Sfigata... con successo.

di FindingDarcy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Ero sicura di averlo messo proprio qui! Dove l’avrò potuto cacciare?! Qui non c’è, qui neanche.. e nemmeno nella cassetta degli attrezzi. Uff. Cerco in giro il rotolo gigante di adesivo ultra- resistente per imballaggi, che ho fatto sparire dal garage dei miei l’ultima volta che sono stata da loro. Restano pochi altri pacchi da sigillare e poi…bye bye… finalmente, mi lascerò alle spalle questa lurida topaia piena di ancor più luridi ricordi.
Ok. Forse sono un tantino eccessiva. Non che questo loft in cui ho vissuto fino a venti giorni fa con quello che credevo sarebbe diventato mio marito finché morte, la sua, non ci avrebbe separato, fosse davvero un posto così squallido e sudicio come potrebbe sembrare. Nient’affatto. Più che altro sono squallide le ultime immagini, perfettamente registrate nella mia mente, a rendermelo invivibile: Paul, il mio uomo o presunto tale, e Maria, la bambinaia italiana dei nostri dirimpettai, nudi e attorcigliati, come i miei nervi in questo momento, sul divano che ho acquistato con l’equivalente di quelli che sono nove degli stipendi del mio vecchio lavoro di dogsitter. Nove, dico nove! Non era un lavoro vero e proprio, quello ce l’ho, sono una discreta grafica in una rivista locale per sole donne. Era piuttosto un hobby, visto che io amo i cani e Paul invece li detesta, un passatempo da weekend per racimolare qualche soldo in più per ammortizzare il costo, appunto, dei mobili di casa.
Oddio. Lui e Maria non l’avranno mica fatto anche nel nostro letto? Che schifo! Paul non cambia mai le lenzuola. Quindi.. ciò vuol dire che.. oddio, no.. no, no, no! Ho dormito nelle stesse lenzuola in cui il viscidone e l’altra si sono rotolati?! Disgustoso. Devo assolutamente ricordarmi di fare le analisi di controllo appena avrò finito di sistemare il nuovo appartamento.
E così, tutto ad un tratto, questo magnifico, luminosissimo e spazioso loft appena ristrutturato e affittato a prezzo di occasione è diventato troppo piccolo, troppo vicino alla metro, troppo caldo d’estate e terribilmente freddo d’inverno, troppo lontano dal centro commerciale ma troppo vicino al garage del complesso Felpax.
E le pareti, poi, davvero troppo sottili!
 
Ahiiiiiiiiiiii! Spigolo incontra mignolo, spigolo batte mignolo uno a zero. Non avrei dovuto starmene scalza con tutta questa roba in giro per casa. Che male, mammaaaa!! Che male!! Aaaa – hiiii- ahhhhh! Sillabare non mi allevierà il dolore. Vabeh.
Sento un clacson pesante bussare tre volte.
Deve essere il camion che ho noleggiato per il trasloco. Mi affaccio alla finestra e faccio segno, ai due tizi che ne scendono, di parcheggiare più avanti e di salire al terzo piano. Ci mettono un bel po’ di minuti a salire o forse sono soltanto io che ho una grave urgenza di lasciare questo posto. Comincio ad essere un tantino agitata e, per calmare i nervi, inizio a girare e rigirare in tondo, cercando di non inciampare nelle cianfrusaglie rimaste ancora fuori degli scatoloni.
Credo che accenderò la tv, a quest’ora danno le ennesime repliche di Friends. Mi piacerebbe vivere in un appartamento con due amiche come Phoebe e Rachel. Monica, no. Mi è sempre stata un tantino sulle scatole perché mi aveva rubato Chandler, l’uomo immaginario della mia vita. Dopo Edward Lewis in Pretty Woman, si intende. Aaaah Edward!! Aaaaaaaah.
Il televisore sarà l’ultima cosa che impacchetterò, devo tenerlo acceso per distrarmi. Menomale che Paul è a lavoro, così non farà resistenza per convincermi a lasciarglielo. Giammai.
Mi fa uno strano effetto dover costringere tutta la mia vita fino ad oggi in tristissimi cartoni marroncini ed affidarla a due sconosciuti. A guardare i tipi a cui apro la porta, non sembrano tagliati ad organizzare traslochi: uno è piccoletto, sulla cinquantina, mingherlino ma con la pancia gonfia come un palloncino ad elio; l’altro è poco più che ventenne, sotto i due metri più o meno,  non credo capisca la nostra lingua dal momento che sembra un po’ perplesso e vagamente intontito quando il primo gli impartisce un paio di istruzioni per organizzare il da farsi. Scambiandosi poche parole, trovano la posizione a loro più congeniale per spostare i diversi pacchi disseminati ovunque. Eeee cinnnnqqq’ see’ settttt’ eeeeee.  Il più vecchio dei due, sicuramente il capo, s’improvvisa coreografo ed apre le danze così, trovando un ritmo tutto loro, i due danno vita ad una specie di mini-catena umana, coinvolgendo anche me, per spostare agevolmente gli scatoloni: il più anziano, fermo sull’uscio dell’ingresso di casa, fa da anello di mezzo e passa i pacchi dall’interno all’esterno. Ai due capi della catena ci siamo io e il ragazzone: io, dentro casa, passo i pacchi a Tony sull’uscio, il quale a sua volta li passa a Vlad – sì, mi sa proprio che è straniero - che li ammucchia in ascensore e li invia a piano terra. E sempre Vlad, di volta in volta,  imbocca di corsa le scale e  scende quattro gradini alla volta per attendere l’arrivo dei pacchi a destinazione. Meglio dare una controllatina, dai. Mi sporgo dalla finestra e aspetto che sistemi la mia roba sul camion, facendosi assistere dall’autista rimasto per strada. Poi lo vedo risalire in fretta al terzo piano per continuare l’opera iniziata.
Quando mi fermo per riprendere fiato, Tony mi fa segno di non perdere tempo, con l’indice che picchierella sull’orologio quasi a sfondare il vetro sul quadrante. Quest’uomo è un vero dittatore e pensare che sto facendo io gran parte della fatica per cui lo pago. Mah.
Ripetiamo questa danza una ventina volte, volendole contare. Anzi, saranno state molte di più. Ho la schiena a pezzi, riesco perfino a contarli. Vlad, poverino, ha almeno sette centimetri di lingua srotolata come quella dei cani che vanno a spasso in auto con il muso fuori del finestrino. A lui è toccata la fatica più grossa ed io ho parecchia roba da portar via. Certo, non lascerò a Paul l’appartamento vuoto ma lo priverò del minimo indispensabile che gli serve per sopravvivere: divano, microonde e televisore al plasma da trentadue pollici acquistato meno di un mese fa. Voglio vederlo ridursi a una larva, senza poter giocare alla Wii, con la barba lunga come quella di Tom Hanks in Cast Away, accoccolato su sé stesso in un angolo dove non giunge la luce del sole.
E pipistrelli, pipistrelli ovunque.
Sì, questo loft dovrà diventare più lugubre della Bat Caverna, dopo che avrò messo le mie multi- color Onitzuka Tiger fuori di qui, con file e file di pipistrelli ciondolanti dal soffitto. Ieri sera ho visto un pezzetto di  “Uccelli” di        Hitchcock, quindi stamattina trovo che sia più che normale immaginare che ondate di pipistrelli, mamme e papà, con tanto di pipistrellini a seguito, si spiaccichino contro le enormi vetrate del loft fino a infrangerle in centinaia di pezzetti, in modo da poter penetrare all’interno e decidere di nidificarvi. Per la mia salute psichica, ora come ora, è proprio necessario credere che questo loft diventi, in brevissimo tempo, lo scenario post-apocalittico di una guerra atomica e che non vi cresca più vita.
Né soprattutto la si generi dandoci dentro sul mio divano bianco di simil-pelle!!
«Sii superiore.» mi ha suggerito la mia amica Claudia. «Non dargli soddisfazioni, comportati da signora e lasciagli tutto intatto, così capirà ancora di più di non meritarti. Si mortificherà per il tuo atteggiamento distaccato e finirà col sentirsi una merda. E questo quello che vuoi, no?»
Ma “sii superiore” un corno, mia cara Claudia! Soffrire deve, crepare deve… e mi accorgo di aver pensato quest’ultima cosa con l’accento siciliano di Marlon Brando nel Padrino
 
Dalla finestra in camera mia vedo il camion per il trasloco in strada e Vlad, con il supporto dell’autista, che vi ripone frettolosamente i miei ultimi scatoloni. Avrei dovuto scrivere “Fragile” su qualche pacco, vista la poca accortezza con cui se li passano tra le mani e li gettano dentro.
Scendo le scale più in fretta che posso; non sopporto l’idea che si maltratti cosi la mia roba. Son sempre stata molto gelosa delle mie cose. E anche delle persone che mi appartengono. So che è tremendo dire una cosa del genere; so che vorreste farmi la ramanzina cercando di dirmi che una persona non si può possedere, non la si può paragonare di certo ad un oggetto ecc. ecc. e tante altre parole piene di giudizio e saggezza. Eppure, è così. Ogni volta che qualcheduno si avvina troppo ai miei, a mia sorella, alla mia migliore amica o anche a quello stupido di Paul, mi scatta una pungente gelosia sottocutanea e così, mentre mi costringo a mostrare il più aperto e cordiale dei sorrisi,  il mio fegato, invece, ne risente come se avessi bevuto dodici bottiglie di birra e due di vodka, l’una di fila all’altra. Per fortuna, adesso ho una persona in meno da calcolare tra le possibili cause dell’ulcera che, sono sicura, mi si sta gonfiando come il tacchino ripieno che cucina Zia Francesca.
Riesco a metter naso fuori dell’ingresso dello stabile nel preciso momento in cui vedo i piedi di Vlad sospesi a circa un metro da terra; il poverino per poco non batte pesantemente la schiena sul ciglio stradale, ma nella caduta viene rallentato dall’impatto con l’ alto e grosso sederone, simile a quello di Mami in Via col Vento, del clochard che stava spulciando tra la spazzatura. Nell’aria, macchie colorate e senza contorni ovunque.
Aspetta.
Cosa sta succedendo?
Ma che diavolo…
Maledizione!! Nooooo. Non è possibile. Lo shock mi sorprende quando realizzo che si tratta della mia biancheria intima con cui avevo deliziato le noiose sere del viscidone. Forse Maria era addirittura una di quelle che non indossava affatto l’intimo, convinta dei suoi seni alti da ventenne che, nei suoi striminziti top, mi ricordano i reggiseni a punta metallica che Madonna indossava alla fine degli anni ottanta.
Miss Capezzoli d’Acciaio.
Ma mia cara Maria, i trent’anni sono dietro l’angolo anche per te e …  così anche i seni che guardano all’ingiù. Mi basterà sedermi sulla riva del fiume ed aspettare  che passi il cadavere. Il tuo. In senso metaforico, ovviamente. Ho già avuto troppi pensieri omicidi negli ultimi giorni, meglio non scatenare piccola Hannibal Lecter che giace in me.  
 
Corro in direzione del camion e vedo i miei slip, i collant ed i reggiseni sparsi sul marciapiede. Argh. Tra tutti gli scatoloni che ho impacchettato, era proprio necessario che fosse quello dell’intimo a fare un volo del genere e sfracellarsi al suolo? Come se bastasse soltanto il mio umore ad essere talmente a terra da poterlo calpestare.
Dannato Karma!
Probabilmente è scritto che avrei dovuto lasciare questo stramaledetto quartiere in maniera tale che si ricordassero di me per un bel po’. E decido che questa ipotesi mi suona molto più simpatica del dover ammettere che sarebbe stato meglio abbondare col nastro adesivo al momento dell’imballaggio.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Mi affretto a cercar di raccogliere tutti i pezzi il prima possibile. Nessuno dovrà avere ricordarsi di questa mia uscita di scena così imbarazzante. Speriamo che la sfortuna faccia in fretta ad abbandonarmi e trovi una nuova vittima da puntare con il suo radar. Dimentico totalmente i miei doveri morali verso il povero Vlad disteso a terra a meno di mezzo metro da me, dove ce lo lascio senza nemmeno chiedere a qualche passante di soccorrerlo.
Gli slip! I reggiseni! Oddio. Tutti si stanno divertendo per la scenetta, tranne me. Questo è un incubo. Non sarà un segno del destino, vero?! Giusto la settimana scorsa ho finito di leggere Saper leggere i segnali, forse mi sto lasciando un tantino impressionare. Con i paraocchi, continuo a raccattare pezzi alla meno peggio e a rimetterli negli scatoloni, prima me ne vado da qui e meglio è.
Un paio di ragazzine sui tredici anni apprezzano i miei gusti a quanto pare; lo capisco dal modo in cui osservano ammirate il mio push up in pizzo rosa e rosso fragola di Victoria’s Secret. Ne vado molto fiera anche io ma a Paul non piaceva; diceva che fragola non era un colore di classe e quel reggiseno non gli faceva venire voglia di… insomma, ci siamo capiti. Beh, per quanto ne so, il reggiseno avrebbe dovuto strapparmelo di dosso, non di certo starlo a guardare in contemplazione mistica.
Le due non si decidono a darmi una mano per raccogliere la roba. Restano ferme a osservarmi mentre un ragazzo si prodiga verso Vlad, cercando di farlo alzare da terra.  Poi, con fare molto cortese, allunga una mano anche verso di me ma sono troppo concentrata a cercare gli slip a pois rosa per poter accorgermene ed accettare l’offerta di aiuto.
Gli do le spalle; sarebbe più opportuno dire che gli offro, inconsapevolmente, la vista del mio sedere dal momento che sono a carponi per strada a curiosare in giro come un cane nella spazzatura.
Ad un tratto sento picchiettarmi sulla spalla sinistra.
«Cosa sta cercando?»
«Un paio di slip a pois!» dico senza voltarmi a vedere il volto dell’interlocutore.
«Ci sono decine di slip a pois, qui. »
«Ma non quelli glicine a pois rosa antico!!» sbuffo, innervosita.
«Glicine e rosa antico … suppongo siano due colori.» Mi dice, ironico.
«Ovviamente.»  
Mi sta prendendo in giro o cosa? Mi volto a dar un’occhiata a chi fosse tanto spiritoso da fare domande del genere. Non male, il ragazzo. Non male. Non più di trentacinque anni, al massimo trentasei, completo grigio scuro di gran classe, cravatta blu oltremare e camicia con colletto e polsini molto inamidati. Un tipo da ufficio, con fermacravatta e borsa portadocumenti in pelle, sapientemente tenuta stretta sotto il braccio e non appoggiata in giro a disposizione di mani scaltre e disoneste.
Disastro. Ricordo di aver addosso una felpa viola, talmente scolorita da sembrar che avesse vomitato colore per giorni, e jeans vecchi di anni con una macchie di smalto per unghie mai più andate via. Anche i miei capelli sono completamente in disordine; a dirla tutta, non mi sono nemmeno pettinata stamattina. Li ho legati in una sciatta coda di cavallo nascosta da un berretto da baseball di Paul. Amavo indossare le sue cose; questo berretto mi ricorda uno dei nostri primi appuntamenti, in cui mi lasciò scegliere dove andare ed io, a sorpresa, e grazie all’impagabile aiuto di mio cugino Brad che mi procurò i biglietti, lo portai allo stadio a vedere la sua squadra preferita, dal momento che per uscire con me aveva rinunciato a un “grande partitone”, come aveva detto lui. Quella volta lo aveva detto senza volermi far pesare nulla; le recriminazioni e i sensi di colpa sarebbero cominciati non molto tempo dopo.
Vabeh. Quel che è stato, è stato. The show must go on… così cantano, così dicono.
Mi tolgo il berretto, non curandomi di quanto spaventosi sarebbero apparsi i miei capelli, e lo getto in un cassonetto esibendomi in un tiro da basket da due punti.  Canestro... mancato! Ovviamente.
Cerco di sistemarmi e darmi un aspetto quantomeno passabile, così torno al mio soccorritore che con aria trionfante mi indica, con una semplice alzata di sopracciglio, le ragazzine di prima e noto che i miei slip erano magicamente finiti nella tasca posteriore dei jeans di una delle due, le quali, colte in flagrante, iniziano ad allontanarsi a passo svelto.
«Hey, ragazzina!!» urlo «Hey, dico a te!!» accelero il passo, fin quasi a correre, e la strattono per un braccio. «Ridammi i miei slip!»
«Non so di cosa tu stia parlando, amica!» 
Mi aspettavo una reazione tutt’altro che così insolente; avrei gradito delle semplici scuse, un faccino un po’ rammaricato, degli occhioni dolci da gatto degli stivali in Shrek. Io mi sarei ammorbidita e le avrei lasciato tenere i miei slip. Che cosa rivoltante, poi. Io, di certo, non avrei mai indossato biancheria di un altro individuo. Tantomeno quella di Paul! Anche se nei film fanno vedere spesso scene del genere, dove la ragazza indossa i boxer del fidanzato. Ma che schifo è mai questo!??!
L’espressione maliziosa della ladruncola mi fa volere indietro i miei slip ancora più fortemente.
«Di questi!!» e glieli sfilo dalla tasca posteriore, sventolandoglieli sotto il naso.
Mi ritrovo a farle anche una smorfia indispettita, con la stessa maturità - devo ammettere a malincuore -  di una bimba di quattro anni. La ragazzina mi strappa le mutandine di mano e iniziamo un tiramolla che mi costa l’elastico dei miei slip; si è talmente slabbrato che adesso potrebbe indossarlo anche Depardieu travestito da donna al sesto mese di gravidanza.
L’amica, che stava assistendo alla scena, le fa cenno di alzare i tacchi ed entrambe scappano via, lasciandomi a sventolare in aria i miei adorati slip oramai andati.
«Gioventù bruciata!! Puah!!» dico ad alta voce «Si comincia dagli slip rubati per strada, poi si passa ai vestiti nei negozi infilati in borsa, e si finisce con gioielli e rapine a mano armata! Bonnie & Clyde, fuggite che è meglio!! -  ma le ladruncole sono troppo lontane per sentire il mio chilometrico presagio.
Torno indietro e finisco di metter la biancheria raccolta nello scatolone da riporre sul camion per il trasloco.
Lo sconosciuto soccorritore in suit è ancora qui.
«Bonnie e Clyde erano una donna ed un uomo. Sarebbe stato più consono dire Thelma e Louise» mi ammonisce.
«E’ lo stesso! Son sempre due criminali… o aspiranti tali!!»
«Un po’ troppo frettoloso il Suo giudizio, signorina o signora….» e lascia che termini la frase.
«Winter, Gwendaline Winter. Mancata signora per molto poco. Per colpa di un lurido bastardo e traditore. Paul, si chiamava Paul. Anzi… si chiama ancora Paul.. ma lasci che gli metta le mani addosso…. Paul il viscidone! Signorina, comunque… oh, mi scusi…» quando sono nervosa, rilascio sempre troppe informazioni. Inutile il mio tentativo di ridarmi un po’ di contegno. Oramai la figuraccia è fatta. «E comunque ho ragione. La gente fa schifo, il mondo fa schifo. Ma poi… che schifo!! Indossare la biancheria intima usata da un’altra persona?!?! Oddio, è uno schifo!!» 
Dal tono con cui dico queste parole, sembro molto sicura di esser arrivata alla più difficile delle deduzioni e sbalordisco da sola di quante volte sia riuscita ad usare la parola “schifo” in un periodo così breve.
«Non tutte le persone fanno.. schifo.»
Lo sconosciuto sembra voglia ironicamente citarmi, come se non avesse mai usato parole del genere in vita sua. Cosa c’è di male nel dire “schifo”?! Credo sia presente anche nei vocabolari, oramai. Ma forse il signorino viene dai quartieri alti.. oppure è abituato a frequentare persone di un certo tipo..
Si perde in una serie innumerevoli di ipotesi che avrebbero potuto giustificare la condotta della ladruncola, come ad esempio il fatto che la ragazzina aveva perso una scommessa e doveva dar dimostrazione di coraggio agli amici, rubando qualche sciocchezza. Pertanto, aveva semplicemente approfittato del caos che io avevo generato in strada per poter compiere quel gesto indisturbata e senza danni eccessivi.
Colpa mia e dei miei slip volanti, dunque!
A me sembrava una ladruncola e basta.
E rubare degli slip da trentaquattro dollari e novantanove non è una sciocchezza!!
«Ora devo proprio andare.» si congeda da me. «Ma se volesse fare causa alle due criminali, non esiti a contattarmi. Grant Cooper. E… sono un avvocato, vedremo di incastrarle.»
Sorride e mi porge un bigliettino da visita. So bene che la sua è stata una battuta, un modo come un altro per lasciarmi il suo numero di telefono. Andiamo… è palese, no? Rispondo cortesemente e lo saluto, lasciando che veda che ho riposto in tasca il suo bigliettino. Non male per una che ha appena concluso una relazione di tre anni ed ha l’autostima di un’oca zoppa in un giardino pieno di pavoni e cigni.
Vlad, un po’ acciaccato, nel frattempo aveva finito di sistemare gli ultimi pacchi sul camion e Tony, che aveva già preso posto sul sediolino anteriore, di fianco al posto di guida, mi fa un cenno dal finestrino per farmi avvicinare.
«Allora, signorina Winter. Dove vuole che portiamo le sue cose?»
Gli lascio il foglietto su cui avevo provveduto ad appuntare l’indirizzo prima che arrivassero a smantellarmi casa. Lì troveranno il portiere ad attenderli e dar loro una mano ad individuare l’appartamento in cui riporre il tutto. Registrata l’informazione, Tony fa un rapido calcolo mentale e poi mi annuncia che nel giro di tre ore saranno di ritorno per caricare quanto resta, oltre ai mobili che porterò con me.
Per le sette di sera, sono nel nuovo appartamento con tutta la mia vita e miei scatoloni da sistemare.
E così mi lascio alle spalle Paul e quanto sarebbe potuto essere.
 

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Capitolo 3
*** 3 ***


Ho trovato questo appartamento per puro caso. Mia sorel-la Mandy, più piccola di me di sei anni, aveva visto per lei questo annuncio online ma, essendole scaduto da poco il contratto di lavoro, non poteva più permettersi di accol-larsi le spese di fitto. A dirla tutta, la sua voglia di andar a vivere da sola era scemata – molto meglio dire che era precipitata, si era suicidata, era finita, morta, trapassata!! - nel momento in cui, dietro mie giudiziose considerazioni da sorella maggiore, aveva iniziato a prefigurarsi che il vo-ler organizzare feste di continuo non escludeva il dover fare la spesa per dieci, trenta, quaranta, cinquanta persone con la diretta conseguenza che, andati via tutti, bisognava poi ripulire casa dal macello lasciato da dieci, trenta, qua-ranta, cinquanta invitati. Nulla importa se si fossero scate-nati in una festa di fine anno o si fossero riuniti per la di-mostrazione pratica di quanto fosse efficace una nuova scopa elettrica lanciata sul mercato. Si crea sempre caos in casa, anche se fossero tutti rimasti inchiodati alla sedia per l’intera serata. Senza considerare il fatto che i dieci, trenta, quaranta, cinquanta di cui sopra, non avrebbero mosso un dito per darle una mano, quindi Mandy si sarebbe trovata sola senza l’aiuto di nessuno… tranne il mio. Giovane e spensierata la mia sorellina. Mandy aveva di-menticato che tutte le “piccole cene tra amici intimi”, co-me amava definirle, le aveva sempre organizzate a casa mia e di Paul e l’indomani ero rimasta sempre io, da sola, a dover rimettere tutto in ordine. E, a dirla tutta, su una spesa di duecento dollari, mia sorella partecipava con un contributo davvero molto, molto simbolico. Oddio. Ma da quando sono diventata così barbosa? Io e mia sorella adoravamo dare feste, lo ricordo benissimo. Poi è arrivato Paul ed è cambiato tutto. Ha iniziato a dirmi che dovevo esser più seria, più matura. Meno feste, meno Mandy. I due non si sopportavano molto, giusto per usare un eufemismo. E così per amore del viscidone avevo sca-ricato mia sorella, l’unica della famiglia a cui Paul non ave-va fatto un’ottima impressione con la sua faccia da bravo ragazzo, ordinato, preciso, incravattato. Che stupida sono stata. E’ vero, comunque. Andar a vivere da soli ricomprende una serie di impegni e responsabilità che lei non aveva messo in conto, senza considerare il fatto che, secondo i miei calcoli, con il suo vecchio rimborso da stagista a tempo più-che-determinatissimo, sarebbe riuscita a mala-pena a coprire le spese per le bollette, volendo esser oculati ed accendere la televisione una sola volta alla settimana. Non è affatto il tipo di persona in grado di badare a sé stessa, abituata com’è ad essere la più coccolata di casa. Tutto sommato, sarebbe potuta venir a vivere con me a-desso, piuttosto che tornare a vivere dai nostri genitori. Sciocchezze! Anche io sarei tornata a farmi viziare dai miei, se non avessero messo una cyclette e un tapis roulant al posto del mio letto. La mia stanza era diventata la pale-stra domestica di mia madre, l’occasione giusta per sfog-giare quegli aderentissimi e fluorescenti completini in nylon che andavano di moda quando avevo quasi dieci anni e Olivia Newton John si dimenava in tv sulle note di Physical. Mia madre! Mmmmh … però … Oddio. Non ci avevo pensato. C’è la variabile impazzita “Mamma-inviperita-per-il-mancato-matrimonio-della-figlia” da tenere in seria considerazione. C’è pure l’aggravante che è italiana, del Sud. Te le immagini le sce-neggiate?!?! Per quanti mesi mi avrebbe rinfacciato la sto-ria di non esser stata in grado di farmi portare all’altare?!?! Per quanto tempo mi avrebbe frantumato il sistema ner-voso prevedendo per me un inevitabile futuro da zitella vecchia e inacidita se non fossi tornata tra le braccia di Paul? E’ stato meglio prendere un nuovo appartamento, senza dubbio. Alla fine, Mandy aveva deciso di salvare nei “preferiti” il link del sito di annunci immobiliari, semmai ci fosse stata occasione di poterlo utilizzare ancora. Ed eccomi qui, al posto di mia sorella. Non è la prima volta che avrei voluto esser al suo posto. È più spigliata, più alta ed anche più bella di me. Ha un fisico invidiabile e mangia come un ragazzo che fa sollevamento pesi, senza metter su nemmeno un etto di ciccia. Insomma è la stronza magra della famiglia, invidiatissima da tutte tant’è che ha esclusivamente amici maschi e solo una coraggiosissima amica femmina dal fegato d’acciaio. La cosa che più mi piace di Mandy è la forma del suo viso; le piace sperimentare nuove acconciature, nuove nuance di tinta per capelli eppure tutte le volte il risultato è sempre incantevole: le sta bene qualsiasi taglio o colore, qualsiasi lunghezza, qualsiasi pettinatura, dai dredd alle cotonature anni ’60. E le ha davvero provate tutte! Adesso ha i capelli neri come la pece e porta la frangia alla Cleopatra o forse in stile anni ‘20, non saprei; insomma, un po’ corta e perfettamente dritta. Le sta da incanto e le incornicia ar-moniosamente quegli occhioni grandi e profondi, unica cosa che abbiamo in comune. Hey. Non che io sia un mostro. Anzi, non mi dispiaccio affatto. Come mia sorella, ho grandi occhi grigi con lunghe ciglia scure di cui mia madre si vanta fieramente in giro, probabilmente perché li abbiamo presi dal ramo della sua famiglia, e una pelle così liscia da poter far invidia a Cher dopo il sesto lifting. Ma sono sempre meno di Mandy: meno carina, meno alta, meno ricercata. Un affare che non mi pesa, tutto sommato. Perché, fino a poco tempo fa, ero io quella che si sarebbe sposata l’anno prossimo, quella che portava a casa il risultato mentre lei era troppo presa a cambiare ragazzi alla velocità della luce. «La regola del tre: al terzo appuntamento, cambi ragazzo prima che le cose diventino troppo intime.» Mi diceva sempre quando le facevo qualche raccomandazione, com-pletamente inutile, da sorella maggiore. «Ma così non farai in tempo ad innamorarti e resterai da sola. E dovrò esser costretta io a badare a te, che palle! Pensa un po’ alla tua sorellona, me lo devi ...». «Oh, ma sono stata innamorata..ed è uno schifo! Meglio non affezionarsi troppo, non credi? Eviti di starci male!» «Se l’amore ti fa così schifo, allora non dovresti uscire con nessuno di questi ragazzi che ti chiamano al cellulare...» la prendevo in giro. «E’ la regola del sì: mai e poi mai dire di no ad un appun-tamento. In fondo, lo scaricherai al terzo incontro, quindi perché rinunciare ad un aperitivo o ad una cena gratis?» «Che scroccona! Altre regole di cui dovrei essere a cono-scenza?» «La regola del settimo: ognuno di noi è destinato a rima-nere con la settima persona che gli avrà fatto perdere la testa.» «Ma prima di incontrare Paul, sono stata solo con un altro ragazzo ed è stato ai tempi del liceo» le rispondevo, per-plessa. «Non il settimo con cui starai.. ma il settimo che riuscirà a farti perdere la testa. Se fosse stato come tu dici, io avrei sforato il limite da un bel po’, mia cara sorellina!» Battute del genere avrebbero dovuto scandalizzarmi e probabilmente mi sarei dovuta rimproverare per non aver tenuto Mandy un po’ più sotto controllo quando era anco-ra una ragazzina. Ma adoro mia sorella e tutte le sue assurde regole. E no-nostante tutto, non ho mai avuto l’impressione che fosse una ragazza totalmente priva di giudizio. Certo, esuberante e un po’ leggera nell’affrontare la vita, ma non stupida. Tra l’altro, chi ero io per poter dare consigli quando ero stata scaricata da quello che tutti credevano essere l’uomo per-fetto? Era stata la stessa Mandy a fissare un appuntamento con il proprietario dell’appartamento in cui vivo e a contrattare per un prezzo più basso, riuscendoci. La sfiga sembra fi-nalmente aver lasciato la mia vita, assieme a Paul. A condizioni ancora migliori di quelle del precedente loft, ho ottenuto grazie a lei un appartamento quasi totalmente arredato ed anche abbastanza grande: tre camere da letto, un salone enorme con angolo cottura e due bagni, uno pe-rò da ristrutturare. Tutto sommato è un compromesso che posso accettare senza problemi. Mancano pochi mobili ed un ulteriore tocco di femminilità, per il resto è perfetto. Ci sono addirittura poster sulle pareti, uno stereo ed anche un televisore enorme, completo di dolby surround! I vecchi coinquilini devono aver lasciato l’appartamento veramente di corsa, per dimenticarsi qui tutta questa roba. Certo che è proprio grande … potrei sentirmi molto sola. Che ci faccio con tre camere da letto!?! Dovrei metter un annuncio e cercarmi delle coinquiline.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Svuoto pochi scatoloni e sistemo un po’ di vestiti nell’armadio della camera da letto che scelgo per me: non la più grande, ma quella con la vetrata più ampia perché, anche quando sono chiusa in casa o in ufficio, mi piace avere una larga visione di ciò che accade fuori, di cosa mi sto perdendo a starmene chiusa tra quattro mura.
Che strano.
Trovo cassetti semi pieni e qualche camicia appesa alle grucce. Saranno di chi abitava qui prima di me… di sicuro una ragazza da ciò che vedo. Magari sarà una che voleva dare un taglio drastico col passato, proprio come me, e ricominciare da zero.
Cambiando anche stile e rifacendosi un guardaroba nuovo… suggerirei.
Che gusti osceni. Fantasie floreali eccessive, nemmeno un capo di tonalità pastello ed un po’ troppi jeans a vita non bassa ma inguinale e leggermente a zampa di elefante, mol-to grunge. Da quanti anni non va più di moda la zampa?!
Di fianco al letto, c’è una meravigliosa cassettiera un po’ vintage, arte indiana credo, con disegni stilizzati arancioni
e verde smeraldo sulla base di appoggio, nascosti da qualche libro sullo yoga e sul… sesso tantrico. Interessante . . .
La terrò!!
Non si accorda minimamente al resto dei mobili che ho portato con me dal vecchio appartamento, ma che importa?!?!
Terrò anche i libri, già! Possono tornare utili…
E’ quello che mi auguro.
Beata ragazza.. sesso tantrico!! Non ero convinta esistesse sul serio. Credevo fosse uno stratagemma messo in circolazione da qualche disgraziato per convincere le ragazze ad andare a letto con lui e per illuderle, dando la falsa speranza che un rapporto sessuale poteva durare anche più di due, tre minuti.
Svuoto l’armadio e la cassettiera delle sue cose e le ripongo momentaneamente sul letto della camera attigua, rimandando all’indomani il da farsi. Le avrei date a qualche parrocchia nel quartiere, così da poter vestire qualche malcapitato che avesse il coraggio di farsi vedere in giro con quelle camicie pseudo hawaiane.
Anche questa camera non sembra … abbandonata. Ma dove sono capitata? Nel covo di una banda criminale? E’ tutto intatto come se ci avessero vissuto fino a ieri e fosse-ro stati costretti a scappare di corsa, lasciando tutto così come l’ho trovato. Corro all’ingresso e apro la porta dell’appartamento per leggere il numero metallico inchiodatoci sopra. E’ il 6B. Non ho sbagliato, è proprio questo il mio appartamento. Mah.
Ritorno nella camera dov’ero prima, ci sono un sacco di foto e post-it attaccati su un’enorme bacheca che la fa da padrona sulla parete opposta alla finestra. Non mi ci avvicino; non ho tanta voglia di curiosare stasera. E poi, in fondo, quelle foto rimarranno lì fin quando avrò voglia e tempo di gettarle via. Ci sono anche alcuni berretti da ba-seball poggiati sul pomo della testiera del letto, un paio di converse, ora grigiastre ma in origine dovevano essere bianche, parecchio consumate e sfilacciate, nascoste sotto il letto e una montagna di panni, probabilmente sporchi, accantonati in un angolo.
Mi squilla il cellulare e dal display vedo che è mia madre.
«Ciao mamma!» trillo eccitata, voglio che percepisca che sto bene e che non mi spaventa dover voltare pagina.
«Amore della mamma! Come stai? Hai mangiato qualcosa? Stai riposando di notte? Come ti senti? Tutto bene? Ed il trasloco? Sono venuti gli operai? Non dargli una mancia
troppo generosa, questa gente se ne approfitta sempre e lavora poco. Stai attenta, potrebbero anche rubarti qualcosa.»
Mia madre è italiana. Si è trasferita qui per amore. Uno studente di storia dell’arte, diventato poi docente, con il quale ebbe una storia da ragazza. Lei credeva di fargli una sorpresa, presentandosi all’Università. Invece fu lei a riceverla quando lo vide baciare un’altra al termine di una le-zione. Allora mia madre pensò di far ritorno in Italia per leccarsi le ferite e lasciarsi tutto alle spalle. Il fato volle che in uno dei bar dell’aeroporto incontrasse papà che, all’epoca e fino a pochi mesi dopo, si occupava del tra-sporto bagagli dei passeggeri, così decise di prolungare il suo soggiorno qualche altro giorno, senza immaginare che sarebbe durato una vita intera. Menomale che gli zii di mia madre abitavano poco distanti da qui, altrimenti avrebbe speso una cifra inimmaginabile per la camera in albergo dal momento che papà impiegò quasi tre mesi a chiederle un vero appuntamento.
Ammortizzo in fretta l’impatto della valanga inquisitoria di mia madre, questo terzo grado è di routine per lei e non riesco a volergliene: ogni volta che ci sentiamo mi chiede sempre le stesse cose, sia che passino solo tre ore
dall’ultima telefonata, sia che passi un mese. E se non riesce a sentirmi per troppo tempo – nella sua scala di valutazione si tratta di, al massimo, una settimana - allora organizza l’attacco frontale presentandosi alla mia porta sen-za preavviso. Ora che ci penso, non le ho ancora dato il mio nuovo indirizzo… ed è molto meglio così. Farò pas-sare un altro po’ di tempo prima di rivelarle la mia nuova base segreta. Amo la sua premura e il fatto che accompa-gni me e mia sorella, nella nostra vita, come quando ci accompagnava alle scuole materne. Però ogni tanto risulta fastidiosamente invadente, per di più spesso si lascia sopraffare dall’ansia e la cosa peggiore è che riesce a trasmetterla a tutti quelli che le sono intorno. Così, quando lei è un po’ nervosa o agitata, generalmente si crea una situa-zione di panico diffuso e quel poveretto di papà è costret-ta ad imbottirla di valeriana o camomilla mentre tutti quelli intorno fuggono prima di esser sommersi da uno tsunami ansiogeno. Rasentiamo il ridicolo quando mia madre con-agia me e mia sorella: per calmarci abbiamo imparato ad apprezzare l’utilità degli esercizi preparatori al parto così, quando abbiamo le nostre crisi, ci sincronizziamo guar-dandoci negli occhi e, all’unisono, inspiriamo ed espiriamo a ritmi concitati. Ricordo che una volta è capitato che mia
sorella si sdraiasse addirittura a terra e divaricasse le gambe, ed io, coinvolta dagli eventi, le urlassi:
«Dai, tesoro! Ce l’hai quasi fatta! Spingi, spingi!! SPIIIIIINGI!»
Sistemo, in quello che adesso è diventato il mio armadio, alcuni dei miei vestiti e, poi, crollo sul letto ma solo per pochi minuti. Sento di avere la schiena a pezzi e i piedi un po’ gonfi.
Meglio buttarsi sotto la doccia.
Dallo scatolone dei detersivi, prendo quello disinfettante con ammoniaca e do una rapida pulitina al box della doccia e al lavabo, sorridendo tra me e me perché seguo lo stesso rituale tutte le volte che metto piede in una camera di albergo per le vacanze. Non mi fido dei servizi di pulizia esterni. Preferisco far tutto da me.
Mi svesto e lascio cadere i miei vestiti intrisi di passato, poi dritta sotto il getto dell’acqua calda. Starei qui per ore ma potrò farlo l’indomani. Ho due settimane di ferie tutte per me. Non per Paul, non per Mandy né per mia madre, ma per me.
Questi ultimi giorni sono stati un inferno, più per il trasloco che per il peso… delle corna.
Devo ammettere che un po’ me l’aspettavo da Paul; da qualche tempo avevamo smesso di fare sesso come prima, di parlare come prima, di comportarci come prima. Non mi preparava nemmeno più il caffè come aveva fatto, per i due anni di convivenza, tutte le mattine. Quando vivevo ancora dai miei, addirittura lui passava spesso a portarmi cappuccino e briosche, e poi mi accompagnava in ufficio. Era stato un fidanzato perfetto, per un po’ di tempo.
D’altra parte, anche io avevo avuto qualche mancanza: ad esempio, facevo passare qualche giorno di troppo prima di stirargli le camicie di cui aveva bisogno per le riunioni op-pure faticavo a chiamarlo “amore”, mi saliva un moto di insofferenza dentro. E odiavo anche chiamarlo per nome, così mi limitavo ad attirare la sua attenzione con qualche mugugno, in modo da fargli girare la testa nella mia direzione, sempre che ne avesse voglia. Ed anche i miei mugugni erano, via via, diminuiti. Poche parole, qualche cen-no e falsi sorrisi di approvazione avanti agli amici.
La verità era una: non amo più Paul. Non lo amo da un bel po’. E neanche lui mi ama. Potrei quasi dire che è stato un bene il fatto che mi abbia tradito: non mi sono abban-donata ad una vita, forse comoda, ma infelice in cui entrambi avremmo continuato a ferirci silenziosamente.
Tre anni della mia vita scorrevano via nello scarico della doccia, insieme all’acqua e bagnoschiuma che mi scivolavano addosso.
E’ andata così.
Fa male.
Passerà.
Ma sono incazzata da morire. E mi sento ferita nell’orgoglio, nella mia dignità di donna.
Odio a morte Maria!
Povera Maria, magari è una brava ragazza. Magari ero io ad essere un ostacolo alla felicità sua e di Paul. Magari faranno una figlia e la chiameranno come me perché sono stata così buona da lasciarli liberi di vivere il loro amore. E magari mi chiederanno di essere la madrina al suo battesimo. Sì… ma che stronzi.
Che stronzo, Paul. Lurido porco.
Il tradimento?!?!
Parlarne, no?
Che vigliacco.
C’era bisogno di umiliarmi così?
Il mio divano!
Tutti questi pensieri mi surriscaldano e avverto l’acqua addosso ancora più calda di quanto non l’avessi regolata prima, così schizzo fuori dalla cabina.
Anche nell’armadietto in bagno, ci sono alcune cose della precedente coinquilina. Forse anche del suo ragazzo. Asciugamani, qualche lametta, un rasoio elettrico, un paio di spazzolini e tante creme per il corpo: depilanti, rassodanti per il ventre piatto, anti stress ed energizzanti.
Ma quante ora doveva passarci in bagno?!
Meglio mettermi a letto. Detto fatto: in pochi minuti, crol-lo in un sonno pesantissimo.
«Aaaaah… ma cos’è questo disordine? Oh mio Dio… pazzesco! Ma cos’è passato di qui? Schwarzenegger che balla in tutù rosa La morte del cigno? »
Ma chi è che parla? Anzi, chi è che urla?
Forse sto sognando.
No, no! Sono sveglia! Sono sicura di essere sveglia.
Guardo l’orologio con le lancette fluorescenti e vedo che sono le due inoltrate.
Il portiere dello stabile mi aveva avvisato che, intorno alle ventidue, l’addetto alla vigilanza ispezionava ogni piano del palazzo per controllare che non ci fossero problemi.
Ma, vista l’ora, non può essere lui. Né tantomeno credo abbia le chiavi per entrare negli appartamenti dei condomini.
Afferro una copia dei I Miserabili che avevo tirato fuori dagli scatoloni nel pomeriggio, convinta che milletrecento-sessantadue pagine di letteratura francese mi sarebbero servite per proteggermi dall’intruso, e sbircio al di fuori della stanza. Non ho sentito alcuna chiave girare nella toppa, eppure la voce sono sicura che non fosse un’allucinazione.
L’appartamento è completamente al buio, tranne una luce accesa nel bagno.
Mi avvicino con passo molto felpato, mantenendomi con le spalle al muro. In una mano ho il librone, nell’altra il cellulare ed ho già digitato il numero della polizia. Mi basta solo premere un tasto per avviare la chiamata.
L’acqua scroscia ed esce una nuvola densa di vapore al profumo fruttato dalla porta semichiusa.
Riesco ad intravedere una sagoma molto alta e magra infilarsi nella doccia, ma la tendina di plastica non mi permette di indagare a modo.
Chi diamine sarà!?

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Capitolo 5
*** 5 ***


«Aaaaaahhhhhhh!! Aiuto!!!!» urla lui. E’ un lui. Ed è completamente bagnato fradicio. E nudo, soprattutto.
«Chi sei? Cosa ci fai nella doccia di casa mia?» lo interrogo, mimando goffamente qualche mossa di karate vista in tv.
«Chi sei tu.. nel bagno di casa mia?» mi chiede, con gli occhi chiusi per la schiuma dello shampoo. Afferra, poi, un asciugamani e si copre… beh, lì.
«Non dire assurdità! Questo è il mio appartamento. Mi ci sono trasferita proprio oggi! Non hai visto tutti gli scatoloni in giro?»
«Vuoi dire quelli pieni di robaccia nel salone? Credevo fosse roba di Jake!»
«Non è robaccia! Sono le mie cose! E chi diavolo è Jake? »
«Il mio coinquilino!»
«Ce n’è un altro?» Oddio. Sono finita nel dormitorio di un college?!
«Ma tu chi sei?!?»
«Sono Gwen!»
«Oh cielo!»
« “Oh cielo” lo dico io!»
Siamo stati un’oretta circa a chiederci chi fossimo, da dove venissimo e perché avessi addosso una tristissima tuta completamente scolorita, permettendomi di scoprire, tra le tante cose, che in realtà l’appartamento non era sfitto come Mandy aveva cercato di farmi credere.
Ecco cosa succede ad affidarsi nelle mani di mia sorella. Dovevo capire che c’era qualcosa di strano nel pagare un prezzo così basso per un appartamento del genere: c’erano degli optional di troppo inclusi nel pacchetto.
Dopo avergli spiegato che era stata mia sorella a concludere l’affare e combinare il pasticcio, Daniel “il non più intruso”, contro ogni mia aspettativa, mi offre ospitalità nel “suo” appartamento fin quando non avrei trovato un nuovo alloggio, nel caso non volessi rimanere lì come terza coinquilina. Infatti, lui e Jake erano in cerca di una terzo ragazzo con cui dividere l’affitto e, in mancanza di tempo e voglia, avevano affidato il compito di portar avanti la ri-cerca al loro fidatissimo padrone di casa, il signor Clancy; non avevano considerato l’ipotesi che potesse presentarsi alla porta una donna, ma ciò non necessariamente poteva rappresentare un pro-blema: Daniel non era decisamente quello che si può definire un maschio dominante. I pantaloni inguinali e le camicie fucsia a fiori trovati nell’armadio mi avrebbero dovuto far capire. Una ragazza non li avrebbe mai indossati, a meno che non lavorasse in un locale di dubbia frequentazione.
E tutte quelle cremine in bagno!? Sono certa che siano sue.
E Jake?!? Beh, Jake sarà certamente il suo… ragazzo.
L’idea di condividere non solo l’abitazione ma anche attimi della mia vita quotidiana, con una coppia gay francamente mi…. rassicura. Molto.
Già!
Niente possibilità di flirt, nessuna complicazione in vista, nessun litigio o gelosia, niente di niente se non tanta... compagnia.
Meno di ventiquattro ore prima ero spaventata dal vortice della so-litudine in cui sarei stata inghiottita andando a vivere da sola. Ed ora, invece, ho non uno ma ben due coinquilini.
«Sì!! Mi piacerebbe molto provarci.» Mi trovo ad accettare di buon grado l’offerta di Daniel che, per festeggiare, vista l’ora tarda, mi offre un cappuccino solubile, un po’ troppo acquoso per i miei gu-sti, abituata al caffè italiano di mia madre.
Col tempo avrei potuto insegnargli un po’ di cose…
Rimaniamo quasi tutto il resto della notte a parlare, creando una confidenza ed intimità tale che nessuno avrebbe mai potuto imma-ginare che ci fossimo conosciuti solo qualche ora prima.
Mi riporta in camera sua, nella quale avevo iniziato a sistemare le mie cose, e scoppia a ridere quando gli racconto che avevo adoc-chiato la sua stanza per me, visto che aveva un finestrone enorme. Poi c’era quella meravigliosa cassettiera indiana!
«Né ora, né mai… carina! EMME-A-I. Leggi il labiale.» mi dice, puntando le sue labbra chiuse a bacio di pin up, e capisco che do-vrò alloggiare nella terza stanza, l’unica vuota, presumendo che quella piena di panni sporchi fosse di Jake.
Perché non dormono insieme, poi?
Mah.
Ci mettiamo sul divanetto biposto proprio sotto la finestra, con una coperta a fiori dalle varie sfumature di rosa sulle gambe, anche se fuori ci sono almeno venti gradi. E d’improvviso mi sembra di es-
sere catapultata in una nostalgica commedia rosa degli anni ottanta in cui la protagonista, quell’attrice dal caschetto rosso spettinatissi-mo, confessa le sue pene d’amore ed i suoi tormenti da quindicenne alla sua migliore amica.
«Crea più atmosfera da inciucio!» dice Daniel, andando a spegnere le luci per lasciar accesa una candela profuma- ambienti al gusto di vaniglia.
Non riesco a trattenere le risate quando mi confessa che Karate Kid gli ha generato un trauma infantile, a causa del cognome che si ri-trova.
«Io mi chiamo Daniel Sun. Capisci? Daniel Sun! Sun con la U. Ma si pronuncia allo stesso modo di Daniel San, come Miyagi chiamava il suo giovane allievo. “NONONONONO DANIEL SAN” è stato il tormentone della mia adolescenza! Un vero incubo. Per non par-lare, poi, di quando mia madre stessa mi chiedeva di darle una ma-no nelle faccende di casa: mi diceva di “dare la cera, togliere la cera, dare la cera, togliere la cera”. Si può essere più sfigati di così!? Deri-si dai tuoi stessi genitori!!! Ti rendi conto di quanto mi abbiano pre-so in giro dal millenovecentoottantaquattro in poi?! Tutto per colpa di quel filmetto di serie B. »
Parlando, scopro che non conosce mia sorella Mandy, quindi que-sto casino non è stato organizzato di proposito. D’altra parte, però, è altamente improbabile che il proprietario abbia tralasciato un par-ticolare del genere durante la conclusione dell’accordo…
Argh. Mandy mi dovrà dare un paio di spiegazioni. Molto bene. Ma solo dopo che le avrò urlato contro per almeno venticinque minuti no-stop!
Daniel sembra essere dotato di un sistema respiratorio tutto suo, che viola le leggi della natura e della fisica. Riesce a pronunciare al-meno trenta parole in cinque, al massimo sei, secondi, senza aver mai bisogno di prendere fiato. Qualcosa che va ben oltre il record mondiale di apnea subacquea.
Mi racconta che spesso viaggia per lavoro e proprio quella sera sta-va tornando da una settimana passata tra Roma e Milano. E’ un fo-tografo di moda o perlomeno questa è la sua aspirazione; per ora si limita a fare da assistente e la sua lunghissima gavetta dura da alme-no sette anni. Aspetta il momento giusto per la svolta ma ammette di non aver nulla di cui lamentarsi perché nel frattempo ha la pos-sibilità di girare il mondo a spese del suo capo.
Parigi, New York, Berlino, Tokyo, Hong Kong, Milano, Roma.
Milano… Roma …
Italia.
Odio l’Italia! Mi ricorda Maria!!
Odio Maria! Mi ricorda Paul!
Pauuuuuul!
Paul! IO TI ODIO!
L’altro inquilino, Jake, invece, è a casa dai suoi, a tre ore di volo, per il matrimonio della sorella Lea, a cui doveva fare da testimone. Ne aveva approfittato per fare una breve vacanza, così sarebbe tor-
nato non prima della settimana prossima, carico di squisiti biscotti all’amarena o al cioccolato che sua nonna Joanne preparava sempre in quantità industriali, raccomandando a suo nipote di portarne qualcuno anche a Daniel.
Vengo avvertita anche dell’alta probabilità che Jake non prenderà bene il fatto che io sia una ragazza.
«Non prende bene la vita in generale.» aggiunge Daniel.
Quindi non avrei dovuto preoccuparmi, poi, chissà quanto dei suoi mille bronci. Avrà sempre qualche motivo per lamentarsi; uno in più non dovrebbe rappresentare un problema invalicabile. Non che io possa definirmi “problema” nel mero senso della parola. In-somma!!
Beh, per quanto mi riguarda, i bronci di Jake se la potranno vedere con la mia sindrome premestruale da guinness dei primati: dura tre settimane. La quarta settimana del mese non c’è una tregua, c’è il ciclo! E poi ricomincio da capo.
Sono sicura di uscirne vincitrice ad occhi chiusi.
Mi scuso, con il mio nuovo amico, di avergli spostato i suoi vestiti e lui mi rassicura di avergli fatto un favore; parecchi erano del suo ex che non era più passato a prenderli. Pertanto, gli avevo solo facilita-to il compito di doverli gettar via, quando ne avesse avuto l’occasione.
«Cocca, ti pare che avrei potuto indossare pantaloni così osceni?»
Beh, perlomeno su questo siamo d’accordo!
Con Daniel mi viene facile raccontare anche un po’ di me, di Paul, dei progetti di matrimonio e del nostro futuro che si è sgretolato come il frollino appena inzuppato nel cappuccino bollente.
«Fammi un po’ capire.. noi, dicasi “la gente trendy”» enfatizza, vir-golettando l’aria, «avrebbe dovuto chiamarvi “Pendaline”? Assur-do.» mi chiede, con espressione allibita.
«I Penda… che?» non capisco dove voglia arrivare.
«Pendaline!! Pendaline! Hai presente Brad ed Angelina? Beh, noi gente trendy.. oh beh, ormai tutto il mondo fa lo stesso, li chia-miamo Brangelina! Si prendono i due nomi della coppia e si fon-dono: così si capisce se una coppia può durare o meno, non credi?
Pendaline…mmmh, ma cos’è?! Suona malissimo. Sembra un mo-dello un po’ vintage di un orologio della Swatch.
T- e – r --r – i – b – i – l – e. »
Conosco Daniel da poco più di tre ore e già lo adoro!
I Pendaline!??! Ma dai… hahaha! Ha ragione. Suona davvero male! Non avremmo avuto gran successo sulle copertine dei rotocalchi e nei forum su internet.
Il ritmo delle nostre parole rallenta via via che la notte trascorre; il tono delle nostre voci si fa sempre più sussurrato e non mi accorgo quando sprofondo nel sonno, su quel divanetto.
Avverto solo una mano amica tirar un po’ più su la coperta, poi una testa appoggiarsi alla mia molto delicatamente.
Sono a casa.

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Capitolo 6
*** 6 ***


Sono passate quasi due settimane da quando mi sono trasferita qui.
Jake ha rimandato il suo rientro e ancora non ho avuto modo di conoscerlo.
Per ora, io e Daniel ci incastriamo perfettamente, come due tessere di un puzzle. Abbiamo ritmi e orari sincronizzati al top nel senso che non ci incontriamo quasi mai, quindi è la convivenza non potrebbe essere più facile di così. Io esco, lui rientra. Io mangio, lui dorme. Io dormo, lui dorme. Io guardo la tv, lui dorme. Dice che la primavera gli fa venire sonno ma… non saranno le uscite di ogni sera? E Jake non ha nulla da dirgli in merito!? Fossi stata la sua ra-gazza, anzi ragazzo, in mia assenza gli avrei concesso una libertà molto, molto vigilata.
Ripensandoci… mmh, Jake ha chiamato solo una volta questa set-timana…
Forse avranno litigato…
Forse proprio per questo ha posticipato il volo del ritorno…
E Daniel non gli ha nemmeno accennato di me. Molto ma molto male. “Credi sia il caso di farmi perforare l’udito mentre siamo al telefono?” mi ha detto, squadrandomi come fossi pazza quando gli ho chiesto perché non l’avesse fatto.
Sentire cose del genere su una persona che non conosco e non ho mai incontrato in vita mia, non me lo rende simpatico. A dirla tutta, mi sta venendo un po’ di ansia da… presentazione.
Immagino già la scena: lui entra in casa, mi guarda un po’ schifato perché magari ho addosso dei pantaloni troppo comodi e larghi e i miei capelli non sono propriamente in ordine, afferra Daniel per la mano e, a piccoli passetti frenetici, corre in camera sua ed inizia ad urlargli contro, intervallando con dei piccoli gridolini striduli, pro-prio come quelli di Daniel quando si taglia facendosi la barba e mi sembra di sentire una mandria di scolarette delle scuole medie. Cre-do che non riuscirò nemmeno a sentirla la conversazione, presi come saranno ad emettere degli ultrasuoni che l’orecchio umano non riesce a percepire.
Beh… ci penserò quando sarà il momento.
Visto che siamo stati soli queste settimane, io e Daniel ci siamo di-visi le cose da fare: oggi a lui tocca far la spesa, a me il bucato. Così preparo due ceste di panni sporchi da portare giù in lavanderia, al piano terra dell’edificio.
Sarei stata una perfetta mogliettina per Paul. Ho separato i bianchi dai colorati, dai neri e dai rossi, pur avendo inserito nel cestello an-che l’acchiappacolori. Così… giusto per essere più sicuri. Raccolgo perfino la montagna di roba sporca in camera di Jake e faccio la stessa selezione.
In ultimo, controllo che nelle tasche non ci sia niente. Soltanto nel-la mia felpa ritrovo un biglietto da visita, che avevo dimenticato, e lo poggio accanto al televisore.
L’avvocato “rimorchione”!
Impiego un’ora e venti in lavanderia. Quando torno su è già ora di cena e Daniel è in boxer con addosso solo il grembiule da cucina. E’ molto più alto di me, fisico molto armonioso ma troppo magro-lino per i miei gusti. Non mi fa alcun effetto vederlo in mutande in cucina, cosa che normalmente mi avrebbe costretto a raccoglier di-versi litri di bava in due grossi secchi. Muoio per i ragazzi ai fornel-li, sono sexy in maniera frustrante.
E’ biondino, ha il pizzetto, pelle quasi efebica con poche lentiggini sparse tra naso e zigomi e profondi occhi azzurri. Ma terribili sopracciglia chiaramente ritoccate, che ricalca con una matita di un colore, secondo me, troppo in contrasto con quello dei suoi capelli. Impiega ore in bagno avanti allo specchio con la pinzetta, di cui è talmente geloso che non vuole gliela tocchi, per modellarsi le so-pracciglia ad ala di gabbiano in stile Beyonce post Destiny’s Child, e per “spettinarsi” i capelli al punto giusto, ricercando l’effetto “mi-sono-appena-svegliato-dopo-una-notte-di-devasto-in-discoteca.
Adora cucinare e sperimentare piatti etnici, così capita spesso che passi ore su internet alla ricerca di nuove ricette da “danielizzare”, cioè riproporre nella sua versione. Stasera ha deciso di preparare una versione rivisitata della moussaka greca, che ho assaggiato solo una volta in vita mia, durante una vacanza con Paul.
Quando ci sediamo a tavola, mi guarda con una luccichio particola-re negli occhi, come se stesse per tendermi un tranello. Ahi, ahi.. sento puzza di bruciato.
«Dunque.. » esordisce, allontanando da sé il piatto per poter appog-giare i gomiti sulla tavola ed intrecciare le mani in una posizione di preghiera, con sguardo fisso su di me e sorriso sardonico.
Non mi piace l’inflessione del suo tono, così tento di ignorare Da-niel, evitando di alzare lo sguardo dal piatto. Ottima questa moussa-ka, da leccarsi i baffi. Cucina da Dio… devo ammettere.
«Grant Cooper. Studio Legale Cooper & Associati. Ti dice niente?»
Tutto qui? Ha solo trovato il bigliettino da visita!
«… è un avvocato.» rispondo tranquilla, facendo spallucce.
«… è un avvocato.»
«Sì, è un avvocato!»
«Ho capito! E’ un avvocato! E…. »
«E … cosa?» inizio ad essere un tantino infastidita da questo gio-chino.
«E…»
«Ma insomma, Daniel! Che c’è?» sbotto, irritata.
«Nessuno scrive queste cose così poco oscene a una donna se non ha intenzione di rivederla per.. diciamo… approfondire la cono-scenza.» mi risponde lui con uno sguardo molto malizioso.
«Che intendi? Il numero del suo studio?»
Daniel scuote la testa quasi a dire che sono un caso perso, poi mi si avvicina con la sedia e mi spiattella il bigliettino a due centimetri dagli occhi, fino a farmeli strabuzzare.
«Leggi!» mi incita.
«Grant Cooper. Studio Legale Cooper & Associati.»
«Non qui!» mi strappa il bigliettino dalle mani e lo gira sul retro. «Ma qui!»
Eh? Ma che... ?!
«Hey I just met you and this is crazy! But it’s my number so call me maybe!» inizio a leggere le prime parole, poi a cantare la melodia ricono-scendo immediatamente che si tratta di un tormentone della scorsa estate che si sentiva in tutte le radio almeno quindici volte al giorno. Il significato della canzone è che lei incontra lui. Colpo di fulmine! E gli lascia un bigliettino con sopra scritto “Chiamami” e il suo numero di telefono.
Beh, sì. E’ più o meno com’è andata con me e l’avvocato, anche se dire che si tratti di colpo di fulmine è quantomeno eccessivo.
«Ma non è la canzone di quel video con tutti quei fighi pazzeschi dell’Abercrombie & Fitch?» chiede Daniel, con gli occhi che gli bril-lano al solo pensiero di tutte quelle tartarughe scolpite che si dime-nano e si strusciano nel video.
«Può darsi... ma cosa significa?!?!?»
«Che è stato molto gentile e divertente. E vuole incontrarti. Guar-da... qui c’è scritta anche la data dell’appuntamento. Ed è domani!! Oh Mio Dio. Bella mia… bisogna darsi da fare con il restauro! E ricordati di fare la cacca prima di uscire andare da lui, così ti si scio-glie la tensione addominale e stai più rilassata …»
«Ma cosa stai dicendo?!?!»
«Guarda che è vero. Vedi come sono sciolto e disinvolto io? Due bicchieri di acqua tiepida ogni mattina appena sveglio e poi cola-zione con latte e fibre integrali ogni fottuto giorno. Le odio quelle
dannatissime fibre lì, mi fanno vomitare! Ma le prendo ugualmen-te... così sto rilassato e posso sfoderare il mio charme.»
«Risparmiami questi discorsi sul legame tra regolarità intestinale e sex appeal, dai. E comunque non ho nessuna intenzione di chia-marlo né tantomeno di andarci!»
«Invece lo farai! Ho deciso. The Queen ha ordinato. Tu taci.» Da-niel è così… gay quando veste i panni regali e impugna lo scettro. E quando dico “impugna lo scettro” purtroppo non intendo in senso metaforico, ne ha proprio una fedele riproduzione di quello di Elisabetta d’Inghilterra. Anche se di metallo vile e vetro di bottiglia, misto a qualche zirconcino di poco valore, gli è comunque costato quanto sarebbe potuto esser valutato un rene nel mercato clande-stino di organi. Ma ne va così fiero. Al suo compleanno gli regalerò un mantello di velluto rosso, quello gli manca e completerebbe l’opera. Daniel in versione The Queen è diventato lo sfondo del mio cellulare, riesce a strapparmi sempre un sorriso quando la sfiga torna a bussare alla mia porta.
«Ridicolo. Sembra roba da prima media. Lui mi manda un biglietti-no per chiedermi di incontrarci fuori scuola…»
«E basta con questa solitudine! Buttati nel mare delle possibilità! Qualche pesciolino magari abbocca...» mi fa un occhiolino e boc-cheggia come un pesce, facendo schioccare le labbra.
Daniel sei.. sei.. sei davvero uno stupido e sei anche un idiota! Ecco cosa sei. Come osi?! Meno di un mese fa ho scoperto Paul con un’altra, non ho ancora metabolizzato la botta! Ma come ti viene in
mente?! Non ce la faccio a rimettermi in gioco. Non posso. Non voglio. Non devo.
«Hai ragione. Lo chiamo.»
Perché faccio sempre il contrario di quello che penso?!? Molto be-ne.
Corro a chiudermi in camera per evitare che Daniel possa mettermi in imbarazzo mentre sono al telefono. Sono sicura che avrebbe det-to di proposito qualcosa di sconveniente in modo da farsi sentire da Grant. Grant Cooper. Grant Cooper l’avvocato dello studio Coo-per e associati.
Quando esco dalla mia stanza, pochi secondi dopo, faccio il segno della vittoria a Daniel che salta dalla sedia e alza il bicchiere di vino in un solitario cin cin.
Sono talmente rossa in viso che sembra abbia fatto sei serie di ad-dominali e piegamenti. Ho anche il respiro un po’ corto perché ho parlato tutto d’un fiato, senza fermarmi mai.
Chissà cosa penserà Grant di questa telefonata?
Che sono una nevrotica logorroica sfacciata?
Ma sì.
Mi hanno definito in modi peggiori.

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Capitolo 7
*** 7 ***


DLIN.
L’ascensore è arrivato al dodicesimo piano del terzo grattacielo, padiglione D, del complesso Multimar.
Lo studio dell’avvocato occupa l’intero piano ed è tutto un brulicare di completi grigi o neri che saettano da una sala all’altra, con gli occhi fissi su plichi corposi.
Ad accogliermi c’è una ragazza di bella presenza, anche lei in tailleur nero e coda di cavallo tiratissima.
- Buongiorno. Ha un appuntamento? – mi chiede, con un sorriso pre-  
impostato.
- Sì. Beh … più o meno. Informi l’avvocato Grant Cooper che la signorina Gwendaline Winter, che poi ovviamente sarei io, ahahhah … - cerco di coinvolgerla con la mia risata, ma la ragazza non fa alcun cenno al mio tentato approccio simpatico. Noiosa! – … è … sì, beh è arrivata per l’appuntamento. –
Che strano.
Darmi un appuntamento in studio, anziché portarmi fuori a cena.
Sarebbe bastato anche un aperitivo, eh!
Un cocktail.
Un’oliva?
Insomma, un invito in studio è così … distaccato!
Magari vuole farmi vedere dove lavora o vuole pavoneggiarsi del successo che ha. Ad occhio e croce, questo studio costerà almeno cinquemila dollari al mese di solo fitto.
Wow. Sento il mio vestitino a pois da trentacinque dollari scarsi vergognarsi da solo per esser uscito fuori dall’armadio, scelto come abito per l’occasione. Quando sono uscita di casa ero convinta fosse rosso pastello, adesso sembra esser diventato vermiglio. Molto bene, ho le allucinazioni.
La segretaria consulta l’archivio e dal faldone della lettera M estrae una cartellina dove, riesco a leggere, ci sono scritti il mio nome e cognome. Poi, mi offre un modulo azzurrino da compilare con i miei dati anagrafici. Chiaramente non ha idea del perché sia qui.
- Credo di non aver bisogno di compilare questo. – le comunico secca.
- E’ obbligatorio. – risponde lei, altrettanto perentoria. Ma continua a mantenere quel sorrido falsissimo con cui mi ha accolto poco prima.
- Bene. – continuo la sottintesa guerra fredda.
- Perfetto. – Dannazione. E’ lei a sganciare la bomba. -  Nessuno accede agli studi senza essere stato schedato. Non fraintenda il termine. Ci servono solo delle notizie per aggiornare i nostri archivi nel caso di comunicazioni da parte dello studio. –
Beh, sta facendo solo il suo lavoro, in fondo. Capisco che è inutile controbattere e dirle che sono lì per un rendez vous “molto privato” con Grant, dunque acconsento alla sua richiesta e mi accomodo nella reception sulla poltroncina, più lontana possibile dalla sua postazione, per riempire i campi vuoti del modello.
Dopo aver consegnato tutto, la segretaria mi annuncia che sono libera di andare alla stanza 10A ed aspettare lì Grant. E così faccio.
Odio sentire il rumore dei miei tacchi quando cammino, soprattutto in un posto come questo, così provo a camminare sulle punte non conscia del fatto che finisco con l’attirare ancor di più l’attenzione.
Provo, allora, a strusciare le suole sul pavimento, come se indossassi le pattine. Ma il risultato è peggio di prima.
Alla fine decido di camminare normalmente, ma a piccoli passi molto rapidi in modo da arrivare nel minor tempo possibile alla meta. Addio al mio ingresso trionfale così come me l’ero immaginata mentre salivo in ascensore.
Dopo venti minuti circa di attesa, Grant fa capolino sulla porta con un sorriso raggiante.
- Signorina Winter, che piacere! –
- Gwen, La prego. –
- Grant, TI prego. Se non ti dispiace.. –
- Assolutamente no! Meglio romper subito il ghiaccio, in fondo mi hai già visto l’intimo!! – civetto un po’.
Grant apprezza il mio humour e sorride apertamente, sfoggiando i denti più bianchi che abbia mai visto in vita mia. Seicento dollari di dentista, o giù di lì. Mi sembra quasi di stare sotto le luci di un lettino solare abbronzante!
- Seguimi pure nel mio ufficio. -  mi precede, dirigendosi verso l’ultima stanza del corridoio.
L’ufficio è proprio come mi aspettavo: molto spazioso con arredamento minimal chic, una parete in pietra chiara con un meccanismo che simula una cascata, su cui ricade subito l’occhio, e mobilia bianca e nera. Alle spalle della scrivania c’è una parete totalmente di vetro, a dispetto del bisogno di privacy che il lavoro richiederebbe. Potrebbero appostarsi decine di investigatori privati nell’edificio di fronte e leggere senza problemi il labiale dei clienti dello studio per poter, poi, vendere le informazioni alla controparte e ricavarne un bel malloppo.
Ho visto troppi film di spionaggio, vero?
Senza che lui mi chieda di accomodarmi, prendo posto su una delle poltrone di pelle bianca destinate ai clienti e l’occhio mi ricade su una porta nera su cui c’è appeso un cartello plastificato con su scritto, a grossi caratteri cubitali rossi “NON ENTRARE. PRIVATO”.
Grant deve aver seguito il mio sguardo indagatore perché mi risponde che si tratta di una stanza in cui si ritira a dormire quelle sere in cui fa troppo tardi al lavoro e non ha voglia di mettersi a guidare per tornare a casa.
Quindi, c’è un letto qui. Molto bene.
Immediatamente maledico me stessa per aver indossato una tristissima  panciera nera pancia-piatta-fai-da-te, anziché degli slip favolosi nuovi di zecca. Non che ci sarei stata alle sue avances oggi, però … mi sarei sentita molto più sexy con quelli addosso!
- Mi ha fatto piacere la tua telefonata, Gwen. -
- Beh … mi hai lasciato il bigliettino apposta, no? –
- Giusto. Ma non tutti mi richiamano … -
- Beh, forse perché non sanno che dirti. –
- E tu cosa hai da dirmi? –
Oddio. Sto proprio flirtando con Grant? Sono sicura di volerlo fare? Non è un po’ troppo presto? E comunque non ci starò subito. E’ meglio che si faccia l’idea che la sua camera da letto stasera resterà chiusa.
- … che hai davvero un bell’ufficio! –
- Grazie, Gwen. Ereditato da papà, in realtà. Ma ad essere onesti, ti dirò che il mio apporto è comunque servito ad aumentarne il prestigio e a portar nuovi clienti, se mi è concesso dirlo … -
- Prego, prego. Non sarò io a fermarti! – sorrido, civettando.
Molto sicuro di sé. Ci piace! Non dev’essere uno di quei tipi indecisi che sta sempre a chiederti cosa ne pensi e che invoca il tuo nome almeno trenta volte in cinque minuti. “Gwen, cosa pensi di questo? E questo?” .. “Hey, Gwen?!? Nel frigo c’è …” , “Gwwwennn, guarda un po’ qui…” .. “Oh Gwen!! Proprio non credevo che…”. Gwen. Gwen. Gwen. Sempre e comunque. Adoro il mio nome, ma non deve esser pronunciato così spesso.
- Veniamo a noi. – dice.
- Sì, appunto. Veniamo … -
Grant mi guarda perplesso ma continua a smanettare con delle carte che ha sulla scrivania. Mentre il resto della stanza è abbastanza scarna, la sua scrivania è invece piena, anzi sommersa di documenti. Deve avere davvero molte cause in atto e io, di certo, non vorrei averlo come avvocato della controparte.
I suoi lineamenti del volto mi danno l’impressione che sia un tipo piuttosto scaltro e privo di scrupoli, uno che scende facilmente a compromessi e che sa come ottenere le cose. E, detto tra noi, uno così meglio annoverarlo tra gli amici anziché tra i nemici.
Ogni volta che faccio un nuovo incontro, mi soffermo molto ad osservarne la fisionomia e a cercar di dedurne le sfumature caratteriali. Ho anche letto un paio di libri sull’argomento, la morfopsicologia e la fisiognomica, da cui ho appreso che le labbra molto sottili e ben disegnate, come quelle di  Grant, hanno un preciso significato … che in questo momento non riesco proprio a ricordare!!
Ah, la mia memoria RAM, così volatile!
Sorrido da sola per quanto ho appena pensato, dando modo a Grant di chiedersi se sono una deficiente totale o meno. Dovrò comunque ricordare di dar un’occhiata ai libri, quando farò ritorno a casa.
A conferma dell’idea che mi son fatta di Grant, c’è il fatto che sui documenti i clienti son indicati con le scritte “pratica n° tot.” , anziché col cognome, come in genere si fa o perlomeno come in genere fanno vedere nei film. Se proprio non gli piace archiviare per cognome, avrebbe potuto provare con dei soprannomi. Sarebbe stato anche più divertente lavorare, no?
“Prendimi il rapporto Ciccio Panza!” e la sua segretaria fila immediatamente a cercare la pratica di quel cliente un po’ grassoccio e sbrodolone. O la pratica “Ex and the City” per quella signora che vuole ricavare, dal divorzio multimilionario con il marito, capo grosso della finanza, fior di quattrini e set di valigie firmate Louis Vuitton.
Invece, Grant suppongo sia abituato a trattare i suoi clienti con gelido distacco, come dei numeri che gli consentono solo di far schizzare il fatturato dello studio alle stelle, con somma gioia della schiera dei suoi consulenti finanziari.
Accavallo le gambe e il mio  vestito si accorcia più del dovuto, scoprendomi la gamba e dandogli modo di apprezzare. Finalmente Grant alza lo sguardo dalle carte. Era ora! Ci scambiamo sguardi un po’ imbarazzati.
- Hai avuto modo di rintracciare le ladruncole? – mi chiede, serio. Il suo sguardo si incupisce per un attimo, poi brilla di uno strano luccichio.
- Chi? –
- Quelle due teppiste che ti avevano rubato l’intimo per strada mentre facevi il trasloco. -  specifica, come se avesse detto la cosa più ovvia del mondo.
- Ah! No, no! Cioè … voglio dire … non mi sembra il caso che … - 
- Benissimo! -
Grant non mi lascia il tempo di finire la frase che immediatamente scatta in piedi e comincia a camminare su e giù per la stanza, seguendo un percorso ben preciso.
Finestra .. scrivania … libreria.  Finestra … scrivania .. libreria.
Due, tre, quattro volte.
- Ascoltami bene, Gwen. Avevo pensato di farti una proposta. –
Dio, ti prego, fa che sia una proposta indecente ma di classe!  Dio, ti prego…  ti prometto che sarà l’unica cosa che ti chiedo. Per questo mese. Ehy, senti un po’, Dio… non è che, poi, Grant si rivela un pervertito sado- masochista, vero?
- Dimmi pure, Grant. – deglutisco a fatica. Sento un nodo alla gola ed ho la salivazione azzerata.
- Beh, è un po’ imbarazzante per me dirti una cosa del genere. Non mi era mai capitato prima .. -  dice lui, titubante.
- Ma no! Dimmi. Fai pure!! Non devi crearti problemi con me … di alcun tipo! – lo incalzo con eccessivo entusiasmo.
- Tu sei una ragazza così intraprendente. E’ una dote che ammiro molto in una donna. Non potevo lasciarti scappare! E poi … mi hai richiamato sul serio! –
- Certo! Non vedo perché non avreeee… –
- Devi sapere che questa è la prima volta in cui … - continua, ignorandomi.
- Si… -
- Noi dello studio Grant & Associati adottiamo una strategia al contrario. –
Non capisco. Noi dello studio?!?!  Ma di cosa sta parlando? Non vorrà mica che esca con altri suoi colleghi? Un’orgia di ufficio? Oh. Dio!??! Ma allora mi hai mandato sul serio un depravato!!
- Scusami, Grant. Ma non riesco a seguirti. – incrocio le dita delle mani dietro la schiena e stringo forte gli occhi, sperando che non gli esca da bocca quello che ho immaginato fino a due attimi fa. Forse dovrei alzarmi ed uscire dalla stanza.
- Sì, hai ragione. Intendevo che in genere sono i clienti a contattarci per citare la controparte ed iniziare una causa. Con te è la prima volta che accade il contrario. Sono stato io a trovare te! –
- Perdonami, ma continuo a non capire … -
- Lo studio aveva deciso di attuare una strategia proattiva facendo sì che noi stessi avvocati scendessimo in strada e cercassimo, da soli, delle nuove occasioni di lavoro, nuove opportunità per fare causa a qualcuno!! –
E’ tanta la foga con cui Grant pronuncia queste ultime parole, che non riesce a trattenere una risata isterica. Inizia a diventare rosso in viso e gli si gonfia una vena sulla fronte che non riesco a non fissare strabiliata. Per un attimo mi sembra di assistere al discorso di Charlie Chaplin ne Il dittatore.
Questo è proprio pazzo! Completamente.
- E quindi … se ho capito bene, io sarei la tua nuova opportunità di lavoro? – chiedo, a metà tra l’allibito ed il perplesso.
- Esatto, Gwen! Abbiamo un team formidabile di investigatori. Potremmo rintracciare senza problemi quelle due delinquenti e citare i loro genitori per danni! Basterà che tu mi fornisca qualche dato e una descrizione per l’identikit.. –
Confermo. E’ proprio fuori di senno. Ha qualche pulce che gli saltella nella testa e gli crea interferenza tra le sinapsi.
- Danni?!?!  Ma era un paio di slip!! E li ho anche recuperati!! –
- Slip favolosi tra l’altro. –
- Hai ragione! Slip favolosi … te lo concedo. Ma erano due ragazzine! Perché questo accanimento? Son cose che capitano.. una birichinata da adolescenti patite della moda! Ma come ti è saltato in mente? Prova a cercar qualche poverino che è stato truffato o, non so, un impiegato delle poste che non viene pagato da tre mesi!! Perché due ragazzine che rubano degli slip!?!? Che senso ha?!?! Ma nella testa cos’hai, Grant? –
Non so se ridere o piangere. Nel dubbio, inizio ad urlare.
- Ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh! Ma siamo pazzi?! – appunto. Sto urlando alla stessa maniera di
- Sei stata la prima persona che mi ha richiamato!  -  adesso urla anche lui. Poi, rendendosi conto lui stesso della situazione al di fuori di ogni logica, si ricompone e riduce la voce a un sussurro. - Gwen? Cos’hai? Perché urli? - mi chiede, non capendo che tutto quello che mi ha detto fino ad ora è più ridicolo di una candid camera.
Candid camera!? E se tutta questa situazione assurda fosse davvero una candid di quel programma del giovedì sera sulla rete ammiraglia?
Mi alzo in fretta ed inizio a curiosare su e giù per lo studio, smuovendogli le carte sulla scrivania e creando un enorme disordine che, immagino, non gradirà affatto. Nemmeno la sua segretaria dalla coda di cavallo più tirata del mondo. Ma riuscirà a chiudere gli occhi? Forse sì. Per questo non vede quanto è strano il tizio per cui lavora e la sua disgustosa vena iper-espansibile
Svuoto anche il cestino ed il trita documenti, lasciando tutte le cartacce sparse sul tappeto di ciniglia grigio e nero.
- Gwen! Calma! – mi afferra per le braccia e mi scuote, costringendomi a tornarmene seduta. – Cosa volevi fare? Avevi intenzione di distruggermi lo studio? Era solo una proposta .. in fondo tu mi hai richiamato! –
- Già .. ma per un aperitivo! Un appuntamento! E del sesso! –
- Sesso? Gwen? Ma cosa stai dicendo? –
Frugo nella borsa alla ricerca del suo bigliettino da visita e glielo schiaffo sulla scrivania. Poi, gli rileggo anzi ricanto il suo messaggio che mi aveva lasciato sul retro. – So call me maybe!! “Quindi, chiamami, forse” è la traduzione più che corretta. Ecco. Non mi sembrava un appuntamento di lavoro quello che intendevi darmi con questo biglietto, caro il mio Grant! – gli dico inacidita. Ma quanto stupida ritiene che io sia?!?!
Lui prende il biglietto da visita tra le mani e lo osserva sorpreso.
- Non era questo il biglietto che avrei dovuto darti. – Mi comunica, con tono piatto e secco.
- Oh, comincio a crederlo anche io. – concludo delusa.
Si apre la giacca e mi mostra i taschini al suo interno, gonfi di biglietti da visita.
- A destra ho i biglietti da visita di lavoro. – mi dice. Ne tira fuori uno ed è uguale al mio, solo che sul retro non c’è scritto niente. - A sinistra ho quelli per … beh, per ogni evenienza non lavorativa. Mettiamola così … - e come prima, caccia dal taschino sinistro diversi bigliettini da visita tutti uguali, con la stessa scritta sul retro cioè quella che avevamo letto io e Daniel ieri sera.
Quindi, non voleva vedermi né uscire con me. Aveva semplicemente sbagliato il bigliettino da darmi e voleva soltanto fissare un appuntamento per una causa assurda.
Bella storia, Gwen. Davvero, eh.
Complimenti, hai fatto un bell’acquisto.
Ma quanto sono sfigata? In questo preciso istante, vorrei mangiare un pezzo di quel fungo di Alice nel Paese delle Meraviglie, che le permette di rimpicciolirsi, e scappar via da questo studio passando inosservata.
Uffa. Doppi bigliettini da visita: per lavoro e per rimorchiare in giro. Ovviamente nessuno aveva intenzione di rimorchiare la sottoscritta. Molto male. Avrei potuto anche sorvolare se Grant mi avesse detto che era sua intenzione darmi l’altro biglietto. Perché no? Avrei rimediato una cena e.. chissà cosa. Già. Se non avessi saputo il retroscena di questa assurda storia dei doppi biglietti da visita, forse ci sarei anche stata con lui. E alla fine cosa ne avrei ricavato? Lui che il giorno dopo non mi richiama, anzi lo becco in metropolitana mentre dissemina i suoi dannati bigliettini ovunque. Quanto sono ridotta male?!? E tutto per colpa di Paul McDonaghy. Lui, sempre lui. E’ sempre colpa sua. Anche per la fame nel mondo e per l’effetto serra.
Non riesco a dir nemmeno una parola a Grant così resto qualche secondo a fissarlo con l’espressione di una che si aspetta, da un momento all’altro, che lui dica che si è trattato tutto di uno scherzo e che era imbarazzato per il dovermi confessare che sul serio voleva uscire con me.
- Gwen, mi dispiace. E’ stato tutto un malinteso. – esordisce lui, per rompere un silenzio fitto come nebbia.
- Certo. Capisco. –
Raccolgo la borsa che avevo poggiato sull’altra poltroncina e mi avvio verso l’uscita.
- Gwen ? –  com’è dolce il suo modo di pronunciare il mio nome, stavolta. Forse non tutto è perduto. Mi giro con gli occhi che mi brillano. La speranza è l’ultima a morire, Gwen! Credici!
- Se vuoi ti lascio l’altro bigliettino così se ci ripensi per le due teppiste, organizziamo tutto.. –
Sprazzi di luce per poi risprofondare nelle tenebre.
Non mi degno nemmeno di rispondergli.
Scappo via più in fretta che posso, stavolta ignorando il fastidioso rumore dei miei tacchi sul pavimento.
 

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Capitolo 8
*** 8 ***


Mi sveglio con un mal di testa allucinante e mi restano solo due giorni di ferie. Quando arrivo in cucina, trovo mia sorella ad aspettarmi, vestita di tutto punto con finti occhiali da vista dalla montatura molto spessa e nera. Quel tocco nerd che mia sorella, se non per il fatto che frequenti amici conosciuti esclusivamente su facebook e sia fiera della sua relativa popolarità sul Tubo - gergo dei giovani per indicare YouTube, mi dicono! - non ha mai avuto.
«Hey Gwen!» squilla lei.
«Mmmmmh Mandy. Mmmmh.. che ci fai qui?» biascico io, con la voce impastata per il sonno.
«Colazione!»
«Vedo… »
Afferro la scatola di cereali. E’ completamente vuota.
«A proposito, sorellina. Ho finito i cereali.» mi dice Mandy con aria innocente.
«Vedo…»
Di solito, anche quando si sveglia piuttosto presto, Daniel non apre bocca se non prima delle dieci del mattino. Insiste col dire che dovrebbe essere un reato dar da parlare a qualcuno prima di quell’ora e la gente dovrebbe soltanto sorridersi e abbracciarsi, solidale del fatto che il risveglio è il momento più traumatico della giornata.
Questa mattina, però, son state proprio le sue chiacchiere ad ultrasuoni che mi hanno svegliata: troppo preso a fare la conoscenza di mia sorella, probabilmente.
«Dov’è che vai vestita così? Sembri quasi una personcina seria..» scherzo. Ma mica poi tanto.
«Sarah mi ha fatto avere un colloquio di lavoro come segretaria di una piccolo studio medico. E so che c’è un dottorino lì davvero non male.»
Ora è tutto molto più chiaro. Cristallino, direi.
«I finti occhiali non saranno un attimino eccessivi? »
«Chi ti dice che siano finti? Potrei esser diventata miope negli ultimi giorni ed aver avuto urgenza di doverli indossare.»
«O potresti averli comprati all’H&M dimenticandoti di rimuovere l’etichetta..»
Mandy si toglie immediatamente gli occhiali e mi fa una linguaccia, notando il cartellino del prezzo penzolare da una stanghetta. Poi si chiude in bagno per gli ultimi ritocchi al trucco e parrucco.
Daniel mi riporta alla mente che non ho più chiesto a mia sorella come mai mi ritrovassi ad aver affittato un appartamento già abitato da due persone.
Son stata talmente bene con lui in questa casa da quando ci ho messo piede che avevo totalmente rimosso l’accaduto. Del resto, non ho neanche più motivo per essere arrabbiata con Mandy; il fato mi ha semplicemente  giocato un bel tiro e se iniziare un nuovo capitolo della mia vita voleva dire ripartire, non da sola, ma insieme a Daniel e Jake, potevo ritenermi fortunata. Stare con Daniel in questi giorni mi è servito sicuramente come ottimo palliativo ad un male interiore che, stando da sola, mi avrebbe senza dubbio messo KO.
Ma, tornando a Jake, son sicura di aver sentito dire a Daniel che domani sarebbe andato a prenderlo all’aeroporto quindi nel giro di qualche ora avrò il piacere o dispiacere di conoscere anche lui.
Incrociamo l’incrociabile! Dita delle mani e dei piedi, braccia e gambe. Meglio abbondare.
 
Accompagno mia sorella al colloquio, visto che son di strada e proprio quando Mandy scende dalla macchina, mi arriva una telefonata del mio capo, Clare Corey, che mi chiede di passar in ufficio.
Ah… quanto adoro il mio lavoro! Sono la grafica pubblicitaria di un piccolo settimanale femminile locale. Certo, non lavoro per Vogue o Elle, ma amo ciò che faccio e, soprattutto, amo le persone con cui lavoro. Tutte e cinque.
L’ho detto. E’ davvero un piiiiiiccolo settimanale l’ All the girls Magazine ma non ci facciamo mancare nulla: c’è Sammy, la fotografa; con lei collaboro molto spesso visto che rielaboro e modifico al pc le foto che mi passa per la pubblicazione. E’ un po’ mascolina e molto diretta e, per quel suo modo di portare i capelli, sempre legati di lato, e gli occhiali da sole sulla punta del naso, anche quando fuori è buio o diluvia, ha una lontana somiglianza con Lara Croft. Ovviamente una versione meno sexy e formosa di quella interpretata da Angelina Jolie.
Poi c’è Manisha, l’esotica e variopinta Manisha. Mentre i suoi genitori sono indiani, lei è nata qui, quindi è occidentale al cento per cento ma, ogni tanto, perlopiù quando è nervosa o arrabbiata, parla nella sua lingua di origine. Sono certa si trattino di insulti a Clare quando le boccia qualche articolo. Infatti, Manisha è talmente geniale e preparata che scrive gli articoli e se li revisiona da sola e Clare, generalmente, si preoccupa solo di stabilire se un articolo da lei proposto può essere interessante o meno per le nostre lettrici, ma non di verificarne il contenuto. Si fida incondizionatamente di ciò che scrive.
La cosa che più mi fa ridere di Manisha, ma che la rende anche unica più che rara, è che ha una chiacchiera molto più che fervente e parla di sé stessa usando sempre la terza persona. E’ davvero uno spettacolo vederla quando si rimprovera da sola per non essersi accorta di qualche refuso o qualche sgorbio nell’articolo. 
“Manisha è stata un disastro! Incredibile! Come si può scrivere una cosa del genere?”  e poi è lei stessa ad urlare a Clare che farebbe meglio a licenziare questa… Manisha un po’ disattenta.
L’altra giornalista della redazione è Poppy. Lei, a differenza di Manisha che scrive principalmente articoli un po’ più impegnativi, ad esempio sulle nuove tecnologie o sui provvedimenti politici a favore delle donne, si occupa della parte più glam e frivola, scrivendo di moda, make up, tendenze. Ultimamente, è dedita alla sponsorizzazione della rivista sui social network quindi passa ore ed ore su facebook o twitter o piattaforme del genere. Dice di soffrire di sindrome bipolare ma, per come la vedo io, ha solo attimi di stronzaggine acuta che corrispondono, quasi sempre, al quarto d’ora immediatamente seguente le telefonate del suo ragazzo, Curtis. Nessuna di noi ha mai avuto il piacere di conoscerlo perché ogni volta che Poppy gli chiede di passarla a prendere in ufficio, lui puntualmente non si fa vivo. È tristissimo veder la sua espressione disillusa ogni singola volta, così come sono tristi i suoi tentativi di giustificarlo sempre, come se fosse più importante per noi che per lei vederlo apparire sulla porta. Lei e Curtis si vedono raramente, ma in compenso si sentono spessissimo. Poppy è’ sempre appiccicata al cellulare al punto tale che deve essersi fuso, in un tutt’uno, con la sua mano. Immagino che le basti digitare sul palmo il numero di telefono che vuole contattare per poter effettuare la chiamata…  e se alza il naso all’insù, a mo’ di antenna, magari la linea prende pure meglio.
La quinta ed ultima collaboratrice – detto così sembra che stia presentando un quiz show televisivo, vero? - di All the girls Magazine se si include anche me, è Blanche. Assieme a Clare è fondatrice e proprietaria del giornale, ma non ha voglia di dirigerlo. Viene in ufficio quando le va o quando riesce a trovar un po’ di tempo libero, visto che frequenta una marea di corsi nel suo tempo libero, dal decoupage al corso per imparare il cinese, dalla fotografia in movimento allo zorbing. E questo lo voglio provare anche io!
Così Blanche si autodefinisce un po’ la tuttofare,  interviene ogni qualvolta ci sia bisogno di una mano e, per un motivo o per un altro, è sempre lei a chiudere l’ufficio tutte le sere. Ad esempio, è lei che si sta occupando della grafica del giornale ora che io sono in ferie. Certo, mi contatta se ha bisogno di consigli o di spiegazioni su alcune cose che non le hanno insegnato al corso di grafica che ha fatto l’anno scorso.
Tutte noi, tranne Blanche che è anche esageratamente e spudoratamente ricca di famiglia, lavoriamo per Clare che è il boss meno autoritario che possa mai esistere. Ogni tanto caccia fuori il suo pugno di ferro ma basta un niente per farglielo ammorbidire. Sembra quasi una mamma, con i suoi gonnelloni larghissimi e il suo stile anni cinquanta un po’ vintage e coloratissimo. E’ la donna più tenera e dolce del mondo, così dolce che credo al posto del sangue, nelle sue vene scorra sciroppo al lampone.
Per questo adoro lavorare in questo giornale. È come quelle riunioni di famiglia in cui le donne di casa, che si incontrano per la festa di compleanno della nonna che compie ottant’anni, si chiudono in cucina per non farsi ascoltare così da poter liberamente lamentarsi dei loro mariti, dei loro figli, di tutti gli uomini della loro vita e poter, soprattutto, ridere di loro. E tra una lamentela e un sorriso, ci scappa un articolo sulla nuova cura fai-da-te per combattere la cellulite.
 
Quando arrivo in ufficio, con mio grande sollievo, trovo l’intera redazione in fermento e, appoggiati sulla scrivania di Blanche, scorgo due vassoi di pasticcini e una bottiglia di champagne. Si festeggia qualcosa? Perfetto. Milletrecento calorie in arrivo dritte sulle natiche, ma non mi tirerò indietro. Che gusto c’è a celebrare un avvenimento senza imbottirsi di dolci e alcolici?
Manisha sfreccia come un aeroplanino impazzito tra la direzione e il suo pc mentre le altre son in un angolino a parlare fitto e la risatina acuta di Poppy rimbalza da una parete all’altra.
Clare mi fa cenno di entrare nel suo ufficio, accogliendomi con un sorriso che le parte da un orecchio e finisce all’altro. Oh mio Dio, cosa sarà mai successo? Mi viene da ridere senza motivo, contagiata da quest’atmosfera da ufficio di Barack Obama il giorno della vittoria alle elezioni presidenziali. Devo essermi persa qualcosa di incredibilmente importante in questi dieci giorni.
«Gwen! So che stai sistemando casa… e anche la tua vita, ma non potevo non dirti questa cosa!» esordisce il mio capo.
«Buongiorno Clare… dimmi! Cos’è questo subbuglio di là? Non ho mai visto le ragazze così scatenate. Beh .. tranne l’ultimo giorno di lavoro prima della chiusura estiva, si intende!»
Clare non risponde alla mia domanda e mi porge una busta color crema che viene dalla Hummingbird Production. Mai sentita.  La prendo senza esitazioni e la apro con la massima premura, evitando di romperla troppo.
«Leggi pure ad alta voce» mi invita Clare.
 
Spettabile redazione di “All the Girls Magazine”
Abbiamo effettuato delle rilevazioni statistiche a campione e.. BLAH BLAH BLAH …. La nostra società si occupa di .. BLAH BLAH BLAH. Saremmo onorati di BLAH BLAH BLAH … incontrare la vostra direzione qui nei nostri uffici per BLAH BLAH BLAH e per discutere sull’eventualità di accorpare le rubriche del vostro magazine a quelle del nostro, che è a tiratura nazionale. L’appuntamento è fissato il giorno BLAH BLAH BLAH ed in questo arco di tempo continueremo a monitorare l’andamento della vostra rivista, per BLAH BLAH BLAH  e formulare una proposta adatta alle esigenze di entrambi. Rimaniamo a disposizione per tutti i chiarimenti di cui avrete bisogno e BLAH BLAH BLAH. Attendiamo vostre BLAH BLAH BLAH e BLAH BLAH BLAH.
Cordiali saluti.
                                               Hummingbird Production
                                                 Direzione Affari Generali
                                                    Dr. Richard Mole
 
Oh. Mio. Dio. Sììììì. Non vorrei entusiasmarmi o illudermi troppo, ma sento che questo sia un giorno fondamentale per la mia vita.
Deve essere un gruppo piuttosto importante, anche se non ne ho mai sentito parlare. Fissare un incontro tra più di sei mesi vuol dire non aver un buco libero in agenda per un bel po’. E gente molto impegnata vuol dire affare molto serio. Grande. Dovrò sembrare più sicura, più determinata, incisiva e pronta alla meravigliosa carriera che mi aspetta dietro l’angolo se vorrò dare un’ottima impressione di me. Già mi vedo in giro con il mio tablet a prender ispirazione da qualsiasi forma o colore mi circondi per la prossima grafica editoriale. Dovrò aggiornarmi, proporre qualcosa di nuovo, di mai visto. Wow. Devo assolutamente riguardare Una bionda in carriera.
Sta andando tutto bene. Bye bye sfiga. A mai più.
Nuovo appartamento, nuovi amici e nuove prospettive di guadagno. Mi sento in pace con il mondo e pronta per spalancare le porte alle nuove opportunità che mi sta offrendo la vita.
Mi viene da ridere a pensare quanto fosse tutto grigio, anzi nero soltanto un mese fa.
Non ho alcun motivo di pensare che Clare mi lasci a casa, quindi non cerco minimamente di provar a nascondere la mia eccitazione per questa nuova avventura.
«Clare? Quando si parte?» e penso già a cosa infilare in valigia.

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Capitolo 9
*** 9 ***


Alle cinque e venti del tardo pomeriggio sarebbe dovuto arrivare l’aereo di Jake, quindi in teoria i ragazzi sono già sulla strada del ritorno. Daniel mi ha chiesto di accompagnarlo all’aeroporto ma preferisco lasciarli da soli a godersi il momento.
I due piccioncini non si vedono da settimane. Credo vogliano avere qualche minuto per loro prima che io faccia un’irruzione prepotente.
Non ho mai chiesto a Daniel come mai non lo avesse accompagnato al matrimonio visto che la famiglia di Jake, stando a quanto mi ha accennato, lo tratta come un membro del clan.
E comunque sono un po’ arrabbiata con Daniel. Sono sicura di averlo beccato un paio di volte a telefono a flirtare senza mezzi termini con qualcuno che non era il suo piccioncino. Non posso essermi assolutamente sbagliata, visto che a telefono sospirava languidamente “Oh, Kev … ti prego! Smettila!”.
Quando gli ho chiesto chi fosse questo Kev, mi ha sorriso e mi ha solo detto di non dire nulla a Jake. Come può chiedermi di appoggiare un tradimento?!?! Come? Come? Come?!?! Io … che ho subito la stessa sorte! Io … che ho fatto il woodoo su un pupazzo di Cupido appositamente acquistato per l’occasione! Io … che, se potessi, userei il “Metodo Bobbit” con tutti gli esseri umani di genere maschile ed etero dai venticinque ai quarantacinque anni, risolvendo il problema della sovrappopolazione mondiale!
 
«Sono a casa. Sono stato scaricato. No, non ne voglio parlare. E giù c’è il taxi che aspetta di essere pagato.»
Un tizio imbronciato e piuttosto alto, con una camicia - tra l’altro, molto ben riempita - a quadretti nera e rossa in stile sono-un-divo-ma-fingo-di-essere-un-boscaiolo-sexy,  entra dalla porta trascinandosi un trolley bello grosso e… fucsia e si defila in una delle camere da letto sbattendo la porta. Non credo di aver mai visto un muso più lungo del suo, potrebbe sfiorare terra.
Non mi ha nemmeno degnata di uno sguardo! Che roba..
E così questo è Jake.
Visto il momento, credo dovremmo rimandare le presentazioni a più tardi, quando sarà di umore migliore.
Ok. Chiamo Daniel. Lo conosco, sarà stravolto per il litigio e probabilmente anche brillo. Non voglio gli capiti nulla. Vado in camera mia e afferro il blackberry che avevo lasciato sul letto; ho dimenticato di aggiungere il suo numero in rubrica ma tanto già lo conosco a memoria. Nemmeno quello di Paul ero riuscita a memorizzare così in fretta.
Tre squilli a vuoto. Quattro… cinque… sei, segreteria telefonica. Riprovo. Tre… quattro squilli senza risposta. Riprovo ancora! Dannazione, Daniel! Dove sei?!? Perché non rispondi? 
Proprio nel momento in cui mi chiedo dove fosse finito, sento il cellulare squillare. E’ lui.
«Daniel, perché non rispondi? Dove sei?» urlo allarmata.
«Sto tornando a casa in taxi. Mi si è fermata l’auto in autostrada ed ho dovuto avvisare il soccorso stradale, che ovviamente ci ha messo mezzo secolo per arrivare! Così ho dovuto lasciar l’auto lì dov’era per andar a prendere Jake. Ma non l’ho trovato ed ovviamente lui ha il cellulare spento!»
«Credo che Jake sia qui…»
«E’ a casa?»
«Già, già. Credevo aveste litigato..»
«Perché?»
«E’ entrato dicendo di essere stato scaricato… ma non ne voleva parlare. Così io non gli ho chiesto niente… te lo giuro!! E lui adesso è chiuso in camera e io …» balbetto confusa. Dall’altro capo del telefono sento Daniel scoppiare a ridere ed emettere quei tipici gridolini suoi che, quando non capisco a cosa siano dovuti, odio con tutta me stessa dal profondo. Proprio come in questo momento! Poi mi chiede perché mai avessi la convinzione che lui e Jake fossero una coppia ma non mi lascia il tempo di rispondergli che mi dice di aprire il citofono.
E’ sotto casa.
Sento per la cassa delle scale dei passetti veloci salir gli scalini, così decido di aprire la porta prima che Daniel bussi il campanello. Non ricorda quasi mai di portar con sé le chiavi di casa; non ho controllato se fossero in camera sua ma metterei la mano sul fuoco che si trovano lì.
Come previsto, quando gli apro la porta, vedo che aveva già il dito poggiato sul campanello. E odio davvero il suo modo di bussare: prima tre trilli veloci, poi uno prolungato, infine una serie infinita di scampanellate a ritmo sincopato che ti fanno montare dentro un’ansia assurda, manco fosse inseguito da Nightmare.
Anche Daniel entra e mi ignora completamente, filando dritto fuori alla porta della camera di Jake ma senza accennar ad entrarci.
Ma cos’hanno contro la buona educazione in questa casa?!?!
Solo quando si sente Jake dargli il permesso di aprire la porta, allora lui sgattaiola dentro. Presumo che in passato abbiano avuto qualche divergenza in proposito, visto che solitamente Daniel ha la maniera di annunciarsi a voce alta ed aprire la porta senza bussare. E’ inutile chiedere “posso entrare?” se sei già in camera, no? Lui è The Queen. E ad una regina non si può vietare l’accesso. Una regina si annuncia solo con lo squillo di tromba.
Resto sola in salone per qualche minuto; non voglio costringere Jake alla mia presenza in un momento come questo. Ci sarà modo e momento di fare le presentazioni.
Oh Dio! Il taxi è ancora giù in strada!
Afferro il mio portafogli controllando di aver abbastanza denaro per poter coprire la spesa. Mi prendo qualche secondo e, ad occhio e croce, calcolo la distanza dall’aeroporto, sia in tempo che in chilometri. Mmmh… l’aereo di Jake è atterrato circa due ore e mezzo fa… ci sarà voluta una mezz’oretta per ritirare il bagaglio… dieci minuti di attesa per il taxi… adesso sono quasi le sette, la corsa sarà durata più o meno un’oretta, consideriamo anche un po’ di traffico...  dannazione, non credo mi bastino queste banconote! Proviamo lo stesso, dai!
Esco dal palazzo e mi ritrovo un sudamericano sulla cinquantina appoggiato alla portiera aperta del taxi, intento a strafogare un hot dog, gocciolante di qualche salsina piccante che mi arriva dritta e pungente al naso, forse acquistato da Bob dietro l’angolo. Ha un grosso pancione molliccio che si intravede dalla shirt troppo corta, sotto una camicia sbottonata a righine azzurre. Dallo sguardo, capisco che non gradisce dover attendere i propri clienti, così cerco di sfoderare il sorriso più cordiale che mi riesca per far perdonare a Jake la sua mini-fuga.
«Salve. Quanto le devo per la corsa del mio amico?»
Il taxista non mi risponde e mi indica il tassametro all’interno del veicolo. Ladro! Accidenti, che sfortuna. Non ce la faccio con i soldi. E non posso chiamare Jake e Daniel, adesso staranno discutendo o forse saranno troppo impegnati a far pace, spero!
Uffa. Uffa. Bisogna trovare un’idea! Dai, Gwen, pensa! Pensa! Pensa in fretta!
«Ascolti, non ho con me tutto il denaro. Che ne pensa se le offro qualcosa?» Mi è proprio venuta un’ottima idea. Dirò al Signor Roday che passerò più tardi a pagare. Sembra una persona affabile, non credo farà troppi problemi.
«Tengo ancora esto da finire!» il taxista mi scuote lentamente sotto il naso il suo hot dog gocciolante, che mi macchia la punta della Converse destra.
Che orrore. Maledetta la mia sfortuna. Quest’uomo mi fa seriamente schifo, pensa a doverci dormire insieme… bleah, credo di esser sul punto di vomitare.
«La prego. Troviamo una soluzione. Faccio qualsiasi cosa.» rifletto su quanto ho appena detto. «Ok, non proprio “qualsiasi” in senso letterale! Al limite può passare domani, in mattinata. O anche più tardi. Mi farò trovare qui con il resto dei soldi che le devo. Cosa ne pensa?»
«Non è affatto una buena idea, signorina! Chi mi assicura di trovarla aqui?»
« Beh, ci abito! Abbia un po’ di buona fede nel prossimo. Non gliel’hanno insegnato in chiesa? »
« NOSSSSENORA. Per lo que so, esta potrebbe ser una bugia! Magari è aqui a casa di qualche parente o amigo e domani manana si sarà volatilizzata. Desaparecida!»  mi accusa lui, parlando una strana lingua ibrida tutta sua.
«Lei insinua. Lei insinua e lo fa pure in spagnolo o quello che è! E va bene! Allora come vogliamo risolvere il problema? In fondo mi mancano pochi dollari, potrebbe chiudere un occhio… se solo volesse! Ha appena riaccompagnato a casa un soldato di guerra che non vedeva la sua famiglia da tre anni. Lei sta facendo un servizio alla Nazione, facendo ricongiungere un eroe ai suoi cari. Dovrebbe essere orgoglioso...» cerco di inventar qualcosa, ma il mio tono sembra poco credibile anche alle mie stesse orecchie.
«Balli por mi.» Il taxista è impazzito.
«Che? Un caffettino? Un tè! Oppure un aperitivo!»
«Baila!» passa immediatamente ad un tono fin troppo confidenziale. «Fammi divertire, vamos! Intrattienimi un poquito e salda il debito. Voglio vedere esto bel pacchetto regalo agitarsi! Mueve tu cuerpo!» si china in avanti e mi fissa insistentemente gli occhi… sì, “quegli occhi.”
 
Oddio. Questo taxista è proprio squallido. Cazzo.
Si gira e si sporge all’interno dell’auto, rivolgendomi quel grosso mappamondo che ha al posto del sedere; accende lo stereo ed alza un po’ il volume in modo che possa sentire la musica che passano in quel momento.  Riconosco le note iniziali di  Sexy Back di quel gran figo di Justin Timberlake, il che vuol dire che mi tocca cimentarmi in una qualche movenza che possa vagamente essere sensuale e sinuosa. Dunque, impossibile per me che ho il sex appeal di un’unghia incarnita.
Magari beccare una stazione che trasmetteva folk cristiano o musica da Chiesa … no, eh?!?
Ok. Do una rapida sbirciata in giro. Due anziane signore stanno uscendo dalla farmacia e procedono a passo lentissimo, lasciandosi dietro una serie di carte di caramelle alla menta artica, come la scia delle lumache. Di questo passo, ci vorrà un bel po’ per vederle svoltare dietro l’angolo. Al semaforo ci sono solo due auto ferme; aspetterò che scatti il verde così andranno via. Ok, lo faccio. Non mi vedrà nessuno e, dannazione, le vecchine saranno miopi, no!?!
Santa pazienza! Come ho fatto a cacciarmi in questa situazione?
Innanzitutto non so ballare.
Secondo. Perché mai dovrei ballare per questo Danny De Vito in versione ispanica? E terzo, perché il mio dannato bacino sta iniziando lentamente a dimenarsi come fosse dotato di vita propria!?!?
Volgo lo sguardo disperato a destra e sinistra, implorando silenziosamente Dio di assistermi in questo momento e di far passar tutto molto in fretta senza che nessuno se ne accorga. Dopo lo show delle mie mutandine volate in aria il giorno del trasloco, avrei voluto davvero piantarla con le esibizioni per strada ed, invece, mio malgrado, sono qui a ballare come Madonna nel suo ultimo videoclip.
OK. A ballare come me che imito male e goffamente Madonna. Ecco.
A dire il vero, sembra tutto abbastanza facile. Non ho bisogno di coreografie o anni di danza alle spalle, basta che muova un po’ il sedere e mi scombini i capelli, ammiccando un po’. Uff. Credo che il risultato non sia sexy come immaginavo: il taxista scoppia a ridere, ma batte le mani a ritmo di musica,  ed altri passanti si sono voltati a guardare e iniziano ad avvicinarsi.
Da dove sono sbucati fuori? Li avrà attirati la musica ad alto volume, maledizione! Qualcuno inizia a lanciar monetine a miei piedi. Fantastico, ci pagherò il taxi. Uno di loro chiede in giro se, per caso, fossi una squilibrata.
«E’ un flashmob!» mi affretto a rispondere.
«Da sola?» continua l’ospite indesiderato. La sua domanda ha un senso ma mi suona comunque fuori luogo.
«Sì! Ehm.. gli altri.. sì, beh … gli altri mi hanno dato buca. Ma la missione doveva essere portata a termine!»
Prima di lasciar altro margine tempo per formulare nuove e sensate domande, sento una voce dall’alto e poi un fascio di luce.
«Gwen … sali immediatamente!»
Non è Dio.
E’ Daniel che mi richiama all’ordine e mi acceca gli occhi con il minilaser rosso del suo portachiavi. Argh. Dietro di lui, scorgo Jake; perfino a questa distanza, noto che sta ridendo. Molto bene. Nemmeno mi conosce e già pensa che sia una mezza svitata.
Mai come questa volta sono stata felice di obbedire ad un ordine di un uomo.
«Saldato il debito, giusto?» domando furente e affannata al taxista, ancora intento a raccoglier le monetine a terra.
«Giusto! E muchas gracias por lo show!» mi risponde lui, ancora con la faccia sorniona. Poi si tuffa nell’abitacolo dell’auto per abbassare il volume dello stereo e mettere in moto.
« Seh.. prego. »
Completamente paonazza in volto per il grande imbarazzo, decido di terminare quanto avevo iniziato facendo un profondo inchino, come una vera star che lascia il suo pubblico dopo il bis alla chiusura di un concerto, e corro più in fretta che posso nel palazzo, sbattendo il cancelletto alle spalle e facendo vibrare la vetrata per lungo tempo.

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Capitolo 10
*** 10 ***


E’ una situazione davvero imbarazzante, ma eccitante, ed anche un po’ inquietante, tutto allo stesso tempo. Non è che me ne vado in giro per strada a dimenare il fondoschiena per il primo taxista che capiti a tiro. Credo, anzi sono fermamente convinta, che una scena simile non si ripeterà mai più in tutta la mia vita. D’altra parte, però, adesso ho un simpatico aneddoto da raccontare ai miei nipotini quando sarà il momento; loro penseranno di avere una nonna super tosta e un po’ sorda e io insegnerò loro, avanti a una buona tazza di cioccolato caldo con la coperta di lana sulle ginocchia e un cupcake poggiato sul tavolino – è proprio così che immagino la mia vecchiaia, come la pubblicità degli apparecchi acustici che passano in tv - che nella vita basta un po’ di ingegno e una buona dose di coraggio per affrontare tutte le situazioni.
Certo, un aneddoto su come avessi affrontato, con temerarietà, il pitone del mio vicino di casa scappato ed uscito dalla tazza del mio water sarebbe stato molto più d’esempio. Ma ognuno fa quel che può e … io questo posso!
E poi i pitoni a me fanno schifo.
«E così tu sei Gwen…»
«E tu Jake. Piacere!»
E’ lui che viene ad aprirmi la porta per permettermi di rientrare in casa. A distanza così ravvicinata è ancora più alto di quanto avessi scorto poco prima. Spalle larghe e un’ombra di pancetta tipica da amante delle serate sul divano e uno sguardo… molto, molto… molto… profondo. Oh... anche la barba di almeno tre giorni.
OK. Jake è sexy. E con questo?! Cavolo, Gwen … è gay!
Son scesa in strada con dei pantaloncini molto corti e una canotta, e d’istinto, mi viene una strana voglia di coprirmi. Con un burka.
Rimaniamo a fissarci… per quanto? Dieci, dodici secondi? I più lunghi della mia vita. Credo che Jake mi stia studiando, chissà per quale motivo. E adesso cosa farà? Mi annuserà il sedere come fanno i cani al parco!?
Noto che lancia un paio di sguardi in direzione di Daniel che, spaparanzato sul divano, osserva divertito la scena. Odioso.
E’ palese che il livello di tensione sta salendo in fretta o forse sono solo io a sentirmi agitata come non mai. Devo andare in camera mia. Devo fare qualcosa.
«Beeeeeeh … se dovete continuare a parlare, io vi lascerei soli.» A testa bassa cerco di filar dritto nella mia stanza ma sento qualcuno afferrarmi un braccio. E’ Jake.
«Se hai finito di ballare… che ne dici di far quattro chiacchiere? Non vogliamo conoscerci un po’, coinquilina?»
«C.. c.. ce.. certo. » balbetto, eccessivamente nervosa.
Non posso fare a meno di notare il suo tono un po’ troppo canzonatorio, ma non posso biasimarlo: la prima immagine che ha avuto di me non è stata delle migliori e Daniel non mi ha facilitato il compito di fargli una buona impressione.
Non vorrei dover far le valigie e trovarmi, di nuovo, a cercar casa solo perché non piaccio a questo stupido tipo dallo sguardo più sexy che abbia mai visto. Oddio. No, no, no, no.
«E comunque non badar troppo a quanto hai visto in strada. Dovevo solo pagarti il conto e non avevo il denaro con me. Non sono sempre così… così… così sfacciata e così… così… »
«Aperta a nuove esperienze?»
«Esattamente!»
Ride. Ma che cosa sto dicendo? Sento le guance avvampare e so di non essere un bello spettacolo quando divento dello stesso colore della punta dei fiammiferi.
Daniel decide di correre in mio aiuto ed effettua ufficialmente le presentazioni. E con questa siamo a quota tre nella stessa giornata.
«Jake , lei è Gwen. E’ dell’Acquario, è una grafica pubblicitaria con una sorella adorabile e totalmente glam. Sai che avete una cosa in comune voi due? Gwen ha appena scoperto che il ragazzo che avrebbe dovuto sposare l’anno prossimo le metteva le corna con Maria, la bambinaia italiana. Oh, non la loro bambinaia! Tranquillo, Gwen non ha figli!! Era la tata della figlia dei vicini! Ad ogni modo, lei è la nostra nuova coinquilina!»
Il tatto e la grazia di Daniel nel massacrare i sentimenti del prossimo…
«Gwen, lui è Jake . Ci conosciamo da almeno dieci anni, boh.. forse quindici.. anche lui è dell’Acquario. Oh, e come dicevo prima, anche lui è stato appena scaricato, da Alex. Ma Alex è solo..è solo.. bleeeahhh, non ne valeva la pena, glielo dicevo io. Bene, le presentazioni sono state fatte. E adesso vado a cercare su internet se i vostri segni zodiacali sono compatibili o meno. Mmmmmh, entrambi dell’Acquario. Non so se è un bene o un male. Non vedo l’ora di vedere come andranno a finire le cose»  e mentre lo dice, entra in camera sua e chiude la porta a chiave.
Cosa avrà voluto intendere? Domani glielo devo proprio chiedere, se mi verrà in mente.

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Capitolo 11
*** 11 ***


Jake ed io rimaniamo soli.
Nell’imbarazzo più totale, quantomeno da parte mia. Quasi come se le pareti della stanza si fossero improvvisamente avvicinate, sento che c’è troppa poca distanza tra me e lui così, quasi per difendermi, mi allontano di qualche passo.
«Allora, Jake…» inizio un po’ impacciata «bentornato! »
Di rimando, lui non risponde ma sorride mentre se ne resta fermo avanti al frigorifero aperto, alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Strano. Mi sembra così… diverso. Diverso da Daniel, intendo. Non diverso in quel senso. Ok. E’ anche “diverso” in quel senso!! Ma non sembra poi così… diverso! Anzi… sembra molto ma molto… ehm… maschio!
«Com’è andato il matrimonio di tua sorella? Daniel mi ha raccontato un po’…»
Fa spallucce e anche stavolta non risponde.
«Ti va una pizza?» mi chiede, forse per deviare il discorso.
«Ok… ehm, chiamo io per farcela portare?» decido di assecondarlo.
«No. Usciamo. »
Vado in camera e, in fretta, tolgo i pantaloncini per indossare i jeans più stretti che ho e che mi fanno un sedere da urlo. Perché proprio questi!? Boh.
Do un colpo di spazzola ai capelli e prendo il giubbino di jeans. Quando ritorno nel salone, lo trovo ad aspettarmi con le chiavi in mano vicino alla porta. Mi fa cenno di uscire, così, lo seguo cercando di contenere l’eccessivo entusiasmo che si è impossessato di me.
C’è una pizzeria a soli due isolati da qui ma Jake mi annuncia di aspettarlo sotto casa mentre lui sarebbe andato a recuperare l’auto nel parcheggio poco più distante. Avrà in mente un posto tutto suo dove andare.
Dopo qualche minuto, vedo una bmw grigio scura accostarsi e mai e poi mai avrei associato un’auto così elegante a questo sexy boscaiolo in camicia rossa e nera che ho conosciuto poco fa. Mi accerto che sia lui, buttando uno sguardo all’interno dell’abitacolo e lo vedo allungarsi verso lo sportello del posto accanto a quello di guida, per aprirmelo. Beh, non sarà sceso dalla macchina per farlo, ma comunque è stato galante, dai!  Due punti.
Salto su e ancora una volta mi accoglie con un sorriso.
Gay. Gay. Gay. Gay.
Gwen focalizza e tienilo bene in mente. Gay, gay, gay.
Per l’intera durata del tragitto rimaniamo in silenzio e saranno stati almeno dieci o quindici minuti a velocità moderata.
«Avresti potuto dirmi che non saremmo andati nella pizzeria vicino casa. Mi sarei messa qualcosa di decente addosso.» interrompo questo film muto.
«Vai benissimo così» mi dà un rapido sguardo e poi torna a fissare il manto stradale.
E di nuovo silenzio.
Non so se è perché son abituata a Daniel, che viaggia alla velocità di  tremila parole al minuto, ma ho come l’impressione che a Jake piaccia davvero poco conversare. Uffa. Che imbarazzo. Non so cosa fare o dire.
Cerco di rilassarmi e mi appoggio allo schienale, con la faccia rivolta verso il finestrino. Superiamo decine e decine di lampioni e negozi che non conosco; ho ancora scarsa familiarità con questo quartiere. Eppure lo preferisco a quello dove vivevo prima. Di punto in bianco mi ritrovo a pensare a Paul e vengo assalita da un opprimente senso di angoscia. Non sopporto quando la mia mente mi gioca scherzetti del genere, così ho imparato ad ignorare il flusso di pensieri che mi riporta al passato. Faccio finta di parlare a voce più alta, il tutto sempre nella mia testa: una sorta di gara al pensiero che urla più forte. Così mi isolo e penso ad altro e, se son a casa, accendo la radio o la televisione ad alto volume.
Tutto fuorché pensare a Paul.
Anche in questo momento ho bisogno di distrarmi. Così, incurante del ragazzo al mio fianco, accendo lo stereo e lo sintonizzo sulla frequenza che preferisco. Dopo neanche un secondo, con la coda dell’occhio, intravedo le dita di Jake sfiorare leggermente la manopola del volume per alzarlo. Silenziosamente, mi ha così dimostrato di aver accettato la mia involontaria invadenza senza però sapere che, per me, quella canzone ad alto volume era solo una via di fuga.
Procediamo per altri cinque minuti, rimanendo sempre in silenzio.
Mi ritrovo a sorridere all’idea che, se sbaglierò il gusto della pizza, Jake potrà usarlo come motivo per ritenere impossibile una nostra convivenza.
Chissà che tipo sarà? Uno da pizza semplice? No, forse ai quattro formaggi. Mi sembra uno dai gusti decisi e forti. Decisamente non è uno da “quattro stagioni”: credo abbia le idee piuttosto chiare.
 
«Alex è una ragazza» d’improvviso dice.
Alex? Ah, Alex! Ricollego subito il nome alle parole di Daniel a proposito del fatto che Jake fosse stato appena scaricato...
Sono colta alla sprovvista e non so proprio che dire, così mi escono di bocca le parole che non avrei dovuto dire.
«Menomale! Sono proprio contenta!»
Jake frena. Siamo arrivati a destinazione.
Scappo letteralmente via dall’auto a passi fin troppo svelti e mi dirigo verso l’entrata della pizzeria. Ma che….?!?! Andiamo, Gwen! Un’uscita meno infelice non la potevi fare, vero? “Menomale. Sono proprio contenta!”. Poverino, lui sarà distrutto e tu cosa fai? Gli dici che sei contenta che lui sia stato appena scaricato da una che gli ha messo le corna…
Beh. Ma non è gay, non è gay! Olè!
Sento i suoi passi sempre più vicini e, senza pensarci due volte, mi giro verso di lui e a testa bassa, senza volerlo volutamente guardare negli occhi,  gli dico, anzi quasi urlo come se le parole, così, gli potessero entrare meglio nella testa:
«Quello che intendevo è.. beh … cioè … non è che sia contenta che tu sia stato mollato. Né sono contenta per me che tu sia stato mollato, ovviamente.. è che.. è.. uhm…sono proprio contenta per tuuuuuutte le ragazze del mondo che… beh.. insomma.. cioè.. uhm.. che tu non sia gay. Ecco. » Mi sono impappinata e ho sparato solo cavolate. Ok. Di male in peggio. Oh merda. Questa convivenza non funzionerà mai. In mezza giornata, ho già fatto più figuracce di quante ne avrei potute accumulare in due mesi almeno. Sto mantenendo la mia media a livelli decisamente altissimi.
E lui, per darmi il colpo di grazia e farmi sprofondare ancora di più sottoterra, mi guarda con uno strano lampo negli occhi, un misto tra perplesso, sbalordito e incredulo che io possa essere davvero così idiota.
«E … beh .. mi dispiace che sia andata male tra te e lei.» concludo in maniera pietosa.
«C’est la vie.» risponde lui, e non mi sembra leggere alcuna tristezza nelle sue parole. Che stesse aspettando di liberarsi di Alex? Tipico di un uomo. Non ce la fanno a mollare le loro ragazze, sono dei vigliacchi… così fanno di tutto per farsi scaricare. Puah!
Finalmente entriamo nel locale, un delizioso ristorantino italiano con enormi botti di vino in bella mostra, dietro il bancone del bar sul lato destro della sala, e ghirlande di peperoncini rossi e verdi lungo tutto il perimetro. Molto caratteristico. Jake si dirige a passo spedito verso un tavolo un po’ appartato, addossato alla vetrata che si affaccia sulla strada. Mi spiega che non gli piacciono i tavoli al centro della sala e condivido appieno. Dal tono confidenziale del cameriere, capisco che Jake viene spesso a mangiare qui. Chissà con chi.
Non impieghiamo molto tempo a scegliere cosa mangiare, nessuno dei due dà uno sguardo al menù. Ordiniamo una pizza semplice – io - e una ai quattro formaggi - lui. Ci avrei scommesso che avrebbe preso quella!!
Tra un morso e un sorso di birra, mi dice che Daniel, mentre ero troppo presa dal mio balletto improvvisato per strada – ne approfitto per vergognarmi ancora una volta di me stessa -  gli ha raccontato di quanto fossi convinta che loro due fossero una coppia e di quanto fossi dispiaciuta all’idea che avessero litigato.
Beh… a mia difesa controbatto che un ragazzo etero sui trent’anni non viaggerebbe mai con un trolley fucsia! E’ stato legittimo avere qualche dubbio, no? Ride di gusto e mi specifica che la valigia gli serviva perché era rimasto fuori più del dovuto, così aveva comprato un po’ di cose che non entravano tutte nel suo mini bagaglio. La valigia era l’unica cosa che gli restava di Alex. Oh… e Alex, in realtà,  altro non era che il diminutivo di Alexandra, il nome della sua ragazza, o meglio… ex.
Per la gioia, sempre, di tuuuuuutte le ragazze del mondo.
In poche parole lei lo aveva mollato il giorno delle nozze di sua sorella Lea, ed era fuggita con quello che aveva presentato come suo cugino. Da quanto ho capito, o Alex gradiva i rapporti incestuosi o quel Bill evidentemente non era davvero suo cugino. Proprio come me, anche Jake  aveva beccato la sua ex in allegra, allegrissima compagnia di un altro. Un altro molto nudo e molto… incastrato, se così possiamo dire, a lei. Avete capito, no!?
Scopro che anche la sua storia con Alex, come quella tra me ed il mio ex negli ultimi tempi, stava attraversando una fase di più bassi che alti e lui ne era consapevole ma non aveva voluto il coraggio di mollare Alex perché, l’ultima volta che ci aveva provato, lei lo aveva minacciato di uccidersi. E ci aveva anche provato ingerendo un grosso quantitativo di… sciroppo per bambini.
Ridicola. La prossima volta avrebbe tentato di strozzarsi con gli Smarties? Oppure, spinta da un inspiegabile coraggio, avrebbe sfidato la buona sorte non inoltrando le catene di S. Antonio che ti arrivano sulla mail, quelle dove c’è scritto “Se non invii questo messaggio almeno a venti contatti, morirai tra cinque giorni” ?!?!  E se invece avesse provato un’uscita di scena teatrale, facendosi ammazzare dalla protagonista di The Ring, uscita dallo schermo del televisore?
Boh. Che tipo doveva essere questa Alex.
Però, Jake… anche tu, come hai fatto a innamorarti di questo caso umano?!?!

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