixx: lei era più che consenziente.”

“Non dire cazzate,” sibilai.

“Non ti sto dicendo una cazzata,” ribatté. “Se non mi vuoi credere sono fatti tuoi. Chiedilo a Grace, te lo confermerà.”

“Perché lo hai fatto? Cosa ti ha fatto di male quella ragazza per essere trattata come una delle tue puttane? Se avevi voglia di divertirti, perché non sei andato a cercare una di loro?”

Prima che Vince potesse rispondere, la porta si aprì andando a sbattere contro il muro e Tommy fece irruzione con un paio di falcate enormi, chiamandomi per nome.

“Che cazzo state facendo?” gridò non appena mi vide mentre tenevo Vince stretto per il collo della giacca.

Mick si accese una sigaretta e si spostò di poco dal suo angolino. “A quanto pare Vinnie non mi ha ascoltato e se l’è fatta con la nuova amica di Nikki.”

“Davvero credevi che ti desse retta?” domandò Tommy, poi si rivolse a noi con uno sguardo tagliente. “Nikki, mollalo immediatamente, cazzo. Non ha senso preoccuparsi così tanto per una tipa.”

Tommy non capiva: quella per me non era una ragazza qualsiasi, ma una delle poche persone che si erano preoccupate per me e che aveva fatto il possibile per starmi vicino e trasmettermi un po’ di affetto, e non riuscivo ad accettare il fatto che potesse allontanarsi da me.

Strattonai Vince un’altra volta. “Dimmi perché. Deve esserci un motivo per quello che hai fatto che non sia semplicemente puro egoismo.”

“Questa volta è diverso, e sono pronto a giurarlo,” sussurrò Vince tutto d’un fiato. Mick smise di borbottare, Tommy si pietrificò con gli occhi fuori dal cranio e io, per la prima volta in tutta la mia vita, lessi dei sentimenti profondi negli occhi di Vince. Il suo sguardo era pieno di vita come non mai, ed era proprio ciò che io sognavo di avere ma che non riuscivo mai a raggiungere. All’improvviso mille pensieri si affollarono nella mia mente: lui era innamorato di Grace, me l’avrebbe portata via, lei non sarebbe più venuta a trovarmi perché lui sarebbe stato geloso, però lui non era capace di amare per davvero, l’avrebbe trattata come il suo giocattolo, non appena si fosse stancato l’avrebbe cacciata fuori di casa, Grace avrebbe sofferto e–

“Stronzate!” urlai con tutto il fiato che avevo, sovrastando le voci fastidiose che avevano cominciato ad ammassarsi nella mia testa. “Sei un fottuto bugiardo approfittatore che pensa solo a se stesso.”

Sentii le mani di Tommy appoggiarsi sulle mie spalle e fare pressione per convincermi a mollare la presa, ma Vince continuava a guardarmi inebetito e senza fare nulla per difendersi. Perché non reagiva? Non vedevo l’ora che mi attaccasse perché avevo bisogno di una scusa per poterlo prendere a schiaffi. Non ne potevo più di vedere la sua faccia e nella mia testa continuava a girare l’immagine sua e di Grace.

“Tu, innamorato? È assurdo.” dissi.

Vince annuì. “Lo so, Sixx, ma è così.”

Odiavo quel suo modo di parlare pacato e rassegnato. “Lo hai fatto solo perché vuoi portarmela via. Non riesci ad accettare fatto che io abbia un’amica sincera che mi sta vicino perché mi vuole bene, mentre tu non hai nessuno. Ma lei non sa chi sei per davvero, e non appena vedrà come ti riduci dopo ogni concerto e dopo ogni festa e quanto sai essere egoista, allora se ne andrà.”

“Riuscirò a smettere, e voglio farlo perché non riesco più a sopportare questa situazione,” il suo tono stava cominciando ad alterarsi. “E ricordati che sei tu quello che non si rassegna al fatto che io abbia trovato qualcuno mentre tu sei convinto che non ci riuscirai mai.”

Lo fissai negli occhi con astio e fu questione di qualche attimo: aveva toccato il mio punto debole e, soprattutto, mi aveva spiattellato in faccia la verità. Un pugno gli arrivò dritto sulla faccia abbronzata e provai un’insana soddisfazione.

Mick accorse e, in un impeto di coraggio, si piazzò tra noi due. “Adesso piantatela con questa scenata del cazzo. Per la miseria, Nikki, non puoi decidere tu quello che Grace deve o non deve fare. La testa non le manca, spero solo che la userà con giudizio.”

Mi divincolai dalla morsa di Tommy, che nel frattempo mi aveva afferrato e mi aveva stretto a sé per tenermi fermo. Mandai tutti a ‘fanculo e mi diressi verso l’uscita con il sangue che mi ribolliva nelle vene.

Volevano portarmi via Grace, e Vince aveva tremendamente ragione. Non sopportavo di essere dalla parte del torto né tantomeno che le mie debolezze fossero mi fossero sbattute in faccia. L’idea che Grace si sarebbe allontanata, poi, mi faceva arrabbiare più di quanto non fossi già, e l’unica cosa che volevo in quel momento era placare le voci e le immagini che si alternavano nella mia mente in maniera assillante. Il modo c’era e mi aspettava a casa mia, nella mia cabina armadio. Sikki stava venendo fuori alla velocità della luce, più furioso del solito. I suoi occhi iniettati d’ira bramavano una dose, le sue mani tremavano sul manubrio della motocicletta in attesa di toccare i cristalli d’oro. Abbandonai la mia Harley in cortile senza nemmeno parcheggiarla in garage, chiusi tutte le porte a chiave, arraffai il mio diario e una penna dal comodino, e mi segregai nel mio angolo, nascosto sotto un cappotto appeso e con il fucile a doppia canna di mio nonno a portata di mano.

Adesso basta. Non volevo più pensare a niente, volevo solo estraniarmi completamente dal resto del mondo per non pensare a Grace, per la quale ora valeva il mio detto chicks=trouble. Avevo sperato di non dover mai arrivare fino a questo punto con lei, invece era successo. Perché tutte a me?



N. d’A.: Salve!
Ebbene, l’ira di Sixx si sta cominciando a manifestare in tutta la sua magnificenza – e follia, oserei aggiungere... ma non è finita qui, per cui stringete bene le cinture e preparatevi alle turbolenze, perché il prossimo capitolo ne vedrà parecchie.
Come avrete notato, questi ultimi capitoli sono un po’ più lunghi degli altri, e spero che non siano troppo pesanti.
Poi, cavolo! Ho notato, con mia grande gioia, che le persone che inseriscono la storia tra le seguite sono aumentate. ♥♥♥ Grazie! A voi e a tutti gli altri santi che leggono, seguono e recensiscono. :*
Ciò detto... a mercoledì prossimo.
Un abbraccio,

Angie

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Capitolo 29
*** Grace ***


29) GRACE

Avevo appena finito lezione e stavo attraversando il giardino dell’università per andare alla fermata dell’autobus quando, in piedi sulle scalinate che portavano all’ingresso principale, notai Vince. Se ne stava in piedi a guardarsi intorno e, non appena mi vide, attirò la mia attenzione con un lieve cenno del mento che ricambiai con un veloce movimento della mano. Si era presentato con i capelli legati sotto un cappellino da baseball, un paio di grandi occhiali scuri e un paio di jeans estremamente anonimi abbinati a una felpa dei Dodgers. Così vestito e in mezzo agli studenti che chiacchieravano nel giardino, sembrava uno di noi che aspettava dei compagni prima di tornare a casa. Era strano che fosse venuto a prendermi ed ero curiosa di sapere il perché della sua visita, ma quando lo raggiunsi, Vince mi precedette e mi chiese di andare con lui. Lo seguii lungo il viale che passava davanti all’università, poi svoltammo in una stradina dove, parcheggiata dietro un bidone della spazzatura arrugginito e contro una siepe, c’era la sua macchina. Evidentemente aveva preferito evitare di lasciarla nel parcheggio dell’università, dove avrebbe potuto attirare qualche sguardo curioso.

Aprii la portiera e lasciai la borsa sui sedili posteriori, ancora sorpresa dal fatto che Vince avesse deciso di piazzarsi nel bel mezzo di un giardino pieno di ragazzi che avrebbero potuto riconoscerlo. “Non mi aspettavo di trovarti proprio qui.”

Vince appoggiò gli occhiali e il cappello sul cruscotto, poi si sciolse la coda bassa, facendo ricadere i capelli sulle spalle.

“Preferisci tornare a casa a piedi?” mi rispose con un sorriso sghembo dopo aver messo in modo.

Approfittai di uno stop per allungarmi verso di lui e parlargli nell’orecchio. “No, casa tua è troppo lontana.”

“Casa mia?” ripeté confuso, poi capì e sogghignò di nuovo. “Oggi non c’è nessuno che ti aspetta?”

“Si può sempre trovare una scusa,” risposi con fare altezzoso.

“E non devi studiare? Dici sempre che hai un sacco di cose da leggere.”

Feci spallucce. “Per una volta non succede niente.”

Vince mi accarezzò viso e ne seguì il contorno con la punta delle dita. “Hai ragione. E poi, c’è una cosa importante che devo dirti.”

Distolsi lo sguardo dal panorama verdeggiante di Sherman Oaks e mi voltai di scatto. “È successo qualcosa?”

Vince scosse il capo e batté ripetutamente un pugno chiuso sul volante con fare imbarazzato. “L’altro ieri mi si è presentato davanti Nikki, furioso come una belva perché quel coglione di Tommy gli ha raccontato di noi. Era così arrabbiato che sembrava che gli avessero appena detto che ti avevo presa a sberle. Mi ha afferrato per la giacca e si è lanciato in una patetica scenata di gelosia, allora mi sono chiesto se per caso tra voi ci sia qualcosa che non so e che mi state tenendo nascosto.”

Strabuzzai gli occhi, quasi indignata: pensava veramente che stessi facendo il doppio gioco proprio con loro? Non era nei miei interessi e sarebbe stata una mossa tutt’altro che astuta.

“Ti sbagli proprio,” mi difesi sperando che non ci mettessimo a litigare proprio adesso, dopo solo una settimana che ci frequentavamo. “Siamo sempre stati solo amici, almeno per quel che mi riguarda. Se poi Nikki prova qualcosa per me, allora sappi che non me l’ha mai detto e che, soprattutto, non è ricambiato.”

Vince sollevò appena le sopracciglia e scosse il capo sospirando. “Mi sono preso un bel cazzotto. Non gliel’ho dato indietro perché non avevo voglia di fare a botte, però se lo sarebbe meritato.”

A quanto pareva Vince non capiva che la scenata di gelosia era dovuta al fatto che Nikki fosse così affezionato a me che l’idea che avessi qualcun altro che mi distraeva da lui lo faceva imbestialire. Ovviamente, questo non significava che avesse il diritto di interferire con la mia vita privata prendendo a pugni la persona con cui uscivo per farle cambiare idea, ma mi avrebbe fatto piacere se Vince avesse almeno cercato di comprenderlo e, soprattutto, se non si fosse lasciato influenzare da lui. Quando glielo spiegai, Vince disse che Nikki avrebbe dovuto farsi una ragione del fatto che noi due uscivamo e che se avesse provato a rifare quello che aveva fatto due giorni prima, stavolta gliele avrebbe ridate indietro con anche gli interessi.

Pensai che fosse il momento di chiarire un po’ di cose con Nikki – per quanto la situazione ce lo permettesse – e decisi che lo avrei fatto quella sera stessa. Se fosse stato per Vince, non mi avrebbe nemmeno accompagnata a casa sua ma, dal momento che la faccenda riguardava anche lui, lo fece senza obiettare. Mi scaricò controvoglia davanti al cancello e aspettò che mi aprisse, guardandomi di sottecchi.

“Se solo si azzarda a fare anche un solo passo falso, giuro che stavolta mi incazzo,” borbottò Vince da dentro la macchina.

“Non lo farà,” lo rassicurai sebbene io per prima nutrissi qualche dubbio al riguardo, poi suonai il campanello. Un attimo dopo il cancelletto si aprì e potei finalmente entrare. Come sempre, Nikki mi aspettava appoggiato allo stipite del portone, le braccia incrociate sul petto e gli occhi nascosti dalla frangia corvina. Stavolta non si spostò dalla soglia quando lo raggiunsi, ma si limitò a tenermi il suo sguardo truce puntato addosso. Più mi avvicinavo, più avevo l’impressione che fosse fatto.

“La diva ti ha già raccontato tutto, immagino,” sibilò con la voce impastata.

Roteai gli occhi e lasciai cadere le braccia lungo i fianchi. “Sì, ed è proprio per questo che sono qui. Perché non entriamo?”

Nikki assottigliò appena gli occhi. “Forse dovresti dire al nostro amico di venire qui a risolvere la questione da solo anziché mandarci la sua ragazza.”

Approfittando della mia bassa statura, mi insinuai tra lo stipite e il braccio teso di Nikki per entrare in casa. “Sono qui per parlare di te che non vuoi accettare questa situazione. Nessuno di noi ha intenzione di farti del male, io non ho mai approfittato della tua amicizia, e Vince non voleva farti un dispetto. Se fosse davvero così sarebbe stupido oltre che assurdo, e noi non siamo stupidi.”

Nikki camminò ciondolando fino al divano e notai che le braccia avevano un colorito malaticcio tendente al giallo. Si lasciò poi cadere di fianco a me e si sdraiò appoggiando la testa su uno dei cuscini rovinati dalle bruciature di sigaretta. “Vince è uno stronzo, non dovresti fidarti di lui.”

Mi voltava le spalle, così appoggiai un gomito alla sua spalla. “Lascia fare a me, se non ti dispiace.”

“Lo è sempre stato,” continuò Nikki con il viso premuto contro il cuscino. “Se farà qualcosa di male alla mia Grace giuro che–”

“Aspetta,” lo interruppi, ora con tono più severo. “‘La tua Grace’ sarei io?”

Nikki annuì e si mise a sedere stropicciandosi gli occhi per la stanchezza, poi mi strinse nel suo abbraccio grande. “Sì, sei tu. Io ti voglio bene e non permetterò a nessuno di portarti via da me.”

Adesso che ero stretta contro Nikki, avevo l’impressione che fossi io a sorreggere lui piuttosto che il contrario. “Se mi stessi frequentando con uno che non fosse Vince, avresti fatto lo stesso la scenata che hai fatto l’altro giorno?”

Nikki scoppiò a ridere e la sua voce rimbombò contro le pareti della sala come se gli avessi appena raccontato una barzelletta. “Ci manca solo che vi definiate ‘fidanzati’. Siete veramente assurdi e sdolcinati.”

Mi divincolai delicatamente dal suo abbraccio e mi sedetti composta. “Tu sei mai stato fidanzato?”

Nikki si morse un labbro con fare nervoso, poi prese a strofinarsi le mani pallide e a grattarsi via i residui di smalto nero dalle unghie. “Non so nemmeno se sono in grado di amare.”

“Andiamo, non dire stronzate. Lo sai benissimo che non è vero,” esclamai infastidita. Stava arrivando a darsi la zappa sui piedi da solo e questo non era sicuramente il modo migliore per risolvere i suoi problemi.

“Non sono stronzate,” ribatté infastidito. “Le poche persone a cui ho voluto bene se ne sono andate subito dopo aver ottenuto da me quello che volevano, ma io ho trovato il modo per tenerne stretta qualcuna.”

Non avevo afferrato il senso della sua affermazione e sollevai un sopracciglio, ma quando chiesi spiegazioni Nikki si alzò in piedi di scatto e mi disse di aspettarlo mentre andava a prendere qualcosa da bere, poi si allontanò verso la cucina barcollando e sogghignando. Mi portai una mano sulla fronte e cossi il capo: sembrava proprio che quella sera fosse nel bel mezzo di un trip, e forse avrei fatto meglio a cambiare argomento perché ragionare con Nikki quando era conciato in quel modo era impensabile. La situazione peggiorava ogni giorno di più e se Nikki non si fosse rivolto a persone competenti al più presto, allora non sarebbe finita bene.

Non sentendo alcun rumore provenire dalla cucina, pensai che avrei fatto meglio a controllare cosa stesse succedendo. Abbandonai il divano lercio, attraversai la sala e mi fermai davanti alla porta della cucina, dove Nikki stava armeggiando con bottiglie e bicchieri sul bancone. Era così concentrato che non si accorse della mia presenza, così ne approfittai per restare immobile sulla soglia a vedere cosa faceva: aveva disposto due bicchieri su un vassoio, uno dei quali conteneva un liquido ambrato simile a whisky e l’altro quella che non poteva essere altro che acqua. Lo vidi armeggiare per estrarre una boccetta col contagocce dalla sua scatolina di cartone, poi aggiunse un po’ del contenuto al bicchiere di whisky. Probabilmente voleva solo prendersi qualche goccia di antidolorifico come lo avevo visto fare altre volte, dunque decisi di smettere di spiarlo e proseguii lungo il corridoio per raggiungere il bagno prima che Nikki potesse voltarsi e sorprendermi, notando con piacere che quello del pianterreno era del tutto inutilizzato e quindi pulito – almeno rispetto al bagno della sua camera. Quando tornai in sala, trovai Nikki seduto sul divano che sorrideva in maniera assente. Le tende di velluto cremisi erano state tutte chiuse e l’unica fonte di luce era un lampadario di simil-argento che pendeva imponente dal soffitto. Infine, sul tavolino basso davanti a noi c’era il vassoio con i due bicchieri ancora pieni. Nikki li sollevò e il suo sorriso si allargò sul suo volto pallido e imbrattato dal trucco sbavato.

“Un po’ di vodka per me, e tè ghiacciato per te,” esordì porgendomi il bicchiere che credevo contenesse il whisky. “Purtroppo non ho nient’altro che ti piaccia.”

Trasalii non appena rividi la scena di lui che aggiungeva delle gocce proprio in quel bicchiere e sollevai il capo, sconcertata. Non volevo credere nemmeno un secondo a quello che stava succedendo, ma dovevo farlo.

“Cosa c’è in quel bicchiere?” domandai con la voce che tremava. Avevo afferrato il lenzuolo che copriva il divano di pelle nera e stavo per strapparlo dalla rabbia.

Nikki mi guardò di traverso sforzandosi di sorridere ancora. “Te l’ho detto, è tè ghiacciato.”

“Prima sono andata in bagno e ti ho visto mettere qualcosa col contagocce proprio in quel bicchiere, ma credevo che fosse una specie di cocktail di antidolorifici per te.”

Nikki prese a scuotere il capo e a negare di fronte all’evidenza, allora mi alzai e corsi in cucina alla ricerca della boccetta che gli avevo visto in mano. La trovai in bella vista vicino al lavandino e, dato che il nome riportato sull’etichetta bianca a righe arancioni non mi diceva niente, pescai il foglietto illustrativo dal fondo della scatolina e capii che si trattava di un sonnifero estremamente potente con effetti collaterali da paura.

“Cos’è questa roba?” gli domandai mostrandogli la boccetta scura.

“È sonnifero, c’è scritto sopra,” rispose Nikki con tono ovvio.

“Per quale motivo l’hai messo nel mio bicchiere?”

“Non ce l’ho messo!” ribatté tuonando. Sobbalzai e la boccetta mi scivolò dalle mani, andando in mille pezzi sul pavimento. Il liquido che conteneva si sparse a macchia d’olio sulle mattonelle di cotto e si mescolò alle sottili schegge di vetro.

Scavalcai la pozza e mi avviai lentamente verso l’uscita senza mai voltare le spalle a Nikki, temendo che potesse afferrarmi per impedirmi di andarmene. “Io mi fidavo di te, Sixx. Credevo che fossimo amici, ma a quanto pare mi sono illusa. Adesso scusami, ma è meglio che me ne vada.”

Sul volto di Nikki si dipinse un’espressione di terrore e diventò ancora più pallido di quanto non fosse già. “Ma noi siamo amici, e io ti voglio bene! Non te ne andare!”

Raccolsi la borsa da accanto il divano e scappai verso la porta, ma Nikki, proprio come avevo previsto, riuscì ad afferrarmi e mi strinse a sé senza smettere di dirmi che era mio amico e che mi voleva bene come un nastro inceppato. Io però non mi sentivo più sicura nel suo abbraccio. Tremavo e l’unica cosa che volevo era uscire da quella casa degli orrori. La rabbia e la paura mi pervasero: credevo che a Nikki facesse piacere avermi intorno, invece aveva tentato di farmi bere qualcosa che non avevo nemmeno capito che cosa fosse esattamente. Voleva addormentarmi? Drogarmi? E con quali intenzioni? I troppi pensieri e le ipotesi che affollarono la mia mente mi fecero esplodere e spinsi Nikki lontano da me, sciogliendo violentemente l’abbraccio. Lui restò immobile per un attimo come se stesse cercando di capire cosa fosse successo, poi riprese a seguirmi. Ero così spaventata che ebbi qualche difficoltà nel trovare e premere il pulsante del citofono che apriva il cancelletto, ma appena ci riuscii corsi a tutta velocità come avevo fatto il giorno in cui ero entrata nella villa e lo avevo trovato chiuso nella cabina armadio per la prima volta. Attraversai il giardino di corsa, voltai l’angolo e riconobbi la Corvette rossa di Mick parcheggiata a una decina di metri, alla quale si era appoggiato Vince. Stavano placidamente chiacchierando quando li raggiunsi con il cuore in gola e le gambe che mi tremavano ancora per la paura e lo sforzo.

Vince sollevò gli occhiali da sole sul capo per osservarmi meglio e inarcò un sopracciglio. “Cosa ti è successo? Sei pallida come un lenzuolo.”

“Vince, io… lasciami parlare, okay?” dissi gesticolando nervosamente, poi mi portai le mani tra i capelli, “Oh, merda, non voglio credere che Nikki lo abbia fatto per davvero.”

Vince mi passò un braccio intorno alle spalle e mi avvicinò a sé. “Lo sapevo che prima o poi avrebbe combinato qualche cazzata. Raccontami tutto.”

“Giura di non fare pazzie,” mormorai, ma sapevo che gli stavo chiedendo l’impossibile.
Dipende,” sibilò Vince minaccioso destando l’attenzione di Mick.

Ci accostammo a una fiancata della macchina e appoggiai la testa alla sua spalla, lasciando che il trucco sciolto dalle lacrime e dal sudore della corsa imbrattasse la stoffa bianca della sua felpa. “L’avevo capito che era fatto e stavo per andare via, poi è andato in cucina e l’ho seguito per vedere cosa volesse fare senza farmi beccare. L’ho visto preparare due bicchieri e mettere qualcosa in uno dei due, poi è tornato in sala e mi ha offerto proprio quello. Gliel’ho detto, ma ha negato, e ha negato anche quando sono andata a prendere la boccetta che gli ho visto in mano e ho scoperto che era sonnifero. Non voleva che scappassi e ha cercato di impedirmelo.”

Mick, che fino a quel momento era rimasto in silenzio seduto al posto di guida, scosse il capo in maniera quasi impercettibile. “Vi avevo chiesto di lasciarla in pace e non mi avete ascoltato, ma ho deciso di fare finta di niente perché, a quanto pare, ormai voi due avete deciso di uscire. Però stavolta Sixx ha oltrepassato ogni limite e non me ne starò qui a guardare.”

Vince mi strinse di più. “So io cosa si merita. Sono già due giorni che mi sforzo di non tirargli un cazzotto dritto in faccia, ma credo che dopo questa si meriti ben di peggio.”

Lo vedemmo schizzare in direzione del cancello con i pugni serrati lungo i fianchi e il passo deciso. Mick gli ordinò di tornare indietro ma Vince non lo ascoltò, e l’unica cosa che potei fare fu raggiungerlo e pararmi davanti a lui per impedirgli di fare un altro passo verso la casa di Nikki.

“Spostati, Grace. Questa volta ha veramente esagerato,” mi ordinò Vince. “Non mi interessa che sia fatto o meno, o che viva in un mondo tutto suo. Non doveva azzardarsi a farti una cosa del genere e non ho intenzione di fare finta che non sia successo nulla.”

Appoggiai i palmi sulle sue braccia e scesi fino alle mani, stringendole, e lo pregai di non andare. Sapevo che una rissa sarebbe stata del tutto inutile e dannosa: Nikki era il doppio di Vince e ci avrebbe messo un attimo a stenderlo. Senza contare che Nikki avrebbe continuato a fare di testa propria, proprio come aveva sempre fatto. Ci misi parecchio tempo prima di convincere Vince a rinunciare a entrare nella villa e a scatenare il finimondo, ma alla fine si rassegnò e tornò alla macchina, camminando a testa bassa e borbottando contrariato, probabilmente promettendo vendetta.

“Be’?” fece Mick sarcastico quando ci vide tornare. “Hai già finito di menarlo?”

Vince lo fulminò con un’occhiataccia. “Non ci ho neanche provato. Ad ogni modo, ti sconsiglio di provare a bussare a quella porta e di rimandare quello che dovevi fare con lui a domani. Non vorrei che provasse a drogare anche te. Non mi stupirei se succedesse.”

Mick alzò le spalle e ci salutò bofonchiando mentre si allontanava con un rombo. Era andato fino a Van Nuys per portare a Nikki del materiale su cui lavorare e aveva dovuto lasciar perdere.

“Dove ti devo accompagnare?” domandò poi Vince.

“Da Elisabeth. Le ho promesso che sarei andata a casa sua.”

Mi scaricò davanti alla sua villetta e mi attaccai al campanello finché Beth non si affacciò alla finestra, stupendosi di vedermi così agitata.

“Sei impazzita?” esclamò mentre mi faceva cenno di tranquillizzarmi. “Ti sembra questo il modo di suonare? Meno male che sono a casa da sola con mia sorella, o i miei genitori si sarebbero preoccupati.”

“Devo chiederti una cosa urgente,” tagliai corto. Beth scosse il capo e si presentò alla porta un attimo dopo, i pugni sui fianchi pronta a rimproverarmi ancora per averle quasi bruciato il campanello. Aspettai che fossimo vicine per parlare a bassa voce. “Devi accompagnarmi immediatamente da Tommy.”

Beth spalancò gli occhi. “Per quale motivo, scusa?”

“È successo un casino. Te lo spiego strada facendo, però adesso portami da lui.”

Elisabeth sospirò e mi fece cenno di entrare. “Forza, andiamo in garage a prendere la macchina.”



N. d’A.: Buonasera!
La situazione è ormai esplosa... e ci mancano pochi capitoli alla fine. Sigh! Mi duole dirlo perché per me è stato un immenso piacere condividere con voi lettori la mia storia, ma è così... “Nothin’ lasts forever”, dice la celebre November Rain dei Guns N’ Roses... <3
Ad ogni modo, se per caso foste ancora interessati a leggere qualche altra roba sui Crüe, la Terribile Mars è all’opera da un po’. *Risata malefica alla Mick Mars tipo quella che c’è all’inizio di She Goes Down* Non sarà il seguito di questo racconto, anzi, inizierà prima del 1987 e del debutto di Girls, Girls, Girls... ma non dico altro perché, se veramente qualcuno fosse curioso, avrà modo di scoprirlo da sé verso l’inizio di giugno – all’incirca... dipende se riuscirò a revisionarla tutta.
Riguardo gli aggiornamenti di questo racconto, invece, mi vedo costretta a saltare quello di mercoledì prossimo a causa dello studio dal momento che non sono riuscita – e non credo di riuscirci per una decina di giorni – a sistemarlo prima di caricarlo. Arriverà con una settimana di ritardo, sempre di mercoledì. E, visto che mi sento in dovere di dirvi qualcosina di più, vi annuncio che ci sarà un nuovo narratore (T-Bone! Con grande gioia dei suoi fan...) e che sarà interamente dedicato alla celebre amicizia tra i Terror Twins che va ben oltre le bricconate fatte lungo il Sunset Strip nelle notti del 1981. ♥ ‘Azz... mi commuovo sempre quando parlo di loro. :’)
Ciò detto, grazie infinite come sempre a ci recensisce e a chi legge! ♥
Ci si rivede tra due mercoledì! E scusate...
Un bacione glam e stay tuned,

Angie

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Capitolo 30
*** Tommy ***


30) TOMMY

Dopo la serata al Whisky in cui mi ero imbattuto di nuovo in Elisabeth, non mi era più capitato di vedere Grace, ma non credevo che la seconda volta in cui l’avrei incontrata me la sarei ritrovata davanti pronta a farsi in due per il mio migliore amico. Quella sera arrivò terrorizzata a casa mia verso le sei insieme a Beth e cominciò a parlare senza nemmeno lasciarmi il tempo di darle il benvenuto.

“Devi correre a Van Nuys,” mi ordinò in preda all’agitazione e fissandomi con gli occhi fuori dalle orbite per la tensione. “Sei l’unico che conosce Nikki abbastanza bene da farlo ragionare, o almeno provarci. Adesso sta molto male e so che vorrebbe averti al suo fianco.”

La guardai di sbieco, domandandomi che accidenti ci facesse quella sconosciuta a casa mia a dirmi come dovevo comportarmi con il mio migliore amico, ma lei continuava a tenermi gli occhi puntati addosso, implorandomi di saltare in sella alla motocicletta e correre da Nikki.

“Vuoi entrare? Almeno ci sediamo,” le chiesi con gentilezza mentre mi guardavo intorno sperando che tutto quel trambusto non avesse attirato l’attenzione dei vicini.

Grace scosse il capo. “Non c’è tempo da perdere. Devi correre a Van Nuys prima che sia troppo tardi.”

Inarcai le sopracciglia, sempre più confuso. “Tardi per cosa?”

“Perché quell’incosciente del tuo amico si ammazzi per davvero,” scandì a pochi centimetri dal mio viso.

Trasalii e arraffai la giacca e le chiavi della motocicletta per tenermi pronto. “E va bene, ci vado, però prima voglio sapere cos’è successo a Nikki.”

Grace deglutì a vuoto, sempre immobile sulla soglia e con dietro Elisabeth che ci guardava senza fiatare. “Non so cosa gli passi per la testa, fatto sta che mi ha messo del sonnifero o qualcosa di simile nel bicchiere. Se non me ne fossi accorta lo avrei bevuto e non voglio nemmeno pensare a cosa sarebbe potuto accadere dopo.”

“Merda,” esclamai mentre attraversavo il giardino per raggiungere la mia Harley. “E per quale motivo vuoi che vada subito a casa sua?”

Lessi della vera preoccupazione nello sguardo di Grace. “Quando sono scappata era disperato, e io lo so che quando si incazza si chiude nella cabina armadio. Stavolta l’ho visto molto arrabbiato, quasi fuori di sé, e–”

“Okay,” la interruppi. Non avevo bisogno di ulteriori spiegazioni. “Grazie per avermelo detto. Probabilmente Nikki non mi avrebbe neanche chiamato, anzi, l’unico numero che ha composto sarà sicuramente stato quello del suo spacciatore. Voi andate da qualche parte a distrarvi, ci penso io a lui.”

Grace disse qualcosa ma non le diedi ascolto: adesso dovevo correre da Nikki e sperare che non si fosse veramente cacciato nei guai. Che diamine combinava, quel deficiente? Se aveva veramente fatto quello che aveva detto Grace, allora doveva essere veramente fuori.

Guidai con un groppo in gola fino a Van Nuys, pregando che non fosse davvero troppo tardi, e lasciai la motocicletta davanti al cancello senza curarmi di legarla con la catena e il lucchetto. Non persi nemmeno tempo a suonare: scavalcai direttamente il cancello senza fare troppa fatica e feci una corsa intorno alla casa finché non trovai una finestra rotta dalla quale intrufolarmi. Entrai dalla cucina e notai che nel lavandino si erano accumulate almeno una decina di bottiglie vuote, mentre una pila di cartoni di pizza con dentro qualche avanzo ammuffito erano stati abbandonati in un angolo e le formiche li avevano presi d’assalto. Passai per il salotto messo a soqquadro e reso buio dalle tende di velluto pesante che avevano tutto l’aspetto di sipari teatrali, salii le scale facendo due gradini alla volta, intimorito dall’assenza di rumori eccetto quello che le mie suole di cuoio producevano a contatto con il marmo, e finii violentemente addosso a un gargoyle a causa della poca visibilità. Mi ritrovai davanti il suo brutto grugno e gli occhi di pietruzze rosse mi fissavano come se avessero voluto spaventarmi per farmi tornare indietro.

“Ma vattene a ‘fanculo, mostro del cazzo,” sibilai mentre coprivo la statua di pietra con un lenzuolo abbandonato in un angolo del pianerottolo. Quei cosi malefici sembravano i guardiani della Villa degli Orrori. Erano come le statue delle divinità di un santuario macabro.

Ripresi a correre. Il tempo pareva non passare mai e mi sembrava di non riuscire ad andare avanti abbastanza velocemente, proprio come negli incubi. Quella però era la realtà e, che mi piacesse o meno, l’avrei affrontata. Mi lanciai contro la porta della stanza da letto con entrambe le mani aperte e la spalancai, sapendo già che Nikki non l’avrei trovato lì, poi mi diressi verso la cabina armadio senza indugiare. Da dentro provenivano dei lamenti sommessi perché evidentemente mi aveva sentito e mi aveva scambiato per un’allucinazione. Non avevo voglia di assistere a quella scena per l’ennesima volta, ma fui costretto ad aprire la porta e a sforzarmi di non fargli vedere quanto mi facesse stare male. Nikki, il mio migliore amico, quello con cui avevo sempre condiviso le più grandi cazzate della mia vita, i momenti belli e quelli tristi, se ne stava rannicchiato sulla moquette come un bambino nel ventre materno, e in effetti quello era tutto il suo mondo, l’unico posto in cui si sentiva sicuro. Indossava solo un paio di boxer neri e logori, la pelle aveva uno spaventoso colorito giallastro, i capelli erano stopposi come se fossero stati sintetici, e il suo volto era rigato dal trucco colato con le lacrime e contorto in un’espressione disperata. Intanto teneva stretto a sé il fucile a doppia canna, quell’arma maledetta che temevo che un giorno gli avrebbe portato un sacco di guai. Non riconoscevo più mio fratello e mi chiesi dov’era finito il mio Nikki che faceva il culo a tutti, rigorosamente con me al suo fianco.

“Vattene,” mi ordinò sottovoce e con il viso nascosto contro le ginocchia mentre cercava di allontanarsi, ma finì per scivolare goffamente quando appoggiò male una mano sul pavimento insozzato da vomito, alcolici e Dio solo sa che altro.

Ecco a cosa l’aveva ridotto la sua schifosissima roba: a un animale. Il mio Nikki, un animale. No, cazzo, no. Mi rifiutavo di accettarlo.

Una morsa mi prese il cuore e mi inginocchiai di fianco a lui per abbracciarlo. “Devi alzarti da qui, Sixx, dobbiamo andare via.”

Nikki appoggiò la testa alla mia spalla, ormai privo di forze. “Non ci riesco, T-Bone. lo vorrei tanto, ma non ci riesco.”

“Sì che ci riesci, invece,” ribattei. Passai un braccio intorno alla sua vita ossuta e lo aiutai ad alzarsi in piedi, ma per me era troppo grande e lui non era abbastanza in forma nemmeno per reggersi sulle sue stesse gambe. Con una spalla che strisciava contro il muro, uscii dallo sgabuzzino e lo feci sedere sul letto, dove vomitò un paio di volte mentre lo sostenevo affinché non scivolasse di lato.

“Vai via, T-Bone, questo non è un bel posto,” rantolò. Dopo tutto l’alcol che si era scolato e il pianto che si era fatto, la sua gola doveva essere avvolta dalle fiamme.

“Scordatelo. Non ti lascio da solo in questo porcile.”

“Cosa intendi fare, stare qui a farmi da puntello per evitare che cada a faccia in giù nella merda che spargo in giro per casa?” sibilò.

“Tanto per cominciare, ti serve un bel bagno perché puzzi così tanto che tra poco sbocco anch’io,” constatai prima di tornare ad abbracciarlo per aiutarlo a camminare.

“Domani sarò sporco uguale,” si lamentò Nikki biascicando.

“Quanto meno finché resterò qui sarai pulito.”

Il bagno distava pochi passi dal letto, ma con Nikki appeso al collo come un peso morto rischiai di cadere per ben due volte. Appena riuscii a entrare e ad accendere la luce, scansai con un piede gli innumerevoli indumenti sporchi abbandonati sul pavimento, tolsi un ammasso di coperte da dentro la vasca e ci ficcai dentro Nikki con ancora le mutande indosso, incurante delle sue proteste e dei deboli pugni che mi infliggeva sulla schiena. Usava così poco quella vasca che all’inizio l’acqua uscì sporca di ruggine, macchiando le pareti di smalto bianco ma, appena cominciò a scorrere limpida, puntai il getto ancora freddo addosso al mio amico. Farfugliò qualcosa di incomprensibile mente l’acqua colava lungo il suo corpo giallastro e denutrito e cercò di divincolarsi per uscire dalla vasca ma, ora che l’avevo messo a sedere, riuscivo a tenerlo fermo, e potei continuare il mio lavoro facendo molta meno fatica. Appesi la giacca di pelle alla maniglia della finestra, l’unico posto pulito di tutto il bagno, e ribaltai i mobiletti alla ricerca di qualcosa che potesse assomigliare a del sapone e dello shampoo. C’erano barattoli pieni di cotone idrofilo, due boccette di disinfettante aperte, svariati medicinali e una bomboletta di schiuma da barba, ma alla fine riuscii a trovare del bagnoschiuma. Nella fretta non riuscii nemmeno ad aprirlo correttamente, allora staccai il tappo intero e feci cadere una grande quantità di sapone bianco e profumato sulla schiena di Nikki.

“Che cazzo fai?” sbraitò lui.

“Ti insapono per bene,” ribattei. “Fai così tanta puzza che non ti si riesce a stare vicino.”

“Allora stammi lontano!” gridò mentre mi davo da fare.

Continuai a strofinare la sua pelle senza dargli ascolto. “Che cazzo, Nikki, sei peggio di me da piccolo quando mia madre doveva farmi il bagno. Saltavo da tutte le parti, l’acqua schizzava sullo specchio e mia mamma si incazzava. Io però me ne frego perché questa è casa tua. Tanto poi non pulisci nemmeno.”

Non gli lasciai il tempo per rispondere e gli rovesciai dell’altro bagnoschiuma sui capelli arruffati. Cominciai a sfregare con forza, cerando di districarli senza fargli male, ma erano così stopposi che dovetti accanirmi su di essi aiutandomi con una spazzola sdentata.

“Tommy, stronzo, mi fai male!” urlò Nikki mentre mi stringeva un polso.

Gli passai una mano insaponata sulla faccia. “Zitto e collabora.”
Quando la spostai il trucco nero era colato ancora di più sulla sua pelle sottile, attraverso la quale si intravedevano chiaramente i capillari sofferenti, poi gli sciacquai il viso e lo tamponai con l’angolo più pulito di un asciugamano che avevo rinvenuto nel fondo di un armadio. Ora che il suo volto non era più rigato dall’eye-liner colato e dalla sporcizia, sembrava appartenere a un’altra persona – al mio Nikki.

“Hai finito di torturarmi?” mi domandò seccato mentre tenevo il suo viso tra le mani per guardarlo in tutta la sua genuinità, senza rimmel né cerone né altra merda.

“Adesso andiamo di là, va bene?” gli chiesi con calma dopo avergli buttato un asciugamano sulle spalle tremanti.

Nikki annuì debolmente e sembrò tranquillizzarsi, poi mi tese una mano. “Mi aiuti?”

Gli passai un braccio intorno alla vita e lo sostenni nel fare quei pochi passi necessari per raggiungere la sua stanza. Si sedette sul letto che chissà da quanto tempo non veniva rifatto e si guardò intorno seccato, stringendosi nel telo ruvido.

“Te ne andrai?” domandò senza guardarmi in faccia.

Incrociai le braccia e scossi il capo. “No, bro. Resterò qui con te finché non sarò sicuro che per oggi l’avrai piantata di combinare cazzate.”

Nikki roteò gli occhi arrossati e si fece più in là per chiedermi di sedermi accanto a lui. Obbedii dopo aver spalancato la finestra con la speranza che, così facendo, il cattivo odore di chiuso se ne andasse, poi Nikki si lasciò cadere sulla schiena e fissò il soffitto ornato da un antico lampadario color oro. “Perché sei venuto qui?”

“Perché Grace mi ha raccontato quello che è successo oggi,” risposi mentre mi stendevo di fianco a lui, privo di forze dopo aver faticato tanto per restituirgli un aspetto dignitoso e degno di lui.

Nikki si portò le mani sul viso e tirò indietro il ciuffo umido di capelli corvini, chiudendo gli occhi e sbuffando. “Spero tu non voglia farmi la predica.”

Incrociai le mani sul grembo. “Vorrei solo sapere cosa stavi per darle e perché. Lei mi ha detto che si trattava di whiskey e sonnifero. È vero?”

Nikki scattò a sedere e si portò le mani sul viso. “Nemmeno io so cosa mi sia preso, T-Bone. La mia testa marcia credeva che sarebbe stata una bella idea ficcarle nel bicchiere un po’ di quella roba e l’ho fatto, così anche lei avrebbe potuto provare qualcosa che prendo anch’io. E no, non era sonnifero, ma un intruglio di medicinali che mi stordisce abbastanza da non farmi sentire il dolore quando sono in astinenza da troppo tempo.”

Strinsi le palpebre finché non bruciarono. “L’hai mischiato a del cazzo di alcol, Sixx. Avrebbe potuto farle male, te ne rendi conto?”

“Lo so, ma non era quella la mia intenzione, credimi!” esclamò scuotendomi per un braccio.

Mi sedetti anch’io e gli diedi una pacca sulla schiena.

“Ascoltami bene, una volta per tutte,” Nikki cercò di aprire di più gli occhi, ma la stanchezza glielo impedì, tuttavia fece il possibile per dimostrarmi che aveva intenzione di ascoltarmi. “Ti stai uccidendo con le tue stesse mani, amico. Devi fare qualcosa prima che sia troppo tardi.”

Nikki rivolse lo sguardo spento da un’altra parte e parlò con tono piatto e flemmatico. “Non ce la faccio più a vivere in queste condizioni. Non c’è più niente che io possa fare.”

“Non c’è perché non vuoi,” ribattei, prendendo il suo volto per rivolgerlo verso di me. “Apri bene gli occhi, guardati intorno e osserva quante cose belle ci sono che ti stai perdendo.”

Continuava a fissarmi con lo sguardo allucinato senza neanche darmi la soddisfazione di aver capito. “Ah, sì? Non vedo niente, perché non me lo dici tu?”

“Ci sono io, il tuo amico di sempre,” dissi saltando in piedi e indicando la mia persona. “C’è la band, la musica che ami tanto. C’è Mick, anche se ultimamente ha i suoi problemi. C’è quel vecchio marpione di Vince, e adesso anche Grace, poi se cerchi bene puoi trovare tanti altri amici, una fidanzata e vedere quanto c’è di bello oltre le mura di questa villa che non vede luce ma solo polvere ed è teatro di tutte le tue illusioni.”

“Grace mi odia,” mormorò Nikki dondolandosi appena avanti e indietro in modo compulsivo, stretto nell’asciugamano inzuppato che aveva sulle spalle. “E ha ragione. Deve odiarmi, e me lo merito.”

Distolsi lo sguardo da lui per un attimo e decisi che era giunto il momento che lo sapesse. “Non è vero, e ne sono sicuro perché poco fa si è presentata a casa mia, tremando per la paura, e mi ha detto che dovevo correre da te perché stavi male e sapeva che ero l’unica persona che ti avrebbe fatto piacere avere accanto.”

Subito si accigliò, poi voltò lentamente il capo verso di me e i suoi occhi sembrarono riprendere vita dopo un tempo infinito. “Davvero? Voglio dire... davvero lei si è preoccupata per me? Nessuno si è mai preoccupato per me a parte te, è bello che qualcuno si preoccupi per me, nemmeno mia madre si preoccupava per me quando ero piccolo, e–”

Appoggiai una mano sulla sua spalla e mi sentii sollevato nel vederlo abbozzare un sorriso. “Okay, bello, adesso calmati.”

“Non puoi immaginare quanto mi senta felice per questo!” esclamò ad alta voce. Sarei stato pronto a giurare che, se non ci fossi stato io, avrebbe pianto di gioia. “Mi sento così... così... amato e apprezzato. Hai visto, la mia Grace, quanto bene mi vuole?”

“Be’, ‘la tua Grace’ non è proprio il modo migliore per definirla,” lo corressi.

Nikki inarcò un sopracciglio e si morse un labbro. “È vero che adesso se l’è presa quel maledetto di Vince. Che cazzo…”

“Non vedo quale sia il problema visto che siete solo amici, o almeno questo è quello che mi avevi detto.”

“Vince è un bastardo che la farà soffrire e lei è troppo buona e non si merita di stare male,” si lamentò Nikki con tono quasi infantile.

“Temo proprio che questa volta Vinnie abbia perso la testa per davvero. Sinceramente non so quanto potranno durare, però intanto si è cotto a puntino.”

“Non era già abbastanza perso prima?” Nikki arricciò il naso, imbronciato, poi aggiunse. “Be’, mai quanto me.”

Raccolsi una T-shirt da un angolo della stanza e, una volta che mi fui accertato che fosse abbastanza pulita, gliela porsi. “Mettiti qualcosa addosso e vattene a dormire. Smettiamola di parlare di quei due e vedi di fartene una ragione. Grace non ha detto che non verrà più a trovarti, e al posto di Vince ci sarebbe potuto essere chiunque.”

Nikki sbuffò mentre si vestiva. “Grazie per essere venuto fin qui, T-Bone, ma adesso puoi tornare a casa. Credo che dormirò, o almeno così spero.”

Mi sedetti su un angolo del materasso a braccia incrociate. “Scordatelo, io resto qui. Anzi, spostati, voglio sdraiarmi anch’io. Ho sonno.”

“Dobbiamo per forza dormire vicini?” borbottò Nikki contrariato.

Lanciai le scarpe sul pavimento e mi stesi. “Sì. E vedi di lasciarmi un po’ di coperta, ché stanotte fa più fresco del solito.”

“Che le temperature si stiano abbassando?” domandò retorico dopo un lungo sospiro liberatorio.

“Me lo auguro. È quasi Natale e c’è bisogno di un po’ di freddo. Buonanotte, Sixx.”

Spensi la luce e lo sentii sbuffare nel buio. “Buonanotte, T-Bone.”

Per quella volta l’avevo salvato, pensai, e speravo di essere sempre così veloce, ma dovevo tenere in conto che, probabilmente, un giorno avrei potuto non farcela. Mi morsi un labbro per interrompere quel pensiero così doloroso: e invece io ce l’avrei fatta – dovevo per forza.



N. d’A.: Buonasera a tutti!
Dunque, anche Tommy fa finalmente la sua comparsa, eh? ;) Be’, spero che sia stato di vostro gradimento nonostante sia un po’ più drammatica delle altre... ma il peggio non è finito qui...
Come sempre, grazie a chi segue e recensisce! You rock, guys!
Ci si legge mercoledì prossimo!
Intanto vi auguro buone Vacanze!
Un bacio,

Angie

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Capitolo 31
*** Vince ***


31) VINCE

Mi ci volle una settimana per sbollire dopo quello che Nikki aveva cercato di fare a Grace. Fui tentato diverse volte di fargliela pagare, ma Grace era sempre riuscita a farmi cambiare idea e a trattenermi il tempo necessario perché ritornassi in me e capissi che, in fin dei conti, fare a pugni con Nikki sarebbe stato più dannoso che utile. Mi sarei senz’altro tolto una soddisfazione ma, proprio come sosteneva Grace, non avrei fatto altro che peggiorare una situazione già abbastanza critica di suo. L’unica cosa certa era che o Nikki si decideva a smetterla, o ci lasciava le penne. Non importava quante volte glielo ricordassimo: lui si imbronciava come un moccioso viziato e rispondeva sempre dicendo che ormai non c’era più niente da fare, dimenticandosi che la sua risposta di qualche anno prima era “tanto posso venirne fuori quando mi pare”. Ma tutti sapevamo che si poteva ancora fare qualcosa per salvargli la pelle, e Nikki stesso si era lasciato sfuggire una frase biascicata con la quale aveva fatto intendere di aver già pensato di entrare in riabilitazione. Se fosse stato vero, sarebbe stato fantastico. Per un mese intero avevamo addirittura creduto che si fosse finalmente deciso a mettere da parte le droghe anche se non sembrava affatto cambiato. Continuava ad andare in giro conciato come se vivesse in una discarica, sporco e puzzolente, senza mai cambiarsi, ma Tommy ci aveva riferito che non vedeva segni sospetti sulle braccia. Secondo il nostro manager, Nikki aveva cominciato ad assumere sostanze che non implicavano l’uso di un ago, ma tutti preferivamo e volevamo credere che stesse veramente cercando di smettere.

Quella sera dovevamo tenere un piccolo concerto a sorpresa in un locale di Los Angeles, così pensai che sarebbe stata una buona idea portare anche Grace e farla assistere al live dal posto d’onore. Secondo Mick, che come al solito doveva mettersi in mezzo quando si trattava di tenere al sicuro la mia ragazza, non avrei dovuto invitarla, ma questa volta fu Grace a insistere, consapevole del fatto che nel nostro backstage giravano più groupie che roadie. Ovviamente, siccome tra amiche vige la regola del “o tutte o nessuna”, aveva portato con sé anche Elisabeth, il che non garbava affatto a Tommy dal momento che non avrebbe avuto via libera con le altre rafazze – e guai a chi si azzarda a pensare che io abbia ragionato alla sua stessa maniera: di sicuro non mi dispiaceva avere groupie in giro per i camerini, ma ora che c’era Grace, le mie attenzioni erano tutte concentrate su di lei.

Grace ed Elisabeth si erano rintanate entrambe nel mio camerino – perché non in quello di Tommy non lo so – ed erano rimaste lì dentro a osservarmi mentre mi cospargevo il viso di fondotinta. A quanto pareva, lo trovavano divertente, perché cominciarono a ridere a dire che nemmeno loro sarebbero state in grado di fare un lavoro così preciso come quello sulla mia faccia. Intanto Doc si aggirava per il backstage agitando un dito tozzo in aria e ficcando la testa in tutte le nostre porte per impartire ordini. “Sul palco fra cinque minuti! Capito? Cinque minuti, non cinquanta. Mick, Tommy, siete miracolosamente già pronti, bene! Vince, vai bene così, basta specchiarsi. Nikki! Dov’è andato Nikki?”

Grace alzò il capo all’improvviso e volse un orecchio verso la porta, da dietro la quale provenivano le voci degli altri. Quella potente di Tommy le sovrastava tutte in modo particolare. “L’ho visto gironzolare fuori dalla porta proprio cinque minuti fa. Non può essere andato troppo lontano.”

Dopo dieci minuti di ricerche fallite, la vidi schizzare in piedi, pronta a correre nel caso ce ne fosse stato bisogno, poi la voce del nostro bassista la convinse a tornarsi a sedere. A quanto pareva, Nikki era sbucato da una stanza urlando che ci aveva fatto uno scherzo, a sua detta molto divertente, mentre noi avevamo rischiato un infarto.

“Cosa ti dice quella testa, razza di idiota?” tuonò Doc. Una miriade di sputacchi uscì dalle sue labbra gonfie.

Nikki esibì il suo consueto ghigno strafottente e gli rise in faccia. “Non te la prendere, era solo uno scherzo. Volevo solo movimentare un po’ la serata.”

“Credevamo fossi andato a chiuderti in bagno a fare una delle tue cazzate e stavamo per sfondare la porta.”

Nikki si rabbuiò all’improvviso. “Già. Se l’avessi fatto avreste tutti pensato che per colpa mia sarebbe saltato il concerto.”

Tommy lo acchiappò per un lembo della giacca di pelle e lo trascinò via, facendoci cenno di seguirlo. “Adesso andiamo, bro. Avremmo dovuto essere sul palco già da un po’. Stasera bisogna spaccare il culo, chiaro?”

Sembrava molto convinto, ma nessuno gli rispose né lo sostenne. Io mi limitai a seguirli e Mick ci raggiunse solo dopo aver preso la sua fedele bottiglia di plastica piena di vodka spacciata per acqua. Chissà quando anche lui l’avrebbe piantata? O, per essere veramente corretti, chissà quando l’avremmo piantata tutti e quattro, ognuno con i propri vizi? Io, per quel che mi riguardava, volevo e dovevo farlo, per me e per Grace, che per fortuna non era ancora riuscita a vedermi dopo aver fatto uno strappo alla regola e aver esagerato con i drink.

Non appena salii anche l’ultimo scalino che conduceva al palco, tramutai la mia espressione scocciata in un largo sorriso da marpione, quello che la gente voleva vedermi stampato in faccia e l’unico che tutti credevano possedessi, mentre a Nikki bastava digrignare di tanto in tanto i denti o buttarsi per terra e cominciare a rotolare per mandare in fiamme il pubblico. Raggiunsi il microfono con un balzo e contemporaneamente si accesero le luci, illuminando la band e una distesa di teste e braccia tese verso di noi. Un sacco di persone radunate sotto un palco solo ed esclusivamente per noi. Quella sì che era una soddisfazione, eppure sembrava che l’avessimo messo in secondo piano. Mi lasciai sfuggire un sorriso genuino alla vista di tutta quella gente che aveva riempito il locale e sollevai una mano in segno di saluto. Anche quella sera i Mötley Crüe erano pronti a darci dentro e a far vedere di quale pasta erano fatti – o, in certi casi, di quale roba si erano fatti.

Diedi inizio alla festa con un acuto, subito seguito da una rullata da brivido di Tommy che, per quanto fosse amareggiato perché la location non gli aveva permesso di montare la sua batteria rotante, ululava come un lupo. Intanto la gente sembrava in estasi: urlavano, saltavano, lanciavano oggetti di ogni tipo, dalle mutande alle lattine vuote agli avanzi di cibo che non erano riusciti a finire perché eravamo saliti sul palco – un vero delirio. Correvo da una parte all’altra del piccolo palco, balzavo sugli amplificatori e saltavo giù, carico come una molla. Quando ne avevo la possibilità, facevo una capatina sui gradini che conducevano al backstage dove si erano appollaiate Grace ed Elisabeth per guardarci. Chi l’avrebbe mai detto che sarei arrivato a fare anche questo?

Il concerto si concluse splendidamente e il pubblico continuò ad acclamarci calorosamente anche dopo che si erano spenti i riflettori e noi eravamo tornati nel backstage, urlando i nostri nomi e intonando cori da stadio che ripetevano un continuo “Crüe! Crüe! Crüe!”.

“Ve l’avevo detto, io, che questa sera avremmo spaccato il culo!” esclamò Tommy con il suo consueto entusiasmo infantile mentre agitava in aria le bacchette. Doc gli diede un paio di pacche sulla schiena per approvare ciò che aveva appena detto, estremamente fiero di lui.

Sarebbe stato bello festeggiare l’evento andando a bere qualcosa tutti insieme, ma non potevamo certo farlo con le ragazze dietro, così ci toccò tornare ognuno a casa propria, ma la cosa non mi dispiaceva affatto dal momento che sapevo quello che mi aspettava. Il primo ad abbandonare il backstage fu Nikki, che salì a bordo di una delle macchine con autista che avevamo noleggiato con ancora il trucco di scena e i capelli sparati in aria, e anche Mick avrebbe fatto lo stesso se non avesse dovuto aspettarci per tornare indietro con la limousine con la quale eravamo arrivati. Lasciammo il luogo del concerto nel giro di un’ora e mezza, ci accompagnarono fino al garage della casa discografica e lì potei finalmente riprendere la mia auto e tornare a casa con Grace.

“Ti è piaciuto il concerto?” le domandai mentre guidavo verso North Hollywood.

Lei sbadigliò e si stiracchiò. “Moltissimo. Siete stati sorprendenti.”

“Beth, invece, cosa ne pensa?”

“A parte lamentarsi di una groupie che stava puntando a Tommy come un segugio, non ha espresso pareri, ma credo che la pensi come me,” raccontò divertita, poi si fece improvvisamente seria. “A proposito, a casa hanno scoperto che nascondo qualcosa. Dopo settimane che sparisco e ricompaio misteriosamente senza dare spiegazioni a nessuno, sfido chiunque a non accorgersene.”

Trasalii. Immaginavo già i nostri volti sulla copertina di una di quelle stupide riviste di gossip e il titolo a caratteri cubitali che riportava una frase del tipo “Il vocalist dei Mötley Crüe e la sua nuova fiamma del college”. Cazzo. Se fosse successa veramente una cosa simile, mi sarei presentato alla casa editrice e avrei devastato tutto come facevo con le stanze di hotel durante il tour di Shout at the Devil.

“Come pensi che la prenderebbero i tuoi se sapessero che esci con me? Devo aspettarmi tua madre sotto casa pronta a strigliarmi il culo con la carta vetrata?”

“Più o meno,” rispose Grace, poi rise quando mi sentì deglutire a vuoto. “Sei diventato pallido come un lenzuolo, Vince.”

“Chi, io? Naah, ti sbagli. Non ho mica paura di una signora armata di carta vetrata!” mi difesi.

Grace si strinse nella giacca di pelle e sospirò abbozzando un sorriso. “Lasciamo perdere. Pensiamo a qualcos’altro o finiremo per guastarci la serata.”

“Per fortuna siamo quasi arrivati,” constatai.

Quando entrammo in casa, sentii che la sensazione sgradevole di tappo nelle orecchie tipica del dopo concerto era passata del tutto. Grace sparì al piano superiore per farsi un bagno e io ne approfittai per accasciarmi sul divano e riposarmi un po’ la testa. L’orologio in stile anni Cinquanta appoggiato sopra il camino segnava le tre di notte: era già domani. Appoggiai il capo su un cuscino e mi strofinai gli occhi, ritrovandomi qualche residuo di eye-liner nero sulle dita. Chiusi le palpebre per un po’, ascoltando solo il rumore dell’acqua che scorreva al piano di sopra, e aspettai di sentire la chiave girare nella serratura della porta del bagno prima di alzarmi e raggiungere Grace.

“Teoricamente dovresti già essere a dormire da un pezzo a casa della amica tua e di Beth,” la canzonai mentre mi sedevo sul letto.

“Ma io sono a casa di Beth!” ribatté facendomi l’occhiolino. “Però non credo che dormirò.”

“Sono d’accordo. Tra poche ore sarà l’alba, non mi sembra proprio il caso di perdere tempo a dormire.”

Grace si avvicinò a me con movenze estremamente lascive e slacciò il primo bottone della camicia che indossava, il cui tessuto semitrasparente non lasciava affatto spazio all’immaginazione. Deglutii pesantemente e cercai di mascherare con un sorriso gli effetti che l’eccitazione aveva sulla mia espressività, ma ormai lei mi conosceva fin troppo bene e sapeva per certo che quel sorrisetto sghembo da ragazzino imbarazzato che avevo tirato fuori voleva essere un sorriso furbesco, lo stesso che riuscì a ottenere quando le sue dita sottili sciolsero un altro bottone della camicia. Continuò ad avvicinarsi poi si sedette sulle mie ginocchia e mi circondò il collo con le braccia, facendo piegare ancora di più i lembi dell’indumento dalla sottile stoffa bianca. Mi posò un lieve bacio sulle labbra prima di cominciare a baciarmi con più veemenza, scendendo fino alla base del collo.

“Oh, sì, Gracie, così...” mi lasciai sfuggire quando la sua mano iniziò ad armeggiare con la patta dei miei pantaloni, approfittandone per esercitare una lieve ma non sufficiente pressione. Proprio in quell’istante il telefono sul comodino iniziò a squillare, ma lei sembrò non rendersene neanche conto e non si fermò.

“Che cazzo...” mi lamentai al terzo trillo, roteando gli occhi.

“Forse è meglio rispondere,” azzardò Grace dopo aver spostato la mano sul suo fianco.

“No. Chiunque sia, si arrangia,” ribattei, poi mi rivolsi a lei facendole una carezza sul viso. “Noi possiamo continuare.”

Peccato però che quell’aggeggio malefico non desse segno di voler smettere di suonare, allora fui tentato di prenderlo, strappargli il filo e scaraventarlo giù dalla finestra, ma dovetti trattenermi. Ormai il momento magico era stato rovinato da quel dannato telefono e tanto valeva che rispondessi, così mi sdraiai per raggiungere il comodino e Grace mi seguì.

“Pronto?! Chi è che rompe?” sbottai non appena sollevai il ricevitore, mentre con la mano libera tenevo abbracciata la mia ragazza.

“Ciao, Vince, sono Doc,” rispose la voce dall’altra parte.

Alzai gli occhi al cielo perché ero certo che mi avesse chiamato per dirmi qualcosa di futile, come farmi presente che avevo dimenticato qualcosa nel backstage o ricordarmi dell’incontro che si sarebbe tenuto un paio di giorni dopo. “Sono molto impegnato, Doc. Spero tu abbia un buon motivo per disturbarmi a quest’ora e, soprattutto, in questo momento.”

“Non ti ho chiamato perché non ho un cazzo da fare,” ribatté Doc. La sua voce sembrava tremante e mi venne istintivo abbracciare più forte Grace, che smise di chiedermi cosa stesse succedendo per tentare di origliare la conversazione.

Sospirai rassegnato. “Allora dimmi, sono tutto orecchi.”

Ci fu un attimo di silenzio durante il quale fui certo di averlo sentito tirare su con il naso come se stesse piangendo, poi se ne uscì con una storia assurda tanto quanto spaventosa. “C’è stato un problema con Nikki. Dopo il concerto è andato a festeggiare con della gente in un hotel a Hollywood. Quel posto era pieno di spacciatori, e sembra che qualcuno gli abbia iniettato una dose. Era molto pesante e stavolta non è riuscito a resistere. Mi hanno chiamato ora dall’ospedale per dirmi che non ce l’ha fatta. Mi dispiace molto, Vince.”

Sentii il sangue scendermi ai piedi e mi sembrò di essere stato privato di ogni sostegno.

“Sei sicuro di quello che dici, Doc?“ biascicai. Avrei voluto chiedere perché, dove, quando, come... ma quelle parole furono le uniche che riuscii ad articolare. Grace aggrottò la fronte e si mise a sedere, restando il più vicina possibile alla cornetta con la speranza di udire qualche frase.

La voce di Doc era sempre più vibrante. “Vorrei essermi sbagliato, ma non è così, figliolo.”

“Oh, merda, non puoi essere serio,” il mio tono sconcertato attirò l’attenzione di Grace, che mi spostò i capelli dal viso e constatò che avevo gli occhi lucidi.

“Cos’è successo?” domandò, poi iniziò ad accarezzarmi il viso quando si accorse che non riuscivo a fare niente a parte tenere gli occhi spalancati. “È successo qualcosa di grave?”

“Dove sei? Dove sono tutti?” gridai al telefono mentre le lacrime cominciavano a velare la mia visione.

“Io mi trovo al Cedars-Sinai Hospital e gli altri saranno qui a breve,” mi informò Doc, poi gli riattaccai in faccia senza aggiungere altro e mi lanciai alla ricerca dei miei vestiti. Sentivo il cuore battermi in gola anziché nel petto e tutto ciò mi sembrava assurdo e assolutamente inaccettabile. Mi assalì quell’orrenda sensazione di essere in un film trasmesso alla televisione.

“Posso sapere cosa sta succedendo?” esclamò Grace mentre si riabbottonava in fretta la camicia.

Raccolsi la giacchetta di lamé che aveva indossato quella sera al concerto e gliela porsi. “Vestiti, dobbiamo andare.”

“Dove?” chiese, sempre più confusa, ma io non riuscivo a risponderle e voltai il capo dall’altra parte quando mi accorsi che stavo piangendo. Lei si alzò e si avvicinò a me, preoccupata, poi sentii la sua mano delicata appoggiarsi sulla mia spalla.

“Cosa sta succedendo, Vince?” sussurrò.

Mi girai verso di lei mostrandole gli occhi gonfi ed esausti per aver cercato inutilmente di trattenere le lacrime, e le presi il viso tra le mani. “Non agitarti, per favore.”

“È molto grave?” domandò ancora mentre la stringevo a me con la speranza di infonderle sicurezza.

“Riguarda Nikki,” cominciai facendo del mio meglio per essere il più delicato possibile. “Ha avuto un’overdose. I medici hanno fatto tutto quello che hanno potuto, ma non ci sono riusciti, ma lui non è stato abbastanza forte. Mi dispiace tanto, tesoro.”

La strinsi più forte non appena terminai la frase, appoggiando il mento sulla sua spalla e affondai il viso nei suoi capelli dorati.



N. d’A.: Buonasera, belli!
Avete passato delle Buone Feste?
È doloroso da dire ma... sigh! Questo è il penultimo capitolo.
Be’, gente, non so che cosa dire... leggete sempre, leggete sempre in tanti. :’) Ma nel prossimo capitolo mi lascerò andare ai dovuti ringraziamenti – a patto che mi portiate una scatola di fazzoletti a meno che non vogliate che sparga lacrime ovunque.
Per ora grazie a tutti quanti! ♥
Non perdetevi l’ultimo capitolo, che sarà caricato giovedì prossimo!
An enormous glam kiss,

Angie




AVVISO: L'ultimo capitolo sarà caricato venerdì anziché giovedì causa impegni... perdonatemi!

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Capitolo 32
*** Grace ***


32) GRACE

Trascorsi il viaggio verso l’ospedale con gli occhi fissi su un punto a caso davanti a me mentre le ultime parole di Vince riecheggiavano nella mia testa. Nikki non ce l’aveva fatta. Non c’era più. L’avevamo perso.

Ripensai al giorno in cui avevo scavalcato il muro di casa sua, convinta di aver combinato l’ennesima cazzata della mia vita, e invece in quel modo avevo trovato un amico. E adesso non c’era più e desideravo abbracciarlo più che mai, ma non potevo. Mi voltai verso Vince, che guidava con un’espressione sconvolta dipinta sul viso. Se era stata dura per me che lo conoscevo da poco tempo, non osavo immaginare come doveva averla presa lui, che era suo amico da parecchi anni. Non ci rivolgemmo la parola per tutto il viaggio e mi limitai a lanciargli occhiate di nascosto e, puntualmente, potevo vedere chiaramente una lacrima che scivolava lenta lungo la guancia, sulla pelle abbronzata.

“Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Gli abbiamo detto mille volte di smetterla, ma non ci ha mai dato ascolto,” mormorò Vince mentre correvamo attraverso il parcheggio dell’ospedale. Stava cominciando a piovigginare e l’umidità era così intensa che sembrava insinuarsi attraverso la pelle e infiltrarsi nelle ossa. Salimmo le scale di corsa e, quando raggiungemmo il reparto, trovammo Mick e Doc nella sala d’attesa. Mars era accasciato in un angolo del pavimento e teneva gli occhi fissi sulle punte dei suoi stivali neri, scuotendo il capo e borbottando. Più che afflitto, sembrava indignato. Vince e io ci scambiammo un’occhiata interrogatoria perché non capivamo il motivo di quel suo modo di comportarsi, ma il gonfiore che si era impossessato della sua faccia e delle sue mani lasciò intendere che fosse ancora sotto l’effetto di qualche bicchiere di troppo.

“Dov’è?” domandò Vince tutto d’un fiato. Subito dopo gli occhi degli altri due ci fulminarono e solo allora notai che mancava Tommy.

Il manager si avvicinò a grandi passi e prese a picchiettare un dito sulla spalla di Vince. “Quel deficiente di Sixx ne ha combinata di nuovo una delle sue.”

Vince lo guardò di sbieco e mormorò, con ancora la voce rotta dal pianto, che gli aveva telefonato mezz’ora prima per dirglielo. Non appena terminò la frase, Mick si alzò lentamente dal pavimento, scansò Doc con un gesto delicato e congiunse le mani. “Nikki è vivo.”

“Cosa?” sbottammo all’unisono, poi io continuai. “Sei sicuro di quello che dici?”

“Durante l’intervento di soccorso il suo cuore ha smesso di battere per alcuni minuti e i medici lo hanno dichiarato clinicamente deceduto. Non si sa come, ma il cuore ha ripreso la sua attività molto debolmente e hanno dovuto ritrattare. Aggiungerei anche un ‘grazie al cielo’,” spiegò prima di tornarsi ad accasciare nel suo angolino.

Doc si asciugò la fronte dal sudore tamponandola con un fazzoletto di stoffa blu perfettamente stirata. “Adesso si trova nella sua stanza. Non si è ancora svegliato, però se volete potete vederlo dalla vetrata.”

Senza farcelo ripetere una seconda volta, Vince e io ci fiondammo nella direzione che ci era stata indicata, ritrovandoci in un corridoio lungo e dall’odore asettico tipico degli ospedali. Riconoscemmo la sua stanza perché davanti alla vetrata, immobile come una statua, Tommy lo osservava con la fronte e le mani appoggiate al vetro. Non si accorse di noi finché Vince non gli passò una mano sulla schiena per rincuorarlo.

“Avete visto questo bastardo che scherzi ci fa?” biascicò Tommy con la voce ancora tremante per la miriade di emozioni che aveva provato tutte insieme nel giro di poche ore.

“Cosa dicono i dottori?” indagò Vince.

“Non sanno ancora se sia fuori pericolo o no,” rispose Tommy, poi frugò in una tasca ed estrasse alcune monete. “Fammi un piacere e renditi utile: va’ a prendermi un caffè. Ne ho bisogno per superare questa nottata di merda.”

Vince roteò gli occhi, ma alla fine obbedì. Lo osservai finché non girò l’angolo strisciando i piedi poi spostai lo sguardo all’interno della stanza, dove un’infermiera stava ripulendo accuratamente il viso di Nikki dagli ultimi residui di trucco, rimboccandogli le coperte di tanto in tanto.

Mi avvicinai a Tommy prendendo il posto che Vince aveva occupato fino a poco prima e gli domandai come stesse.

“Come vuoi che stia?” ribatté passandosi un palmo sulla faccia e tirando bene la pelle. “Come una merda. E tu?”

“Potrebbe andare meglio,” mormorai, poi mi accorsi che qualcuno mancava all’appello. “Dov’è Elisabeth?”

Tommy sbuffò scuotendo il capo, visibilmente esausto. “Abbiamo litigato per l’ennesima cazzata, ma sapevo che prima o poi sarebbe successo. Se n’è andata sbattendo la porta. Abbiamo mandato all’aria qualcosa che forse non c’è nemmeno mai stato, poi un quarto d’ora dopo ho ricevuto quella maledetta telefonata,” le sue dita lunghe si contorsero sul vetro fino a chiudersi in un pugno. “Credo di aver perso dieci anni di vita.”

“Adesso però è tutto finito. Nikki è ancora con noi e–” mi interruppi all’improvviso appena mi accorsi che l’infermiera aveva preso a correre intorno alle apparecchiature mentre un suo collega, chino sul corpo immobile di Nikki, sembrava parlargli.

Tommy alzò lo sguardo da terra e spalancò gli occhi arrossati. “Dici che si è svegliato?”

Cercai di vedere oltre il corpo tarchiato dell’uomo nel camice bianco. “Parrebbe di sì.”

L’infermiera si avvicinò al vetro e per un attimo credemmo che volesse comunicarci qualcosa, invece si limitò ad abbassare una persiana grigia per poi uscire di corsa chiudendo la porta e ritornare insieme a due medici. Una dottoressa sulla cinquantina uscì dalla stanza sorridendo e richiamò la nostra attenzione con voce pacata.

“Voi siete parenti del signor...” avvicinò e allontanò diverse volte la cartella clinica dagli occhi per mettere a fuoco le lettere scribacchiate di quel nome che alle sue orecchie suonava fin troppo bizzarro. “...Sixx?

“Siamo suoi amici,” la correggemmo.

Il medico sospirò e annuì. “Ci tenevo a informarvi che si è svegliato, ma non posso far entrare nessuno eccetto i parenti stretti, almeno per ora.”

Tommy avanzò di qualche passo quasi strisciando. “I suoi parenti non sono qui e, onestamente, non so se si presenteranno. Se non le dispiace, vorrei entrare io. Sono il suo migliore amico.”

La dottoressa roteò gli occhi e riposizionò gli occhiali sul naso. “D’accordo, ma solo lei. La signorina dovrà attendere fuori.”

Scomparirono entrambi dietro la porta bianca e nello stesso istante scorsi Vince arrivare dalla parte opposta rispetto a quella dalla quale era andato, con un bicchiere di caffè in mano e la testa leggermente alzata per guardarsi intorno.

“Scusa se ci ho messo così tanto, ma non trovavo più la strada per tornare indietro. Questo posto sembra un cazzo di labirinto,” spiegò stizzito mentre teneva il bicchiere del caffè per il bordo per non scottarsi.

“Nikki si è svegliato,” annunciai senza prestare attenzione a ciò che aveva appena detto.

Il volto stanco di Vince si rilassò. “Questa è una bellissima notizia! Cosa dicono i medici?”

“Ancora niente. Tommy è entrato, ma con lui hanno fatto un’eccezione perché Nikki non ha parenti. Forse tra poco faranno passare anche voi.”

Vince sorrise poi guardò il bicchiere di carta pieno di caffè bollente. “E questo chi lo beve, adesso? Quando Tommy uscirà si sarà già raffreddato.”

“Quanto zucchero ci hai messo?”

“Tre bustine perché a Lee piace amaro,” rispose sogghignando.

“A volte sei proprio un bamboccio,” ribattei mentre prendevo il bicchiere dalle sue mani. Per fortuna a me piaceva molto dolce e decisi di non lasciare che andasse sprecato. Lo bevvi tutto e lanciai il bicchiere vuoto in una pattumiera, poi tornammo a sederci in sala d’attesa insieme a Mick e Doc finché non ci diedero il permesso di visitare Nikki. Lasciai passare gli altri e restai per quasi un’ora fuori nel corridoio, con le loro voci alterate che giungevano alle mie orecchie. Li vidi uscire tutti e quattro a passo sostenuto e Vince mi fece cenno che avevo finalmente via libera. Aprii lentamente la porta e trovai Nikki sdraiato sul letto, gli occhi chiusi e una mano aperta sulla fronte. Chiamai il suo nome a bassa voce e lui scattò a sedere, ma fu costretto a tornare giù per non strappare i tubi e i fili che uscivano dal suo largo camice bianco.

“Come ti senti?” domandai prendendogli una mano, che lui ritirò per nascondere gli ultimi buchi.

“Di merda,” rispose a bassa voce, poi si decise a estrarre la mano da sotto il lenzuolo e cercò la mia. “Sei qui anche tu per darmi del coglione?”

Non dissi nulla e mi chinai delicatamente per cercare di abbracciarlo senza fargli male. “Non farlo mai più, ti prego.”

“Spero di riuscirci,” mormorò, lo sguardo fisso sul soffitto.

Mi allontanai da lui e asciugai una lacrima che gli scendeva lungo il volto. “Sono sicura che ci riuscirai perché tu ce la fai sempre.”

“Merda, Grace, io ero morto,” disse mentre si portava le mani sugli occhi per reprimere le lacrime.

“Ma adesso sei vivo ed è questo l’importante.”

“Me l’ha detto anche Tommy,” borbottò.

“Come vedi, non sono l’unica a pensarlo,” risposi mentre gli sistemavo con cura i capelli stopposi.

Batté debolmente un pugno sul materasso della barella rischiando di urtare l’ago della flebo. “Ho davvero paura di non farcela. Sono un fallito di merda, è questo il problema!”

Lo zittii prendendogli entrambe le mani per evitare che le muovesse troppo. “Sei riuscito a fare tante cose: prendi quei tre che suonano con te. Insieme avete dato vita a un gruppo che sta avendo tutto il successo che si merita.”

“Le ultime canzoni che ho scritto sono oscene.”

“Allora vorrà dire che ne scriverete di migliori. Avete talento e amate ciò che fate.”

Nikki scosse il capo e le mani chiuse tra le mie presero a tremare. “Non riesco più nemmeno a godere di un applauso o un complimento per come è andato il concerto. La mia testa è tutta concentrata su qualcos’altro.”

Lo guardai dritto negli occhi spenti. “Ne verrai fuori, basta solo che tu ci metta la stessa volontà con cui scrivi una nuova canzone. Almeno provaci.”

“Ci ho già provato e ho fallito. Mi hai visto? Ero morto e mi hanno spedito indietro a calci nel culo perché non mi vogliono neanche dall’altra parte.”

“Oppure ti hanno spedito indietro a calci nel culo perché hai ancora tante cose belle da fare e da vedere,” lo corressi. “Prova a vedere le cose da una prospettiva diversa, ogni tanto.”

Nikki si corrucciò e tentò vanamente di incrociare le braccia sul petto. “Non ci riesco.”

“Questo lo dice mio fratello quando non riesce a risolvere il problema di ‘quante mele ho se compro sei cassette da quindici?’. Però lui ha sette anni.”

Stavolta sbuffò sonoramente. “Sentiamo la tua soluzione.”

“Dipende da te,” risposi senza distogliere lo sguardo dal suo. “Devi essere tu a farti forza e a saltarne fuori. Il massimo che io e gli altri possiamo fare è accertarci che tu stia seguendo le cure con una telefonata, ma per il resto siamo molto limitati. A te la scelta.”

Nikki chinò il capo e si fissò le mani rovinate dalle iniezioni mentre le intrecciava nervosamente, scostando di tanto in tanto un qualche filo con nervosismo, poi si grattò la testa. “Ho paura di non farcela.”

“C’è anche la possibilità che tu ci riesca,” ribattei prontamente.

“Non voglio deludere tutti una seconda volta,” disse, poi continuò prima che potessi rispondergli. “Però ci proverò lo stesso. Forse avete ragione voi.”

Tornai ad abbracciarlo e intanto diedi un’occhiata fuori dalla finestra: stava sorgendo il sole ma le colline lo coprivano, e controluce avevano assunto una tinta verde scuro in forte contrasto con il cielo ormai chiaro.

“Guarda, è l’alba,” sussurrai indicando la vetrata.

“Già. Potresti aprire del tutto le tende? Ho voglia di un po’ di luce,” obbedii con piacere e tornai vicino a lui, che sbadigliò vistosamente prima di parlare. “Forse tra poco devi essere a casa?”

Annuii. “Se però vuoi che venga a trovarti basta che mi chiami. Se vuoi, posso portare anche Vince.”

Arricciò il naso. “A proposito, come va con lui?”

Sorrisi. “Bene, grazie.”

“Dio, che schifo... siete zuccherosi da far cariare i denti. E i medici hanno anche detto che devo stare attento alla glicemia!” esclamò. Per un attimo mi sembrò serio, ma dovetti ricredermi quando si voltò verso di me ghignando. “Sta’ attenta anche tu, però.”

“Stai diventando peggio di Mick,” sussurrai.

“Guarda che dico sul serio!” esclamò Nikki, poi tese una mano verso di me e io la presi. Era fredda e umida, allora la scaldai con mie. “Fa’ piano, quei dannati buchi sono infettati. Pensa che lo sono tutti quelli che ho nel corpo. Hanno detto che ci metteranno un po’ a guarire.”

“Non te ne farai più, vero?”

Nikki scosse il capo e puntò gli occhi verdi dritti nei miei. “No. Adesso basta, è ora di smettere con questa merda. La prima cosa che farò non appena mi avranno dimesso sarà ripulire casa da tutta quella roba, o forse vendere direttamente quella cazzo di villa degli orrori. Ci sono troppi brutti ricordi perché possa resistere lì dentro per ancora molto tempo.”

“Se vuoi che ti aiuti basta chiedere. Questo lo sai, vero?”

“Certo, anche se credo che aspetterò di essermi totalmente ripreso prima di comprare una casa e sistemarla. Ti ci vedo bene come consulente d’arredo, sai? E, già che ci sei, porta con te Neil, così gli faccio ripulire il giardino. Me lo immagino già in mezzo all’erba tagliata mentre si lamenta per la fatica e gli insetti,” disse Nikki sogghignando, poi si lasciò scivolare sotto il lenzuolo e lo tirò fino al mento. “Adesso vorrei riposarmi un po’. Ne ho bisogno dopo questa immane stronzata.”

Gli passai una mano tra i capelli e gli rivolsi un sorriso comprensivo. “Va bene, allora torno a casa.”

Stavo per allontanarmi quando sentii le sue dita intrecciarsi alle mie. La sua mano grande e pallida teneva stretta la mia in una morsa debole, i suoi occhi mi fissavano lucidi e le sue labbra secche erano socchiuse, pronte a parlare.

“Grace Murray,” sussurrò. “Ti voglio bene.”

“Anch’io ti voglio bene, Nikki,” risposi senza cambiare tono di voce.

“Grazie per quello che hai fatto per me. Sei stata uno dei pochi che non mi ha abbandonato. Fino a poco tempo fa cercavo di trovare il coraggio per dirti di stare lontana da tutti noi, ma adesso ho trovato quello per chiederti di restare per sempre. Sei una buona amica, Grace.”

Mi chinai sul suo viso per dargli un leggero bacio sulla guancia: odorava di prodotti antibatterici, probabilmente quelli che l’infermiera aveva utilizzato per ripulirlo dal trucco.

“Stasera tornerò a trovarti,” dissi. “Adesso però cerca di riposarti.”

Me ne andai in silenzio mentre Nikki mi salutava con la mano e gli occhi che faticavano a restare aperti, poi chiusi attentamente la porta e mi ritrovai nel lungo corridoio dalle tinte bianche e celesti. Alla mia destra, seduto su una delle poltroncine di plastica, Vince mi aspettava con le braccia conserte e il mento appoggiato al petto, forse addormentato. Mi lasciai sfuggire un sorriso e gli appoggiai una mano sulla spalla, facendolo sobbalzare appena.

“Già fatto?” domandò mentre si stropicciava gli occhi.

Scossi il capo. “No, sei tu che ti sei addormentato.”

Si morse il labbro inferiore, leggermente imbarazzato per essersi appisolato su una poltroncina dell’ospedale, poi sorrise. “Com’è andata?”

“Ha detto che stavolta si è deciso a smettere,” raccontai mentre lo osservavo alzarsi e stiracchiarsi.

“L’ha detto anche a noi. Speriamo che mantenga la parola,” borbottò corrucciato. “Dopo due volte che ci ha quasi lasciato la pelle, mi auguro che non cambi idea.”

Sospirai e, accorgendomi che eravamo rimasti soli, cambiai argomento. “Dove sono andati tutti? Erano qui fino a quando sono entrata.”

“Sono andati a casa visto che non ci siamo ancora riposati da dopo il concerto.”

Neanche io mi ero ancora riposata, per cui potevo comprendere alla perfezione come si dovevano sentire. Vince mi cinse la vita con un braccio e io appoggiai la testa alla sua spalla, sulla quale, date le mie condizioni, avrei anche potuto addormentarmi.

“Vuoi che ti accompagni a casa tua?” domandò Vince a malincuore, poi aggiunse. “Dopo una giornata del genere, un bel sonno è quello che ci vuole.”

“No. Torniamo a casa tua. Voglio stare con te.”

“Sono d’accordo,” approvò Vince dopo un lungo sbadiglio.

Detto questo, ci avviamo verso la sua auto barcollando, attraversammo il parcheggio dove l’asfalto trasudava umidità e odore di pioggia, e salimmo in macchina, diretti a North Hollywood.








FINE








ANGOLO DELL’AUTRICE

Cari lettori,

dopo otto lunghi mesi siamo giunti alla conclusione di I’m Afraid That I’ll Be Alone, so Just Hold Me. Non sapete quanto mi dispiaccia dover cliccare sull’opzione “sì” alla richiesta “completa”. Mi ha fatto davvero molto piacere condividere con voi questo mio primo racconto che ho terminato di caricare quasi esattamente un anno dopo la pubblicazione della mia prima One-Shot nel fandom Guns N’ Roses, Where Are You, My Friend, When I Really Need You?.
Vorrei ringraziarvi tutti quanti con tutto il cuore per aver seguito, preferito, recensito o anche solo letto in silenzio questo racconto! Siete dei grandi, belli, davvero! Siete una soddisfazione... ♥♥♥
Un ringraziamento particolare va a (vi metto in ordine alfabetico, cari recensori, perché non ho veramente preferenze!) IamNotPrinceHamlet, Nikka Neil, Nikki_Lee_666, rose_, sarahrose (e la sua “nave di folli”, Nosfy compreso) e satelliteOFfireballs. E ringrazio rose_ (a.k.a. Rosette) per aver coniato il soprannome “Gracie” per Grace: è grazie a lei se da un certo capitolo in poi ho iniziato a chiamarla in questo modo.
Ancora grazie per tutto: recensioni, preferenze che non tardano ad arrivare neanche al penultimo capitolo, complimenti e tutto il resto!
A questo punto non mi resta che dirvi che ne sarà di me. In passato ho avuto una mezza idea per un possibile seguito di questo racconto ma, qualsiasi cosa pensassi, si cadeva sempre nello scontato, quindi ho deciso di abbandonare l’impresa che, se proprio devo essere sincera, non ho neanche mai iniziato, fatta eccezione per un pezzetto di carta su cui avevo abbozzato una possibile trama. In compenso, però, è in preparazione una nuova storia, sempre destinata alla pubblicazione nella sezione Mötley Crüe. Se siete interessati, potrete leggerla entro l’inizio di giugno, dopo la chiusura delle scuole (yeah!), e dopo che avrò terminato di revisionarla con cura. Vi terrò comunque aggiornati sulla data di pubblicazione e sul titolo aggiungendo un avviso sotto questa recensione.
Ciò detto, non mi resta che lasciarvi la mia solita sfilza di glam kisses con tanto di gloss fucsia ed elargirvi migliaia di abbracci virtuali perché ve li meritate tutti.
Non so se nel frattempo riuscirò a terminare e a caricare qualche One Shot su altri fandom, ma la cosa certa è che mi rifarò viva, sperando che gradirete il mio prossimo lavoro.
Un abbraccio e alla prossima,

Angie




AVVISO: Da mercoledì 11 giugno, per chi fosse interessato, inizierò a caricare i capitoli di Crazy in Paradise, il mio nuovo racconto sui Mötley Crüe. :)


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