Suicide Is The Proof Of Life

di AintAfraidToDie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. My Place ***
Capitolo 2: *** 02. Change's Time ***
Capitolo 3: *** 03. The Proof ***
Capitolo 4: *** 04. Mother? ***
Capitolo 5: *** 05. Goodbye Tooru ***



Capitolo 1
*** 01. My Place ***


“ I've always been about pain. In fact, I'm quite incapable of writing anything else, nor would I want to. Where does it come from? Probably the life I've lived…”

* “ Ho sempre scritto sul dolore. Infatti, sono abbastanza incapace di scrivere su qualsiasi altra cosa, non perché io non voglia. Da dove viene questo? Probabilmente dalla vita che ho vissuto…”

Kyo, Dir en grey [from an interview about Vulgar, in 2005]

Suicide is the proof of life.

Capitolo Uno: “My place”.

Mi sono sempre chiesto quale fosse il mio posto, in questo mondo.

Dalla minuscola finestra della mia stanza, che di mio forse non ha mai avuto nulla, guardavo di sottecchi i piccoli sprazzi dello scorrere della vita delle persone che si soffermavano nella mia visuale. Tutti i giorni mi appostavo in quel mio angolo segreto, tra la scrivania di legno di quercia e l’armadio d’acero, rubando qualche pezzo di esistenza alla gente che aveva la piccola sfortuna di passare davanti ai miei attenti occhi.

Potevo scorgere il gruppetto di bambini dell’asilo vicino che giocavano ai giardini pubblici di fianco. Correvano, goffi, nei loro enormi grembiulini rosa o blu. Inventavano insieme alle loro maestre stupidi giochi senza né capo, né coda e spesso scoppiavano in liberatori pianti, privi di un preciso perché, cantilenando frasi senza senso. Infine ridevano. Ridevano tanto, insieme.

In quei ripetuti istanti, pensavo che loro ce l’avevano, il loro posto: erano dei bambini; dei piccoli bambini che dovevano giocare, piangere e ridere. Tutto qui. Null’altro.

Il loro mondo, la loro esistenza, si fermava a quello.Perché erano nati per quello. Esistevano, per quel preciso obbiettivo: per essere degli stupidi bambini.

Io cosa dovevo essere? Io chi dovevo essere?

Non ero un stupido bambino, ma non ero nemmeno qualsiasi altra cosa. Esistevo forse con il semplice e futile obbiettivo di sopravvivere? Riuscivo a vedere ed a capire che spesso gli esseri viventi che mi circondavano erano ciò che dovevano essere. Erano stimati, erano amati, per il semplice fatto di essere se stessi. C’era qualcosa che mi differiva dagli altri?

Quegli stupidi bambini a casa loro avevano una madre e un padre che li aspettavano con impazienza, con un grande sorriso sciocco stampato in volto, pronti a soffocarli d’amore con un abbraccio. Quando io ero piccolo e d’Inverno tornavo da scuola, me ne stavo quarantacinque minuti ad aspettare nel giardino di casa che mia madre finisse di scoparsi il giardiniere.

Se fossi stato un bambino stupido, sarei stato sicuramente il più stupido.

Passavano i giorni. Le settimane. I mesi. O forse gli anni?

Continuavo ad osservare dalla finestra, cercando in qualcuno dei vari passanti qualcosa che potesse darmi un aiuto per capire me stesso. Ero strano?

Per un certo periodo della mia apatica esistenza cercai d’ignorare il dubbio.

Forse un fondo di verità c’era, visto che mia madre e mio padre me lo urlavano sempre.

“Sei strano! Non sei normale!”

Cosa significavano, quelle esclamazioni? Non riuscivo a capacitarmene.

Tutto quel che sapevo si limitava al fatto che non erano né complimenti, né cose buone.

Mia madre sospirava, quando mi guardava. Mio padre digrignava i denti, se cercavo di parlare con lui. Perché?

La mia anima piangeva al posto dei miei occhi.

Come si faceva a piangere? Non mi piaceva studiare. Non avevo amici. Passavo le mie giornate, la mia intera vita, guardando fuori da una finestra.

Ero strano?

Diversità: contrasto parziale o totale sussistente tra i caratteri distintivi di due o più cose o persone; motivo di opposizione o di conflitto; differenza.”

Diverso: totalmente o parzialmente opposto, per quanto riguarda i caratteri distintivi oggettivamente rilevabili; estraneo alla comune esperienza, non mai visto o udito, sconcertante; ripugnante; mostruoso.

“Normale: riferibile alla consuetudine o alla generalità; regolare.”

Stranezza: insolita difformità dal consueto o dal normale, motivo di perplessità, di sorpresa o anche di singolare interesse e curiosità.”

Il vocabolario diceva così. Le mie piccole e candide mani lo avevano sfogliato diligentemente, pagina dopo pagina. Differente, opposto, sconcertante, ripugnante, mostruoso.

La mia mente era piena di parole e concetti. Era quella, la mia etichetta. I miei genitori pensavo quello, di me.

Il mio posto era forse quello? La mia ricerca era finalmente terminata?

Dubbi. Ma non più di tanti.

Il mio ghigno di dodicenne si aprì verso quel nuovo me stesso, che forse ero sempre stato.



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Capitolo 2
*** 02. Change's Time ***


Capitolo 2: “Change’s Time”

 

 

 

Si cambia. È inevitabile, tutta la vita è un lungo cambiamento. 

 

Quando nasci sei un neonato: non hai idee, non hai concreti sentimenti o bisogni, se non quelli di mangiare e dormire. Sei un piccolo corpo che emana calore; che vive, senza sapere di essere vivo.

È palese che quando cresci tu cambi. Cominci a capire le cose, ti fai dei gusti personali, cominci a pensare. Cominci a vivere.

 

Il mio era un mondo ovattato. Non esistevano suoni, non esistevano emozioni.

Non provavo rancore verso mio padre e, in realtà, nemmeno disprezzavo mia madre.

 

Quando piangevo, lo facevo perché mi era entrato qualcosa in un occhio. Se sorridevo, era perché vedevo farlo agli altri. O forse cercavo ogni giorno di convincermi di questo?

 

Ero un inusuale feto che si costringeva a rimanere nel ventre della propria madre dopo averla uccisa. Sputavo sangue e parole in fogli bianchi che raccoglievano le mie uniche sensazioni.

Mi limitavo ad essere un corpo di carne.

 

Scrivevo. Scrivevo tanto: versi su versi, poesie illogiche, che spesso nemmeno io riuscivo a capire. Scrivevo, ma non rileggevo mai i miei scritti. Quei numerosi kanji vomitati sul mio povero quaderno delle note nero. Quello che mia madre mi aveva comprato, ordinando “prendici gli appunti di scuola”.

 

Sconnessi, deformati, rimarcati. Tanti, tanti kanji. Kanji su kanji.

 

Follia, irrequietezza, pazzia, voglia. Voglia di che?

 

Forse non ho mai voluto guardare in faccia la crudele - magnifica - realtà.

 

Un giorno mi feci coraggio. Era un insolito freddo pomeriggio di Primavera ed i ciliegi erano in fiore.  Ricordo distintamente che durante il tragitto da scuola a casa mi ero soffermato ad osservarli per quasi un’intera ora. Io amavo i ciliegi, senza un preciso perché.

 

A quei tempi il dolore fisico che provavo era a volte opprimente. Mia madre mi aveva portato più volte dal dottore, che però aveva catalogato i miei problemi causa della mia costituzione esageratamente debole. Prendevo delle strane pillole color arancio, dal sapore rivoltante e dolciastro. Vitamine, aveva detto il dottore.

 

Il petto mi doleva e non riuscivo a respirare. Ogni ansimo, ogni sprazzo di aria che usciva dalla mia bocca, era una fitta nello sterno. Perché i miei polmoni continuavano a lavorare ossigeno?

 

Dolore, dolore, dolore.

Pillole, pillole, pillole.

 

Era come se avessi un groppo in gola perenne, un fastidioso peso in prossimità dei polmoni, che me li comprimeva amaramente.

 

Quel giorno allungai la mia mano verso il block-notes. Tremava.

 

Quel giorno aprii il quaderno. Quel giorno lessi la mia anima. Ed urlai.

 

I miei urli si espansero con una tale forza che spaventarono mia madre.

 

“Perché urli?” Perché era bello. Perché mi piaceva.

 

Da quell’insolito freddo pomeriggio primaverile i miei dolori sparirono del tutto.

 

Urli, urli, urli.

Non più pillole, pillole, pillole.

 

Se non potevo urlare, semplicemente cantavo.

 

Il feto era finalmente cresciuto.

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Capitolo 3
*** 03. The Proof ***


Capitolo 3: “The Proof”.

Ogni mio pensiero apparteneva alla mia anima. Pensavo a ciò che aveva elaborato, a ciò che continuava a rielaborare. Io non avrei mai potuto scrivere le cose che avevo letto nel quaderno. Mai.

Un nome, “Tooru Niimura”, cancellato con forza. Cancellato forse per sempre. Cos’è, in fondo, un nome?

Accanto alla scancellatura, sulla copertina nera, un altro kanji.

,Kyo

Kyo non ero io.

Kyo era ciò che avrei sempre dovuto essere e che non avevo mai avuto il coraggio di svelare.

Quel quaderno nero non apparteneva a me; apparteneva a lui.

Lui non era come me, ma allo stesso tempo eravamo estremamente uguali.

E capii. Leggendo tutto ciò che Kyo aveva scritto, capii che non avevo mai realmente vissuto. Ciò che mi ostinavo a portare avanti era un corpo senza anima, che viveva per sbaglio. Che sopravviveva; sopravviveva, sì, perché non gli avevano mai insegnato a vivere.

Ero sempre stato snobbato, escluso, dato per scontato. Il poco che sapevo della mia esistenza era che dovevo portare buoni voti da scuola e comportarmi da bravo ragazzo. Io non ero così.

Ciò che avrei dovuto fare era portarmi a vita nuova. Sapevo ormai esattamente chi dovevo essere. Ma cosa dovevo fare per cominciare a vivere?

Le mie giornate non le passavo più a guardare incantato un mondo immaginario fuori dalla finestra, ma osservando minuziosamente il mio. Leggevo il mio universo, che avevo ignorato per così tanto tempo. Cantavo la mia anima. ,

Tanti giorni, spesi a far risuonare la mia voce in uno spazio vuoto. Non avevo mai usato le mie corde vocali tranne che per sussurrare parole sconnesse, inzuppate di apatia. Quando cantavo, mi liberavo. Più che ad urlare. Cantavo quegli scritti che ormai avevo imparato quasi tutti a memoria. Gli avevo riordinati diligentemente, inventandoci su motivetti mentali sconclusionati.

Cantavo, spesso ad alta voce, così che mia madre sentisse.

“Pazzo.” soffiava con le sue sottili labbra.

Era questo, ciò che io volevo.

Canticchiavo, in camera mia, distruggendo pezzo dopo pezzo il vecchio armadio d’acero.

L’avevo sempre odiato, senza un preciso perché.

I ciliegi, nel lasso di tempo di qualche giorno, sarebbero sfioriti. Ero arrabbiato.

E ci fu una frase, nelle parole che mi uscivano fluide dalla bocca. Un periodo né lungo, né corto.

I miei occhi, in quell’istante, rotearono dalla felicità. Sì, perché in quei momenti ero in grado di provarla. Infine mi accasciai sul letto ancora sfatto.

“Il suicidio è la prova della vita*…” sussurrai, fra me e me.

Sospirai. L’armadio d’acero era ormai completamente fottuto.

Notai un paio di forbici, abbandonate sulla scrivania. Facendo un piccolo sforzo, più mentale che fisico, mi rimisi in piedi e le acchiappai per poi ributtarmi di slancio sul letto. Le osservai, facendole roteare con movimenti lenti sul palmo della mia mano.

La lama lucente e affilata, il manico scintillante. Una perfetta e comune arma di morte.

Premetti con forza la punta dell’oggetto sul mio polso sinistro, cercando di mirare sulla vena più pulsante. Un rivolo di sangue si fece immediatamente strada sulla mia pelle.

“Più forte.” grugnii, aumentando la potenza.

Un piccolo fiotto rosso.

Taglia. Pigia. Taglia.

Altri piccoli fiotti rossi. Il mio braccio si stava riempiendo di liquido colante; ed io ci stavo sinceramente prendendo gusto.

Dolore? Un pochino, forse.

Taglia. Pigia. Taglia.

“Non è altro che pelle, Tooru. Nient’altro che carne.” sghignazzavo, accasciandomi disteso sul materasso.

Le forbici infilzate in bilico nella carne rossastra, in un netto taglio preciso e pulsante. Faceva male, ma che importava? Era la prova. La prova che io ero vivo.

Avevo vissuto e sarei morto. Ero sempre stato vivo.

Sangue che andava a sporcare le lenzuola bianche e pulite. Mi portai il braccio, con non poca fatica, vicino al viso. Il liquido cominciò a colarmi in faccia. Lo leccai. Aveva un buon sapore.

“Il sangue sa di vaniglia**…” ricordai un testo, ghignando.

Mi misi a ridere forte. Non mi ero mai sentito meglio.

La porta della stanza si spalancò. Mia madre mi guardava, con i suoi profondi occhi marroni che io avevo sempre ammirato da lontano, totalmente spalancati.

Le sue mani, agghindate da inutili anelli tintinnanti, erano attorcigliate fra di loro e tremavano evidentemente. Mi osservava, studiandomi. Magari anche un po’ preoccupata.

Ci speravo. Io ci speravo.

Mi misi a ridere ancora di più, davanti alla sua figura spaventata.

Spaventata da me. Dal suo strano figlio.

“Il suicidio è la prova della vita, mamma!” urlai, con quanto fiato avevo ancora in gola, verso la sua sottile ed elegante sagoma.

Corse contro di me e mi schiaffeggiò. Il suo tocco fu più doloroso dello squarcio sul mio polso.

“Pazzo! Folle!” mi urlò, avvicinandosi ancora.

Persi i sensi con davanti i suoi occhi sbarrati e la sua voce crudele nelle orecchie.

Ma in fondo era questo, ciò che io volevo.

Note:

*“Suicide is the proof of life” citazione, che dà anche il titolo alla storia, presa da “The Final”; contenuta nell’album “Withering to death”.

** “Blood tastes like vanilla” citazione presa da “Grief”; contenuta nell’album “The marrow of a bone”.

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Capitolo 4
*** 04. Mother? ***


Capitolo 4: “Mother?”.

Quando riaprii gli occhi, fu come svegliarmi da un sonno durato cent’anni: tutto il mio corpo era inturgidito e pesante; con lenti movimenti cercai di scuotermi, senza però riuscire a spostarmi. La mia mente era del tutto annebbiata, i miei occhi non riuscivano a connettersi con il cervello.

Stanza bianca, lenzuola bianche, comodino bianco, camice bianco: eppure mi avevano raccontato che l’inferno era rosso.

Dove ero finito?

Posai i miei occhi sul polso: completamente fasciato e medicato. La ferita coperta, la prova della mia vita superficialmente scomparsa. Ma io lo sapevo, che c’era.

Ospedale; ecco dov’ero stato rinchiuso.

Rabbrividii. Quella stanza emanava solo del freddo tagliente.

“Perché l’ hai fatto?” girai di un poco la testa, trovandomi faccia a faccia con mia madre.

Non mi ero accorto della sua presenza. Dovevo essere completamente fatto di farmaci.

Il suo respiro era lento e pesante, proprio diretto sul mio braccio. Prendeva lente espirazioni, per poi rilasciare calda sostanza vaporosa sulla pelle nuda vicino al mio appuntito gomito. Teneva la testa bassa, appoggiando il mento sul duro materasso di bassa categoria dove io ero steso.

I suoi occhi vacui e spenti puntavano su di me, attenti ad ogni minima mossa.

“Rispondi, Tooru.” continuò, apparentemente calma e autoritaria.

La guardai. Sorrisi.

La realtà era che avevo sempre avuto paura di mia madre: quando mi guardava, quando mi parlava, il mio corpo era spesso percorso da brividi. Brividi gelidi, che partivano dal mio cervello e che andavano a finire il loro percorso sotto le piante dei miei piedi. Brividi, sì: mia madre era riuscita a donarmi solo quelli.

In quel preciso istante decisi che non avrei mai avuto dei figli e, in quello stesso momento, sorrisi. Perché non avevo più paura.

I suoi occhi, per quanto quelli di un giapponese possano, si assottigliarono di colpo. Si portò una candida mano alla bocca, cercando di coprire piccoli singhiozzi che si stavano facendo strada dalle sue rosee labbra. Goffe lacrime si affacciarono in prossimità delle sue nere pupille, per poi venire rilasciate sulle sue guance scavate. Minuziosi corsi d’acqua che scavavano solchi nella sua pelle già vecchia. Piangeva; non l’avevo mai vista piangere. Era veramente bella.

“Perché piangi?” la mia bocca non parlò né per stupore, né per pena. Fu un sussurro atono, senza emozione. Una piccola speranza, forse.

Le minime convulsioni dovute al pianto si arrestarono. Il suo respiro ritornò in pochi attimi regolare e le lacrime sparirono grazie ad un leggero tocco di stoffa della manica della sua pallida camicetta.

Spostò alternativamente il suo sguardo dalla mia figura all’ambiente circostante, soffermandosi poi di nuovo sulla fasciatura. Scostò di poco la poltroncina su cui risiedeva, posizionandosi stancamente e molto lentamente in piedi. Prolungando l’estensione della sua schiena sul letto, si avvicinò gradualmente al mio viso, per poi lasciare con le sue labbra gelide un leggero e umido tocco sulla mia guancia.

Un bacio. La guardai, interrogativo, ed allora le sue labbra fredde si avvicinarono al mio orecchio. Tanto, tanto fredde.

“La verità è che non sono mai riuscita ad amarti ed adesso mi sono resa conto che, per quanto possa provarci, mai ci riuscirò.” sussurrò, piano. Sorrise.

Labbra fredde. Tanto, tanto fredde. Fredde come lei.

Si allontanò da me, per poi percorrere lentamente l’area della camera e uscire definitivamente dalla stanza - dalla mia vita.

L’avevo uccisa con la mia nascita e lei si era finalmente vendicata.

Sorrisi anch’io, per l’ennesima volta: mia madre se ne era andata, portandosi via ciò che ero stato.

Se ne era andata, regalandomi finalmente vita nuova. Io ormai non c’ero più.

Dentro di me, però, una voce piccola e flebile di bambino sussurrava ancora il nome di sua madre.

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Capitolo 5
*** 05. Goodbye Tooru ***


Capitolo 5: “Goodbye Tooru”.

 

La mia prigionia ospedaliera durò qualche giorno: durante quelle lunghissime ore il mio cervello staccò del tutto la spina. Ogni cosa mi appariva come completamente deformata alla vista; i suoni ed i rumori erano amplificati ed i miei orecchi li captavano in maniera diversa. Tutto, tutto veramente confuso.

 

Astinenza dallo scrivere; si, la chiamerei così. La mia personale droga, cui ormai ero diventato dipendente. Dovevo sfogarmi, vomitare un po’ della mia anima, per poi ingerirla di nuovo subito dopo. E magari dopo cantare un po’…

 

Portai quindi con fatica avanti le mie membra fino al pomeriggio in cui mio padre venne a riportarmi a casa. La notizia del mio tentato suicidio aveva ormai fatto il giro di tutto il quartiere.

 

Molti sguardi. Sguardi attenti, sguardi curiosi.

Sguardi disgustati? Forse solo sguardi invidiosi.

 

“Ciao mamma, ciao papà.”

Sorriso di circostanza: cos’è un sorriso?

Stirare le labbra, aprirle un po’. Mostrare i denti.

Farlo per motivi estetici. Farlo per mostrarti sereno.

Farlo per compiacere gli altri. Dai, che ci riesci.

 

Non è cambiato nulla, papà.

 

Uno sguardo fulminante di mio padre.

“Sei il disonore di questa famiglia.” un sussurro.

 

Un ghigno. Due sguardi increduli.

 

Cos’è un ghigno? Stirare le labbra, aprirle un po’. Mostrare i denti.

Farlo perché ti va. Farlo perché lo vuoi.

Farlo perché fa veramente parte di te. Dai, che ci riesci.

 

È cambiato tutto, papà.

 

“Chi vuoi che ti senta, papà? Puoi alzare anche la voce, se vuoi.” un urlo.

 

Basta sussurri; i sussurri non si sentono.

 

Io voglio sentire tutto. Io voglio essere sentito.

 

Urlerò quanto voglio. E se la mia voce muore, lasciate la mia voce morire.

Urlerò. Non importa quante volte morirò o la mia voce morirà*.

 

Io ero io.

 

Io ero Kyo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

16/02/2008

Tokyo, Giappone

 

 

 

Caro Tooru,

non so perché io stia scrivendo questa cosa. “Cosa”, sì, perché effettivamente non so come io possa chiamarla. È una lettera? Sinceramente non saprei definirla. Non so molte cose, pare.

Sono solo a conoscenza che stamattina, dopo essermi svegliato e aver passato una mezz’oretta buona a rimirare il volto addormentato di Daisuke - chi è Daisuke?, dirai - mi ha sopraffatto il desiderio di scrivere. Di scriverti.

Ma cosa? Non saprei dirlo con certezza: la mia vita, forse? O come io ho portato avanti la tua?

Oggi è il mio compleanno. Compio trentadue anni, sai? Seppur ancora giovane mi sento già vecchio. Ogni giorno che passa mi porta a formulare un contatore mentale contenente i giorni di vita che mi rimangono. Uh, sono troppo attaccato alla vita, anche se spesso mi viene da desiderare la morte.

Daisuke  - rieccolo!, dirai - mi rimprovera per questa mia concezione dell’età e dell’esistenza.

Secondo lui tutti noi possiamo rimanere giovani per sempre, basta rimanerlo dentro. Bah, a mio parere è solo un capro espiatorio per il fatto che ha tre anni più di me. Come tutti gli essere umani è spaventato dalla morte. Eppure, è un fatto scientifico: il corpo si deteriora anche se dentro hai la coscienza di un bambino. Non è l’anima che conta, nella morte.

“Se tutte le morti fossero naturali morirebbero prima i vecchi.”, gli ho detto un giorno. E mi sembra azzeccata come affermazione, no? Cioè, è l’equilibrio della vita. Non c’è un ipotetico Dio, o qualsiasi altra cosa a deciderlo: è la natura. Ma lui non mi ascolta. Ha tutte le sue teorie mentali che nessuno gli può toccare. Nemmeno io, che sono il suo uomo.

Già, ho trovato l’amore. E se non è amore, perché non avendolo mai provato prima mi è difficile capirlo, è qualcosa che ci va molto vicino. È strano, lo ammetto. Non avevo mai provato emozioni intime così forti ed allo stesso tempo tanto superficiali.  Perché è così: stando con lui sono riuscito a ridere per la più piccola stupidata, fino a pensare concretamente che grazie ad un suo bacio il mio cuore avrebbe potuto smettere di battere. È una sensazione così potente che spesso vorrei non provarla. Mi atterrisce completamente, mi sovrasta. E sono cosciente che potrebbe uccidermi.

Ma che ci posso fare se un suo sorriso m’illumina la giornata? Sono diventato così mieloso e romantico che certe volte vorrei sotterrarmi da solo… ed il resto della band non si fa scrupoli nel, diciamo, sottolinearmelo. Già, la band. I Dir en Grey.

Shinya, Toshiya, Kaoru, Daisuke e io, Kyo. Una delle poche band giapponesi attive da dieci anni che hanno fatto successo al di fuori della madrepatria. Ci credi? Credici, perché è vero. Loro sono la mia famiglia. Sai, tua madre e tuo padre sono morti già da tempo. E mi pare inutile dirti che, da quell’afoso giorno in cui tuo padre mi riportò a casa, non mi rivolsero più la parola.

Troncammo i rapporti, com’era giusto fare. Trovai affetto in questi quattro ragazzi dall’aria un po’ stramba e malmessa come la mia. In questo gruppo io sono cresciuto e sono divenuto ciò che sono adesso. Perché sono cambiato. Ancora.

Se tu ora ci fossi stenteresti sicuramente nel riconoscermi. Ne sono fermamente convinto.

Ho fatto così tanti cambiamenti nella mia vita che anch’io spesso metto in dubbio la mia stessa identità.

 

Chi sono io? Sono Kyo o sono Tooru? Sono io o sono te?

 

Forse è stupido pensarlo. Tu sei morto in quell’insolito freddo pomeriggio di Primavera lasciandomi le redini della tua vita. Ci sono io qui, e non tu. Mi sento in colpa? No, questo no.

Eppure a volte ci spero. Io e te insieme. Se tu potessi tornare a quel pomeriggio cosa faresti? Ti uccideresti ancora?

 

Forse sono idiota. Ho letto da qualche parte che l’amore rende sciocchi.

Sono qui, vivo, e penso a te, morto. È una brutta cosa? Non mi manchi, ma provo pena per te.

Forse è perché oggi compio gli anni e mi sento già vecchio ed in fin di vita. Già, sarà per questo…

 

Sento dei rumori provenire dalla stanza accanto. Daisuke si è svegliato.

Ah, quell’uomo è davvero rumoroso. Un giorno di questi mi farà diventare pazzo, sperando che già io non lo sia adesso e non me ne sia accorto.

I pazzi non sanno di esserlo, mi hanno detto una volta.

Non penso di essere pazzo. In teoria i pazzi dovrebbero essere spensierati, no? Io invece mi faccio di continuo problemi esistenziali.Mi sa che questa introspezione acuta me l’ hai lasciata dentro te…

Continuo anche a ferirmi. Non ne ho un motivo particolare, mi sfogo e basta.

Tanti graffi sul corpo, niente frustrazione dentro. Mi sento talmente bene.

Forse lo faccio anche perché un po’ mi ricorda te.  

 

Io. Tu. Noi.

 

Magari non ci crederai, ma una volta ti ho sentito piangere. Un piccolo singhiozzo, nitido e goffo dritto dentro al mio cuore. È lì che tu sei rimasto? Certe volte me lo chiedo. Forse, se riuscissi a scavarmi dentro, troverei il tuo cadavere in decomposizione.

Tu, nel mio cuoresarebbe bello. Forse un po’ troppo fiabesco, ma stupendo.

 

Un lieto fine per tutti e due.

 

Ti piacerebbe, Tooru?

Io e te, per sempre noi stessi. Insieme. In fondo abbiamo diviso lo stesso corpo. Qualcosa ci ha unito, non credi? Ma non ho rimpianti, Tooru. Spero solo che neanche tu ne abbia.

Non voglio essere troppo melodrammatico, ma questo credo sia il mio addio. Ti ho vomitato all’interno e nascosto per tanto tempo in un angolino del mio cuore. Ti posso scordare definitivamente? Sarebbe meglio per entrambi, credo.

Sei morto, ma da qualche parte tu ci sei ancora. Ed un po’ fa male.

 

Addio,

 

Tuo Kyo

 

 

Dimenticavo: buon compleanno anche a te.

 

 

 

 

 

 

OWARI

 

 

 

 

 

 

 

Note:

 

 

*” I’ll scream as much as I want and if my voice dies, then let my voice die.

I’ll scream, no matter how many times I’ll die or my voice will die “, citazione presa da “ C “, contenuta nell’album “ Withering to death “

 

 

Anno 2017 - ho modificato la storia, poiché piena di errori sintattici che mi facevano letteralmente venire la pelle d’oca. È comprensibile; in fondo quando l’ho scritta avevo più o meno tredici anni. Ho deciso di non mutare le frasi perché alla fine credo che questa long sia una di quelle a cui tengo di più, per cui mi sono limitata a levare il grassetto (che adesso odio) e sfoltire le virgole che tanto amavo usare anche in posizioni completamente errate. Suppongo che la lettura, così, sia molto più apprezzabile.

 

Ciao,

 

 

AintAfraidToDie

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