Make heaven out of hell

di MaidOfOrleans
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'arte di respirare ***
Capitolo 2: *** Eveni ***



Capitolo 1
*** L'arte di respirare ***


When you’re out there, doing what you’re doing
How’re you just getting by?
Tell me, how’re you getting by?
(P!nk- Try)
 
 When you’re out there, doing what you’re doing
How’re you just getting by?
Tell me, how’re you getting by?
(P!nk- Try)
 
Impossibile.
Il luogotenente Chin Kelly, task force Five-O, non era un uomo che si arrendesse facilmente. Perciò, a dispetto dell’ora- era decisamente troppo presto per comportarsi in modo equilibrato- e dei quattro tentativi a vuoto che avevano preceduto quello corrente, riaprì il libretto di istruzioni, saltò la sezione in tedesco e quella in spagnolo e si fermò a pagina trentasei. 
Programmazione funzioni. Impostazioni. Consigli di utilizzo.
Chin prese un respiro profondo e chiuse gli occhi. Era il momento di soccombere all’evidenza. Se non c’era scritto da nessuna parte come cambiare quella musichetta orribile, significava che non c’era modo di farlo. E proprio mentre tentava di metabolizzare tale consapevolezza, il nemico sputò due fette di pane tostate quasi a puntino e produsse per la terza volta in mezz’ora quel rumore odioso. Taratatà.
Era frustrante, si disse Chin, sbocconcellando un angolo della prima fetta (croccante ma non bruciacchiata, doveva ammetterlo). Sul lavoro, gli oggetti elettronici gli obbedivano. Bastava essere pazienti, come diceva sempre a Steve, dimostrarsi delicati; le SIM card più rovinate, mezze divorate dalla sabbia e dall’acqua, tra le sue mani si aprivano come conchiglie, lasciando intravvedere la perla, le informazioni che avrebbero consentito al team di fare qualche passo avanti nelle indagini. Tra le sue competenze nel curriculum non c’era forse scritto conoscenza e padronanza delle nuove tecnologie?
Ed eccolo lì, in una cucina vuota e troppo ordinata, che litigava con un comunissimo tostapane.
Chin aprì il frigorifero, e ne scrutò il contenuto con scarso interesse. Era decisamente ora di fare la spesa, ma la squadra stava per far scattare una trappola che aveva passato mesi ad oliare, a danno di un grosso gruppo di contrabbandieri. Per tutta la settimana i turni di sorveglianza sarebbero stati lunghi, le nottate brevi. Forse poteva passare dalla signora Hurley, la sua vicina: era gentile in modo quasi irritante, e se le avesse chiesto di comprare due cose anche per lui mentre era al centro commerciale non si sarebbe certo rifiutata. Senza che Chin riuscisse a fermarli, i suoi occhi percorsero il muro che aveva di fronte e si posarono su una lavagnetta un po’ storta. La conca dove avrebbe dovuto trovarsi il pennarello era vuota, ma gli scarabocchi che la ricoprivano erano ben leggibili, nonostante la fretta di chi li aveva tracciati: uova, assorbenti, carta igienica, ketchup, carote, deodorante!!, fazzoletti, zucchero. Quante volte Malia gli aveva telefonato alle due, in pausa pranzo, per chiedergli se per caso aveva “buttato un occhio” a quella lavagnetta prima di uscire. “Ho scordato la lista a casa, che stupida…ma due cose le avevo segnate ieri sera! Tesoro, ti ricordi mica?” Lui sorrideva della disorganizzazione di lei, delle sue dimenticanze, della mania di scriversi tutto e di abbandonare le preziose notazioni sulla libreria dell’ingresso. Erano passati più di tre anni da quello zucchero annotato con foga, dalle sue “f” che si confondevano con le “p”, da quando qualcuno, in quella villetta che all’esterno non era cambiata di una virgola, aveva avuto bisogno di assorbenti.
Più di tre anni da quando…
Chin si riscosse bruscamente al suono di una macchina che risaliva il vialetto d’ingresso. Per un istante restò immobile, i sensi in allerta; solo quando ebbe individuato e riconosciuto il muso dell’auto gli tornò in mente ciò che era accaduto il giorno prima. La moto, la sua adorata moto, era dal meccanico per un guasto minimo ma seccante, e si era messo d’accordo con sua cugina Kono affinché passasse a prenderlo per andare al lavoro. Abbandonò la seconda fetta di pane a malincuore, anche perché la guida di Kono non si poteva esattamente definire un toccasana in una mattina iniziata con il piede sbagliato. Si chiuse la porta dalle spalle, ricordandosi di non telefonare a Malia per chiederle se le fosse venuto in mente di prendere le chiavi.
“Ehi, cugino!” Il finestrino del guidatore era aperto, e i capelli castani di Kono le sferzavano il viso. Si chinò a baciarlo sulla guancia, e Chin percepì il suo profumo: limone e qualcosa di piccante, forse pepe. La poliziotta, lo sapeva bene, non era un tipo da vaniglia. Malia, invece…
“Come va oggi?”
La Domanda. Ogni tanto, si sorprendeva ancora a riflettere sulla facilità con cui lui e Kono se l’erano posta l’un l’altro quasi tutti i giorni dall’infanzia in avanti. “Come stai?” “Bene, e tu?”: il più banale dei dialoghi, il modo più convenzionale per iniziare una conversazione. Da poco più di tre anni, però, quelle due parole avevano assunto una sfumatura del tutto diversa. Il solito, abusato “Come va?” era diventato complesso, problematico: nella testa di Chin, suonava più come un “E’ un giorno buono, o uno di quelli da dimenticare? Quante pillole hai preso per dormire, stanotte? Hai avuto gli incubi?”.
“Più o meno”, rispose, quasi sincero. “Ho avuto da ridire con il tuo maledetto tostapane.”
“Mio? Vuoi dire quello che ti ho regalato?” La ragazza si immise nella tangenziale di Honolulu senza uno sguardo agli specchietti, e il poliziotto si strinse con un certo disagio la cintura di sicurezza.
“Esatto. Quando il pane è pronto, si ostina a fare una musichetta veramente odiosa.”
Kono si voltò a guardarlo e sollevò il sopracciglio. Un sorriso le fremeva agli angoli della bocca.
“Davvero? E Chin Kelly, il genio informatico, non è in grado di ridurre al suo volere un vile elettrodomestico?”
“Sarà vile,  ma è ostinato. Per favore, cugina, rallenta.”
“Neanche per sogno. E naturale che è ostinato, te l’ho comprato io.”
Chin rise, grato come sempre alla cugina e alla sua spensieratezza. Certo, anche Kono era cambiata: la ragazzina irruente che lui e Malia portavano in macchina alle competizioni di surf aveva lentamente lasciato il posto ad una donna che come tutte, forse più di molte, aveva collezionato cicatrici, e non solo nel corpo. Eppure, nonostante tutto, lei era capace di svegliarsi al mattino e, se non sorridere, trovare qualche ragione valida per alzarsi dal letto.
“Cugino, rilassati. Siamo quasi arrivati e siamo interi.”
Il poliziotto liquidò le prese in giro di Kono con una smorfia, ma fu comunque sollevato quando lei parcheggiò alla buona nello spazio riservato agli agenti.
Dopo aver preso al volo un caffè da asporto, i due si avviarono verso i locali che fungevano da quartier generale alla task force; due voci maschili si inseguivano lungo il corridoio, e non ci fu nessuna sorpresa nel rendersi conto che i loro proprietari erano nel mezzo di un’accesa discussione.
“Diavolo, Steve, ma quante volte devo ripetertelo? Non si può irrompere in casa di qualcuno senza un mandato!”
“Ah, no? Neppure se quel qualcuno è un contrabbandiere che con ogni probabilità ha iniziato a far entrare armi sull’isola per conto della Yakuza?”
“A maggior ragione! Questo tizio sa il fatto suo, Steve. Un passo falso e tutto quello che abbiamo contro di lui si scioglie come neve al sole.”
“Qui non c’è la neve, tanto per cominciare. Secondo, noi non facciamo passi falsi.”
“Oh, certo. Perché naturalmente sfondare le porte altrui a calci in pieno giorno non sarebbe un passo falso, e...ciao, Kono! Chin, maledizione, faglielo notare che è pazzo, a te a volte sta a sentire.”
Nonostante la perpetua stretta al petto, Chin non poté trattenere un sorriso. Dalla nascita del team Five-O, cinque anni prima, il luogotenente Steve McGarrett e il detective Danny Williams non avevano praticamente fatto altro che litigare sui rispettivi metodi d’indagine, riuscendo nel contempo, senza che nessuno capisse come, a risolvere in maniera brillante un numero improponibile di casi. Sulla carta, in effetti, l’alchimia tra la durezza noncurante delle regole di Steve e lo stile pacato e riflessivo del collega era ottima; nella triste pratica, i due funzionavano alla grande, ma trascorrevano il novanta per cento del tempo ad insultarsi a vicenda.
“Argomento di discussione?” si informò immediatamente Kono, lanciando un caffè a McGarrett. Lui lo afferrò al volo. “Grazie, ci voleva.”
Kono sbuffò. “Già, lo immaginavo, capo.”
“Ti prego” disse lentamente Chin, sapendo prima ancora di concludere che era una battaglia persa. “Rassicurami. Non ti è venuto in mente di andare alla villa di Tom Henley senza autorizzazione, di buttare giù la porta e di entrare, vero?”
Persino se non aveva dormito per giorni, come in quel momento, Steve McGarrett emanava un fascino implacabile, quello, pensavano, anche se non tutti in questi termini, i suoi collaboratori, dei vulcani che sospirano appena sotto la superficie delle Hawaii, come le bolle che si creano nell’impasto dei pancake quando lo si versa nella padella rovente. La potente aura magnetica dell’energia distruttiva. Il luogotenente piantò gli occhi scuri e cerchiati in faccia a Chin. “Non abbiamo prove contro quel verme. Perciò, la conclusione logica è che dobbiamo andarcele a prendere.”
“Ah, sì?” scattò Danny, mentre le sue mani si affannavano ad allentare la cravatta. “Pensavo che la conclusione logica fosse aspettare che si tradisca da solo.”
“Potrebbe non succedere mai!”
“E’ vero”, intervenne Kono “Ma, capo, Chin e Danno non hanno torto. Alle spalle di Henley c’è Akira Noshimuri. Una minuscola violazione del protocollo, e gli avvocati migliori dell’isola ci faranno a pezzi.”
“Niente effrazioni”, concluse Chin con voce ferma. McGarrett ringhiò, preso dall’esasperazione, ma il poliziotto gli lesse negli occhi la consapevolezza. Il loro capo era uno degli elementi migliori che avesse mai incontrato, ma a volte andava ricondotto con fermezza sulla via se non proprio della capacità di controllo, almeno della legalità.
Nel frattempo, Kono aveva attraversato la stanza e si era fermata davanti al proiettore, su cui campeggiava la faccia di Tom Henley: bianco, sui quarantacinque, capelli rossicci e arruffati e una brutta cicatrice sopra l’occhio. “Abbiamo elementi a bizzeffe contro di lui”, mormorava, “Ma, se non riusciamo a collegarlo a Noshimuri, la Yakuza la farà franca. Ancora.”
“Beh”, osservò Danny, dopo aver passato qualche istante in disparte, come sempre quando rifletteva “Nessuna legge ci vieta di capitare in macchina vicino a casa sua. Né, se è per questo, di partire quando lui esce, e di andare, sempre e naturalmente per qualche strana coincidenza, nella sua stessa direzione.”
“Un pedinamento?” domandò Chin “In pieno giorno? E poi, che ti dice che proprio oggi incontrerà Noshimuri, o qualcosa del genere?”
Steve, galvanizzato dall’idea che dopotutto qualcosa da fare ci fosse, era praticamente già fuori dalla stanza. “E’ probabile che succeda! Il carico di armi che siamo riusciti a rintracciare dovrebbe arrivare domani. Noshimuri non lascerebbe mai che uno esterno alla famiglia si occupi da solo di un affare così redditizio. Gli metterà alle costole un affiliato, o lo controllerà lui stesso.”
“Frena trenta secondi, cowboy. Ci serve comunque un piano.”
Danny si chinò sul computer, sbirciando da sopra la spalla di Kono, che stava già cercando una visione satellitare della via in cui abitava Henley. “Il soggetto è in casa”, affermò.
Steve sorrise, e in quel momento anche Chin la avvertì: la scossa, il brivido. Quando ci arrivava vicino, molto vicino, il momento in cui si rendeva conto che il topo non aveva più scampo. Tendere trappole e farle scattare, spulciare le vite degli altri per non guardarsi dentro.
“Muoviamoci”, disse il capo.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Eveni ***


Well, life has a funny way of sneaking up on you
When you think everything’s okay and everything is going right.
Alanis Morissette- Ironic
In ventisei anni, Reese era convinta di aver osservato svariate volte la Bellezza, quella cantata dai poeti e desiderata anche solo a livello inconscio da chiunque potesse dirsi umano: il sorriso di una bambina di colore sulla metropolitana, l’arcobaleno che lambiva pigramente Manhattan, Notte Stellata di Van Gogh al Metropolitan. Eppure, quando uscì a piedi scalzi in terrazza e vide il sole gettarsi nel mare di Oahu, una palla rovente su una lastra di vetro turchese, avvertì una sussulto dello stomaco che non ricordava di aver mai provato prima.
“Tutto bene?” Premuroso come sempre, Ned le si fece accanto nell’istante in cui lei socchiudeva gli occhi, quasi per difendersi da tanto splendore.
“Benissimo. E’ solo che…voglio dire…” per un istante annaspò, alla ricerca di parole che, lo sapeva, non esistevano. “E’ quasi troppo.”
Ned rise, e le circondò le spalle minute con il braccio. “Beh, sì. Piuttosto spettacolare, in effetti.”
“Secondo te, qui i criminali esistono? O basta guardare fuori dalla finestra al mattino per essere un po’ meno cattivi?”
Il ragazzo si chinò, e accarezzò la fronte di Reese con le labbra. Si era sbarbato di fresco. “Tesoro mio”, le sussurrò tra i capelli “Se solo fossero tutti dolci e ingenui come te.”
Lei non rispose, ma un respiro le si intrappolò in gola, poco sotto la carotide. Ingenua, scemotta di papà. Se solo Ned avesse cercato di… oddio, papà!
“Piccola, che c’è?”
“Sono le otto e mezza!” aveva promesso a Big Sam che gli avrebbe telefonato alle otto, non oltre. Si lanciò sulla borsa alla ricerca del cellulare, nella folle speranza di non trovare chiamate perse. 
Ce ne erano dodici.
“Cazzo”, imprecò Reese tra i denti, e mostrò il display al fidanzato.
“Accidenti, Big Sam! Scemotta, lo sai quanto va fuori di testa quando ti scordi queste cose.”
Sì, lo sapeva. Premette il tasto di chiamata veloce, e si odiò quando si rese conto che le sue mani tremavano come quando aveva quattordici anni.
“Dove diavolo eri finita?” Senza nemmeno dare il tempo di risuonare al secondo squillo, la voce tonante del padre le si riversò nell’orecchio.
“Big Sam, scusa, davvero!” biascicò precipitosa “Davvero, sul serio, è che ci stiamo divertendo così tanto e…”
“Scusa un corno! Mi hai fatto preoccupare, chiedi ad Annie se non mi sono cagato sotto.”
Nonostante la difficoltà della conversazione, Reese riuscì ad esprimere tra sé e sé piena solidarietà nei confronti della segretaria del padre. Assecondare le richieste di Big Sam dodici ore al giorno era, ai suoi occhi, una corvée peggiore che asfaltare una strada in Arizona il sedici di agosto.
“Papi, non devi angosciarti. Stiamo benissimo, sono in albergo con Ned e tra poco scendiamo a cena…anzi, gli vuoi parlare?”
“Certo che gli voglio parlare” latrò Big Sam, e dai rumori lei intuì che stava masticando un pezzo piuttosto grosso di tabacco. “Non immagini cosa sta succedendo qui. Le azioni di…oh, Cristo, ma che te lo dico a fare? Su, passami Ned.”
Muta e ubbidiente, Reese porse il telefono al fidanzato e si allontanò verso il parapetto della terrazza: le conversazioni tra Big Sam e i suoi dipendenti tendevano ad essere straordinariamente lunghe e infarcite di termini che, nella testa della ragazza, echeggiavano come parole in una lingua dimenticata nella primissima infanzia, vicine in modo quasi doloroso, ma irraggiungibili. Anche se il dipendente in questione era il suo futuro genero, in vacanza con la figlia. Di norma, avrebbe sentito una fitta di amarezza al pensiero che Ned passava più tempo a chiamare suo padre che con lei, ma il panorama che aveva di fronte la pacificò al punto che quasi riuscì ad escludere del tutto la voce concitata del futuro marito dal proprio campo percettivo.
Quando Ned le aveva proposto le Hawaii come meta per una piccola fuga romantica, a sei mesi dal matrimonio, si era sentita un po’ in dubbio: nella sua mente, si trattava di posti frequentati da gente con la puzza sotto il naso, che preferiva il glamour all’autenticità dei luoghi. Quante ragazzine bionde con le Balenciaga appese al braccio aveva sentito sbrodolare sulle spiagge bianche e sui locali notturni dell’arcipelago? Non aveva tuttavia avuto molta voce in capitolo nella scelta della destinazione, e ora si era resa conto che era stata una fortuna. A costo di dar ragione alle più scervellate tra le sue compagne di corso al college, Waikiki Beach era il paradiso.
“Ehi, piccolina, scendiamo?”
“Che voleva Big Sam?”
“Niente che potresti capire” Ned le pizzicò il naso e la prese sottobraccio, di buon umore nonostante le notizie, che non dovevano essere state il massimo.
“Okay”, lasciò perdere Reese, scacciando la sensazione di fastidio come una mosca dal piatto. “Dai, chissà se ci sono ancora quei gamberi meravigliosi che ho preso ieri.”
“Se così fosse, spero che non siano gli stessi!”
Ridendo, presero l’ascensore, rientrarono in camera perché lei si era resa conto di aver dimenticato di mettersi le infradito e finalmente si accomodarono al ristorante.
I gamberi non comparvero, ma a sostituirli giunse un’aragosta che, Reese dovette ammettere, non li fece rimpiangere. Fu una cena piacevole. Scacciata l’ombra minacciosa di Big Sam, Ned ritrovò un certo senso dell’umorismo, e presero in giro una per una le vecchie coppie di californiani che davano del tu al maitre: era chiaro come la zona, e il loro albergo in particolare, fosse un luogo caro ai ricconi della costa settentrionale. Nemmeno Reese,  non particolarmente incline alla spensieratezza, riuscì a rimuginare sul fatto che anche loro due erano dei privilegiati, solo nati svariate miglia più ad Est.
Ned ordinò champagne, e mentre glielo versava danzò sulle sue labbra il sorriso asimmetrico che ormai lei conosceva bene. L’avrebbe portata in camera di corsa, lasciandole appena il tempo di strozzarsi con l’ultima fetta di ananas. Dopo quattro anni di relazione sapeva cogliere i segnali di lui, ma ancora un rossore nemmeno troppo discreto le si diffondeva sul petto e sul viso quando, come in quel momento, si rendeva conto di essere desiderata.
Effettivamente, Ned quasi la trascinò all’ascensore, mentre lei rideva e fingeva di divincolarsi, comunque assurdamente piccola tra le sue braccia. Per un’inebriante mezz’ora, Reese respirò nel vero senso del termine, senza avvertire nessuna oppressione al petto, nessun remoto campanello di allarme in fondo alla testa.
Quando ebbero finito di fare l’amore, Ned scivolò fuori dal letto e si chiuse in bagno per un tempo sufficiente affinché la ragazza si assopisse. Dormì mentre lui le si lasciava cadere nuovamente accanto e si raggomitolava sul fianco, e, come accadeva spesso, si svegliò nell’istante in cui il fidanzato superava la soglia del sonno. Sollevata sul gomito, Reese contemplò per qualche istante il viso gentile di Ned nella penombra della stanza, e si ripeté, come sovente faceva, che era una ragazza fortunata. L’orologio luminoso sul comodino segnava le undici e un quarto. Non c’era nessuna possibilità di addormentarsi per almeno un’altra ora, lo sapeva, così si alzò e si infilò sotto la doccia tiepida.
Reese era stata una bambina piuttosto dormigliona. Ricordava la luce che filtrava attraverso le spesse tende della sua camera, svegliandola, e le grida di suo fratello dal corridoio: “E’ quasi mezzogiorno, dai, la partita sta per cominciare!” Lei mugugnava e nascondeva la testa sotto il cuscino, così sua madre spalancava la porta e le tirava via le lenzuola ridendo. Ricordava il suo profumo di gelsomino e rossetto. Ricordava le sue mani fresche sulle gambe con cui lei scalciava, mentre strillava di lasciarla in pace. 
Non ricordava esattamente quando avesse smesso di poltrire fino a tardi, ma era in grado di datare il periodo. Da un giorno all’altro, niente mani femminili, addio gelsomini, mai più rossetto sbavato sulle guance quando usciva per andare a scuola. Il sonno era uscito dalla sua vita insieme a sua madre.
Rabbrividendo- faceva caldo, ma Ned era fissato con l’aria condizionata a diciotto gradi- Reese uscì dalla doccia e si affrettò ad avvolgersi in un telo, senza specchiarsi. Tollerava il proprio corpo come avrebbe sopportato un vecchio vicino rompiscatole cui, negli anni, si era affezionata, ma lo guardava il meno possibile. Non aveva nessuna voglia di frugare in valigia, e decise che la t-shirt abbandonata da Ned accanto al lavandino sarebbe stata perfetta come pigiama. Attenta a limitare il più possibile i rumori, nonostante sapesse quant’era pesante il sonno del fidanzato, uscì dalla stanza.
Nei momenti come quello, quando era così stanca che le si socchiudevano le palpebre, eppure il suo cervello non sembrava desiderare di spegnersi, nessun ambiente chiuso le dava il benché minimo sollievo. Estate o inverno, l’unica cura per quel malessere era il cielo.
Percorse il corridoio scalza e prese l’ascensore, ma, arrivata nella hall, si rese conto di avere un piccolo problema. Sapeva che c’era un passaggio che permetteva di trovarsi direttamente sulla spiaggia, ma non le veniva in mente dove fosse. Si maledisse per non aver fatto attenzione al percorso nei tre giorni precedenti: sua madre e Siobhan le ripetevano di continuo che non poteva affidarsi del tutto agli altri, anzi, doveva tenere gli occhi aperti in ogni circostanza, perché era l’unica possibilità che aveva di non dipendere da qualcuno per le più piccole cose. “Ne hai di memoria, ragazza, sfruttala.” Eppure, aveva intrecciato le dita a quelle di Ned e si era lasciata trascinare. Scemotta di papà.
Il concierge non c’era, e Reese decise d’impulso di provare con la porta a sinistra, un po’ più piccola e meno illuminata delle altre. Si trattava di un corridoio stretto, le pareva di ricordare.
No. No, come volevasi dimostrare si era sbagliata. Sbatté gli occhi nell’improvvisa oscurità della strada, e si rese conto di trovarsi in un vicolo, davanti ai cassonetti della spazzatura: doveva essere l’ingresso di servizio. Fece per voltarsi e tornare indietro, quando un suono rimbalzò sull’asfalto e le arrivò all’orecchio: una voce umana.
“E’ l’ultima cazzata che dici, coglione.”
C’erano ben poche probabilità che si trattasse di uno degli over sessantacinque californiani con i quali avevano fatto cena. La voce era aspra, quasi un latrato, e aveva un forte accento della costa orientale- Boston, si disse Reese. La frase fu seguita da un suono orribile, di cui aveva sentito l’eguale solo una volta, quando, a una partita di suo fratello, un difensore si era preso da un altro una gomitata alla tempia: materiale rigido, come la plastica di una protezione da football, sulle ossa. Un gemito, sputi. Come a rallentatore, la testa della ragazza produsse una cascata di campanelli d’allarme, ma il corpo non sembrava in grado di ubbidirvi. Le gambe non tremavano, ma scoprì che erano inamovibili.
“E’ la verità, lo giuro! Lo…AAAGH!” Questa volta, il rumore non diede adito a dubbi, anche perché fu seguito quasi subito dall’odore. Un lezzo nauseabondo di carne bruciata che piegò le ginocchia di Reese, spingendole a un impatto piuttosto doloroso con il marciapiedi. I conati le scuotevano il busto. Rientrare, continuava a urlare il cervello. Scappare aprire la porta rientrare correre più veloce che mai. Se solo fosse riuscita ad alzarsi…
“Mio caro, mio caro. Non te l’hanno mai insegnato che non si raccontano bugie?” Una voce diversa da quella canina, e anche dall’ultima che aveva parlato, rotta dal dolore e dal pianto. Questa sembrava appartenere a un uomo piuttosto giovane, e straniero. La sua dolce musicalità era dieci volte più spaventosa della furia dell’altro aguzzino.
“Non…lo giuro! Vi prego, io…vi prego!” Nuovi gemiti inchiodarono la ragazza dove si trovava. Aiuto. Doveva chiamare aiuto. Se solo fosse riuscita a raggiungere la maniglia della porta…le gambe sembravano paralizzate, ma poteva strisciare…
“Sai cosa si fa ai ragazzini che non mantengono la parola data?”
Qualche centimetro. Solo qualche centimetro.
E poi, all’improvviso, la gamba destra scelse il momento meno opportuno per uscire dal torpore e scattò in avanti, senza che la sua proprietaria fosse in grado di fermarla. Raccapricciata, Reese osservò il cassonetto che aveva di fronte- e che le aveva fino a quel momento occluso la visuale, proteggendola dagli occhi degli uomini- inclinarsi sotto la spinta del calcio, forse il più forte che lei avesse mai tirato in vita propria. Quando cadde su un fianco, il fracasso rimbombò nel vicolo, e nella ragazza si fece strada per un istante la delirante speranza che qualcuno uscisse dall’hotel per controllare. Appena ebbe il coraggio di guardare avanti, però, si rese conto che, anche se fosse accaduto, per lei non sarebbe cambiato nulla: a circa cinque metri da lei, non vicinissimo, ma comodamente a portata di tiro, c’era un uomo alto e ben piantato che le puntava addosso una pistola.
“Che cazzo credevi di fare?! EH?” Ringhiò, senza muoversi. Sapeva di averla in pugno: a quella distanza, non avrebbe mai mancato il bersaglio. Gli occhi di Reese erano attratti in modo quasi magnetico dall’imboccatura brunita dell’arma che si trovava davanti. Pochi attimi, e qualche grammo di piombo avrebbe fischiato in quello stretto canale per conficcarsi nel suo sterno. Non aveva nessun tipo di speranza, solo il tempo di pensare a Ned tutto solo nel grande letto, a come si sarebbe svegliato di lì a poche ore senza trovarsela accanto, allo sguardo sul suo viso quando qualcuno lo avrebbe portato all’obitorio per riconoscere il cadavere.
Non avrebbero mai capito chi l’avesse uccisa, o perché. Sarebbe diventata un cold case, magari avrebbe ispirato la puntata di una serie TV. Quindi, era questa la morte: concepire pensieri sconnessi e sentire un liquido caldo che le colava lungo le cosce.
Oh, andiamo. Si era pisciata addosso.
“Falla finita”, scattò la seconda voce, meno affettata e più secca di prima. “Sparale, non abbiamo tutta la notte.”
La sensazione di irrealtà si era diffusa nel petto di Reese come una bolla d’aria, bloccando i suoi movimenti, ma non la sua capacità di osservazione. Una figura contorta in una pozza di liquido vischioso: probabilmente, l’uomo che i due stavano torturando era morto. Il tizio che la teneva sotto tiro, capelli rossicci, accento di Boston, una brutta cicatrice. E l’altro, il capo, pensò con la chiarezza lacerante degli ultimi attimi, asiatico, sui trenta, pizzetto, un completo bianco del tutto fuori contesto.
Proprio mentre si chiedeva chi avrebbe mai indossato una cosa del genere per andare in giro a minacciare e far fuori persone, e subito dopo constatava che anche il cervello aveva smesso di obbedirle, Reese sentì il rumore. Fatale, improvviso. Poi, fu come il tuono dopo il lampo, senza nemmeno dover contare- uno, due, tre Mississippi.
Nessun dolore. Piuttosto un intorpidimento tiepido, la sensazione che qualcuno le avesse rovesciato della zuppa sul petto e sulla pancia.
Avevi ragione, mamma, bisogna sempre controllare dove si sta andando.
Buio.
 
 
 
 
 

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