Suicide Is The Proof Of Life di AintAfraidToDie (/viewuser.php?uid=41080)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. My Place ***
Capitolo 2: *** 02. Change's Time ***
Capitolo 3: *** 03. The Proof ***
Capitolo 4: *** 04. Mother? ***
Capitolo 5: *** 05. Goodbye Tooru ***
Capitolo 1 *** 01. My Place ***
“ I've always been about pain. In
fact, I'm quite incapable of writing
anything else, nor would I want to. Where does it come from? Probably
the life
I've lived…”
*
“ Ho sempre scritto sul
dolore. Infatti, sono abbastanza incapace di scrivere su qualsiasi
altra cosa,
non perché io non voglia. Da dove viene questo?
Probabilmente dalla vita che ho
vissuto…”
Kyo, Dir en grey [from an interview about Vulgar,
in 2005]
Suicide
is the proof of life.
Capitolo Uno: “My place”.
Mi sono
sempre
chiesto quale fosse il mio posto,
in questo mondo.
Dalla
minuscola
finestra della mia stanza, che di mio forse non ha mai avuto
nulla,
guardavo di sottecchi i piccoli sprazzi dello scorrere della vita delle
persone
che si soffermavano nella mia visuale. Tutti i giorni mi appostavo in
quel mio angolo
segreto, tra la scrivania di legno di quercia e l’armadio
d’acero, rubando
qualche pezzo di esistenza alla gente che aveva la piccola sfortuna di
passare
davanti ai miei attenti occhi.
Potevo
scorgere
il gruppetto di bambini dell’asilo vicino che giocavano ai
giardini pubblici di
fianco. Correvano, goffi, nei loro enormi grembiulini rosa o blu.
Inventavano
insieme alle loro maestre stupidi giochi senza né capo,
né coda e spesso
scoppiavano in liberatori pianti, privi di un preciso
perché, cantilenando
frasi senza senso. Infine ridevano. Ridevano tanto, insieme.
In quei
ripetuti istanti, pensavo che loro ce l’avevano, il loro posto:
erano
dei bambini; dei piccoli bambini che dovevano
giocare, piangere e
ridere. Tutto qui. Null’altro.
Il loro
mondo,
la loro esistenza, si fermava a quello.Perché erano nati per
quello.
Esistevano, per quel preciso obbiettivo: per essere degli stupidi
bambini.
Io
cosa
dovevo essere? Io chi dovevo essere?
Non ero
un
stupido bambino, ma non ero nemmeno qualsiasi altra cosa.
Esistevo forse
con il semplice e futile obbiettivo di sopravvivere?
Riuscivo a vedere
ed a capire che spesso gli esseri viventi che mi circondavano erano ciò
che dovevano
essere. Erano stimati, erano amati, per il semplice fatto di
essere se
stessi. C’era qualcosa che mi
differiva
dagli altri?
Quegli
stupidi
bambini a casa loro avevano una madre e un padre che li aspettavano con
impazienza, con un grande sorriso
sciocco stampato in volto,
pronti a soffocarli d’amore con un abbraccio. Quando io ero
piccolo e d’Inverno
tornavo da scuola, me ne stavo quarantacinque minuti ad aspettare nel
giardino
di casa che mia madre finisse di scoparsi il giardiniere.
Se
fossi stato un bambino stupido, sarei
stato sicuramente il
più stupido.
Passavano
i giorni. Le settimane. I mesi. O
forse gli anni?
Continuavo
ad osservare dalla finestra, cercando in qualcuno dei vari
passanti qualcosa che potesse darmi un aiuto per capire me stesso. Ero strano?
Per
un certo periodo della mia apatica esistenza cercai
d’ignorare il
dubbio.
Forse
un fondo di verità c’era, visto che mia madre e
mio padre me lo
urlavano sempre.
“Sei
strano!
Non sei normale!”
Cosa
significavano, quelle esclamazioni? Non riuscivo a capacitarmene.
Tutto
quel che sapevo si limitava al fatto che non erano né
complimenti, né cose buone.
Mia
madre sospirava, quando mi guardava. Mio padre digrignava i denti,
se cercavo di parlare con lui. Perché?
La
mia anima piangeva al posto dei miei occhi.
Come
si faceva a piangere? Non mi piaceva
studiare. Non avevo amici. Passavo le mie giornate, la mia intera vita,
guardando fuori da una finestra.
Ero
strano?
“Diversità: contrasto
parziale o totale
sussistente tra i caratteri distintivi di due o più cose o
persone; motivo di
opposizione o di conflitto; differenza.”
“Diverso: totalmente o parzialmente opposto, per quanto riguarda i
caratteri distintivi oggettivamente rilevabili; estraneo alla comune
esperienza, non mai visto o udito, sconcertante;
ripugnante; mostruoso.”
“Normale:
riferibile alla
consuetudine o alla generalità; regolare.”
“Stranezza: insolita
difformità dal
consueto o dal normale,
motivo
di perplessità, di
sorpresa o
anche di singolare interesse e curiosità.”
Il
vocabolario
diceva così. Le mie piccole e candide mani lo avevano
sfogliato diligentemente,
pagina dopo pagina. Differente, opposto,
sconcertante, ripugnante, mostruoso.
La
mia mente era piena di parole e concetti.
Era quella, la mia etichetta. I miei genitori pensavo quello, di me.
Il
mio posto era forse quello? La
mia ricerca era finalmente terminata?
Dubbi. Ma non più di tanti.
Il
mio ghigno di dodicenne si aprì verso quel
nuovo me stesso, che forse ero sempre stato.
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Capitolo 2 *** 02. Change's Time ***
Capitolo 2:
“Change’s Time”
Si cambia. È
inevitabile, tutta la vita è un lungo cambiamento.
Quando
nasci sei un neonato: non hai idee, non hai concreti sentimenti
o bisogni, se non quelli di mangiare e dormire. Sei un piccolo corpo
che emana calore;
che vive, senza sapere di essere vivo.
È
palese che quando cresci tu cambi. Cominci a capire le cose, ti fai
dei gusti personali, cominci a pensare. Cominci a vivere.
Il
mio era un mondo ovattato. Non esistevano suoni, non esistevano
emozioni.
Non
provavo rancore verso mio padre e, in realtà, nemmeno
disprezzavo
mia madre.
Quando
piangevo, lo facevo perché mi era entrato qualcosa in un
occhio.
Se sorridevo, era perché vedevo farlo agli altri. O forse cercavo ogni giorno di
convincermi di questo?
Ero
un inusuale feto che si costringeva a rimanere nel ventre della
propria madre dopo averla uccisa. Sputavo sangue e parole in fogli
bianchi che
raccoglievano le mie uniche sensazioni.
Mi limitavo
ad essere un corpo di carne.
Scrivevo.
Scrivevo tanto: versi su versi, poesie illogiche, che spesso
nemmeno io riuscivo a capire. Scrivevo, ma non rileggevo mai i miei
scritti. Quei
numerosi kanji vomitati sul mio povero quaderno delle note nero. Quello
che mia
madre mi aveva comprato, ordinando “prendici gli appunti
di scuola”.
Sconnessi,
deformati, rimarcati. Tanti, tanti kanji. Kanji su kanji.
Follia,
irrequietezza, pazzia, voglia.
Voglia di
che?
Forse non ho
mai voluto guardare in faccia la crudele - magnifica - realtà.
Un
giorno mi feci coraggio. Era un insolito freddo pomeriggio di
Primavera ed i ciliegi erano in fiore. Ricordo
distintamente che durante il tragitto da scuola a casa mi ero
soffermato ad
osservarli per quasi un’intera ora. Io
amavo i ciliegi, senza un preciso perché.
A
quei tempi il dolore fisico che provavo era a volte opprimente. Mia
madre mi aveva portato più volte dal dottore, che
però aveva catalogato i miei
problemi causa della mia costituzione esageratamente debole. Prendevo
delle
strane pillole color arancio, dal sapore rivoltante e dolciastro.
Vitamine,
aveva detto il dottore.
Il
petto mi doleva e non riuscivo a respirare. Ogni ansimo, ogni
sprazzo di aria che usciva dalla mia bocca, era una fitta nello sterno.
Perché
i miei polmoni continuavano a
lavorare ossigeno?
Dolore,
dolore, dolore.
Pillole,
pillole, pillole.
Era
come se avessi un groppo in gola perenne, un fastidioso peso in
prossimità dei polmoni, che me li comprimeva amaramente.
Quel
giorno allungai la mia mano verso il
block-notes. Tremava.
Quel
giorno aprii il quaderno. Quel giorno
lessi la mia anima. Ed
urlai.
I
miei urli si espansero con una tale forza che spaventarono mia madre.
“Perché
urli?”
Perché
era bello. Perché mi piaceva.
Da
quell’insolito freddo pomeriggio primaverile i miei dolori
sparirono
del tutto.
Urli, urli,
urli.
Non
più
pillole, pillole, pillole.
Se
non potevo urlare, semplicemente cantavo.
Il feto era finalmente
cresciuto.
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Capitolo 3 *** 03. The Proof ***
Capitolo 3: “The
Proof”.
Ogni
mio pensiero apparteneva alla mia anima. Pensavo a ciò che
aveva elaborato,
a ciò che continuava a rielaborare. Io non avrei mai potuto
scrivere le cose
che avevo letto nel quaderno. Mai.
Un
nome, “Tooru
Niimura”, cancellato con forza. Cancellato forse per sempre. Cos’è, in
fondo, un nome?
Accanto alla scancellatura,
sulla copertina
nera, un altro kanji.
京
,Kyo
Kyo non
ero
io.
Kyo era ciò che avrei
sempre dovuto
essere e che non avevo mai avuto il coraggio di svelare.
Quel quaderno nero non
apparteneva a me;
apparteneva a lui.
Lui non era
come me, ma allo stesso tempo eravamo estremamente uguali.
E capii. Leggendo tutto
ciò che Kyo aveva
scritto, capii che non avevo mai
realmente vissuto. Ciò che mi
ostinavo a portare avanti era un corpo senza anima, che viveva per
sbaglio. Che
sopravviveva; sopravviveva, sì, perché non
gli avevano mai insegnato a
vivere.
Ero sempre stato snobbato,
escluso, dato
per scontato. Il poco che sapevo della mia esistenza era che dovevo
portare
buoni voti da scuola e comportarmi da bravo ragazzo. Io
non ero così.
Ciò che avrei dovuto
fare era portarmi a
vita nuova. Sapevo ormai
esattamente chi dovevo essere.
Ma
cosa dovevo fare per cominciare a vivere?
Le mie giornate non le passavo
più a
guardare incantato un mondo immaginario fuori dalla finestra, ma
osservando
minuziosamente il mio. Leggevo il mio universo, che avevo ignorato per
così tanto
tempo. Cantavo
la mia anima. ,
Tanti
giorni,
spesi a far risuonare la mia voce in uno spazio vuoto. Non avevo mai
usato le
mie corde vocali tranne che per sussurrare parole sconnesse, inzuppate
di
apatia. Quando cantavo, mi liberavo. Più che ad urlare.
Cantavo quegli scritti che
ormai avevo imparato quasi tutti a memoria. Gli avevo riordinati
diligentemente, inventandoci su motivetti mentali sconclusionati.
Cantavo,
spesso
ad alta voce, così che mia madre sentisse.
“Pazzo.”
soffiava
con le sue sottili labbra.
Era questo, ciò che
io volevo.
Canticchiavo,
in camera mia, distruggendo pezzo dopo pezzo il vecchio armadio
d’acero.
L’avevo
sempre
odiato, senza un preciso perché.
I
ciliegi, nel lasso di tempo di qualche
giorno, sarebbero sfioriti.
Ero arrabbiato.
E ci fu
una
frase, nelle parole che mi uscivano fluide dalla bocca. Un periodo
né lungo, né
corto.
I miei
occhi,
in quell’istante, rotearono dalla felicità.
Sì, perché in quei momenti ero in
grado di provarla. Infine mi accasciai sul letto ancora sfatto.
“Il
suicidio è la prova della
vita*…”
sussurrai, fra me e me.
Sospirai.
L’armadio d’acero era ormai
completamente fottuto.
Notai un
paio di forbici, abbandonate sulla
scrivania. Facendo un piccolo sforzo, più mentale che
fisico, mi rimisi in
piedi e le acchiappai per poi ributtarmi di slancio sul letto. Le
osservai,
facendole roteare con movimenti lenti sul palmo della mia mano.
La lama
lucente e
affilata, il manico scintillante. Una perfetta e comune arma
di morte.
Premetti
con
forza la punta dell’oggetto sul mio polso sinistro, cercando
di mirare sulla
vena più pulsante. Un rivolo di sangue si fece
immediatamente strada sulla mia
pelle.
“Più
forte.” grugnii, aumentando la potenza.
Un
piccolo
fiotto rosso.
Taglia.
Pigia. Taglia.
Altri
piccoli fiotti
rossi. Il mio braccio si stava riempiendo di liquido colante; ed io ci
stavo sinceramente
prendendo gusto.
Dolore?
Un pochino,
forse.
Taglia.
Pigia. Taglia.
“Non è
altro
che pelle, Tooru. Nient’altro che carne.”
sghignazzavo,
accasciandomi disteso sul materasso.
Le
forbici infilzate in bilico nella carne rossastra, in un netto
taglio preciso e pulsante. Faceva male, ma che importava? Era la prova.
La prova che io ero vivo.
Avevo
vissuto e sarei morto. Ero sempre stato vivo.
Sangue
che andava a sporcare le lenzuola bianche e pulite. Mi portai il
braccio, con non poca fatica, vicino al viso. Il liquido
cominciò a colarmi in
faccia. Lo leccai. Aveva un buon sapore.
“Il
sangue sa
di vaniglia**…” ricordai un testo, ghignando.
Mi
misi a ridere forte. Non mi ero mai
sentito meglio.
La
porta della stanza si spalancò. Mia madre mi guardava, con i
suoi
profondi occhi marroni che io avevo sempre ammirato da lontano,
totalmente
spalancati.
Le
sue mani, agghindate da inutili anelli tintinnanti, erano attorcigliate
fra di loro e tremavano evidentemente. Mi osservava, studiandomi.
Magari anche
un po’ preoccupata.
Ci
speravo.
Io ci speravo.
Mi
misi a ridere ancora di più, davanti alla sua figura
spaventata.
Spaventata
da me. Dal
suo strano figlio.
“Il suicidio
è la prova della vita, mamma!” urlai, con quanto fiato
avevo ancora in gola, verso la sua sottile ed elegante sagoma.
Corse contro di me e mi
schiaffeggiò. Il
suo tocco fu più doloroso dello
squarcio sul mio polso.
“Pazzo!
Folle!” mi
urlò, avvicinandosi ancora.
Persi
i sensi con davanti i suoi occhi sbarrati e la sua voce crudele
nelle orecchie.
Ma in fondo era questo,
ciò che io volevo.
Note:
*“Suicide
is the proof of life” citazione, che dà anche il
titolo alla storia, presa da
“The Final”; contenuta nell’album “Withering to
death”.
**
“Blood tastes like vanilla” citazione presa
da “Grief”; contenuta nell’album
“The marrow of a bone”.
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Capitolo 4 *** 04. Mother? ***
Capitolo
4: “Mother?”.
Quando
riaprii
gli occhi, fu come svegliarmi da un sonno durato cent’anni:
tutto il mio corpo
era inturgidito e pesante; con lenti movimenti cercai di scuotermi,
senza però
riuscire a spostarmi. La mia mente era del tutto annebbiata, i miei
occhi non
riuscivano a connettersi con il cervello.
Stanza
bianca,
lenzuola bianche, comodino bianco, camice bianco: eppure
mi avevano raccontato che l’inferno era rosso.
Dove
ero finito?
Posai
i miei occhi sul polso: completamente fasciato e medicato. La
ferita coperta, la prova della mia vita superficialmente scomparsa. Ma io lo sapevo, che c’era.
Ospedale;
ecco dov’ero stato rinchiuso.
Rabbrividii.
Quella stanza emanava solo del freddo tagliente.
“Perché
l’
hai fatto?”
girai di un poco la testa, trovandomi faccia a faccia con mia madre.
Non
mi ero accorto della sua presenza. Dovevo
essere completamente fatto di farmaci.
Il suo
respiro
era lento e pesante, proprio diretto sul mio braccio. Prendeva lente
espirazioni, per poi rilasciare calda sostanza vaporosa sulla pelle
nuda vicino
al mio appuntito gomito. Teneva la testa bassa, appoggiando il mento
sul duro
materasso di bassa categoria dove io ero steso.
I suoi
occhi vacui
e spenti puntavano su di me, attenti ad ogni minima mossa.
“Rispondi,
Tooru.” continuò,
apparentemente calma e autoritaria.
La
guardai. Sorrisi.
La
realtà era che avevo sempre avuto paura di mia
madre: quando mi
guardava, quando mi parlava, il mio
corpo era spesso percorso da brividi. Brividi gelidi, che partivano dal
mio cervello
e che andavano a finire il loro percorso sotto le piante dei miei
piedi. Brividi, sì:
mia madre era riuscita a
donarmi solo quelli.
In
quel
preciso istante decisi che non avrei mai
avuto dei figli e, in quello stesso momento,
sorrisi.
Perché non avevo più
paura.
I suoi
occhi,
per quanto quelli di un giapponese possano, si assottigliarono di
colpo. Si
portò una candida mano alla bocca, cercando di coprire
piccoli singhiozzi che
si stavano facendo strada dalle sue rosee labbra. Goffe lacrime si
affacciarono
in prossimità delle sue nere pupille, per poi venire
rilasciate sulle sue
guance scavate. Minuziosi corsi d’acqua che scavavano solchi
nella sua pelle
già vecchia. Piangeva; non l’avevo mai vista
piangere. Era veramente bella.
“Perché
piangi?” la mia bocca
non parlò né per stupore, né per pena.
Fu un sussurro atono, senza emozione. Una piccola
speranza, forse.
Le minime
convulsioni dovute al pianto si
arrestarono. Il suo respiro ritornò in pochi attimi regolare
e le lacrime
sparirono grazie ad un leggero tocco di stoffa della manica della sua
pallida
camicetta.
Spostò
alternativamente il suo sguardo dalla
mia figura all’ambiente circostante, soffermandosi poi di
nuovo sulla
fasciatura. Scostò di poco la poltroncina su cui risiedeva,
posizionandosi
stancamente e molto lentamente in piedi. Prolungando
l’estensione della sua
schiena sul letto, si avvicinò gradualmente al mio viso, per
poi lasciare con
le sue labbra gelide un leggero e umido tocco sulla mia guancia.
Un bacio. La guardai,
interrogativo, ed allora le sue labbra fredde si avvicinarono al mio
orecchio. Tanto,
tanto fredde.
“La
verità è che non sono
mai riuscita ad amarti ed adesso mi sono
resa conto che, per quanto possa provarci, mai ci
riuscirò.” sussurrò,
piano. Sorrise.
Labbra
fredde. Tanto, tanto fredde. Fredde come
lei.
Si
allontanò da me, per poi percorrere
lentamente l’area della camera e uscire definitivamente dalla
stanza - dalla
mia vita.
L’avevo
uccisa con la mia nascita e lei si era
finalmente vendicata.
Sorrisi
anch’io, per l’ennesima volta: mia madre se ne era
andata, portandosi via ciò
che ero stato.
Se ne era
andata, regalandomi finalmente vita
nuova. Io ormai non
c’ero
più.
Dentro
di
me, però, una voce piccola e flebile di bambino sussurrava
ancora il nome di
sua madre.
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Capitolo 5 *** 05. Goodbye Tooru ***
Capitolo
5: “Goodbye Tooru”.
La mia
prigionia ospedaliera durò qualche giorno: durante quelle
lunghissime ore il
mio cervello staccò del tutto la spina. Ogni cosa mi
appariva come completamente
deformata alla vista; i suoni ed i rumori erano amplificati ed i miei
orecchi li
captavano in maniera diversa. Tutto, tutto veramente confuso.
Astinenza
dallo scrivere; si,
la
chiamerei così. La mia personale droga, cui ormai ero
diventato dipendente.
Dovevo sfogarmi, vomitare un po’ della mia anima, per poi
ingerirla di nuovo
subito dopo. E magari dopo
cantare
un po’…
Portai
quindi
con fatica avanti le mie membra fino al pomeriggio in cui mio padre
venne a
riportarmi a casa. La notizia del mio tentato suicidio aveva ormai
fatto il
giro di tutto il quartiere.
Molti
sguardi. Sguardi
attenti, sguardi curiosi.
Sguardi
disgustati? Forse
solo sguardi invidiosi.
“Ciao
mamma,
ciao papà.”
Sorriso
di
circostanza: cos’è un
sorriso?
Stirare
le labbra, aprirle un po’. Mostrare i
denti.
Farlo per
motivi estetici. Farlo per mostrarti
sereno.
Farlo per
compiacere gli altri. Dai, che ci
riesci.
Non
è
cambiato nulla, papà.
Uno
sguardo fulminante di mio padre.
“Sei
il
disonore di questa famiglia.” un sussurro.
Un
ghigno. Due sguardi
increduli.
Cos’è
un ghigno? Stirare
le labbra, aprirle
un po’. Mostrare i denti.
Farlo
perché ti va. Farlo perché lo vuoi.
Farlo
perché fa veramente parte di te. Dai,
che ci riesci.
È
cambiato
tutto, papà.
“Chi
vuoi
che ti senta, papà? Puoi alzare anche la voce, se
vuoi.” un
urlo.
Basta
sussurri;
i sussurri non si
sentono.
Io
voglio
sentire tutto. Io voglio essere sentito.
Urlerò
quanto
voglio. E se la mia voce muore, lasciate la mia voce morire.
Urlerò.
Non
importa quante volte morirò o la mia voce morirà*.
Io ero io.
Io ero Kyo.
16/02/2008
Tokyo, Giappone
Caro
Tooru,
non so
perché
io stia scrivendo questa cosa.
“Cosa”, sì, perché
effettivamente non so
come io possa chiamarla. È una lettera? Sinceramente non
saprei definirla. Non
so molte cose, pare.
Sono solo
a
conoscenza che stamattina, dopo essermi svegliato e aver passato una
mezz’oretta buona a rimirare il volto addormentato di Daisuke
- chi è Daisuke?, dirai
- mi ha
sopraffatto il desiderio di scrivere. Di scriverti.
Ma cosa?
Non
saprei dirlo con certezza: la mia vita, forse? O come io ho
portato avanti
la tua?
Oggi
è il mio
compleanno. Compio trentadue anni, sai? Seppur ancora giovane mi sento
già
vecchio. Ogni giorno che passa mi porta a formulare un contatore
mentale
contenente i giorni di vita che mi rimangono. Uh, sono troppo attaccato
alla
vita, anche se spesso mi viene da desiderare la morte.
Daisuke - rieccolo!,
dirai - mi rimprovera per questa mia concezione
dell’età e dell’esistenza.
Secondo
lui tutti
noi possiamo rimanere giovani per sempre, basta rimanerlo dentro. Bah,
a mio
parere è solo un capro espiatorio per il fatto che ha tre
anni più di me. Come
tutti gli essere umani è spaventato dalla morte. Eppure,
è un fatto
scientifico: il corpo si deteriora anche se dentro hai la
coscienza di un
bambino. Non è l’anima che conta, nella
morte.
“Se
tutte le
morti fossero naturali morirebbero prima i vecchi.”, gli ho detto un giorno. E mi sembra
azzeccata come affermazione, no? Cioè, è
l’equilibrio della vita. Non c’è un
ipotetico Dio, o qualsiasi altra cosa a deciderlo: è la
natura. Ma lui non mi
ascolta. Ha tutte le sue teorie mentali che nessuno gli può
toccare. Nemmeno
io, che sono il suo uomo.
Già,
ho trovato
l’amore. E se non è amore, perché
non avendolo mai provato prima mi è
difficile capirlo, è qualcosa che ci va molto
vicino. È strano, lo ammetto.
Non avevo mai provato emozioni intime così forti ed allo
stesso tempo tanto
superficiali. Perché
è così: stando con
lui sono riuscito a ridere per la più piccola stupidata,
fino a pensare
concretamente che grazie ad un suo bacio il mio cuore avrebbe potuto
smettere
di battere. È una sensazione così potente che
spesso vorrei non provarla. Mi
atterrisce completamente, mi sovrasta. E sono cosciente che
potrebbe
uccidermi.
Ma che ci
posso
fare se un suo sorriso m’illumina la giornata? Sono diventato
così mieloso e
romantico che certe volte vorrei sotterrarmi da solo… ed il
resto della band
non si fa scrupoli nel, diciamo, sottolinearmelo. Già, la
band. I Dir en Grey.
Shinya,
Toshiya, Kaoru, Daisuke e io, Kyo. Una delle poche band giapponesi
attive da
dieci anni che hanno fatto successo al di fuori della madrepatria. Ci
credi?
Credici, perché è vero. Loro sono la mia
famiglia. Sai, tua madre e tuo padre
sono morti già da tempo. E mi pare inutile dirti che, da
quell’afoso giorno in
cui tuo padre mi riportò a casa, non mi rivolsero
più la parola.
Troncammo
i
rapporti, com’era giusto fare. Trovai affetto in questi
quattro ragazzi
dall’aria un po’ stramba e malmessa come la mia. In
questo gruppo io sono
cresciuto e sono divenuto ciò che sono adesso.
Perché sono cambiato. Ancora.
Se
tu ora ci fossi stenteresti sicuramente nel riconoscermi. Ne sono
fermamente convinto.
Ho
fatto così tanti cambiamenti nella mia vita che
anch’io spesso metto
in dubbio la mia stessa identità.
Chi sono io? Sono Kyo o sono
Tooru? Sono
io o sono te?
Forse
è stupido pensarlo. Tu sei morto in quell’insolito
freddo
pomeriggio di Primavera lasciandomi le redini della tua vita. Ci sono
io qui, e
non tu. Mi sento in colpa?
No, questo no.
Eppure
a volte ci spero. Io e
te insieme. Se
tu potessi tornare a quel pomeriggio
cosa faresti? Ti uccideresti ancora?
Forse
sono idiota. Ho letto da qualche parte che l’amore rende
sciocchi.
Sono
qui, vivo, e penso a te, morto. È una brutta cosa?
Non mi manchi, ma provo pena per
te.
Forse
è perché oggi compio gli anni e mi sento
già vecchio ed in fin di
vita. Già,
sarà per questo…
Sento
dei rumori provenire dalla stanza accanto. Daisuke si è
svegliato.
Ah,
quell’uomo è davvero rumoroso. Un giorno di questi
mi farà
diventare pazzo, sperando che già io non lo sia adesso e non
me ne sia accorto.
I
pazzi non
sanno di esserlo,
mi hanno detto una volta.
Non
penso di essere pazzo. In teoria i pazzi dovrebbero essere
spensierati, no? Io invece mi faccio di continuo problemi
esistenziali.Mi sa
che questa introspezione acuta me l’ hai lasciata dentro
te…
Continuo
anche a ferirmi. Non ne ho un motivo particolare, mi sfogo e
basta.
Tanti
graffi sul corpo, niente frustrazione dentro. Mi sento talmente
bene.
Forse
lo faccio anche perché un po’ mi ricorda te.
Io. Tu. Noi.
Magari
non ci crederai, ma una volta ti ho sentito piangere. Un piccolo
singhiozzo, nitido e goffo dritto dentro al mio cuore. È
lì che tu sei rimasto?
Certe volte me lo chiedo. Forse, se riuscissi a scavarmi dentro,
troverei il
tuo cadavere in decomposizione.
Tu, nel mio cuore…
sarebbe bello. Forse un po’ troppo
fiabesco, ma stupendo.
Un
lieto fine
per tutti e due.
Ti
piacerebbe, Tooru?
Io
e te, per sempre noi stessi. Insieme. In fondo abbiamo diviso lo
stesso corpo. Qualcosa ci ha unito, non credi? Ma non ho rimpianti,
Tooru.
Spero solo che neanche tu ne abbia.
Non
voglio essere troppo melodrammatico, ma questo credo sia il mio
addio. Ti ho vomitato all’interno e nascosto per tanto tempo
in un angolino del
mio cuore. Ti posso scordare definitivamente? Sarebbe meglio per
entrambi,
credo.
Sei
morto, ma
da qualche parte tu ci sei ancora. Ed
un po’ fa male.
Addio,
Tuo
Kyo
Dimenticavo: buon compleanno
anche a te.
OWARI
Note:
*” I’ll scream as much as I
want and if my voice dies, then let my
voice die.
I’ll scream, no matter how many times I’ll die
or
my voice will die “, citazione presa da “ C
“, contenuta nell’album “ Withering
to death “
Anno 2017 - ho modificato la storia,
poiché piena di errori
sintattici che mi facevano letteralmente venire la pelle
d’oca. È comprensibile;
in fondo quando l’ho scritta avevo più o meno
tredici anni. Ho deciso di non
mutare le frasi perché alla fine credo che questa long sia
una di quelle a cui
tengo di più, per cui mi sono limitata a levare il grassetto
(che adesso odio)
e sfoltire le virgole che tanto amavo usare anche in posizioni
completamente
errate. Suppongo che la lettura, così, sia molto
più apprezzabile.
Ciao,
AintAfraidToDie
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