Les Roses Fleuriront

di rosa_bianca
(/viewuser.php?uid=252110)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - 1 Gennaio 1825 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - 1 Giugno 1831 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - 1 Giugno 1832 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - 3 Giugno 1832 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - 4 Giugno 1832 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - 5 Giugno 1832, Parte Prima ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - 5 Giugno 1832, Parte Seconda ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - 5 Giugno 1832, Parte Terza ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - 5 Giugno 1832, Parte Quarta ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - 5 Giugno 1832, Parte Quinta ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Conclusione ***



Capitolo 1
*** Prologo - 1 Gennaio 1825 ***


1 Gennaio, 1825



L’esile donna si strinse nello scialle, chinando la testa nel tentativo di sfuggire la neve che le copriva il mantello nero. Camminava da due ore, ormai, con la paura che la fragile creatura che stringeva tra le braccia potesse morire per il freddo.
La giovane, che avrà avuto al massimo venti anni, posò lo sguardo preoccupato sul bambino. Aveva solo un giorno. Lei si sentiva meno in forze che mai, ma muoveva un passo dopo l’altro, nella neve, continuando a ripetersi: Lo faccio per lui… lo faccio per me e per lui.
I suoi grandi occhi azzurri guardavano ancora quelli del figlio, che erano di un particolare colore tra il grigio e il verde.
Ma, purtroppo, non era la sfumatura delle sue pupille a notarsi di più nel suo piccolo volto; bensì la metà destra del viso, cosparsa da piaghe orrende. L’occhio destro quasi non si vedeva, coperto dalla pelle, il naso era storto, il mento sfregiato.
La madre rabbrividì, al ricordo dell’espressione di suo marito quando vide per la prima volta il neonato.
“È un mostro! Nient’altro che un mostro! Non è figlio mio, questo! Vattene, prima che possa alzare le mani su te e quello scherzo della natura… Vattene via subito!”
L’immagine di lui mentre rovesciava il tavolo che li separava le tornò alla mente, ma lei cercò di scacciarlo.
Continuava a camminare con materna stoicità, impedendosi di piangere.
Dopo essere stata cacciata di casa, ancora piena di dolori per il parto sfiancante, aveva iniziato ad errare per le campagne, senza avere un soldo in tasca, fino ad arrivare a Parigi.
Tutte le case erano chiuse, ma s’intravedevano le luci all’interno: sebbene fuori nevicasse incessantemente ormai da ore, le famiglie non rinunciavano a festeggiare il Capodanno come potevano.
La donna osservava con stupore le belle case del centro di Parigi, continuando a cullare il bambino stretto alla veste. Sentiva già i morsi della fame, i più forti che avesse mai avuto la disgrazia di provare. L’acqua delle fontane era completamente ghiacciata, e la sua gola diventava ogni secondo più secca e ruvida.
Si fermò solo un attimo, per allattare il piccolo, e poi si rimise in cammino, con i suoi piccoli e lenti passi segnati dalla stanchezza che si era impadronita del suo corpo.
Nonostante tutto, era consapevole.
Consapevole che sarebbe stata costretta ad abbandonare suo figlio.
Consapevole di amarlo, nonostante la sua vistosa deformità.
Consapevole che non avrebbe più avuto motivo di crucciarsi per la mancanza di soldi, poiché sentiva che non ne avrebbe più avuto bisogno.
Stremata, col respiro affannato, si inginocchiò sui gradini di pietra davanti a lei, recitando a mezza voce una preghiera. Incurante dei vagiti del piccolo, alzò lo sguardo all’edificio che aveva dinnanzi.
La targa di marmo recitava: “Convento Petit Picpus”. Sulla seconda parte, interamente coperta dalla neve, c’era scritto: “Collegio di Formazione e Preghiera per Fanciulle Cristiane”.
La donna, pur non sapendo leggere, sapeva riconoscere alcune parole: “convento” era una di esse. Inoltre la grande croce posta sopra il tetto era un indizio difficile da non notare.
Si sentì mancare, pensando che non avrebbero mai accettato suo figlio in un posto del genere.
E se credessero che si tratta del Figlio del Diavolo, come ha fatto mio marito?, si domandò preoccupata.
Ma si disse che ormai non sarebbe più riuscita a camminare più di due passi.
Lo accoglieranno per bontà divina.
SI alzò con lentezza, fino a raggiungere una specie di finestrella di legno. Sporgendosi, chiamò qualcuno, con la voce rauca per il freddo e lo sforzo.
“Vi prego… c’è qualcuno qui? Nessuno?” gracchiò disperata.
Dopo pochi secondi vide un uomo dall’altra parte della finestra. Aveva una barba corta, capelli neri curati e una divisa da giardiniere. I suoi piccoli occhi erano preoccupati, per la vista di una donna in quello stato.
“Buongiorno, monsieur…” esordì lei, più sollevata. L’uomo rimase zitto, come per esortarla a continuare.
“Vi prego…. Vorrei che consegnaste questo bambino alle suore. Che lo accudiscano, come io non potrò mai fare.”
Delle lacrime calde presero ad inumidirle le ciglia, rotolando lente sulle guance fino a solcare le labbra, contratte in un sorriso di speranza.
Il giardiniere corrugò la fronte. “Mi dispiace, ma le Sorelle accettano solo fanciulle. Ma… non mi sembrate in condizioni di tornare a casa, madame. Volete entrare?” chiese con la sua voce calda e profonda, indicando una casupola al centro del giardino pieno di neve, non lontana dalla finestrella.
Lei scosse la testa. “Non vi dovete preoccupare per me, monsieur, ma unicamente per mio figlio. Sembrate un uomo gentile, lo leggo nei vostri occhi, perciò vi prego di dare un’ ultima grazia a questa povera donna…”
Le sue lacrime presero a bagnare il panno in cui era avvolto il piccolo, che osservava la scena ad occhi spalancati, come se potesse capire le loro parole.
L’unico rumore che si sentiva era il fischio forte del vento, che quasi sovrastava le loro parole.
L’uomo tentennò. Come avrebbe potuto allevare un bambino, da solo? Le suore non lo avrebbero di certo voluto. Però, a pensarci meglio, non era solo: suo fratello l’avrebbe potuto aiutare.
Guardò un’ultima volta la giovane con i suoi occhi gentili, gli occhi che sfoderava sempre quando era in compagnia della sua figlioletta. La donna le ricordava terribilmente un’altra giovane, incontrata anni prima, una giovane dolce e bisognosa come lei…
“E sia.” si arrese lui. “Qual è il suo nome?” domandò, aprendo la porticina che li separava.
“Eerikki” sospirò lei, porgendo il fagottino all’uomo. Egli, seppure avesse ascoltato attentamente le parole della giovane, non riuscì a comprendere per bene il nome del bambino, a causa del vento che soffiava sulle loro teste.
Non fece in tempo a chiederle di ripeterlo.
“Abbiatene cura…” mormorò solamente, prima di accasciarsi a terra, senza più forza.
Il giardiniere, con folle velocità, si piegò per ascoltare il battito del suo cuore.
Niente.
Il piccolo riprese a piangere, proprio come se avesse capito cosa stava succedendo.






“Ultime! Dov’eri andato con questa tempesta?” chiese l’uomo seduto accanto al camino. Era seduto su una poltroncina color ambra, e la sua gamba destra, storta e malandata, era stesa sulla sedia davanti al fuoco.
Il giardiniere, che d’ora in poi chiameremo per comodità e correttezza Jean Valjean –no, Ultime non era il suo vero nome- rimase in piedi, col bambino ancora in braccio.
“Ero andato a prendere un pacco del Signore.” rispose con un sorriso.
“Cosa…come..?” domandò con affanno Alain Fauchelevent, guardando interrogativamente colui che da anni chiamava ‘fratello’.
“Una donna in fin di vita me l’ha consegnato… non potrei lasciarlo alle Sorelle, lo sai bene.” spiegò lui e, sovrappensiero, continuò: “Mi ha riferito il suo nome… Erik, o qualcosa di simile. Sfortunatamente non ho compreso. Mi pare un nome strano da dare ad un bambino, qui, ma lei non mi sembrava francese. Dai capelli e dagli occhi oserei azzardare che provenisse dalla Scandinavia, o comunque un Paese del Nord. Ma…Alain?”.
Fauchelevent guardava Valjean con gli occhi fuori dalle orbite.
“Cosa? Cosa c’è?” chiese lui, iniziando a spazientirsi.
“Lo…l-lo hai visto bene?”.
Valjean corrugò la fronte e fece cenno di no con la testa, e, per la prima volta, diede uno sguardo al bambino.
“Santo Cielo!” esclamò, stupito, dopo aver posato gli occhi sul suo viso.
Non gli era mai capitato in vita sua di vedere una cosa del genere.
Fauchelevent si lasciò cadere sulla poltroncina, con espressione atterrita.
“Ora lo hai visto. Come faremo a tenere nascosta dalle Sorelle una creatura? Una creatura del genere, per di più! Oh, io non so come hai potuto anche solo pensare di accettare…!” esclamò, portandosi una mano alle tempie.
Valjean fece per interromperlo ma rimase zitto.
“E poi,” continuò affannosamente l’altro “come faremo con il latte? Credo che ai bambini serva quello di una madre, per crescere sani e forti. Io non so nulla, su come si cresca un bambino in fasce. Oh, Ultime, ma lo hai visto? Hai visto il suo volto?”
Valjean non sapeva come rispondere. Effettivamente tutte quelle domande avevano senso; ma si disse che se era riuscito a crescere un’orfana mentre era inseguito da un poliziotto particolarmente testardo, avrebbe potuto farcela.
“Alain, so di aver fatto la cosa giusta. E non me ne pentirò” affermò con convinzione.






Angolo dell’autrice
Buondì a tutti!
Allora, volevo iniziare dicendo che questo è un esperimento, frutto di un sogno avuto dopo una notte mezza insonne ad ascoltare canzoni da Les Mis e PotO (so che non sembra, ma giuro si essere una persona del tutto normale!).
Fatta questa premessa, so che si tratta di un’idea un po’ (un po’ tanto) azzardata, ma questo me lo dovrete confermare voi u.u Forse questo capitolo è troppo ‘introduttivo’ per darvi un’idea, ma comunque…
Il titolo vuol dire ‘Le Rose Fioriranno’ in francese, mi sembrava abbastanza appropriato per la mia storia.
Anyway, diciamo che in questo capitolo ho nascosto (neanche troppo) alcuni mie head-canon sul Fantasma. Non so come mai, ma sua madre me la immagino tipo albina, non chiedetemi perché XD Poi non volevo che dicesse a Valjean che il nome del bambino era Erik, perché nella versione originale è precisato che quel nome se lo è scelto da solo, una volta andato ad abitare nei sotterranei dell’Opera. Tutto questo mi ha portato a cercare un nome svedese simile ad Erik e ad aggiungere del vento (mooolto vento) alla scena (più un Valjean già mezzo sordo).
Bene, detto ciò credo di aver esaurito tutto quello che ho da dirvi… vi ricordo che siete autorizzati a lasciare una recensione sia nel caso trovate questa idea abbastanza schifosa, sia per dire che è scritto tutto male… insomma, esprimetevi! A me fa piacere sapere cosa pensate u.u
Il mio buon proposito è quello di aggiornare ogni cinque giorni, spero di farcela :3
Salut,
rosa_bianca
P.s: Se siete arrivati a leggere fino a qui vi meritate una medaglia <3

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 - 1 Giugno 1831 ***


1 giugno 1831 
 
 
 
 
 
La fanciulla respirò a pieni polmoni l’aria primaverile che l’avvolgeva. Adorava qualsiasi periodo dell’anno, ma il mese di maggio le ispirava una gioia perpetua, continuamente presente come un fuoco inestinguibile.
Sorrise dolcemente alla Madre Superiora, le fece un grazioso inchino e, appena fu sicura che nessuno la potesse vedere, prese a correre verso il piccolo chiostro. Al centro di esso, si trovava la capanna dei fratelli Fauchelevent.
Durante il mese di maggio, osservò con incanto, la casa era percorsa da un’edera che donava colore alle mura grigie. In più, il prato era organizzato in tanti piccoli cespugli ordinati, dai fiori diversi e coloratissimi.
Cosette sciolse con sollievo i suoi lunghi capelli bruni al vento, come non si sarebbe mai permessa di fare nel collegio, e bussò delicatamente alla porta per tre volte.
Papa!” esclamò, gettando le braccia al collo di Valjean. “Come state? Spero bene!”. La giovane percorse, in quello che parve un solo passo, tutto il soggiorno, per arrivare ad un piccolo letto di legno.
Valjean sorrise radioso, come sempre, d’altronde, quando vedeva la sua figlioletta. Ogni volta che s’incontravano, gli pareva di notarla più grande. E forse non si sbagliava.
“Sto bene, Cosette, fino troppo. Lo zio è fuori, in città… oh, come sei cresciuta!”
“Padre, è lui ad essere cresciuto!” ribatté lei, osservando il bambino che dormiva nel letto. “Erik si è fatto grande!” rise, volgendo il viso verso il padre.
Valjean, come si poteva supporre, non era stato in grado di celare l’esistenza del giovane orfano alla figlia. Nascondere un segreto così importante e così, diciamo, poco pratico da nascondere sarebbe stato pressappoco impossibile.
Ma l’uomo era rimasto assai soddisfatto del modo in cui Cosette aveva reagito alla notizia: le poche volte che aveva il permesso di fare visita al capanno, infatti, le passava per la maggior parte a seguire il bambino, che la definiva quasi una ‘mamma’.
Certo, non sempre c’era Cosette. E, anche se ci fosse stata, Valjean avrebbe continuato ad avere rompicapi su come crescere Erik: insomma, non era molto pratico con i neonati. Al latte aveva provveduto la capra del convento, per il resto Fauchelevent e Valjean cercavano di darsi una mano l’un l’altro, e finora non avevano incontrato molti problemi. Certo, alla fine avevano dovuto confessare alla Madre Superiora che stavano accogliendo un bambino nella loro capanna, ma lei non ha prestato molta attenzione alle loro parole. Si era semplicemente complimentata con Valjean per il suo gesto ‘veramente degno di un figlio di Dio’ e aveva messo in chiaro che non avrebbe potuto frequentare la scuola nel convento. Non l’aveva neanche voluto vedere. E ciò sollevava parecchio i due fratelli.
Ma Valjean sapeva che prima o poi Erik sarebbe dovuto uscire fuori dal capanno, o peggio, dal convento. Gli permetteva di mettere il naso per aria solo quando era certo che non ci fossero suore o allieve nei paraggi, o in chiesa la domenica, dopo aver appurato che i partecipanti alla messa fossero andati via. Tutto ciò non era fatto con cattiveria, ma solo con l’intento di preservarlo, quanto più possibile, dalla malvagità altrui.
L’uomo scacciò questi pensieri per un attimo, e sorrise a Cosette.
Lei era ancora chinata sul lettino, osservando il bambino dormire.
“Guardate, papa , non è bellissimo?” chiese, sussurrando.
Ora, si potrebbe pensare a questa come a una battuta sull’aspetto deforme del piccolo; ma nelle parole di Cosette c’era solo l’ingenuità di una fanciulla che vede la bellezza in tutte le cose. Specialmente in quello che era il suo fratellino, come ormai lo considerava a tutti gli effetti.
Cosette sussultò quando vide il piccolo muoversi ed aprire, lentamente, gli occhi verdi.
“Oh, si è svegliato” mormorò la ragazza, perplessa, al padre.
“Capita spesso, credo che abbia delle orecchie molto fini” sorrise lui, avvicinandosi al letto.
“Cosette!” esclamò Erik, alzandosi rapidamente.
La giovane scompigliò i capelli al bambino e gli disse, ridendo: “Guarda dove mi arrivi! Dovresti smetterla di crescere!”.
Valjean osservava la scena con un groppo alla gola. Non era mai stato un uomo particolarmente sentimentale, lui, ed aveva avuto dei trascorsi in prigione che di certo non erano serviti ad addolcire il suo carattere… ma in quel momento sorrise di cuore, guardando i due fratellini giocare insieme.
Erik non era un bambino molto allegro. O, almeno, non quanto Cosette: lei era sempre felice, e si sforzava di vedere sempre il lato buono delle cose. Lui, invece, aveva i suoi momenti bui: solitamente si trattava della mattina di domenica, in cui si isolava in un lato del capanno e pareva non voler sentire nessuno. Valjean aveva ipotizzato che fosse dispiaciuto di non poter partecipare alle messe con Cosette, e non si stupiva più di questo comportamento.
Fatto sta che quel pomeriggio fosse un pomeriggio di domenica, in quanto a Cosette era permesso vedere i suoi familiari, in via del tutto eccezionale, solo ogni tre domeniche dalle quattro alle sei.
 “Quindi sei tornata ora dalla chiesa?” le domandò affascinato Erik.
“Oh, no. Dopo la messa sono andata a mensa, nel solito angolo dei grilli* altrimenti ora sarei digiuna” spiegò lei, ma notò che il bambino aveva ascoltato solo la prima parte della sua risposta.
“Sì, ma prima sei stata in chiesa?” insistette lui.
Cosette, che non si spiegava il motivo di tanta curiosità, annuì.
“E hai mai visitato tutta la chiesa?... Intendo, proprio tutta tutta
“Sì, io… suppongo di sì” disse lei e, proprio mentre stava per domandargli il perché di tutti quei quesiti, lui chiese: “E hai visto anche l’organo?”
Pronunciò quella parola con un misto di incantato stupore e segretezza. La sussurrò, come se non avesse voluto che Valjean la sentisse.
Cosette si fece scappare una risatina per quel suo tono e gli rispose, con solennità: “Sì, l’ho visto. Ho anche premuto qualche tasto, una volta, ma poi sono finita in punizione. Lo può suonare solo l’organista, sai?”
Erik la fissò con gli occhi verdi spalancati. L’organista solo poteva avvicinarsi? Bhe, allora sarebbe diventato lui l’organista del convento. Quando lo dichiarò a Cosette, lei le rispose, sorridendo della sua aspirazione: “Ma come potresti? Hai solo sei anni! Bisogna studiare tanto, tantissimo, per diventare un buon musicista.”
Valjean, che li stata guardando in silenzio, si avvicinò e chiese ad Erik: “Ti piace molto la musica dell’organo?”. Il bambino annuì rapidamente.
“E’ quanto di più bello abbia mai ascoltato...”
La stanza fu avvolta per pochi secondi dal silenzio fin quando Cosette, che il silenzio proprio non lo sopportava, esclamò in tono divertito: “Bene, allora proporre una sfida, Erik. Ora mi metterò a cantare per te, e alla fine mi dirai cosa preferisci, se la mia voce o l’organo.”
Cosette gli sorrise, e stava prendendo il fiato per intonare i primi versi, quando il bambino si voltò, rimettendosi sul letto. “No grazie, non ce n’è motivo.”
La giovane lo guardò interrogativa, per poi voltarsi verso il padre.
“Vedi, non ha senso questa sfida,” spiegò con serietà Erik, scuotendo leggermente la testa “perché so già che non puoi vincere.”
“Oh…” sussurrò Cosette “Fa niente”. Poi si alzò ed andò verso Valjean.
“Ditemi, credete che sia…normale?” chiese “Questo suo comportamento, intendo.” specificò.
L’uomo si grattò lievemente la barba non perfettamente tagliata. “Credo che sia semplicemente così. Dopo un poco, si stanca.” spiegò.
“Ma se ha dormito fino a due minuti fa!” esclamò incredula lei.
“No, non intendo quel tipo di stanchezza…diciamo che la compagnia degli altri non lo eccita molto.” e ripeté “Dopo un po’ si stanca.”
Cosette mormorò quello che sembrava un ‘capisco’ e si voltò per guardare verso il letto.
“Padre!” urlò allarmata “Padre, non è più qui! Erik non è più qui!”
Dopo che le pupille di Valjean raddoppiarono la loro normale dimensione, egli prese per mano Cosette e corsero insieme fuori dalla capanna.
E se qualcuno lo vedesse?, si chiese disperato.
“Padre, fermatevi… dove stiamo andando?” domandò Cosette, che aveva il fiato corto per la corsa improvvisa. Valjean non seppe rispondere. Dopo due secondi di silenzio, riprese a correre, aspettandosi che la figlia lo seguisse.
Arrivarono, in un batter d’occhio, all’ingresso della chiesa. Erano talmente presi dalla ricerca che dimenticarono persino di fare il segno della croce e genuflettersi.
Gli occhi di Cosette vagavano veloci per tutta la navata, in cerca del gilet verde bottiglia di Erik.
“Oh…” mormorò, felice, ad un tratto. “Padre, aspettatemi qui, l’ho trovato!”
Poi improvvisò un incrocio tra dei passi lenti ed una folle corsa, fino ad arrivare all’angolo est della chiesa.
Osservò le grandi canne dorate che arrivavano in alto, quasi fino al soffitto. L’organo, totalmente in ombra, stava venendo reverenzialmente carezzato dal bambino.
Senza accorgersi della presenza della sorella, egli premette qualche tasto, cullato dall’estasi. Il suo volto, sebbene rimanesse degno di un diavolo, aveva un qualcosa di angelico, in quel momento.
Il suono potente dell’organo risuonò in tutta la chiesa, rimbombando sulle alte pareti.
“Shh!” gli fece Cosette, da dietro “Zitto!”. Ma lui non poteva sentire.
Teneva gli occhi chiusi, mentre le mani volavano con leggerezza sulla tastiera, improvvisando una melodia sconosciuta.
“Erik, ti prego!” riprovò la sorella, più forte.
Non c’era posto per i richiami nelle orecchie di Erik: le dolci note le riempivano totalmente.
Si disse di non aver mai provato una gioia così grande. Mai, nella sua vita, si era sentito in questo modo.
Neanche il rumore di diversi passi decisi distolse la sua attenzione dalla musica.
“Erik, via!” urlò terrorizzata Cosette, mettendogli una mano sulla spalla. “Via!”
Aveva capito, lei, cosa stava per succedere. Ma non c’era stato tempo.
La Madre Superiora era a metà navata, curiosa di capire da chi –da cosa già lo aveva intuito- provenisse quel frastuono.
Cosette, con i brividi dalla paura che le percuotevano il corpo, spostò con molta poca delicatezza Erik dallo sgabello, per sedervisi lei. Pose le mani tremanti sulla tastiera, in attesa che la suora li raggiungesse.
“Nasconditi sotto!” bisbigliò al fratello.
Erik si nascose sotto il legno massiccio dell’organo, in silenzio.
“Signorina Fauchelevent!” tuonò la Madre Superiora, in modo che il suo urlo echeggiasse ben bene per tutta la sala. “Sono molto stupita del vostro comportamento sconsiderato!”
A quel punto Valjean, che era rimasto dietro una colonna ad aspettare, raggiunse a lunghe falcate l’organo.
“Sapevate benissimo che non tollero che questo strumento sia solo sfiorato da chiunque che non sia monsieur Dubois… Ebbene?”
Il tono acido con cui parlava, metteva in risalto il suo volto arcigno, pallido come la neve, attraversato da un lungo naso aquilino.
“Ebbene?” ripeté, spazientita.
Cosette faceva fatica a formulare una qualsiasi frase di senso compiuto, in quel momento. Però si prese di coraggio e disse: “Madre, perdonatemi, vi prego… non avrei dovuto.”
“Non è stata lei. Sono stato io.” confessò Erik, uscendo da sotto l’organo. Cosette gli rivolse un’occhiata stupita, mentre Valjean aveva esaurito ormai ogni possibilità di trovare qualcosa di intelligente da dire.
La Madre Superiora, alla vista del bambino, si lasciò sfuggire un grido spaventato. Allora, inconsciamente, Cosette lo prese sulle sue ginocchia, come a proteggerlo.
“Signor Fauchelevent, a cosa devo questa…questa…questa cosa?!” esclamò la suora, indicando i due fratelli. “Chi è…?” non fece in tempo a completare la domanda che Erik la interruppe.
“Signora Suora, che senso ha questa domanda se sapete che c’è un solo minorenne di sesso maschile in tutto il convento?”
“Erik!” lo rimproverò Cosette. “Perdonate, Madre, non sa quello che dice….”.
La donna ignorò deliberatamente le scuse della fanciulla per voltarsi con ferocia verso Valjean. “Signor Fauchelevent” ripeté “Perché non mi avete detto che il vostro prezioso trovatello era… un… un essere del genere?!”
Erik, i cui occhi erano improvvisamente diventati lucidi, si coprì istintivamente la metà destra del volto con la mano. Sapeva di non essere il vero figlio di Valjean, anche se nessuno gliel’aveva mai confessato. Il bambino non era di certo quello che si potrebbe definire un bambino stupido, ed aveva intuito che non si trattava di suo padre.
Cosette, capendo il suo stato d’animo, se lo strinse al petto, carezzandogli la testa con le lunghe dita sottili.
“Voi mi avevate detto che avrei potuto crescerlo con me. Non ho infranto nessuna regola portandolo nella capanna dei Fauchelevent, Madre” affermò deciso Valjean.
“Sapete benissimo che, se lo avessi veduto, non avrei mai accettato. Vorrei dire che mi dispiace, signor Fauchelevent –anche se mentirei- che sono costretta ad espellere vostra figlia dal collegio. Dovete lasciare tutti e tre il Petit Picpus, ed immediatamente. Vostro fratello potrà rimanere, se lo aggrada. Dopotutto abbiamo ancora bisogno di un giardiniere.” concluse, rivolgendo uno sguardo severo ai due sullo sgabello.
Anche Cosette era ormai in lacrime. Valjean la guardò con tristezza, prima di prendere per la mano lei ed Erik, alla volta della capanna.
“Sarà fatto, Madre Superiora.”
Durante il percorso lungo la navata, uno solo dei tre si voltò ancora verso la suora: Erik, con gli occhi a fessura, pieni di rabbia e rancore. 
 

 
 
*Nel capitolo del libro dedicato alla vita in Convento, Hugo specifica che il refettorio si divide in quattro angoli, denominati così dalle bambine: quello dei ragni, dei grilli, dei bruchi e dei millepiedi.
 
 




 
Angolo dell’autrice
Eccoci al secondo capitolo! Diciamo che non si entra ancora nel vivo della storia, ma mi pareva d’obbligo fare una breve parentesi sul periodo passato dai tre al Petit-Picpus. E anche perché be’, un Erik senza la passione della musica non è Erik u.u
L’immagine di lui bambino che suona l’organo nella chiesa infrangendo tutte le regole mi sembrava molto azzeccata per il personaggio.
Soprattutto si introduce il pucciosissimo rapporto tra fratellini di Cosette ed Erik.
Bene, sappiate che dal prossimo capitolo inizierà la vicenda vera e propria… preparatevi!
Un grazie enorme a chi ha letto e/o recensito e a tra cinque giorni,
rosa_bianca
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 - 1 Giugno 1832 ***


1 Giugno 1832
 
 
 
 
 
È passato solo un anno, pensò Cosette, mentre curava i fiori in giardino, eppure è tutto così cambiato…!
Erano trascorsi precisamente dodici mesi da quando Cosette aveva dovuto salutare lo zio e le compagne del collegio per andare a vivere in una nuova casa con Valjean ed Erik.
Ora abitavano, insieme con una domestica, Toussaint, in una modesta –anche se alla fanciulla sembrava immensa- villetta in rue Plumet. Si trattava di una casa di un piano e la mansarda, che però aveva tre bellissimi giardinetti: quello frontale; uno interno, nell’ala della casa abitata da Valjean; e l’ultimo, quello al lato destro della casa, che era completamente di Cosette.
Lei l’aveva adornato con moltissimi fiori colorati: girasoli, tulipani, gigli… l’ultimo tipo di seme arrivato, che stava piantando proprio in quel momento, era quello di diverse rose rosse.
D’altronde, si disse, arrossendo, maggio è il mese delle rose…
L’odore dei fiori la inebriava e, ogniqualvolta che era triste, andava nel suo giardino e le tornava il buon umore. D’inverno, ovviamente, era coperto di neve, ma lei continuava a vedere i suoi fiori colorati spuntare da sotto il manto bianco.
Cosette osservò compiaciuta il lavoro a cui si era dedicata quel giorno: proprio il nuovo cespuglio di rose. Sospirò, contenta di aver faticato per un motivo  che la rendeva così felice, e si appoggiò stancamente all’altalena di corda che aveva costruito lei stessa.
Si dondolò, pensando alla sua ultima passeggiata ai Giardini del Lussemburgo, svoltasi proprio quella mattina.
Valjean non amava uscire di casa, per paura di poter essere arrestato dal poliziotto che in quegli ultimi anni gli aveva continuamente dato la caccia. Però capiva l’esigenza di una giovane come sua figlia di passar del tempo all’aria aperta, tra la gente; dunque la portava quasi ogni giorno a passeggio ai Giardini. Oltre ciò, non usciva più, tranne la sera, talvolta, quando c’era bisogno urgente.
Dunque, anche quella mattina i due avevano varcato i cancelli dell’enorme parco, a braccetto come al solito, lei vestita con un lungo abito grigio, con un cappello dello stesso colore ed in mano un ombrellino bianco, mentre lui aveva la sua solita palandrana color verde scuro, e l’usuale fazzoletto da taschino bianco.
Gli alberi dei Giardini erano tutti in fiore, e i prati si coloravano di rosso, arancione, azzurro, viola e giallo. Cosette ammirava il paesaggio come se lo avesse veduto per la prima volta, incantata da tanta bellezza.
Ad un certo momento, si voltò perché le parve di aver sentito un rumore: non era nulla, solo il fischio leggero del venticello primaverile; però, girandosi, incrociò lo sguardo di un giovane.
Era alto e magro, ed aveva i capelli corti color della sabbia bagnata. Cosette osservò che indossava un bell’abito nero, a dirsi nuovo. Ma notò soprattutto che quel ragazzo la stava guardando da prima, lo si intuiva dai suoi occhi sognanti. Lei gli rivolse un sorriso timido e, per non destare sospetti, si voltò di nuovo verso il padre, cercando di capire di cosa stesse parlando.
“…Vedi, anche a me piacevano molto i fiori, da giovane, io…”
Chissà come si chiama…
“…Bhe, poi, lo sai, facendo il giardiniere, con accanto un esperto come tuo zio…”
Chissà se mi sta guardando anche ora…
“…E tu cosa ne pensi, Cosette?”
La giovane scosse il capo, come per ridestarsi.
“Oh, io… non saprei dire, padre.” sorrise innocentemente, come solo lei sapeva fare.
Il resto della passeggiata si era svolto tranquillamente, senza che Cosette avesse più visto il giovane. Così era tornata a casa, piena di speranze ma anche un poco delusa, ed aveva cercato dei semi per le rose rosse. Sapeva che non era quello il periodo per piantarle, ma non se ne preoccupò minimamente.
“Se non lo rivedrò prima che sboccino,” si disse “vuol dire che non ci incontreremo mai più.”
Cosette era ancora seduta sulla sua altalena, quando udì un richiamo.
“Cosette!”
Si voltò di scatto, come se l’avesse punta un’ape, e vide Erik, davanti alla porta che conduceva all’interno della casa.
Gli sorrise, e lo invitò a venire vicino a lei.
“Non ti paiono bellissimi questi fiori?” gli chiese, soddisfatta.
“Sì, bellissimi, ma sono sempre gli stessi di ieri.” ribatté lui, rimanendo in piedi accanto all’altalena.
“Non è vero. Ho piantato dei nuovi fiori, delle rose rosse.” le sfuggì, colpita nell’orgoglio.
“Oh… quelle mi piacciono molto. Sono dei fiori passionai e tragici.” affermò il bambino, con l’aria di chi la sa lunga.
Cosette gli rivolse uno sguardo interrogativo per circa due secondi e poi, non potendosi trattenere, scoppiò a ridere. “Si può sapere dove le senti dire queste cose?”
“Non le sento dire da nessuno!” sbottò, offeso a sua volta “E’ una cosa che penso io…” concluse, a voce più bassa. Cosette, col rumore delle sue stesse risate, non lo sentì.
Quando si ricompose, chiese al fratello: “Comunque, dimmi, come mai sei venuto da me?”
Spesso Erik ‘invadeva’ il giardino di Cosette. Sentendosi a disagio ad andare in quello del padre, preferiva sedersi sul prato curato dalla sorella, a pensare. Pensava molto, a dire la verità, per un bambino di sette anni. Principalmente si scervellava sul perché fosse diverso. Così diverso, che non aveva mai visto qualcuno come lui. Fantasticava segretamente di essere il figlio di un imperatore di un paese lontano e sconosciuto*, di cui non si poteva varcare la soglia se non si aveva almeno una metà del viso sfregiato.
Non si era mai chiesto perché non gli fosse permesso uscire, tranne la sera, con Valjean, e sempre a patto che indossasse un mantello con il cappuccio. No, questo lo aveva già capito: non si era dimenticato del volto terrorizzato e allo stesso tempo disgustato della Madre Superiora quando lo aveva sorpreso a suonare l’organo. Era un incubo che sognava spesso: in più, il senso di colpa per essere stato la causa del trasferimento tanto immediato della famiglia. Era colpa sua, ne era certo; e il ricordo di Valjean che faceva i bagagli e di Cosette che salutava, con le lacrime agli occhi  le sue compagne per l’ultima volta, lo tormentavano, e non solo di notte.
“Sono venuto perché… ecco… vorrei che mi aiutassi a scappare.” spiegò, con un po’ di vergogna.
Cosette lo fissò intensamente negli occhi.
“Erik… cosa significa?” gli domandò “Ti sei già scordato dell’ultima volta che sei scappato, un anno fa?”
Il bambino abbassò lo sguardo, per poi, subito dopo, rialzare la testa, con gli occhi tristi ed un’espressione decisa.
“Non ho dimenticato, proprio per questo…” iniziò lui “vorrei smettere di essere un peso per te e papà.” confessò infine.
Cosette gli accarezzò il volto con la mano. “Non dire queste cose, Erik, neanche a scherzare…non sei mai stato un peso per noi!”
Lui non rispose per circa un minuto. Dal suo volto concentrato, Cosette capì che stava pensando. Assumeva spesso quell’espressione, ed aveva imparato, dopo tempo, ormai, che significava soltanto una cosa: bisognava stare zitti finché non fosse uscito da quella specie di meditazione.
Dunque la giovane attese, pazientemente; e, soprattutto, in silenzio.
“Ascolta: so già dove andare, starei bene, tu e papà potreste essere totalmente tranquilli. Non correrei rischi, questo ve lo posso assicurare.” si espresse infine, con aria seria e matura.
 “Sai già dove andare? Erik, per favore… non sei che un bambino, il tuo posto è qui a casa con noi due!” ribatté preoccupata la sorella maggiore, cercando di convincerlo a restare.
“Ti sbagli! Il mio posto è in strada, dove mi troverei se mia madre non mi avesse affidato a papà…” il suo tono aveva una durezza che non ci si poteva aspettare da un settenne.
Cosette lo guardò con un’espressione tragica sul volto. “Tu…” balbettò, non trovando le parole “Papà ha fatto grandi sacrifici per tenerti con lui, sai? Io mi ricordo bene, avevo dodici anni quando t’iniziò ad accudire. Ora… andartene, significherebbe dimostrare che tutti questi suoi immensi sacrifici non sono serviti a nulla, ci avevi pensato?”
Erik non disse niente, limitandosi a fissarla dritto nei suoi occhi azzurri.
“Inoltre,” continuò Cosette “come faresti, in strada, davanti a tutta la gente fuori, a mostrare il tuo volto?”. Un gemito di dolore uscì involontariamente dalle labbra del fanciullo.
“Sai bene che io e tuo padre adoriamo il tuo viso, te ne abbiamo sempre dato prova;” proseguì lei, con un sorriso materno “ma ci sono persone, al di là di questo cancello, ignoranti, per lo più, che direbbero cose brutte su di te. Cose che, per quanto tu sia molto difficile da scalfire, ti farebbero del male. Ti urterebbero molto, Erik. E io non voglio, per nessuna ragione, che questo succeda.”
In uno slancio di dolcezza, Cosette prese le spalle del bambino e lo strinse in un abbraccio.
“Soffoco!” ansimò lui, con il viso affondato nel suo petto florido.
Quando si fu liberato dalla morsa, Erik prese un gran respiro. “Capisco quello che intendi.” affermò.
Lei gli prese una mano e, guardandolo negli occhi, disse solennemente: “Prometti. Prometti che non scapperai, Erik.”
Il bambino si morse un labbro, incerto sul da farsi. Ma si disse che non poteva negare questo sollievo alla sorella.
“Prometto” pronunciò, altrettanto solennemente, mentre la sua mano destra scivolava lesta dietro la schiena, per incrociare le dita.
Cosette osservò con dolcezza il fratello che attraversava il giardino per tornare in casa, e si lasciò sfuggire un pensiero.
Ma sì…le rose fioriranno.
 
 
 
 
2 giugno 1832
 
Erik si guardò intorno, furtivo. Aveva appena lasciato il salone, e voleva essere certo di non avere nessuno al suo seguito. Quella sera, fortunatamente per i suoi piani, Valjean aveva un poco di febbre primaverile, e dunque era già stanco alle sei di sera. Cosette, neanche a dirlo, l’aveva amorevolmente seguito nella sua camera, per leggergli ad alta voce un libro, come faceva ad ogni malattia del padre.
Erik aveva colto l’occasione per augurare la buonanotte a tutti e due, e si era fatto portare, come al solito, in camera sua da Toussaint. Appena aveva sentito la porta chiudersi, tirò fuori da sotto il letto una specie di sacchetto di tela. Lo contemplò per qualche secondo, prima di aprirlo. Conteneva una giacca spessa, una piccola fionda, del pane bigio e del formaggio. Erik guardò con tristezza la custodia del suo violino, posata accanto alla porta. Era stato un regalo di Valjean, qualche giorno dopo del trasferimento in Rue Plumet.
“Io non me ne intendo molto, e non saprei che farmene di un violino…” gli aveva detto “ma ho capito che hai davvero una grande passione per la musica; e dunque questo è per te, figliolo.”
Gli diede un ultimo sguardo malinconico, costringendosi a pensare ad altro.
Ecco, mancava ancora un cosa… si diresse lentamente verso il cassetto della sua piccola scrivania, invasa da fogli pentagrammati. Lo aprì e scorse un’esile figura bianca al suo interno.
Era quello a cui aveva lavorato da mesi, in completa segretezza. Il suo passaporto verso il mondo esterno, fuori dalle noiose recinzioni di Rue Plumet.
Una maschera di color perlaceo brillò nel buio della stanza. Erik l’accarezzò e la portò, tutt’altro che rapidamente, verso il suo volto. L’adagiò sulla parte destra del viso, la parte martoriata, deformata, piagata…
Avrebbe voluto uno specchio. Ma sicuramente entrare nella stanza di Cosette e prendere quello piccolino, sulla sua toletta, sarebbe stato troppo rischioso. Quindi si limitò a toccarla diverse volte, con un sorriso soddisfatto.
Era finalmente pronto.
 
Dunque, aveva già passato il salone. Aprì con lentezza la porta di casa, di un legno massiccio, forse ciliegio.
Assaporò il vento fresco che gli scombinava i capelli e gli carezzava il volto. Metà del volto, per la precisione.
Strinse il bastone del suo fagotto fino ad avere le nocche bianche. Respirò, a pieni polmoni. Salutò con un  cenno della testa il giardino di Cosette.
Infine, spinse il cancelletto di ferro.
Sono fuori.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*Perdonate la semi-citazione a Cime Tempestose (libro che amo). Nel momento in cui Heatcliff, ormai diventato schivo in casa propria, fugge dai suoi doveri per passare del tempo con Cathy, insieme di domandano quali siano le origini di Heathcliff, e lei dice che, probabilmente, si tratta di un imperatore di un regno molto lontano.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice
Eccoci al terzo capitolo!
Che cos’abbiamo qui? Be’, direi un interessante Erik fuggiasco. Non ve lo aspettavate, eh?
Aggiungerei all’elenco anche una Cosette innamorata (e un Marius perso).
Che altro dire? Ah, sì. Le Rose Fioriranno.
Un enorme grazie a tutti coloro che hanno letto, preferito, ecc... ed un grazie speciale a Saitou Catcher, mia assidua recensitrice (?) u.u
Al prossimo capitolo,
rosa_bianca

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 - 3 Giugno 1832 ***


2 giugno 1832, Notte
 
 
 
 
Erik era a dir poco esausto. Aveva camminato, solo quella notte, più di quanto avesse fatto nella sua intera vita.
Si era fermato solo qualche minuto, in tutto il suo viaggio: davanti alla Senna.
Non l’aveva mai vista. A dir la verità, un volta: quando su madre l’aveva portato al Convento. Ma non poteva ricordarlo.
Era rimasto come paralizzato da tanta bellezza. Nel cielo notturno risplendeva una brillante luna piena, che si rifletteva sulle minuscole e pacifiche onde del fiume.
Erik, stupito da quello spettacolo, aveva sostato sul lungosenna il tempo che gli serviva per mangiare quel poco cibo che aveva portato. All’inizio aveva deciso di non consumarlo tutto subito; ma il suo stomaco ebbe la meglio sul cervello.
Così, lasciato il grande serpente argentato, il bambino si era diretto verso Piazza della Bastiglia.
Come faceva a saperne l’ubicazione? Semplice, aveva preso una cartina di Parigi da un libro nella stanza del padre. Si chiedeva cosa l’avrebbe aspettato, una volta giunto a destinazione.
Decise di smettere di pensare, perché doveva essere sempre all’erta. Anche in quell’ora tarda, diversi gendarmi facevano la ronda, e la cosa che desiderava di meno al mondo era essere scoperto.
Pian piano, passo dopo passo, strisciando furtivamente nelle ombre, Erik si trovò in un enorme spiazzo, il più grande che avesse mai visto. E, cosa ancora più stupefacente, nel bel mezzo della piazza c’era un enorme statua a forma di elefante.
Erik si sentì minuscolo in confronto a ciò che aveva davanti. Si fece forza, e raggiunse l’enorme monumento. Sapeva di dover aspettare lì.
“Sei arrivato…! Non ci speravo più, ormai!”
 Una voce lo fece sobbalzare.
Un viso, a lui noto, sbucò dal ventre dell’animale.
Salut.” fece Erik, laconico ed ancora non ripreso dallo spavento.
“Sali pure, non ti mangio mica!”
Il bambino iniziò ad arrampicarsi sui fragili pioli di corda sfilacciata, fino a raggiungere l’enorme interno della statua.
“Oooh…” si lasciò sfuggire. Si trattava di un pavimento di pietra, in tratti spaccata, a forma di conca. Al centro, si trovava il relitto di un elegante baldacchino, ora cascante a pezzi. L’unico altro arredo era un tavolino divorato dalle tarme, che serviva per reggere la candela.
“Questa è casa mia, amico!” esclamò gaio l’altro bambino. Aveva capelli quasi bruni, ma Erik avrebbe scommesso che, se fossero stati puliti, sarebbero stati biondi. Gli occhi erano piccoli ma furbi, di una tonalità tra l’azzurro e il grigio. Vestiva come un adulto, e tutti i suoi abiti avevano anche la misura di quelli di un adulto. Praticamente, ci sarebbero entrati tre bambini come lui.
“Vedo che sei riuscito a mettere a punto la mia idea.” gli disse poi. Sì, perché l’idea della maschera, Erik l’aveva avuta proprio da lui.
Una mattina, quando Valjean e Cosette erano a passeggiare al Lussemburgo, Erik si trovava nel piccolo giardino della sorella, nascosto dietro alla recinzione di ferro nero. Passava molto tempo ad osservare i bambini che passavano, quelli della sua età. Però non poteva farsi vedere, e questo lo amareggiava molto.
Ad un tratto, aveva udito un bambino che faceva chiasso in mezzo ala strada, cantando una di quelle canzoncine che andavano in quegli anni. Erik, senza neanche volerlo, si era sporto, tanto che  l’altro lo aveva visto.
“Buongiorno!” fece il bambino al di là del cancello, allegro. Erik rimase fermo un attimo, chiedendosi se avesse salutato proprio lui.
“Ehi, dico a te!”
Sì, aveva salutato proprio lui.
Erik sussultò. Qualcuno aveva visto il suo viso!
Notò che il bambino, intento a squadrarlo, non disse nulla né assunse un’espressione inorridita.
Accusò mentalmente Cosette di essere una bugiarda, a dirgli che lo avrebbero preso in giro.
“Ciao.” aveva dunque risposto, dopo qualche secondo. “Non ti ho mai visto qui.”
“Vengo da oltre la Senna.”
“E’ un bel posto?”
“Già.”
“Più bello di qua?”
“Direi di sì… perché non vieni? È abbastanza divertente, dove sono io.”
Erik, a questa domanda, era rimasto pietrificato. Ancora una volta si chiese se si stesse rivolgendo proprio a lui.  Non aveva mai pensato di poter uscire dalla casa senza nessuno che lo accompagnasse. Il brivido del fare qualcosa di proibito lo scosse da capo a pedi.
“Dov’è, precisamente?”
“A Place de la Bastille. Sei invitato… solo, vedi di metterti qualcosa. Che so, una maschera. Girare così sarebbe pericoloso.”
 Detto questo, il ragazzo vestito con abiti molto più larghi del suo esile corpicino, se n’era andato, fischiettando ‘Amiamo le ragazze, amiamo il buon vino’ sull’aria di Enrico IV. Tutto era successo così, con una rapidità aiutata senza dubbio dall’ingenuità dell’infanzia. Da quel giorno, Erik aveva iniziato a costruirsi una maschera, in modo da poter far visita allo strano bambino che aveva incontrato. Solo così si sarebbe sentito grande.
Ma dentro l’elefante non si sentiva grande, nient’affatto: piccolo, piccolissimo, minuscolo.
Si tastò la maschera, frutto del lavoro di notti intere, per darsi forza.
“E’ molto bella… sei bravo, sai?” si complimentò l’altro. Poi chiese: “Però non so ancora in tuo nome. Io sono Gavroche, al tuo servizio.” Nel presentarsi, abbozzò un buffo inchino.
“Erik, piacere.” fece lui “Ma… questo posto è tuo?”
“Mio, sì, ma di tutti: do il benvenuto a chiunque serva un rifugio per la notte.” rise il più basso dei due. “Bene,” continuò “suppongo che sarai stanco. Prego, accomodati”. Gavroche indicò il baldacchino tarlato, ed Erik ci si avvicinò.
Provò un moto di disgusto nel sentire l’odore di vecchio che emanava, e pensò che quasi certamente qualcuno ci era morto di sopra. E, dando un’altra annusata, avrebbe potuto affermare che ci fosse anche rimasto un bel po’.
Erik cercò di respirare con la bocca, e si stese sopra il lenzuolo che tempo prima doveva essere di un bel rosso scarlatto. Gavroche, intanto, prese la candela e la spense, poggiandola accanto al letto.
“Buonanotte.” disse, mentre s’infilava sotto le coperte.
“Buonanotte…”
 Erik sentì uno strano squittio proveniente non troppo lontano dal baldacchino, e trattenne il respiro dalla paura. Ma era così stremato che non poté far altro che cadere addormentato dopo pochi secondi.
 
 
 
 
 
 
 
3 Giugno 1832
 
 
 
 
Cosette si svegliò con un tiepido sbadiglio. Sorrise al ricordo del dolcissimo sogno che aveva fatto –si trattava sempre di Marius, ormai- e si accorse che per tutta la notte aveva dormito con il cuscino stretto tra le braccia, tanto che pareva sformato.
Diede uno sguardo al piccolo balcone della sua stanza, e per un momento credette di rivedervi il giovane, proprio come era successo qualche ora prima, durante il suo sogno.
Con un gesto deciso, scosse la testa ed i suoi lunghi capelli bruni le ricaddero sulle spalle. Si sedette alla sua toletta ed iniziò a dare forti colpi di spazzola. Si pettinò con un lunga treccia, per cambiare, ed scelse come vestirsi.
Dieci minuti dopo il padre la vide, radiosa come sempre, alla fine delle scale che portavano al piano di sopra.
“Buongiorno Cosette.”
“Buongiorno papa.” gli sorrise lei, entrando nella sala da pranzo.
“Buongiorno.” Mormorò lui sovrappensiero e, dopo aver alzato il capo, aggiunse “Ed Erik? Non era sopra con te?”
Cosette scosse la testa con garbo e si sedette. Cominciò a bere il suo tè con educata lentezza.
“Sai, credo che non gli piaccia molto come gli sto facendo da insegnante…” disse Valjean all’improvviso, dopo molti attimi di silenzio.
“Oh, papa, ma voi siete fantastico. E poi, con l’aiuto di tutti i nostri libri e… di me, Erik diventerà un ragazzo molto colto, ve lo assicuro.” lo confortò lei, non troppo convinta.
Da una anno, ormai, suo padre si ritirava per quattro ore consecutive nello studio con Erik per insegnargli a leggere, scrivere, far di conto e altre nozioni basilari. Aveva da subito notato la genialità del bambino, che in poche ore aveva capito come compitare tutte le parole francesi di cui faceva uso. Inoltre, data la sua passione per la musica, aveva chiesto in regalo a Valjean un dizionario di italiano, per comprendere tutte le parole negli spartiti, e anche qualcosa in più. Cosette doveva ammettere che il ragazzo era molto sveglio, ma suo padre non era molto istruito. Aveva avuto occasione d’accorgersi che s’intendeva certamente più di piante che di letteratura o fisica.
Comunque, Cosette rinforzò la sua precedente affermazione con un sorriso rassicurante.
Quando tutti e due ebbero finito la colazione, Valjean chiese alla domestica di svegliare Erik. La richiesta fu immediatamente seguita da un forte starnuto, a causa del suo raffreddore.
Papa, state bene? Volete un'altra coperta sulle spalle?” gli chiese preoccupata Cosette.
Prima che Valjean potesse rispondere, videro Toussaint, in cima alle scale, con l volto segnato da rughe di sconcerto e preoccupazione.
“Cosa succede?” domandò preoccupato il padrone di casa.
“Monsieur Fauchelevent…” ansimò, avvicinandosi alla sala da pranzo “…è scomparso.”
“Come è scomparso?” sbottò Cosette “Hai cercato dappertutto, al piano di sopra?”.
La donna annuì, mentre Cosette già correva verso il giardino.
“Vedrete, papà, sarà di certo qui…” sussurrò, più a sé stessa che a Valjean.
La sua espressione di speranza mutò completamente quando vide il giardino vuoto.
Si accasciò alla portafinestra, singhiozzando. “No… aveva promesso… me lo aveva promesso!”
Valjean, non capendo la razione della figlia, le si avvicinò.
“Cosette… cosa ti aveva promesso, esattamente?”
La giovane alzò la testa, prima poggiata alle ginocchia, e mostrò il  volto rigato dalle lacrime al padre.
“Lui… voleva scappare. Me lo aveva confessato. Diceva che per noi due lui era un peso, e che avrebbe vissuto in strada…” fece una pausa per asciugarsi gli occhi con il fazzoletto bianco portole da Valjean “…Io gli ho detto che è tutt’altro che un peso, che noi lo amiamo così com’è, e anche che in molti, là fuori, riderebbero di lui e sarebbero meschini… e poi… poi gliel’ho fatto promettere! Lui aveva promesso che non se ne sarebbe andato!”
L’uomo assunse un’espressione calma, per non fare agitare maggiormente Cosette. Se le cose stavano così, ragionò, Erik poteva essere dovunque. Supponendo che fosse ancora vivo.
Un lungo brivido scosse Valjean da capo a piedi.
Quando c’erano si verificavano delle sparizioni, cosa si faceva…? Ovvio, le si denunciavano.
Per un motivo sconosciuto a Cosette, l’uomo scartò da subito quest’ipotesi.
Si disse che non poteva entrare in commissariato, sarebbe stato troppo rischioso.
“Alzati, Cosette, tesoro… va tutto bene. Lo troveremo, vedrai-” affermò con voce dolce e decisa.
Papa, ma come? Noi tre da soli? Io, te e la Toussaint?” domandò disperata la giovane “E’ impossibile!”
“No, non è impossibile. Mettiamoci all’opera, piuttosto.”
Così Valjean indossò la sua giacca più pesante, per preservarsi dal raffreddore, e chiamò una carrozza.  Cosette lo seguì a ruota, come pure la vecchia domestica.
“A Saint-Michel, per favore.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice
Purtroppo si tratta di uno di quegli odiosi/noiosi capitoli di transizione. Pazienza, era necessario.
Abbiamo visto che Erik è ormai sano e salvo da Gavroche, mentre a casa Fauchelevent si iniziano già le ricerche.
Che dire… spero che vi sia piaciuto! Il prossimo capitolo sarà moooolto più consistente XD
Al prossimo aggiornamento,
rosa_bianca

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 - 4 Giugno 1832 ***



 4 giugno 1832, Mattina
 


Papa, come potete sapere che si trova a Saint-Michel?” chiese preoccupata Cosette a Valjean, quando erano ancora nella carrozza.
“Mi sembra uno di quei posti che potrebbe attirare Erik… conosco il quartiere: ci sono molti, tantissimi bambini come lui.” rispose sicuro l’uomo, mentre in realtà il dubbio gli divorava l’anima.
Se non fosse riuscito a ritrovarlo, avrebbe mancato di rispetto alla parola data alla sua povera madre. Alla mia seconda Fantine…
Ma no, decise che non voleva pensarci. L’avrebbe scovato, prima o poi.
Sperava più prima che poi.
Cosette lo guardava piena di speranza, e lo abbracciò come se fosse la sua unica ancora di salvezza.
“Figlia mia, ora dovremmo chiedere ai passanti, sai, se lo hanno visto in giro. Perché non ti sporgi tu, e domandi a qualcuno?”.
La giovane annuì, staccandosi dal gilet, ormai zuppo di lacrime, di Valjean.
Guardò fuori al finestrino e vide un ragazzo che avrebbe potuto questionare. Fece fermare dunque la carrozza.
Il passante se ne accorse, e le si avvicinò. SI tolse il lungo cilindro ed improvvisò un inchino.
“Al vostro servizio, mademoiselle” le disse, con un sorriso cortese. Cosette fissò quegli occhi neri profondissimi, neri come il carbone.
“Scusate, monsieur, ma cerchiamo un bambino. Circa sette anni, ne dimostra almeno otto, capelli neri, occhi verdi, vestiti curati… avete per caso visto qualcuno che corrisponda a queste caratteristiche?” domandò, aspettando pazientemente la risposta.
“Courfeyrac!” urlò una voce, da dentro il palazzo che si trovavano davanti, una locanda, a quanto pareva. “Courfeyrac, torna subito dentro o ti legherà con la bandiera francese e ti butterà nella Senna!”
Cosette arrossì visibilmente, prima di scoppiare in una risatina, che suonò stranamente cristallina dopo tutte le ore passate a piangere.
“Siete voi il signor Courfeyrac?”
“Oh, non fateci caso… sono giovani ubriachi!” rispose lui, sviando la domanda con un gesto incurante della mano. E, ansioso di cambiare argomento, disse: “Mi spiace, madamigella, non ho veduto il bambino di cui parlate… mi rincresce, sinceramente.”
Proprio mentre Cosette stava ringraziando il gentile ragazzo e Valjean dando l’ordine al cocchiere di ripartire, dalla porta della locanda comparì un giovane.
“Courfeyrac!” chiamò la sua voce.
Il cuore di Cosette mancò un battito.
Lo stesso corpo alto e magro, gli stessi capelli color sabbia, lo stesso elegante abito nero…
I due fecero in tempo a lanciarsi una breve occhiata, quando i cavalli ripresero al trotto per le vie di Saint-Michel e lui divenne solo un puntino agli occhi di Cosette.
 
 
 
 
 


 
“Io te lo giuro, Courfeyrac, se esci un’altra volta…!”. La voce dell’alto uomo biondo dagli occhi di ghiaccio risuonò in tutta la locanda. “Sai bene che non devi distrarre gli altri Amici durante le riunioni! Stiamo pianificando qualcosa di importante, qui.”
Il ragazzo col cilindro sospirò e si rimise a sedere, sorridendo della sua solita serietà: “A sentire te anche una mosca può distogliere irreparabilmente l’attenzione dai tuoi preziosi discorsi…”
“Bene, allora…” mormorò il leader biondo, Enjolras, con aria di sfida “riferisci a tutti ciò di cui stavamo parlando.”
Gli Amici dell’ABC soffocarono una risata, perché sapevano che il loro capo non era un tipo che vorresti incontrare quando è arrabbiato. Il gruppo stette quindi in silenzio, aspettando quella che sarebbe di sicuro stata un’irriverente risposta da parte di Courfeyrac.
“Non siamo a scuola, e tu non sei il nostro maestro.” sorrise lui.
Anche il giovane che Cosette aveva incontrato ai Giardini del Lussemburgo, che faceva di nome Marius Pontmercy, si sedette in silenzio.
Enjolras scosse la testa con sdegno, ovviamente insoddisfatto della risposta. Combeferre, l’occhialuto al suo fianco, non poteva fare a meno di sorridere.
“Comunque c’è il novantanove per cento di probabilità che stessi ciarlando nuovamente di Robespierre, Saint-Just, Danton, i principi… con qualche accenno alla Bastiglia e poi al ’93: ho indovinato, non è vero?”
Gli Amici stavolta risero tutti. E’ vero, gli argomenti che trattavano spesso erano già stati sentiti e risentiti… ma a nessuno dispiaceva sentir parlare il carismatico Enjolras, che metteva sempre passione e forza nei suoi discorsi.
Quando il chiasso fu esaurito, il capo ricominciò a parlare, con la sua voce suadente.
Pochi secondi dopo, Marius si allungò fino all’orecchio del migliore amico, che era proprio Courfeyrac, e gli sussurrò, con visibile emozione: “La fanciulla, quella in carrozza… era la mia Ursule!”
 
 
 
 
 
 
 



Erik si sedette vicino a Gavroche, con la schiena appoggiata al muro di un vicolo di Saint-Michel.
Spesso accadeva che i due si guardassero senza dire una parola, una cosa che accade abbastanza comunemente tra i bambini. Questo era proprio uno di quei momenti.
Riprendevano fiato, respirando affannosamente con la bocca, dopo la lunga corsa. Avevano rubato un po’ di pane al fornaio, ma ormai lo avevano seminato da tempo. Era un vecchio alquanto grasso, e nessuno, che loro sapessero, si era preso la briga di inseguirli.
Erik sorrise. Non poteva credere che, solo un giorno prima, la sua vita fosse così monotona e noiosa! E ora era lì, accasciato al pavimento lurido e bagnato di una stradina buia, in compagnia di un amico con cui aveva appena commesso un furto.
 Decisamente tutta un’altra musica.
Si tastò la maschera, per assicurarsi che fosse ancora ben aderente al volto. Assaporò il silenzio, per qualche attimo. Non c’erano rumori, niente di niente, non si sentiva nessuno.
Ad un tratto, un suono gli fece voltare la testa verso destra. All’imbocco della strada vide una grande carrozza di legno rossiccio. Aguzzò gli occhi e notò un particolare: affacciata al finestrino, c’era una giovane dai lunghi capelli bruni, col volto sofferente. Aveva fatto fermare la carrozza, accanto alla quale sostava un poliziotto.
Erik trattenne il respiro. No, non l’aveva ancora visto. Meglio così.
“Scusate, monsieur,” chiese Cosette ad un passante “avete visto un bambino per caso? Circa sette anni, occhi verdi e capelli neri…abbastanza alto…”
“Andiamo via, Gavroche!” sussurrò Erik all’orecchio del biondo, prima di alzarsi.
“E direi! Quello è un coquer*!” rispose lui, lanciando un’occhiata all’alto uomo in divisa blu che stava rispondendo alla domanda della giovane.
I due bambini si nascosero rapidamente in un altro vicolo.
“E ora?” chiese Erik, prima di vedere che Gavroche stava aprendo una minuscola porticina su una parete in mattoni. Con il sorrisetto di chi la sa lunga, s’intrufolò nell’edificio, aspettando che l’amico facesse lo stesso.
“Be’, non vieni?”
Quando furono dall’altra parte, Erik si lasciò sfuggire un sospiro di meraviglia. Erano dentro una locanda, come se fossero entrati dalla porta principale! Si appuntò mentalmente che quando sarebbe cresciuto avrebbe costruito nella sua casa più porte per entrare a suo piacimento nelle stanze.
Quella che aveva davanti era una sala abbastanza spoglia, se non per i pochi arredi (un enorme tavolo al centro, due tavolini agli angoli ed un bancone), per la mappa di Parigi alle pareti, segnata da diversi puntini rossi, ed una bandiera francese appesa al muro.
Nella stanza c’erano quasi una dozzina di uomini seduti, uno solo era in piedi. Erik notò che Gavroche doveva avere una discreta familiarità con tutti loro, perché interruppe il discorso dell’uomo biondo davanti al tavolo, Enjolras.
Non gli era mai capitato di vedere una persona così… bella. Certo, Cosette era molto graziosa. Si poteva dire che Valjean portasse bene tutti gli anni che gli gravavano sulle spalle. Toussaint… be’, di Toussaint non si poteva dire proprio nulla. E, per lo più, insieme allo zio ed alla Madre Superiora, queste erano le uniche persone che avesse mai visto. Di sera, durante le sue brevi passeggiate col padre, non riusciva a guardare nessuno: il cappuccio del mantello che gli copriva il viso lo obbligava a posare gli occhi a terra.
Dunque, alla visione di un uomo affascinante come il capo degli Amici dell’ABC lo stupì molto.  Fu preso da un terribile senso di sconforto, e maledisse l’ingiustizia con la quale Dio distribuiva la bellezza agli abitanti della Terra.
Erik rimase fermo immobile accanto alla porta, imbarazzato dalla presenza di tutta quella gente. Tutta in una sola stanza!
“Buongiorno a tutti!” gridò sconsideratamente Gavroche, interrompendo i pensieri di Erik.
L’occhiata che Enjolras gli riservò  avrebbe potuto incenerire persino l’acqua.
Ma il bambino non se ne accorse. O fece finta di non accorgersene.
“Quindi, come va? Che si dice, è già tutto organizzato?” domandò, mentre continuava a girovagare per la stanza con passo disinvolto.
L’uomo dagli occhi  di fuoco non si degnò di rispondere.
Courfeyrac, invece, sì.
“No, ancora pressappoco nulla, ci dovremmo sbrigare” sorrise, in tono sarcastico. Erik notò che sembrava avere molta più confidenza degli altri col suo amico, perché tutti gli altri Amici erano rimasti zitti dall’arrivo di Gavroche.
A quel punto il capo non ci vide più.
“Forse avremmo avuto tempo e modo, ma qualcuno” disse accentuando molto l’ultima parola e guardando torvo i due interlocutori “non fa altro che sabotare con la propria disattenzione e scarsa sensibilità tutto il progetto.”
Dal fuoco al ghiaccio!, pensò affascinato Erik.
“Uff, allora vi lascio stare.” sospirò con finta tristezza Gavroche “Me ne andrei subito, ma vi devo proprio presentare qualcuno.”
 La sua testa bionda si girò verso Erik, seguita a ruote da tutte quelle degli Amici.
Il bambino nell’angolo cercò di farsi il più piccolo possibile.
Enjolras gli diede un’occhiata veloce e poi, accennando un ‘mah!’ si voltò verso Combeferre ed iniziò a indicare alcuni dei puntini rossi sulla mappa.
È per via della maschera, pensò Erik.
Un giovane dai lunghi capelli biondi ed i tratti femminei lo esortò a parlare. “Come ti chiami?”
“Jehan, ma che fai? Lo metti in imbarazzo!” scherzò il suo vicino di sedia, un uomo alto e magro, che Erik non aveva visto far altro che sorridere: Bossuet.
“Lo so meglio di lui, cosa voglia dire essere messi in imbarazzo.” si difese l’altro, in tono offeso, incrociando le braccia.
No, non lo sai, pensò Erik.
“Signori, vi prego…”. Una voce dall’angolo sud del locale si alzò, imponente. “Fate parlare lui, anziché dimenare inutilmente le vostre lingue come trote appena pescate.” A quel punto alzò il palmo della mano al cielo, verso il bambino. “Suvvia, dicci: come ti chiami?”.
Un borbottio che doveva essere qualcosa come ‘ma è quello che ho chiesto anch’io!’ venne represso con una poderosa gomitata da parte di Bahorel, un uomo muscoloso e ben piazzato seduto accanto a Jehan.
“Erik.” rispose semplicemente.
Enjolras pareva sempre più spazientito. Stava per aprire la bocca per riportare i compagni al discorso precedente, quando Gavroche si avvicinò ad Erik e disse: “Credo che voglia partecipare anche lui. Sembra tosto.”
Delle risate soffocate arrivarono da più o meno tutti gli angoli della sala.
Ridono di me, pensò Erik. Rimase ancora zitto, immobile, con i pugni così stretti che le unghie gli s’infilavano nella carne.
Ma poi, partecipare a cosa? Gavroche gli aveva accennato di una ‘rivoluzione’, di ‘barricate’ e ‘sommosse’, ma lui non aveva capito pressappoco nulla. Era molto intelligente, sì, ma ci sono cose che non puoi sapere se ti dedichi solo ai libri di musica e architettura.
Enjolras era anche lui fermo, come una statua, la sua solita ruga di disapprovazione gli segnava il volto.
Visto che nessuno si azzardava a parlare, Courfeyrac esordì, col sorrisetto ironico che gli era proprio: “Non possiamo portare due bambini, lo sai. Tu basti e avanzi, carino.”
“Vi dico che farà grandi cose, amici. Ne son certo.” ribatté sicuro il bambino.
“Basta! Non sono posto per marmocchi, le barricate!” gridò Enjolras, con gli occhi ardenti.
Una risatina tra il rassegnato e l’ironico serpeggiò tra la sala. “Coraggio, Apollo, lascialo fare. Se il piccolo dice che ha fegato, be’, sta certo che io gli credo!”
“Grantaire, non puoi affidarti a-” controbatté l’altro infuriato, prima di essere interrotto.
“Non è affar tuo quello che vuole fare questo ragazzino! Non puoi sempre comandare tutto e tutti!”
Enjolras schiuse le labbra per contestare, ma si trovò a boccheggiare senza trovare la risposta che aveva sempre sulla punta della lingua.
Una voce risoluta si alzò, interrompendo il silenzio teso nella locanda.
“Bisognerà fare a votazione. Sapete tutti bene come io la pensi.” Combeferre fece una pausa, poi chiese ad Erik: “Ma tu sei sicuro di voler partecipare?”
Il bambino si guardò attorno per un lungo attimo. Tutti i volti erano abbastanza tesi. L’esile giovane dai lunghi capelli biondi, a fianco a quello massiccio, non sorrideva più. L’uomo all’angolo, quello che aveva chiesto per la seconda volta il suo nome, guardava con aria grave il capo.
Il silenzio venne interrotto da un solenne starnuto da parte di un ragazzo lentigginoso.
“Sì, voglio partecipare.” si azzardò Erik. Ormai il gioco era fatto. Non aveva idea di cosa stava andando incontro, non poteva immaginarlo. Però voleva seguire Gavroche, perché ormai gli era parso di essersi fatto un buon amico.
Non avrebbe perso per nulla al mondo il suo unico amico.
L’espressione di Combeferre di fece per un attimo sofferente, ma si ridiede un contegno, spingendosi gli occhiali sul naso.
“In tal caso… temo che sarà necessario votare. Joly?”
“Non mi par giusto che ci segua. Se non muore subito, potrebbe prendersi una malattia. I bambini sono fragili.” rispose serio quello col raffreddore.
“Courfeyrac, segna: due no ed un sì. Marius?”
“Perché buttare così una vita? No, decisamente.”
Bahorel intervenne: “Si dovrebbe rispettare il volere del ragazzo.”
“Già, anche per me.”
“Sono d’accordo.”
“Lo credo anch’io.”
“Umph!”
“Non sempre le cose girano per il verso in cui le vuoi tu, Apollo. Io dico che Erik può fare ciò che vuole.”
“Courfeyrac? A quanto siamo?” domandò il leader, non volendo rispondere all’ubriaco nell’angolo.
“Sei sì e quattro no.” annunciò lui, poggiando la piuma sul tavolo.
“E sia.” mormorò Enjolras freddamente “E ora andate via, dobbiamo fare ancora molte cose importanti, qui.”
Gavroche, che pareva molto soddisfatto, raggiunse Erik. I due stavano per uscire dalla porticina a lato, quando il rumore di qualcuno che correva per le scale li distrasse.
La testina bionda si voltò di scatto, come se avesse riconosciuto il rumore dei passi.
“Il Generale Lamarque è morto!” ansimò la piccola creatura che cercava di riprendere  fiato davanti alle scale.
Anche Enjolras si voltò velocemente.
“Cosa…?” fu il mormorio che attraversò la sala.
L’attenzione di Erik era ancora sulla giovane messaggera. Non notò gli occhi lucidi del capo degli Amici dell’ABC, né la contentezza negli occhi di Gavroche, né si chiese chi diavolo fosse questo Generale.
Si trattava di una fanciulla molto minuta: bassa e scheletrica. Gli sporchi e lunghi capelli quasi neri le scendevano disordinatamente sulle spalle, dove la camicia di gran lunga più grande del suo esile corpo era strappata e mostrava l’attaccatura del seno. Le gambe magre erano per lo più scoperte, e nel complesso aveva un’aria goffa ma decisa. I suoi occhi castani puntavano un soggetto ben preciso, Erik se ne accorse: il giovane che aveva risposto alla votazione al nome di Marius.
“Il Generale Lamarque è morto.” ripeté lei, staccando gli occhi dal ragazzo.
“Lamarque è morto…” bisbigliò con ammirato stupore Enjolras. “E’ arrivato il momento!”
“Il funerale sarà domani.” aggiunse la giovane, Eponine, il cui respiro era tornato regolare.
“Domani! Dopo il funerale! Domani si innalzeranno le barricate!” esclamò esaltato il capo. “Domani faremo vedere ai tiranni di cosa è capace il grande popolo di Francia!”
Erik osservava la scena attentamente. Tutti sembravano felici all’incirca come Enjolras, e si sentivano molti mormorii eccitati, anche da parte di Gavroche. “Hai visto? Domani è il grande giorno!” gli aveva detto con soddisfazione.
 Uno solo era rimasto completamente zitto, con un’espressione tra il sognante e l’affranto.
“Forza, R! ci servirai anche tu, alla barricata!” rise Bossuet, in direzione del giovane seduto al tavolino all’angolo. Lui fece un mezzo sorriso ed alzò la bottiglia che teneva in mano.
“Alla salute!” esclamò ironicamente.
Subito dopo gli altri  giovani si alzarono dalle sedie, troppo esultanti per rimanere seduti, ed iniziarono anche loro a puntare le dita sulla cartina di Parigi, a parlare concitatamente con Combeferre, a ridere ed a scherzare, alternando momenti di totale serietà ad altri di ilarità generale.
“Vieni, andiamo, li raggiungeremo domattina. Ora non hanno bisogno di noi.” bisbigliò Gavroche all’orecchio di Erik, e nessuno notò che i due bambini in pochi secondi avevano già aperto la porta ed erano filati.
 
 
 
 
*Sbirro, in argot.
 
 
 
 




Angolo dell’autrice
 
Buongiorno a tutti :3
Allora, finalmente un capitolo molto interessante. Valjean e Cosette sono alla ricerca di Erik, che però se ne scappa di qua e di là con Gavroche. E, soprattutto, parteciperà alla rivoluzione. In più, fanno la loro apparizione gli Amici dell’ABC ed Eponine *ta-daaaaa*
Bene, detto questo mi dileguo!
Grazie a tutti coloro che leggono e recensiscono,
rosa_bianca

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 - 5 Giugno 1832, Parte Prima ***


4 giugno 1832, Vespro
 
 
 
Cosette entrò in casa a passi lenti e rassegnati, mentre Valjean aveva già raggiunto il suo studio.
Non lo avevano trovato, in ben un giorno di ricerca. Internamente, sia il padre che Toussaint avevano perso quasi del tutto le speranze.
Cosette no. Lei era certa, certissima, che Erik si trovava da qualche parte vicino a lei, che la stava pensando e che sarebbe tornato a casa presto.
Continuò a camminare fino a trovarsi davanti alla porta della sua camera. Vi entrò e si posò sul letto.
Ripensò alle parole di Valjean.
 “La gente vocifera che ci sarà una sommossa, domani. Dovremo interrompere le ricerche.”
A sentirlo, Cosette si stupì di suo padre. Come aveva potuto dire una cosa del genere? Eppure lei pensava che gli importasse trovare Erik… evidentemente non quanto importasse a lei.
Ovviamente, questo non era che il suo pensiero, ma in realtà Valjean, nel suo studio, si stava arrovellando anche lui per trovare un modo sicuro di continuare a girare per Parigi anche il giorno successivo.
La differenza è che a Cosette non importava la sicurezza.
Se Erik fosse morto, morirei anch’io.
Poi la mente le andò al giovane che aveva visto per la seconda volta quel pomeriggio. Sospirò amaramente.
Perché sembrava che tutto andasse così male? Non sapeva neanche il suo nome…
Cosette strinse i pugni e si alzò. Scese rapidamente le scale ed informò Toussaint che quella sera non avrebbe cenato.
No, avrebbe avuto cose molto più importanti da fare…
 
 
 
 
 
 
 
 
5 giugno 1832, Mattina
 
 
 
Erik non si era mai sentito così frastornato. Da quando si era svegliato, quella mattina, era come se non avesse avuto più la pallida idea di ciò che stava succedendo sotto i suoi occhi.
Aveva seguito Gavroche, e questo bastava per farlo sentire al sicuro, per quanto possibile.
Non aveva mai partecipato ad un funerale. La bara di Lamarque era un’enorme cassa da morto di mogano, ornata da bandiere tricolori a non finire.
Poi, in un attimo, tutto era degenerato. Uno sparo sulla folla, e gli Amici dell’ABC si erano messi a correre verso la barricata. Ce n’erano moltissime, sparse in tutta la città.
Enjolras li aveva guidati al Corinto, che sarebbe stata la loro base. Si erano armati, avevano caricato le pistole, la barricata era pronta.
A quel punto Erik sentì che stava per iniziare. Cosa? Tutto e niente, si disse.
La locanda si era popolata di donne con grembiuli candidi, che avrebbero fatto da infermiere.
I ragazzi si erano rifugiati dietro i mobili che costituivano l’alta barricata, con i fucili in mano.
Gavroche era eccitatissimo, e se ne andava ovunque a chiedere se avessero bisogno di aiuto.
Erik iniziò ad avere paura, invece. Eppure, qualcosa in quell’atmosfera euforica ed allo stesso tempo pregna di timore, lo faceva sentire coraggioso.  Si tastava spesso la maschera per controllare che aderisse perfettamente sul volto, e ne conseguiva sempre un impercettibile sospiro di sollievo.
“Erik, vieni!” gli gridò Gavroche, facendo cenno con la mano di avvicinarsi. “Ti voglio presentare mia sorella, Eponine.”
Erik squadrò la giovane, senza chiedersi il perché del suo abbigliamento maschile. Ecco chi era! La ragazza che aveva portato l’annuncio della morte del Generale.
“Stai zitto, o mi scopriranno!” bisbigliò affannata lei, puntando involontariamente gli occhi sul solito giovane. “E vedi di non parlare neanche tu!” consigliò, minacciosa, ad Erik. Poi girò i tacchi e rientrò nella locanda.
“Non ci fare caso, fa sempre così.” sorrise Gavroche, stringendosi nelle spalle con aria vissuta. “E pensa che questa è l’unica sorella con cui riesco ad avere una conversazione civile! Ma se non ci fossi io, lei sarebbe perduta!”
La mente di Erik andò a Cosette. Chissà se lo stava ancora cercando, in carrozza, come il giorno prima. Magari aveva lasciato stare. Provò una fitta di dolore solo al pensiero.
In fondo non era questo che volevo? Che mi lasciassero in pace, che continuassero a vivere le loro vite senza essere disturbati dalla mia maledizione?
“Gavroche!” chiamò una voce, dal lato sinistro della barricata.
“E’ Courfeyrac, andiamo.” suggerì il piccolo biondo. Raggiunto l’uomo, i due si misero ad ascoltarlo.
“Sentite, ho bisogno che mi facciate un favore.” iniziò, quasi bisbigliando, accompagnando le parole ai suoi soliti gesti “Lo vedete, no, Marius?” chiese, indicando con la testa un ragazzo alto alla porta del Corinto. “Bene, ho un assoluto bisogno che me lo controlliate per bene.”
“Cosa?” esclamò Gavroche, quasi offeso “Io sono venuto qui per combattere, non per fare da balia ad uno con più del doppio dei miei anni!”
Courfeyrac parve offeso, ma non ribatté. Lanciò  invece uno sguardo pietosamente interrogativo ad Erik. “Lo potresti fare tu, allora?” domandò, e poi aggiunse, con un tono a cui non si poteva dire di no “Per favore…”
Erik si strinse nelle spalle. Osservò brevemente il ragazzo indicato da Courfeyrac. Notò che aveva un’aria sognante che gli parve da scemo.
“Va bene, accetto.” rispose con calma. Courfeyrac, dopo aver visto l’espressione di Erik, disse fiero “Comunque, non è come sembra, diciamo. È un ragazzo d’oro, davvero intelligente.” Fece una pausa.
“A te il compito di controllare che non faccia cavolate.” concluse, e si ritirò dentro il Corinto per fare incetta di armi.
Erik si esaltò subito del suo primo compito. Almeno, in questo modo avrebbe aiutato.
Lasciò che Gavroche tornasse dalla sorella e si diresse, senza farsi troppo notare, verso Marius.
La battaglia non era ancora iniziata, e tutti si muovevano, come per mascherare il nervosismo, avanti e indietro, portando tra le braccia armi, mobili in legno per la barricata, chiedendo alle donne affacciate ai balconi di lanciare materassi.
Enjolras stava istruendo un ragazzo molto più giovane di lui a prendere la mira per sparare, quando un rumore dietro di lui colse la sua attenzione.
“Va a digerire il vino che hai bevuto fuori di qui. Non disonorare la barricata.” ordinò, freddo, senza neanche voltarsi per cercare il contatto visivo con l’interlocutore.
Grantaire, dal canto suo, si era appoggiato ad un tavolino con tre gambe, e osservava la schiena del suo marmo.
“Tu sai che io credo in te.” disse, in tono serio e non più sognante. Non sembrava più ubriaco.
“Vattene.” sibilò Enjolras, ancora girato verso il giovane con la pistola.
“Lascia che dorma qui.” lo supplicò l’altro.
“Va a dormire in un altro posto!” gridò l’uomo vestito di rosso, voltandosi bruscamente e puntando i suoi occhi chiari ed ardenti in quelli scuri di lui.
“Lasciami dormire qui, fino alla morte.” rispose con voce grave.
Erik strabuzzò gli occhi dinnanzi a tanta testardaggine. Non era sicuro che avrebbe agito con tanta ostinatezza, se si fosse trovato davanti quello che non era un uomo, ma una fiamma. Notò che Marius ed altri Amici non stavano osservando la scena. Solo tre o quattro avevano, come lui, gli occhi puntati sui due uomini.
“Grantaire, tu sei incapace di credere, di pensare, di volere, di vivere e di morire.” constatò duramente Enjolras.
“Vedrai.” fu la risposta lugubre che seguì. Il capo si voltò, con fare noncurante ed addirittura seccato dal comportamento del compagno.
Erik, che era un acuto osservatore, notò il leggero brivido che scosse Enjolras dopo la risposta dell’ubriaco. E si chiese come faceva, quell’uomo, a non far notare le sue emozioni. A rimanere sempre come… come una statua, ecco. Impassibile. Chissà quante cose avrebbe voluto dire ancora, quante altre risposte avrebbe desiderato dare…! Eppure era lì, fermo immobile.
Erik si disse che era meglio cercare di fare qualcosa di più utile di rimanere a fissare la schiena di una persona –cosa che non passò neanche per l’anticamera del cervello a Grantaire-, dunque girò i tacchi per entrare al Corinto. Aveva moltissima sete, poiché non beveva dalla sera prima. Quella era una locanda, quindi doveva pur esserci un po’ d’acqua per lui, giusto?
Al solo entrare, le sue narici furono pervase da un acre odore di polvere da sparo, che cercò di ignorare. Però, prima che potesse anche solo muovere un passo per cercare una botte, il naso prese a solleticargli irrefrenabilmente. Il suo corpo si flesse all’indietro e, con impeto, si sporse dal lato opposto a starnuto finito.
Ma Erik avrebbe dovuto capire subito che c’era qualcosa che non andava. Insospettito dagli sguardi delle neo-infermiere, posò lo sguardo in terra.
I suoi occhi incrociarono un piccolo taglio di tela bianca dalla rozza forma di un mezzo viso.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice
 
Eccoci al capitolo numero… 5!
Allora, le ricerche di Valjean e Cosette sembrano non andare proprio proprio a meraviglia, purtroppo.
Intanto Erik prende parte al funerale di Lamarque, e raggiunge finalmente la barricata. Si prende la responsabilità di ‘osservare’ Pontmercy (ma che caro ragazzo!).
Ma, soprattutto…*rullo di tamburi*… gli cade la maschera! E ora?
Lo saprete nel prossimo capitolo!
(Oddio, fa molto telenovela XD)
Vabbè… grazie a coloro che leggono e recensiscono!
rosa_bianca
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 - 5 Giugno 1832, Parte Seconda ***


4 giugno 1832, Notte
 
 
 
Aveva passato l’intera serata ad architettare un piano su come lasciare la casa. Era giunta infine alla conclusione che il modo migliore sarebbe stato più semplice di qualsiasi cosa stesse pensando: sgattaiolare fuori dalla porta quando tutti dormivano sarebbe bastato.
Cosette si raccolse i capelli in una treccia e diede un ultimo sguardo alla sua camera. Era dipinta di un tenue color rosa pastello, decorato con delicati fiori bianchi e verdi. Il letto a baldacchino era un po’ vecchio e cigolava in alcuni punti, ma lei non se n’era mai lamentata. Adorava la sua camera, e vi aggiungeva sempre qualcosa per renderla più accogliente: un mazzo di rose, dei fogli di carta colorati, petali secchi trovati in giardino.
Sospirò lungamente ed aprì la porta con cura. Nessun rumore. I suoi piccoli piedi si muovevano leggerissimi, come se quasi non stessero toccando a terra. Attraversò quasi tutto il corridoio, quando passò dinnanzi alla porta della camera del fratello. Una lacrima le scese sulla guancia. Dopo che un forzato sorriso di speranza le attraversò il volto, continuò a camminare fino a raggiungere il nero cancello che la separava dalla strada.
Sono fuori, pensò.
Era molto tardi, e l’unica luce era la luna piena che brillava stancamente sopra i palazzi e i camini.
Cosette era un poco a disagio. Non era mai uscita da sola di casa, mai nella sua vita. Forse le era successo in quel periodo di cui non si ricordava pressoché nulla, degli anni che l’amore di Valjean l’aveva aiutata a dimenticare.
Prese quindi un bel respiro e si avvolse più stretta nel suo vecchio mantello nero. Uno dei pochi ricordi che aveva, risalenti a prima del convento, era di essere stata stretta in quel mantello,  così grande da poterci stare tutta avvolta.
Iniziò a camminare, non era certa verso dove, con passo deciso ma furtivo allo stesso tempo. Aveva molta paura di aggirarsi in città da sola, col buio. Ma era anche molto testarda: doveva trovare Erik, questione di vita o di morte.
Dopo circa due ore di cammino, decise che era troppo stanca per proseguire. Saranno state circa le tre. Scelse un angolo che le pareva abbastanza pulito e vuoto, e ci si accucciò rabbrividendo. Il pavimento era umidiccio a causa della pioggia delle ore precedenti. Cosette si sforzò a chiudere gli occhi e finalmente s’addormentò.
Si svegliò che il sole era già in cielo. Fu presa dallo spavento, poiché non riconobbe il luogo in cui era sdraiata. Poi i ricordi della notte precedente sopravvennero, e si spiegò come mai non fosse sdraiata sul suo morbido baldacchino coperta dalla soffice camicia da notte. Si alzò presto in piedi e si toccò la treccia. Sembrava abbastanza in ordine. Il vestito era leggermente bagnato, ma niente che non si sarebbe asciugato al sole con un poco di pazienza. Si tolse il pesante mantello nero, poco utile con quel caldo, e si rimise in cammino.
Sì, ma verso dove? Questa era una bella domanda, senza dubbio. Si guardò intorno, e vide molte persone indaffarate. Sembravano aver ognuna una cosa importantissima da fare, e si muovevano come formiche prima dell’inverno.
“Scusate, monsieur, cosa sta accadendo di così importante oggi?” domandò ad un signore con il panciotto verde, che stava dirigendosi verso il negozio di un fabbro. Lui la guardò con sorpreso e disse “C’è il funerale del Generale Lamarque questa mattina, a Place de la Bastille. Mezza Parigi sta partecipando.”
Gli occhi di Cosette brillarono. “Vi ringrazio!” esclamò felice, e iniziò a correre verso quella che il signore le aveva indicato come Place de la Bastille. Poteva non essere molto, ma sentiva che Erik era lì. Sentiva che lo avrebbe trovato, in un modo o nell’altro.
Quando Cosette raggiunse con passo affannoso l’enorme piazza gremita, si udì una detonazione: un soldato della Guardia Francese aveva sparato ad una donna tra la folla.
Le urla parvero spaccare in due i timpani di Cosette. Osservò inorridita il cadavere della signora, accerchiato da decine di persone inneggianti alla libertà della Francia e alla Giustizia. Si guardò attorno smarrita, e si sentì quasi svenire. La calca che la circondava l fece rimanere in piedi, dandole il tempo di sforzarsi a resistere. La massa di persone la spostarono in qua ed in là, fino a che non si ritrovò con la vista offuscata appoggiata alle pareti di una viuzza vicina. Prese un po’ di respiri lenti e lunghi, cercando di estraniarsi dal completo caos che si trovava attorno.
Riprese le forze, seguì, senza farsi notare, un gruppo di ragazzi che parlavano di dover costruire una barricata. Di certo l’avrebbero portata in un luogo con molte altre persone, e ciò faceva aumentare la piccola possibilità di trovare Erik.
Sin dall’inizio del tragitto, si sentì avere degli occhi addosso. Ogni tanto si fermava per guardarsi dietro, ed essere certa che nessuno la stesse seguendo.
Si trovava all’imbocco di una stradina buia, che stava ormai sorpassando, quando un brivido le pervase il corpo. Girò di scatto il collo e notò che una sagoma, dal vicolo, le aveva toccato una spalla con le sue dita lunghe. Trattenne a stento un grido, per non far scoprire ai giovani davanti a lei che li stava seguendo.
“Dove ve ne andate, così sola?” domandò l’uomo. Era molto alto ed incredibilmente magro. Il suo vecchio soprabito nero era abbastanza malconcio, come il cappello con la tesa rialzata a sinistra, che gli scopriva un ciuffo di capelli color pece.
Cosette sentì che qualsiasi parole avrebbe formulato per rispondergli, le sarebbero morte in gola. Osservò con terrore le labbra rosse del ragazzo, ed i suoi dalle pupille dorate quasi verticali, come quelle dei gatti.
Lo guardò per tre lunghissimi secondi, fisso negli occhi, che lei teneva spalancati per la paura.
“Montparnasse, diavolo d’un ragazzino!” proruppe una voce adirata e roca, dall’inizio della via. “Se non vieni qui subito…!” Seguirono minacce che è meglio censurare.
Cosette non scoprì mai chi avesse richiamato quel giovane con delle sembianze così femminili: colse il momento per scappar via veloce, e l’unica cosa che riuscì a vedere era il fanciullo che, tenendosi il cilindro con una mano, correva via come se avesse avuto una coda tra le gambe.
Ancora non perfettamente conscia dell’accaduto, riprese un’andatura normale solo quando vide la barricata.
Si trattava, per lei, di una cosa assolutamente nuova: come, d’altronde, quasi tutto ciò che aveva visto e provato dal secondo dopo aver lasciato Rue Plumet.
I suoi occhi incrociarono il cartello di marmo sulla parete di un edificio, con l’insegna ‘Corinth’: ‘Rue de la Chanvrerie’.
Cosette si disse che doveva assolutamente trovare un modo per intrufolarsi alla barricata, almeno il tempo necessario per vedere se per caso Erik si trovasse lì.
“Ah, Marie, questo coso è così vecchio che…” esclamò concitatamente una voce femminile. Cosette intravide la donna che parlava: aveva in mano un grembiule che, se prima era mai stato bianco, ora era di un beige sporco. Lo gettò in terra e rientrò nella locanda, dalla porta sul retro, continuando a parlare all’amica.
Cosette si guardò circospetta e decise che quella era la sua occasione. Prese, quando fu sicura che nessuno la stesse osservando, il grembiule da terra e, dopo averlo scosso un poco, se lo annodò alla vita.
Ci siamo!, si disse con decisione, prima di entrare a passi sicuri nella locanda.
Un odore acre di polvere da sparo le invase le narici, ma lei non ci badò: fu piuttosto presa nel guardare l’altra decina di donne presenti nella sala, tutte con un grembiule come il suo. Si avvicinò piena di iniziativa ad una di esse –ben attenta che non si trattasse dell’amica di Marie- e le disse: “Buongiorno, posso aiutarvi in qualche modo?”
La grassa anziana donna che aveva davanti sorrise dolcemente. “Ma certo, cara, più siamo meglio è. Vieni, inizia col pulire queste.” cominciò, indicando a Cosette  delle vecchie bende macchiate di sangue. Quella visione le fece un po’ senso, ma non disse nulla ed annuì. Dopo aver finito questo suo primo compito, si sarebbe subito messa alla ricerca di Erik. Non voleva che alcuni potessero pensare che lei fosse di una spia: se avesse contribuito al lavoro delle donne, sarebbe stata più benvoluta.
Lanciando qualche occhiata guardinga di tanto in tanto, si mise di buona lena ad affondare le vecchie bende in un catino di acqua e scaglie di lisciva.  
Un rumore stranamente familiare colse la sua attenzione. Si trattava di un suono che soleva udire, specialmente in primavera. Alzò gli occhi, per riflesso involontario, e non credette alla sua vista.
Si coprì la bocca con le mani per soffocare il grido di stupore che le assaliva la gola, impossibilitandola a proferire parola.
Cosa –o meglio, chi- si trovò sotto gli occhi, il lettore attento lo potrà ben immaginare.
Gli occhi di Cosette si riempirono di lacrime di gioia, che le scorrevano calde sulle guance.
È qui! È vivo!
Poi notò un particolare. Be’, lei era abituato a vederlo in quello stato, ma ovviamente la folla che lo circondava, no. Le risate di scherno e le grida d’orrore riempirono le orecchie di Cosette, fino a costringerla a fare qualcosa.
Fu allora che Erik la vide. Vide una bella fanciulla, dai bruni capelli setosi e soffici  di sua sorella, dagli occhi chiari e dolci di sua sorella, dalla pelle rosea e delicata di sua sorella, dal naso grazioso ed impertinente di sua sorella.
Benché avesse gli occhi appannati dalle lacrime di vergogna, si disse che non poteva essersi ingannato.
“Cosette!” sussurrò in preda ai singhiozzi silenziosi, che scuotevano il suo esile corpo di bambino.
La giovane gli carezzò la guancia martoriata e raccolse la maschera dal pavimento sporco e polveroso, inginocchiandosi di fronte a lui. Gli riservò un’occhiata dolcissima, bagnata dalle lacrime, e poi si alzò in piedi, con forza inaspettata, stringendoselo ai fianchi.
“Voi!” inveì, verso le persone nella locanda “Voi parlate tanto di Libertà, Giustizia, Fratellanza… eppure lui” urlò indicando Erik “è una persona come tutti! E lo trattate in questo modo, lo deridete, per una cosa di cui non è nemmeno responsabile!...”
Le sue stesse parole di fuoco le riempivano le orecchie, non sentiva più l’odore della povere da sparo, la sua vista era offuscata –e non a causa delle lacrime-.
Cosette cadde in terra con spaventosa velocità.
Erik fu lesto a tenerle la testa durante la caduta per evitare contusioni. Ora era sdraiata nel bel mezzo del Corinth.
I rumori che susseguirono allo svenimento della fanciulla spinse Combeferre ad entrare nella sala.
“E’…è svenuta.” gli disse una ragazza tanto giovane da poter sembrare una bambina “Fate qualcosa, vi prego.” supplicò.
Erik corse al tavolo dove l’uomo l’aveva sdraiata, asciugandosi le lacrime. I suoi occhi brillavano ancora, sì, ma dalla rabbia.
“Voi le avete fatto questo.” sentenziò, con voce lugubre e profonda, rivolto all’occhialuto. Quest’ultimo si voltò verso il bambino e ribatté con voce calma e paziente.
 “Mi sembra che tu non abbia una visione oggettiva di ciò che è accaduto, piccolo. Non dovresti accusare così le persone.” Poi fece una breve pausa e, concentrato, pose una benda bagnata sulla fronte pallida di Cosette. “Spiegami con chiarezza ciò che è successo, e chi è questa fanciulla.”
“Io so chi è!” esclamò esaltata una voce dalla porta principale, lasciando tutti a bocca aperta.
 Erik non fece in tempo a dire nulla che si trovò di fronte il giovane che aveva dovuto osservare per Courfeyrac.
“Marius?” chiese solo Combeferre, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
“Io…lei…la conosco!... Courfeyrac l’ha vista, anche lui!” si mise a delirare concitatamente. “Courfeyraaaac!” chiamò con un grido. Aveva il viso paonazzo, tanto che le lentiggini quasi non si notavano. Gli occhi erano illuminati e sembrava che lievitasse dal pavimento.
Courfeyrac, sorpreso di aver sentito qualcuno urlare il suo nome, si diresse di corsa nella locanda.
“Che succede? Qui ci dobbiamo sbrigare, tra poco…” Si interruppe alla visione della giovane sul tavolo.
“L’ho già vista.” affermò con aria sicura e pensosa, posando i palmi delle mani sul legno sporco.
“Ma certo, che l’hai vista… ti ricordi? È Ursule!” esclamò eccitato Marius, alla volta dell’amico.
Erik osservò in cagnesco il ragazzo, che sembrava non essersi accorto che la sua bella avesse perso i sensi.
“Senti, tu!” iniziò, con tono feroce “Tu non hai idea di chi sia. È impossibile che tu l’abbia vista. Anche perché non si chiama Ursule!”
L’espressione di Marius parve interrogativa, come quella di un cane a cui si dice “Ecco, questa è una bistecca che desideravi. Però non puoi mangiarla, perché è di legno.”
“Presto, Marion, i sali!” esclamò Combeferre, concentrato. Appena li ebbe, li passò con cura sotto il naso di Cosette.
 Questa iniziò ad aprire lentamente gli occhi ed a mugugnare qualcosa.
Mentre gli atri osservavano con ammirazione e preoccupazione le sue pupille cerulee, la fanciulla combatteva contro il dolore. Un fortissimo cerchio di ferro sembrava stringerle la testa sempre più forte. Non riusciva a dare ordine ai pensieri, dunque le emozioni che provava erano contrastanti.
Felicità; per aver trovato Erik sano e salvo.
Tristezza; per averlo visto piangere di vergogna.
Disgusto; per le persone che avevano osato deridere il suo fratellino.
Soddisfazione; per essere riuscita a far capire a quella gente immonda che il loro gesto era stato deplorevole.
Ed infine,  sorpresa. Perché l’ultima cosa che si aspettava era trovarsi davanti agli occhi il giovane che aveva incontrato ai Giardini del Lussemburgo. Quello per cui aveva piantato le rose. Lo stesso che sognava ogni notte. Il medesimo che aveva rivisto, per un breve attimo, dalla carrozza di suo padre.
Sono morta. Non c’è altra spiegazione.
Pensò a Suor Simplice, la cara ma severa Suor Simplice, l’unica donna che mai chiamò ‘madre’, una delle sue tutrici al convento.
Aveva raccontato a tutte le fanciulle che quando sarebbero passate a miglior vita, se fossero sempre state delle buone cristiane, il tempo si sarebbe fermato per un attimo, e una scala le avrebbe attese nel luogo della loro morte, fino a portarle verso una luce abbagliante, in cima al cielo.
E allora perché qui è così buio?
Lì, San Pietro le avrebbe aspettate al grande cancello dorato del Paradiso, ed avrebbe aperto loro la porta, per farle passare nel Regno dei Cieli in solitudine.
E allora perché qui ci sono così tante persone?
Dopo il cancello, sarebbero arrivate in un’enorme piazza inondata da luce bianca, dove avrebbero udito per ore le canzoni armoniose degli Angeli di Dio.
E allora perché sento solo rumore?
“Cosette, stai bene? Ti prego, sorella, rispondi!”
“Ursule, per favore, tornate tra noi!”
“Signorina, mi sentite?”.
Cosette aprì di scatto gli occhi e si rizzò a sedere. Quest’ultimo movimento così improvviso le causò l’ennesima fitta al capo. Sbatté le palpebre per essere sicura di vedere bene.
“Erik… ti ho trovato…” esalò con un sorriso. Poi gli fece cenno di avvicinarsi e gli aggiustò la maschera sul viso.
“Qual è il vostro nome?” domandò Marius, chiudendole una mano nella sua.
“Cosette.” rispose semplicemente lei.
“Ma come…?” boccheggiò l’altro. “Le vostre iniziali non sono U.F.?” chiese, tirando fuori dal taschino un candido fazzoletto ricamato.
Cosette sorrise. “Non sono le mie, ma quelle di mio padre.” disse, e poi si corresse “Di nostro padre, cioè.”
Marius guardò lentamente prima la giovane, poi il bambino. Ripeté quest’operazione due volte, per poi affermare “Non vi somigliate affatto.” Forse avrebbe impiegato meno tempo a formulare questa sentenza, se fosse stato presente alla caduta della maschera.
Erik si strinse nelle spalle e disse con tono rude “E questo che importanza ha?”.
“Erik!” esclamò Cosette “Non parlare così a… a?”
“Marius. Barone Marius Pontmercy, al vostro servizio.” s’inchinò il giovane.
“Non avevamo dubbi, Pontmercy.” proruppe una voce severa e stizzita. “Ora che hai trovato la ‘Giovane Perduta’, ‘L’incantevole Ursule’, ‘La Mademoiselle Del Lussemburgo’, potresti darti una mossa e venire ad aiutarci?”
Marius si voltò di scatto e trovò l’alta ed altera figura di Enjolras, che bloccava l’uscita dalla porta. Lo osservava con un espressione quasi di disgusto, lo sguardo amaro e severo di un padre il cui figlio lo stia deludendo.
“Avremmo una rivoluzione in atto, Pontmercy. In caso non lo sapessi.”
Cosette scese dal tavolo con uno dei suoi soliti movimenti aggraziati e strinse forte la mano di Erik.
“Enjolras, non credo che ti dovresti scaldare così tanto.” sorrise Courfeyrac, per allentare la tensione. “Suvvia, è sempre il nostro Marius. Combeferre, vieni anche tu!” disse, e fece segno ai due di tornare fuori, alla barricata.
Marius avrebbe voluto muovere anche un solo passo, ma gli era impossibile. Come poteva combattere, col rischio di rimanere ucciso, ora che aveva trovato la sua Cosette?
Lei, pure, era abbastanza indecisa. Insomma, si era detta che, il secondo dopo essersi ricongiunta al fratello, sarebbe tornata a casa, da Valjean. Dopotutto era fuggita, quindi doveva essere preoccupato per lei. Molto, conoscendolo.
D’altro canto, c’era anche Marius. Un Marius deliberatamente in pericolo di vita. Un Marius che rischiava di trovarsi una palla in petto entro la fine della giornata.
Pensò Enjolras ad interrompere il silenzio.
“Combeferre, tu seguimi. Gli altri facciano ciò che ritengono più opportuno.” e, pronunciate queste scostanti parole, tornò fuori. Combeferre improvvisò un inchino a Cosette e fece cenno a Courfeyrac di venire con lui. Dopodiché, uscì dalla porta.
Erik, intanto, stringeva possessivo un lembo della gonna della sorella, guardando torvo Marius.
“Dovete andare?” gli domandò lei, con voce leggermente addolorata.
Il giovane non rispose per alcuni secondi.
Se chiudeva gli occhi, poteva sentire il rumore dei soldati che si avvicinavano.  Gli sbuffi di disappunto di Enjolras. Il passo indaffarato di Feully.
Riaprì gli occhi.
“Temo di sì.”
Cosette si sorresse poggiando una mano sul tavolo. “Io…”
Il rumore dei fucili caricati. Le parole sussurrate dei soldati. Lo starnuto di Joly.
“Io vorrei restare.”
I mobili spostati. Il fruscio della bandiera nel vento. La risatina di Courfeyrac.
“Però Erik qui non sarebbe al sicuro.” concluse Cosette.
“Io devo rimanere qui. L’ho giurato. È giusto in questo modo. Voi…”
“Fare l’infermiera può essere utile.”
“Ma…”
“Ne avrete bisogno.”
“…”
Erik guardò con insistenza la sorella. “Cosette, ti metteresti inutilmente in pericolo…”
Lei si abbassò per fissarlo direttamente negli occhi. “Non corro alcun pericolo se ci siete voi due, qui. Con te, poi, vorrei parlare più tardi.”
Si lasci dire che Cosette non avrebbe mai agito in questo modo, se non fosse stato per Marius. Ma la sua mente, in quel momento, era come piena di foschia: i pensieri erano nebbia. Sapeva che sarebbe riuscita a proteggerli. Tutti e due. Avvertiva quell’istinto materno e protettivo che alcune donne provano solo dopo la prima gravidanza.
“Ora devo andare…” mormorò Marius, biascicando leggermente le parole. Fece una carezza piena di affetto a Cosette e oltrepassò la porta.
Lei, che era rimasta con un braccio sospeso a mezz’aria, quasi nel tentativo di riuscire a sfiorarlo, decise che era arrivato il momento di darsi da fare.
“Erik, non puoi assolutamente seguire nessuno di loro.” enunciò, severa. Poi, dopo essersi resa conto che forse il suo tono era stato troppo duro –a capirlo l’ aveva aiutata l’espressione del fratello-, aggiunse “Te lo chiedo come favore personale. Ho temuto di perderti, sai?, questi giorni.”
Erik non disse nulla.
“Io devo rimanere qui, assolutamente. Dobbiamo tenerci al sicuro, dobbiamo tenere al sicuro Marius, che ti ha protetto fin ora, non è così?”. Il bambino non fece in tempo a ribattere che in realtà era accaduto esattamente l’opposto, quando la sorella gli sorrise e tornò alla sua postazione d’infermiera.
I primi feriti stavano già arrivando.





Angolo dell'Autrice

Et voilà! Per farmi perdonare del ritardo, vi concedo un bel capitoletto consistente :3
Allora, Cosette è scappata per cercare Erik, e ha partecipato anche lei ai funerali di Lamarque. E indovinate chi incontra alla barricata...? Ok, non c'è bisogno che lo indoviniate, visto che lo avete appena letto. Comunque, ha trovato sia Erik che Marius! *suona trombettina della festa*
Bene, bene... e ora sono tutti e tre invischiati nella rivoluzione! Si starà a vedere...
Al prossimo capitolo,
rosa_bianca
P.s: So che l'apparizione di Montparnasse potrebbe non c'entrarci un fico secco, ma mi piangeva il cuore a non accennarlo neanche <3

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 - 5 Giugno 1832, Parte Terza ***


5 Giugno 1832, Mattina
 
 
La piccola figura alla porta aveva osservato tutto.
Ogni piccolo dettaglio.
Aveva notato ogni sguardo carico di stucchevole affetto, ogni parola pietosamente mielosa, la carezza fin troppo dolce di lui, il pudico rossore di lei.
Umph.
L’unico ad esserle simpatico, nell’amorevole quadretto, era il bambino, quello magro con la maschera. Sapeva come si chiamava, almeno glielo avevano detto. Ma lei aveva cose ben più importanti da pensare.
 Con un soffio indirizzato, fece volare in su qualche capello fuori posto, cercando di darsi un’aria più dura possibile. Ma a che pro? Nessuno la stava guardando.
Il suo istinto le suggerì che si sarebbe forse dovuta preoccupare per il suo fratellino, che stava combattendo alla barricata come tutti gli Amici.
Si disse che era proprio il tipo di ragionamento che avrebbe potuto fare ‘balze e nastri per capelli’, il nome a cui rispondeva, nella sua testa, Cosette.
Cambiò idea immediatamente e si disse che non aveva nulla da spartire con quella.
 Che poi, Ursule e Cosette sono due nomi che fanno veramente schifo.
Si strinse nella sua rudimentale casacca, appoggiando un piede al muro. Doveva sembrare il più virile possibile.
Ad un tratto, un rumore la distolse dai suoi pensieri amari.
“Li hanno presi! Li hanno presi!”
Eponine spalancò gli occhi e si lanciò in un’ istintiva corsa verso la barricata.
E se si fosse trattato di Marius? Come poteva essere stata così stupida?! Dopotutto era venuta per proteggerlo, e…
“Provuaire! Hanno preso Prouvaire e Bahorel!”
Si sentì un essere  veramente infimo ma, per un breve attimo, sospirò di sollievo.
Era ormai giunta dagli Amici. Il panico regnava sovrano; persino negli occhi solitamente fermi del capo.
“Enjolras, li hanno catturati!” gridò concitatamente Courfeyrac in sua direzione, il volto contratto in una smorfia di sgomento terrore. Combeferre rimaneva muto, con un’espressione pensosa ed addolorata.
Eponine iniziò ad agitarsi. Cercò di alzarsi in punta di piedi, per cercare di capire qualcosa in quella situazione così confusa.
Vide degli uomini che avevano legato due giovani per i polsi. Uno sarebbe parso completamente apatico, se  non fosse per i suoi occhi: piccoli pozzi di ansia che non facevano che lanciare sguardi preoccupati all’altro prigioniero. Quest’ultimo stava sferrando calci alla cieca tentando di colpire uno dei soldati. Quando questi tirò fuori una rivoltella, si costrinse a rimanere immobile.
Eponine rabbrividì. Cercò rapidamente con gli occhi Marius. Saperlo al sicuro l’avrebbe normalmente consolata, ma come poteva essere cieca davanti a quella che, ne era certa, sarebbe stata un’esecuzione?
Da tutti e due i lati della barricata la tensione era palpabile.
Non si udiva un rumore, se non quello delle menti di decine e centinaia di uomini, tutte concentrate su uno stesso punto.
“In piedi.”
Bahorel e Prouvaire si alzarono, il primo con una rabbia infuocata negli occhi, il secondo con meditata rassegnazione.
“Dovete fermarli!” provò a protestare la giovane, lanciando uno sguardo disperato agli Amici. Loro non ricambiarono l’occhiata, solo uno di loro le fece un cenno come a dire ‘Non si può far più nulla’.
Stava piangendo.
“Che tutti guardino!”
Eponine, il cui corpo teso si era spinto verso l’alto, cadde a terra al rumore dello sparo. Si accasciò ad un vecchio cassettone tarlato, non osando guardare dietro di sé. Fu scossa da dei violenti colpi di tosse che la portarono alle lacrime.
La seconda detonazione risuonò meno forte, probabilmente perché il suono dei singhiozzi dei giovani l’aveva attutita.
“Volete un ostaggio?...”
Decine di volti piangenti di voltarono verso una vocina stridula, da infante, che aveva appena parlato.
Eponine per prima, poiché l’aveva riconosciuta.
“Gavroche!”
Si alzò in piedi, cercandolo con gli occhi.
“…Be’, eccomi qui.”
“Gavroche, no!”
Le grida strazianti di Eponine non valevano nulla. Il bambino si trovava nel punto in cui la barricata era più alta. La sorella cominciò disperatamente a salire, ad arrampicarsi sui mobili per raggiungerlo.  Le urla disperate rivelarono la sua identità di donna, ma nessuno parve preoccuparsene, in quel momento.
“Ti prego, no!”
Un soldato sorrise con un ghigno sinistro ad un suo commilitone. Mirò precisamente al cuore, voleva evitare troppo dramma.
 Dopotutto, era un bambino.
“NO!”
Gavroche le cadde violentemente tra le braccia. Eponine spalancò gli occhi ed iniziò a piangere.
Marius le si avvicinò.
“Io… ti aiuto con… ecco.” balbettò, sinceramente sconvolto, prendendo in braccio il piccolo cadavere.
Con passi lunghi ed incerti, arrivò all’interno della locanda. Diede uno sguardo a Cosette.
Stava stringendo delle bende al braccio di Bossuet, che era riuscito a ferirsi da solo con un coltellino.
Posò il bambino su un tavolo, accanto al corpo inanime di Mabeuf.
“Grazie.” riuscì a mormorare Eponine, senza smettere di piangere.
Guardò Cosette. Con odio.
Perché, al contrario di lei, aveva saputo proteggere il suo fratellino. Il suo caro, piccolo, dolce fratellino.
Distolse gli occhi dalla giovane sorridente solo quando sentì le mani di Marius sulle proprie.
Il suo viso rigato dalle lacrime s’imporporò.
“Mi dispiace tanto, Eponine.”
Che senso aveva tutto questo? Un attimo prima sarebbe stata al settimo cielo per il tocco di Marius… ma ora –ora- che senso aveva?
Scoppiò in un singhiozzo che spezzava il cuore solo a sentirlo. E si sedette sul pavimento, in un angolo.
“Lasciatemi sola, vi prego.” mormorò distrutta, in direzione del giovane.
Una richiesta che mai aveva pensato di potergli porre.
Lui annuì grave e tornò sui suoi passi, ma lei non lo vide: l’unica cosa che vedeva era il nero, il buio, il vuoto.
Non riusciva a pensare. E perché preoccuparsi, d’altronde? Era rimasta sola. Non che avesse mai avuto o desiderato compagnia. No, questo mai.
 Però, se aveva bisogno di passare una notte fuori dal bugigattolo dei genitori, sapeva di essere la benvenuta nell’enorme elefante cadente.
Se le serviva un consiglio, non era Montparnasse, che pure conosceva da tempo, a cui chiedeva: no. Era ad un bambino, suo fratello. Il suo Gavroche.
Perché lui non era di nessuno, e se ne vantava. La sua non-appartenenza a luoghi o a persone lo rendeva molto orgoglioso, lo faceva sentire grande. Ma Eponine lo sapeva, ne era certa: Gavroche era suo. Il suo unico fratello. Il solo che conoscesse, bisognerebbe precisare, ma comunque il suo unico fratello.
Era tra questi pensieri infausti che la mente della giovane navigava, fin quando non sentì una vocina chiamare il suo nome, da vicino.
“Epon… Eponine? Ho sentito Marius chiamarvi in questo modo.”
La diretta interessata alzò la testa.
“Eponine, vero?”
Si arrese, con un sospiro.
“Sì.”
Cosette si sedette accanto a lei, senza neanche pensare che il suo vestito di uno squisito grigio perla non avrebbe tratto alcun beneficio da quel pavimento lurido e polveroso.
“Eponine, siete molto coraggiosa.” affermò sorridendo dolcemente.
Lo sguardo interrogativo dell’altra la esortò a continuare. “Siete venuta per combattere. Lo ripeto: siete molto coraggiosa.”
L’ultima cosa che volesse era qualcuno che la importunava. Specialmente se si trattava di lei.
“Nessuno mi ha mai dato del voi.” replicò aspra Eponine, dopo aver represso l’ennesimo singhiozzo.
Vide il volto di Cosette illuminarsi in un sorriso. “C’è sempre una prima volta, Eponine.”
Questa rispose con una smorfia amara. “Voi dovete essere sempre perfetta in tutto, vero?”
Cosette, che non capiva la domanda, si limitò a rispondere “Io non sono perfetta; sarebbe impossibile, lo sapete. Nessuno lo è.”
Eponine scosse la testa e si asciugò le lacrime che continuavano a rigarle le guance.
“Ma guardatevi: siete bellissima, un bellissimo uomo vi ama e…” la sua voce si spezzò. “…e avete un fratello a cui volete bene.”
Cosette si morse un labbro, vista la tematica alquanto delicata. “Eponine… questo è un momento terribile. Per tutte e due. Ci troviamo in un posto dove potremmo rischiare la vita da un momento all’altro. Per questo dobbiamo farci forza… Insieme.”
Eponine rimase stupita da quel discorso. Soprattutto, era combattuta tra due reazioni: lasciare che l’odio che aveva sempre provato verso quella borghesotta da due soldi si sfogasse; oppure dimostrarsi grata per quelle parole di conforto. Che, lo possiamo dire, erano tutt’altra cosa rispetto alle due parole biascicate con imbarazzo da Marius.
Si alzò in piedi, ancora tremante. “Grazie.”
Poi prese a camminare speditamente verso la barricata.
Sono venuta qui per una ragione, si ricordò duramente, almeno per quella devo andare avanti.
 
 
 
 
Erik cambiò idea repentinamente.
 Un istante, ed il suo piano così ben architettato sfumò.
Perché vedere il tuo migliore amico, senza vita, steso su un tavolaccio di legno e coperto da un drappo nero incrostato dal sangue è una di quelle cose che ti mozza il respiro dall’orrore. E ti fa cambiare idea.
Mentre la metà bianca del suo volto rimaneva impassibilmente finta, l’altra parte inorridiva così tanto da far sembrare la sua espressione inumana. Ma d’altronde cosa non lo era, in lui?
Si disse che in fondo sgattaiolare alla barricata senza farsi notare dalla sorella poteva non essere più così geniale. Però non gli pareva proprio giusto. Che tutti gli altri, tutti quelli normali non avessero nessuno ad impedirgli di fare questo o quest’altro. Rabbrividì al pensiero che Gavroche aveva qualcuno che avrebbe facilmente potuto, ma che non l’aveva certo fatto.
Si ricompose, più o meno, e mise su un’espressione fredda. I suoi occhi erano come lontani, persi in una tristezza indicibile. Cosette lo notò e gli andò incontro mettendogli un braccio sulle spalle.
“Erik, mi dispiace tanto.” mormorò con la sua vocina di miele rotta dal pianto.
A quella visione lui non poté trattenere le lacrime. Con Cosette sentiva di poterlo fare.
“Lo so, lo so…” continuò a sussurrare lei, come fosse una nenia, cullandolo in un abbraccio caldo. “Tra poco sarà tutto finito…”
Queste parole risvegliarono Erik, che alzò la testa dal petto della sorella. “Sì, ma chiediamoci come finirà.”
Cosette rabbrividì. Quella sua serietà spettrale ogni tanto la sorprendeva e le faceva pensare di non parlare con un bambino, ma con un anziano che avesse partecipato a Waterloo.
“Andrà tutto per il meglio, vedrai. Ora siamo insieme…”
Ma c’era ben poca convinzione nel tono della giovane. Ciò che aveva visto nelle ultime ore non facevano che provare il contrario.
Aveva veduto un vecchio morire, per aver cercato di raddrizzare la bandiera della barricata.
Aveva veduto due ragazzi venir fucilati, davanti a centinaia di uomini che non potevano far altro che guardare.
Aveva veduto un bambino ucciso, solo perché aveva avuto il coraggio di protestare a quell’infamia.
Quale innocente ed ingenuo ottimismo, seppure dei più radicati, poteva essere indifferente a questi crudeli avvenimenti?
“Cosette…”
“Sì?”
“… Farò di tutto per proteggerti. Te, e il tuo Marius.” 
 
 
 
 
 
Angolo dell’Autrice:
 
Eccoci al nuovo capitolo!
Allora, vediamo di riassumere: la povera ‘Ponine ha come al solito Cosette in mezzo ai piedi. Jehan e Bahorel muoiono, così come Gavroche (mi devo ancora riprendere da questa cosa). Eponine ha ancora Cosette in mezzo ai piedi, ma in modo dolce. Erik/Erik e la sorella mi fanno venire il diabete.
*ta-daaaa*
Detto ciò, spero che abbiate apprezzato il capitolo.
Piccolo avviso: potrebbe esserci un po’ di ritardo nella pubblicazione degli ultimi capitoli (non siamo agli sgoccioli, ma quasi) perché *cough-cough* potrei essere un po’ indietro con lo scrivere… vi prego solo di essere pazienti XD
P.s: Tranquilli, Valjean non è morto. Aspetta solo il prossimo capitolo, per comparire XD
Al prossimo capitolo e grazie a chi legge/recensisce/roba varia,
rosa_bianca

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 8 - 5 Giugno 1832, Parte Quarta ***


 
 
5 Giugno 1832, Mattina
 
Valjean non volle credere ai suoi occhi quando, poco dopo l’alzarsi del sole, vide Toussaint alla porta del suo studio.
“Signor Fauchelevent, la signorina non si trova in casa!”
Valejan aveva rapidamente alzato gli occhi dal suo giornale per rivolgerli, pieni di sgomento com’erano alla vecchia governante.
“Siete certa di aver controllato bene?”
“Ne sono sicura, signore. Ho cercato in tutta la casa, persino nel suo giardino personale.”
Si alzò rapidamente in piedi, facendo sobbalzare Toussaint.
“Andate via, per favore.”
La donna, senza dire altro, fece un breve inchino e sgattaiolò fuori dalla stanza.
Valjean si lasciò cadere sulla poltrona, posando le grandi mani a coprirsi il volto.
Sul quotidiano avevano accennato alla rivolta in atto, in diverse zone di Parigi: si consigliava ai lettori di rimanere in casa, al sicuro, e di non scendere per nessun motivo in strada.
E ora, da un giorno all’altro, tutti e due i suoi figli erano esposti al pericolo.
Rischiavano di morire ogni secondo che passava.
L’uomo alzò gli occhi al cielo.
Signore, ho avuto già la mia punizione. È durata quasi vent’anni. Ti supplico, falli ritornare a casa sani e salvi.
Poi pensò che quella non era casa sua. Non lo era mai stata.
 La sua unica casa era stata a Favrolles, con sua sorella e i suoi nipoti.
La villa in Rue Plumet non apparteneva a Jean Valjean, bensì a Ultime Fauchelevent.
Quella non era casa sua, quelli non erano i suoi figli.
Pensò alla figura eterea, quasi irreale, di una donna che aveva incontrato tanto tempo prima. Una miserabile, figlia della strada. Eppure, quella creatura si era conservata pura ed innocente: l’unica sua richiesta prima di morire era stata di vedere un’ultima volta sua figlia.
Non le è stata concessa questa grazia, ma Valjean aveva cresciuto la piccola Cosette come se fosse stata sua.
Ah, Fantine… guidala tu, salvala, mostrale la via dall’alto dei Cieli…!
Cosa avrebbe detto quella donna, se lo avesse visto in quel momento? Si era fatto sfuggire la sua bambina di mano! Folle…!
Aveva deluso anche quella povera mendicante, che Valjean ricordava un tutt’uno con la neve fredda e bagnata di Parigi. Non aveva mai saputo il suo nome, non era vissuta abbastanza per dirglielo.
Basta. Basta pensare al passato. Doveva agire, e subito.
Indossò il cappotto con gesti decisi e risoluti, e varcò la soglia di casa.
 
 
 
 
 
 
 
 
5 Giugno 1832, Pomeriggio
 
 
Quanti erano i sopravvissuti?
Non tanti quanto si sperava. Ma ve ne erano ancora.
Primi fra tutti, l’instancabile Enjolras, capo degli Amici dell’ABC, con i suoi due fedeli compagni: Combeferre e Courfeyrac.
E poi Joly, l’aspirante medico che si divideva tra la barricata e l’infermeria; Bossuet, che stava venendo appunto curato dal suddetto; Marius e Feully, che tentavano di salvare la polvere da sparo dalla pioggia;  Eponine, i cui occhi erano ancora gonfi di lacrime; ed infine Grantaire.
Quest’ultimo aveva l’immancabile bottiglia di vino scadente in mano, ed aveva rinunciato a provare a rallegrare l’atmosfera tesa ed impaziente. La situazione non era delle migliori, lo riconosceva anche da ubriaco, specie perché sentivano già i passi dei soldati ad un centinaio di metri da loro.
Gli bastò chiudere gli occhi per qualche secondo, e se li ritrovò davanti. E non in senso metaforico: proprio davanti agli occhi.
Il rumore assordante delle armi e delle grida disperate di aiuto avevano gettato le menti di tutti nella confusione più totale.
“Andatevene! O farò esplodere la barricata!”
Questo grido inaspettato vece voltare tutti gli Amici ed i soldati della Guardia.
“La barricata e te stesso!” rispose ironico un generale, fermamente convinto che nessun pazzo sarebbe mai stato capace di fare una cosa del genere.
La giovane vestita da uomo osservò la torcia che aveva in mano, affiancata ad un barile di polvere da sparo.
Cosa sarebbe successo se anche avesse compiuto un simile gesto? Non le importava più nulla della sua vita.
“Ed io con essa.” ripeté seriamente Eponine, fingendo una voce profonda e maschile.
I soldati, presi dalla più folle paura, indietreggiarono fino a ritrovarsi dove erano qualche minuto prima.
Marius si voltò per ascoltare i mormorii ammirati e grati degli Amici indirizzati ad Eponine per quel gesto così incoscientemente eroico. Ad un tratto, proprio mentre era girato, un proiettile venne sparato dall’altra parte della barricata.
Fu un attimo: Eponine aveva notato il soldato che si preparava a colpire.
“No!”
Balzò con folle ferocia davanti a Marius, appena prima che la palla argentata potesse conficcarsi nel cuore di lui.
“Eponine!”
Intorno ai due, gli Amici avevano già ripreso a sparare: avevano vinto una battaglia, ma non l’intera guerra.
Marius si sforzò di prenderla tra le braccia –non pesava praticamente nulla- e di portarla al sicuro.
Joly era troppo occupato anche solo per notarli.
“Cosette!” chiamò il giovane.
Erik fu il primo a voltarsi, grazie al suo splendido udito. Trattenne un esclamazione di orrore, e si limitò a tirare maleducatamente le gonne della sorella, completamente incapace di parlare.
“Oh…!” Neanche Cosette riusciva a pronunciare verbo. Si coprì la mano con la bocca per qualche secondo, per assimilare la terribile notizia, ma subito dopo corse bruscamente verso Eponine e Marius.
“Eponine? Riuscite a parlare? Vi prego, ci siamo qu noi… non dovete temere!” e mentre pronunciava queste agitate parole di conforto, cercava di pulire la pozza di sangue che le copriva il ventre.
Cosette alzò gli occhi dalla ferita per lanciare uno sguardo disperato a Marius. Non si poteva più sperare, e se n’era accorta anche lei che faceva l’infermiera da mezza giornata.
“Eponine…” cominciò incerto Marius, senza parole. La giovane assunse un’espressione di pace totale, come se fosse già in Paradiso. Sentire la sua voce non poteva che avere quest’effetto su di lei.
Erik si avvicinò al tavolo. Si ricordò delle parole di Gavroche.
“Ma se non ci fossi io, lei sarebbe perduta!”
Eponine era l’unica che potesse capire la sua tristezza per la morte di Gavroche. E ora si stavano per ricongiungere, finalmente.
Si accostò a Cosette ed aprì la bocca per cantare.
Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.”
La sua voce calda fece sussultare la sorella e lasciò a bocca aperta Marius. Eponine rivolse uno sguardo meravigliato ed insieme pieno di dolore ad Erik.
Te decet hymnus Deus, in Sion, et tibi reddetur votum in Ierusalem.”
Il bambino chiuse gli occhi, e continuò a cantare. Faceva quasi impressione sentire una voce bianca eseguire questo motivo. La melodia si diffuse in tutta l’infermeria, e ci fu un momento di rispettoso silenzio.
Cosette cominciò a singhiozzare, e Marius la prese tra le braccia in un gesto di goffo affetto.
Erik sentì una lacrima scendere lentamente sulla superficie morbida della maschera. Continuò a cantare.
Exaudi orationem meam; ad te omnis caro veniet.
Eponine chiuse gli occhi, in un’espressione combattuta tra la sofferenza e la pace assoluta.
Cosette avvicinò lentamente la sua mano al polso scheletrico della giovane.
Si voltò verso Marius ed Erik e scoppiò a piangere ancora più forte.






Angolo dell'autrice

Buongiorno! 
Questo capitolo è la tristezza più assoluta. Mi dispiace molto per voi. Abbiamo prima un Valjean disperato che non ha la più pallida idea di cosa fare, poi Eponine che muore. Già, in questa versione è lei a salvare la barricata (e Marius, ma quello è implicito). Su, dai, concediamole almeno questo.
So che come capitolo è un po' corto, ma mi rifarò la prossima volta.
Grazie di aver letto,
rosa_bianca
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 9 - 5 Giugno 1832, Parte Quinta ***


5 Giugno 1832, Vespro

 
La barricata era pervasa da un insalubre odore di morte.
Diversi corpi giacevano a terra, sia di soldati che di rivoluzionari, le mattonelle della strada erano bagnate di sangue.
Gli Amici resistevano. Avevano perso diversi uomini, ma ce n’erano ancora abbastanza da convincerli che avrebbero potuto tenere testa alla Guardia per un altro po’. I soldati si erano ritirati, ma sapevano che sarebbero tornati. E presto.
“E’ qui!” esclamò Courfeyrac, seduto su un tetto basso vicino alla locanda. Indicava un uomo non più molto giovane, alto e robusto, che si appropinquava a raggiungere il loro lato della barricata. Portava l’uniforme della Guardia Nazionale.
Enjolras fece un cenno di assenso e gli si avvicinò.
“Sono stato alle loro postazioni. Vi dirò tutto ciò che posso.” Iniziò l’uomo, con un’aria abbastanza cospiratoria e senza perdere tempo in convenevoli.
“Andate avanti.” lo incitò schiettamente il capo, avido di notizie.
“Hanno molte armi, e migliori delle nostre. Purtroppo, il pericolo è dietro l’angolo.”
“Di questo non c’è bisogno di preoccuparsi. Appena verremo a conoscenza delle loro strategie, riusciremo a batterli.”
Marius, ancora dentro la taverna, sentì questo dialogo e, incuriosito, decise di uscire per ascoltare meglio. Sorrise a Cosette e varcò la porta.
Erik rimase in piedi davanti a lei. Si morse un labbro, indeciso sul da farsi. Voleva aiutare Marius, per il bene di sua sorella, ma voleva stare anche con lei, per consolarla.
“Vado.” sussurrò, e seguì i passi del giovane.
Tutti gli Amici erano riuniti in un cerchio scomposto tra Enjolras e l’uomo.
Erik era certo di averlo già visto. Un ricordo molto chiaro attraversò la sua mente, fulmineo.
 
“Andiamo via, Gavroche!”
“E direi! Quello è un coquer!”
 
L’uomo davanti alla carrozza di suo padre. Era lui, non poteva esserne più certo. L’unica cosa che cambiava… erano gli abiti. Si era travestito da soldato.
“Fermi tutti! È un poliziotto!” gridò allora Erik. Si scatenò il panico: l’uomo, colto di sorpresa, accese gli occhi di una fiamma irosa e si guardò intorno, pronto a scappare. Purtroppo per lui, tutti gli Amici furono svelti a circondarlo e a legargli le mani.
Enjolras si voltò e chiese al bambino, con voce grave e vibrante “Ne sei certo?”
“Sicurissimo. L’ho visto in tenuta da ispettore di polizia.”
Il ragazzo fece cenno a Combeferre e Bossuet, che erano i più forti, di portare dentro la spia. Questi si dimenava e cercava di ribellarsi;  ma non aveva certo la forza di due giovani come loro.
“Fate come volete per ora, mocciosi, ma prima o poi dovrete vedervela con la legge!”
Lo legarono ad uno dei pochi tavoli liberi.
Courfeyrac si separò dal gruppo per fare i complimenti ad Erik. “Sei stato bravo. Ti dobbiamo un grande grazie, ci hai salvati tutti.”
Il bambino sorrise, sinceramente soddisfatto.
“Ho solo fatto ciò che avrebbe fatto Gavroche.” rispose, senza tradire un’espressione malinconica. Il giovane sorrise comprensivo e gli diede una leggera pacca sulla spalla. Senza dire più nulla, se ne andò con passi lenti.
“Io dico che bisogna festeggiare!” esclamò con la sua voce potente Grantaire. Aveva una bottiglia in mano e, nel vederla, Enjolras si chiese dove potesse averla presa. Aveva messo un lucchetto a tutte le riserve alcoliche della locanda.
“Al ragazzino!” inneggiò, alzando la bottiglia verso Erik. “Hai visto, Combeferre, che ci è stato utile sul serio?”
L’interessato non rispose, limitandosi a scuotere leggermente la testa tristemente. “Non è posto per lui, qui.” ribatté grave.
“Solo gli stupidi non cambiano idea! Ci ha salvati tutti.” replicò l’altro.
Anche le donne erano uscite dalla locanda. Tutti i rivoluzionari erano appoggiati ai mobili della barricata, tranne qualcuno che si stava preoccupando di riparare dei fucili guasti.
Erik, anche, era adagiato su una vecchia cassettiera, accanto a Marius. Cosette gli rivolgeva degli sguardi fugaci, per poi tornare a parlare con le altre infermiere.
Grantaire passò la bottiglia, ancora mezza piena, al bambino. “Tieni, è tutta salute!”
Joly, udendo queste parole, trasalì. “Diversi recenti studi dimostrano che un bambino non dovrebbe-”
“E lascia stare! Guarda come sono venuto su io!” scherzò Grantaire.
“Per l’appunto.” commentò gelido Enjolras.
A quelle parole tutti si zittirono per qualche secondo. Il giovane con la bottiglia contrasse le labbra in una smorfia divertita e riprese a bere.
Erik era ormai abituato a quel genere di scene, e questa non lo sorprese particolarmente. Voltò la testa per sorridere a Cosette, la quale ricambiò con uno sguardo dolce.
“Beviamo insieme, ragazzi.” riprese Grantaire ad un tratto “E’ normale essere preoccupati. Aver paura di morire. Ma il vino basta per dimenticare tutti questi pensieri tristi. Bevete con me ai tempi andati!”
Gli studenti sospirarono. Tutti loro vivevano quelle ore in un costante terrore. Sapevano che sarebbe bastato un attimo, per porre fine alle loro vite.
Marius era preoccupato non tanto per sé stesso, quanto per Cosette. E sì, anche per suo fratello. In fondo, lei non sarebbe mai potuta essere felice, senza lui al suo fianco.
Le donne avevano paura. Se la barricata fosse stata presa, sarebbero morte tutte. Non avrebbero più veduto i loro parenti, né i loro mariti o i loro figli.
Cosette era tormentata dal pensiero di veder morire Marius per un colpo di fucile o Erik ucciso da una carabina. E, per l’ennesima volta in quelle ore, si stava torturando a sapere suo padre da solo, senza la minima idea di dove si trovassero i suoi figli.
Erik non aveva paura. La sua unica preoccupazione, per il momento, era di tenere al sicuro la sorella. Non sapeva come avrebbe potuto farlo, ma si disse che era il suo unico compito.
La bottiglia di Grantaire girava tra gli Amici, e anche tra le infermiere. I due Fauchelevent furono gli unici, insieme ad Enjolras, a non toccarla neanche. Ne furono portate altre, e un’ora passò nel silenzio, interrotto solo dai singhiozzi di coloro che avevano perso, quel giorno, le persone che amavano.
Ad un tratto una voce nel buio, dall’alto, urlò “Stanno arrivando!”.
Tutti voltarono di scatto il capo verso il principio della strada. Non vedevano nessuno, ma col silenzio potevano udire i passi di marcia dei soldati.
“Ognuno si armi!” gridò Combeferre, vedendo seminarsi il caos tra gli studenti. Le donne rientrarono nella locanda, e consegnarono quanti più fucili possibili.
“Presto!” incitava Bossuet, che era rimasto di guardia alla barricata.
Cosette strinse forte il fratello. “Erik…”
“Devo andare.”
Lo guardò disperata. “No, non devi.”
“Sono in pochissimi, non vedi? Hanno bisogno di me.”
Cosette si morse un labbro. “E Marius…”
“Lo terrò d’occhio, vedrai.”
La fanciulla improvvisò un sorriso amaro. Diminuì la stretta dell’abbraccio e si appoggiò stancamente ad una parete del Corinth.
Erik le rivolse uno sguardo confidente e sparì fuori dalla locanda. In realtà non aveva idea di come cavarsela. In più, era terribilmente sorpreso che Cosette l’avesse lasciato andare senza troppi sforzi. L’aveva capito, ormai, era totalmente stremata, pareva che qualcuno le avesse sottratto un po’ di luce negli occhi, di convinzione nelle parole, di forza nel respiro.
Erik non aveva nessuna arma; non c’era neanche una pistola per lui. Avevano preferito che Combeferre ne prendesse due, piuttosto.
Tentò di ragionare, di trovare un modo per procurarsi almeno una fionda, qualcosa che gli permettesse di aiutare.
Quando vide che i soldati erano già di fronte alla barricata, in ginocchio per sparare, si disse che non c’era più tempo per pensare.

 
 
5 Giugno 1832, Pomeriggio
 
Niente da fare, pensò Jean Valjean preoccupato. Ancora col giornale in mano, si appoggiò al muro freddo della strada.
Osservava quel pezzo di carta con irrequieta ostilità. Figuravano, scritte in piccoli caratteri, le zone della rivolta. Aveva pensato che erano sicuramente fulcro di grande attività, e per questo avrebbe avuto più probabilità di trovare i suoi figli. Dopotutto, cosa poteva fare se non tentare?
Tirando fuori una matita dal taschino, cancellò la riga che diceva “Rue de Bac”.
Niente, non li aveva trovati.
Prendendo un respiro profondo, si rimise in cammino. La prossima meta era Notre Dame.
 
 
 
 
Angolo dell’autrice
Mi sento male a pensare che manca poco -pochissimo- alla fine. Ma vabbè, concentriamoci su altre cose più importanti… come per esempio, questo capitolo.
Non so perché, ma mi è piaciuto particolarmente scriverlo.
Allora, abbiamo un Javert spia che stavolta è Erik a smascherare (se lo avesse fatto Gavroche non sarebbe stata una fan fiction, ma una soap opera di cattivo gusto con tanto di resurrezioni varie XD).
Segue una sottospecie di ‘Drink with me’, rivisitata e corretta per l’occasione. Ma c’è poco tempo per festeggiare, perché arriva ben presto la Guardia.
Intanto, abbiamo un Valjean completamente sperduto. Per scrivere dei luoghi della rivolta indicati dal giornale, mi sono aiutata con il testo di Red&Black: At Notre Dame the sections are prepared! At rue de Bac they're straining at the leash! Students, workers, etc, etc…
Detto questo, ho esaurito gli argomenti. Al prossimo capitolo,
rosa_bianca
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Conclusione ***


5 Giugno 1832, Notte
 
 
 
La situazione era critica.
Molto più critica di quanto Enjolras avesse mai potuto prevedere, durante quelle notti invernali passate sopra mappe e schemi. Tutto per progettare quella sommossa.
Ma non c’era tempo per i sospiri. Gli sarebbe bastato distrarsi un attimo, tenere le palpebre chiuse un secondo di più, per ritrovarsi di fronte alla morte.
Diede un rapido sguardo dinnanzi a sé. Accanto, aveva tutti gli studenti.
Combeferre, che, con una spietatezza che nessuno si sarebbe mai aspettato, difendeva tutti i giovani che gli stavano vicini. In realtà, non si smentiva molto: attaccava solo per difendersi.
Courfeyrac lanciava colpi come un forsennato, il volto rubicondo e la fronte madida di sudore.
Davanti a sé, Enjolras vedeva la Guardia. Erano riusciti ad arrampicarsi sulla barricata, ma non a prenderla definitivamente.
Mentre si voltava per tramortire un soldato col suo stesso fucile, con la coda dell’occhio notò il bambino. Ricordava che si chiamasse Eric, o qualcosa del genere. Stava sempre intorno ad alla svenevole infermiera di Pontmercy, che era troppo giovane per essere sua madre. Quindi aveva presunto che fossero fratelli.
Ora il ragazzo stava cercando di soccorrere Joly, appoggiato al muro del Corinth con una vistosa ferita al braccio.
L’attenzione di Erik, invece, era completamente incentrata sul povero malato, che in quel momento era ben poco immaginario. Aveva un brutto squarcio da cui il sangue usciva copioso. Lo stava aiutando a rimettersi in piedi per raggiungere l’infermeria.
La situazione a dir poco tragica non gli era sfuggita, ovviamente. Ma senza un’arma, non poteva far altro che sostenere i feriti. Lanciò un’occhiata d’intesa a Cosette e consegnò Joly alle sue cure.
“Non tornare fuori…”. Il mormorio disperato della sorella gli sfuggì, coperto dalle grida di dolore e dagli spari degli studenti.
Cosette si sentì morire. Ora Erik era in pericolo, ed era tutta colpa sua se non erano fuggiti prima. Ormai non era più un’opzione possibile, le guardie erano ovunque. Il rumore che la circondava non poteva darle il tempo per pensare, i feriti arrivavano e lei doveva dedicarsi a loro. E suo padre? Cosa doveva provare suo padre, in quel momento? Cosette era confusa, troppo confusa.
 
Valjean non mangiava da un giorno. Non aveva avuto tempo per fermarsi, nella sua frenetica ed instancabile ricerca dei due figli. Aveva setacciato i luoghi delle barricate. Ne era rimasta una sola a Parigi, o almeno così si diceva. Nelle altre, non aveva trovato altro che pietre, legname, pistole, e cadaveri. Decine di cadaveri. E con quanta disperazione li aveva tutti osservati, voltando il viso a quelli che lo rivolgevano alla terra, coperta dal loro stesso sangue…
Eppure niente. Cosette ed Erik non si trovavano. Aveva deciso di fare un tentativo all’ultima barricata della lista, in Rue de la Chavrerie.  
C’erano soldati ad ogni angolo delle strade, e questo era un enorme problema. Gli serviva un modo per passare inosservato, completamente inosservato, tra tutti i soldati…
Ne avvistò uno, solo, all’inizio della via che stava imboccando. Valjean si guardò furtivamente attorno e, con un balzo agilissimo nonostante la sua età, lo colpì violentemente sulla testa. Cadde.
Valjean lo trascinò in un vicolo lì vicino, dove lo svestì ed indossò la sua uniforme. Controllò che la ferita non fosse troppo grave; no, dopo un ora o due si sarebbe svegliato.
Si era promesso di non fare più cose del genere, ma stavolta era per una buona causa.
 
 
 
Erik rabbrividì. Sapeva che, se le cose fossero continuate a procedere in quel modo, la barricata non sarebbe durata più di un’altra ora.
Ad un tratto, gli spari dal lato dei soldati si quietarono, e quello che pareva il comandante prese parola.
Più che parlare, tuonava. Disse che se loro studenti si fossero arresi, tutti i soldati si sarebbero ritirati immediatamente.
Erik rabbrividì quando Enjolras espresse con aspra fierezza il loro desiderio di restare, di combattere ancora.
Fino a che la terra non fosse stata libera.
Tutti avevano inteso ormai il proprio destino: rinunciare ad un’offerta del genere poteva significare soltanto, per uno sparuto gruppo di inesperti universitari, andare incontro alla morte.
Erik decise che non poteva finire così. Voleva e doveva portare in salvo Cosette. Ma come avrebbe potuto? Le strade erano tutte sorvegliate, le sentinelle appostate ad ogni angolo.
Gavroche avrebbe saputo cosa fare, ne era certo.
Ma lui non c’era più, e avrebbe dovuto cavarsela da solo, con le sue forze.
D’altronde, doveva avere qualcosa di diverso da quell’ingegnoso monello biondo, giusto? Qualcosa che l’avrebbe aiutato a superare questa scomoda situazione. C’era sicuramente qualcosa!
Erik lasciò i suoi occhi vagare per la barricata. La nebbia spessa e maleodorante della polvere da sparo celava una sanguinosa scena: i soldati erano ancora una volta vicini alla barricata, troppo vicini.
Vide Feully cadere a terra, tramortito dalla punta di un fucile che gli aveva  trapassato la schiena. Colse lo sguardo disperato di Combeferre, accanto a lui. Ma non poteva fare nulla, o sarebbe stato colpito a sua volta. Brandiva la sua arma al contrario, tentando di respingere i soldati colpendoli con il calcio del fucile.
Erik cercò di concentrarsi. Doveva avere un punto forte, qualcosa che lo distingueva dagli altri.
Effettivamente, era molto portato per la musica. Ma a cosa sarebbe potuta servire in un’occasione del genere? Il suo genio non lo poteva aiutare, non stavolta.
Fissò un punto indistinto a terra, per non distrarsi. I suo occhi caddero su una bottiglia,  abbandonata a terra. Involontariamente, vide il suo riflesso.
E capì che c’era una speranza.
Se avesse tenuto gli occhi sul vetro, avrebbe potuto notare il luccichio dal quale erano pervasi.
Guardandosi attentamente intorno per evitare qualsiasi tipo di pericolo, si diresse davanti alla barricata, ed iniziò ad arrampicarsi.
“Cosa fa?” urlò Courfeyrac, indicandolo.
“Erik!” gridò Marius.
“Fermi tutti, smettete di sparare!” ruggì Enjolras alzando in aria il fucile, e gli studenti riposero le armi.
I soldati, curiosi di vedere come si sarebbe evoluta la faccenda, non premettero un solo grilletto.
“Ebbene?” disse il comandante, con un sorriso sornione. “Il moccioso intende fermarci?”
Erik, ormai arrivato in cima alla pila di mobili, prese un respiro profondo.
Se si fosse voltato, avrebbe potuto vedere sua sorella, corsa fuori dal Corinth, che si stringeva a Marius in lacrime.
“Non sono un moccioso.” affermò con una voce potente e forte che di certo non sarebbe parsa quella di un settenne.
Delle risatine echeggiarono dal lato della Guardia. Un soldato chiese con un cenno al comandante se poteva sparare. “Non ancora.” mormorò lui, divertito.
“Di fronte a voi non avete un comune, semplice bambino…” proseguì Erik energeticamente, i pugni stretti accanto ai fianchi.
 “Io…sono il Figlio del Diavolo!” esclamò, con voce spaventosa. Si tolse con un gesto rapido la maschera bianca, che cadde su una tavola di legno, e prese saldamente una torcia, avvicinandola al volto.
La voce del bambino sovrastò i mormorii di orrore suscitati da quell’azione repentina.
Gli Amici non parlarono, ma rimasero in un silenzio teso e ricco d’angoscia. Coloro che non avevano visto il viso scoperto di Erik poche ore prima, alla locanda, non l’avevano scorto neanche ora: egli dava loro le spalle.
“Se non volete avere a che fare con la maledizione del Diavolo, allora vi consiglio di arrendervi. E subito!”
Il comandante deglutì. Sicuramente, tra tutte le cose che avrebbe potuto dire quel piccolo arrampicato sulla barricata, questa era la più inaspettata. Notò che i suoi soldati stavano fremendo. Sentiva alcuni dire “Ma no, dai, ci credete?”, ma alla maggior parte non serviva credergli: vederlo era stato più che sufficiente.
Erik rimaneva fermo, immobile, con le mani che quasi non riuscivano più a tenere stretta la torcia. Era notte, e non si sentivano rumori.
Cosette, intanto, rimaneva vicino a Marius; non poteva credere che il suo fratellino, il suo piccolo, talentuoso, incompreso fratellino avesse dato prova di tanto coraggio. Allo stesso tempo, però, era terrorizzata che i soldati sparassero a tradimento: era una preda facile, lì in alto sotto gli occhi di tutti.
Nessuno parlava, e il silenzio si faceva ancora più teso. Il comandante era interdetto: da uomo superstizioso qual era, non poteva fare a meno che inorridire alla visione del giovane. Forse, pensò, era grazie a lui che ancora non erano riusciti a prendere la barricata, l’unica rimasta a Parigi: quegli studenti malefici avevano fatto un patto col Diavolo.
“Andiamocene.” sussurrò infine al suo vice, con aria affannata. “Andiamocene da qui.”
Quando Erik, dall’alto della sua postazione, vide che i soldati avevano iniziato a bisbigliarsi velocemente tutti la stessa cosa, il suo cuore fece un salto di gioia.
Ce l’aveva fatta.
Rimase fermo, immobile, per paura che un suo qualsiasi movimento avesse potuto fermarli.
Sentì levarsi, da dietro le sue spalle, mormorii esaltati e concitati.
“E’ finita!”
“Abbiamo vinto!”
“Enjolras, hai sentito? È fatta!”
Il diretto interessato non rispose. Aveva gli occhi azzurri indistintamente persi nell’aria attorno a lui.
Gli sembrava un sogno.
La rivoluzione era finita, avevano vinto. La barricata era inutile, ormai.
Cosette, mentre gli uomini gioivano rumorosamente, si staccò da Marius e, con passi decisi, iniziò ad arrampicarsi per raggiungere suo fratello.
“Erik?”
Il bambino rimase immobile per un secondo. Ebbe un brivido: aveva riconosciuto la sua voce dolce.
Si voltò con aria fiera, senza paura di mostrare il suo viso a tutti.
“Sono così fiera di te…!” mormorò Cosette, stringendolo in un abbraccio.
Da lì in poi, per Erik fu tutto molto confuso: ricorda ancora di essere stato sollevato da diverse mani, c’era un chiasso assordante e tutti volevano congratularsi con lui.
Enjolras gli strinse formalmente la mano, ma si notavano chiaramente i suoi occhi lucidi dalla commozione.
Courfeyrac lo strinse per diversi secondi, e vi si unì anche Combeferre.
Bossuet e Joly gli diederono due pacche sulle spalle, mentre il sorriso attraversava il loro viso da un orecchio all’altro.
Marius gli sorrise. Si sentì in debito con lui: aveva salvato le sorti della barricata, e quindi anche la sua… e, soprattutto, quella di Cosette.
Erik pensava di trovarsi in un sogno, tanto era frastornato. No, non in uno di quegli incubi terribili che l’avevano perseguitato le notti precedenti, ma in un bellissimo sogno dal quale non voleva svegliarsi.
Addirittura, crebbe di vedere Valjean al suo fianco, per un momento.
E gli parve molto strano quando immaginò addirittura –che scherzi fa la mente, talvolta!- che Cosette stesse abbracciando forte l’uomo, con gli occhi colmi di lacrime di gioia.
Quando Valjean lo strinse tra le sue braccia, facendosi spazio tra gli Amici, si accorse che non era un sogno.
“Papà!” esclamarono in coro i due fratelli, lanciandosi uno sguardo stupefatto.
Il caos sembrava calmarsi: Erik se ne accorse perché, quando parlava, poteva finalmente sentire il suono della sua voce.
Intravide con la coda dell’occhio Grantaire che abbracciava Enjolras, mentre Combeferre e Courfeyrac ridevano.
Finalmente, dopo molto tempo, si sentì in pace.
Non gli importava che la maschera perlacea fosse ancora abbandonata tra una sedia ed un comodino, in cima alla barricata, non gli importava proprio.
Era solo felice, estremamente felice, più di quanto le parole potessero esprimere, perché sapeva di avere gli occhi di tutti addosso. Ma stavolta non erano inorriditi, no: sorridevano.
E sapeva che anche Mabeuf, Feully, Jehan, Bahorel, Gavroche, Eponine e sua madre lo osservavano con orgoglio, dall’alto del Cielo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                                                                                  Epilogo
 

 
10 Dicembre 1845
 

Quella sera nevicava. Tutta Parigi indossava un elegante pelliccia bianca: le strade, le case, le statue, gli edifici…
Anche l’Opéra Garnier era coperta di neve.
Era una serata importante, quella, e chiunque nel teatro accorreva a sistemare tutto prima della grande soirée.
Le ballerine girovagavano qua e là, senza meta, alcune con il preciso intento di innervosire i cantanti, altre con l’ingenua presunzione di non voler chiudersi nella sala comune fino all’entrata in scena.
Una delle danzatrici si era staccata dal gruppo. Si sistemò con due gesti sbrigativi il tutù candido e bussò ad una porta dipinta di rosso. Purtroppo, come si aspettava, non ottenne nient’altro che una specie di grugnito seccato. Si appoggiò stancamente ad una delle tende di velluto del corridoio.
“Niente da fare.” sospirò, facendo spallucce.
Davanti a lei c’era una donna. Aveva qualche anno più di lei, ma un aspetto ben diverso dal suo: sulla complessa acconciatura bionda era poggiato un cappellino, gli occhi azzurri le brillavano, e portava un bell’abito color turchese, com’era di moda quegli anni. Era a braccetto con suo marito, e la figlia era appoggiata alla sua gonna ampia.
La donna assunse un’espressione risoluta e si rivolse così alla ballerina “So io come fare.”
“Cosette, non mi sembra il caso, magari…”
“No, Marius. Lascia fare a me, te ne prego.” Ribatté lei, convinta “Sophie, vieni, accompagnami.” Aggiunse.
La madre la prese per mano e si diresse verso la porta rossa accanto alla ballerina.
“Non preoccupatevi, mademoiselle Giry, so io come farlo uscire.”
La figura in bianco si scostò, per lasciare spazio a Cosette.
Bussò leggermente alla porta. Attese qualche secondo prima di sentire il rumore di una poltrona che veniva spostata, poi alcuni passi leggeri.
“Fratellino!” esclamò lei, stringendo in un abbraccio stretto il giovane dall’altra parte della porta. Indossava una semplice camicia bianca, alquanto larga, e dei pantaloni di tela marroni. Sembrava alquanto nervoso.
“Ti prego, Cosette, mi rovini il costume di scena!” protestò debolmente, mentre si godeva ogni secondo della calda stretta. “Oh, c’è anche Sophie.” aggiunse, quando notò la piccola.
“Zio Erik, è vero che siete molto emozionato? Oggi maman me lo ha ripetuto molte volte, e ha insistito perché non vi disturbassi.”
Cosette si lasciò sfuggire un’altra risata. “Data la sua loquacità, direi che non è per niente come suo zio.”
Quest’ultimo asserì, con fare spiccio. “Emh…Ho apprezzato molto la vostra visita, ma ora sono costretto a chiedervi di lasciarmi da solo, scusate.” Si appoggiò allo stipite della porta, senza avere nulla da dire, e poi aggiunse “Ah, e saluta tanto Pontmercy da parte mia.”
Marius.” Lo corresse automaticamente Cosette “Chiamalo Marius, te ne prego. E comunque, dimostri di non aver imparato neanche un po’ d’educazione.”
“Umh?” mugugnò Erik, dando un altro sguardo ansioso all’orologio del suo camerino.
“Mademoiselle Giry.”
“Eleonore?” domandò stupito lui, non capendo dove volesse andare a parare la sorella.
“Ah, si chiama così? Che nome delizioso… Comunque, ciò non toglie che lei non abbia occhi che per te, e che si sia preoccupata, stasera, che non le volessi aprire. Non dico molto, ma almeno farle sapere che eri vivo… suvvia, Erik, non è questo, ciò che ti ho insegnato!”
L’altro arrossì timidamente, ma cercò di non darlo a vedere. Sbuffò, piuttosto, deciso a porre fine alla discussione. “Le porgerò le mie più umili scuse non appena questa serata sarà finita.”
La donna parve soddisfatta, e non aggiunse altro. Diede una timida ma calorosa carezza alla spalla del fratello, e fece dietro-font, con la bambina ancora attaccata alle gonne.
“Andiamo ad aspettare papa già ai posti: arriverà tra poco.” suggerì Cosette al marito.
I tre si misero in cammino, per raggiungere le sedie che avevano prenotato.
Box cinq lesse incerta la piccola. “E’ molto bello, maman, si vedrà tutto, da qui.”
Cosette sorrise soddisfatta, mentre i suoi occhi vagavano per la platea, che stava iniziando a riempirsi.
Sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato. Finalmente, il suo fratellino debuttava all’Opéra!
Da tredici anni aveva iniziato a prendere lezioni di musica. In pochissimo tempo aveva superato i maestri di Parigi, e da lì aveva iniziato a comporre. La sua opera, il capolavoro frutto di anni di sudore, stava per venire rappresentato all’Opéra per la prima volta. Ed Erik era nei panni del protagonista, cantava con la sua stupenda voce da tenore.
Una lacrima pizzicò gli occhi di Cosette. Aveva tanto atteso quella sera.
Pochi minuti dopo, quando il pubblico era già composto nelle poltroncine rosse, Valjean fece la sua apparizione al palco numero cinque. Si era seduto accanto alla nipotina, per la quale provava un amore sviscerato, ed attese in silenzio che il sipario calasse.
 
Erik stava respirando affannosamente, cercando di darsi un contegno. Si appoggiò alla parete. Aveva aspettato tanto. Era la sua occasione, finalmente. Se fosse già stato sul palco avrebbe potuto vedere gli Amis, precisi ed impazienti ai loro posti. C’erano tutti. Tutti quelli che, tredici anni prima, aveva potuto salvare.
“Si va in scena!” gli sussurrò il maestro di canto.
Erik chiuse gli occhi. Sperava di essere abbastanza pronto.
“Vi auguro buona fortuna, Erik…”
Si voltò verso la voce, dolce ma al contempo decisa, che aveva pronunciato quelle parole. Lei lo fissava con i suoi penetranti occhi castani.
“Grazie, Eleonore.”
 
Quando le tende di porpora si scostarono con meditata lentezza, Cosette prese in mano il suo libretto.
Appena scorse la macchia perlacea della maschera, non poté fare a meno di rileggere il titolo dell’opera.
Les Roses Fleuriront.
 
 






Note dell’autrice:
 
*prende i fazzoletti* E’ finita…! Lo so, non ve lo sareste aspettati. Non una fine così inaspettata, con l’epilogo nello stesso capitolo. A me sembrava giusto così, perfetto in questo modo.
Allora, non so veramente da cosa iniziare.
Abbiamo la barricata immersa nel terrore. Cosette disperata, piena di rimorsi. Valjean determinato, anche un po’ violento, se vogliamo.
Erik è il più risoluto di tutti. Capisce finalmente che la cosa che ha più disprezzato nella sua breve vita può essere utilizzata per salvare delle vite.
La maschera rimane impigliata negli oggetti della barricata, e vi rimarrà per chissà quanto.
Ora tutti sono salvi, e le rose sono fiorite.
Tredici anni dopo, assistiamo al debutto di Erik: dopo l’avvenimento della barricata ha iniziato a studiare canto, ha superato i maestri, ha scritto un’opera. E, finalmente, riesce a rappresentarla.
La sorella, il cognato, la nipote, il padre, i vecchi amici, la ballerina di cui si è innamorato… sono tutti pronti a vedere il suo grande trionfo.
Non riuscivo ad immaginarmi un finale migliore di questo, sinceramente.
*si asciuga le lacrimucce* Bene. Dopo questa melensa conclusione, volevo ringraziare tutte le persone che hanno letto questo parto della mia mente, ringraziando particolarmente Saitou e Catcher per le loro puntualissime ed affezionate recensioni.
Spero tanto di scrivere ancora, e presto. Intanto, arrivederci,
rosa_bianca

 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2168134