Lasciami guarire

di Kourin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ohenro ***
Capitolo 2: *** Naaza ***
Capitolo 3: *** Naotoki ***
Capitolo 4: *** Yakushi ***



Capitolo 1
*** Ohenro ***


Lasciami guarire


 
1. Ohenro



Quel pomeriggio sulla costa di Iyo regnava il silenzio. Le foglie d'autunno terminavano la loro esistenza vorticando prima di adagiarsi, immobili, sul sentiero percorso dai pellegrini.
Il tintinnio di un campanello annunciava il passaggio di uno di loro. Come tutti, indossava abiti bianchi. Un bastone di legno lo aiutava a scandire il ritmo pigro dei suoi passi, un cappello di paglia lo proteggeva dallo scorrere impetuoso dell'epoca in cui il destino lo aveva deposto.
Proprio lui, una volta così fiero di aver raggiunto l'immortalità, si sentiva come una piccola lucertola nata fuori stagione. Per quanto s'impegnasse, gli risultava impossibile riafferrare ciò che i refoli d'aria salmastra restituivano: frammenti di passato tondeggianti, rari e belli come perle, oppure frammenti di passato taglienti, numerosi come gusci di conchiglie. Tutti minuscoli granelli che rischiavano di scivolare tra le dita, perdendosi per sempre.
Stanco come non mai, si abbandonò a sedere su una roccia e lasciò che lo sguardo s'inebriasse dell'azzurro del Mare Interno di Seto, dapprima punteggiato da piccole isole, poi solcato da pescherecci, infine fuso con il cielo. Il soffio del vento increspava il labile confine dell'orizzonte, richiamando dal passato velieri zeppi di merci, soldati e corsari pronti a combattere per la supremazia della strada celeste. Affascinato dai prodigiosi miraggi della mente, il pellegrino non dava importanza ai passi affrettati che si avvicinavano, né ai richiami affannati che cercavano con insistenza di raggiungerlo.
Tornò al presente solo quando l'uomo gli fu crollato davanti, sfinito. Grande e grosso, aveva i capelli grigi: né la stazza né l'età dovevano essergli state d'aiuto nella corsa. “Mia moglie è stata morsa da una vipera, sto andando a chiamare i soccorsi,” farfugliò ansimando. “Lei si intende di medicina?”
Senza togliersi il cappello, il pellegrino annuì. L'uomo indicò la direzione mentre riprendeva fiato. Il pellegrino raccolse il bastone e iniziò la discesa verso il mare: a differenza dell'animo, il suo corpo si era mantenuto agile e incorrotto.
Trovò la donna a terra, terrorizzata. Il volto era pallido, le mano tremavano. Altre due la sostenevano, ma sembravano più spaventate di lei quando le dicevano di 'farsi coraggio'. Stavano per spiegare al pellegrino la situazione, ma lui le fermò con un cenno. “Mi faccia vedere il morso,” disse mentre lasciava scivolare il cappello sulla schiena. Alle donne il suo aspetto dovette apparire ben strano, poiché nei loro occhi egli poté leggere distintamente sconcerto e ripugnanza. “Chi sei?” chiese allarmata la più giovane.
Il pellegrino fece per rispondere, ma poi si morse le labbra e tacque. Si inginocchiò ed esaminò il polpaccio della donna ferita. I segni del morso erano chiaramente visibili. “Mi perdoni,” disse prima di stringere la ferita in modo che il sangue tornasse a fuoriuscire. Poi iniziò a succhiarlo.
La donna strillò, tentando di allontanare il pellegrino spingendolo con l'altra gamba. Le altre due lo tiravano per le spalle ma, per quanta forza ci mettessero, non riuscivano a farlo desistere. Esclamarono: “Ma da dove vieni? Non si deve fare una cosa del genere!” E poi: “È pericoloso anche per te, rischi di finire avvelenato!”
Ma il pellegrino non le ascoltò e quando ebbe finito disse: “Mi scusi ancora, signora. Passerà subito.”
Una volta che gli ebbero tolto le mani di dosso, si alzò, si risistemò la giacca e si allontanò. Poco dopo alle sue spalle udì l'esclamazione: “Il dolore è sparito!” E poi: “Aspetta, ragazzo!” Ma lui non si voltò indietro, perché aveva una missione da portare a compimento e l'incontro con quegli esseri umani non aveva fatto altro che ricordargliene impietosamente l'urgenza.
Negli ultimi secoli aveva vissuto nell'eternità dell'odio. Un odio assoluto, profondo, che lo aveva fatto sentire forte. Ora avrebbe dovuto esserne libero eppure, per qualche strana ragione, continuava ad esserne affascinato. In un certo senso, l'odio altrui costituiva l'unica certezza della sua esistenza scostante. La missione, invece, gli imponeva di andare alla ricerca di un sentimento diverso. Proprio quello che, negli esseri umani, era certo di ispirare di meno.
Come spesso accadeva quando si trovava a ragionare sulla sua condizione, il torace iniziò a scuotersi in una risata. Per calmarsi, fermò i propri passi.
In quel punto il sentiero costeggiava una spiaggia sassosa. Alcuni gabbiani che riposavano sulle rocce, allarmati, lanciarono i loro richiami e si levarono in volo.
Il rosso del tramonto iniziava a scurire gli scogli appuntiti che emergevano dal mare. Le ombre che prendevano forma sull'acqua inquieta sembravano pugnali affilati rivolti contro di lui. Il pellegrino si avvicinò all'acqua e allargò le braccia, pronto a riceverli. La risata repressa esplose mescolandosi al cupo sciabordio delle onde.
“Sto ridendo di me, non ti basta?” gridò al mare e a tutto ciò che racchiudeva.
La spuma delle onde gli rispose schiaffeggiandogli il volto.

Era un brutto presentimento quello che lo aveva tirato giù dal letto prima del suono della sveglia. Uno di quelli che a Seiji faceva incrociare le braccia e affermare: “Ho un brutto presentimento,” solo che a Shin non riusciva di dirlo con classe. Stava male e non riusciva a dissimulare la sua inquietudine in alcun modo. Non soffriva il mal di mare, eppure gli veniva da vomitare. In tutta la giornata non aveva toccato cibo. Ai suoi colleghi però non aveva detto nulla. “Che cosa avrebbero potuto capire?
Shin si trovava a bordo di un'imbarcazione adibita agli studi sull'inquinamento, ora impegnata in un complesso monitoraggio del Mare Interno. Insieme ad altri ragazzi, tutti studenti e ricercatori universitari, aveva trascorso l'estate a raccogliere campioni di sedimenti marini. L'industria chimica del dopoguerra aveva indiscriminatamente versato in quelle acque i propri scarti, alcune zone erano state irrimediabilmente contaminate e costruire una mappa sulla gravità della situazione era diventato di primaria importanza. Shin era orgoglioso di poter dare il suo contributo. “Era ora che ci rendessimo conto di averlo avvelenato,” pensava quando fissava la distesa calma e azzurra. Il Mare di Seto nascondeva bene i suoi problemi: in superficie si mostrava limpido, nei fondali covava i veleni accumulatisi nel passato. “In un certo senso, ci assomigliamo,” concludeva spesso Shin con un sorriso amaro.
Quella sera attraccarono in una piccola baia che si apriva a pochi chilometri di distanza da un vecchio impianto, ora dismesso, per la raffinazione degli idrocarburi. Lì sorgeva una cittadina anonima, fatta di squadrate costruzioni in cemento. Tra queste lampeggiava l'insegna al neon di un piccolo supermercato. Shin diede ai colleghi le indicazioni per la spesa (doveva ammettere che non era semplicissimo convivere con persone ghiotte di pesce), poi si allontanò con la scusa di dover fare una telefonata. Inizialmente la telefonata voleva farla davvero, perché aveva una gran voglia di sentire Shū e scherzare con lui. Poi si era reso conto che non sarebbe stato capace di mentire sulle sue redivive paure. Così aveva finito per incamminarsi da solo lungo la riva tinta dal crepuscolo autunnale. Sapeva che il suo malessere non aveva un'origine fisica né psicologica ma era legato a Suiko, la sua armatura, che per qualche motivo si stava risvegliando.
Saprei affrontare un combattimento ora?” si chiese fissando i palmi delle mani. “È una domanda che non dovrei nemmeno pormi,” si rispose stringendo i pugni.
Anche se non riusciva ad accettare completamente il destino di Samurai Trooper, si era ripromesso che mai e poi mai avrebbe agito da vigliacco. Se si fosse rifiutato di affrontare un combattimento a lui destinato, la responsabilità sarebbe caduta su Ryō oppure Shū, Tōma o Seiji: loro non avrebbero sofferto né più né meno e Shin, di riflesso, sarebbe sprofondato nella vergogna.
Si guardò intorno, poi percorse il molo dov'erano attraccate alcune imbarcazioni per la pesca, piccole e fragili in confronto al mare che diveniva inesorabilmente più scuro. Il molo stesso era inclinato, come se il fondale ne avesse eroso le basi per prepararsi ad inghiottirlo. Shin lo percorse e, giunto alla sua estremità, alzò lo sguardo. “Dimmi che cosa vuoi, Suiko,” ordinò all'acqua prima di tuffarsi tra le onde.
Immergersi di notte, al di fuori della stagione estiva e senza muta, non era una cosa insolita per Shin, che in ogni condizione riusciva ad apprezzare la pressione del liquido sulla pelle, il contatto con il sale, la carezza delle alghe. Nemmeno il buio costituiva un problema, perché sapeva di potersi lasciar guidare dalle correnti.
Appena giunto in acque più profonde, venne affiancato da un banco di cefali. Sorrise, rasserenato dalla loro compagnia, poi notò che le loro squame rilucevano, toccate da una luce argentea che penetrava dalla superficie. Meravigliato, alzò lo sguardo per individuarne la fonte, ma questa fu oscurata da una sagoma ovale che nuotava sopra di lui. Allora iniziò a riemergere per andare incontro a quella che doveva essere una tartaruga marina di età rispettabile. La creatura pareva aspettarlo e non obiettò quando Shin si aggrappò al carapace e si fece trascinare fino in superficie.
Trovò ad attenderlo un cielo stellato in cui si muovevano furtivi scuri strascichi di nubi, scacciati dalla presenza di una straordinaria luna piena. L'aria era fredda, come se fosse appena passata una tempesta. “Dove mi trovo?” Shin si guardò intorno nel tentativo di individuare la lanterna della baia, ma non la trovò. Vide solo una catena di piccole isole, poi gli occhi neri della tartaruga che lo stavano fissando come se stessero aspettando qualcosa. “Grazie, continuo da solo,” disse. La tartaruga tornò ad immergersi, mentre Shin si diresse verso l'isola più vicina.
La breve spiaggia terminava in una pineta. Gli aghi degli alberi erano punteggiati da minuscole e limpide gocce: troppo piccole per aggregarsi e cadere, restavano a formare un rivestimento scintillante che tremolava al soffio del vento, lo stesso che seccava l'acqua marina sulla pelle lasciando che salsedine e alghe formassero un sottile strato pungente.
Man mano che s'inoltrava tra i tronchi dei pini secolari segnati dalle intemperie, Shin sentiva lo sciabordio delle onde farsi più lieve. Tuttavia non aveva timore di perdersi. Pensò: “È come se non fossi mai uscito dal mare.
In quella quiete profonda riusciva a percepire chiaramente la voce dell'armatura. Il suo rintocco costante, stranamente gentile, lo accompagnò fino all'ingresso di un tempio che sembrava abbandonato da molto tempo. L'ingresso appariva intatto; Shin lo varcò.
Dentro ristagnava un intenso profumo d'incenso, come se il tetto non fosse mai collassato aprendo l'ampio squarcio che aveva esposto l'interno alle intemperie e alla salsedine. La luce lunare delineava le membra di una statua sparpagliate sul pavimento. Apparivano come incenerite, forse da un fulmine o forse da un atto sacrilego compiuto da pirati d'altri tempi. La testa del buddha, ancora integra, non aveva perduto l'espressione di pace e sembrava rivolgersi al visitatore con aria benevola.
Inginocchiato accanto, c'era qualcuno. Una patina nera insozzava i suoi abiti candidi, ma la persona sembrava non curarsene e continuava a pulire la statua con delicatezza, stringendo un panno con dita affusolate che terminavano con unghie lunghe. La corporatura era sottile e sembrava quella di un ragazzo adolescente. Era tuttavia impossibile per Shin distinguerne il volto chino nell'ombra. Niente di maligno emanava da quella figura, che pareva, semplicemente, fare parte di quel luogo. Shin si avvicinò e chiese: “Chi sei?”
Ebbe l'impressione che le parole si propagassero in ritardo e che fossero leggermente distorte. Così, anche quando le labbra di quella persona si mossero, la risposta arrivò lenta e fece in tempo ad assumere le sembianze di una creatura che risaliva da un abisso: “Non mi riconosci, Suiko?”
Dall'oscurità emersero due occhi inconfondibili, grandi, ma senza iridi per riflettere l'umana compassione. Ornati dal solo colore violaceo di palpebre prive di ciglia, fissavano Shin senza sentimento.
L'aspetto umano di Nāza non era diverso da come Shin lo avrebbe potuto immaginare.
Il volto era chiaro come una luna malvagia. I capelli verdastri si radunavano in ciuffi appuntiti e si aprivano su una fronte ampia, dove tra le nude arcate sopraccigliari brillava una gemma opalescente. La bocca era grande, a malapena delineata da labbra livide e sottili. Le vesti bianche che indossava non facevano altro che sottolineare il pallore spettrale della sua figura.
Shin sapeva bene che il Generale Demone del Veleno era un essere umano, eppure nemmeno ora che l'aveva davanti agli occhi riusciva a considerarlo tale: sembrava piuttosto la caricatura grottesca della statua che giaceva smembrata sul pavimento. Come se avesse seguito i suoi pensieri, Nāza inclinò la testa, scrutandolo. “Perché mi guardi così? Pensavi che fossi carino come i tuoi amichetti? Noi generali non siamo carini. Non lo siamo più da quattro secoli,” disse, soffocando una risata che pareva il sibilo di un animale notturno.
Quattro secoli. Questa è l'età di Nāza, il tempo che gli ha permesso di raggiungere la perfezione nella crudeltà.” Shin portava ancora impresse nell'animo le ferite che egli aveva inferto ai Samurai Troopers, agli abitanti di Tōkyō, al mare di Naruto. Anche se erano trascorsi alcuni anni, l'odore di morte che galleggiava sullo stretto continuava a penetrargli nelle narici attraverso gli incubi, straziandogli il cuore.
“Pensi che mi importi del tuo aspetto, dopo tutto quello che ci hai fatto?” disse con freddezza. La sua voce risuonò cupa, quasi irriconoscibile. “Basta la sua vicinanza a rendere un mostro anche me.
Nāza parve divertito, quando rispose: “Certo, perché sei un essere umano.”
“Mi chiedo come tu faccia a sapere di me.”
“Chi ha vissuto nel mondo degli yōja sa molte cose. Ma, a dire il vero, non ci vuole molto a sapere di te. Non hai difese, da te escono i pensieri così come entra liberamente il veleno.”
“Perché hai chiamato la mia armatura, se tanto mi disprezzi? Non ho chiesto io di vederti, Nāza.”
Gli occhi del generale si spalancarono, come se qualcosa l'avesse sorpreso. “Non chiamarmi con quel nome, ragazzino!” sibilò come in preda all'ira, ma subito dopo richiuse placidamente le palpebre, lasciando che dalle labbra sparisse la piega deforme del ghigno.
“Yakushi ha bisogno dell'acqua,” affermò infine con voce priva di sarcasmo.
“Yakushi?”
“La mia armatura,” spiegò Nāza mentre raccoglieva la ciotola dei medicamenti del guaritore di anime, accarezzandone l'interno. “Non posso lasciarla così,” aggiunse indicando gli altri frammenti della statua che giacevano sparpagliati intorno.
Shin scosse il capo, arretrando di un passo. Gli sembrava di assistere al delirio di un pazzo. Anche in passato, di fronte ai suoi atti crudeli, Shin aveva concluso che quell'essere non doveva mai essere stato del tutto sano di mente.
“Non posso fare altrimenti. L'armatura è il mio destino ed è mia ferma intenzione di portarlo a compimento,” insistette Nāza muovendosi a carponi verso di lui.
Shin sbatté le palpebre, perplesso, arretrando ancora. Il repentino cambiamento nei modi in cui il generale gli si rivolgeva lo rendeva, se possibile, ancora più inquietante. “Non gli è mai importato di nulla per raggiungere i suoi scopi, ma è un essere umano. Ho giurato che mai più avrei usato le armi contro un uomo. Che cosa devo fare, Kaosu?
Richiamati da quei pensieri, i rintocchi della vestizione si avvicinarono. Nāza si bloccò, come meravigliato. “È questa dunque la nuova voce della tua armatura?” S'inginocchiò, raggomitolandosi.
“Vattene, non ho intenzione di combattere con te!” esclamò Shin in preda alla disperazione quando, con un movimento fulmineo, Nāza gli afferrò la caviglia. Quando le unghie gli solcarono la pelle urlò: “Lasciami stare!”
“No, Suiko. Yakushi è più importante dei tuoi capricci.”
Ma quelle parole Shin le sentì a malapena. Il cuore aveva iniziato a pulsare lentamente e una violenta sensazione di freddo stava attanagliando il suo corpo a partire dagli arti.
“Devi perdonarmi, Suiko, ma non conosco altro modo per spiegarmi. Sopporta il dolore, io non ti lascerò. Nessuno muore tra le mie braccia. Almeno in questo, sono il migliore.”
Il torace del suo aguzzino si scosse in una nuova risata soffocata che liberò in Shin uno sciame di brividi. Gli stava salendo la febbre, lo capiva dal contrasto con la mano gelida che aveva iniziato ad accarezzargli la fronte.
“Suiko non ha niente a che fare con la te,” provò ad insistere mentre cercava di aprire le palpebre, che però non rispondevano al comando. Una violenta sensazione di nostalgia iniziò ad inondargli l'animo, poi alcune immagini iniziarono a venire a galla. Una risalì più in fretta delle altre, esplodendo come una bolla e liberando colori e sensazioni sconosciute.

Sto correndo con un secchio pieno d'acqua tra le mani, ma le spalle mi fanno male. Devo appoggiarlo sulla strada e fermarmi a respirare e sgranchire le dita. Sono guarito da poco dalla malattia, sono ancora debole. “Un miracolo,” hanno detto tutti, perché quella malattia ha ucciso molte persone e quelli che non sono morti hanno perduto la ragione.
Un venticello fresco fa frusciare le foglie rosse degli aceri, una si stacca e finisce sull'acqua. Faccio per toglierla, ma tra le increspature vedo qualcosa di strano. È il volto di un bambino che ha capelli di alghe e occhi di serpente. Mi spavento, poi ricordo che la malattia ha cambiato per sempre il mio aspetto. Non riesco proprio ad abituarmi a vedermi così. A pensarci bene, neanche queste mani che tremano ancora e sanno di erbe medicinali sembrano le mie.

Non sono io.” Shin tentò di divincolarsi come se volesse impedire ad sogno di trasformarsi in incubo. Ma ciò che stava vivendo non era un sogno. La voce di Nāza disse: “Sei nato nel diciannovesimo anno dell'era Tenbun, sotto il regno dell'imperatore Go-Nara. Il tuo nome è Naotoki Yamanouchi. Ora tu sei me, Suiko. Perdonami.”




Note

Iyo è l'antico nome della prefettura di Ehime. Nāza sta seguendo la strada del pellegrinaggio (henro) degli ottantotto templi di Shikoku . Parte di essi è dedicata a Yakushi Nyorai, il buddha guaritore delle anime.
Yakushi non è l'armatura del veleno, bensì della medicina. È stato Arago, stravolgendo la stessa personalità di Naotoki, a far sì che uccidesse anziché guarire (il confine tra “veleno” e “medicina” è piuttosto labile, dopotutto).
Mi sa che dopo questo trauma Naotoki resterà sempre un po' schizzato, ma almeno l'armatura si può recuperare, che ne dite? Io ci provo con l'aiuto di Shin!
Ringrazio per la fiducia accordata chi deciderà di proseguire con la lettura ^_^

Kourin

 

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Capitolo 2
*** Naaza ***


3. Nāza



Shin non sapeva per quanto tempo sarebbe rimasto in quel luogo. A dire il vero, non sapeva nemmeno se in quel luogo il tempo scorresse. Poteva benissimo trovarsi ancora in fondo al mare, come il Tarō Urashima della fiaba che tanto gli piaceva da piccolo.
“Lui era stato trattenuto nel regno del Re Drago dalla felicità. Che cosa mi trattiene qui?” si chiese osservando il rosario di ricordi che gli incatenava il braccio. Le perle creavano un groviglio inestricabile e incomprensibile, come l'armatura che portava il nome di Yakushi.
“Uno strumento di morte che guarisce. Uno strumento di guarigione che avvelena. Avevi due facce, come Suiko,” disse all'elmo che teneva in mano.
Iniziò a radunare con lo sguardo gli altri frammenti, trovò l'impugnatura di una spada. Bastò il debole scintillio dell'occhio del serpente per liberare in Shin il ricordo dei combattimenti con Nāza. Il tanfo del mare avvelenato a morte tornò a soffocargli i sensi, una fitta di dolore gli ghermì i visceri. Lasciò cadere l'elmo e portò le mani al viso ancora inumidito dalle lacrime del ragazzo di Satsuma, come per creare un sipario in grado di chiudere l'atto di quella tragedia.
Il buio, tuttavia, risultava ugualmente insopportabile.
“Ragazzi, dove siete? Ho bisogno di voi.”
Gradualmente, silenziose come fantasmi, affiorarono in lui nuove immagini. Erano ricordi che gli appartenevano, anche se non avrebbe potuto dire con esattezza a quando risalissero.
Battibeccava con Shū, che lo aveva rimproverato di preoccuparsi troppo. Osservava Tōma che, pensieroso, portava la mano al mento. Sperava nella certezza che vedeva delinearsi negli occhi di Seiji. Accoglieva il calore della mano di Ryō appoggiata sulla spalla.
Rincuorato, iniziò a schiudere le dita. Lentamente, come un bambino che spera di aver cambiato la realtà esprimendo un desiderio.
Con grande sorpresa di Shin, qualcosa era cambiato davvero. Vicino a Nāza c'era una sagoma bianca. Un animale acciambellato, dal pelo folto e le orecchie appuntite. Accortosi di essere fissato, le scosse e si alzò: si trattava di un lupo, per giunta di grandi dimensioni. Nei suoi occhi non era riflessa la luce la luna, ma un cielo dorato illuminato da astri sconosciuti. Fu attraverso quello spazio che la voce di Kaosu si propagò fino dentro Shin, proprio come quando anni prima gli parlava in sogno.
“Suiko, vestire l'armatura è il destino dei Samurai Troopers, ma per i guerrieri che Arago aveva reso suoi servitori non è diverso. Quando le armature sono andate distrutte non sono stati liberati dal loro destino, ma ne sono stati privati. È tuo compito riforgiare Yakushi per permettere al guerriero che la indosserà di portare a termine la sua esistenza umana.”
Shin si rese conto di quanto fosse cambiato. Le parole di Kaosu erano sempre state per lui una guida e una fonte di sollievo nell'inquietudine, invece ora gli apparivano dure e spietate.
“Kaosu,” rispose, “Io ho imparato ad accettare il destino di cui parli. Convivo ogni giorno con la presenza di Suiko, ma faccio fatica a non odiarla, perché ho imparato che è uno strumento di distruzione. Non sono la persona adatta per un compito del genere.”
“Nessun altro cuore può toccare i ricordi di Tei. L'obbedienza che presiede al potere della medicina può risvegliarsi pienamente solo se sorretta dalla fiducia. Se tu non gliela accordassi, alimenteresti la paura che si annida in entrambi i vostri animi.”
Shin si sentì travolgere dall'amarezza, quando il lupo gli si avvicinò e gli leccò la mano. Shin lo accarezzò. “Kaosu, mi ritieni un codardo?”
“No Suiko, affatto. Ti chiedo perdono, perché di nuovo obbligo voi Samurai Troopers a riparare ad un mio sbaglio. Più di quattrocento anni fa, gli scontri tra i signori della guerra avevano fatto sì che a Satsuma nascesse un ragazzo fuori dal comune. Il suo cuore, Tei, era immaturo e solo. Arago ne approfittò subito e lo prese con sé. Fu un mio grave errore credere di avere spogliato Arago della sua forza dividendo in nove parti la sua armatura.”
Il lupo indietreggiò, poi iniziò ad ululare. Lo shakujō di Kaosu piombò dall'alto piantandosi davanti a Shin. Gli anelli tintinnarono, lo squarcio sul soffitto si allargò come una macchia rivelando un cielo albeggiante dove coesistevano il sole e la luna. Le assi delle pareti semidistrutte ondeggiarono fino a trasformarsi in drappi di seta rossi e bruni, decorati da paesaggi autunnali e uccelli in volo. Pregni d'incenso, mossi da correnti d'aria umide e calde, i raffinati tessuti svelavano e nascondevano rocce in cui erano scolpiti misteriosi volti. Sebbene nel cielo non ci fossero nubi, tutt'intorno si udiva il suono delle gocce d'acqua che scivolavano lungo le foglie.
Nāza giaceva ancora addormentato. Si era spostato su un fianco e ora i suoi capelli verdastri formavano un tutt'uno col tappeto di muschio che copriva l'umido pavimento di roccia. Sulla sua fronte Tei brillava pura, simile ad un gioiello. Il lupo bianco gli era tornato accanto, come a volerlo proteggere.
Non ho scelta. Non posso cancellare le armature, posso solo cancellare la paura del loro potere contraddittorio. Se non lo farò, non uscirò mai da questo luogo.
Shin disse: “Riforgerò Yakushi. Il mio cuore troverà la forza nella fiducia che i Samurai Troopers hanno sempre riposto in me.”
L'animale reclinò all'indietro le orecchie, poi si diresse verso un drappo di seta più scuro degli altri e svanì nella natura autunnale che lo decorava, quasi fosse stato un precoce fiocco di neve.

Bastò toccare il pettorale di Yakushi perché si ricomponesse. I ricordi, divenuti metallo liquido, rinsaldarono le fratture e ravvivarono ciò che era apparso irrimediabilmente corroso. Il verde assunse tonalità più chiare, il rosso s'ingentilì di sfumature ramate. Alcune parti si riplasmarono del tutto e la loro superficie divenne grigio metallo.
Elemento dopo elemento, l'armatura acquisì la sua nuova forma. L'elmo mantenne la decorazione fiammeggiante, gli speroni che spuntavano da spalle ed i gambali si ritrassero, il lungo fiancale si aprì in tre parti, snellendosi.
Quando arrivò il momento di toccare le spade, Shin non poté fare a meno di pensare per l'ennesima volta: “Sono armi che hanno ucciso esseri umani e altre creature viventi.
Per un attimo le lame parvero rigenerarsi, ma il metallo che le costituiva non s'indurì. Ondeggiava come se fosse vivo, mentre le impugnature si appiattivano e si aprivano in due, sibilando. Shin arretrò di scatto, rendendosi conto che le spade si stavano trasformando in cobra: la loro pelle era fatta di squame dorate, gli occhi erano rubini. Si avvolsero contemporaneamente intorno all'armatura, le bocche spalancate ad esporre i denti venefici, come se fossero un unico essere a sei teste.
Quest'armatura non ha fiducia in me, perché io non ho fiducia nel suo cuore.
Shin si avvicinò al Generale del Veleno, gli si inginocchiò accanto e gli pose la mano sulla fronte. “Naotoki,” chiamò.
Lui aprì gli occhi. “Ragazzino...” La voce adulta uscì dal corpo giovane, facendolo tremare. Si guardò intorno guardingo, poi assottigliò le palpebre violacee, fissando l'armatura incompleta.
“Che cosa ci accomuna?” chiese Shin. “La tristezza, forse? Dopotutto anche tu l'avevi provata quando hai indossato per la prima volta Yakushi.”
Il generale si alzò seduto, senza annuire né smentire.
“Tu sei passato dalla parte di Arago e io non riesco a farmene una ragione,” proseguì Shin. “Mi serve quel ricordo.”
Nāza rispose: “I ricordi di Satsuma erano quanto di più prezioso io avessi. Sono dovuto scendere nel mondo degli uomini per raccoglierli uno ad uno, seguendo i sentieri dei pellegrini. Ma al mio dolce Suiko non bastano,” concluse con un ghigno. “Il mio dolce Suiko vuole di più!” Esclamò piegando il collo all'indietro e prorompendo in una risata. Shin lo lasciò ridere finché gli mancò il fiato, poi attese che si riprendesse in mezzo a rantoli e colpi di tosse.
Dopo che fu rimasto per un po' in silenzio, Nāza iniziò a raschiare il muschio con le unghie. Alcune si spezzarono e il sangue si sparse nei solchi, ma lui sembrava talmente concentrato nei suoi pensieri da non avvertire dolore.
All'improvviso si alzò e si tolse la giacca in un solo gesto, quasi strappandola, restando a torso nudo. “Guarda bene, Suiko!” ordinò.
Shin vide che una cicatrice gli solcava l'addome. Probabilmente era stata inferta da una spada.
“Non sono mai riuscito a guarirla,” rivelò Nāza. “Ma non so nemmeno come me la sono procurata. È un ricordo che il mare di Iyo non mi ha mai restituito. Pensa, Suiko, nella mia esistenza di Generale Demone del Veleno sono stato così malvagio da attirare perfino il suo odio.”
Shin però si chiedeva: “Che razza di discorso sta facendo?
“Dev'essere la mia punizione,” continuò Nāza guardandosi le mani, mentre la voce si faceva più acuta. “Vivere le conseguenze dell'odio senza sapere il perché.”
Quei ricordi sono sempre rimasti dentro di lui, li ha portati con sé nel mondo degli yōja, ora li conserva da qualche parte nel suo cuore.
“Perché?” chiese Nāza fissando i drappi di seta.
Rispose il verso stridente, quasi assordante, di un uccello, seguito da un frenetico battito d'ali e dal rumore delle fronde strappate con violenza. Nāza portò le mani alle orecchie e urlò. Il grido feroce attirò una folata di vento che sembrò lacerare la barriera effimera che li proteggeva dall'ignoto, mentre Tei diveniva intermittente come il bagliore di una lucciola.
Shin chiamò: “Naotoki!”
Se è vero che Tei e Shin sono collegati, deve esserci un modo per recuperare quel ricordo. Shū, Seiji, Tōma, Ryō... Aiutatemi!
L'altro lo fissò con astio. “Non so perché io ti permetta di chiamarmi per nome, ragazz...” Ma Shin aveva già appoggiato la fronte su quella di lui, tenendolo fermo per i capelli. Chiuse gli occhi, tornò a cercare la voce di Suiko in mezzo allo stridore e al caos, finché il bagliore azzurro della Fede iniziò a guidarlo.
Con la mano sinistra toccò l'addome del Generale Demone, come se le dita dovessero penetrare all'interno della cicatrice. Gradualmente, iniziò a riconoscere la forma dei ricordi rimasti sopiti per quattro secoli.
Aiutatemi,” ripeteva, mentre l'animo tornava a respirare salsedine e morte.


Non sono tornato a casa. Non so il perché. Forse ho paura, forse è giusto che sia così. Quando guardo la cicatrice che mi segna il fianco, mi chiedo se sono un essere umano oppure un demone, il figlio di una donna serpente che stregò mio padre in una notte d'estate. Forse il mio posto non era sulle spiagge dei pescatori né dentro ai castelli dei samurai, ma sui monti, dove dimorano gli spiriti.
Eppure mi trovo ancora vicino al mare, in mezzo agli esseri umani. I monaci che mi hanno trovato sull'isola mi hanno portato con loro senza fare domande. Mi hanno dato una veste che un tempo doveva essere stata nera. Mi è grande e mi copre come il silenzio in cui mi sono avvolto per nascondere il segreto che porto.
Ogni giorno le correnti restituiscono alle spiagge di Iyo i cadaveri delle battaglie. I monaci li raccolgono e li seppelliscono. Ogni sera mi perdo nelle litanie funebri, finché il vento ne disperde gli echi a sud insieme ai sentimenti che avevano condotto quelle persone in mare.
La mia famiglia mi manca, ma sento di non poter tornare. Non ora.

Anche oggi vedo arrivare quello strano ragazzo. Veste abiti grigi più malandati dei miei e porta sempre con sé una sacca. Si ferma al limitare della spiaggia e mi osserva a distanza da sotto la zazzera che gli ricade sugli occhi, senza dire nulla.
Stanco di chiedermi se stia cercando me o se abbia soltanto fame, stamattina ho deciso di andargli incontro. Nascosto nella manica porto il riso che ho messo da parte. È il mio pranzo, ma posso benissimo farne a meno.
Mi avvicino camminando lentamente tra i sassi. Lui non fugge: resta fermo, come se mi aspettasse. Quando ci separa solo un mucchio di sterpi, mi rendo conto di quanto sia grande. Per la mia età sono piuttosto alto, eppure credo di non arrivargli nemmeno al torace.
Gli porgo il riso, lui risponde con un ghigno che spaventerebbe chiunque, ma non me. So che non può essere diversamente perché gli mancano dei denti. Quando le sue labbra carnose e storte si muovono, esce un suono che assomiglia ad un latrato: “Non ne ho bisogno.”
Vuoi che ti guarisca? Guarda che lo vedo, che non sei in buona salute.”
Non ne ho bisogno.”
Allora perché vieni qui ogni giorno?”
Quel ragazzo abbassa la testa. Le sue spalle si muovono come se ridesse, ma io sento solo il sibilo del vento. “Volevo vederti, ragazzo-serpente,” dice infine, colpendomi a tradimento con un ghigno ampio e tagliente.
Non provare a prendermi in giro!” Lascio cadere la ciotola, stringo i pugni. “Anche se sei grande e grosso non mi fai paura. Io... io...” Vorrei dire 'Sono un samurai', ma le parole mi si bloccano nella gola.
Tu sei come me. Sono stato cresciuto da un monaco, nessuno mi voleva perché sembravo un mostro. Ma lui è morto. Ormai da tanto tempo. A causa di un'armatura.”
Faccio un passo indietro, spaventato. “Che ne sai, tu?”
Le armature danno la forza per realizzare i desideri. Ma non qui. Nel mondo degli esseri umani portano sventura ed infelicità. Guardati, ti definisci un guerriero? Qui non avrai mai ricompensa per ciò che vali.”
Resto accecato, come se le sue parole avessero spalancato all'improvviso una porta sul sole di mezzogiorno. Osservo le mie mani ossute macchiate dai medicamenti, gli orli lisi delle vesti, i sandali consunti, il riso sparso a terra.
Quando avrai deciso di usare la vera forza che possiedi, tornerò per mostrarti la via per Bonnōkyō,” dice il ragazzo prima di andarsene. I suoi capelli non paiono diversi dagli sterpi seccati dal vento, né i suoi vestiti paiono diversi dalle pietre erose dal sale, tanto che lui sembra svanire nel nulla.
Raccolgo la ciotola di legno, la nascondo nella manica e corro verso il tempio. Mi chiudo in un ripostiglio, controllo la sfera che brilla nel palmo della mia mano. Non ha perso il suo candore. “Tei,” continua a dirmi con insistenza. Allora richiudo le dita, abbraccio le ginocchia e attendo che trascorra l'autunno.


Un fiocco di neve trascinato dal vento tocca la mia guancia. La scia umida che lascia sulla pelle mi dà sollievo: presto la guerra si fermerà e le armature non saranno più necessarie.
Tutti dicono che sarà un inverno duro, perché non c'è da mangiare. Il riso è andato al bakufu, il grano è andato ai signori. A contadini e pescatori è rimasto ben poco da spartire.
Mentre cammino verso il villaggio con la cesta delle erbe medicinali, continuo a guardarmi intorno. Non ho più visto in giro quello strano ragazzo, ma ho la sensazione che continui ad osservarmi sia quando tento di riscaldarmi al sole di giorno che quando tremo di freddo la notte.
Forse dovrei dimenticarlo e preoccuparmi piuttosto dei briganti. Sono sempre più numerosi, dicono che molti di loro erano samurai. Ma come può un samurai divenire un brigante? Più ci penso e più mi sembra una cosa impossibile.
I miei pensieri vengono interrotti da una folata di vento che porta con sé l'odore di legno bruciato. Guardo verso il villaggio, vedo il fumo che si alza mentre il refolo successivo mi schiaffeggia con grida e spari.
Inizio a correre in quella direzione, senza prestare attenzione a chi, fuggendo, mi mette in guardia. “Naotoki, vattene, scappa!” oppure “Naotoki, sei impazzito, ti uccideranno!” Dicono. Ma io non li ascolto e continuo ad avanzare.
A darmi il benvenuto ci sono solo scintille e ceneri spazzate via dalle case deserte. Il vento non si cura dei gemiti dei pescatori che giacciono feriti a morte, né del pianto delle donne caricate sui carri insieme a pesce essiccato e giare di sake.
Appoggio la cesta e inizio a soccorrere chi sanguina, finché un brigante che sta cercando qualcosa in mezzo al crepitare delle fiamme mi nota. Veste abiti lerci, impugna una lancia. “Che diavolo stai facendo, ragazzino?”
Di lui non ne facciamo niente, è pure brutto,” dice un secondo brigante che sopraggiunge alle sue spalle. È seminudo, ma porta un imponente elmo decorato con corna di cervo.
Aspetta,” si intromette un terzo che imbraccia un archibugio. “Quello dev'essere il ragazzino del tempio. Potrebbe servire, prendetelo!”
Il primo brigante mi afferra per un braccio e mi trascina verso i carri, dove sono radunati tutti i suoi compagni. Sono un'accozzaglia di guerrieri senza insegne, ma sono bene armati e sembrano organizzati, proprio come dei mercenari. Come ho potuto essere così stupido da volermi unire a gente simile?
Vengo spinto in avanti. Non riesco ad evitare di cadere, ma rialzo subito lo sguardo. Nei volti degli uomini che mi scrutano leggo disprezzo misto a divertimento. Iniziano a discutere se io sia davvero capace di fare qualcosa e se sia il caso di uccidere qualche donna per lasciarmi un posto sul carro.
Inizio a provare disgusto, ai miei sentimenti fa eco la voce dell'armatura. Risuona in me con un ritmo crescente, come nel giorno in cui la trovai. Mi convinco che la sua forza è necessaria, perché al momento nessun altro può salvare queste persone.
Quando ormai nessuno presta più attenzione a me, cerco la sfera e sussurro: “Vestizione.”
Per un attimo tutto diviene buio, poi l'armatura risponde saldandosi al mio corpo. Quando riemergo nella luce, la tracotanza dei briganti svanisce. Vedo le loro gambe tremare, alcuni di loro cadono all'indietro e provano a scappare.
Che nessuno fugga!” è il grido del capo, che si fa avanti su un cavallo scuro elegantemente bardato. Indossa un elmo laccato di rosso ornato da una mezzaluna, come quello di un vero signore, chissà se lo è mai stato. Sembra davvero non avere paura. Nei suoi occhi neri leggo solo la brama di affrontarmi, quando chiede: “Non importa quanto bella sia la tua armatura. Come l'hai ottenuta? Hai fatto un patto con un demone o hai semplicemente spogliato qualche cadavere?”
E tu, quella che indossi, come l'hai avuta? Non puoi essere un samurai!”
Ho ucciso chi la possedeva. Ma la tua è più bella e ucciderò anche te per poterla indossare, ragazzino.” Si volge ai suoi e ordina: “Avanti, attaccatelo!”
Subito le pallottole degli archibugi mi colpiscono, ma senza scalfirmi.
Sfodero le spade che porto ai fianchi. Sono completamente diverse da quelle di chi mi sta attaccando e le loro lame risplendono in maniera incredibile. Non ho mai combattuto con due spade, eppure le sento come se fossero il prolungamento delle mie braccia. Riesco a disarmare tutti i briganti che mi attaccano. Quando scrollo il loro sangue, mi accorgo che le lame restano bagnate, come se trasudassero qualcosa, ma non ho il tempo per rifletterci su.
È tutto quello che sai fare?” Mi schernisce il capo. È sceso da cavallo e si sta avvicinando. Ride, ma la risata viene interrotta dalle urla degli uomini che ho colpito. Si contorcono a terra, loro ferite sembrano bruciare. Come se fossero stati avvelenati.
Le mani mi tremano, provo a rinfoderare le spade, non ci riesco, allora le pianto in terra e guardo le mie mani: sono stato davvero io a fare una cosa del genere? Eppure non avevo intenzione di uccidere!
Altri briganti se la danno a gambe, ma il capo si fa passare una lancia e trafigge alla gola il primo, che cade bloccando la fuga. “L'ho già detto, non siamo codardi! Uccidete tutti quelli che trovate vivi, del ragazzino mi occupo io!”
No! Non vi permetterò di uccidere altra gente!”
Allora devi uccidere me. Non credevo che alla tua età sapessi già usare i trucchetti del veleno. Chi te l'ha insegnato? Da dove vieni veramente? Parla, non essere timido come un bravo ragazzo, perché non lo sei.”
Così dicendo mi attacca, io paro il colpo con le braccia. Sfodero un'altra spada, miro al suo fianco, ma lui para con la spada corta, arretra e torna all'attacco. È feroce e agile allo stesso tempo, così mi trovo ad indietreggiare respingendo i suoi assalti senza riuscire a scalfirlo. Mi rendo conto di stare perdendo troppo tempo. Respiro la paura delle persone che stanno per venire uccise, le loro grida mi raggiungono una dopo l'altra e si accumulano nella testa insieme a quelle dei briganti che esalano l'ultimo respiro nel veleno. Il mio avversario ne approfitta per colpirmi il polso. La lama non penetra nella carne, ma avverto ugualmente un dolore intenso, che quasi mi fa lasciare la presa. Proprio in quel punto, dalla mia armatura inizia a colare un liquido rossastro.
Il capo dei briganti se ne accorge e balza all'indietro per mettersi in salvo. Ma appena quel liquido viene a contatto con il vento, si trasforma in una nube che investe chiunque si trovi sulla sua traiettoria. D'istinto porto le braccia davanti al volto.
Tutto avviene nell'attimo di un respiro e, quando mi guardo di nuovo intorno, sono circondato da cadaveri. Gli sterpi sono diventati bianchi come sale e si spezzano al minimo tocco. Non c'è traccia nemmeno di insetti.
Ma tu… chi diavolo sei?” Rantola il mio avversario in mezzo agli spasmi. Il suo volto è sfigurato come se avesse attraversato il fuoco.
Non... non lo so,” rispondo rivolgendomi all'orizzonte.
Mi spoglio dell'armatura, raccolgo le spade che avevo piantato in terra e, trascinando le lame sulle rocce, raggiungo la spiaggia. Seguo il limite delle onde per un tempo che mi pare infinito, finché, stremato, cado. Allora osservo la posizione del sole e mi rendo conto che mi stavo dirigendo verso sud. Inizio a ridere senza riuscire a fermarmi.
Ce n'è voluto prima che conoscessi il vero potere della tua armatura. Se avessi chiesto a me, avresti risparmiato tutta questa messinscena.”
Quel ragazzo è di nuovo davanti a me.
Così sembra,” rispondo sorridendogli, come se fosse un amico. Egli mi tende la mano, grande e tozza. Ma io non l'afferro e mi scaglio contro di lui con tutta la forza che mi rimane. Non riesco a sbilanciarlo, tuttavia il sacco che porta in spalla cade sulla sabbia, lasciando rotolare fuori un elmo scuro. La maschera rossa mostra denti affilati, dietro agli occhi ondeggiano fiamme purpuree.
Maledetto!” urlo inorridito. “Che cosa sei, un demone?” Gli afferro i capelli per poterlo vedere negli occhi, ma trovo solo delle cavità scure.
Il ragazzo allora mi prende per la testa e mi solleva da terra con facilità, come se fossi una piuma. “L'armatura che indossi mi appartiene e di conseguenza anche tu sei mio!”
Mi aggrappo al braccio che m'imprigiona, ma non posso fare nulla. La mia fronte brucia. Bruciano la mia malattia, la casa in cui ero nato, le navi da guerra che mi avevano condotto fin qui. Tutto diventa cenere grigia che si sparge nel mare di Iyo.

Intorno ogni cosa è rossa come il sangue. Provo a sfregarmi gli occhi, ma non cambia nulla.
Davanti a me si sta spalancando un cancello. È talmente gigantesco che riesce ad inghiottire il vento. Il cigolio dei cardini si confonde con i tuoni che squarciano un cielo, ai lati le correnti del mare ripiegano in profondi vortici.
La voce che mi parla proviene proprio da lì.“Che cosa aspetti a seguirmi? Questa è la strada per Bonnōkyō, la città dei desideri.”
Chi sei?” chiedo urlando a più non posso, per non lasciarmi cancellare dal vento.
Sono Arago, il futuro imperatore degli yōja e degli esseri umani. È un grande privilegio quello che ti sto offrendo, ragazzino.”
Tu... Voi sapete chi sono?”
Il tuo nome è Nāza, sei il Generale Demone del Veleno. Comanderai gli altri generali, che a loro volta comanderanno i miei eserciti. Diverrai un guerriero leggendario e otterrai ricompense e territori.”
Non ricordo,” urlo. “Io non ricordo di avervi giurato obbedienza.”
Una risata cavernosa si propaga attraverso i contorni delle nubi, danzando tra i lampi. “Nāza, la tua Obbedienza mi appartiene, sono il tuo Signore, è un dato di fatto.”
Sento di non potermi opporre, eppure preferirei non varcare quel cancello. Mi guardo intorno, in terra vedo due spade. Riesco a raccoglierne una prima che il vuoto che si sta creando tra le correnti mi risucchi. Provo orrore di fronte a ciò che ho davanti eppure, passo dopo passo, le mie gambe iniziano ad avanzare nell'acqua gelida.
No!” grido, ma la tempesta mi strappa il fiato. Impugno la spada, con forza. Sento di preferire morire piuttosto che assecondare quella volontà. Anche se il mio braccio trema. Anche se forse, lontano, ci sono persone che piangeranno il mio gesto.
No!” ripeto per l'ultima volta piantandomi la lama nell'addome. Mi attraversa da parte a parte, lacerandomi le viscere finché le gambe, finalmente, si fermano.
Dicono che chi sta per morire riveda la propria vita, ma io non vedo nulla mentre cado in avanti. Non so se la mia vita sia stata quella di un samurai oppure quella di un criminale. Di certo non quella di un buddha perché, se così fosse, non sarei morto di spada. Mi torna in mente il sorriso di una statua, chissà quando l'avevo vista, aveva una gemma bianca incastonata sulla fronte. Dalle mie labbra escono solo due sillabe: “Ya… ku...”. Poi della mia esistenza nel mondo umano non resta più traccia.










 

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Capitolo 3
*** Naotoki ***


2. Naotoki




Suiko era cresciuto dai tempi della guerra con Arago, ma aveva conservato un volto da fanciullo. I capelli castani ricadevano all'indietro lasciando scoperta la fronte, su cui fioche pennellate di luce azzurra tracciavano l'ideogramma 'Shin', la Fede. Le sopracciglia erano corrugate come a formare una strozzatura: Naotoki provò a sfiorarle, ma i solchi non scomparvero. Allora rinunciò e reclinò la testa all'indietro, in modo da esporsi anch'egli alla luce lunare. Il leggero tepore che gli irrorava la fronte gli fece capire che anche 'Tei', il cuore di Obbedienza, si stava risvegliando. Produceva un suono lieve, come il tintinnio di un fragile fūrin rimasto appeso in una casa abbandonata in fretta e furia dai proprietari. Era proprio grazie a quel suono che i ricordi lasciati indietro trovavano il coraggio di uscire dal buio: se avessero seguito la corrente, avrebbero potuto finalmente ritrovare una direzione.
Naotoki depose Suiko sul pavimento, sorprendendosi della propria delicatezza. “Quando è stata l'ultima volta che mi sono preso cura di una persona? Lo facevo davvero?” Assalito da una violenta sensazione di déjà-vu, si lasciò cadere accanto a Suiko. Cercò la sua mano, intrecciò quelle dita divenute fredde con le sue. Poi, un po' per volta, iniziò a ricordare.

Sono tornato!” annuncio prima di entrare nel tempio. Riempio la ciotola con l'acqua limpida che ho attinto e la deposito ai piedi di Yakushi. Sembra che il buddha mi voglia dire qualcosa, ma i suoi occhi sporgenti sono chiusi e il suo sorriso è sempre così difficile da capire. Mi inchino per ringraziarlo, poi prendo l'acqua rimasta e vado a preparare le medicine.
Prima di tutto devo far bollire la corteccia del salice, che serve per far passare la febbre ai feriti. Ne sono arrivati molti in questi giorni e tra loro c'è anche il fratello maggiore di mio padre. La lancia del nemico gli ha lacerato una gamba mentre combatteva per i nostri signori, gli Shimazu. Ora non può camminare, ma si riprenderà.
Mentre ravvivo il fuoco penso alla nostra famiglia, che neanche stavolta verrà ricompensata. Nella capitale avremmo già ottenuto terre, servitori e uno stemma da portare in battaglia. So queste cose perché parlo spesso con i marinai che arrivano da Akashi. Mi raccontano della saggezza dello shōgun, dei Kōno che hanno l'onore di servirlo, ma anche della flotta invincibile dei Murakami e della loro alleanza con Motonari Mōri. Ho ascoltato molte volte la storia della conquista di Aki: sarebbe bellissimo se anche noi Yamanouchi potessimo portare lo stemma in una battaglia leggendaria. Se potessi, io sceglierei un serpente d'argento, così i ragazzi del villaggio la smetterebbero di prendermi in giro per il mio aspetto. Mica è colpa mia se i miei occhi sono così e poi la malattia non mi ha fatto diventare pazzo, chiunque mi conosce bene lo può confermare.
A che cosa stai pensando, Naotoki?”
Trasalisco. Il Maestro è in piedi davanti a me, illuminato dai raggi del mattino: non riesco a vedere il suo volto, ma so che mi sta sorridendo.
Non so cosa rispondere, stavo pensando a troppe cose. Quando apro bocca, dice: “Continuo io, tu vai a cambiare le fasciature.”
Il Maestro è il monaco che mi ha guarito. Conosce i trattati sulle piante medicinali conservati nella Capitale e anche i rimedi portati dai barbari dai capelli rossi. Io e la mia famiglia gli dobbiamo molto, è per questo che sono rimasto al tempio ad aiutarlo.
Per fortuna sei arrivato!” esclama mio zio Ichirō quando spalanco le porte dell'infermeria. L'aria tiepida d'autunno sembra avermi seguito, perché tutti mi salutano con un sorriso.
Accanto c'è il vecchio Yōhei, che ha ferite alla testa e alle braccia. “Quando arrivi tu l'odore della malattia sparisce! Naotoki, sei proprio uno strano ragazzino,” dice. “Hai mai pensato di rimanere al tempio? Da quel che si sa, il Maestro non ha discepoli.”
Io non ho dubbi quando rispondo: “Sono un guerriero. Come voi e come mio padre!”
Lo zio però non la prende bene. “Hai solo dieci anni, sei un bambino. Hai tanta voglia di portare addosso l'odore della morte, tu che le sei appena scampato?”
Nella stanza ora tutti tacciono. Mi mordo le labbra e abbasso gli occhi, poi inizio con le medicazioni. Quando passo l'aceto sulla ferita di Ichirō, lui grida: “Piano, fa un male cane! Mi stai uccidendo!”
Allora alzo lo sguardo e sussurro:“Visto che ne sono capace?”
Lo zio mi guarda e ride, poi rido anch'io e infine scoppiano a ridere tutti.
Il fūrin tintinna, un refolo di vento stacca altre foglie dai rami. Forse uno spirito maligno aveva provato ad entrare, ma poi se n'è andato.

Iniziò a sentirsi meglio. I brividi erano cessati, tuttavia Shin si sentiva pesantemente intorpidito. Con un grande sforzo aprì gli occhi, trovandosi ad affrontare la luna. Era abbagliante: per sottrarsi alla sua intensità provò a voltarsi, ma non ci riuscì e, quando ebbe richiuso le palpebre, continuò a vedere immagini che non gli appartenevano. Erano belle, non potevano dirsi incubi: la sabbia calda di una spiaggia su cui crescevano le palme, le ceneri di un vulcano che s'innalzavano nel cielo azzurro, le risate di bambini che giocavano nudi con le onde del mare. Un velo di nubi avvolgeva la partenza di uomini che indossavano armature di fanteria. Quando le loro lance furono scomparse all'orizzonte, tutto divenne nebbia fitta. Shin venne colto dall'improvvisa sensazione di cadere nel vuoto, ma una mano strinse con forza la sua e il panico svanì, dissolvendosi nel mare.

L'acqua mi avvolge in un abbraccio freddo e liberatorio. Con determinazione scendo sempre più in basso finché le mani riescono ad afferrare le alghe che ricoprono il fondale. Le osservo mentre ondeggiano lentamente, mi lascio ipnotizzare dal ritmo scandito dalla corrente. Non ho intenzione di risalire, quaggiù sto bene. L'apnea soffoca i pensieri che mi tormentano, l'acqua salata sostituisce le lacrime che i miei occhi non versano.
Ichirō è morto. È morto anche suo figlio, che ha cercato di difenderlo. Ciò che ho fatto finora è stato inutile, curare le persone non basta per proteggerle. Lascio la presa, risalgo seguendo i raggi del sole. Quando riemergo in superficie, l'aria mi prende alla sprovvista e fatico a ritrovare il ritmo del mio stesso respiro.
In lontananza il Monte Sakura mi osserva impassibile. Io sto ansimando, la mia famiglia vive nell'angoscia, ma dal suo cratere non escono né fumo né cenere. Sarebbe bello se potessi diventare come lui. Sarebbe bello se potessi diventare un samurai.
Torno a riva, mi rivesto senza asciugarmi e corro verso casa. La si riconosce subito, è la più grande in mezzo alle case dei pescatori. Cerco mio padre per comunicargli il mio proposito, ma è riunito con i parenti. Se fossi solo un po' più grande potrei discutere con loro, ma ho tredici anni e sono considerato ancora un bambino. Sospiro, appoggio la schiena su un pilastro di legno e lascio che il sole mi riscaldi.
Le voci degli uomini mi raggiungono accavallandosi l'una sull'altra, come se fossero onde mosse da venti di rabbia e frustrazione.
La prossima volta che attaccheranno Mōri toccherà a noi.”
È questa la ricompensa che abbiamo nel servire gli Shimazu? Morire come cani, senza che nessuno riconosca il valore di una famiglia di guerrieri?”
Possiamo combattere a pagamento, che differenza fa a questo punto?”
Gli Utsunomiya hanno attaccato Iyo e sanno che Mōri non starà a guardare. Stanno arruolando mercenari per la flotta.”
È una buona idea. Non tradiremmo gli Shimazu e avremmo possibilità di vittoria. Sembra che i Murakami stavolta non si schiereranno, la flotta di Mōri sarà dimezzata.”
No! Abbiamo appena combattuto a caro prezzo, non possiamo permetterci di partire di nuovo. Ora dobbiamo occuparci anche delle figlie di Ichirō. Lui non avrebbe voluto che abbandonassimo la famiglia in questo momento.”
Quest'ultima è la voce di Jirō, mio padre. Le sue parole restano nella mia testa, continuano a ripetersi per tutta la sera e, quando scende la notte, non mi lasciano dormire. A pensarci bene, anche se volessi farlo, non ci riuscirei: in troppi sotto questo tetto stanno piangendo. Si dice che io so far stare bene le persone, ma non è vero, o almeno non lo è del tutto. Stasera, ad esempio, non posso fare nulla. Non mi posso nemmeno muovere, perché le mie sorelline si sono aggrappate ai miei vestiti. Non mi resta che guardare la luna di settembre che spunta dal promontorio e rischiara la stanza. È proprio bella. I miei pensieri tornano nella Capitale, dove c'è chi la contempla declamando poesie. Che volto avrà lo shōgun? Anch'egli starà osservando la luna dal porticato del suo palazzo?
Il respiro delle bambine si è fatto profondo, finalmente si sono addormentate. Facendo attenzione a non svegliarle, mi alzo e vado a cercare una spada. So dove è riposta quella di mio padre.
La trovo in mezzo alle lance e agli attrezzi da pesca. Con cautela la sfodero, ne osservo la lama. Non è lucente come quelle delle spade dei samurai. Il fodero è semplice, così come l'impugnatura.
Che cosa stai facendo?” chiede mio padre.
Non mi sorprendo di saperlo alzato, né mi sorprendo della disapprovazione che sento nella sua voce. Rinfodero la lama, allo scatto lascio seguire un lungo silenzio, poi rispondo: “Ho tredici anni, voglio andare a combattere.”
Lui si avvicina e afferma: “Non è ancora il tempo.”
Sei stato tu ad istruirmi nell'uso della spada.”
Non ti ho istruito a rubarla!”
Uno schiaffo raggiunge la mia guancia e mi fa barcollare all'indietro.“Io voglio andare a combattere,” insisto stringendo i pugni.
Mio padre ordina:“Dammi la spada.” Sarà a causa del buio, ma i suoi occhi sono lucidi e non riesco a capire che cosa stia pensando.“Dammela,” ripete. “Il buddha ti ha riportato indietro tre anni fa, non posso permettere che tu vada incontro alla morte ora. Sei troppo giovane, Naotoki.”
Non posso fare altro che restituire la spada, ma non appena le mani di mio padre la serrano in pugno, io inizio ad arretrare verso l'uscita. Raccolgo tutta la mia determinazione e affermo: “Tornerò con una spada da samurai e vestirò un'armatura!”
Inizio a correre verso il porto mentre intorno tutto è silenzio. Il mare, denso e immobile, sembra una macchia d'inchiostro che si spande su quello che avrebbe dovuto essere uno splendido dipinto. Mi accompagnano il battito impazzito del cuore e il respiro in affanno. Perché provo questa sensazione? Non sto scappando, sto correndo incontro alla battaglia!

Un sussulto risvegliò Naotoki. Dal volto di Suiko scendevano delle lacrime. Ne raccolse una e la lasciò scivolare fino sul palmo della mano, dove si trasformò in una perla. “Non ho proprio mai capito niente, delle armature.

Indosso delle protezioni malandate e sono rannicchiato dietro gli scudi pesanti sorretti dai miei compagni. Non sono armati meglio di me né sembrano particolarmente forti, ma forse è un bene, perché stando in mezzo ai deboli avrò la possibilità di mettermi in luce.
Una nube passa sopra le nostre teste, d'istinto guardo il cielo. Presto verrà attraversato dalle frecce, sento già tendersi le corde degli archi. Controllo un'ultima volta la spada che mi accompagnerà nell'assalto.
L'ordine lanciato dal comandante scivola sul mare appena mosso. Resto al mio posto mentre le frecce sibilano tutt'intorno, intercalate dagli spari degli archibugi. Tutto sembra procedere per il meglio, quando un grido lascia tutti sgomenti.
Dalle isole vicine spuntano vele bianche che portano lo stemma dei Murakami. Si muovono più velocemente delle nubi scure che avanzano dalla terraferma. Con esse sento arrivare la paura. Io non ho paura, ma sento il suo odore e la sua voce provenire da chi ho intorno.
Non mi posso tirare indietro. Devo diventare un vero guerriero e scrollare il sangue dell'avversario da questa spada. Al momento dell'abbordaggio scatto in avanti cercando il nemico. Punto un ragazzo che impugna una lancia. Ha i capelli castani stretti da un hachimaki e occhi attraversati da riflessi verdi. Assumo la posizione di guardia, pronto ad attaccare, ma sento che qualcosa non va: quel ragazzo sta piangendo.
Stupido, vuoi morire? Sei un guerriero o no?” chiedo puntandogli la spada alla gola, ma lui non risponde.
Un'esplosione mi fa perdere l'equilibrio, sento le urla degli uomini che si stanno buttando in mare. Mi guardo intorno per cercare quel ragazzo, ma lui non c'è più. Il ponte è una mischia su cui si abbattono colpi d'archibugio. Un soldato estrae la spada dal corpo di un mio compagno e viene verso di me. Le nostre lame si toccano, paro più volte i suoi assalti finché non commette l'errore di scoprirsi. Carico l'affondo finale ma, proprio quando sono certo della vittoria, una lama mi trafigge il fianco. D'istinto cerco chi mi ha colpito, ma ormai è andato avanti così come il mio avversario. Appoggio la mano sulla ferita. Gronda sangue caldo, il mio sangue: è una ferita mortale, non esiste modo di curare una cosa del genere.
Intorno, il mondo si muove freneticamente e mi ignora come se avessi già smesso di esistere. Sto per svenire, riesco a reggermi alla poppa. Il sole è stato quasi ingoiato dalle nubi, ma i suoi raggi sono ancora forti e imprimono una scia argentea sulla superficie del mare.“Un serpente...” rantolo tendendo la mano. Un'onda solleva la nave, facendomi precipitare proprio in quella strada abbagliante. Il sale tocca la ferita, il dolore mi fa perdere definitivamente i sensi e i flutti iniziano a cullare il mio corpo inerte.

Il mio risveglio è accompagnato da una forte sensazione di sete. Si è fatto buio, non riesco a capire quanto tempo sia trascorso. Mi chiedo se io abbia raggiunto il paradiso ma, a ben guardare, il cielo coperto da pesanti nubi non sembra affatto paradisiaco. Lo attraversano continui lampi, che scolpiscono i contorni taglienti delle rocce che mi circondano. Il mare è in burrasca.
Tocco il fianco, sento che la ferita è ancora aperta. Con uno sforzo mi alzo su un gomito e osservo la carne lacerata, come se non appartenesse mio corpo. Qualcosa rende il suo colore vivo, sebbene intorno sia buio. Sembra che il chiarore si origini dalla mia fronte, com'è possibile? Provo a sfiorarla, ma non sento nulla.
Inizia a piovere. Apro la bocca nel tentativo di dare sollievo alla gola riarsa, ma nel contempo avverto l'avanzare delle onde. Se non faccio qualcosa, il mare mi riprenderà via per sempre. Inizio a risalire lungo la spiaggia, a fatica, strisciando: le gambe non rispondono e le gocce di pioggia sembrano volermi inchiodare ai sassi. Ma proprio quando inizia ad assalirmi lo sconforto, tra i sibili di vento percepisco un tintinnio provenire dalle chiome dei pini. Continuo ad arrancare sulle braccia finché il bagliore dei fulmini mi rivela la sagoma di un tempio. Dev'essere abbastanza vecchio: il legno è scuro, il tetto non sembra in buone condizioni. Mi rialzo appoggiandomi al tronco contorto di un albero e, lottando con le fitte di dolore, decido di entrare.
L'interno odora d'incenso. Sull'altare di recente sono state poste delle offerte. Mi avvicino all'acqua e la bevo avidamente sotto gli occhi di Yakushi, poi mi accascio sul pavimento.
La tempesta che si sta scatenando fuori non accenna a placarsi. Le pareti tremano, il tetto sembra doversi scoperchiare da un momento all'altro.
Sei stato tu a salvarmi, vero?” chiedo al buddha, ma mentre cerco la risposta nel suo volto, la violenza di un fulmine lacera ogni cosa.
La testa di Yakushi rotola ai miei piedi; io urlo in preda all'orrore, circondato dalle fiamme che divampano e combattono ferocemente con la pioggia. Una sagoma emerge dalla statua spezzata, come se quest'ultima non fosse stata altro che un involucro.
Si tratta di un'armatura imponente, non ne ho mai viste di simili. È di colore verde brillante, reca una decorazione rossa sull'elmo e possiede ben sei spade: quelle che si incrociano sulla schiena hanno impugnature dorate che terminano in teste di serpente.
Forse chi diceva che ero pazzo aveva ragione, perché nella mia testa ora ci sono rintocchi assordanti che si alternano al suono di tamburi. L'incendio si trasforma in una tempesta di foglie d'acero, i rivoli d'acqua diventano decorazioni per preziosi rotoli di seta. Parte dopo parte, l'armatura si salda al mio corpo.

Riprendo conoscenza al mattino. I miei abiti sono ridotti a brandelli e sono sporchi di sangue, ma sul mio corpo non c'è traccia di ferite.
Tra le dita stringo una sfera bianca. Sulla sua superficie luccica un ideogramma che so leggere: è Tei, l'Obbedienza alla famiglia.

Fu in un azzurro vacuo che Shin si risvegliò, immensamente stanco ed afflitto. Stavolta riuscì ad alzarsi, scoprendo che le dita della sua mano erano intrecciate a quelle di un'altra persona, a loro volta avvolte da un rosario fatto di perle. “Nāza... No, si chiamava Naotoki.” Sembrava che il Generale Demone dormisse: il respiro era appena percettibile e l'ideogramma della virtù gli risplendeva quietamente sulla fronte.
Vivere quel passato gli aveva appesantito il cuore. Era come se il sangue della battaglia gli si fosse rimasto appiccicato addosso. Provò a districarsi, ci riuscì, ma rosario rimase impigliato tra le sue dita.
Cercò la testa del buddha guaritore, non si sorprese quando al suo posto trovò un elmo spezzato. I colori erano sbiaditi, come se fosse rimasto per anni in balia del sole e del mare. Shin lo raccolse.
Perché mai si dovrebbe riforgiare un simile strumento di tristezza?





NOTE

L'ideogramma “Tei” può essere tradotto come “obbedienza agli anziani” ma indica in senso più generale l'armonia familiare e l'amore fraterno.
Il Monte Sakura è il vulcano che sorge di fronte alla città di Kagoshima. È piuttosto attivo e fonte di eruzioni spettacolari che rilasciano sulla città grandi quantità di cenere.
La situazione del Mare Interno nel periodo Muromachi era piuttosto complicata e, da quel (poco) che ne so perfino gli storici faticano a ricostruire le alleanze tra i daimyō nelle battaglie, grandi e piccole, che avvenivano su quelle coste. Incastrare le date con la biografia di Naotoki fornita nelle schede dei libri (sempre “Daijiten” e “Memorials Gekan”) è stato impossibile e così ho finito per gestire il tutto con fantasia.
L'armatura chiamata Yakushi è ispirata all'iconografia buddista del Sud-est asiatico. Laggiù si racconta che quando il buddha stava meditando per raggiungere l'illuminazione fu raggiunto da una forte tempesta, ma che una divinità serpente (nāga) di nome Mucalinda lo protesse. Mucalinda viene raffigurato appunto come un cobra a sei teste alle spalle del buddha.


 

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Capitolo 4
*** Yakushi ***


4 - Yakushi




“No...” continuava a ripetere una bella voce, che sembrava quasi un canto. Alleviava il dolore che Naotoki sentiva nell'animo, donandogli un appiglio mentre le correnti strappavano i suoi sentimenti per trascinarli verso il fondale che sarebbe divenuto la loro tomba.
Aprì gli occhi aspettandosi trovare il mare, ma lo trovò prigioniero in due sottili anelli verde-azzurri. Iridi divorate da pupille che tentavano di rifuggire l'orrore, senza riuscirci.
“Sui...ko,” annaspò. Ma il ragazzo inginocchiato di fronte sembrava non sentirlo.

Quando era stato Nāza, Naotoki non aveva mai provato veri sentimenti nei confronti di Suiko, o almeno così gli era sembrato. Aveva lasciato che fosse il samurai ad odiarlo, sapendo che si trattava della strada migliore per condurlo ad Arago. Ma ora, per quanto cercasse di richiamare la freddezza che era appartenuta al Generale del Veleno, Naotoki finiva per perdersi nella corrente torbida dei sentimenti umani.
Perché non si è accontentato di ciò che gli avevo detto? Che cosa ha ottenuto nel sapere quanto io fossi stato stupido e ingenuo?”
Le acque che circondavano il castello di Arago irrompevano nei canali sotterranei, l'umidità saturava l'aria gelida nei corridoi, la nebbia avvolgeva armature impegnate in battaglie incessanti. Memorie che Naotoki non riusciva più a controllare, come se tutto d'un tratto avessero smesso di appartenergli.
Suiko non deve sapere che cosa significa essere un Demone. Non è il suo destino. Potrà soffrire a causa della mia forza, ma non a causa della mia debolezza.”
Si aspettava di toccare da un momento all'altro il gelo immobile che gli aveva custodito sentimenti, di venire risucchiato dal vuoto d'affetti che gli aveva garantito la sopravvivenza nell'immenso palazzo abitato da spiriti immortali.
Eppure dispiacere e paura continuavano ad amalgamarsi in un vortice continuo, senza lasciare mai che il cuore affondasse davvero.
Poi Naotoki capì.
Non sono i miei ricordi. Che diavolo stai combinando, ragazzino?”


È attraverso l'armatura che Arago mi raggiunge e mi richiama, incessantemente. La risacca delle onde, il mormorio del torrente, il ticchettio della pioggia finiscono per trasformarsi sempre in tre parole: 'Vieni con me'. A volte si dissolvono spontaneamente, a volte mi oppongo, a volte fuggo come un codardo. Balzo fuori dallo stato di torpore e mi ritrovo, come ora, a scrutare l'oscurità del sotterraneo che mi tiene prigioniero.
Questo castello è un luogo al di là dei secoli, eppure non è immutabile. Le pareti trasudano, respirano, ogni tanto si scuotono in preda a improvvisi spasmi.
Dal soffitto si protendono radici contorte. D'istinto mi viene da pensare che appartengano ad alberi secolari, ma non so che cosa siano, in realtà. Mi chiedo se gli yōja siano nostri alleati oppure se a loro della sorte di noi samurai non importi nulla. Anche se indossiamo l'armatura restiamo esseri umani, dopotutto.
Tutto è cominciato quel giorno a Shinjuku. Splendeva il sole. Non ero mai stato nella valle dei grattacieli e guardavo la luce riflettersi sulle vetrate con la curiosità di un bambino. Ho conosciuto l'inferno da un giorno all'altro, mi chiedo come sia stato possibile. Anche adesso, ogni volta che torno cosciente, spero di essermi svegliato da un brutto sogno.
Sento il tabernacolo tremare, ma stavolta non è colpa degli yōja. Shū sta riprendendo ad agitarsi. Dovrei dirgli di smettere, ma so come si sente a non fare nulla, senza sapere cosa accade intorno.
Embe'? Non mi dite nulla?”
Se ti dicessi di smetterla, mi risponderesti che non è possibile perché ormai non ne puoi più,” ribatte Seiji.
Ma a me va bene anche se mi dite di smetterla! Purché mi diciate qualcosa!”
Non sono bravo a trovare argomenti di conversazione.”
Scende di nuovo il silenzio. Mi rendo conto che i ragazzi stanno aspettando un cenno da parte mia, ma non mi viene in mente niente. “Non mi viene in mente niente,” dico con sincerità.
Shū allora esclama: “Dev'essere colpa di questo posto. Non è normale. Oltre alle energie, questo stramaledetto tabernacolo risucchia anche gli argomenti di conversazione.”
Potrebbe essere utile, nel mondo degli uomini, qualche volta.”
Seiji, ma era una battuta?”
Certo che sì, che cos'altro poteva essere?”
Te l'abbiamo detto tutti che quando fai le battute tieni un tono troppo serio, così non si capisce.”
"Ti prego di scusarmi.”
Non scusarti!” sospira Shū.
Io...” Mi decido a parlare. “Io non vorrei che fosse vero. Queste maschere... Ci stanno davvero portando via qualcosa.”
Seiji si volta, sento il suo sguardo. “Che cosa intendi, Shin?”
È difficile da spiegare, è più una sensazione.” Faccio una pausa. “Saremo gli stessi quando incontreremo di nuovo Ryō e Tōma?”
Seiji tace. Deve aver smesso di fissarmi. Non mi piace, è come se lo avessi sconfitto. Almeno lui, non deve essere mai sconfitto. Abbandono la tensione dei muscoli e mi lascio andare, sorretto dalla stretta delle catene. Lo spirito infernale che fluttua su di me se ne avvede. Un soffio gelido scuote le sue vesti logore, tocca il mio corpo e disperde le energie che avevo faticosamente raccolto.
Rei, Gi, Shin.” Seiji elenca le nostre virtù una per volta, come se stesse disegnando mentalmente i tre ideogrammi. “Se Arago oltre alle energie delle armature prendesse anche i nostri cuori, non potremmo più richiamare l'armatura bianca. È questo che intendi dire?”
Non riesco a rispondere. Altri Spiriti Infernali si sono avvicinati. Le orbite vuote dei loro occhi sembrano bramarmi. È una sensazione che non ho provato nemmeno quando Arago mi aveva assorbito dentro di sé. Non vogliono la mia vita, la mia forza o la mia armatura: vogliono prendermi il cuore.
Ehi, Shin, che hai?” mi richiama Shū. “Sei la Fiducia, se perdiamo te stiamo freschi.”
Shin!” mi richiama anche Seiji. “Di’ qualcosa, la prima che ti viene in mente!”
C'era il sole su Shinjuku. Non ero mai stato nella valle dei grattacieli,” mormoro. I ricordi iniziano ad avanzare, ma appaiono sgranati e intermittenti, come una vecchia pellicola in bianco e nero.
Anche per me era la prima volta. Non ero mai stato a Tōkyō,” continua Seiji. La voce gli trema leggermente. Posso rivederlo così com'era quel giorno, con i suoi strani capelli chiari e le braccia conserte.
Io invece ero già stato lì con i compagni di scuola, ma non avevo mai visto l'NS building e nemmeno quel fast food dove abbiamo preso gli hamburger.” Quel giorno, Shū stava addentando un panino e teneva in mano una bibita, non gli importava dei fulmini che sembravano spezzare il cielo. A dire il vero non importava molto nemmeno a me.
Non avevamo paura,” constato mentre lo spirito che ho davanti serra le mani, piegando le dita in una successione di sigilli che nessun arto umano potrebbe riprodurre.
È vero!” esclama Shū con fin troppa foga. “Avevi fatto entusiasmare Nasty dicendo che eri un discendente di Motonari Mōri, quello della leggenda delle tre frecce!”
Una cantilena pare voler risvegliare le fauci della maschera, ma s'intromette un suono simile a quello di un campanellino. Precede la voce di Seiji: "Motonari Mōri aveva insegnato ai suoi tre figli di mantenersi sempre uniti. Una freccia sola può essere spezzata facilmente, ma tre no. Anche mio nonno mi raccontava quella storia.”
Mi vengono in mente lontani discorsi da bambini, ma ogni volta che cerco di mettere a fuoco l'immagine i frammenti di allineano in un disegno diverso, come in un caleidoscopio. Ciò che posso dire è solo: “Molti pensano che, se uno è molto forte, può spezzarle ugualmente."
Nessuno ha mai spezzato tre frecce sotto ai miei occhi, non mi sono mai posto il problema.”
Mi accorgo che il suono di quel campanellino è la voce di Rei, il cuore di Cortesia, che mi parla come se lo conoscessi da sempre. "Shū invece ci avrà provato di sicuro."
Mi risponde Gi, il cuore di Giustizia. Il suono caldo di un gong attraversa i ricordi e io torno a distinguerli nitidi e caldi, avvolti nel sole aranciato di un tramonto.
"No... cioé... no, perché mai avrei dovuto provarci?" balbetta Shū.
Inizio a ridere. Gli spiriti infernali tacciono e lentamente ripongono le braccia lungo i fianchi. Li osservo con tranquillità mentre dico: "Ma allora, eri riuscito o no a spezzare quelle frecce?"
"Be'..."
Shū, comunque sia la realtà, i figli del mio avo erano davvero vissuti in armonia. A me basta. Io ho sempre creduto nella forza che si ottiene nell'avere fiducia negli altri."
"Shin," dice semplicemente Seiji.
"Shin," ripete Shū.
Le sillabe che sono insieme il mio nome e la mia virtù echeggiano nelle maschere. Gli spiriti che mi avevano tormentato risalgono la volta della prigione, dove riprendono a volteggiare privi d'intento quasi fossero lembi di ragnatele abbandonate.
Io, sereno, affermo: “Sono contento di avervi incontrato, quel giorno a Shinjuku."


Naotoki ansimava. Il cuore impazzito batteva freneticamente nel torace schiacciato sotto il peso di Suiko. Gli stringeva i capelli bagnati di sudore, sentiva il respiro affannato sul collo. Erano rimasti avvinghiati, come due amanti.
“Ridammi il mio ricordo,” ordinò subito Naotoki, scuotendolo. “Non è cosa per ragazzini.”
“Non posso,” sussurrò Suiko sollevando il volto di cera. Stava per alzarsi, Naotoki gli afferrò il polso. “Non avrei dovuto permetterti di toccarmi,” disse stringendo forte, finché le dita della mano di Suiko si schiusero, rivelando l'ultima perla. Era straordinariamente brillante, screziata d'azzurro.
“Avrei dovuto aspettarmelo, dall'acqua. S'insinua ovunque,” rantolò Naotoki mentre lasciava la presa, sconfitto.
Ma Suiko non lo stava ascoltando.
Uno strano sorriso gli piegava le labbra mentre a fatica si rialzava e si dirigeva barcollando verso Yakushi. Porse all'armatura della medicina il gioiello, poi cadde privo di forze.
Naotoki riuscì ad afferrarlo prima che si ferisse.
Com'era strana da abbracciare la fede incondizionata verso gli altri, la perpetua e incrollabile certezza di non essere mai solo. Forse era questo che aveva sempre voluto carpire da Suiko. Il motivo per cui ne era stato inspiegabilmente attratto. Il motivo per cui Yakushi risuonava in maniera completamente diversa e lo incantava mentre mutava d'aspetto, avvolta dall'aura fiammeggiante di ricordi appena vissuti.
L'armatura si ammantò di una sopravveste intrisa di lacrime d'argento liquido, che si riunirono nel disegno di tre frecce. Un'onda color acquamarina attraversò il tessuto e s'incanalò lungo gli orli, disegnando piccoli vortici ornati da spuma di madreperla. Su ciascun fianco il paramento si apriva per lasciar intravedere tre spade decorate da nappe turchesi.
Naotoki disse: “Io sono il guerriero della Medicina. Era questo il mio destino, prima che mi venisse strappato.”
Piegò le dita a formare il sigillo che allontana la paura. Gridò: “Vestizione! Yakushi!”
I tamburi tornarono a risuonare con ritmo incalzante mentre l'armatura si saldava al corpo. Non era ancora del tutto abituato ai ricordi di cui era costituita, perciò ogni nuovo elemento lo sbilanciava. Per restare in piedi dovette trovare uno, dieci, cento equilibri, ma si sorprese di poterci riuscire ogni volta. Foglie d'acero rosse vorticarono tutt'intorno come fuoco e sangue, ma quando l'elmo completò la vestizione, intorno c'erano solo petali bianchi.


Era steso nell'acqua dolce, avvolto da un intenso profumo di fiori di loto che risaliva la volta celeste.
Una libellula rossa attraversò il cielo del mattino. Shin la seguì con lo sguardo finché la vide posarsi sulla spalla di una figura seduta in meditazione. Vestiva un'armatura, come il possente guardiano di un tempio. Fluttuava sull'acqua, leggero come un fiore. Il viola che gli dipingeva le palpebre e la gemma che portava sulla fronte lasciavano intuire che si trattasse di un principe di un paese esotico.
Il guerriero si accorse subito che Shin lo stava fissando. Iniziò ad aprire gli occhi con innaturale lentezza, rivelando ridi di uno strano colore chiaro, cangianti come cristalli.
“Ti sei svegliato,” disse, gentile.
Shin si liberò dal tiepido abbraccio dell'acqua stagnante e si guardò intorno. La distesa di fiori bianchi continuava fin quasi all'orizzonte, come a formare una via. In lontananza si scorgevano delle pagode, ma quando Shin cercò di individuarne le forme una carpa dalle scaglie dorate gli guizzò davanti, abbagliandolo.
“Devi essere molto stanco, dopo tutto quello che hai vissuto. Ho preferito lasciarti riposare un po'.”
Shin sentiva di non avere la forza per lasciare la bellezza e la pace che lo circondavano. “È un posto meraviglioso,” affermò.
Il principe guerriero sistemò le spade ai fianchi, raccolse l'elmo e gli andò incontro muovendo i suoi passi sulla superficie del lago, lasciando come traccia del suo passaggio piccole increspature concentriche. “Vieni, torniamo nel mondo degli esseri umani,” esortò tendendo la mano.
“Combatteremo?” chiese Shin guardando le armi riposte nei preziosi foderi.
Le labbra del ragazzo formarono un sorriso luminoso. “È naturale, è il nostro destino. Se non lo affrontiamo, non potremo mai liberarcene.”
Shin annuì e si lasciò sollevare.


“Dici che tornerà presto?”
“È la quinta volta che me lo chiedi.”
“Lo so, è che non riesco a stare fermo ad aspettare. Non sono come te, io.”
“Non posso saperlo con assoluta certezza. Ma al momento non abbiamo alternative, è un dato di fatto.”
“Ma perché continuo a chiedertelo?”
La domanda cadde in un silenzio immobile. Il mattino, invece, continuò a mutare. Nubi grigie si rincorsero senza sosta nel cielo, aprendo e chiudendo orizzonti sulla superficie del mare, facendolo apparire a tratti verde, a tratti azzurro. Ma quel verde e quell'azzurro non erano più gli stessi quando la direzione del vento si cambiava.
Shū, sentendosi preso per l'ennesima volta alla sprovvista, si rannicchiò tenendosi la testa tra le mani, nella speranza di riuscire a trovare anch'egli conforto nella ragione.
Il Mare Interno era incredibilmente complicato, eppure era proprio dalle sue profondità che era giunto il grido di Shin. Shū l'aveva sentito forte, tanto che aveva mollato tutto ed era corso fin lì, a caso, come un pazzo, finché la distesa d'acqua mutevole non aveva fermato la sua corsa. Avrebbe potuto tuffarsi, ma poi? Non avrebbe potuto trascorrere ore a scandagliarlo.
Mentre correva avanti e indietro lungo la costa per cercare qualcosa che non si poteva trovare, aveva incontrato Seiji. Se ne stava a fissare l'orizzonte sul molo di uno stabilimento industriale abbandonato, come se essere lì fosse la cosa più naturale del mondo.
Si trattava di un luogo macabro e lo stridere delle lamiere scosse dal vento contribuiva a renderlo sinistro. Shin avrebbe sicuramente rifuggito un luogo simile, eppure anche Shū, una volta fermatosi, aveva percepito qualcosa di diverso.
“Senti, Seiji...” Shū stava per parlare di nuovo, ma il sole che apparve all'improvviso lo zittì. Una lama di luce tagliò un nuovo orizzonte sull'acqua, proprio davanti a loro.
Da quella ferita emerse Shin.
Guardava verso l'alto, come a cercare il sole.

Shū lo chiamò, ma lui sembrava non aver sentito, da tanto era impegnato a respirare. Non lo aveva mai visto riprendere fiato dopo un'immersione, doveva essere rimasto in apnea davvero a lungo. Anche Seiji sembrava sorpreso, tanto che si era chinato e aveva appoggiato la mano sul cemento, pronto a buttarsi tra le onde.
“Shin!” chiamò.
Shū lo precedette. Sì tuffò, si divincolò dalla corrente, urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: “Shin!”
Shin si guardava intorno, come se non avesse idea di dove si trovasse.
“Shin!” chiamò ancora Shū tra una bracciata e l'altra finché Shin, finalmente, si voltò.
“Shū ! Seiji!” esclamò.
Mentre alzava il braccio per salutare i compagni, sul suo volto si apriva un sorriso sincero.






Note

L'NS building (NS biru in giapponese) è stato costruito nel 1982. Lo si vede avvolto dalle ragnatele degli spiriti infernali a inizio serie, più tardi diventa lo scenario nella seconda ending: è lì che si festeggia il compleanno di Ryō.
Ringrazio tutti coloro che hanno avuto la pazienza di seguire “Lasciami guarire”, sguazzando insieme a Shin e Naotoki in questo mare di angst e ricostruzioni storico-religiose assai allegre ;)
Grazie a SoltantoUnaFenice, PerseoeAndromeda e Tanit per le recensioni.
Grazie a Ryanna, che mi aiuta sempre a scovare gli onnipresenti, a me invisibili, orrori disseminati nel testo.
Per il momento mi prendo una pausa, ma conto di tornare ad affliggere i poveri Samurai Troopers in un prossimo futuro.
Arrivederci!

Kourin

P.S. Pubblicità Progresso Jidai Geki: Volete vedere che cosa succede quando non si crede alla leggenda delle tre frecce? Recuperate lo splendido "Ran" di Akira Kurosawa!

 

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